Madonna in Gloria, S. Crescentino e veduta del Monastero di S ...

Pittore urbinate - sec. XVII
“Madonna in Gloria, S. Crescentino e veduta del Monastero di S. Chiara”
Urbino, Monastero di Santa Chiara

ISTITUTO SUPERIORE PER LE INDUSTRIE ARTISTICHE
URBINO
SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI ARTISTICI
ED ETNOANTROPOLOGICI DELLE MARCHE - URBINO
IL MONASTERO
DI BATTISTA
Ritrovamenti
dall’ex Monastero di Santa Chiara a Urbino
A cura di
Agnese Vastano
2010

L’idea di realizzare una mostra - di concerto con l’insostituibile regia della
Dott.ssa Agnese Vastano della Soprintendenza urbinate - di una esigua parte
delle ceramiche e di altri preziosissimi reperti, rappresenta un doveroso omaggio
a tutti coloro che hanno lavorato con tenacia e passione a cominciare dagli
operai ed il loro stimato responsabile sig. Roberto Galvani, per conseguire tale
obiettivo.
Obiettivo che era difficile realizzare se il dott. Michele Felici, allora responsabile
dell’Ufficio Tecnico del Comune di Urbino, non avesse avuto pronto un
progetto di restauro del Monastero.
Nello stesso tempo, efficace e di qualità è il lavoro degli architetti Mara Mandolini
e Gianluca Gostoli.
Di grande spessore culturale è la consulenza artistica ed architettonica dello
Studio Paolo Rocchi di Roma.
Intendo ringraziare gli studenti, i professori, il direttore della scuola prof. Roberto
Pieraccini ed il direttore amm.vo dott. Giuseppe Cuccaro e tutti i dipendenti
dell’ISIA per la pazienza e la grande collaborazione offerta per
rendere più bella, più accogliente e funzionale la scuola.
Ringrazio, altresì, gli studiosi che con le loro ricerche hanno reso possibile la
pubblicazione di questo volume.
I cittadini ed i turisti potranno ammirare reperti che erano negli ambienti più nascosti
del Convento di Santa Chiara; averli ritrovati ed esposti era nostra dovere
farlo.
Colgo l’occasione, infine, per dare atto al Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica di avere esaudito la nostra richiesta avanzata al Ministro Mussi
e, poi, al Ministro Gelmini di concederci finanziamenti per il restauro del Convento
ove, precedentemente, vi erano stati interventi dell’Amministrazione Provinciale
e Comunale.
Parimenti un caloroso riconoscimento va al Direttore Generale del settore
A.F.A.M. dott. Bruno Civello ed al Dirigente dello stesso settore dott. Gianfranco
Minisola per la grande collaborazione.
Dall’ex Convento di Santa Chiara
Novembre 2010
Giorgio Londei
Presidente ISIA

Il profilo della città d’Urbino, per chi vi giunge da est, si fregia di un edificio di
forme quattrocentesche aperte come in un abbraccio sul declivio circostante:
è la mole possente del Convento di Santa Chiara.
Costruita nella seconda metà del Quattrocento per volere dei Duchi che, volendo
una fabbrica religiosa a contraltare del grande Palazzo, l’affidarono al
genio prolifico di Francesco di Giorgio Martini, l’architetto senese al servizio
della corte già dal settimo decennio di quel gran secolo.
Oggi, dopo alterne vicende, il complesso ospita una delle scuole di punta della
città dove s’insegna l’Arte, l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, per cui
si può affermare che i nobili intenti per cui era nato, non sono traditi.
Una scuola di eccellenza in un luogo di eccellenza, in cui per un certo tempo
ha ‘soggiornato’ la celebre “Città Ideale”, uno dei quadri simbolo del Rinascimento
urbinate conservato nella Galleria Nazionale delle Marche, che speriamo
poter vedere presto qui ad Urbino a confronto con le altre “Città ideali”
sparse nel mondo.
Ci siamo così affiancati a questa feconda stagione, in cui l’ISIA restaura e
recupera il suo “luogo”. Abbiamo seguito l’intervento, gli scavi e i ritrovamenti,
ed oggi celebriamo insieme i risultati: un gruppo notevole di ceramiche
dal Quattrocento al Seicento, una splendida scultura frammentaria in
terracotta, altri reperti in vetro ed avorio, un piccolo tesoro e insieme tanti
nuovi tasselli che aggiungono documenti alla storia di Santa Chiara e alla
storia della città.
Saranno certamente necessarie altre ricerche, per arrivare alla definizione
piena di questo convento ideale, alle quali stiamo lavorando. Intanto grazie a
Giorgio Londei, a tutti gli uomini e le donne dell’Isia, grazie ad Agnese Vastano
ed ai ricercatori che, in questo catalogo, ci consegnano i primi risultati del loro
lavoro.
Vittoria Garibaldi
Soprintendente per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici delle Marche

SOMMARIO
11 Il monastero di Santa Chiara. Brevi cenni
Agnese Vastano
15 Santa Chiara: tempi e segni ritrovati
M. Benedetta Fazi
Bruno Vittorini
21 Elisabetta Malatesti Varano e Camilla Battista da
Varano nel monastero clariano di Urbino
Silvano Bracci
31 Due sculture per Santa Chiara
Alessandro Marchi
45 Ceramiche restaurate dall’Ex Convento di Santa
Chiara. Relazione di restauro
Andrea Pierleoni
47 Nuove testimonianze ceramiche ad Urbino
dal Palazzo Ducale e dal Monastero di Santa Chiara
Claudio Paolinelli
65 CATALOGO

Il Monastero di Santa Chiara. Brevi cenni
Agnese Vastano
“Vi spese la sua dote. Imperocchè la sua grandezza e bellezza è tale, che se
fosse finito conforme il principio, non cederebbe punto a niuno altro dè più
belli d’Italia”, così recita il Baldi 1 riferito ad Elisabetta Feltria, figlia di Federico,
quando parla del Monastero di Santa Chiara. Monastero eretto per desiderio
del padre, ove essa stessa trovò rifugio alla morte del marito Roberto Malatesta
, desiderando nella realizzazione della fabbrica conventuale imitare la
munificenza di Federico espressa nel Palazzo Ducale di Urbino al cui confronto
l’ex monastero per eleganza e purezza architettonica può considerarsi,
in città, il monumento più significativo dopo la dimora ducale.
Voluto e legato alla famiglia Montefeltro, il complesso di Santa Chiara oltre ad
ospitare fra le sue mura le nobili donne legate da vincoli parenterali con il
Duca, la figlia Elisabetta appunto e la prima moglie Gentile Brancaleoni, ne
divenne, poi, per i membri della dinastia Montefeltro – Della Rovere, affiancandosi
alla chiesa di san Bernardino, il mausoleo, quando, in particolare, il
Duca Francesco Maria I, elesse per sé e la propria genia, la chiesa di santa
Chiara come luogo di sepoltura, riaccendendo l’attenzione dei duchi nei confronti
di quell’edificio rimasto mutilo di alcune sue parti, secondo il progetto
iniziale, anche a causa dei drammatici eventi che investiranno la città di Urbino
negli anni a cavallo fra i secoli XV e XVI.
Il complesso monumentale, di chiara impronta martiniana, reca i segni tangibili
dell’ingegno dell’architetto senese rimandandoci alle analoghe soluzioni
adottate per il palazzo di Federico, dai caratteri puramente architettonici, sino
alle soluzioni di calcolata funzionalità, dagli aspetti più semplici, per le cucine,
per le lavanderie…, ma che nel loro perfetto geometrismo, ci ricordano le macchine
di Francesco di Giorgio Martini.
La genialità dell’invenzione architettonica si coniuga qui con la peculiarità dell’esigenza
monastica, la sensibilità grafica più volte sottolineata nel Palazzo
Ducale trova nella fabbrica di Santa Chiara la sua esaltazione in ogni parte
del monumento, considerato non a caso, come narra sempre il Baldi “tra i
maggiori vanti della città”.
Vanto che si perse quando nell’Ottocento il monastero tra svariate vicissitudini
divenne di proprietà comunale, con l’allontanamento delle Clarisse per
ospitare prima l’Istituto di Educazione Femminile e per essere poi definitivamente
offeso e deturpato con l’ingresso dell’ospedale, tanto da perdere l’identità
del monumento tanto voluto e desiderato dal duca Federico.
1 B. Baldi, Memorie concernenti la città d’Urbino, a cura di Mons. Francesco Bianchini, Roma 1724.
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Urbino - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, frammento in avorio.

Ma come l’Araba Fenice risorge dalle sue ceneri anche l’ex convento di Santa
Chiara, grazie alla sua nuova destinazione, quale sede dell’Istituto Superiore
per le Industrie Artistiche e grazie alla sensibilità e coraggio dei suoi presidenti
Walter Fontana prima e Giorgio Londei oggi, attraverso un cammino
conservativo e di recupero, è uscito dall’oblio al quale sembrava destinato, superando
anche insanabili ferite e restituendo ora, come nel passato immediato,
(ricordo qui l’impegno della collega Maria Giannatiempo), l’impronta del
carattere eccezionale dell’antica fabbrica.
I reperti recuperati, come per una lunga catena, anello dopo anello, saldandosi
l’un l’altro, hanno dato vita ad un tragitto ricco di mille scoperte, mille testimonianze,
alcune credute perse per sempre che tornano a parlare della storia
di un edificio, della sua vera identità di forme e di linee, della purezza dei
suoi volumi, coniugandosi con un linguaggio parallelo e dando un volto alla
vita di chi aveva scelto il silenzio e l’isolamento claustrale.
Tra le mura del convento, tuttavia, non risuonava solo l’eco di preghiere e
canti, ma anche il vivace lavorio di attività manuali e i manufatti repertati sono
i testimoni del legame che univa la comunità monastica alla raffinata corte ducale
ed al suo colto classicismo.
Urbino - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, frammento di corallo.
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Urbino - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, frammenti vitrei.
Ringrazio con affetto, tutte le persone, professionisti e non, con le quali ho iniziato
questo cammino e con le quali spero di continuare nel recupero, nella ricerca
e nella condivisione di emozioni e speranze.

Santa Chiara: tempi e segni ritrovati
M. Benedetta Fazi
Bruno Vittorini
Nel 1997 si era da poco concluso il primo lotto dei lavori di recupero delle tele
collocate nella cupola della Chiesa di S. Chiara: i grandi spicchi erano stati riposizionati
in loco in attesa di nuovi fondi per il completamento del restauro 1 ,
i dubbi sulla loro paternità sulle modalità della collocazione urbinate erano
stati almeno in parte chiariti 2 . Al contrario la struttura architettonica originale
dell’ambiente rimaneva ancora celata: le profonde modificazioni intervenute in
diversi momenti avevano trasformato nonchè occultato o cancellato la peculiare
tipologia costruttiva delle chiese clarensi. Questa fase di sospensione
dei lavori divenne il momento ideale per indagare: in un primo momento una
Camerino in prossimità dell’ingresso, arcosolio con resti di decorazione pittorica prima e dopo il restauro
esplorazione mirata con l’introduzione di una videocamera attraverso un’apertura
praticata dall’alto ci permise di visionare l’interno del camerino prossimo
all’entrata. Eliminato il controsoffitto la sorpresa, un primo tassello utile per il
recupero della struttura originaria: un arcosolio con resti di decorazione pittorica
raffiguranti una lesena scanalata, la metà di un’architrave con iscrizione
FRANCISCUS VIR… e una parte della parete della chiesa quattrocentesca
1 Per le vicende del restauro cfr. B. Fazi, B.Vittorini Nuove tecniche di foderatura. Le tele vaticane di Pietro da Cortona
ad Urbino, Nardini Editori, Firenze, 1995
2 Per le vicende artistiche cfr. M. Giannatiempo, Ciro Ferri in “Pietro da Cortona 1597-1669”, catalogo della
mostra a cura di Anna Lo Bianco, Roma, Electa,1997; dello stesso autore Il Ciclo pittorico della cupola della
ex chiesa di santa Chiara in “Papa Albani e le Arti a Urbino e a Roma 1700-1721”, catalogo della mostra,
Venezia, 2001.
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con l’intonaco originale visibile per tutta la sua altezza. La decorazione era
stata mutilata in occasione dell’allestimento del tempietto circolare e del conseguente
arretramento dell’ingresso. La riduzione delle pareti, accorciate rispetto
alle dimensioni originarie che erano allineate alle costruzioni adiacenti
(come si evince dall’osservazione dei tagli sulle murature esterne), era stata
eseguita quindi con tutta probabilità in occasione di una delle trasformazioni
subite dal monumento. Grazie a questi ritrovamenti ci fu possibile giungere alla
determinazione delle dimensioni originarie
della “chiesa degli ominj” (14,13 m di lunghezza
X 9,44 m di larghezza).
L’esplorazione mirata con l’introduzione di
una videocamera dall’alto ci permise successivamente
di rinvenire e recuperare cinque
casse lignee contenenti i resti mortali dei
Della Rovere nel secondo camerino che dal
1872, anno dell’ultima traslazione, era serrato
e protetto da una lapide commemorativa. Il
piccolo ambiente aveva celato per oltre un
secolo anche un prezioso tabernacolo in pietra
policroma, un’apertura nella quale erano
visibili i fori di collocazione di una grata e
parti di due pareti perimetrali intonacate della
chiesa quattrocentesca (con deboli tracce di
decorazione pittorica) E ancora: saggi mirati
condotti sulla parete rivelarono a sinistra
della grata l’esistenza di una nicchia al cui in-
Pianta della chiesa
di Francesco di Giorgio Martini
terno reperimmo una intelaiatura lignea. A
terra fu individuata la presenza di una pietra
con il lato lavorato rivolto verso lo scalone
che si rivelò una base di appoggio a forma di calvario: tra i beni in possesso
del convento era un Crocifisso doloroso collocato su di una croce lignea che
si innestava perfettamente sul calvario lapideo. Questi importanti ritrovamenti
ci sostennero nella prosecuzione delle indagini. Il nostro cammino a ritroso
nelle vicende della chiesa proseguiva con l’indagine a terra sulle fondamenta
e, confortati dalle fonti bibliografiche 3 , con il sondaggio ed il sollevamento del
centro della pavimentazione, il rinvenimento della camera di sepoltura ipogea
con frammenti di casse lignee e alle pareti iscrizioni tra cui una data 1630 ed
una croce. L’accesso a questa camera avveniva attraverso una piccola scala
nascosta da una lapide terragna posta all’ingresso della chiesa.
Ma era giunto il tempo di riprendere l’impegnativo intervento di pulitura e reintegrazione
pittorica delle tele in cupola e le ricerche vennero interrotte per un
lungo periodo.
3 Cfr. E. Calzini, Urbino e i suoi monumenti, Rocca San Casciano, 1897

Sepoltura ipogea al centro della chiesa, (particolare)
Nel 2009 l’attenzione e la cura del Presidente ISIA Giorgio Londei alla valorizzazione
del monumento con la vigile e qualificata direzione di Agnese Vastano,
direttore della Soprintendenza urbinate portano alla prosecuzione dei lavori e
delle indagini tese a chiarire ulteriormente l’assetto originario dell’edificio. I
due camerini sono i primi ambienti interessati dall’ intervento di restauro: nel
camerino in prossimità dell’ingresso gli intonaci originali vengono sottoposti
ad operazione di pulitura e consolidamento con riduzione dell’interferenza visiva
ad acquarello in presenza di lacune o abrasioni per tutta l’altezza. Il dipinto
murale dopo un ristabilimento dell’adesione tra supporto ed intonaco viene interessato
dalle consuete operazioni di pulitura, stuccatura e reintegrazione
con campitura tratteggiata ad acquarello delle lacune. Nel secondo camerino
il prezioso tabernacolo in pietra è sottoposto ad un attento recupero della policromia
e della doratura originali mentre le tavolette lignee che ricoprivano
l’interno, rinvenute accatastate insieme al tessuto di rivestimento, vengono
sottoposte a disinfestazione, consolidamento, nuovamente foderate con la
tela a sua volta ripristinata e ricollocate sulle pareti del tabernacolo.
Anche qui gli intonaci originali vengono sottoposti alle medesime operazioni
di recupero lungo tutta la loro altezza e, proprio in occasione di questo intervento,
l’allestimento di un idoneo ponteggio ci permette per la prima volta la
misurazione dell’ altezza delle due pareti originali (nord ovest): in quella del tabernacolo
l’intonaco arriva ad un’altezza di 7,72 m mentre sulla parete di comunicazione
tra la “la chiesa degli ominj” e la “chiesa de le donne” l’intonaco
si presenta centinato ad un’altezza di 8,36 m suggerendo l’ipotesi di una pos-
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Scavo nella zona antistante lo scalone, resti di tomba a pozzetto
sibile copertura con volta a botte. Ulteriori saggi ci permettono poi di completare
l’individuazione della terza parete perimetrale (sud ovest) della chiesa
quattrocentesca riscoperta ancora una volta al di sopra di un controsoffitto
nella zona oggi occupata dagli uffici. Anche su questa parete rimangono
tracce di intonaci originali e si nota la presenza di due grossi cardini, segno
dell’esistenza di una apertura. Iniziamo anche l’esplorazione della parete di
comunicazione tra la “chiesa degli ominj” e la “chiesa de le donne” dal lato
dello scalone e saggi mirati ci conducono subito alla riapertura della piccola
grata di comunicazione con il camerino del tabernacolo e successivamente
alla individuazione del perimetro della nicchia che già era stata scoperta nel
1997 indagando gli intonaci nello stesso camerino.
Ed ora il capitolo più recente: nel 2010 l’intero edificio è oggetto di un complesso
intervento di recupero, il momento è propizio per continuare le indagini.
Nel mese di agosto una campagna di scavi nella zona antistante lo scalone
porta al recupero di reperti ossei, numerosi frammenti ceramici di valore e all’individuazione
di due livelli di pavimentazione corrispondenti a due diversi

momenti costruttivi, quello inferiore risulta precedente alla sistemazione di
Francesco di Giorgio. Parte di questa pavimentazione, quasi interamente rimossa,
è ancora visibile e funge da fondo di due pozzetti per le sepolture ritrovati
sotto la nicchia sinistra e verticalmente a lato di quella destra.
Le scoperte e i lavori proseguono: è smurata la nicchia sinistra in cui viene recuperata
l’intelaiatura lignea, tavolette usate con tutta probabilità per isolare
la parete, i resti di una stuoia intrecciata con le medesime funzioni e fram-
Nicchia sinistra, intelaiatura lignea e resti di stuoia intrecciata,
particolare prima del restauro
Prospetto della parete di collegamento tra la
“chiesa degli ominj” e la “chiesa delle donne”
menti di un tessuto dipinto. L’arco centrale viene riaperto e la nicchia destra,
mutilata nel passato dall’apertura di una porta, viene ripristinata nella forma
originale ed è ora in restauro.
La parete di fondo della nicchia presenta alla sommità un gancio di notevoli
dimensioni adatto a sostenere un oggetto pesante, ma perché dipingere con
azzurrite un fondo per poi ricoprirlo interamente, magari con un dipinto su tavola?
Un’ipotesi plausibile potrebbe prevedere che la parete fungesse inizialmente
da sfondo per il Crocifisso doloroso che solo in un secondo momento,
in occasione di qualche particolare evento o necessità, viene spostato nella
nicchia di sinistra, forse realizzata anch’essa in un secondo momento. In quel
frangente la decorazione in azzurrite viene scalpellata lungo il perimetro probabilmente
per facilitare l’inserimento di un dipinto su tavola 4 .
La chiesa è il centro del monastero: molti sono i segni ritrovati, altri restano
ancora celati. Ulteriori novità possono affiorare proseguendo le ricerche.
Desideriamo ringraziare quanti ci hanno permesso di compiere il nostro lavoro in un
clima di dinamica collaborazione tra professionalità diverse a partire dal presidente
ISIA, Giorgio Londei, il Direttore Roberto Pieracini, il Direttore Amministrativo Giuseppe
Cuccaro e il personale tutto;
il Direttore Storico dell’Arte della Soprintendenza BSAE Marche, Agnese Vastano; l’Architetto
Gianluca Gostoli del Comune di Urbino; il capocantiere Roberto Galvani.
Ringraziamo Ciro Vittorini per l’esecuzione dei disegni architettonici.
4 Lo spazio disponibile era di 3,75 m X 1,86 m con uno spessore tra i dieci e i dodici centimetri
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Secondo camerino, il tabernacolo in pietra policroma e dorata dopo il restauro

Elisabetta Malatesti Varano e Camilla Battista Da Varano
nel monastero clariano di Urbino
Silvano Bracci
I signori che nel sec. XV dominavano nelle città marchigiane, con potestà vicariale
ottenuta dal papa, tessevano una ragnatela di rapporti sponsali con
altri signori al fine di assicurarsi una certa tranquillità ai confini o garantirsi
aiuto in caso di minacce o invasioni. E se da un canto le donne sin da tenera
età diventavano merce di scambio nell’ordito di quella tela a volte stracciata
da fati avversi, dall’altra alcune di esse si resero famose per cultura o per capacità
amministrativa o per santità. Due di queste hanno dato lustro al monastero
Santa Chiara di Urbino, Elisabetta Malatesti Varano e Camilla Battista
Da Varano.
Elisabetta nacque circa il 1407 da Galeazzo Malatesti signore di Pesaro e Fossombrone
e da Battista da Montefeltro 1 . Nel 1425 fu data in sposa a Piergentile
da Varano, che con i fratellastri Gentilpandolfo e Berardo III e il fratello
Giovanni II governavano Camerino; l’anno seguente diede alla luce Costanza.
Ma la loro unione non ebbe lunga durata, perché l’invidia dei due Varano più
anziani portò alla decisione di sopprimere i fratelli minori: nell’agosto 1433
Giovanni, padre di Giulio Cesare, fu trucidato nella casa di famiglia a Camerino,
Piergentile venne decapitato il 6 settembre a Recanati per ordine del
card. Giovanni Vitelleschi legato della Marca, corrotto da Gentilpandolfo e Berardo,
ai quali il 24 agosto papa Eugenio IV aveva già riconosciuto la proprietà
delle terre degli altri due.
Elisabetta si chiuse nel castello di Visso con i figli Rodolfo IV, Costanza e Primavera
e forse con il nipote Giulio Cesare figlio di Giovanni, sorretta da Corrado
Trinci di Foligno che cercò di sostenere Visso ripetutamente assediata.
Qualche mese dopo Elisabetta ottenne il riconoscimento di qualche dominio,
perché già nel giugno 1434 pronunciava una sentenza in una controversia tra
abitanti di Muccia e di Coda di Muccia. Piergentile prima di morire aveva disposto
dei suoi domini in favore di Filippo Maria Visconti che da Milano seguiva
le imprese di Francesco Sforza nella Marca, ciò permise a Rodolfo e
Giulio Cesare di tornare a Camerino nel settembre di questo anno.
Il 10 ottobre 1434, però, un’insurrezione popolare contro i Varano soppresse
1 Nata nel 1384 dal conte Antonio e da Agnesina di Giovanni dei Prefetti di Vico, quindi sorella di Guidantonio,
fu celebrata sin da bambina per la dottrina, l’eloquenza e le sue composizioni poetiche tanto che
potrà gareggiare a suo tempo con il suocero Malatesta “dei sonetti”. Il 16 giugno 1405 sposò Galeazzo Malatesti
di Pesaro. Dietro sua richiesta, il 28 novembre 1438 papa Eugenio IV trasformò una “Casa di Terziarie
Francescane”, istituita a Pesaro nel 1402 dalla suocera Elisabetta Da Varano, in monastero di clarisse
dedicato al “Corpus Domini”. Il 2 giugno 1447 si fece clarissa con il nome di suor Girolama nel monastero
di S. Lucia di Foligno dove morì il 3 luglio 1448.
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Gentilpandolfo e i figli di Berardo nella chiesa di S. Domenico, Rodolfo e Giulio
Cesare si salvarono per mezzo di Tora da Varano vedova dal 1421 di Nicolò
Trinci di Foligno che li fece trasportare nascosti nel fieno fino ad Attidio di Fabriano
2 .
Dal 1434 al 1443 Elisabetta visse presso il padre Galeazzo a Pesaro, dove
amministrò il monastero delle clarisse del Corpus Domini fondato nel 1438
dalla madre Battista da Montefeltro, qui lei fu miracolosamente guarita dall’abbadessa
Felice Meda 3 , e nel 1443 si era fatta terziaria francescana insieme
alla madre.
Già il 15 maggio 1442 a Gradara la sedicenne Costanza Da Varano aveva pronunciato
una magnifica orazione alla presenza di Bianca Maria Visconti di Milano,
dall’anno precedente sposa di Francesco Sforza, per perorare la causa
del fratello Rodolfo e del cugino Giulio Cesare affinché tornassero a governare
Camerino in quel momento soggetta allo Sforza. Questi, durante il periodo di
governo repubblicano di Camerino, sfruttò con balzelli i possedimenti privati
e fece ricadere sulla popolazione il mantenimento delle sue compagnie di ventura.
Elisabetta intanto andava ordendo trame che il 26 novembre 1443 sfociarono
nella sconfitta della Repubblica camerte da parte delle truppe di Niccolò Piccinino
il cui capitano era Carlo Fortebracci 4 , cugino dei due giovani Varano, i
quali furono richiamati a furor di popolo, così il 14 dicembre Rodolfo e il 28 dicembre
Giulio Cesare furono dichiarati signori della Città e del contado dal
parlamento composto di tutti i cittadini maschi. A nome dei due giovanissimi
Varano, Elisabetta assunse la reggenza, ma, pur governando con equilibrio e
saggezza che ancora le vengono riconosciuti, per prevenire future ribellioni
non temé di permettere vendette contro i nemici dei Varano, tanto che occorrerà
a suo tempo una bolla pontificia di generica assoluzione perché potesse
assumere l’abito di Santa Chiara.
Nel 1444 Elisabetta dava in sposa la figlia Costanza ad Alessandro Sforza, fratello
di Francesco che negli ultimi mesi dell’anno aveva preso sotto la propria
protezione i Montefeltro, i Malatesti di Pesaro e i Varano di Camerino. Il contratto
di matrimonio fra la diciottenne Costanza e il trentacinquenne Alessandro fu sottoscritto
a Fermo il 28 novembre 1444, le nozze furono celebrate a Camerino il
successivo 8 dicembre. Galeazzo Malatesti come dono nuziale offrì alla nipote
la signoria di Pesaro, che in realtà fu una vendita del Malatesti, oberato di debiti,
ad Alessandro che usufruì della generosità del fratello Francesco 5 .
2 Tora si era rifugiata presso la sorella Guglielma, moglie di Battista Chiavelli di Fabriano, che il 25 maggio
1435 sarà ucciso con i suoi figli maschi nella chiesa fabrianese di S. Venanzio.
3 Mariano da Firenze, Libro delle dignità et excellentie del Ordine della seraphica madre delle Povere Donne de sancta
Chiara da Asisi, a cura di G. Boccali, Firenze-Assisi 1986, pp. 255-56, n.464. Felice Meda, clarissa nel monastero
di S. Orsola di Milano, fu mandata a reggere il nuovo monastero dal Ministro generale dei Frati
Minori e vi morirà in concetto di santità il 6 novembre 1444, il suo corpo è venerato nella cattedrale di
Pesaro, il suo culto è stato riconosciuto da Pio VII.
4 Nato nel 1421, era figlio di Nicolina Varano, seconda moglie di Nicolò Fortebracci di Montone.
5 Cfr Francesco Ambrogiani, Vita di Costanzo Sforza, Pesaro Città e Contà 2003, pp. 23-25.

Nel gennaio 1448 papa Nicolò V riconosceva ai due cugini Varano il vicariato
di Camerino. In quello stesso anno Elisabetta chiese a Nicolò III d’Este di Ferrara
la figlia naturale Camilla come sposa del proprio figlio Rodolfo. Successivamente
chiese a Sigismondo Pandolfo Malatesti, signore di Rimini e Fano,
la figlia Giovanna per sposa di Giulio Cesare: le nozze furono celebrate il 13
maggio 1451 nella rocca varanesca di Sentino, a poco più di 5 chilometri da
Camerino.
Elisabetta il 13 agosto 1448 donava agli Osservanti di S. Pietro in Muralto la
tenuta di Dolcepensiero «pro remissione peccatorum tam ipsius magnificae
dominae quam praefatae domus Varaneae» 6 , preludio alla sua inclaustrazione
tra le clarisse di S. Lucia di Foligno dove rimase ben poco, perché la sera della
domenica 22 dicembre era inviata con altre ventidue religiose ad avviare “alla
regulare observantia de sancta Clara, et a regimento et cura de li Frati Minori
de la Observantia” il monastero di S. Maria di Monteluce di Perugia 7 . Dopo
pochi mesi tornava a Camerino per riprendere in mano il governo signorile dei
Varano minacciato da alcuni insorti. Vi rimase circa un anno, poi rientrò nel
monastero di Perugia.
Nel 1455 Federico di Montefeltro chiese a papa Callisto III che Elisabetta fosse
inviata a dar vita ad una nuova comunità di clarisse a Urbino, il papa nell’ottobre
sottoscrisse un breve «nel quale se conteneva che essa [Elisabetta] con
alquante sore de questo monasterio dovesse andare alla Cità de Urbino, in
uno monastero novo che esso [Federico] haveva facto edificare», ma l’interessata,
dietro parere di frate Antonio da Montefalco Vicario degli Osservanti
umbri, non ottemperò al comando pontificio, per cui Federico avanzò una
nuova richiesta alla quale il papa fece seguire una nuova bolla ingiungendo alla
clarissa di obbedire: «Nel dicto millesimo [MCCCCLVI] del mese de aprile,
pocho dopo la Pasqua, el dicto ducha de Urbino fece venire un altro Breve
preceptorio dal papa alla sopradicta matre sora Helisabechta da Varano che
dovesse andare al dicto monasterio de Santa Chiara de Urbino, al quale andò
essa et sora Francescha da Camerino in sua compagnia» 8 .
Dalla nuova sede Elisabetta poteva seguire le gesta gloriose del pronipote Federico,
come avere serene conversazioni con la di lui giovane moglie, la duchessa
Battista Sforza, propria nipote quale figlia di Costanza da Varano, che
Federico aveva sposato nel 1460. Ma l’infausta sorte colpì la venticinquenne duchessa,
che, dopo sei femmine, aveva dato un erede al marito, Guidubaldo, venuto
alla luce il 24 gennaio 1472 a Gubbio: il 6 luglio Battista moriva di polmonite
nel palazzo ducale eugubino, le sue spoglie vennero sepolte nella chiesa di Santa
Chiara di Urbino. Elisabetta, pregando in coro con le consorelle o fermandocisi
da sola, poteva vegliare sulla tomba della nipote, unendo il proprio cordoglio a
quello dello sconsolato Federico che ogni settimana vi si portava: «Ogni setti-
6 Cfr B. Feliciangeli, Notizie della vita di Elisabetta Malatesta-Varano in “Atti e memorie della R. Deputazione di
storia patria per le provincie delle Marche”, n.s., n. 6 (1909-10), p. 198.
7 Memoriale di Monteluce, cronaca del monastero delle clarisse di Perugia dal 1448 al 1838, Assisi 1983, p. 4.
8 Ambedue le citazioni sono dal Memoriale di Monteluce cit., pp. 17-18.
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Giovanni Angelo di Antonio da Camerino “Annunciazione” - Camerino, Pinacoteca e Musei Civici.

mana, una volta, quando andava a questo munistero,
et lui solo entrava nella chiesa, et non
voleva che v’entrasse altri […] Istato ch’era il signore
per alcun tempo a questo munistero, si
partiva, et retornavasi a casa» 9 .
Elisabetta morì il 18 ottobre 1477, dopo circa 30
anni di vita claustrale, di cui 22 nel monastero di
Urbino. Considerata fondatrice del monastero
urbinate, alla soppressione del monastero, deciso
dal regio governo italiano nel 1861, le clarisse
ne asportarono le ossa che ancora
conservano nella cappellina eretta nell’orto del
nuovo monastero, insieme a quelle di fra Domenico
da Leonessa di cui parleremo più avanti.
Nella Annunciazione di Spermento (1455 circa)
il pittore Giovanni Angelo di Antonio da Camerino
raffigura sulla sinistra, dietro le ali dell’angelo,
Elisabetta Malatesti con il marito
Piergentile Varano 10 .
Alla corte di Camerino la figura di Elisabetta
doveva essere presentata in un’aura epica, per
il salvataggio della dinastia, ed insieme sacra,
per la vita contemplativa a cui si era votata.
Così dovrebbe averla conosciuta Camilla, la
primogenita di Giulio Cesare Da Varano.
Camilla era nata il 9 aprile del 1458 da una relazione
del venticinquenne Giulio Cesare con
Cecchina di Mastro Giacomo, venne però cresciuta
nell’ambiente signorile paterno ricevendo
una educazione umanistica tipica delle
corti rinascimentali.
Sin da giovanissima, dopo aver ascoltato la
predica del venerdì santo detta da fra Domenico
da Leonessa, Camilla aveva fatto voto di
piangere ogni venerdì almeno una lacrima
Giovanni Angelo di Antonio da Camerino
“Annunciazione” (part.) - Camerino,
Pinacoteca e Musei Civici.
sulla passione del Signore. Evidentemente la corte paterna, con i suoi sollazzi
e le sue conversazioni, non favoriva l’adempimento del voto e le difficoltà aumentarono
con l’età, poiché la giovane principessa sentiva una inclinazione diversa
dalle pratiche religiose, come ella stessa afferma: «Eccetto questo poco
9 Vespasiano da Bisticci, Le Vite, I, ed. A. Greco, 1970, p. 401; cfr Bonvini Mazzanti M., Battista Sforza Montefeltro,
una “principessa” nel Rinascimento italiano, Urbino 1992, p. 168.
10 Cfr A. Di Lorenzo, Maestro dell’Annunciazione di Spermento in Pittori a Camerino nel Quattrocento a cura di Andrea
De Marchi, Jesi 2002, pp. 294-301, e M. Mazzalupi scheda Annunciazione con i due donatori, ivi, pp. 309-319.

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tempo di pregare, tutto il resto lo spendevo in suonare, cantare, ballare, passeggiare,
in vanità e in altre cose giovanili e mondane che ne derivano. Mi
erano in tanto fastidio le cose devote e i frati e le suore, che non [ne] potevo
vedere nessuno; e beffeggiavo chi leggeva cose devote. Ponevo tutta la mia
cura nell’ornarmi e nel leggere le cose vane. In questi tre anni ebbi sempre il
cuore imprigionato e pregavo molto Dio che mi facesse grazia di averlo libero.
Però mai per le mie orazioni potei ottenere tale dono» (Vita spirituale, c. IV).
Un frate dell’Osservanza francescana, fra Pacifico da Urbino, la liberò dalla
paura che Dio l’avesse punita «con qualche disgrazia» quando non le era
uscita quella «benedetta» lacrima: «Dopo la confessione egli mi domandò se
avessi qualche voto. Io risposi di no. E dopo averci riflettuto un poco, mi ricordai
di questo e dissi di sì, che io avevo un voto che qualche volta non potevo
mantenere, ma avevo sempre la volontà di adempirlo, però qualche volta
riuscivo, altra volta no. Egli mi domandò che voto era. Io non volevo dirlo affatto.
Perché era una cosa buona, me ne vergognavo. Tuttavia, dopo qualche
replica glielo dissi. Allora lui disse: “Figliola mia, da questo voto non vi voglio
assolvere affatto. Anzi, voglio l’osserviate. Ma quelle volte che non potete,
avendo voi fatto ogni sforzo, non voglio che vi sentiate in peccato”» (Ivi)
Alla giovane fu di aiuto un piccolo libro sulla Passione di Gesù che proponeva
una serie di riflessioni che la portavano alla commozione anche in momenti
inopportuni per lo spuntare di una lacrima, che le donne di corte giudicavano
provenienti da pene d’amore. Ma la “vita spirituale” di Camilla stava progredendo
insensibilmente tanto che, alla lacrima, aggiunse il digiuno settimanale
a pane e acqua che poi estese al mercoledì e successivamente alla vigilia di
feste di Cristo e della Vergine e pian piano arrivò ad alzarsi ogni notte per dire
una corona e, se per caso non si fosse svegliata, ne diceva due. Ciononostante,
confessa, provava ancora attrazione per le vanità terrene.
Un secondo frate urbinate fece scoprire alla principessa l’amore di Dio, frate
Francesco da Urbino, che durante la predicazione quaresimale del 1479 ogni
giorno ripeteva come un ritornello: “Timete Deum!”, temete Dio, favorendo
nell’animo di Camilla ormai ventunenne il salutare pensiero di contrizione dei
peccati ma per paura dell’inferno, il che la spinse a meditare la Passione di Cristo
al mattino e alla sera.
E il suo «cuore imprigionato» iniziò a percepire un invito a consacrarsi nella vita
religiosa, a cui cercò fieramente di resistere. Pensò di ottenere lumi in proposito
scrivendo una lettera al predicatore ma aggirando la questione, cioè chiedendo
preghiere per altri e concludendo con la richiesta di un ricordo
nell’orazione per lei, ma il frate di Urbino nella risposta le dette una chiara indicazione:
cercasse di mantenersi casta anche nei pensieri finché non le fosse
indicata dal cielo la sua strada, parole che le causarono ancor più confusione.
La sera del 24 marzo, ai primi vespri della festa dell’Annunciazione, frate Francesco
affermò qualcosa che colpì Camilla: la vergine Maria all’annuncio dell’angelo
aveva provato tale sublimità di amore divino che una sola scintilla di
questo era superiore alla totalità degli amori possibili in questo mondo. E la
fiera principessa, abituata a volere il meglio in ogni cosa, consegnò alla Ver-

gine un nuovo voto: «mantenere tutti i sentimenti immacolati» finché non le
fosse chiara la volontà divina a suo riguardo, però con la precisa condizione
di sperimentare una scintilla di quell’amore che Maria di Nazaret aveva provato
alle parole dell’angelo Gabriele.
Da quel momento iniziò la lotta «dal sì al no», fra una vita di speciale consacrazione
e una vita mondana libera da impegni morali. Finché un venerdì,
scrive lei, «il mio libero arbitrio che sempre era rimasto forte e vigoroso, in
quel momento spontaneamente, non per forza, sedendo come giudice in cattedra
per giudicare la crudele battaglia, emise la sentenza contro di me. E con
tanto affetto e coraggio deliberai di servire Dio che, se per questo fosse stato
necessario patire il martirio, prontamente l’avrei scelto prima che mi fossi voluta
pentire di una tale decisione». Le venne ispirato anche dove realizzarla:
«In quell’istante mi venne infuso il desiderio di andare a Urbino. Mai mi sarei
accontentata di stare altrove». E da quel momento Dio la inondò di consolazioni
interiori quasi a soffocarla.
Ma diventò ostacolo Giulio Cesare Da Varano, che cercò inizialmente con lusinghe
di distogliere la figlia dal suo proposito, poi con minacce, infine ricorse
al carcere, senza ottenere ripensamenti, tanto che dopo due anni e mezzo
dové cedere.
Camilla, accompagnata da nobili e dame ed armigeri, lasciò Camerino nel
mese di ottobre 1481 insieme alla cugina Gerinda, figlia di Rodolfo IV e quindi
nipote diretta di Elisabetta Malatesti Varano. Sembra che siano passate a Loreto,
come è possibile che a Urbino siano state ospiti per qualche giorno di
Federico da Montefeltro nel palazzo ducale.
Il 14 novembre le due postulanti fecero l’ingresso «nel deserto della santa religione,
cioè nel sacro monasterio de Urbino», dove la giovane principessa
trovò «il dolcissimo canto delle preghiere devote, la bellezza dei buoni esempi,
i segreti rifugi delle grazie divine e dei doni del cielo» (Vita Spirituale, c. XII).
La cerimonia della vestizione de «il sacro abito della religione» da parte delle
due giovani avvenne all’inizio di gennaio 1482, preceduta dalla tonsura dei
capelli e dal simbolico rito della spogliazione degli abiti principeschi: Camilla
diventò suor Battista e Gerinda assunse il nome di suor Elisabetta, chiaro riferimento
alla nonna paterna deceduta quattro anni prima.
Nella permanenza ad Urbino a suor Battista non saranno mancate occasioni
per fermarsi a conversare con il vecchio duca Federico che, come sappiamo,
si portava settimanalmente nella chiesa di Santa Chiara sulla tomba della giovane
moglie Battista Sforza. Proprio mentre Camilla era là novizia, Federico,
in viaggio per Mantova, moriva il 10 settembre 1482 a Ferrara per febbri malariche,
assistito dalla sorella Violante diventata suor Serafina nel monastero
del Corpus Domini di Ferrara dove era abbadessa 11 . Suor Battista e le con-
11 Figlia di Guidantonio di Montefeltro e di Caterina Colonna, era nata a Urbino il 18 maggio 1430, nel 1434
era stata concessa in sposa al sedicenne Domenico Malatesta Novello dall’anno precedente signore di Cesena,
la celebrazione delle nozze avvenne nel maggio 1442 a Gubbio. In una lettera datata 16 marzo 1452
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sorelle dovrebbero aver preso parte alle solenni esequie quando la salma del
grande condottiero fu portata in patria per essere sepolta nella chiesa di San
Bernardino, mausoleo che lo stesso defunto duca aveva voluto per sé e i discendenti.
Camilla incontrò anche l’erede di Federico, Guidubaldo, e più frequentemente
la sorella, Elisabetta 12 , che, rimasta vedova nel 1480 e tornata
insieme ad una piccola figlia presso il padre, si interessava della fabbrica del
nuovo monastero clariano al quale destinò la dote della figlioletta nel momento
in cui questa morì, più tardi col nome Chiara vi assunse l’abito delle clarisse.
A Santa Chiara in seguito riposerà anche Giulia Da Varano, nipote di Camilla
perché figlia del fratello Giovanni Maria 13 .
Ma soprattutto Camilla Battista proseguì in Urbino il suo cammino interiore:
«Tutto lo sforzo della mente mia misi per entrare al mare amarissimo delle
pene mentali del cuore di Gesù e in quel luogo annegarmi, se potevo» (Vita
Spirituale, c. XII), così come da parte del cielo continuarono grazie speciali:
«Fra questo tempo fui per mirabile grazia dello spirito Santo introdotta nel secretissimo
talamo del mirrato cuore di Gesù, vero e solo mare amarissimo ed
avvelenato, innavigabile a ogni angelico e umano intelletto» (ivi).
Durante i mesi di maggio e giugno 1483 suor Battista mise per iscritto I ricordi
di Gesù, le parole cioè che il Signore le aveva indirizzato quando era nel
palazzo paterno a Camerino: «Le scrissi quando ero ad Urbino, cinque mesi
prima di fare la mia professione, in un foglio di carta con brutta e corsiva scrittura»
All’inizio del 1491 sentirà l’ispirazione di trascrivere quegli appunti terminandoli
di malavoglia alla fine di gennaio, poi li chiuse in un cassetto: «Ed
ora che sono trascorsi sette anni esatti da quando siamo entrate in questo
sacro monastero [di Camerino], sono stata forzata dall’ispirazione interiore -
non so se è stato Dio o il demonio - a trascriverle su carta migliore e con una
scrittura rotonda e più accurata», poi, chiesta luce dall’alto, le fu ispirato di inviarli
a padre Domenico da Leonessa al quale indirizzò una breve lettera di
accompagno datata 21 marzo 1491.
Proprio fra Domenico, che aveva originato il voto della lacrima del venerdì
della giovanissima Varano, aveva assistito al suo ingresso in monastero: «E
così fui collocata nel deserto della santa religione, cioè nel sacro monastero
di Urbino, te testimone, te presente» (Vita Spirituale, c. XII). Eletto Vicario provinciale
degli Osservanti marchigiani attorno alla Pentecoste del 1483, aveva
fatto opposizione all’erigenda comunità clariana di Camerino: «E benché molto
diretta a Bianca Maria Visconti, Violante si firmava “Violantes de Malatestis Comitissa Montisferetris” (cfr.
Malatesta Novello magnifico signore, a cura di P. G. Pasini, Cesena-Bologna 2992, p. 92). Dopo la morte del marito
(1465), si fece clarissa nel monastero di Ferrara col nome di suor Serafina, morirà nel 1493 con fama
di santità.
12 Una delle sei figlie di Battista Sforza, nata in Urbino nel 1464; nel 1475 era stata data in sposa a Roberto
Malatesta detto il Magnifico, nato nel 1442 da una relazione di Sigismondo Pandolfo al quale succederà
nella signoria di Rimini. Morirà a Venezia nel 1510.
13 Nata a Camerino il 24 marzo 1523, undicenne aveva sposato il 12 ottobre 1534 Guidubaldo II a cui nel
1544 aveva dato una figlia, Virgina. Il 18 febbraio 1547 moriva a Fossombrone, a ventitré anni d’età, il funerale
venne celebrato in Urbino il successivo 24 marzo.

abbiate operato che nel tempo del vostro vicariato non venisse eretto…», cosa
che contribuì alla «amara professione, per la quale se turbò e conquassò tutta
la religione e fora de religione, cioè frati e sore, signori e seculari».
Si tratta della professione dei voti di obbedienza, povertà e castità e della Regola
di santa Chiara che Camilla Battista emise alla fine del 1483. Lo scompiglio
sembra sia sorto dal problema della nuova comunità clariana a
Camerino che Giulio Cesare Da Varano aveva voluto ad ogni costo e che voleva
dotata di rendite, forse sostenuto da nobili e clero da una parte, mentre
frati e suore dall’altra volevano fosse fondata sulla prima Regola di S. Chiara
che prevede la povertà comunitaria. Per la novizia quello che doveva essere
un momento di festa divenne «amara professione», di cui non volle dare spiegazione
al destinatario della lettera autobiografica, perché fra Domenico da
Leonessa conosceva bene il fatto.
Così suor Battista all’inizio del 1484 lasciò Urbino con otto consorelle, «essendo
trasferita, per ubbidienza a vostra Riverenza e all’autorità papale che ve
l’aveva concessa, in questo monastero insieme alle altre reverende madri».
La domenica 4 Gennaio le nove monache di Urbino dettero inizio al monastero
di S. Maria Nuova di Camerino di cui fra Domenico da Leonessa, Vicario
Provinciale, prese formale possesso.
Alla sua permanenza a Urbino suor Battista farà richiamo nell’opera I dolori
mentali di Gesù nella sua passione, cioè i dolori del Cuore umano di Cristo, dicendo
di averli ascoltati da un’anonima monaca del monastero urbinate e perciò,
nonostante la richiesta dell’abbadessa, di non poterli mettere per iscritto
finché quella monaca fosse in vita. Nell’agosto 1488 sarà Cristo stesso a invitarla
a scriverli: Questa sarà l’opera della Varano che, pubblicata anonima
due volte ancor lei vivente, conoscerà ampia diffusione lungo i secoli.
Camilla Battista morirà a Camerino il 31 maggio 1524. Venerata da subito col
titolo di beata, Gregorio XVI le riconobbe il titolo nel 1843; Benedetto XVI l’ha
solennemente inserita nel catalogo dei santi il 17 ottobre 2010.
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Due sculture per Santa Chiara
Alessandro Marchi
Una ‘testina’ in terracotta
Lo studio della scultura presenta sempre qualche difficoltà in più; arte difficile
la scultura: intanto per l’approccio che richiede, che è sempre fisico e diretto
-dal vero!-, poi per la sua natura tridimensionale che non sempre si appalesa
nei canoni della pittura.
Michele da Firenze, Madonna col Bambino e angeli
Berlino, Staatliche Museen
Michele da Firenze, Madonna col Bambino e angeli
Londra, Victoria and Albert Museum
Così è anche per questo bellissimo frammento riemerso negli scavi di Santa
Chiara: una ‘testina’ in terracotta, con fattezze giovanili, bocca serrata, naso
gentile e occhi bulbosi concentrati in uno sguardo fisso (verso sinistra, un po’
dall’alto in basso…).
Un pezzo abbastanza eccezionale, a documento di una presenza, la scultura
in terracotta nel circondario urbinate, che è più che rara, quasi inesistente, almeno
prima delle esportazioni robbiane.
Così questa immagine frammentaria sollecita alcune riflessioni -preliminari,
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senza pretesa di essere definitive- che assumono comunque un certo interesse.
L’immagine, ad un’analisi ravvicinata, vuoi anche per il suo stato di frammento
(secondo un canone visivo di stampo romantico, affascinante appunto per
essere solamente un frammento), s’impone subito al riguardante con una notevole
efficacia (così che abbiamo dovuto sceglierla ad emblema di questa
iniziativa). Ha la fisionomia di un giovinetto/a, col viso pienotto e le guance
Ignoto plasticatore urbinate, 1440-1450
Testa di fanciullo (fronte, profilo destro e profilo sinistro) Terracotta, Urbino, ISIA.
enfiate, come si trattasse di un angelo tubicino che si appresta a dar fiato alle
trombe; le labbra carnose e gli occhi tondi, assai gonfi, stanno, per così dire,
in contrapposizione al naso sottile e ben diritto. I tratti dunque calcati e gentili
insieme, concentrati in un’espressione attonita e un poco assente, soprattutto
nella visione frontale: a denunciare un padronanza del mezzo espressivo
non più classificabile nei parametri stilistici del gotico, ma nemmeno completamente
incanalata in quelli del rinascimento. Roberto Longhi -fin dal 1926ebbe
a stigmatizzare queste componenti stilistiche secondo la formula felice

di ‘rinascimento umbratile’: “è codesto un goticismo ombreggiato di rinascimento,
ma di un così scarno rinascimento ch’io vorrei chiamarlo, senza nulla
di dispregio, un rinascimento umbratile” 1 .
Credo la nostra scultura possa qui trovare una giusta collocazione, che vale
preventivamente anche come ipotesi di datazione, che riterrei circoscrivibile
nel quinto decennio del Quattrocento.
Dato che la testa è ben modellata a tutto tondo, è presumibile coronasse un
figura in piedi; e vengono a mente gli angeli che popolano numerosi gli altorilievi
in terracotta con la Madonna col Bambino racchiusi in un tabernacolo
architettonico, per lo più di produzione fiorentina quattrocentesca. Altaroli plastici
adatti ad ornare nicchie e maestà viarie: un buon numero dei quali, fra
quelli sino ad oggi conservati, modellati e prodotti (con una certa serialità) da
1 R. LONGHI, Primizie di Lorenzo da Viterbo, in “Vita Artistica”, 1926, pp. 109-114 (sotto la firma ‘Andrea
Ronchi’) oggi in Saggi e Ricerche 1925-1928, Opere Complete vol. II, Firenze 1967, pp. 53-61, la cit. è presa
da p. 61.
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Michele di Niccolò Dini, più conosciuto come Michele da Firenze (1385 c.,
doc.1403 - m. post 1453), attivo in patria oltre che in Emilia, Veneto e Marche.
Riproduciamo, al fine di sollecitare la memoria del lettore, quello conservato
a Berlino nello Straatliche Museen, ma ve ne sono altri di notevole bellezza ad
esempio a Londra al Victoria and Albert Museum, a Prato e così via.
L’attività di Michele da Firenze è strettamente legata all’ampia fortuna che la
scultura in terracotta conobbe nel corso del Quattrocento. Questa tecnica ar-
Michele da Firenze, Compianto su Cristo morto - Milano, Museo del Castello Sforzesco
tistica ebbe infatti a rinascere proprio nei primi decenni del secolo, a Firenze,
ad opera degli artisti dell’umanesimo, quali appunto Brunelleschi e Donatello,
che con Masaccio sono ritenuti i padri fondatori del rinascimento artistico. La
tecnica scultorea era andata perduta nel Medioevo, era però largamente praticata
dagli antichi come testimoniano le imprese ed i reperti ritrovati dall’archeologia,
e come ci indica Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia: un testo
largamente conosciuto nel Quattrocento 2 .
Nel 1410 Donatello viene incaricato di eseguire una statua gigantesca di Giosuè
per gli sproni di Santa Maria del Fiore. Come autorevolmente proposto da
Luciano Bellosi, la scelta di una tecnica desueta è da riconnettere all’intervento
di Filippo Brunelleschi, a quegli anni fortemente interessato alla scultura,

alle sue peculiarità tecniche, funzionali alle scelte di una nuova espressività;
non dimentichiamoci che il celeberrimo architetto era nato -artisticamentecome
orafo 3 . Si tratta certamente di un primo esperimento, che Donatello
ebbe a ripetere numerose volte, appunto sino a far letteralmente rinascere la
scultura in terracotta 4 , conseguendo un largo seguito, non solo fra gli artisti fiorentini
contemporanei 5 .
Tornando però a Michele da Firenze, ultimamente si è rivelata una congiuntura
assai intrigante, che potrebbe esser messa in relazione proprio col nostro
frammento.
Paride Berardi, conosciuto come ricercatore di documenti artistici pesaresi, ha
pubblicato un interessante volume dal titolo: Marsilio di Michele da Firenze.
Una congiuntura Pesaro-Castiglione Olona 6 , nel quale si riportano i documenti
relativi al soggiorno di Michele da Firenze a Pesaro, dal 21 agosto 1447 al 9
agosto 1453, insieme al figlio Marsilio, per la realizzazione dell’ornamento
dell’Arca di San Terenzio in Cattedrale. Quasi certamente si tratta di statue ed
ornamenti in terracotta, poiché nell’atto del 22 ottobre 1448 si parla espressamente
di “comporre le figure” 7 . Una presenza davvero rilevante, peccato
non si conservi alcun resto del monumento (non disperiamo comunque in un
qualche futuro ritrovamento !). Di grande interesse poi il fatto che il figlio di Michele
Marsilio, continui ad esser attestato in Pesaro sino il 18 maggio 1457,
con la qualifica di “magistero Marsilio pictori de Florentia” 8 . Non ci è d’uopo
soffermarci sulle ipotesi di attribuzione promosse da Berardi, tanto più che
non riusciamo a vedere una reale congiuntura con i dipinti lombardi di Castriglione
Olona, ci appare però possibile che Marsilio, accanto alla pittura, esercitasse
anche la scultura, nell’accezione paterna della terracotta, e un giorno
magari sarà possibile effettuare un ritrovamento che possa supportare la congettura.
Accontentiamoci ora di questa splendida testina, ove peraltro riscontriamo
una debole parentela con la fisionomia dell’angelo a braccia conserte posto
alla sinistra della Vergine nel rilievo di Berlino, poco sopra richiamato; conosco
la scultura soltanto dalle fotografie e non mi azzardo a proporre di più.
Credo che le relazioni fra il nostro frammento e le opere di Michele da Firenze
non siano casuali – si vedano ad esempio gli angeli nel tondo col Compianto
2 Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, ed. S. Ferri, Roma 1946, XXXV, pp. 151 – 160.
3 Cfr. L. BELLOSI, Filippo Brunelleschi e la scultura, in “Prospettiva”, n. 91-92, 1998, Omaggio a Fiorella Sricchia
Santoro, vol. I, pp. 48-69.
4 La letteratura sulla ‘rinascita’ della scultura in terracotta avviata da L. BELLOSI, Ipotesi sull’origine delle terrecotte
quattrocentesche, in Atti del convegno su Jacopo della Quercia tra Gotico e Rinascimento (Siena 1975),
Firenze 1977, pp. 163-168, trova un resoconto in L. BELLOSI e G. GENTILINI, Una nuova Madonna in
terracotta del giovane Donatello, in “Pantheon”, LIV, 1996, pp. 19-26.
5 Cfr. A. LUGLI, Guido Mazzoni e la rinascita della terracotta nel Quattrocento, Torino 1990.
6 P. BERARDI, Marsilio di Michele da Firenze. Una congiuntura Pesaro-Castiglione Olona, Collana Link della rivista
“Pesaro città e contà”, 1, Pesaro (Società pesarese di studi storici) 2000.
7 Ivi, doc. regestato al n. 24, p. 53.
8 Ivi, doc. regestato al n. 56, p. 59.
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Ignoto plasticatore urbinate, 1450 c., San Giacomo
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
Ignoto plasticatore urbinate, 1450 c. Sant’Antonio Abate
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
su Cristo morto, del Museo del Castello Sforzesco di Milano- : certamente il
nostro anonimo conosceva le opere -almeno quelle pesaresi- dello scultore
fiorentino 9 .
La mancanza di confronti possibili per la scultura in terracotta, in ambito urbinate,
è appena attenuta dalla presenza, nei depositi di Palazzo Ducale di
due rilievi, con la raffigurazione dei Santi Giacomo di Compostella e Antonio
Abate, provenienti dall’Oratorio di San Giovanni, ma in origine nell’oratorio urbinate
di Sant’Antonio Abate, distrutto nell’ottocento 10 . Si tratta di due for-
9 Una notevole apertura sulla scultura di Michele da Firenze è in A. GALLI, Michele da Firenze: i problemi dell’attività
giovanile, in “Prospettiva”, n. 68, 1992, pp. 13-29.
10 Le notizie sulle formelle sono riportate da D. FERRIANI, Recuperi marchigiani, in La scultura in terracotta tecniche
e conservazione, a cura di M. G. Vaccai, Firenze 1996, p. 284, n. 3, in cui si afferma che nel corso del-

melle (di circa cm 80 x 37 x 8 ciscuna), riportate all’attenzione da Daniela Ferriani
che vi riscontra “un incerto vigore ma con un’eleganza di sapore già rinascimentale”
11 . L’osservazione, pur laconica, è pienamente condivisibile, e
i due rilievi meritano certamente una considerazione maggiore rispetto a quella
riservatagli sino oggi. A mio parere vi si ritrova ancora l’atmosfera del ‘rinascimento
umbratile’, esemplata nell’apparente contraddizione fra il ridondare
dei panneggi abbondanti coi bordi controtagliati ed il vigore delle teste modellate
quasi con intenti ritrattistici. Ciò che sorprende è poi il fatto che il modellato,
opportunamente rifinito da una patina bruna stesa uniformemente col
pennello, presenta una dose equipollente di ammaccature e di pieghe levigate
in superficie simili a quelle ottenute nella sorella maggiore, la scultura in pietra.
Non abbiamo conclusioni da proporre, anche in questo caso ci mancano
confronti specifici, la loro presentazione assume pertanto lo scopo di incentivare
la discussione, saremmo comunque propensi a collocarli cronologicamente
intorno o poco prima della metà del Quattrocento 12 ; in un tempo
abbastanza prossimo alla ‘testina’ pur non avendo -nello stile- nulla da spartire
con essa a parte la tecnica.
Poche terracotte, labili indizi, che trovano però uno sviluppo nel secolo successivo,
si pensi al bellissimo Compianto dell’Oratorio della Grotta 13 , o alla
Madonna in trono col Bambino della Chiesa del Beato Domenico Spadafora
di Montecerignone, o alla Pietà in forma di Vesperbild di Sant’Agata Feltria
(che ho avuto recentemente la fortuna di far restaurare), o ancora la Santa Caterina
in trono della Chiesa di San Filippo di Sant’Angelo in Vado 14 tutte opere
che attendono una collocazione critica circostanziata, eppur legate da una
cert’aura ‘urbinate’.
Ho lasciato per ultima una curiosità iconografica. Qualcuno ha pensato che la
‘testina’ in predicato incarnasse un ritratto di Battista Sforza, per una certa qual
consonanza col profilo della duchessa d’Urbino da come tramandato dal ritratto
di Piero della Francesca agli Uffizi e dal busto di Francesco Laurana al Bargello
di Firenze. Nonostante il fascino di una tale ipotesi, credo ch’essa non sia perseguibile
per il fatto che la nostra figura e fornita di una corta capigliatura che
circonda e riveste in maniera omogenea la sfericità del cranio: non me ne vogliano
gli urbinati, mi rendo conto infatti che sarebbe stato bello ritrovare un’immagine
di quella donna straordinaria là dov’Ella ebbe la sua ultima dimora.
l’Ottocento la Confraternita e le suppellettili del Sant’Antonio furono aggregate a quella di San Giovanni
Battista, a dimostrazione si veda l’emblema del tau, scolpito in una formella della facciata della chiesa trecentesca.
11 Ivi, pp. 273-274, fig. a p. 275 del solo San Giacomo di Compostella durante i restauri con “Sec. XVI” nella
didascalia.
12 In una precedente analisi abbiamo ritenuto che i due rilievi fossero di ambito tardogotico; di differente avviso
Maria Giannatiempo che –più giustamente- li riteneva rinascimentali (non ci sembrano comunque
opere legate al cantiere scultoreo di San Domenico o a quello del Palazzo Ducale). Nelle schede di Soprintendenza
i rilievi sono attribuiti addirittura al secolo XVII (difficoltà della scultura!).
13 Cfr. S. BARTOLUCCI, Compianto, scheda in Imago Pietatis: il corpo (I segni del tempo n. 2), catalogo della mostra
di Urbino a cura di D. Tonti - S. Bartolucci, Urbino 2008, pp. 64-65.
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Un Crocifisso ‘teutonico’
Le monache di Santa Chiara conservano, nella loro nuova chiesa a ridosso
della mura di Urbino, un meraviglioso crocifisso proveniente dall’antico monastero
di centro città.
Nonostante sia noto e commentato dai tempi del Serra 15 , esaminato da Margarit
Lisner nel suo pionieristico e fondamentale articolo del 1960 16 , ed inse-
Johannes Teutonichus, 1472 c., Crocifisso (prima del restauro) - Urbino, Chiesa di Santa Chiara.
rito giustamente nel catalogo di Giovanni Teutonico con una datazione fra il
1450 e il 1470, quindi discusso ampiamente da Maria Giannatiempo 17 che ne
ha diretto i restauri e proposto una importante congiuntura storica, il crocifisso,
vuoi per la sua collocazione riservata, vuoi per qualche altro motivo congenito,
non gode ancora del rilievo e della conoscenza che meriterebbe.
Si tratta certamente di un capolavoro, ma per nulla affatto, tranne collocazione
e ragioni storiche che ne hanno guidato la venerazione più antica, legato
al rinascimento urbinate. Nel senso che non è un prodotto di quella civiltà artistica,
ma piuttosto un’opera ‘tedesca’ cioè legata alla produzione dello scul-
14 Pubblicata da D. TONTI, La Somma Virtù, in Bramante. Anche i geni hanno cominciato da piccoli. I primi 30 anni
dell’Architetto nel Montefeltro, catalogo della mostra di Fermignano a cura di V. Mötler, Urbino 3008, p. 53
(ringrazio Mons. Davide Tonti e Sara Bartolucci per la cortese segnalazione).
15 Cfr. L. SERRA, Urbino. Catalogo delle cose d’Arte e d’Antichità d’Italia, Roma 1932, p. 115; L. SERRA, L’Arte
nelle Marche. II. Il periodo del Rinascimento, Roma 1934, pp. 190-191: come prodotto dell’arte toscana della
seconda metà del Quattrocento.
16 M. LISNER, Deutsche Holzkruzifixe des 15. Jahrhunderts in Italien, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institut
in Florenz”, IX, 3-4, 1959-60, (pp. 159-206), p. 181.
17 M. GIANNATIEMPO LOPEZ, Un capolavoro ignorato del rinascimento urbinate: il crocifisso doloroso di Santa
Chiara, in Riflessioni sul Rinascimento scolpito, Contributi, analisi e approfondimenti alla mostra di Camerino, 5 maggio-
5 novembre 2006, Atti della giornata di studio a cura di M. Giannatiempo Lopez e Raffaele Casciuaro, Camerino
(Pollenza) 2006, pp. 92-100; M. GIANNATIEMPO LOPEZ, Anonimo intagliatore del terzo quarto del
XV secolo, scheda in Arte francescana Tra Montefeltro e Papato 1234-1528, Catalogo della mostra di Cagli a cura
di a. Marchi e A. Mazzacchera, Milano 2007, pp. 131 e 195-196.

Johannes Teutonichus, 1472 c., Crocifisso (dopo il restauro - particolare) - Urbino, Chiesa di Santa Chiara.

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Johannes Teutonichus, 1472 c., Crocifisso (dopo il restauro) - Urbino, Chiesa di Santa Chiara.
tore “Johannes Teuthonicus” noto nella forma italianizzata come Giovanni Teutonico
18 , realizzata quindi non sappiamo dove, legata appunto a quella enigmatica
produzione che oggi ha superato largamente i quaranta esemplari. E
si tratta di ben quarantacinque crocifissi lignei dipinti (uno dei quali ancora
inedito, conservato ad Urbania di cui si spera presto poter dar conto). Un nu-
18 Mi permetto di rimandare a: A. MARCHI, Il caso “Johannes Teutonichus”. Stato degli studi e raccolta dei materiali,
in Nuovi contributi alla cultura lignea marchigiana, Atti della giornata di studio di Matelica del 1999, a cura
di M. Giannatiempo Lopez e A. Jacobini, Sant’Angelo in Vado 2002, pp. 73- 98, con bibl. precedente; a
cui sono da aggiungere: D. BENATI, Presenze tedesche all’Aquila da Gualtieri d’Alemagna a Giovanni Teutonico, in
L’Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento, Atti del convegno internazionale di Chieti

mero più che considerevole, che potrebbe ancora aumentare, tutti di una “medesima
mano”, scalati fra gli estremi cronologici del 1449 e 1494, oltrechè dislocati
dalle propaggini alpine verso il Friuli, lungo il Veneto, l’Emilia, la
Toscana, l’Umbria, la Romagna, le Marche e l’Abruzzo sino a Roma (a coprire
il territorio nazionale per circa i tre quarti della sua estensione). Anche e solo
in questi termini sommari dunque, un fenomeno che sfugge tanto ai nostri canoni
moderni d’interpretazione, quanto alle nostre cognizioni sui processi della
produzione artistica tardo-medieoevale, seppure specializzata in un oggetto
tipico di venerazione e devozione come il crocifisso scolpito nel legno e rivestito
di colori e dorature.
Un testo che viene modulato sulla iconografia del crocifisso gotico doloroso,
d’origine otralpina, noto già nel Medioevo, ma poi largamente presente, appunto
con esemplari simili al nostro, in contesti rinascimentali. Un oggetto liturgico,
fortemente legato alla venerazione, ma soprattutto alle sacre
rappresentazioni del Venerdì Santo, come dimostrano, là dove identificati –
come nel nostro caso dai restauri- i congegni che permettevano di movimentare
la lingua (secondo un procedimento neo-realistico che incentivava
l’immedesimazione dei fedeli nel dramma umano del Cristo Passo). Pertanto
un’umanizzazione sin troppo realistica (pensate a quella lingua che dondolava
ed usciva dalla chiostra dei denti), per l’appunto cancellata nel corso dei
tempi, quando i crocifissi erano rimasti immobili, appesi sugli altari o dentro
le nicchie, sui calvari.
Ed un calvario di pietra, con l’incavo preciso per la nostra croce, è stato rinvenuto
da Bruno Vittorrini in una nicchia –ora riaperta- in Santa Chiara, nel
punto preciso in cui era appunto collocata la croce, dove il Duca Federico
usava sedersi a pregare, da solo, per la moglie morta dopo il nono parto, il 6
luglio 1472, appunto pochi mesi dopo aver dato alla luce il figlio Guidobaldo
(l’ultimo Montefeltro) 19 .
Non fa specie che il colto Federico, abituato a discorrere con Leon Battista Alberti,
a far dipingere Piero e i sofisticati fiamminghi, preferisse per la preghiera
un crocifisso tedesco, vibrante di un realismo doloroso e veristico: come volesse
consolare il proprio cuore affranto guardando un dolore eccessivo e sublime,
eppure foriero di salvezza.
Ed il nostro crocifisso si dimostra pienamente comprensibile, al colmo delle
sue caratteristiche espressive, proprio nella veduta frontale ad una altezza
contenuta, circa un metro da terra, così che il riguardante potrebbe immedesimarsi
in Maddalena e gettarsi ad abbracciare la croce.
La qualità altissima, perfettamente recuperata da un restauro eccellente, sorprende
e commuove.
2004 a cura di D. Benati e A. Tomei, Cinisello Balsamo 2005, pp. 309-319, spec. pp. 312-319; E. FRAN-
CESCUTTI, Un’aggiunta al “corpus” di Johannes Teuthonicus, in “Arte Veneta”, 61, 2004, pp. 178-187; M.
MAZZALUPI, Don Paolo Alamanno: un contributo per la questione Johannes Teutonichus, in Pittori ad Ancona nel Quattrocento,
a cura di A. De Marchi e M. Mazzalupi, Milano 2008, pp. 322-331.
19 Cfr. GIANNA TIEMPO 2006, cit., pp. 92-93.
41

42
Johannes Teutonichus, 1472 c., Crocifisso (dopo il restauro - particolare) - Urbino, Chiesa di Santa Chiara.

Così, a ripensarci bene, stupisce la vicenda riemersa di Giovanni Teutonico:
come possibile che un solo scultore sia stato attivo per tanto tempo –cinquant’anni
circa-, in uno spazio così ampio, con così tante opere, diverse
eppur profondamente affini una con l’altra ? Ancor più sorprende che queste
opere siano tutti crocifissi, e le tracce in merito ad altre tipologie poco più che
spurie.
Altri, come argutamente Daniele Benati, hanno già pensato che si trattasse
piuttosto di una bottega, ed essendo il nome Hans alias Giovanni assai comune,
più componenti della medesima bottega portassero lo stesso nome
ed, in assenza di patronimico, si qualificassero per la nazione di provenienza
(come avevano fatto i maestri costruttori lombardi, i comacini durante il romanico)
20 .
Si potrebbe aggiungere che, se si fosse trattato poi di una bottega famigliare,
la si potrebbe pensare trasmessa in eredità da padre a figlio e che il medesimo
nome trapassasse anch’esso almeno nella linea diretta dei primogeniti, appunto
a ribadire una continuità totale. Così si può pensare che i modelli e le
consuetudini, fossero riproposti da una generazione all’altra con una fedeltà
impressionante –tanto più che coincidono con l’unica tipologia del crocifisso:
così che i tanti Giovanni si assomigliano sorprendentemente uno all’altro e finiscono
per diventare un unico –grandissimo- Johannes Teuthonicus.
20 BENATI, cit., p. 317.
43

Ceramiche restaurate dall’Ex Convento di Santa Chiara.
Relazione di restauro
Andrea Pierleoni
Il rapporto con L’ISIA risale al 2008 quando fui incaricato per la realizzazione
del primo di una serie di progetti inerenti il recupero e restauro di materiale ceramico
rinvenuto nell’ex monastero di Santa Chiara a Urbino.
Le ceramiche provengono dall’interno del ex monastero e sono state ritrovate
durante lavori di restauro. Gli operai, durante i lavori avevano attentamente
raccolto e depositato all’interno di scatole tutto quello che era venuto alla
luce.
I frammenti si presentavano ricoperti di terra ed il nucleo più consistente era
rappresentato da maiolica policroma databile tra il ’400 e il ’600 con alcune eccezioni
riguardanti alcuni frammenti in vetro, osso e corallo. Una parte dei
frammenti del ritrovamento si riferiva invece a ceramica popolare, d’uso domestico.
La prima cosa che si è pensato di fare è stata quella di effettuare la selezionatura
di queste due tipologie, focalizzando lo studio sulla maiolica policroma,
senza tralasciare però una piccola campionatura di frammenti di ceramica
d’uso. La selezionatura è stata eseguita in laboratorio dove dopo una attenta
divisione del materiale per stile, forma ed epoca, si è potuta effettuare una ricerca
più approfondita andando a individuare tutte quelle ceramiche che potevano
essere recuperate attraverso il restauro. Insieme alla Direzione dei
Lavori, si è deciso di selezionare solo quelle ceramiche che presentavano almeno
il cinquanta percento della loro forma e le caratteristiche per la ricostruzione.
Quindi su queste si è proceduto con il restauro.
La prima fase è stata quella di ripulire i frammenti dai depositi di terriccio attraverso
bagni in acqua demineralizzata, e una volta asciugati si è proceduto
al loro consolidamento con soluzione consolidante a bassa concentrazione.
Il passo successivo è stato quello dell’incollaggio utilizzando collante di tipo
reversibile.
Le parti mancanti sono state ricostruite utilizzando appositi gessi e stucchi. In
seguito si è proceduto al restauro pittorico delle parti integrate, dove in accordo
con la Direzione dei Lavori si è deciso per la tecnica del “sotto-tono”,
lasciando così all’osservatore sia la piena lettura dell’opera che l’individua-
45

46
zione dell’intervento di restauro.
Si è deciso di intervenire anche sui singoli frammenti più significativi. L’intervento
riguardava la scelta di una campionatura il più possibile esaustiva per
stili ed epoche. I frammenti scelti sono stati trattati con la pulitura, il consolidamento,
e l’incollaggio dove richiesto. Quelli più importanti sono stati in seguito
valorizzati per una futura musealizzazione attraverso sostegni in
plexiglass.

Nuove testimonianze ceramiche ad Urbino
dal Palazzo Ducale e dal Monastero di Santa Chiara
Claudio Paolinelli
Se la maiolica nel Ducato di Urbino conobbe maggior fama, prestigio e diffusione
a partire dagli anni Venti del Cinquecento grazie all’opera di maestri che
espressero, specie con l’istoriato 1 , un sensibilissimo modo di concepire e vivere
la cultura rinascimentale, lo si deve ad una tradizione ceramica locale
che affonda le sue radici già alla fine del Trecento per fiorire poi durante il periodo
di Federico da Montefeltro.
Riportare l’attenzione sul patrimonio ceramico della Città ducale, attraverso lo
studio comparativo e la pubblicazione di testimonianze inedite provenienti da
Palazzo Ducale e dall’ex Monastero di Santa Chiara è sicuramente il segnale
forte di una nuova politica culturale vincente, che affronta in maniera sinergica
le nuove opportunità offerte dalla città, coinvolgendo ISIA, Soprintendenza,
Università e maestranze specializzate locali quali restauratori ed operatori del
settore edile.
Le testimonianze ceramiche che qui si presentano, sono il segno tangibile di
una produzione anche locale 2 , stimolata da una raffinatissima corte ducale,
che fu per secoli custode di un “tesoro ceramico” che negli anni sta riaffiorando,
come nel fortunato caso del Monastero di Santa Chiara, oggi sede dell’Istituto
Superiore per le Industrie Artistiche, dove la sensibilità dei “padroni
di casa” e la vigile e costante azione della Soprintendenza, hanno permesso
di riportare in luce materiali di indubbio interesse storico artistico.
Lo studio dei materiali ceramici provenienti da Santa Chiara è ancora in fieri,
in quanto anche mentre si sta scrivendo, probabilmente altri frammenti ceramici
stanno tornando alla luce grazie anche all’attenzione e alla cura con cui
gli operatori preposti setacciano costantemente i materiali del cantiere. Questa
importante occasione espositiva quindi vuol essere un’indagine preliminare
non esaustiva, di carattere sia scientifico che divulgativo, per lasciare la testimonianza
di un progetto voluto fortemente da più parti, con la consapevolezza
che i tempi e i mezzi per la realizzazione di questo lavoro sono stati
limitati 3 . Inoltre anche grazie alla determinazione di molti, che hanno creduto
1 Cfr. C. Paolinelli, Di “quel carattere Raffaellesco” nelle maioliche del Ducato di Urbino e Schede, in: L. Mochi Onori
(a cura di), Raffaello e Urbino. La formazione giovanile e i rapporti con la città natale, catalogo della mostra 5 aprile
12 luglio 2009 - Urbino, Milano, 2009, pp. 244-265.
2 Auspicabile sarebbe un’analisi archeometrica dei materiali per poter determinare con maggior precisione
la composizione e la provenienza delle terre, aiutando così in modo determinante questo studio preliminare
che può avvalersi solo di un’analisi comparativa di tipo decorativo e formale.
3 Sono davvero grato a tutti coloro che mi hanno dato la possibilità di analizzare gran parte dei materiali
finora emersi ed in particolare ringrazio il Presidente dell’ISIA Giorgio Londei e la dottoressa Agnese Vastano
della Soprintendenza che mi ha voluto per condividere questo progetto di studio sulla maiolica ur-
47

48
fermamente nella valorizzazione di un patrimonio culturale considerato purtroppo
in passato semplice materiale di risulta, oggi si assiste ad un rinnovato
interesse per la maiolica, elemento inscindibile della cultura
rinascimentale urbinate e per questo si coglie questa occasione per presentare
anche alcuni materiali inediti provenienti da Palazzo Ducale.
Urbino cela dietro al suo Palazzo Ducale, sede della Galleria Nazionale delle
Marche, un piccolo ma significativo “tesoro” ceramico 4 , che negli ultimi anni
si sta arricchendo sempre più grazie all’attenzione rivolta ai materiali di scavo
provenienti dal territorio, non tralasciando però le sempre più rare acquisizioni
e donazioni.
Dopo i ritrovamenti avvenuti in seguito ai lavori di consolidamento del Salone
del Trono in Palazzo Ducale nel 1992 5 , si poterono recuperare numerose maioliche,
anche di pregevole fattura che oggi sono in gran parte esposte. Successivamente
nel 2003 vennero effettuate ulteriore indagini tra i materiali
rinvenuti grazie ad un progetto provinciale 6 e si poterono così recuperare altri
importanti manufatti ceramici 7 , per poter accrescere la collezione permanente
della Galleria Nazionale.
Ma a suscitare ulteriore interesse è stato il rinvenimento di frammenti ceramici 8
provenienti da recenti lavori di ristrutturazione, documenti fondamentali per
studiare e comprendere a pieno la “vita di corte”.
Numerose tipologie ceramiche sia dal punto di vista formale che decorativo,
sono confrontabili con i reperti già analizzati e studiati negli anni Novanta e a
ragione, come già sostenuto da Anna Lia Ermeti, si ha “un quadro abbastanza
indicativo dei tipi ceramici in uso a Urbino e alla corte urbinate tra la fine del
XV e l’inizio del XVI secolo” definendo “uno dei pochi punti fermi per la cronologia
della ceramica pre-rinascimentale di Urbino e più generale italiana” 9 .
Allo stesso tempo si può a ragione anche ipotizzare una produzione locale di
certi prodotti vascolari, oltre che per le testimonianze d’archivio che attestano
l’attività di numerosi vasai 10 , soprattutto per la presenza di scarti di fornace,
binate. Cfr. L. Ottaviani, Le maioliche ducali riemerse dall’oblio, in: “Il Resto del Carlino”, 5 dic. 2008, Cronaca
di Urbino, p. XXV.
4 Cfr. P. Dal Poggetto, La Galleria Nazionale delle Marche e le altre Collezioni nel Palazzo Ducale di Urbino, Urbino,
Roma, 2003, pp. 319-380.
5 A. L. Ermeti, Maiolica a Urbino tra XV e XVI secolo, in: M. Giannatiempo Lopez (a cura di), Urbino Palazzo
Ducale. Testimonianze inedite della vita di corte, Milano, 1997, pp. 19-63.
6 Cfr. G. Bojani, Per un progetto sforzesco pesarese, in: “Ceramicantica”, a. XV, n. 2 (febbraio), Ferrara, 2005, pp.
6-9 (www.maiolichedelduca.it).
7 M. Cecconi, L. Lippera, Ceramiche restaurate, provenienti dai depositi di palazzo Ducale in Urbino, in: “Report. Rivista
dei Musei Civici di Pesaro”, n. 1 (febbraio), Firenze, 2005, pp. 61-83.
8 I materiali inediti che si pubblicano, furono esposti in occasione di una mostra tenutasi presso la Casa Natale
di Raffaello dal 21 gennaio al 3 febbraio 2008, grazie alla collaborazione dell’Associazione artisticoculturale
“Paolo Sgarzini” con l’Accademia Raffaello.
9 A. L. Ermeti, la maiolica a Urbino tra XV e XVI secolo. Il contributo dell’archeologia, in: “Report. Rivista dei Musei
Civici di Pesaro”, n. 1 (febbraio), Firenze, 2005, p. 35.
10 Cfr. F. Negroni, Ceramisti in Urbino nei secoli XIV-XV, in: “Faenza”, LXXX, 1-2, 1994, pp. 42-49.

frammenti di vetrina fusa, treppiedi distanziatori, forme in biscotto sia negli
scavi a Palazzo 11 che in altri siti della città 12 .
Tra i numerosi materiali rinvenuti, alcuni singolari reperti si distinguano per
qualità materica ed originalità decorativa: un piccolo frammento di tesa ascrivibile
ai primissimi anni del ’500 con racemi fioriti su fondo arancio (fig. I), due
frammenti di porta ceri (figg. II-III) e una coppa stemmata (fig. IV).
Figg. I e III
Urbino – Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
Di notevole interesse risultano i due porta ceri databili all’inizio del primo
quarto del Cinquecento, caratterizzati dalla dominante gamma cromatica blu
della superficie, nettamente in contrasto con la delicata decorazione realizzata
in soprabianco sul retro della tesa. Il frammento di porta cero più grande, conserva
parte della parete di un alto piede estroflesso su cui si innesta un’ampia
tesa decorata che corona una parte centrale sporgente, riconducibile
all’alloggiamento per una candela o alla base di uno stelo. Pur essendo molto
lacunoso, il frammento evidenzia una decorazione complessa: sulla tesa si
svolgono girali vegetali terminanti con corolle fogliate che cingono all’altezza
del busto sei putti dalla muscolatura ben definita (kalathos). Il fondale di color
blu intenso è delineato da una corona vegetale che sottolinea l’attaccatura
dello stelo. Il retro della tesa ha un decoro ad embricazione realizzato in soprabianco
delimitato all’altezza del collo del piede da un nastro reso in modo
prospettico entro filettatura dalle tonalità blu e gialle.
Il secondo frammento, correlandosi formalmente e cromaticamente a quello
precedentemente analizzato, si differenzia per l’inserimento di putti alati all’interno
di un racemo corrente sulla tesa. La decorazione di questi frammenti,
“in cui il gusto cromatico e la predilezione per l’inserimento di putti corpulenti
talora con la testa calva nell’impianto decorativo, può considerarsi un elemento
distintivo” 13 di una produzione molto vicina alla maniera di “Zoan
Maria”, è riferibile all’intero Ducato di Urbino nel primo quarto del XVI secolo.
La decorazione a putti e racemi classici a girali è da ricondurre plausibilmente
11 Cfr. G. Gardelli, La ceramica dai restauri in Palazzo Ducale, 1983-1985, in: M. L. Polichetti (a cura di), Il Palazzo
di Federico da Montefeltro, Urbino, 1985, pp. 643-697.
12 Cfr. A. L. Ermeti, La graffita “arcaica” ad Urbino e la transizione medioevo-rinascimento. Produzione locale e commercializzazione,
in: “Faenza”, LXXX, 5-6, 1994, pp. 201-238.
13 C. Paolinelli, Piatto con amorini e trofei…, in: T. Wilson, E. P. Sani (a cura di), Le maioliche rinascimentali nelle collezioni
della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, II, Perugia, 2007, p. 244.
49

50
ai motivi decorativi tratti dalle decorazioni architettoniche del Palazzo Ducale,
ispirate a loro volta dal classicismo della corte urbinate come già si è notato
in alcuni esemplari di particolare bellezza esposti nel 1997 e in alcuni inediti
frammenti in ubicazione sconosciuta 14 (figg. V-VII) o in eccezionali esemplari
musealizzati 15 (figg. VIII-IX). È da tener presente però che nell’intero ducato si
assisteva ad una sorta di koinè culturale e che quindi anche a Pesaro, come
Figg. II e IIa
Urbino – Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
testimoniano alcuni frammenti provenienti dal sottosuolo cittadino 16 , si realizzavano
oggetti raffinatissimi decorati con girali e foglie classiche 17 .
Gli altri frammenti di particolare pregio sono da riferirsi ad una piccola coppa,
con basso piede ad anello estroflesso e il fondo leggermente umbonato, con
dipinto al centro del cavetto entro filettatura uno stemma a cranio di cavallo
con albero di quercia su fondo blu, riconducibile alla famiglia dei Della Rovere,
molto probabilmente al Duca Francesco Maria I (1508-1538). Attorno
allo stemma si intravede un paesaggio con rupi e alberi oltre a nastri filiformi
svolazzanti. Lungo la parete della coppa si sviluppa una particolare decora-
14 Cfr. M. Moretti, A. Ciaroni, Rapporti tra maiolicari durantini e pesaresi nel Quattrocento: i Picchi e i Perusini, in:
A. Ciaroni, Maioliche del Quattrocento a Pesaro. Frammenti di storia dell’arte ceramica dalla bottega dei Fedeli, Firenze,
2004, pp. 89-95; cfr. G. Balla, Z. Jékely (edited by), The Dowry of Beatrice. Italian Maiolica Art and the
Court of King Matthias, Budapest, 2008, p. 154, n. 3.11.
15 Cfr. V. Tassi, Coppia di vasi biansati decorati a grottesca, in: M. Ratti, A. Marmori (direzione editoriale), Sculture
e oggetti d’arte. La Spezia Museo Civico Amedeo Lia, Cinisello Balsamo, 1999, pp. 202-204. Ringrazio il dottor
Andrea Marmori e la dottoressa Francesca Giorgi del Museo Civico “Amedeo Lia” per avermi permesso
di pubblicare le foto dei vasi nn. inv. C154/1, C154/2.
16 Cfr. T. Wilson, Some incunabula of istoriato-painting from Pesaro, in: “Faenza”, XCI, I-VI, 2005, pp. 8-24.
17 Come confronto si segnala il vaso globulare apparso ad un’asta di Sotheby’s a Londra, il 2 marzo 1993.
Cfr. L. Pasini Bragliani, Una legislazione meno penalizzante e più moderna per incrementare il mercato, in: “Ceramicantica”,
a. III, n. 3 (marzo), Ferrara, 1993, p. 67. Inolte si confrontino due vasi globulari nelle collezioni
del Museo Boijans Van Beuningen di Rotterdam: H. Vreeken, Kunstnijverheid Middeleeuwen en Renaissance/ decorative
Art Middle Ages and Renaissance, Afdeling Kunstnijverheid en Vormgeving/ Department of Applied
Arts and Design, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam, 1994, pp. 189-192.

Figg. IV, IVa e IVb
Urbino – Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
51

52
zione costituita da due cigni affrontati, dai lunghi colli sinuosi intrecciati e passanti
tra le zampe. Tra i volatili sono inserite piccole testine alate di cherubini
che intervallano un disegno simmetrico di cornucopie e decorazioni perlinate.
Sul retro la decorazione vede lungo tutta la parete una sorta di petal back realizzato
in sopra bianco con elementi vegetali, fiori di brionia ed inflorescenze
a tratti paralleli contornati da puntini e girali. Al centro del fondo una losanga
Fig. V
Ubicazione sconosciuta
lobata di color bruno con scacchiera interna è contornata da una doppia filettatura
in bruno e sopra bianco.
Anche le ceramiche provenienti dal Monastero di Santa Chiara 18 risultano
essere altrettanto eccezionali per qualità materica e caratteristiche formali,
dando la possibilità di conoscere tipologie vascolari di tipo conventuale
dal sec. XV al sec. XVII e contribuire anche a riscrivere la storia del monastero
e della sua comunità 19 . Tra i reperti più antichi, si segnalano quattro
frammenti in ceramica graffite quattrocentesca, da ricondurre probabilmente
ad una produzione locale, già attestata ad Urbino alla fine del XIV
secolo 20 (fig. A2).
Di importazione è sicuramente la piccola ciotola emisferica decorata a lustro
18 La prima segnalazione circa i materiali ceramici provenienti dal monastero si deve a Giuliana Gardelli. Cfr.
G. Gardelli, Caratteri della maiolica dello Stato di Uribno nel ‘500, in: Castelli e la maiolica cinquecentesca italiana, Atti
del Convegno Pescara 22-25 aprile 1989, Pescara, 1989, pp. 153-157.
19 L’analisi dei manufatti ceramici ha permesso di indagare con maggior precisione le vicende di diverse comunità
monastiche. Cfr. G. Busti, F. Cocchi, Antiche maioliche nel “butto” del monastero di Sant’Anna in Foligno,
in: E. Menestò ( a cura di), Le terziarie francescane della Beata Angelina: origine e spiritualità, Atti del Convegno di
Studi, Foligno, 13-15 luglio 1995, Spoleto, 1996, pp. 205-227; Le ceramiche del Monastero di Santa Rosa da Viterbo.
Catalogo delle ceramiche a cura della Società Archeologica Viterbese “Pro Ferento”, Viterbo, 2002; C. Paolinelli,
Ceramiche di Castelli del XVII e XVIII secolo a Mondolfo (PU) e Serra De’Conti (AN), in: “Castelli”, XV, n. 13, S.
Atto di Teramo, 2005, pp. 37-49.
20 Cfr. A. L. Ermeti, La “graffita arcaica” ad Urbino e la transizione medioevo-rinascimento. Produzione locale e commercializzazione,
in: “Faenza”, LXXX, 5-6, 1994, pp. 201-238; A. L. Ermeti, La ceramica graffita arcaica nelle
Marche settentrionali: appunti per una tipologia, in: La Céramique médiévale en Mediterraée, Actes du VI Congrès
de l’AIECM2, Aix-en-Provence 13-18 nov. 1995, Aix-en-Provence, 1997, pp. 453-457.

Figg. VI, VIa, VIIa, VII
Ubicazione sconosciuta
53

e di produzione spagnola ascrivibile alla seconda metà del XV secolo 21 (fig. A3)
che è da considerarsi una vera e propria eccezione nel panorama ceramico offerto
dal contesto monastico. Il decoro pur nella semplicità delle linee geometriche,
è distribuito a quartieri sulla parete, intervallando elementi fitomorfi
a bande parallele con losanghe intrecciate, mentre sul verso, il decoro sempre
a lustro metallico vede esili archetti inscrivere asterischi resi in modo cor-
Figg. VIII, VIIIa, IX e IXa
La Spezia – Museo Civico “Amedeo Lia”
sivo. La presenza di manufatti spagnoli decorati a lustro ritrovati anche in
Palazzo Ducale 22 , testimonia la circolazione di vasellame d’importazione 23 ed
evidenzia un’attenzione particolare nei confronti di una tecnica ceramica che
non tarderà ad essere imitata e riproposta anche con esiti eccezionali, nella
vicina città di Gubbio senza però escludere probabili tentativi di botteghe ur-
21 Cfr. P. Torre, Ceramiche ispano-moresche, in: Le Mille e una Notte. Ceramiche persiane, turche e ispano moresche, Faenza,
1990, pp. 177-227; Sicilia e la corona d’Aragona. Rotte mediterranee della ceramica, [s.l.], 1999, p. 412. Una ciotola
simile si conserva nella Galleria Nazionale delle Martche (inv. 1990 C. 41).
22 Cfr. www.mailochedelduca.it, inv. Urbino n. FRC C 646.
23 Il grande piatto a lustro che si conserva presso la Galleria Nazionale delle Marche fu rinvenuto a Pesaro. Cfr.
M. Moretti, La disputa sul lustro pesarese: Carlo Federico Bonini e Alessandro del Vita, in: A. Ciaroni, Maioliche del Quattrocento
a Pesaro. Frammenti di storia dell’arte ceramica dalla bottega dei Fedeli, Firenze, 2004, pp. 44-47, fig. 54.

inati 24 , come testimoniato da una piccola ciotola in collezione privata e da alcune
testimonianze documentarie 25 (fig. X).
Molti dei reperti in maiolica tardo quattrocentesca sono accomunati da uno
stesso repertorio decorativo costituito da elementi geometrici e fitomorfi, comuni
a gran parte dei materiali rinvenuti nella fascia nord adriatica delle Marche
e riconducibili per lo più alle stilizzazioni delle famiglie decorative note,
quali la foglia accartocciata, i decori italo-moreschi e la piuma di pavone (figg.
A4-A28). Tra gli esempi meglio conservati e ricostruiti con maestria troviamo
un piattello (fig. A21) decorato nel cavetto da una sorta di rosa dei venti stilizzata
e nella breve tesa da un originale motivo a foglia accartocciata corrente,
intervallata da lunghe inflorescenze e puntinature. Pur nelle forme ridotte
24 Cfr. G. Gardelli, Il problema dell’oro nelle maioliche metaurensi alla luce del Bando di Guidobaldo II Feltrio della Rovere
del 1569, in: VI Convegno della ceramica, Pennabilli, 1985, pp. 65-81; C. Fiocco, G. Gherardi, Mastro Giorgio,
il lustro di Gubbio e l’istoriato del Ducato di Urbino, in: G. C. Bojani (a cura di), La maiolica italiana del Cinquecento.
Il lustro eugubino e l’istoriato del ducato di Urbino, Atti del convegno Gubbio 21-23 sett. 1998, Firenze, 2002, pp.
61-68.
25 La piccola ciotola frammentaria, proveniente dai materiali di risulta di un cantiere in Via Raffaello ad
Urbino (2009), insieme a scarti di fornace, caselle e distanziatori, presenta evidenti difetti di cottura. Si po-

56
si evidenzia anche una piccola ciotola (fig. A22) decorata nel cavetto da una
corona di piume di pavone entro filettature arancio che racchiude una decorazione
radiale sempre realizzata con piume di pavone, accostabile per cromia
e ductus pittorico ad alcuni reperti emersi a Fano 26 e a Pesaro 27 . Tra gli altri
frammenti si ritrova una sola testimonianza di decorazione a racemo con fiorellini
di brionia, tipologia attestata principalmente a Pesaro 28 (fig. A11) e una
piccola porzione di piatto con decoro a girali graffiti su un’ampia fascia di
manganese, probabilmente da non attribuire al solo ambito derutese 29 (fig.
A12).
A caratterizzarsi per cromia e tipologia decorativa è un piccolo gruppo di frammenti,
sempre dell’ultimo quarto del XIV secolo, con il trigramma “IHS” inscritto
all’interno di raggiere o semplici filettature, realizzato in caratteri gotici
al centro del cavetto di alcune ciotole o sulla parete di alcuni boccali (figg.
A13-A17). La stessa simbologia è presente in altri manufatti ascrivibili a tutto
il XVI secolo (A37, A44-A47).
Tra questi frammenti è stato possibile ricostruire una piccola ciotola (fig.
A17), dalla struttura emisferica, che poggia su di un piede ad anello che si
caratterizza per la presenza di due anse contrapposte.
La decorazione vede al centro del cavetto il trigramma “IHS” sormontato da
una croce, simbolo diffuso tra i primi cristiani e formato dalle prime tre lettere
del nome di Gesù, in greco IH∑, che poi venne latinizzato in IHS. L’interpretazione
del trigramma con l’acronimo di Jesus Hominum Salvator
(Gesù Salvatore del Mondo), è successiva e si deve principalmente a San
Bernardino da Siena (1380-1444) che lo diffuse. Successivamente la Compagnia
di Gesù adottò dal 1540 il trigramma con l’aggiunta di tre chiodi a
trebbe trattare di una prova di colore e le analisi finora effettuate dalla dottoressa Giuseppina Padeletti dell’ISMN
(Istituto per lo Studio dei Materiali Monostrutturati) del CNR di Roma che ringrazio per la fattiva
collaborazione, accerterebbero la presenza di sali metallici necessari per la realizzazione del lustro. Già
Giuseppe Raffaelli segnalò un ritrovamento di frammenti ceramici con prove di lustro: G. Raffaelli, Memorie
istoriche delle maioliche lavorate in Castel Durante o sia Urbania compilate da Giuseppe Raffaelli, in: G. Vanzolini,
Istorie delle fabbriche di majoliche metaurensi e delle attinenti ad esse, v. 1, Pesaro, 1879, p, 121, nota 49: “Sono
del 1867 nel demolire nella contrada di Pontevecchio al n. 701 la casa Fontana per farvi la piazza dell’Erba,
appresso una delle tre scoperte fornaci si ritrovò in un rotto vasetto da pomata un Provino con 4 pennellate
d’oro, e 3 di Rubino il più bello”. In merito alla produzione del lustro nel territorio ducale, oltre al già
noto centro di Gubbio, si rimanda ad altri studi specifici: Cfr. E. Sannipoli, Frammenti a lustro con “foglie cordate”:
Pesaro, Deruta o Gubbio?, in “L’Eugubino”, LX, 2009, pp. 20-21; P. Piovaticci, Ancora sul lustro a Pesaro,
in: A. Ciaroni, Maioliche del Quattrocento a Pesaro. Frammenti di storia dell’arte ceramica dalla bottega dei Fedeli, Firenze,
2004, pp. 123-131.
26 Cfr. C. Paolinelli, Le ceramiche del Museo Civico di Fano: catalogo delle opere restaurate, in: C. Giardini (a cura di),
Maiolika-Kéramos. Ceramiche restaurate del Museo Civico dal XIV al XVII secolo, Fano, 2008, pp. 37-87, n. 11.
27 Cfr. P. Berardi, L’antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze, 1984, pp. 262-263, figg. 44, 46, 47.
28 Ibidem, p. 254, fig. 31.
29 Materiali con questa decorazione sono stati segnalati più volte sia ad Urbino (cfr. M. Cecconi, L. Lippera,
Ceramiche restaurate, provenienti dai depositi di palazzo Ducale in Urbino, in: “Report. Rivista dei Musei Civici di
Pesaro”, n. 1 (febbraio), Firenze, 2005, pp. 61-83, nn. 12,15) che a Fano (cfr. C. Paolinelli, Maioliche quattrocentesche
nel Museo Civico di Fano, Fano, 2003, pp. 70-71) e sembra difficile ascriverli alla sola produzione
derutese.

simboleggiare la Crocifissione 30 (fig. A47). Questo elemento decorativo, sovente
accostato ad una decorazione radiale con fiammelle, induce a ritenere
l’oggetto pertinente ad un uso conventuale anche se non è inconsueto rintracciare
anche ad Urbino pietre incise o rari esempi ceramici 31 (fig. XI) con
medesimo soggetto, a protezione di case e palazzi.
Altre simbologie religiose arricchiscono il repertorio decorativo dei materiali
Figg. X e Xa
Ubicazione sconosciuta
ceramici ed in particolare si evidenziano per accuratezza del tratto pittorico ed
originalità compositiva tre piccoli frammenti dai toni blu, uno con drago 32 (fig.
A19), uno con teschio (fig. A23) e l’altro con i simboli della passione di Cristo 33
(fig. A24). Quest’ultimo, pur nell’essenzialità delle linee e considerata anche la
ridotta superficie a disposizione trattandosi del cavetto di una piccola ciotola,
riesce a connotarsi per la immediata espressività. Al di sotto della croce sono
ancora ben visibili molti dei diciotto simboli della Passione: il guanto con il
quale Cristo fu schiaffeggiato nel Sinedrio; il catino utilizzato da Pilato per lavarsi
le mani; la corona di spine e i flagelli; la canna con la spugna imbevuta
d’aceto con la quale i soldati dissetarono Cristo; il gallo che cantò dopo che
Pietro rinnegò Cristo tre volte; il sacco con i dadi con cui fu tirata a sorte la tunica;
la colonna a cui fu legato Cristo per la flagellazione, con evidenti richiami
30 Per la simbologia si veda in merito il servizio apotecario di Novellara, cfr. C. Ravanelli Guidotti, La farmacia
dei Gesuiti di Novellara, Faenza, 1994.
31 Si conoscono esempi di targhe in maiolica con trigramma nella città di Fabriano (cfr. E. Mezzanotte Meloni,
M. Incerti Senigagliesi (a cura di), La maiolica rinascimentale a Fabriano, Fano, 1997, tavv. XXV-XXVIII)
e a Fano (www.mailochedelduca.it, inv. Fano n. C 452). Qui si presenta una targa in maiolica del XVI secolo,
in ubicazione sconosciuta. Si nota sul retro, dipinto in manganese sul biscotto uno stemma con salamandra
(?) ancora non identificato.
32 Il drago, realizzato con tratto deciso e miniaturistico, affronta un uomo di cui si intravede parte del profilo
con bocca aperta. Considerato il contesto, si potrebbe ricondurre il soggetto ad una rappresentazione
di San Giorgio oppure più verosimilmente attestare una delle più antiche iconografie di San Crescentino
patrono della città.
33 Per alcuni esempi, cfr. C. Leonardi (a cura di), La ceramica rinascimentale metaurense, Roma, 1982, p. 28, n. 6;
A. Bettini, La ceramica a Pesaro tra XIV e XVII secolo, in: G. C. Bojani (a cura di), Fatti di ceramica nelle Marche
dal Trecento al Novecento, Milano, 1997, pp. 31-95, figg. 32, 43.
57

58
a modelli architettonici coevi.
In gran parte i frammenti ceramici restituiti dai lavori di recupero del Monastero
sono da riferirsi a forme vascolari aperte quali tazze, ciotole, piatti e catini,
così si evidenziano in questo contesto i pochi frammenti di boccali utilizzati per
contenere acqua ed alcuni frammenti di albarelli. L’albarello è un vaso dalla
singolare forma ergonomica da ricondurre sovente ad un corredo farmaceutico
specie quando è presente un’indicazioni dipinta del contenuto o sigle
graffite al di sotto del piede, utili ad identificarne la misura di capacità. Non è
da escludere però che l’albarello, specie se di fattura meno accurata, venisse
utilizzato anche per la mensa quale contenitore per confetture, dolci e grasso
animale, come documentato da numerosi rappresentazioni pittoriche di ambientazione
domestica già dal XIV secolo e confermato dai ritrovamenti in Palazzo
Ducale.
Sono almeno tre gli albarelli a cui poter ricondurre alcuni frammenti significativi
per forma e decoro. Tralasciando un piccolo frammento con decori geometrici
blu di cui resta l’orlo e parte della spalla in cui si innesta l’attaccatura
di un’ansa ad anello, ancora in corso di restauro, è importante porre l’attenzione
su due piccoli frammenti pertinenti ad un unico oggetto di alta qualità
materica e pittorica ascrivibile alla fine del Quattrocento (fig. A28). La piccola
porzione di parete si caratterizza per avere una cordonatura a rilievo a coronamento
dell’attaccature con l’alto orlo superiore. La forma non ancora attestata
nel territorio ducale, trova confronto in albarelli della fine del XV secolo
di produzione faentina 34 . L’elegante decoro entro fascia perlinata con piume
di pavone alternate a nastri sovrapposti disposti ad arco anulato che inscrivono
elementi filiformi e puntinati ancora di gusto italo moresco, è confrontabile
con i decori della coeva produzione pesarese 35 . L’altro frammento di
albarello che si presenta (fig. A29) ha corpo cilindrico con lieve rastremazione
nella zona mediana ed è caratterizzato da una spalla carenata che termina
con alto colletto dall’orlo estroflesso, necessario per facilitare la chiusura del
contenitore con un lembo di stoffa o di pergamena. La superficie è decorata
da fasce parallele con festoni e tralci vegetali con una cromia predominante
dei toni dell’azzurro accostabile alle produzioni urbinati e dell’intero ducato
del primo quarto del XVI secolo.
Ai primissimi anni del XVI secolo è da riferirsi un piccolo frammento di piattello
con ampia tesa e profondo cavetto, di appena sette centimetri di larghezza
massima, che si caratterizza per l’unicità del decoro, costituito da un mascherone
da cui dipartono racemi ed inflorescenze (fig. A30). La raffinata stesura
delle cromie azzurre e verdi, contrastanti con il fondo giallo intenso,
34 Cfr. J. V. G. Mallet, Un calamaio in maiolica a Boston, in: “Faenza”, LXII, IV, 1976, pp. 79-82, tav. XXVI; C.
Ravanelli Guidotti, Delle gentili donne di Faenza. Studio del “ritratto” sulla ceramica faentina del Rinascimento, Montorio,
2000, p. 82, fig. 43, p. 179, fig. 19.
35 Cfr. A. Ciaroni, Maioliche del Quattrocento a Pesaro. Frammenti di storia dell’arte ceramica dalla bottega dei Fedeli, Firenze,
2004, p. 75, n. 93.

Figg. XI e XIa
Ubicazione sconosciuta
59

60
riconduce questa piccola porzione di piattello alle più prestigiose produzioni
urbinati dei primi anni del ’500, influenzate dal classicismo colto della corte ducale
di cui già si è detto precedentemente per i frammenti rinvenuti in Palazzo
Ducale.
Con un ductus pittorico altrettanto raffinato si evidenzia un frammento di piatto
decorato alla porcellana in cui tra calligrafiche foglioline contornate di azzurro
Fig. XII
Fano – Museo Civico (depositi)
si staglia un uccello acquatico dipinto con resa naturalistica (fig. A31). Questa
tipologia decorativa rintracciabile già dal primo decennio del XVI secolo
negli esemplari più raffinati e accurati nell’esecuzione, resta in uso fino a tutta
la seconda metà del Cinquecento con soluzioni più corsive come documentano
altri frammenti e ciotole ricostruite quasi nella loro totalità (figg. A32-A37).
Risultano di grande interesse i due piatti decorati con foglie disposte in modo
radiale e binate, su fondo bianco o azzurrato (figg. A49-A50). Questa tipologia
ceramica finora poco attestata e studiata, rintracciata anche a Fano 36 (fig.
XII), rappresenta una singolare composizione di stilemi tardo rinascimentali
probabilmente di matrice locale, che poi si ritroverà con elaborazioni più corsive
nelle decorazioni dette a fogliami nel corso del XVII secolo, in cui non è
difficile rintracciare le stesse tonalità o la partizione cromatica delle foglie.
Questi due eccezionali manufatti saranno di sicuro riferimento per l’analisi di
una tipologia ancora poco indagata. Altrettanto importanti si sono rivelati i
frammenti di ceramica compendiaria in quanto hanno restituito un grande
piatto, gemello ad un altro molto frammentario, in cui campeggia al centro la
figura di Santa Caterina d’Alessandria (fig. A52). Decorare con emblemi,
stemmi, piccoli motivi vegetali e zoomorfi o santi il centro di oggetti caratterizzati
da smalto bianco e brillante è tipico di una produzione tardo cinquecentesca
nota con il nome di compendiaria, in voga per tutto il secolo
36 Si ringrazia la dottoressa Raffaella Pozzi, direttrice del Museo Civico di Fano, per aver permesso la riproduzione
del frammento inedito conservato nei depositi.

successivo. Lo stile decorativo compendiario, ebbe a diffondersi in Italia e in
Europa già dalla metà del secolo XVI e fu l’ultima espressione veramente autonoma
della ceramica faentina che grazie ad una capillare diffusione influenzò
anche le botteghe metaurensi a cui è riferibile il piatto urbinate 37 . I così detti
“bianchi” di Faenza ebbero grande risonanza e notorietà tanto da essere richiesti
per le tavole delle famiglie nobili più prestigiose d’Italia. Alcuni vasai pesaresi
nel 1552 richiesero addirittura alle autorità cittadine un protezionistico
divieto di importazione per queste ceramiche ricordate come li bianchi di Faenza.
Dalla seconda metà del Cinquecento si sviluppò la committenza di
grandi credenze stemmate sia da parte di nobili famiglie ma anche di prelati.
Nelle credenze trovava posto spesso il piatto da pompa, un grande bacile
bianco con dipinto uno stemma nel cavetto, utilizzato principalmente per fini
ostensivi. Più di ogni altro decoro ceramico precedente, i bianchi faentini e
con essi lo stile compendiario in genere, si inserirono in un fenomeno anche
emulativo divenuto una vera e propria moda tendente a rinunciare al tradizionale
cromatismo per lasciar spazio alla forma. L’esemplare restituito in questa
occasione è di probabile produzione locale anche se ancora resta difficile
distinguere con esattezza le peculiarità decorative, specie delle ghirlande, rinvenute
in diversi frammenti in tutto il ducato di Urbino.
Sempre di carattere religioso risulta essere il grande frammento di piatto istoriato
(fig. A53), rappresentante una crocifissione, esempio mirabile di una maiolica
ancora vivace nei toni sfumati e dal tratto elegante, segno di una
tradizione che nella seconda metà del ‘500 ancora vede raggiungere risultati
d’eccellenza.
Con la fine del Cinquecento anche i manufatti ceramici conventuali più umili
vedono un impoverimento dei decori e degli smalti, come si può notare in alcune
ciotole con semplici filettature gialle e azzurre a sottolineare l’orlo ed elementari
simbologie cristiane come i tre monti sormontati da croce affiancati
da iniziali 38 (figg. A54-A55). Alcune iniziali graffite al di sotto dei manufatti testimoniano
l’appartenenza dell’oggetto alle singole monache che sovente riutilizzavano
materiali già presenti in convento 39 . Sempre riferibili alla fine del
secolo XVI e ai primi anni del XVII secolo, sono le numerose ciotole acrome,
di cui solo due vengono riproposte con lievi integrazioni, a testimonianza di
una tipologia diffusa e di probabile produzione locale (figg. A59, A60). Anche
la semplificazione di alcuni decori a raggiera e a bande parallele presenti in
due grandi catini (figg. A57-A58) sembra testimoniare la sempre più corsiva
produzione di un genere vascolare di largo uso e probabilmente anche pro-
37 Si segnalano due ciotole compendiarie con Santa Caterina d’Alessandria provenienti dal Monastero di Santa
Chiara coonservate presso la Galleria Nazionale delle Marche. Cfr. R. Gresta, I “bianchi” marchigiani, in: V.
De Pompeis (a cura di), La maiolica italiana di stile compendiario. I bianchi, Torino, 2010, pp. 61-69, 172-173.
38 Cfr. G. Batini, Tazze conventuali, in: Omaggio al collezionismo. Ceramica sacro e profano, Monte San Savino, 1989,
pp. 85-95.
39 Cfr. S. Gelichi (a cura di), Ceramiche e arredi monacali in epoca moderna, Atti del Convegno Finale Emilia 1 ott.
1998, in: “Archeologia Postmedievale”, 5, 2001, pp. 11-118.
61

62
dotto internamente al monastero 40 .
Significativo per quantità e valenza storica risulta essere il corpus di ciotole,
formato da alcune decine di manufatti ancora in corso di verifica e assemblaggio,
di cui in questa occasione si presentano le diverse tipologie decorative
rintracciate (figg. A61-A78). Le ciotole si caratterizzano per avere una
comune indicazione, i numeri “V” “I”, da riferirsi a Francesco Maria II della Rovere
(1574-1631), sesto duca in ordine di successione. In alcuni casi la cifra
risulta invertita o accompagnata da altre lettere e se assenti, compare la lettera
“F”, evidente richiamo al nome del duca. Le decorazioni che campeggiano
all’interno del cavetto vedono principalmente un ramo fiorito con
campanule, nei toni dell’azzurro, ma sono presenti anche altre inflorescenze,
un ramo con pomo, un arbusto verde e una rovere 41 . Sembra plausibile l’ipotesi
che un così elevato numero di ciotole con richiami rovereschi, sia da ricondurre
ad un avvenimento significativo per Urbino e l’intero ducato. Il
servizio di ciotole per il Monastero di Santa Chiara potrebbe essere stato
commissionato o in occasione delle nozze di Francesco Maria II con la cugina
Livia Della Rovere avvenute nel 1599 o in occasione della nascita dell’erede
Guidobaldo Della Rovere avvenuta nel 1605. La presenza di un
reperto ceramico simile con la data “1608” tra i materiali rinvenuti negli anni
passati e già esposti nella Galleria Nazionale delle Marche ha fatto propendere
altri studiosi ad avvicinare l’esecuzione del vasellame all’anno della nascita
dell’erede ducale 42 .
In questa occasione si è voluto riportar in luce il patrimonio ceramico più significativo,
legato ad una tradizione che ha fatto di Urbino e del suo Ducato
la culla della maiolica rinascimentale ma non è da escludere a future indagini
il grande patrimonio ceramico costituito dalle terrecotte d’uso, segno tangibile
di una tradizione vascolare considerata purtroppo “minore”, ma che è
stata prodotta con soluzione di continuità fino al secondo Novecento. “Cfr.
G. Volpe, Sulle tracce dei vasai. Laboratori, fornaci, artigiani, mercati tra Metauro
e Cesano, Fano, 2008”.
La piccola pentola da fuoco che si presenta a conclusione della rassegna (fig.
A79), con corpo ovoidale ed ansa a nastro, risulta essere una delle forme più
comuni ed è nota nelle varianti tardo cinquecentesche anche invetriata, con
40 Grazie alle testimonianze di chi ha lavorato negli ultimi anni alla ristrutturazione dell’intera area conventuale,
si segnalano alcune fornaci nell’area adiacente la chiesa ed alcune vasche, forse di decantazione,
nell’area degli orti. Pur nell’impossibilità di verificare quanto riportato non sembra improbabile, visti gli
scarti di lavorazione ricordati, che all’interno del convento ci si adoperasse autonomamente a realizzare
vasellame pur di scarsa qualità materica ma di largo uso.
41 Un piattello simile con emblema roveresco è stato rinvenuto a Pesaro. Cfr. R. Gresta, Piattello, in: P. Dal
Poggetto, B. Montevecchi (a cura di), Gli ultimi Della Rovere. Il crepuscolo del Ducato di Urbino. In occasione di due
importanti acquisti, I, Urbino, 2000, pp. 90-91.
42 Cfr. R. Gresta, Il passaggio della maiolica pesarese dal Cinquecento al Seicento, in: Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo,
v. IV2, Venezia, 2009, pp. 201-250 (p.207, p. 225, figg. 2,44).
43 Cfr. W. Monacchi, Documenti materiali della vita di Palazzo, in: M. Giannatiempo Lopez (a cura di), Urbino Palazzo
Ducale. Testimonianze inedite della vita di corte, Milano, 1997, pp. 77-99, n. 48.

ansa a torciglione e talvolta decorata con semplici incisioni di carattere geometrico
realizzate a crudo o con colature di ingobbio 43 .
Questa tipologia di vasellame destinato alla cottura dei cibi, si presenta spesso
con un impasto colorato, poroso e ricco di inclusi grossolani necessari per
ottenere un’elevata conducibilità termica ed una buona resistenza allo shock
termico, conferendo al vasellame particolari proprietà pirofile. La cottura dei
Fig. XIII a
Istituto Superiore per le Industrie Artistiche –Urbino
Fig. XIII b
Urbino – Galleria Nazionale delle Marche (depositi)
cibi doveva avvenire a riverbero cioè posizionando la pentola sul piano del focolare
accanto alla fonte di calore. Il prolungato utilizzo delle pentole da fuoco
per la cottura specie di minestre e zuppe rendeva facilmente deperibili questo
tipo di oggetti che a causa della porosità delle pareti tendeva ad assorbire
i liquidi causando l’alterazione dei cibi. Essendo quindi vasellame di largo uso
e allo stesso tempo di facile reperibilità non è da escludere che una volta dismesso
dalle cucine venisse utilizzato come contenitore per piante dopo aver
forato il piede, necessario per il drenaggio dell’acqua 44 .
Infine si segnala tra i materiali fittili una piccola statuetta acefala (fig. XIIIa),
44 Cfr. C. Paolinelli, Pentola, in: E. Daffra (a cura di), Crivelli e Brera, Milano, 2009, p. 198.
63

64
modellata in modo elementare e probabilmente coeva ai frammenti vascolari
tardo cinquecenteschi, rappresentante la Vergine con il Bambino e decorata
a freddo. Alcuni frammenti di oggetti simili sono stati ritrovati anche a Palazzo
Ducale 45 e sebbene presentino stilemi più arcaici sembrano essere realizzati
a stampo, testimoniando una produzione seriale di manufatti dall’uso prettamente
devozionale (fig. XIIIb).
45 Alcuni stampi in gesso di figure panneggiate simili a quella inedita che si presenta, sono stati ritrovati nel
1992. Cfr. W. Monacchi, Documenti materiali della vita di Palazzo, in: M. Giannatiempo Lopez (a cura di), Urbino
Palazzo Ducale. Testimonianze inedite della vita di corte, Milano, 1997, pp. 87-88, n. 33-34.

CATALOGO

Fig. A2
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Fig. A3
Fig. A3b

Fig. A4
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Fig. A5 Fig. A6
Fig. A7 Fig. A8
Fig. A9 Fig. A10

Fig. A11
Fig. A12
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Fig. A13
Fig. A17
Fig. A14
Fig. A15 Fig. A16

Fig. A18
Fig. A19
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Fig. A20

Fig. A21
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Fig. A22

Fig. A23 Fig. A25
Fig. A26 Fig. A27
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Fig. A28
Fig. A29

Fig. A30
Fig. A30b
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Fig. A31 Fig. A32
Fig. A33 Fig. A34

Fig. A35
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Fig. A38 Fig. A39
Fig. A40 Fig. A42

Fig. A44 Fig. A45
Fig. A46 Fig. A47
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Fig. A49

Fig. A50
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Fig. A52

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Fig. A54
Fig. A55

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Fig. A58

Fig. A59
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Fig. A61
Fig. A62

Fig. A63
Fig. A65
Fig. A64
Fig. A66
Fig. A67 Fig. A68
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Fig. A69
Fig. A70

Fig. A71 Fig. A76
Fig. A73 Fig. A74
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Fig. A75

Fig. A77
Fig. A78
97

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Fig. A79

Frammenti ceramici da Urbino, secc. XV-XVI – Ubicazione sconosciuta
99

100
Frammenti ceramici da Urbino, secc. XV-XVI – Ubicazione sconosciuta

Frammenti ceramici da Urbino, secc. XV-XVI – Ubicazione sconosciuta
101

102
Piatto in maiolica, Castelli d’Abruzzo, XVIII sec.
Monastero di Santa Chiara - Urbino

CATALOGO
A cura di
Agnese Vastano
Testi di
Silvano Bracci
M .Benedetta Fazi
Alessandro Marchi
Claudio Paolinelli
Andrea Pierleoni
Agnese Vastano
Restauri
Andrea Pierleoni
M. Benedetta Fazi
Bruno Vittorini
Si ringraziano tutti coloro che hanno contribuito
alla realizzazione del catalogo e della mostra, in particolare
La Madre Superiora del Convento delle Clarisse di Urbino
Il personale dell’ISIA
Roberto Galvani e i suoi collaboratori
Claudia Bernardini
Piergiorgio Budassi
Oscar Della Betta
Francesco De Luca
Vittoria Garibaldi
Silvia Gilebbi
Francesca Giorni
Andrea Marmori
Mauro Paolini
Raffaella Pozzi
Maria Rosaria Valazzi
Valentino Violini
MOSTRA
Urbino, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche
Ex chiesa di Santa Chiara
13 novembre – 6 gennaio 2011
A cura di
Agnese Vastano
Soprindendenza per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici delle Marche - Urbino
con la collaborazione di Claudio Paolinelli
Allestimento
Rino Duranti
Adreano Pierleoni
Beniamina Marchionni
Dolores Longhi
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici delle Marche -Urbino
Progetto grafico e stampa
Grafica Vadese

Finito di stampare
nel mese di novembre 2010
dalla Tipo-Litografia Grafica Vadese
Sant’Angelo in Vado (PU)