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Il ‘fenomeno elementare’<br />

e gli esordi psicotici<br />

MARCO ALESSANDRINI 1 , MASSIMO DI GIANNANTONIO 2<br />

1 Psichiatra, psicoterapeuta, Docente Scuola<br />

Specializzazione in Psichiatria, Università di Chieti,<br />

Responsabile attività territoriale del CSM della Asl di Chieti<br />

2 Psichiatra, Professore associato Facoltà di Psicologia, Università di Chieti<br />

Responsabile del CSM della Asl di Chieti<br />

RIASSUNTO<br />

La questione del ‘fenomeno elementare’, il primum movens della psicosi, è un tema<br />

ricorrente della storia della psichiatria. Sia nella tradizione psichiatrica francese che<br />

in quella tedesca, da Esquirol a Eugen e Manfred Bleuler, a De Clérambault e Lacan,<br />

il momento iniziale della psicosi è stato individuato sotto due aspetti: come un meccanismo<br />

invariante, sempre identico per ogni paziente, oppure all’opposto come un<br />

processo soggettivo e variabile, provvisto di caratteristiche strettamente individuali.<br />

I dati più recenti – per esempio la ricerca clinica riguardante i ‘sintomi di base’ –<br />

esaminano i sintomi precoci tramite un approccio oggettivo. È tuttavia necessario<br />

includere gli aspetti individuali e psicologici, perché la prima fase della malattia è<br />

certamente uguale per tutti i pazienti, ma è anche ogni volta diversa. Infatti un<br />

‘nucleo emotivo’ individuale plasma il fenomeno elementare in forma ogni volta differente<br />

e soggettiva.<br />

Parole chiave: fenomeno elementare, esordio psicotico, nucleo emotivo, sintomi-base.<br />

SUMMARY<br />

The question of the ‘elementary phenomenon’, the primum movens of psychosis, is a<br />

recurring theme in the history of psychiatry. Both in French and in German psychiatric<br />

tradition, from Esquirol to Eugen and Manfred Bleuler, to De Clérambault and<br />

Lacan, the first moment of psychosis has been traced in at least two ways: as an<br />

invariable process, always the same for every patient, or otherwise as a subjective<br />

and changeable process, with strictly individual features. All more recent data – for<br />

example the clinical research about the ‘basic symptoms’ – relate to early symptoms<br />

through a very objective approach. <strong>It</strong> is yet necessary to include individual and psychological<br />

traits, because the first phase of the illness is surely the same for every<br />

patient, but it is every time different too. In fact, an individual ‘emotional core’<br />

moulds the elementary phenomenon in a way every time different and subjective.<br />

Key words: elementary phenomenon, onset of psychosis, emotional core, basicsymptoms.<br />

Indirizzo per la corrispondenza: Marco Alessandrini, Cattedra di Psichiatria, Centro di Salute Mentale,<br />

Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti. Tel. 0871 358908, Fax 0871 358923; e-mail: dipsalutement@interfree.it<br />

ESORDI PSICOTICI (PARTE I)<br />

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IL ‘FENOMENO ELEMENTARE’<br />

E GLI ESORDI PSICOTICI<br />

INTRODUZIONE<br />

Il primo capitolo di Inferno, l’opera autobiografica scritta nel 1897 da August<br />

Strindberg (1849-1912), testimonianza di un disturbo delirante i cui punti<br />

critici, per giudizio concorde dei due psicopatologi Jaspers e Binswanger 1,2 ,<br />

sono il 1887 e il 1898, si intitola La mano dell’invisibile 3 . Questa definizione<br />

è suggestiva e pertinente, perché il primum movens di un’esperienza psicotica,<br />

o se si vuole il momento causale del suo esordio, se paragonato a una<br />

‘mano’ è una evidente, tangibile spinta alla mutazione, eppure resta contemporaneamente,<br />

in quanto ‘invisibile’, sempre difficilmente individuabile, non<br />

tangibile.<br />

Analogamente, la psicopatologia si interroga da sempre, e soprattutto a partire<br />

dal Des maladies mentales di Esquirol 4 , sul cosiddetto ‘fenomeno elementare’,<br />

il primum movens di una determinata psicosi. Essa tuttavia ne ha fornito<br />

definizioni tanto numerose da far sì che questo momento di innesco, per<br />

quanto la sua realtà sia molto evidente, conservi una conformazione multiforme<br />

e non definibile 5-8 .<br />

Certo non è cosa da poco già suggerire che in questo modo il sapere psicopatologico<br />

quasi ricalca, in maniera inconsapevole, lo stesso coincidere di certezza<br />

e confusione, di assolutezza e relatività, di cui la persona in esordio<br />

psicotico è portatrice. Ma ancora più importante, oggi, è interrogare la mole<br />

dei dati per rispondere a una domanda conseguente e cruciale: gli esordi psicotici<br />

sono causati da un fenomeno elementare unico, sempre identico in<br />

ogni persona, che poi da subito si riveste di contenuti individuali diversi che<br />

lo orientano verso differenti evoluzioni? Oppure è esso stesso, per ciascuna<br />

persona, già soggettivo e perciò ab initio ogni volta diverso?<br />

In altri termini, si tratta di sapere se l’innesco di una psicosi, il suo primum<br />

movens, ha caratteri fin dall’inizio soggettivi, ed è quindi eterogeneo da persona<br />

a persona, o se invece le diversità vi si aggiungono, anche da subito ma<br />

pur sempre come reazione di adattamento da parte del soggetto, come successiva<br />

e individuale modalità di coping.<br />

È anche possibile una terza ipotesi, ed è quella proposta dal presente articolo.<br />

L’esordio di una esperienza psicotica, con le micro-tappe e i fenomeni<br />

che lo scandiscono, è un meccanismo sostanzialmente identico in ogni persona,<br />

una modalità invariante di risposta. Tuttavia, proprio in quanto si tratta di<br />

una risposta, si rivolge ad un interno nucleo emotivo che è invece soggettivo,<br />

o comunque impregnato di soggettività. In questa prospettiva si può perciò<br />

dire che l’esordio psicotico scaturisce da un meccanismo per chiunque identico,<br />

tuttavia di per sé sempre diverso perché reattivo nei confronti di un<br />

nucleo emotivo a forte determinazione soggettiva.<br />

Nonostante le apparenze, una simile interrogazione non ha solo risvolti teorici,<br />

bensì prima ancora clinici, perché la sua soluzione permette sia di comprendere<br />

in che cosa consiste un esordio psicotico, qual è il suo momento<br />

generatore, sia di porre in atto una terapia e una prevenzione mirate. Si impone<br />

pertanto un riesame di alcune tra le più rilevanti concezioni psicopatologiche<br />

relative al fenomeno elementare, il primum movens delle psicosi, vale a<br />

dire il momento causale del loro esordire.


MECCANISMO SOGGETTIVO O NON SOGGETTIVO?<br />

Nella psicopatologia francese il fenomeno elementare delle psicosi, loro momento<br />

causale, è stato innanzitutto identificato con l’allucinazione. Esquirol, nel già<br />

citato Des maladies mentales, è stato il primo a delimitare con precisione il fenomeno<br />

allucinatorio definendolo ‘percezione senza oggetto’ 9,10 . Questa nozione<br />

ha attraversato per 150 anni la psichiatria trasmettendosi immutata da un autore<br />

all’altro, con l’eccezione di Henri Ey che vi ha aggiunto una sua chiosa, specificando<br />

che l’allucinazione è una ‘percezione senza oggetto da percepire’ 11 .<br />

In realtà, a ridosso di Esquirol, già Jules Baillarger, e ancora di più Jules<br />

Séglas, hanno sostenuto che l’allucinazione è sì un aspetto del fenomeno elementare,<br />

tuttavia non il primo cronologicamente, e perciò neppure il più essenziale.<br />

Infatti, nel 1950 Séglas affermerà che il soggetto in preda ad allucinazioni<br />

articola egli stesso le parole – o meglio le ‘voci’ – che afferma di udire 12 .<br />

Dunque in questo caso il vero fenomeno elementare sarebbe una sorta di alterato<br />

procedimento linguistico, in pratica un inconsapevole uso abnorme, allucinatorio<br />

del linguaggio.<br />

Peraltro, prima di proporre questa ipotesi Séglas ne aveva sostenuta un’altra,<br />

mutuandola da Theodor Meynert. Quest’ultimo, che fu anche tra i maestri del<br />

giovane Freud, sulla scorta del proprio orientamento neuropatologico e della<br />

teoria delle localizzazioni cerebrali sostenne che il primum movens delle allucinazioni,<br />

e quindi il vero fenomeno elementare, è l’eccitamento di una precisa<br />

zona cerebrale, per l’esattezza delle aree di Broca e di Wernicke 13 . Questa teoria<br />

si rivelò presto non vera, ma riecheggia comunque un orientamento di fondo<br />

che ricompare tuttora nelle teorie esplicative cosiddette organiciste.<br />

A partire quindi dalla definizione formulata da Esquirol per le allucinazioni, il<br />

dibattito relativo al fenomeno elementare delle psicosi ha da subito tentato di<br />

risalire a monte delle sole manifestazioni dispercettive, mostrando però una fondamentale<br />

oscillazione concettuale. Da una parte, teorie come quella di Séglas<br />

postulano non solo, o non tanto, un meccanismo causale di tipo psichico, quanto<br />

un meccanismo legato ab initio alla soggettività, alla mente individuale e ai<br />

suoi percorsi. Dall’altra parte, teorie come quella di Meynert postulano non<br />

solo, o non tanto, un meccanismo causale di tipo organico, quanto legato ab initio<br />

ad un substrato impersonale, non soggettivo, identico in tutti gli individui a<br />

prescindere dalle loro personali storie di vita e ai soggettivi percorsi mentali.<br />

Bisogna però anche sottolineare che la contrapposizione tra questi orientamenti,<br />

esemplificata da queste due opposte teorie, è talvolta ricomparsa all’interno di<br />

un’unica teoria, la quale in quel caso, per così dire, ha affiancato entrambe le<br />

prospettive proponendo una precisa soluzione concettuale. È quanto per esempio<br />

accade nella teoria proposta da De Clérambault.<br />

DE CLÉRAMBAULT: IN PRINCIPIO È IL VUOTO<br />

Sempre prendendo le mosse da Esquirol, anche se per distanziarsene, la psicopatologia,<br />

oltre che sulle allucinazioni, si è interrogata riguardo al delirio.<br />

In particolare è noto che la psichiatria, soprattutto di scuola francese, ha lun-<br />

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gamente ruotato attorno all’entità denominata ‘delirio allucinatorio cronico’,<br />

un gruppo di psicosi che non sarebbero né paranoiche né schizofreniche, e a<br />

cui semmai potrebbe corrispondere, sebbene parzialmente, la nozione tedesca<br />

di ‘parafrenia’, che Kraepelin ha coniato 14-16 forse proprio in risposta alle<br />

insistenti teorie francofone 17-20 .<br />

Di fatto è stato Valentin Magnan a parlare per la prima volta in forma dettagliata<br />

di questa entità clinica, sostenendo che il ‘delirio cronico a evoluzione<br />

sistematica’ progredisce in quattro tempi. A questo proposito è fondamentale<br />

rilevare che secondo questa concezione, e in particolare in uno scritto di<br />

Magnan del 1892 21 , il primo tempo, detto ‘periodo di incubazione’, comporta<br />

dapprima “malessere, crescente inquietudine, supposizioni, idee vaghe di<br />

persecuzione”, poi “illusioni e interpretazioni deliranti”, infine “allucinazioni<br />

dell’udito”. Con quest’ultimo fenomeno, secondo Magnan, si entra tuttavia<br />

già nel secondo tempo di questa entità clinica, caratterizzato appunto dall’insieme<br />

dei fenomeni allucinatori ma anche dal vero e proprio delirio di persecuzione.<br />

Ebbene, sulla scia di una simile concezione è evidente l’orientamento secondo<br />

cui il delirio precede l’allucinazione, o meglio, secondo cui gli spunti ideativi<br />

persecutori, e non il delirio vero e proprio, sarebbero antecedenti e causali<br />

rispetto ai fenomeni allucinatori 22-24 . La questione è complessa ma in realtà,<br />

al di là dello stabilire se nella progressione degli esordi psicotici il delirio precede<br />

l’allucinazione o viceversa, già nella suddetta descrizione proposta da<br />

Magnan viene riconosciuto come ancora più primario, o comunque come ben<br />

distinto, uno stato di malessere, di imprecisata inquietudine. Si tratterebbe<br />

insomma, volendolo considerare come il vero fenomeno elementare, di una<br />

sorta di ‘terza area’ realmente primaria, caratterizzata non da un sintomo<br />

‘positivo’, sia questo il delirio o l’allucinazione, ma da un sintomo ‘negativo’,<br />

appunto la condizione di vago, indefinibile malessere. Inoltre, a quanto annota<br />

Magnan, questo malessere risulterebbe insieme psichico e somatico.<br />

Agli inizi del Novecento, Gaëtan Gatian de Clérambault ricondurrà esplicitamente<br />

il fenomeno elementare delle psicosi a questa terza area, coniando la<br />

sua celebre nozione di automatismo mentale 25 . In effetti De Clérambault<br />

lavorò presso l’Infermeria Speciale della Questura di Parigi, trovandosi perciò<br />

costretto a esaminare pazienti soltanto in fase acuta, spesso in esordio e<br />

unicamente per un breve periodo. Egli poté quindi adottare un criterio analitico,<br />

sostituendolo all’approccio kraepeliniano, attento invece al criterio evolutivo<br />

fondato sull’osservazione dei decorsi effettuata a lungo termine.<br />

Soprattutto, De Clérambault scompone la nozione di ‘delirio allucinatorio<br />

cronico’ differenziando, ben più di quanto non avesse fatto Magnan, il delirio<br />

dalle allucinazioni, e sostenendo, in opposizione a questo autore, che l’allucinazione<br />

precede il delirio 26 . E non solo. Per De Clérambault le allucinazioni<br />

sarebbero a loro volta un fenomeno derivato e perciò già grossolano.<br />

Egli infatti distingue, quale primum movens delle psicosi, un ‘piccolo automatismo<br />

mentale’, vero stadio iniziale, e un ‘grande automatismo mentale’,<br />

quest’ultimo articolato in una triade di fenomeni – ideo-verbali, sensoriali,<br />

psicomotori. Pertanto solo questa triade, di per sé tardiva, implicherebbe<br />

fenomeni allucinatori.


Ai fini del nostro discorso l’importante è però rilevare che per De Clérambault<br />

l’automatismo nel suo primo innesco, e quindi in quanto ‘piccolo automatismo’,<br />

è una turba di natura anideica e anaffettiva, un’alterazione neutra e<br />

appunto automatica, che coglie di sorpresa il soggetto e che rapidamente, ma<br />

solo in un secondo tempo, può evolvere nei sintomi ben più conclamati del<br />

‘grande automatismo’, comprendenti le allucinazioni.<br />

Perciò solo nello stadio del ‘grande automatismo’ il soggetto ode voci che<br />

dicono frasi assurde o incomplete, oppure ode semplici rumori, o vede strane<br />

immagini che invadono la mente, o è spinto a compiere atti o movimenti che<br />

non aveva intenzione di eseguire, o ancora ode che ciò che lui dice viene ripetuto<br />

all’esterno o viene commentato. Questi e altri sintomi, per la verità, ancora<br />

mantengono buona parte della natura impersonale e meccanica già connaturata<br />

al ‘piccolo automatismo’, tanto è vero che si impongono al soggetto<br />

come se provenissero dall’esterno. E comunque soltanto a quel punto, e quindi<br />

ancora più secondariamente quale ulteriore evoluzione, il delirio comparirebbe<br />

come pura reazione soggettiva, tentativo da parte del soggetto, in base<br />

alla sua cultura e alle sue vicende di vita, di dare spiegazione e contenuto a<br />

questo impersonale e inesplicabile insieme di fenomeni 27 . In sintesi, secondo<br />

questa teoria solo nel delirio la soggettività farebbe la sua vera comparsa.<br />

D’altronde De Clérambault sostiene, quale movente del già impersonale e<br />

non soggettivo ‘piccolo automatismo’, un ancora più impersonale fondamento<br />

organico, per l’esattezza cerebrale, tale da definire ancor più come identico<br />

per ogni individuo il fenomeno elementare. Questo autore infatti afferma<br />

che “l’organizzazione automatica è un risultato naturale della costituzione<br />

cerebrale” 28 , un meccanismo invariante uguale in tutti i soggetti, articolato<br />

solo secondariamente secondo il ‘piccolo automatismo’, a sua volta seguito<br />

dal ‘grande automatismo’. Il delirio, bisogna ribadirlo, secondo questa concezione<br />

è soltanto una risposta ulteriore e finale, questa sì legata alla personalità<br />

del soggetto, e perciò l’unica ad essere realmente diversa da una persona<br />

all’altra. Il delirio infatti varierebbe, soprattutto quanto ai contenuti, in<br />

base alle individuali vicende di vita e alla soggettività affettiva.<br />

Un altro aspetto è essenziale: nel parlare del ‘piccolo automatismo’, vale a<br />

dire del primo dei fenomeni elementari clinicamente apprezzabili, questo<br />

autore lo riconduce a specifici vissuti, l’‘estraneità’ e il ‘vuoto del pensiero’,<br />

a cui eventualmente possono aggiungersi i ‘giochi di parole’. Per tutti e tre i<br />

fenomeni, e soprattutto per i primi due, si tratta di sintomi negativi, come già<br />

accadeva nella sia pur diversa e sommaria descrizione fornita da Magnan. I<br />

sintomi propriamente positivi appartengono invece, come si evince dalle idee<br />

di De Clérambault, al subentrante ‘grande automatismo’.<br />

DA DE CLÉRAMBAULT A BLEULER<br />

“Organicista metaforico”: così è stato definito De Clérambault 29 . In effetti<br />

l’automatismo mentale, che per questo autore si identifica con il fenomeno<br />

elementare delle psicosi e che al suo livello più iniziale, il ‘piccolo automatismo’,<br />

corrisponde soprattutto a sintomi quali il vuoto del pensiero, l’estra-<br />

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neità, la perplessità, con l’eventuale aggiunta dei giochi di parole, nella sua<br />

natura di meccanismo impersonale e invariante, vale a dire identico in tutti<br />

gli individui e privo di legami con la soggettività, pur rinviando all’organicità<br />

cerebrale suggerisce virtualmente anche la sotterranea azione dell’inconscio,<br />

potenzialmente impregnata di soggettività. Anzi, la descrizione dell’automatismo<br />

sembra essere una inconsapevole metafora dei meccanismi inconsci.<br />

D’altronde, come si dirà più avanti, questa è proprio l’interpretazione che<br />

fornirà un allievo di De Clérambault, il celebre Jacques Lacan.<br />

Tra le molte possibili, una citazione può aiutare a comprendere quanto le<br />

concezioni di De Clérambault pervengono a differenziare l’attività ideativa,<br />

in particolare il delirio, da una ‘materia’ sottostante nei cui confronti il delirio<br />

sarebbe una semplice risposta, di per sé addirittura non patologica, o<br />

comunque scaturiente da parti sane della personalità e della mente. Ma in<br />

queste citazioni, soprattutto, proprio la ‘materia’ sottostante ai primi sintomi,<br />

vale a dire sottostante ai fenomeni elementari di cui si compone l’automatismo,<br />

pur se riconosciuta come organica viene deliberatamente denominata<br />

inconscia, rinviando quasi esplicitamente a una sua possibile natura non<br />

organica. Scrive De Clérambault: “Il lavoro interpretativo e l’ordinamento<br />

sistematico dei concetti sono soltanto epifenomeni; conseguono a un lavoro<br />

cosciente e di per sé non morboso, o solo poco patologico, su una materia<br />

[matière] imposta dall’inconscio. Si può dire che nel momento in cui compare<br />

il delirio la psicosi è già vecchia. Il Delirio è semplicemente una Sovrastruttura”<br />

30 .<br />

È qui evidente, all’interno di una medesima teoria, il coesistere di due diversi<br />

aspetti clinici del fenomeno elementare. Micro-sintomo strettamente negativo,<br />

in quanto è un vuoto del pensiero, uno stato di perplessità, una sensazione,<br />

da parte del soggetto, di essere sottilmente invaso da qualcosa di incomprensibile<br />

e di estraneo, il fenomeno elementare sembra nascere da una<br />

‘meccanica mentale’ che si altera da un lato come se fosse impersonale e non<br />

soggettiva, perché organica e cerebrale, dall’altro come se fosse individuale e<br />

soggettiva, perché legata a profondi vissuti inconsci. Si potrebbe anzi dire<br />

che qui è proprio l’attività inconscia ad essere concepita in maniera bivalente,<br />

come una ‘meccanica’ ora impersonale, invariante, vicina ai processi<br />

cerebrali, ora invece personale, vicina ad aspetti psichici che per quanto<br />

obbedienti a leggi ancora biologiche appartengono in realtà già alla storia e<br />

alla personalità del soggetto.<br />

Un’analoga ambivalenza ricompare in Eugen Bleuler, pur se la sua teoria è<br />

ben lontana dai micro-fenomeni esaminati da De Clérambault, in quanto è<br />

invece attenta a creare un’ampia sistematizzazione nosografica. Bleuler attribuisce<br />

a cause psicologiche, vale a dire ai ‘complessi a tonalità affettiva’ proposti<br />

dal suo allievo Carl Gustav Jung, solo i sintomi che classifica come<br />

secondari, mentre i sintomi da lui denominati primari deriverebbero da un<br />

disturbo organico 31-34 . Di nuovo, il fenomeno elementare delle psicosi, qui<br />

anzi delle schizofrenie, ha una natura impersonale che non sembra contenere<br />

nulla di soggettivo, e che perciò è inevitabile identificare con un’alterazione<br />

organica. E tuttavia, davvero una volta ancora, proprio quest’ultima nozione,<br />

alla luce delle notazioni cliniche esposte dall’autore sembra poter nascondere


qualcosa di soggettivo e di psichico, benché ad un livello inconscio. Bisogna<br />

anche rilevare un fatto curioso: il figlio dello psichiatra svizzero, Manfred<br />

Bleuler, come si vedrà più avanti, risolverà l’ambiguità della teoria paterna<br />

attribuendo apertamente il ruolo di primum movens alla sola psiche, alla sola<br />

soggettività 35,36 .<br />

I SINTOMI DI BASE E LA BASE SOGGETTIVA DEI SINTOMI<br />

La linea di ricerca esemplificata dalla teoria di De Clérambault sembra<br />

ricomparire, pur in assenza di una filiazione diretta, nella moderna teoria dei<br />

sintomi di base, la quale appartiene alla tradizione psichiatrica della scuola<br />

di Heidelberg 37-42 . Qui nuovamente il primum movens delle psicosi, vale a<br />

dire la sequenza di micro-tappe individuabili all’interno dell’esordio, è un<br />

meccanismo che si ripete identico in tutti i soggetti e a cui viene attribuita<br />

una supposta causalità organico-cerebrale. E ancora una volta la soggettività<br />

individuale, legata alla personalità e alle irripetibili vicende di vita, entra in<br />

gioco in un secondo tempo, come risposta, appunto diversa da caso a caso,<br />

nei confronti della impersonale alterazione di fondo.<br />

Secondo quest’ottica le psicosi amalgamano un meccanismo invariante, o<br />

non soggettivo, e contenuti variabili da un individuo all’altro perché soggettivi.<br />

Ciò però accadrebbe secondo una successione che vede, come reale primum<br />

movens, solo il primo meccanismo, quello invariante e impersonale. È<br />

infatti noto che i sintomi di base sono considerati la più immediata manifestazione<br />

fenomenica di un disturbo fondamentale situato a livello transfenomenico,<br />

vale a dire non esperito dal soggetto perché attivo al di fuori del suo<br />

campo di coscienza. Tale alterazione fondamentale consisterebbe in un<br />

disturbo della ricezione e della elaborazione delle informazioni ed ha pertanto<br />

un carattere sostanzialmente identico nei diversi individui, così come<br />

accade per l’alterazione biologica ulteriormente sottostante, situata a livello<br />

prefenomenico, la quale corrisponderebbe a una disfunzione neurofisiologica<br />

e neurotrasmettitoriale del lobo limbico 43,44 .<br />

È importante segnalare che i sintomi di base, proprio in virtù della loro supposta<br />

natura primaria, vale a dire del loro carattere estremamente prossimo ai<br />

disturbi transfenomenico e prefenomenico da cui sarebbero sottesi, non possono<br />

essere osservati e identificati sul piano obiettivo, e perciò è impossibile<br />

rilevarli senza la collaborazione del soggetto. Per essere individuati richiedono,<br />

in collaborazione con l’intervistatore – il quale adotta un approccio fenomenologico<br />

– la disponibilità da parte del soggetto ad identificarli dentro di<br />

sé, e quindi ad autoesplorarsi per poi esprimerli verbalmente 45 . Resta però il<br />

fatto che i sintomi di base, pur se riferiti dal paziente secondo questa modalità<br />

soggettiva e all’interno di una relazione personale con l’intervistatore, possiedono<br />

un carattere invariante e impersonale, perché vengono considerati elementi<br />

ricorrenti e sempre identici, veri e propri marker di natura oggettiva.<br />

Ancora, i sintomi di base, e la notazione è cruciale, sono presenti e rilevabili<br />

non solo in fase pre-psicotica, sotto forma rispettivamente di ‘sindromi d’avamposto’<br />

e di ‘prodromi’, ma anche nelle fasi intra-psicotica e post-psicoti-<br />

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ca, in veste di ‘stadi di base’, a loro volta suddivisi in reversibili e irreversibili.<br />

Nella fase pre-psicotica, inoltre, essi risultano commisti a conservate capacità<br />

di coping, vale a dire a reazioni di adattamento e di compenso, queste sì<br />

assolutamente soggettive 46 .<br />

Accadrebbe dunque, in sintesi, che quando particolari condizioni, ora endogene<br />

(attività di processo), ora emotive e ambientali, superano la parziale<br />

incapacità del paziente a elaborare le informazioni, i cosiddetti sintomi di<br />

base di partenza, o di primo livello, tenderebbero a intensificarsi evolvendo<br />

in sintomi di base di secondo e poi di terzo livello, questi ultimi corrispondenti<br />

ai classici macro-sintomi di primo rango (first rank symptoms) individuati<br />

da Kurt Schneider 47 . Ovviamente anche le condizioni di innesco,<br />

soprattutto quando sono di natura emotiva o ambientale, avrebbero natura<br />

soggettiva, variando da una persona all’altra in rapporto alle caratteristiche<br />

individuali.<br />

Questi passaggi devono essere qui ricordati, sia pure schematicamente, in<br />

quanto inducono alcune riflessioni. Soprattutto è inevitabile chiedersi perché<br />

la componente soggettiva venga invocata soltanto, da una parte, in merito<br />

alle reazioni di compenso poste in atto dal soggetto nei confronti dei sintomi<br />

di base, e dall’altra riguardo alle condizioni emotivo-situazionali suscettibili<br />

di scatenare la trasformazione dei sintomi di base di primo livello in macrosintomi<br />

classici e conclamati. È infatti legittimo supporre che lo stesso<br />

disturbo di processazione delle informazioni, e ugualmente i sintomi di base<br />

di primo livello che ne derivano, possiedano in realtà caratteri soggettivi,<br />

variabili da un individuo all’altro in quanto legati sia al mondo interiore personale,<br />

sia alle connesse vicende di vita. Da questo punto di vista, il mancato<br />

rilievo della potenziale specificità soggettiva dei sintomi di base potrebbe<br />

condurre all’impossibilità di coglierne il senso più profondo, vale a dire<br />

all’impossibilità di comprendere con più esattezza sia quali situazioni emotive<br />

e ambientali possono, nel singolo soggetto, scatenare lo scompenso, sia<br />

qual è l’effettivo rischio individuale – non semplicemente statistico – di una<br />

evoluzione psicotica.<br />

Non è perciò forse un caso che i sintomi di base, considerati come impersonali,<br />

privi di contenuto soggettivo, si siano dimostrati aspecifici, essendo presenti<br />

in tutti i disturbi psicotici e di confine, compresi i disturbi mentali organici<br />

48,49 . Ciò potrebbe appunto dipendere da un impianto teorico e clinico<br />

che fino ad oggi non ha mai contemplato la possibile specificità soggettiva<br />

dei sintomi di base già di primo livello, contemplando in quel caso una loro<br />

già iniziale natura strettamente individuale quanto a modalità di presentazione<br />

e a contenuti.<br />

Perciò, quando si parla per esempio dei sintomi di base appartenenti alla<br />

categoria ‘cenestesica’ – vedi le sensazioni di debolezza motoria a comparsa<br />

improvvisa, di intensità crescente fino alla paralisi, con durata di diverse settimane<br />

-, è possibile domandarsi se l’atteggiamento clinico rigorosamente<br />

fenomenologico non debba arricchirsi, dopo la fase di attenta rilevazione<br />

delle sensazioni, di una fase di esplorazione di tutto ciò che di soggettivo può<br />

‘nascondersi’ all’interno delle sensazioni stesse. Ovviamente questa prospettiva<br />

investe da subito l’annosa questione del possibile carattere ‘spericolato’


di simili incursioni interpretative 49 . In realtà, si tratterebbe piuttosto di stabilire<br />

con esattezza i confini e le finalità di questa eventuale valutazione del<br />

soggettivo.<br />

Resta comunque il fatto che i vissuti in questione, vale a dire i sintomi di<br />

base, non sembrano identificabili tout court con i cosiddetti sintomi negativi,<br />

bensì sarebbero il “livello più sfumato, minimale, della sindrome negativa<br />

che insorge precocemente nel decorso della malattia” 50 , e quindi possiederebbero<br />

un carattere diverso 45,51 . È tuttavia indubbio che l’intero range dei sintomi<br />

di base, nelle loro varie categorie, include come implicito tratto comune i<br />

momenti del ‘vuoto’ e della ‘perplessità’, momenti dunque negativi.<br />

Si può peraltro ricordare, sia pure indipendentemente dalla teoria dei sintomi<br />

di base, che un altro autore appartenente all’area della moderna psicopatologia<br />

tedesca, Werner Janzarik, in una sua monografia del 1968 sulla ‘Schizofrenia<br />

cronica’ 52 , basandosi sullo studio di 100 schizofrenici cronici, ha formulato<br />

il concetto di ‘difetti precorritori’ per descrivere micro-sintomi di<br />

carattere negativo. Ha inoltre sostenuto, e anzi dimostrato, che essi sono presenti<br />

già prima dell’esordio della malattia.<br />

I PRODROMI E L’INCOMPLETEZZA DEL SOGGETTO<br />

Con Jacques Lacan – anche se la sua teoria è solo uno tra i possibili esempi –<br />

proprio all’interno dell’impersonale e invariante ‘vuoto del pensiero’, dunque<br />

all’interno di quella ‘negatività’ di partenza che già De Clérambault riconosceva<br />

come vero fenomeno elementare dell’esordio psicotico, viene proposta<br />

l’esistenza di una variabile soggettiva, che dunque renderebbe il fenomeno<br />

elementare intrinsecamente diverso da un caso all’altro. La teoria di<br />

Lacan è di impronta radicalmente psicodinamica 53 , e se occorre farne una<br />

più attenta menzione non è per esaminarla nel dettaglio, quanto per derivarne<br />

una possibile direzione di ricerca.<br />

Intanto occorre premettere che se nel panorama psichiatrico attuale proporre<br />

un simile programma di ricerca è un atto controcorrente, tuttavia sembra<br />

poter offrire la sola via di uscita ad una impasse che pur se finora resta inosservata<br />

potrà determinare, in futuro, la scarsa utilizzabilità dei risultati prodotti<br />

dagli indirizzi odierni. Si può infatti supporre che la sempre più minuziosa<br />

individuazione di segni prodromici della psicosi, e quindi dei suoi<br />

fenomeni più ‘elementari’ – gli indirizzi di ricerca rivolti in tal senso sono<br />

sempre più numerosi 54-60 –, corre il rischio, se si continuerà a considerare<br />

questi segni o fenomeni nel loro solo aspetto impersonale e invariante, di non<br />

pervenire mai a cogliere ciò che da un soggetto all’altro li può rendere o<br />

meno specifici, e che permetterebbe invece di stabilire se essi sono o meno<br />

prodromici, e, nei casi in cui lo sono, con quali gradazioni di rischio. Infatti<br />

le varie tipologie di prodromi, così come accade per la tipologia costituita<br />

dai sintomi di base, sono presenti non solo in soggetti che poi svilupperanno<br />

effettivamente una psicosi, ma anche in soggetti che non la svilupperanno, o<br />

ancora in soggetti che evolveranno verso altri registri psicopatologici 61-64 . E<br />

se da un lato si può ipotizzare che future ricerche individueranno prodromi<br />

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sempre più obiettivi, in pratica veri e propri marker, dall’altro lato si può<br />

invece supporre che ciò non accadrà mai, a meno che non venga risolto questo<br />

errore metodologico di fondo.<br />

È perciò possibile che il fenomeno elementare situato all’origine di una psicosi<br />

non risieda nel meccanismo invariante, identico da una persona all’altra<br />

– che le attuali ricerche si propongono di individuare nei suoi prodromi sempre<br />

più sottili e precoci –, quanto nel contenuto soggettivo, diverso da persona<br />

a persona, il quale motiva e innesca il meccanismo stesso, conferendo a<br />

quest’ultimo una specificità oppure una non-specificità. In altre parole, la<br />

soggettività, e quindi il personale assetto emotivo e le individuali vicende di<br />

vita, non entrerebbe in gioco soltanto come risposta di adattamento e di compenso<br />

verso un ‘disturbo di base’ di per sé non soggettivo, su matrice genetica<br />

e neurologica 65-70 . La soggettività risulterebbe implicata come radice stessa<br />

del disturbo di base, o per lo meno come fattore cruciale nel plasmare dall’interno,<br />

da subito, i fenomeni elementari, assegnando o meno ad essi una<br />

qualità effettivamente prodromica.<br />

In questa prospettiva, la teoria di Lacan, proprio perché nata come implicita<br />

rielaborazione di quella di De Clérambault, ha un carattere paradigmatico,<br />

pur se all’interno di una veste psicodinamica spinta all’estremo, e quindi settoriale.<br />

Lacan ritiene che il vuoto del pensiero, quale primum movens della<br />

psicosi, è un meccanismo universalmente invariante, identico in tutti i soggetti,<br />

e originato in particolare da una carente instaurazione delle capacità<br />

simboliche del pensiero 71 . Tuttavia questa carenza, in quanto potrebbe corrispondere,<br />

volendo tentare un paragone, a una difficoltà a processare le informazioni<br />

soprattutto emotive e a tradurle in linguaggio, riguarderebbe però<br />

emozioni che sono specifiche per il singolo soggetto. Perciò l’innesco e poi<br />

la decompensazione della condizione predisponente prodromica, di per sé<br />

impersonale e invariante, dipenderebbero da un ‘nucleo emotivo’ del tutto<br />

personale, e ovviamente dagli eventi di vita individuali che vi si correlano<br />

9,72-74 . Non per caso è stata proposta, in un’ottica psicodinamica, la nozione<br />

di disturbo schizofrenico di personalità 75 , una nozione che in sostanza<br />

intende sottolineare l’importanza dello sfondo soggettivo nel sottendere e nel<br />

plasmare i sintomi, anche minimali, di per sé invarianti.<br />

Pertanto, da questo punto di vista la soggettività emotiva sarebbe una variabile<br />

inscritta nel fenomeno elementare, e in pratica l’elemento caratterizzante di<br />

quest’ultimo 76,77 . Si pensi d’altronde che nel caso, per esempio, della schizofrenia,<br />

i disturbi emozionali solitamente rilevabili possono essere suddivisi in<br />

tre categorie 78 : 1) alterazioni emozionali intrinseche alla diatesi psicotica; 2)<br />

alterazioni emozionali reattive alla psicosi; 3) alterazioni emozionali derivanti<br />

da anomali percorsi psicologici di sviluppo (traumi, ecc.). Naturalmente sia la<br />

prima che la terza di queste categorie indicano il possibile ruolo primario<br />

svolto, quale fenomeno elementare delle psicosi, da nuclei emotivi assolutamente<br />

individuali. Una prospettiva, questa, che come accennato più sopra è<br />

stata a suo tempo proposta anche da Manfred Bleuler, il quale infatti ha scritto:<br />

“A mio parere, il fenomeno schizofrenico si verifica nel regno della psiche<br />

e delle emozioni, vale a dire nelle sfere mentali che esistono soltanto nell’uomo”<br />

35 . E tra l’altro sempre il figlio di Eugen Bleuler ha criticato l’idea secon-


do cui le schizofrenie dovrebbero essere ricondotte a un fondamento causale<br />

organico, come tale impersonale. Secondo Manfred Bleuler: “ogni volta in cui<br />

sono in causa disturbi mentali di origine organica questi non corrispondono<br />

affatto alla fenomenologia di una psicosi schizofrenica” 79 .<br />

CONCLUSIONI<br />

È dunque realmente inafferrabile l’esatta natura del primum movens delle<br />

psicosi? Davvero la ‘mano invisibile’, a cui in apertura rinviava Strindberg, è<br />

destinata a essere reificata ora in sintomi prodromici ‘troppo’ impersonali,<br />

ora in percorsi psicodinamici ‘troppo’ personali? Quanto a questi ultimi, è<br />

d’altronde ormai noto quanto le considerazioni di ordine strettamente psicodinamico<br />

siano oggetto di controversie riguardanti la loro scientificità e<br />

oggettivabilità 80 .<br />

In realtà è possibile ipotizzare una ‘via mediana’ che coniughi i dati sempre<br />

più puntuali relativi ai fenomeni elementari invarianti e l’esplorazione del<br />

loro sottofondo emozionale, variabile da soggetto a soggetto. In sostanza<br />

occorrerebbe abbinare, all’interno degli studi riguardanti sia i prodromi delle<br />

psicosi, sia le condizioni di vulnerabilità verso queste condizioni cliniche,<br />

l’esplorazione non necessariamente psicodinamica ma semplicemente psicologica<br />

del substrato emozionale soggettivo. Questa impostazione potrebbe<br />

eventualmente condurre all’individuazione sia di una costellazione di aree<br />

emotive, provviste di caratteristiche diverse da un soggetto all’altro pur se in<br />

parte ricorrenti, sia di parametri che consentano di stabilire il grado di intensità<br />

di queste aree emozionali, e quindi la loro effettiva capacità di preludere<br />

a una psicosi.<br />

Peraltro non bisogna dimenticare che ormai la psicologia sperimentale, anche<br />

di ambito strettamente cognitivista, ha dimostrato che le reazioni emozionali<br />

possono manifestarsi indipendentemente dai processi cognitivi e che possono<br />

anche precederli, tendendo in pratica a determinarli 81-85 . Ed è quindi verosimile<br />

che proprio il legame ‘feeling-thinking’ 86,87 possa costituire la chiave di<br />

accesso alla specificità soggettiva che appartiene ab inizio, secondo l’ipotesi<br />

qui proposta, ai meccanismi e ai sintomi, impersonali e invarianti, ormai riconosciuti<br />

come ‘elementari’ e prodromici nei riguardi delle psicosi.<br />

Da questo punto di vista il vuoto del pensiero, anche qualora lo si volesse<br />

considerare un sintomo negativo – pur se non lo è perché ha in realtà uno<br />

sfondo esperienziale più ampio, embricato per esempio con il ‘continuum<br />

della passività’ 88 –, contiene al suo interno un plus, o una pienezza emozionale,<br />

ricostruibile soltanto sul piano delle dinamiche soggettive. Parlare, a<br />

questo proposito, di una specifica difficoltà ad abbandonare una posizione da<br />

‘bambino accudito’, o nel reggere l’impatto con la sessualità, o nell’acquisire<br />

una fiducia negli altri sufficiente a comunicare aspetti di sé vulnerabili, può<br />

permettere di cogliere – e si tratta solo di possibili esempi – la specificità<br />

soggettiva di sintomi prodromici il cui effettivo valore predisponente resta<br />

altrimenti indicidibile qualora vengano considerati come biologicamente<br />

determinati e impersonali.<br />

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D’altronde, di fronte all’attuale proliferare di studi rivolti a individuare criteri<br />

oggettivi di predisposizione a sviluppare una psicosi, e quindi nel pieno<br />

affermarsi di rielaborazioni del concetto di vulnerabilità in chiave deterministica<br />

– è per esempio il caso della nozione di ‘endofenotipo’ 65-67,88 –, non<br />

bisogna dimenticare la lezione di relativismo da sempre impartita dalla psicopatologia.<br />

È noto infatti che le classificazioni psichiatriche, di qualunque tipo esse<br />

siano, si fondano su criteri necessariamente arbitrari, sempre ridiscutibili, e<br />

che perciò la tensione verso una rigorosa oggettivazione deve sempre essere<br />

temperata dall’inevitabile non piena obiettivabilità della psiche. Il ricorso a<br />

una supposta oggettività di substrati neurodeficitari, o di disfunzioni cognitive,<br />

affettive o comportamentali, appare perciò motivato più da un inconsapevole<br />

bisogno di certezze da parte dello psichiatra che da un reale intento<br />

scientifico. Eppure già nel 1913, e poi nelle successive edizioni, nella sua<br />

Psicopatologia generale Karl Jaspers affermava: “Uno studio della psicologia<br />

è per principio necessario allo psicopatologo, quanto quello della fisiologia<br />

a colui che si occupa di patologia somatica. (…) [Tuttavia] La psicologia<br />

ufficiale si occupa troppo esclusivamente di quei processi elementari che non<br />

sono quasi mai interessati nelle autentiche malattie mentali, ma solo nelle<br />

lesioni cerebrali organiche di tipo neurologico. Lo psichiatra ha bisogno di<br />

una psicologia di più vasto orizzonte, che gli venga trasmessa dal pensiero<br />

psicologico di millenni e che possa trovare nuovamente credito nella pratica<br />

ufficiale” (il corsivo è nostro) 90 .<br />

Non occorre attribuire a qualunque affermazione di Jaspers, come solitamente<br />

accade, un valore assoluto. Il suggerimento di questo autore non è tuttavia<br />

solo un richiamo a non dimenticare l’inevitabile determinismo psicologico<br />

soggettivo inerente anche al più obiettivo e non-soggettivo dei sintomi psichiatrici,<br />

ancor più se prodromici. Occorre infatti aggiungere che sintomi<br />

sempre più iniziali non necessariamente contengono la chiave esplicativa<br />

delle psicosi, il fenomeno elementare, poiché questa risiede piuttosto lungo il<br />

crinale che divide, ma che nel contempo unisce, il soggettivo e l’oggettivo,<br />

ciò che è individuale e ciò che è non-individuale o invariante.<br />

In un suo non recente articolo, Van Praag invitava a ‘riconquistare il soggettivo’<br />

91 . Ma forse il soggettivo si impone già da sé, molto più di quanto non si<br />

pensi, e proprio attraverso le maglie della psichiatria strettamente oggettivante.<br />

A patto però di saperne cogliere l’ineludibile presenza nei ridimensionamenti<br />

a cui quest’ultima va incontro se priva di un ragionare psicopatologico<br />

o anche solo psicologico.<br />

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