Sistemi zootecnici e pastorali alpini Prof. Michele Corti ... - Ruralpini

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08.06.2013 Views

L’allevamento bovino alpino: indirizzo lattifero ma senza trascurare la carne Buona parte del territorio alpino e appenninico non si presta ad un allevamento “vacca-vitello” per via delle condizioni climatiche che impongono, per un lungo periodo dell’anno, il ricorso alle scorte di foraggi conservati e il ricovero del bestiame. In queste zone, in primo luogo in quelle alpine, l’allevamento bovino stanziale era ed è giustificato dall’importanza economica della produzione e della trasformazione invernale del latte. La produzione di carne in questo contesto non può non assumere un ruolo secondario anche se, in passato, la vendita e l’ingrasso dei vitelli rivestiva un significato economico relativamente più importante di oggi, come dimostrano le scelte selettive a suo tempo operate in Svizzera per la Braunvieh tendenti ancora in pieno ‘900 a valorizzare non solo l’attitudine lattifera ma anche quella per la produzione di carne e quella dinamica 31 . L’indirizzo seguito dal selezionatori svizzeri influenzò profondamente anche il patrimonio Bruno della Lombardia a seguito della sostituzione dei ceppi locali (a volte, come nel caso della Valsassina, dotati di spiccate caratteristiche lattifere e di discreta taglia, pari a 450 kg per la vacca) con quello svizzero. Tale sostituzione, frutto di una secolare politica di importazione dalla Svizzera interna (risalente al XVII secolo) venne accellerata nel XX secolo in seguito all’introduzione di regole dirigiste nel campo della monta bovina che determinarono la contrazione delle razze locali (specie nel vicino Trentino e nel Veneto) e nella convergenza del ceppo Bruno delle Alpi lombarde verso quello elvetico. Ne risultò una Bruna di taglia più elevata, morfologicamente più corretta (con meno difetti di appiombi, mammella, insellatura, divaricazione scapole ecc.), ma a volte solo più allineata ai principi di un formalismo inutilmente rigido rispetto ai caratteri esteriori (colorazione del mantello, forma e colorazione delle corna) e, molto probabilmente, dal carattere meno lattifero di alcuni ceppi autoctoni. L’affermazione della Bruna di ceppo svizzero con caratteristiche lattifere non particolarmente spiccate ha rappresentato la premessa per l’affermazione, a partire dagli anni ‘70 del ceppo americano. Tale “svolta” che in Italia ha determionato l’allineamento al tipo statunitense di B.S. se, da una parte, ha in qualche modo impedito una sostituzione ancora più estesa della Bruna con la Frisona 32 ha, d’altra parte, rappresentato un elemento di crisi dei sistemi zootecnici tradizionali di montagna (e di altri ambienti svantaggiati) dove un animale con attitudine lattifera non esasperata, di taglia contenuta e con una discreta attitudine alla produzione di carne possiede migliori capacità di adattamento a sistemi agricoli territoriali sostenibili. Le vacche a duplice attitudine grazie alle riserve corporee che non mobilitano con rapidità come quelle a spiccata attitudine lattifera non sono in grado di garantire elevati picchi produttivi, ma possono in parte compensare le punte produttive più basse con una migliore persistenza della lattazione e, sopratutto, non risentono come le vacche più “spinte” di quegli inevitabili fattori di variazione ambientale che si riscontrano nei sistemi dio allevamento estensivi, in particolare negli ambienti di montagna e, comunque, difficili. Minore suscettibilità ai fattori di stress significa minore incidenza di morbilità e quindi di cure sanitarie, acquisto di medicinali, tasso di riforma e di rimonta, in definitiva minori costi. Tenenedo conto del grande differenziale tra il valore del vitello delle razze a duplice attitudine e di quelle spiccatamente da latte (inclusa la Bruna/Brown) non meraviglia che gli allevatori, in assenza di indicazioni tecniche si orientino spontaneamente nella scelta dei tipi genetici allevati su soluzioni “fai da te”. Abbiamo già ricordato come in tali contesti risulti sempre meno sostenibile il conformarsi agli standard dell’allevamento in pianura dove l’obbiettivo di elevatissime produzioni di latte per capo, è raggiungiunto attraverso il soddisfacimento di elevati fabbisogni nutrizionali, forti investimenti 31 non si deve dimenticare che anche nelle nostre Alpi la vacca ha rappresentato sino all’avvento della meccanizzazione la principale risorsa per la trazione (trasporti, ma anche aratura) svolgendo il ruolo altrove proprio dei cavalli e dei buoi. 32 In Lombardia il “sorpasso” della Pezzata Nera sulla Bruna Alpina avvenne solo a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60. 132

strutturali nelle attrezzature e nei mezzi tecnici, elevati volumi di produzione di reflui zootecnici, condizioni che in montagna e nelle zone svantaggiate determinano costi più elevati e che si scontrano con crescenti vincoli di tipo ambientale e socio-economico. Nella ricerca di diversificazione produttiva e nell’affermazione di una precisa controtendenza rispetto ai processi di specializzazione produttiva del recente passato l’azienda di montagna (e delle altre zone svantaggiate) oltre a sperimentare la (re)introduzione di altre specie animali rispetto al monoallevamento bovino da latte tende a rivalutare le razze autoctone o, comunque con una propensione lattifera meno esasperata. Ecco allora il confortante recupero della Rendena e della Grigio Alpina e la diffusione della Pezzata Rossa che vede aumentare il numero di capi e di allevamenti mentre la Bruna perde terreno a spese della Frisona, ma anche della stessa Pezzata Rossa. Il panorama uniformemente “Bruno” della montagna lombarda dove i tipi autoctoni sono stati da tempo assorbiti dalla Bruna di ceppo svizzero a sua volta soppiantata da una razza a spiccata attitudine lattifera come la Brown Swiss, si è andato da qualche anno a questa parte variegandosi. Nei fondovalle dove è possibile una produzione foraggera intensiva (Valtellina, Valchiavenna, Valcamonica) la Brown è stata soppiantata dalla Holstein/Frisona mentre nella realtà più difficili hanno fatto capolino oltre alla Pezzata Rossa (un po’ dappertutto) anche la Rendena (nella realtà circoscritta, ma dinamica, delle vallate sopra Luino), ma, soprattutto vari tipi di incroci. Purtroppo quello cui si assiste, nella maggioparte dei casi è un meticciamento disordinato più che la ricerca di un preciso indirizzo d’allevamento; non solo è possibile trovare vacche nutrici (a volte anche munte) prodotte dall’incrocio PiemontesexBruna, Pezzata RossaxBruna, LimousinexBruna, Blu BelgaxBruna ma anche soggetti derivati dall’incrocio di vacche F1 con tori di varie razze. Nell’assenza di indirizzi coerenti e di scelte tecniche in grado di corrispondere alle esigenze dei sistemi territoriali alcuni allevatori sperimentano soluzioni empiriche di corto respiro. Ciò indica un sintomo di un disagio che gli enti “competenti” e i tecnici preferiscono ignorare -anche per non mettere in discussione la storica egemonia della Bruna- liquidandolo come “dilettantismo”. Tale disagio indica chiaramente, però, come, al di là di orientamenti tecnici e di interessi consolidati, l’esigenza di tipi genetici a duplice attitudine, con buona capacità di utilizzare i pascoli di montagna e con discreta produzione di carne oltre che di latte sia fortemente sentita in Lombarda come nelle altre regioni alpine. Il trascurare queste esigenze continuando a concentrare l’attenzione sulle stalle “professionali” “in selezione” rappresenta un atteggiamento da struzzi o un’espressione di interessi corporativi di agenzie tecnoburocratiche in contrasto con gli interessi della comunità professionale degli allevatori (non riconducibile ai soli allevamenti “di punta!), del territorio e del più ampio consorzio sociale.. In una prospettiva territoriale il contadino, l’allevatore part-time che alleva la manza F1 risultato delle più svariate combinazioni genetiche (Bruna italiana, Pezzata Rossa, Blu Belga, Piemontese, Limousine) assume un ruolo più importante che l’allevatore “in selezione” di bestiame Bruno ad elevata produzione. Non sempre la “pagella” zootecnica coincide con quella ecologica, anzi! E’, infatti molto più frequente che l’allevatore non “evoluto” sotto il profilo zootecnico sia il primo che più facilmente continua a sfruttare i prati-pascoli in forme più o meno estensive, non il secondo! Si tratta quindi di prendre in considerazione una esigenza reale legata alla valorizzazione della pluriattività e della multifunzionalità, della valorizzazione dei circuiti di commercializzazione legati alle produzioni locali e all’agriturismo, alla diffusione anche in montagna delle aziende che si conformano ai “metodi di produzione biologica”. In tali circuiti assumono valore non solo gli aspetti qualitativi per quanto riguarda il latte destinato alla trasformazione in prodotti caseari caratterizzati da una specifico connotato territoriale, ma anche quelli relativi alla produzione della carne che può assumere importanza non trascurabile nell’economia dell’azienda zootecnica di montagna. La produzione di carne ovina nei sistemi estensivi 133

L’allevamento bovino alpino: indirizzo lattifero ma senza trascurare la carne<br />

Buona parte del territorio alpino e appenninico non si presta ad un allevamento “vacca-vitello” per<br />

via delle condizioni climatiche che impongono, per un lungo periodo dell’anno, il ricorso alle scorte<br />

di foraggi conservati e il ricovero del bestiame. In queste zone, in primo luogo in quelle alpine,<br />

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della trasformazione invernale del latte. La produzione di carne in questo contesto non può non<br />

assumere un ruolo secondario anche se, in passato, la vendita e l’ingrasso dei vitelli rivestiva un<br />

significato economico relativamente più importante di oggi, come dimostrano le scelte selettive a<br />

suo tempo operate in Svizzera per la Braunvieh tendenti ancora in pieno ‘900 a valorizzare non solo<br />

l’attitudine lattifera ma anche quella per la produzione di carne e quella dinamica 31 . L’indirizzo<br />

seguito dal selezionatori svizzeri influenzò profondamente anche il patrimonio Bruno della<br />

Lombardia a seguito della sostituzione dei ceppi locali (a volte, come nel caso della Valsassina,<br />

dotati di spiccate caratteristiche lattifere e di discreta taglia, pari a 450 kg per la vacca) con quello<br />

svizzero. Tale sostituzione, frutto di una secolare politica di importazione dalla Svizzera interna<br />

(risalente al XVII secolo) venne accellerata nel XX secolo in seguito all’introduzione di regole<br />

dirigiste nel campo della monta bovina che determinarono la contrazione delle razze locali (specie<br />

nel vicino Trentino e nel Veneto) e nella convergenza del ceppo Bruno delle Alpi lombarde verso<br />

quello elvetico. Ne risultò una Bruna di taglia più elevata, morfologicamente più corretta (con meno<br />

difetti di appiombi, mammella, insellatura, divaricazione scapole ecc.), ma a volte solo più allineata<br />

ai principi di un formalismo inutilmente rigido rispetto ai caratteri esteriori (colorazione del<br />

mantello, forma e colorazione delle corna) e, molto probabilmente, dal carattere meno lattifero di<br />

alcuni ceppi autoctoni. L’affermazione della Bruna di ceppo svizzero con caratteristiche lattifere<br />

non particolarmente spiccate ha rappresentato la premessa per l’affermazione, a partire dagli anni<br />

‘70 del ceppo americano. Tale “svolta” che in Italia ha determionato l’allineamento al tipo<br />

statunitense di B.S. se, da una parte, ha in qualche modo impedito una sostituzione ancora più estesa<br />

della Bruna con la Frisona 32 ha, d’altra parte, rappresentato un elemento di crisi dei sistemi<br />

<strong>zootecnici</strong> tradizionali di montagna (e di altri ambienti svantaggiati) dove un animale con attitudine<br />

lattifera non esasperata, di taglia contenuta e con una discreta attitudine alla produzione di carne<br />

possiede migliori capacità di adattamento a sistemi agricoli territoriali sostenibili. Le vacche a<br />

duplice attitudine grazie alle riserve corporee che non mobilitano con rapidità come quelle a<br />

spiccata attitudine lattifera non sono in grado di garantire elevati picchi produttivi, ma possono in<br />

parte compensare le punte produttive più basse con una migliore persistenza della lattazione e,<br />

sopratutto, non risentono come le vacche più “spinte” di quegli inevitabili fattori di variazione<br />

ambientale che si riscontrano nei sistemi dio allevamento estensivi, in particolare negli ambienti di<br />

montagna e, comunque, difficili. Minore suscettibilità ai fattori di stress significa minore incidenza<br />

di morbilità e quindi di cure sanitarie, acquisto di medicinali, tasso di riforma e di rimonta, in<br />

definitiva minori costi. Tenenedo conto del grande differenziale tra il valore del vitello delle razze a<br />

duplice attitudine e di quelle spiccatamente da latte (inclusa la Bruna/Brown) non meraviglia che gli<br />

allevatori, in assenza di indicazioni tecniche si orientino spontaneamente nella scelta dei tipi<br />

genetici allevati su soluzioni “fai da te”.<br />

Abbiamo già ricordato come in tali contesti risulti sempre meno sostenibile il conformarsi agli<br />

standard dell’allevamento in pianura dove l’obbiettivo di elevatissime produzioni di latte per capo, è<br />

raggiungiunto attraverso il soddisfacimento di elevati fabbisogni nutrizionali, forti investimenti<br />

31 non si deve dimenticare che anche nelle nostre Alpi la vacca ha rappresentato sino all’avvento<br />

della meccanizzazione la principale risorsa per la trazione (trasporti, ma anche aratura) svolgendo il<br />

ruolo altrove proprio dei cavalli e dei buoi.<br />

32 In Lombardia il “sorpasso” della Pezzata Nera sulla Bruna Alpina avvenne solo a cavallo tra gli<br />

anni ‘50 e ’60.<br />

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