Documento allegato - Turin D@ms Review
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Roberto Alonge<br />
Visconti, dietro il paravento i pizzicotti alla sua Locandiera<br />
Ho sempre pensato che il meglio della regia italiana, in questo secondo<br />
dopoguerra, si è alimentata alle intuizioni e alle riflessione del meglio della ricerca<br />
scientifica. Gli spettacoli ruzantiani di De Bosio si spiegano con il lavoro di scavo di<br />
Ludovico Zorzi, e molti spettacoli goldoniani (ma anche pirandelliani) di Squarzina<br />
con le analisi sempre ficcanti di Mario Baratto. C’è però un momento in cui il<br />
processo si inverte, in cui è l’accademia che va a scuola dalla regia, ed è, appunto,<br />
con la memorabile messinscena della<br />
Locandiera di Luchino Visconti,<br />
anno del Signore 1952. Qui è il<br />
regista a salire in cattedra; è lui a<br />
rovesciare una tradizione critica<br />
bisecolare, abituata a leggere Goldoni<br />
in chiave Rococò, balletto musicale,<br />
svolazzi, trine, merletti, parrucche,<br />
cipria e nèi artificiali. Con un colpo<br />
d’ala audacissimo Visconti impone<br />
Goldoni come autore realista, come<br />
cantore della borghesia progressista, in marcia verso il Sol dell’Avvenir.<br />
La critica fu perfettamente consapevole della rivoluzione che stava accadendo<br />
sotto i suoi occhi. Il migliore dei critici, Silvio D’Amico, intitola la sua recensione:<br />
Nella Mirandolina alla Fenice troppo Visconti e poco Goldoni. D’Amico, si sa, è il<br />
grande padre della regia italiana, ma è un padre-padrone un po’ soffocante, che vuole<br />
imporre dei limiti severi e invalicabili al lavoro registico; che accetta, in definitiva,<br />
solo un particolare tipo di regista, il regista servo d’autore, l’illustratore dell’autore.<br />
Sfugge a D’Amico non solo l’idea di una regia creativa ma anche solo quella di una<br />
regia critica, che interpreti cioè il testo, tirandone fuori dimensioni nuove, inedite<br />
(ma che pure sono, in fondo, all’interno del testo). Visconti non interviene<br />
(sostanzialmente, se non per dati minimi e minimali) sul testo, ma basta un diverso<br />
impianto scenografico e costumistico, un diverso modo di atteggiarsi degli attori sulla<br />
scena per creare un Goldoni differente, inaspettato. Fissiamo alcune note di<br />
D’Amico:<br />
L’umanità di Goldoni è sempre, impercettibilmente, atteggiata, aggraziata, in un costante gioco di<br />
variopinta, per quanto pudica, fantasia. Sicché Goldoni, e specie quello in lingua italiana, non potrà<br />
mai essere rappresentato in chiave di mero realismo.<br />
[…]<br />
Nella Locandiera invece si rappresenta precisamente l’arte con cui la seduttrice abborda, intacca,<br />
scrolla, batte, vince, un colpetto dopo l’altro, la ruvida ritrosia del misogino.<br />
[…]<br />
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1
Non ci sono sembrate a proposito le sue scene alla Morandi, i costumi maschili, il cortile che egli ha<br />
sostituito ad alcuni interni. […] Dove Rina Morelli, squisitissima fra le nostre attrici, non sempre ci<br />
è apparsa la brillante incantatrice che fa girar la testa a tutti esattamente i maschi presenti in scena;<br />
[…] né nel violento isterismo ostentato dal bravo Mastroianni, ch’era il cavaliere di Ripafratta,<br />
abbiam ripercorso le fasi dell’intimo, graduale disciogliersi della sua brusca durezza 1 .<br />
Bene, direi che c’è già tutto, che tutto<br />
è chiaro in queste prime annotazioni.<br />
L’autore è l’autore, e non lo si<br />
discute: è quello che la critica ha<br />
fissato in un ritratto ormai definitivo.<br />
Goldoni è aggraziato, e dunque non<br />
può essere realista. Mirandolina è<br />
una sapiente (e aggraziata) seduttrice,<br />
che conquista, a poco a poco, il ruvido<br />
misogino. Stabiliti questi paletti, il<br />
giudizio sullo spettacolo ne discende<br />
automaticamente e in maniera<br />
coerente. Rina Morelli non va bene, perché non risulta la seduttrice che dovrebbe<br />
essere. E Marcello Mastroianni nemmeno, perché perdura nel proprio “violento<br />
isterismo” anziché sciogliersi come neve misogina al sole della seduzione.<br />
Ecco, forse ha davvero ragione Siro Ferrone, quando teorizza che per capire<br />
uno spettacolo, è meglio non averlo visto 2 . Potrebbero bastare queste righe di<br />
D’Amico (senza scomodarne troppe altre), con l’integrazione di qualche fotografia<br />
di scena, per farci capire perfettamente – anche se non l’abbiamo visto – che cosa fu<br />
lo spettacolo. E, prima di tutto, che cosa non fu. Non fu la storia di una seduzione. E<br />
come avrebbe potuto essere, se il ventottenne Mastroianni era quello che è sempre<br />
stato, il bellissimo Marcello, tanto più bello perché aveva allora ventotto anni, e Rina<br />
Morelli ne aveva quarantaquattro, ed entrava in scena con il grembiule e una cesta<br />
sotto il braccio? Per quale forma di improbabile operaismo il nobile cavalier di<br />
Ripafratta avrebbe dovuto innamorarsi di questo figurino di indefessa lavoratrice? E’<br />
ben vero che Mirandolina dice di non essere una dèa del sesso (“Io non sono una<br />
ragazza. Ho qualche annetto; non son bella”), ma anche il Cavaliere è un incallito<br />
scapolone, che a lungo amici e<br />
famigliari hanno tentato di accasare:<br />
dunque anche lui avrà i suoi annetti. Un<br />
regista illustratore (che sarebbe piaciuto<br />
a Silvio D’Amico), accanto alla<br />
quarantaquattrenne Rina Morelli,<br />
avrebbe potuto scegliere, come<br />
Cavaliere, il quarantaseienne Paolo<br />
Stoppa (anziché sacrificarlo nel ruolo<br />
marginale del Marchese di Forlipopoli).<br />
Sarebbe stato tutto più semplice e più<br />
credibile. Perché diavolo non ci ha pensato, Luchino Visconti?<br />
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2
Forse, per il banalissimo motivo, che a quella storia di seduzione non ci<br />
credeva né punto né poco. Un Cavaliere ventottenne e bellissimo (come il Marcello<br />
sia pure non ancora nazionale) era un modo infallibile per rendere quella storia del<br />
tutto in-credibile. Ma ritorneremo più avanti, su questo tormentone della seduzione.<br />
Fermiamoci alle altre asserzioni<br />
capitali di D’Amico. Non gli<br />
piace l’impianto scenografico,<br />
soprattutto l’ambientazione in<br />
esterni, nel cortile della locanda,<br />
che Visconti usa ripetutamente: in<br />
tutto il primo atto (al posto dei<br />
vari interni previsti dal testo: sale<br />
di locanda e camera del<br />
Cavaliere), ma anche<br />
parzialmente nel secondo atto<br />
(dalla scena decima in avanti,<br />
sicché persino la celebre scena del<br />
finto svenimento di Mirandolina risulta realizzata en plein air!). Cosa c’è di male in<br />
una ambientazione all’aperto? Un’idea un po’ strana, certo innovativa, ma, in teoria,<br />
niente di eversivo. E invece è chiaro che questa è la prima zampata del leone, il<br />
primo colpo inferto agli spazi claustrofobici di trine merletti e minuetti settecenteschi.<br />
Aria e luce penetrano improvvisamente (e prepotentemente) nella drammaturgia<br />
goldoniana, le cui vicende da private si fanno pubbliche, rinviano alla città reale che<br />
si intravede sullo sfondo, leggermente in alto, oltre il muro del cortile. E quello<br />
spazio di cortile è disadorno e quasi squallido, come si addice alla fabbrica<br />
dell’accumulazione capitalistica.<br />
Pulizia ma parsimoniosa<br />
essenzialità; candide tovaglie<br />
bianche sui tavoli disseminati nello<br />
spazio del cortile, ma umilissime<br />
sedie di legno. Il bianco delle<br />
tovaglie che rinvia al bianco del<br />
grembiule che Mirandolina indossa<br />
sopra un abito scollato ma anch’esso<br />
semplice. E peggio ancora nel terzo<br />
atto. Qui non c’è più un esterno,<br />
bensì un interno, ma è un interno<br />
ancora più minaccioso. Assai divertente (sebbene visibilmente esagerata) la<br />
descrizione di un recensore: “una specie di capannone in cemento armato, tutto<br />
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3
grigio, tetro, con enormi finestre dalle quali un elicottero avrebbe potuto penetrare<br />
agevolmente” 3 . Sulla destra dello spettatore c’è un grande armadio con un’anta<br />
aperta, che lascia vedere quattro pile di candidissime lenzuola ben stirate; due corde<br />
che tagliano orizzontalmente la stanza e che reggono, ad asciugare, biancheria di<br />
vario genere (ma ancora in prevalenza di colore bianco); una enorme cesta, in<br />
posizione centrale, da cui fuoriescono altri capi di biancheria destinati a essere stirati;<br />
e un tavolo da stiro, anch’esso tutto quanto di bianco vestito. Siamo nella stireria, ma<br />
una stireria collocata sulla parte alta dell’edificio, una sorta di altana, sicché dalle tre<br />
finestrone si vedono – sì, di nuovo - i profili delle case della città, ma questa volta in<br />
basso, rispetto al punto di vista di chi si muove nella stireria. Appunto, la città che è<br />
continuamente visibile, in alto o in basso, oltre la cinta del muro di fondo del cortile o<br />
attraverso gli spazi delle grandi finestre dell’altana-stireria. La vicenda privata di<br />
Mirandolina e di tre lestofanti<br />
aristocratici, sì, ma in un rapporto<br />
dialettico, coerente, con il sociale,<br />
con la comunità, con la storia.<br />
Suvvia, Luchino Visconti è<br />
propriamente un intellettuale<br />
organico, che vota comunista.<br />
Un’altra orgia di bianco provvede a<br />
rimandare il solito messaggio:<br />
pulizia, ordine, efficienza<br />
gestionale. La locandiera è, non a<br />
caso, una locandiera, e non una<br />
damina cocotte, une allumeuse che civetta tutto il giorno, mettendo in fregola gli<br />
ometti perdigiorno di nobile lignaggio. Nel primo e atto con la cesta sotto braccio, e<br />
nel terzo atto con il ferro da stiro in mano. Nel primo e nel secondo atto in grembiule<br />
bianco, fissato al petto con qualche spilla da balia; nel terzo atto un diverso<br />
grembiule (però sempre bianco), con due larghe bretelle, a dare a Mirandolina un’aria<br />
più severa, da istitutrice. L’impoetico (e anti-erotico) grembiule è la sua divisa, è il<br />
segno distintivo della professione: padrona di locanda, ma lavoratrice in prima<br />
persona, per dare l’esempio ai suoi salariati.<br />
Certo, il finale di commedia è altamente significativo. Ce lo ha conservato il<br />
ricordo di Gerardo Guerrieri, che fu collaboratore assiduo di Visconti. I tre<br />
bellimbusti hanno abbandonato la locanda; restano in scena, soli, Mirandolina e il suo<br />
servitore Fabrizio, appena accettato come sposo:<br />
Mirandolina dice: “Cambiando stato, voglio cambiar costume”. Fabrizio, il cameriere, che seduto<br />
sulla tavola sta fumando si volta e le manda un bacio. (E’ il bacio di colui che crede di essere il<br />
futuro sposo, il padrone). Per tutta risposta Mirandolina va all’armadio, gli prende un grembiule<br />
pulito e glielo getta. Fabrizio capisce l’antifona. Raccoglie il grembiule, scende dalla tavola e<br />
infilatosi il grembiule va davanti a Mirandolina che intanto ha detto: “E lor signori ancora<br />
perofittino di quanto hanno veduto”. Ora Mirandolina allaccia il grembiule di Fabrizio, dicendo: “in<br />
vantaggio e sicurezza del loro cuore”, poi va alla tavola, prende il ferro da stiro e lo dà a Fabrizio,<br />
che si avvia svogliato. Mirandolina lo vede svogliato, lo sollecita. Fabrizio esce. Mirandolina va<br />
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4
verso la biancheria appesa sul fondo, stacca dalla corda una tovaglia, la porta alla tavola, la stende<br />
per stirarla e dice: “E quando mai si trovassero in occasioni di dubitare di dover cedere, di dover<br />
cadere (qui una spruzzata alla tovaglia) pensino alle malizie imparate (un’altra spruzzata) e si<br />
ricordino della Locandiera (un’altra spruzzata, poi sipario) 4 .<br />
C’è un matrimonio, ma senza amore, di puro interesse. La padrona ha sposato il<br />
proprio cameriere, ma per poterlo sfruttare meglio, per farlo lavorare più<br />
intensamente. Il particolare che Fabrizio fumi la pipa è interessante se sappiamo (da<br />
altre fotografie dello spettacolo) che era il Cavaliere a fumare, spesso, la pipa.<br />
Fabrizio si illude di aver guadagnato la sua partita con il Cavaliere, e dunque ne<br />
scimmiotta le movenze. Da notare che fuma la pipa dando le spalle al pubblico, ma,<br />
anche a Mirandolina. Davvero crede di aver vinto, di avere ormai il peggio della vita<br />
alle sue spalle. Implacabile, Mirandolina lo punisce, lo fa uscire di scena, per andare<br />
a scaldare il ferro da stiro. Lei stira e lui va avanti e indietro, a preparare l’attrezzo<br />
per la bisogna. Mirandolina apre la commedia con i gesti quotidiani dell’impegno,<br />
della fatica, e la chiude in modo analogo. Il senso della vita è il lavoro, la solitudine<br />
nel lavoro. Non c’è letizia, non c’è gioia. C’è solo l’etica austera del capitalismo, in<br />
attesa che arrivi quella del socialismo…<br />
Dunque la messinscena scandalizzò la critica benpensante (che era quasi la<br />
totalità): per l’aspro realismo che azzerava la melodia aggraziata del Settecento; per<br />
le pause nella recitazione che impedivano la leggerezza del musicale botta e risposta;<br />
ma anche per le allusioni a crudi approcci sessuali che annientano le aspettative di<br />
una garbata scena di seduzione. Chissà perché, ma i professori di liceo (e anche<br />
quelli di Università), oltre ai critici teatrali, straparlano da sempre circa il fatto che il<br />
Marchese e il Conte sono innamorati<br />
di Mirandolina. In realtà, basta<br />
ascoltarlo, il Conte, per capire che è<br />
solo questione di sesso: “Io son sempre<br />
stato solito trattar donne: ne conosco li<br />
difetti ed il loro debole. Pure con<br />
costei, non ostante il mio lungo<br />
corteggio e le tante spese per essa fatte,<br />
non ho potuto toccarle un dito”.<br />
Meglio ancora, se i nostri professori<br />
leggessero la prima edizione (dove<br />
Goldoni si autocensura di meno), la<br />
Paperini: “Non averei speso più di mille scudi in pochi mesi, se non conoscessi, che<br />
sono bene impiegati. […] Io ero avvezzo con pochi paoli, a battere a tante porte. Ho<br />
speso tanto con costei, e non ho potuto toccarle un dito”. Insomma, tutto sta a pagare,<br />
per portarsi a letto la locandiera. L’abilità di Mirandolina (la sua astuzia bottegaia,<br />
cinica e bara) è che intasca regali, illude di dare sesso in cambio, ma non lo dà mai.<br />
Il cavaliere è fuori da questa logica (del Conte e del Marchese), ma non perché<br />
sia misogino, come si ripete stoltamente. Frequenta in realtà donnette di facili<br />
costumi, e la sua riflessione a proposito di Mirandolina è chiarissima: “Per un poco di<br />
divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un’altra”. Il punto di attrito,<br />
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5
fra Cavaliere e Mirandolina, è una questione professionale: la biancheria che gli ha<br />
dato non è di suo gradimento. Faute professionnelle. Mirandolina fa pagare una<br />
locanda a quattro stelle, ma il servizio è da due stelle. Il sistema su cui marcia la ditta<br />
di Mirandolina è precisamente questo scarto, compensato dalla speranza che la<br />
padrona darà sesso, a compenso del servizio un po’ scadente 5 . L’intrapresa seduttiva<br />
di Mirandolina, a ben vedere, parte proprio e soltanto da questo punto, da questo<br />
infortunio professionale: si tratta di sedurre il Cavaliere con una profusione di oggetti,<br />
di cose, di cibi (lenzuola dei Reims, tovaglie di Fiandra, salsette, intingoletti), ma<br />
anche di parole servili, di dichiarazione di sottomissione (“Dove posso servirla, mi<br />
comandi con autorità”, “Mi tenga in qualità di serva”, “Sono una serva di chi<br />
favorisce venire alla mia locanda” ecc.), e di gesti simbolici di assoggettamento<br />
(preferisce bere il vino nel bicchiere già usato dal Cavaliere, anziché in uno pulito).<br />
Ciò che conquista il Cavaliere è l’illusione di questo potere, è il fatto di essere al<br />
centro della attenzione assoluta di Mirandolina. L’eccitazione erotica principia a<br />
partire dal piacere del cibo, ma perché questo cibo – come viene ripetuto infinite<br />
volte – è fatto con le mani di Mirandolina. E c’è un punto di connessione preciso, fra<br />
piacere gastronomico presente e aspettazione di piacere sessuale futuro, che sta nella<br />
battuta chiaramente allusiva della locandiera: “Eh, io, signore, ho de’ secreti<br />
particolari. Queste mani sanno far delle belle cose!”. Naturalmente D’Amico (ma<br />
anche Roberto De Monticelli) si chiudevano gli occhi per non vedere, ma, per<br />
fortuna nostra, già nell’anno del Signore 1952 qualcuno riusciva a vedere, Carlo<br />
Emilio Gadda, che recensendo lo spettacolo non le manda a dire: “Guardate: le<br />
battute salaci sono del testo, forse non udite o forse denicotinizzate in edizioni<br />
precedenti. […] La malizia e i doppisensi del linguaggio ‘sessuologico’, specie nel<br />
primo atto, sono del Goldoni: e non li ha inventati Luchino” 6 .<br />
Di qui la particolare articolazione della celebre (e tanto attesa) sequenza della<br />
seduzione. Occupa le prime nove scene del secondo atto. Fanno una certa<br />
impressione perché dopo un lungo primo atto, tutto giocato in esterni, nel cortile<br />
aprico, ci ritroviamo improvvisamente in uno spazio chiuso, nella camera del<br />
Cavaliere che il regista disegna con alcuni tratti efficaci e suggestivi: il profilo di<br />
un’alcova a baldacchino, con le tende<br />
semichiuse a mostrare il candore delle<br />
lenzuola; un inquietante paravento rosso.<br />
Dice bene Federica Mazzocchi (nella sua<br />
utile monografia dedicata<br />
all’allestimento), a proposito di questa<br />
successione esterno/interno, che, in<br />
questo modo, si rimanda “lo schiudersi<br />
dello spazio dell’intimità di Ripafratta al<br />
momento di maggiore intensità erotica<br />
tra il Cavaliere e Mirandolina” 7 . Ma io<br />
aggiungerei una notazione ulteriore, che la scena in interno, nella calda intimità della<br />
camera del Cavaliere, è perfettamente impaginata fra un primo atto tutto in esterno e<br />
una parte finale del secondo atto (dalla scena decima alla fine) di nuovo in esterno.<br />
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6
L’uso del paravento è accorto, ed è pienamente valorizzato dalla presenza del<br />
Marchese, che si getta a divorare l’intigoletto preparato dalla locandiera, senza troppo<br />
preoccuparsi di ciò che il Cavaliere e Mirandolina fanno alle sue spalle, sottraendosi<br />
appunto anche allo sguardo del pubblico in sala. “Abbiamo sentito la Mirandolina<br />
viscontea squittire come una pizzicatissima servotta dietro un paravento di grande<br />
classe, evidentemente assediata dal Cavaliere”, osserva un altro recensore 8 . I<br />
resoconti che abbiamo – di relatori più illustri – delineano un percorso un po’ più<br />
cavalleresco, ma senza contraddire l’esito finale di acre carnalità: Mirandolina porge<br />
al Cavaliere una rosa recisa (forse quella che ha fra i capelli, se non fosse che in tutte<br />
le fotografie che ho visto di questa sequenza la Morelli ha sempre in capo siffatta<br />
benedetta rosellina…); poi i due si appartano dietro il paravento e Mirandolina,<br />
quando ne esce, ha la rosa nel seno; prima di andarsene, però, Mirandolina estrae la<br />
rosa dal seno e la depone sul tavolo, lasciandola per il Cavaliere, per buon ricordo 9 .<br />
Insomma, c’è qualche palpeggiamento, qualche manifestazione di libidine non<br />
troppo violenta. Per D’Amico e De Monticelli vistose forzature registiche 10 . Per<br />
Gadda (e per chi sa leggere) semplici movimenti suggeriti dal testo goldoniano e<br />
dalla psicologia del Cavaliere che abbiamo fin qui descritto. Ciò che lo rilassa (e poi<br />
lo eccita) è il fatto che Mirandolina si sia prostrata ai suoi piedi, si sia resa disponibile<br />
a servirlo con totale dedizione. Il gusto lievemente sadico tipico dell’aristocratico fa<br />
scattare il desiderio erotico del Cavaliere al culmine della catena biancheria di lusso/<br />
cibo/vino/parole/gesti che abbiamo già esaminato. Non occorre che Mirandolina sia<br />
particolarmente graziosa o addirittura appariscente. E dunque non c’è bisogno di<br />
pensare che lo spettacolo<br />
viscontiano “sposta le doti<br />
della protagonista dal piano<br />
della carnalità e della<br />
provocazione sessuale a quello<br />
dell’intelligenza, dello spirito e<br />
della provocazione mentale” 11 .<br />
Ciò che esalta la psicologia del<br />
nobile spocchioso è –<br />
unicamente, semplicemente - il<br />
comando sull’individuo<br />
socialmente sottomesso, è il<br />
potere sulla persona.<br />
Mirandolina, per astuzia sagace, sta al gioco e gli consente qualche libertà di<br />
palpeggiamento, al riparo discreto del paravento, ma non intende andare a letto con il<br />
Cavaliere. Ed è questo (e questo soltanto) che fa impazzire il Cavaliere, che lo rende<br />
furioso. Non il processo di innamoramento, come si dice infelicemente, ma la mera<br />
pulsione sessuale, la pura foia, ciò che egli chiama i cento diavoli che lo tormentano<br />
(“Ah malandrina! Se n’è fuggita. Se n’è fuggita, e mi ha lasciato cento diavoli che mi<br />
tormentano”). Di qui anche un laido doppio senso che non possiamo fare a meno di<br />
segnalare (a conferma che ha ragione Gadda, e hanno torto D’Amico e De<br />
Monticelli), sempre indirizzato a Mirandolina, fuggita dopo il brindisi tentatore:<br />
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7
“Diavolo, diavolo, me la farai tu vedere?” Ciò che nevrotizza il Cavaliere, che lo<br />
infiamma e lo frustra, è precisamente il tipo di donna che, le sue grazie, non le offre<br />
ma le fa solo vedere (o anche solo intravedere, se la battuta del Cavaliere va presa<br />
alla lettera…).<br />
Una volta accertato tutto questo, si riesce a comprendere ciò che appariva<br />
incomprensibile alla critica, la recitazione dura, veemente, quasi decisamente violenta<br />
del Cavaliere. Abbiamo citato D’Amico in incipit, “violento isterismo”. E similmente<br />
a De Monticelli l’attore risultava “troppo aggressivo, agitato, in qualche punto<br />
persino violento” 12 . E’ proprio così. A suo tempo ho cercato di chiarire – nel mio<br />
saggio cui ho già fatto riferimento - che il Cavaliere è sull’orlo dello stupro, e<br />
Mirandolina lo sa bene, se nel terzo atto si chiude a chiave dentro la “camera con tre<br />
porte” (sostituita da Visconti con l’altana/stireria), e se il Cavaliere batte e tempesta<br />
di pugni la porta, “vuole sforzar quella porta” (dice Fabrizio), in attesa di sforzare la<br />
stessa locandiera). Il confronto fra l’edizione originaria del testo e l’edizione<br />
definitiva, opportunamente censurata, conferma la bontà della mia lettura. Luchino<br />
Visconti non avrà sicuramente consultato l’edizione Paperini, ma ha splendidamente<br />
intuito, come fanno sempre i teatranti di genio.<br />
Sono partito dal paradosso di Siro Ferrone: per capire un allestimento, meglio<br />
non averlo visto. Perché i materiali che si sono accumulati nel tempo, intorno a quella<br />
rappresentazione, offrono la possibilità di un montaggio più sapiente. Certo, ma<br />
quando i materiali sono molteplici, occorre saper trascegliere, intelligere, cioè legere<br />
inter, riuscire a trovare il filo rosso che guida al cuore del Labirinto. Insomma,<br />
d’accordo sul fatto che, lo spettacolo, meglio non averlo visto, ma, paradosso per<br />
paradosso, meglio essere intelligenti…<br />
1. Silvio D’Amico, Nella Mirandolina alla Fenice troppo Visconti e poco<br />
Goldoni, in “Il Tempo”, 4 ottobre 1952, ora in Silvio D’Amico, Cronache<br />
1914/1955, antologia a cura di Alessandro D’Amico e Lina Vito, Novecento,<br />
Palermo 2005, quinto volume, tomo II, 1949-1952, pp. 534-536.<br />
2. Cfr. Siro Ferrone, “La Locandiera” di Goldoni secondo Visconti, in AA.VV,<br />
Carlo Goldoni 1793-1993, a cura di Carmelo Alberti e Gilberto Pizzamiglio,<br />
Regione del Veneto, Venezia 1995, pp. 357-367.<br />
3. Citato in Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino<br />
Visconti, Edizioni ETS, Pisa 2003, p. 84.<br />
4. Gerardo Guerrieri, Visconti e Gassman a confronto, in Lo spettatore critico,<br />
Valerio Levi, Roma 1987, p. 56.<br />
5. Rimando alla mia lettura della commedia: Roberto Alonge, Il sistema di<br />
Mirandolina, in Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese,<br />
Garzanti, Milano 2004, pp. 55-93.<br />
6. Carlo Emilio Gadda, La vivandiera e la locandiera, in Un radiodramma per<br />
modo di dire e scritti sullo spettacolo, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 71.<br />
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8
7. Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit., p.<br />
143.<br />
8. Citato Ivi, p. 93.<br />
9. Si vedano le testimonianze di Gerardo Guerrieri, Visconti e Gassman a<br />
confronto, cit., p. 55; Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni<br />
di trionfi e sconfitte, Pacini, Pisa 2005, p. 324; nonché la ricostruzione<br />
complessiva (fondata sulla analisi dei copioni) di Federica Mazzocchi, “La<br />
Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit., pp. 158-161.<br />
10. D’Amico parla di “qualche trovatina scenica licenziosetta” (Silvio D’Amico,<br />
“La Locandiera”, all’Eliseo, in “Il Tempo”, 8 novembre 1952, ora in<br />
Cronache 1914/1955, cit., 554). Per De Monticelli “quel pericoloso scivolare<br />
sul piano dell’attrazione fisica, in Goldoni, non c’è” (Roberto De Monticelli,<br />
“La Locandiera” nella regia di Visconti, in “La Patria”, 28 marzo 1953, ora in<br />
Le mille notti del critico, a cura di Guido De Monticelli, Roberta Arcelloni,<br />
Lyde Galli Martinelli, Bulzoni, Roma 1996, vol. I, p. 24).<br />
11. Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit.,<br />
p. 135.<br />
12. Roberto De Monticelli, “La Locandiera” nella regia di Visconti, cit., p. 24.<br />
www.turindamsreview.unito.it<br />
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