Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
gli accre<strong>di</strong>tavo, smontava e rimontava le ra<strong>di</strong>o e gli altri<br />
apparecchi spiegandomi il perché e il per come <strong>di</strong><br />
ogni passaggio, agitando le mani in fretta, sempre più<br />
in fretta, sporcando la tovaglia del tavolino, sempre<br />
più in fretta perché temeva <strong>di</strong> dover partire presto, e<br />
voleva lasciarmi nelle mani un mestiere, che sapeva mi<br />
sarebbe servito in quegli anni amarognoli che ci aspettavano.<br />
Io ero un ragazzino, mio padre non faceva nessun<br />
conto su <strong>di</strong> me e madre non ne avevo, ormai tornavo<br />
a <strong>Nuraiò</strong> una volta la settimana e gli altri giorni dormivo<br />
nel retrobottega della merceria <strong>di</strong> Arega Prammas,<br />
in via Baylle, che a lei faceva comodo qualcuno<br />
che controllasse il magazzino, soprattutto visto che non<br />
le costavo nulla, una stuoia e due coperte lerce.<br />
Ancora non ero ricco, ma già giravo la città per riparare<br />
ra<strong>di</strong>oline e frigoriferi, compravo vecchi aggeggi<br />
e li rimettevo in funzione, <strong>di</strong>ventavo bravo. Ogni<br />
tanto, la sera, venivano alla merceria brutti musi <strong>di</strong><br />
ragazzi col viso macchiato <strong>di</strong> cicatrici e fame, e mi<br />
offrivano cavi transistor e casse che avevano trovato<br />
in giro, tutte col marchio dell’esercito italiano o inglese.<br />
Io limavo, smontavo, rimontavo e vendevo <strong>di</strong><br />
nascosto, soprattutto a certi intrallazzoni che portavano<br />
gli apparecchi nei paesi, dove <strong>di</strong> certo nessuno<br />
li avrebbe mai controllati. I sol<strong>di</strong> che mi facevo li mettevo<br />
in una bottiglia vuota <strong>di</strong> spuma, che nascondevo<br />
tra le mutande sporche sotto il letto.<br />
Ogni tanto portavo qualcosa a mio padre, o facevo<br />
102<br />
un regalino a zia Arega: il resto lo lasciavo ammuffire<br />
nel nascon<strong>di</strong>glio, in attesa <strong>di</strong> poter prendere in<br />
affitto un magazzino e iniziare a lavorare sul serio,<br />
tra qualche anno.<br />
a colori<br />
giar<strong>di</strong>netto <strong>di</strong> casa in<strong>di</strong>pendente a due piani, ringhiera<br />
bianca <strong>di</strong> legno, cassetta per la posta come se ne<br />
vedono solo nei film statunitensi; in pie<strong>di</strong>, abbarbicata<br />
a uno scialletto nero, una donna che <strong>di</strong>resti felice, sorriso<br />
dolce, non bella ma florida, viso largo ma non senza<br />
fascino, occhi blu e denti banchi, capelli decisamente<br />
bion<strong>di</strong>, la testa inclinata sulla spalla sinistra. Foto <strong>di</strong><br />
tranquillità, in apparenza, in realtà foto d’ad<strong>di</strong>o, o almeno<br />
arrivederci, con la guerra sa solo il Cielo, gli occhi<br />
riflettono speranze e angosce, in effetti.<br />
Vieni con me Gigi, mi <strong>di</strong>sse Henry il pomeriggio<br />
grigio in cui dovette partire, ché non ce la faceva a<br />
lasciarmi lì coi miei pantaloni consumati e le scarpe<br />
che ridevano. A fare cosa? Gli ho chiesto io, e la domanda<br />
risuonò sotto i portici inutile e fasti<strong>di</strong>osa come<br />
il vento africano. A fare mio figlio, rispose, e per<br />
la prima volta mi sembrò <strong>di</strong> vedere dell’umido tra<br />
quegli occhi slavati, mia moglie è brava, aggiunse,<br />
ma non credo stesse più parlando con me.<br />
Era brutto, Henry, me ne accorsi solo in quel momento,<br />
coi tratti confusi e la pancia già larga, così<br />
più brutto dei grossi, alti negri che giravano per la<br />
103