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Ministero Istruzione Università e Ricerca Scientifica Alta Formazione Artistica e <strong>Musica</strong>le<br />

<strong>Conservatorio</strong> Statale <strong>di</strong> <strong>Musica</strong> - <strong>“Francesco</strong> Venezze” Rovigo<br />

Accademia dei Concor<strong>di</strong><br />

Rovigo<br />

LA DOMENICA AI CONCORDI<br />

MUSICA E PITTURA<br />

11 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2012 XVII EDIZIONE<br />

IL NOVECENTO<br />

ACCADEMIA DEI CONCORDI ROVIGO<br />

SALA OLIVA


La rassegna <strong>Musica</strong> e Pittura, promossa anche quest’anno dal <strong>Conservatorio</strong> “F. Venezze”, dall’Accademia dei<br />

Concor<strong>di</strong> e dalla Fondazione Banca del Monte <strong>di</strong> Rovigo è nata, come è noto, dalla volontà <strong>di</strong> questi Enti <strong>di</strong><br />

operare sinergicamente per realizzare azioni con<strong>di</strong>vise, capaci tendenzialmente <strong>di</strong> valorizzare e <strong>di</strong>vulgare la cultura,<br />

avendo preferibilmente come riferimento le risorse culturali e umane del territorio.<br />

Pur nella loro <strong>di</strong>versità e specificità gli Enti promotori della rassegna, vanto della comunità ro<strong>di</strong>gina, convergono<br />

da anni nell’operare per favorire l’arricchimento culturale dei citta<strong>di</strong>ni nell’ottica <strong>di</strong> rafforzare la consapevolezza<br />

del valore identitario del territorio.<br />

La tra<strong>di</strong>zionale proposta <strong>di</strong> coniugare musica e pittura, giunta alla XVII e<strong>di</strong>zione, quest’anno intende far conoscere<br />

le opere d’arte del ‘900 della collezione concor<strong>di</strong>ana mai esposte prima insieme.<br />

Alle opere pittoriche viene collegata l’offerta <strong>di</strong> pregevoli esecuzioni <strong>di</strong> musiche del ‘900 da parte dei professionisti<br />

del nostro conservatorio.<br />

Il ciclo <strong>Musica</strong> e Pittura 2012 prosegue, dunque, la costante ricerca <strong>di</strong> contenuti e <strong>di</strong> valori del territorio, grazie<br />

alla capacità <strong>di</strong> innovazione degli Enti promotori Fondazione Banca del Monte <strong>di</strong> Rovigo, <strong>Conservatorio</strong><br />

“F. Venezze” e Accademia dei Concor<strong>di</strong> che continuano a presentare qualificati programmi culturali per i nostri<br />

concitta<strong>di</strong>ni.<br />

Presidente<br />

Ilario Bellinazzi<br />

<strong>Conservatorio</strong> “F. Venezze”<br />

Presidente<br />

Adriano Buoso<br />

Fondazione Banca del Monte <strong>di</strong> Rovigo<br />

3<br />

Presidente<br />

Luigi Costato<br />

Accademia dei Concor<strong>di</strong>


PROGRAMMA GENERALE<br />

DOMENICA 11 NOVEMBRE - ore 11.00<br />

À la recherche du son perdu - I colori dell’oboe nella musica francese del Novecento storico<br />

Camille Saint-Saëns, Pierre Max Dubois, Gian Francesco Malipiero, Eugène Bozza, Francis Poulenc<br />

Oboe: Alessandro Rauli - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi<br />

Opere <strong>di</strong>: Giuseppe Goltara e Casimiro Jo<strong>di</strong><br />

DOMENICA 18 NOVEMBRE - ore 11.00<br />

Colori europei nel Novecento storico<br />

Claude Debussy, Jacques Ibert, Ferenc Farkas, Nino Rota<br />

Quintetto Ethos: flauto Paola Bassi, oboe Antonella Spremulli, clarinetto Elisa Marastoni,<br />

corno Dario Cavinato, fagotto Chiara Turolla<br />

Opere <strong>di</strong>: Angelo Prudenziato e Ervardo Fioravanti<br />

DOMENICA 25 NOVEMBRE - ore 11.00<br />

Italia e Mitteleuropa - Immagini “en blanc et noir” del Novecento<br />

Ferruccio Busoni, Alfredo Casella, Paul Hindemith<br />

Duo pianistico a quattro mani: Martino Fe<strong>di</strong>ni - Matteo Franco<br />

Opere <strong>di</strong>: Tomaso Foster, Ugo Boccato e Elvio Mainar<strong>di</strong><br />

DOMENICA 2 DICEMBRE - ore 11.00<br />

Tra<strong>di</strong>zione popolare ed espressioni colte nella musica del Novecento storico nell’Est europeo<br />

Zoltán Kodály, Bela Bartók, Leoš Janáček, Bohuslav Martinů<br />

Violoncello: Luca Paccagnella - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi<br />

Opere <strong>di</strong>: Osvaldo Forno, Giampaolo Berto, Gabbris Ferrari e Marco Lazzaro<br />

LA MUSICA<br />

“… perché accada la cosa giusta,<br />

si deve evitare <strong>di</strong> farla.”<br />

A una <strong>di</strong>stanza temporale <strong>di</strong> quasi tre<strong>di</strong>ci anni dagli ultimi giochi pirotecnici che hanno fatto da sfondo ai<br />

festeggiamenti per salutare l’inizio del nuovo millennio, guar<strong>di</strong>amo al Novecento con un minor coinvolgimento<br />

emotivo dovuto a una messa a fuoco della pupilla sempre più oggettivante. Per uno strano fenomeno<br />

psicologico, l’arco temporale tende poi a tradursi anche in termini <strong>di</strong> percezione spaziale; ecco, allora, che<br />

l’allontanamento continuo da un punto focale ci offre via via una visuale panoramica più ampia anche se<br />

meno dettagliata. Gli echi delle musiche del secolo scorso si <strong>di</strong>leguano per lasciare il posto alle rivitalizzate<br />

esecuzioni da parte degli interpreti <strong>di</strong> oggi e <strong>di</strong> sempre, grazie ai quali possiamo ascoltare e apprezzare le<br />

opere del passato. Nel XX secolo si cristallizza quel processo <strong>di</strong> soggettivazione stilistica, avviato nell’Ottocento,<br />

secondo cui ogni compositore è alla ricerca, non solo <strong>di</strong> una propria cifra stilistica da sviluppare<br />

nel corso della sua esistenza, ma ad<strong>di</strong>rittura tende a conferire ad ogni singola opera tratti stilistici originali.<br />

Come è facile immaginare, questo atteggiamento è sfociato in una variegata molteplicità <strong>di</strong> stili come mai<br />

prima nella storia della musica in Occidente. Se fino al secondo conflitto mon<strong>di</strong>ale è ancora possibile rintracciare<br />

un leitmotiv dai tratti nazionali, dopo il 1950 la frantumazione e prolificazione delle poetiche <strong>di</strong><br />

ciascun autore scoraggia ogni tentativo <strong>di</strong> cogliere un’unità stilistica quale guida sicura per navigare nel<br />

mondo interiore del compositore, reso manifesto dai suoni delle sue creazioni musicali. Con riferimento a<br />

quest’ultima considerazione, la scelta delle musiche che ascolteremo durante questi quattro incontri de<strong>di</strong>cati<br />

al rapporto sinestetico tra musica e pittura, rientra nel filone della letteratura musicale nota anche come<br />

“Novecento storico” che contrassegna la prima metà del secolo scorso. Prima <strong>di</strong> concludere questa breve<br />

parentesi introduttiva al ciclo <strong>di</strong> concerti presentati qui <strong>di</strong> seguito, mi piace riportare il frammento <strong>di</strong> una<br />

conversazione, avutasi nel 1896, durante una passeggiata <strong>di</strong> Mahler (uno dei padri della musica del Novecento)<br />

in compagnia <strong>di</strong> Brahms (uno dei massimi esponenti del tardo Ottocento), sulle rive del fiume Traun<br />

nei <strong>di</strong>ntorni <strong>di</strong> Ischl. Mahler, ad<strong>di</strong>tando il corso d’acqua esclamò: “Guar<strong>di</strong>, Maestro, guar<strong>di</strong>!, là scorre l’ultima<br />

onda!”. Brahms, allora, replicò: “Ciò che <strong>di</strong>ce è giusto, ma forse occorre anche vedere se l’onda si getta in<br />

mare o in una palude”. L’incontro tra il “vecchio” e il “nuovo” si ripresenta perennemente nel corso dei<br />

secoli e con <strong>di</strong>namiche costanti nelle quali, a colui che guarda al passato con nostalgia, si contrappone colui<br />

che ripone tutte le sue speranze nel futuro. Se si tratta del mare o <strong>di</strong> una palude <strong>di</strong>pende solo dal punto <strong>di</strong><br />

osservazione: se volgiamo lo sguardo al passato l’orizzonte si restringe sfocandosi, eccoci allora immersi in<br />

una palude; ma se puntiamo l’attenzione al futuro la prospettiva non ha fine, così come illimitato è l’orizzonte<br />

quando ci troviamo in mare aperto. Il Novecento ci pone <strong>di</strong> fronte a questa scelta: dove vogliamo far scorrere<br />

l’ultima onda?<br />

Vincenzo Soravia<br />

4 5


La crescente affermazione in ambito francese degli strumenti a fiato dalla fine dell’Ottocento a tutto il corso del<br />

Novecento è stata resa possibile grazie alle continue ricerche che compositori e strumentisti hanno quoti<strong>di</strong>anamente<br />

esercitato nelle aule <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>o dei conservatori, in particolare nel celebre Conservatoire National Supérieur de Musique<br />

de Paris, all’interno del quale vengono ancora oggi annualmente commissionate, vere preziose gemme, le composizioni<br />

prescritte per il superamento degli esami finali da parte degli studenti. Ecco spiegato come la letteratura per i fiati si<br />

sia arricchita in maniera sistematica, e tuttora si arricchisca, <strong>di</strong> nuovi lavori, in<strong>di</strong>scussi frutti <strong>di</strong> artigianato abile e<br />

sempre all’avanguar<strong>di</strong>a parallelamente all’evoluzione degli strumenti, attento quin<strong>di</strong> alle loro nuove gamme <strong>di</strong> potenzialità<br />

sonore e virtuosistiche incastonate sovente in strutture architettoniche dalle tecniche compositive anch’esse<br />

sperimentali, ma a volte persino in veri e propri “gioielli” destinati a permanere nel patrimonio concertistico dei<br />

singoli strumenti. A base <strong>di</strong> tutta questa grande tra<strong>di</strong>zione ultrasecolare va in<strong>di</strong>viduato il grande sentimento nazionalista<br />

che, a partire dall’indomani della bruciante sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870, si espresse anche in<br />

musica attraverso la costituzione della Societé National de Musique promossa, tra gli altri, da Camille Saint-Saëns nel<br />

1871 e della successiva Société de musique de chambre pour Instruments à Vent (1879), entrambe in chiara contrapposizione<br />

allo stile tedesco reclamando il grande ruolo storico dell’antica musica francese e quello degli strumenti a<br />

fiato nei confronti degli archi. Lo stesso Saint-Saëns de<strong>di</strong>cherà varie composizioni ai fiati, le ultime delle quali – un<br />

trittico <strong>di</strong> sonate rispettivamente per oboe, clarinetto e fagotto, sempre accompagnati dal pianoforte – proprio nei<br />

mesi antecedenti la sua scomparsa. Raffinata vena melo<strong>di</strong>ca, evocazioni pastorali e gusto per l’improvvisazione ma<br />

anche il brillante virtuosismo nel finale, si inseriscono in movimenti dalla fattura piuttosto semplice ed arcaica con<br />

un accompagnamento del pianoforte che richiama, nei suoi tersi <strong>di</strong>segni, la lezione degli antichi clavicembalisti. Altro<br />

tratto caratteristico della musica francese del Novecento è la “miniatura”, ossia la composizione concepita come<br />

un’unica impressione sonora, colta in un solo istante, così come avviene <strong>di</strong> fronte ad un’opera <strong>di</strong> arte figurativa dove<br />

la visione d’insieme precede l’eventuale osservazione analitica da parte del fruitore del testo. Tre esempi <strong>di</strong> tal genere<br />

sono offerti dal brevissimo Passepied <strong>di</strong> Dubois, un vero e proprio “solo” dell’oboe, con tanto <strong>di</strong> cadenza prima della<br />

brevissima ripresa finale, appena sostenuto da un leggero e garbato accompagnamento ritmico ed armonico del pianoforte,<br />

e da due scene pastorali evocanti l’antico mondo classico delle Bucoliche <strong>di</strong> Virgilio e delle Metamorfosi <strong>di</strong><br />

Ovi<strong>di</strong>o in cui l’oboe <strong>di</strong>viene simbolo <strong>di</strong> un mondo agreste che con il progre<strong>di</strong>re della civitas è stato poco alla volta<br />

soppiantato dai valori <strong>di</strong> quest’ultima: Impromptu pastoral (pubblicato dall’e<strong>di</strong>tore parigino Leduc) <strong>di</strong> Malipiero, autore<br />

sì veneto e lo sappiamo bene, ma con un denso periodo <strong>di</strong> permanenza nella straor<strong>di</strong>naria Parigi degli anni Dieci, e<br />

Fantaisie Pastoral <strong>di</strong> Bozza, dal duplice carattere <strong>di</strong> improvvisazione prima e <strong>di</strong> danza poi.Chiude il programma la Sonata<br />

<strong>di</strong> Poulenc, anch’essa – come per l’analogo lavoro <strong>di</strong> Saint-Saëns – facente parte <strong>di</strong> un ridotto corpus <strong>di</strong> lavori per<br />

uno strumento a fiato e pianoforte interrotto dalla improvvisa morte del compositore. Il carattere elegiaco, specialmente<br />

nei movimenti estremi – mentre il vivace Scherzo centrale si riveste nella sezione me<strong>di</strong>ana <strong>di</strong> una riconoscibilissima<br />

citazione tratta dalla Sonata per flauto e pianoforte <strong>di</strong> Sergei Prokofiev alla cui memoria il lavoro è de<strong>di</strong>cato,<br />

sembra <strong>di</strong>venire così una sorta <strong>di</strong> testamento spirituale dell’autore fino al perdersi del suono alle soglie del silenzio,<br />

in una <strong>di</strong>mensione metafisica tanto cara all’intima religiosità del compositore francese.<br />

a cura <strong>di</strong> Giuseppe Fagnocchi<br />

DOMENICA 11 NOVEMBRE<br />

À la recherche du son perdu<br />

I colori dell’oboe nella musica francese del Novecento storico<br />

CAMILLE SAINT-SAËNS (1835 – 1921) Sonata op. 166<br />

Andantino<br />

Ad libitum – Allegretto – Ad libitum<br />

Molto allegro<br />

PIERRE MAX DUBOIS (1930 – 1995) Passepied<br />

GIAN FRANCESCO MALIPIERO (1882 – 1973) Impromptu pastoral<br />

EUGÈNE BOZZA (1905 – 1991) Fantasia pastorale<br />

FRANCIS POULENC (1899 – 1963) Sonata<br />

Élégie<br />

Scherzo<br />

Déploration<br />

Oboe: Alessandro Rauli - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi<br />

6 7


Fu proprio Claude Debussy, il primo autore oggi in programma, a dare solennemente inizio al ruolo degli strumenti<br />

a fiato quali protagonisti in<strong>di</strong>scussi nel primo Novecento musicale europeo attraverso, soprattutto, il celebre “solo”<br />

del flauto nel Prélude à l’après-mi<strong>di</strong> d’un faune risalente al 1894. Significativa è anche la “nuova immagine” che i fiati assumeranno<br />

dal Prélude in avanti: il flauto venne ad esempio “spostato” in maniera prevalente sul suo registro più<br />

basso (mentre Stravinsky opererà, con il fagotto del Sacre du printemps, al contrario straniandolo all’acuto) e non su<br />

quello brillante ed argentino dei virtuosistici “passi” ottocenteschi, e soprattutto lo lascerà simbolicamente già nella<br />

prima nota (senza alcun accompagnamento orchestrale) sul “do#”, un suono dal colore “particolare” in quanto povero<br />

<strong>di</strong> armonici, quin<strong>di</strong> non pieno e rotondo, ma precario ed instabile, interrogativo della crisi della società, dei<br />

sistemi <strong>di</strong> pensiero e delle coscienze che avrebbe <strong>di</strong> lì a poco portato all’esplosione del primo conflitto mon<strong>di</strong>ale.La<br />

Petite Suite non è un brano originale per quintetto <strong>di</strong> fiati, trattandosi infatti <strong>di</strong> un lavoro per pianoforte a quattro<br />

mani, ma val giusto la pena <strong>di</strong> ricordare come da un lato il musicista francese lavorasse al pianoforte non più nella visione<br />

tra<strong>di</strong>zionale dello strumento a tastiera, bensì invitando l’interprete a ricercare continue e cangianti sfumature<br />

<strong>di</strong> colore i<strong>di</strong>omatiche <strong>di</strong> archi, fiati e naturalmente anche delle varie percussioni dell’orchestra, e come dall’altro tale<br />

modus operan<strong>di</strong> implicasse il naturale “passaggio” e ampliamento <strong>di</strong> uno spartito per pianoforte ad una partitura da<br />

camera se non ad<strong>di</strong>rittura orchestrale. Il nuovo linguaggio timbrico, al quale si affiancano nuove e più ampie visioni<br />

delle gamme armoniche, melo<strong>di</strong>che e ritmiche, se da un lato si lancia verso il futuro della storia musicale del ventesimo<br />

secolo dall’altro non rinnega assolutamente il passato. Prova ne è il fatto che l’intero programma o<strong>di</strong>erno è impostato<br />

su brani che richiamano – implicitamente se non anche esplicitamente – l’antica suite <strong>di</strong> danze barocca <strong>di</strong> derivazione<br />

francese. A François Couperin, ma anche al pittore Watteau, si ispirarono sovente sia lo stesso Debussy sia Jacques<br />

Ibert, il quale – pur in un periodo posteriore a quello del capostipite Claude ed oramai già improntato a schemi neoclassici<br />

(o neobarocchi) richiamanti la lectio <strong>di</strong> un altro grande caposcuola, Igor Stravinsky – de<strong>di</strong>cò allo sviluppo<br />

degli strumenti a fiato buona parte della sua vena ed abilità compositiva, come documentano anche le tre miniature<br />

per quintetto quali le Trois pièces brèves.Il quintetto a fiati – nella sua formazione “classica” oggi presentata – godette<br />

già in età beethoveniana <strong>di</strong> un breve periodo <strong>di</strong> splendore grazie alle numerose opere del tedesco Franz Danzi e soprattutto<br />

del boemo Antonin Reicha: tale ere<strong>di</strong>tà fu colta da vari compositori del Novecento storico dando alla formazione<br />

sia il compito <strong>di</strong> affermare, grazie al nitore delle linee <strong>di</strong> cinque strumenti timbricamente ben <strong>di</strong>versi tra<br />

loro, le complesse trame polifoniche della dodecafonia nell’op. 26 <strong>di</strong> Schönberg, sia quello <strong>di</strong> rivolgersi ad espressioni<br />

“non colte” come avviene in Hindemith, nel cui quintetto traspaiono con evidenza riferimenti obbligati al jazz e al cabaret,<br />

e nel compositore ungherese Ferenc Farkas con i suoi binomi tra forme antiche nelle quali prendono posto<br />

melo<strong>di</strong>e ed armonie <strong>di</strong> chiaro sapore modale tipico dell’est europeo.Infine un breve lavoro <strong>di</strong> Nino Rota, ideale traitd’union<br />

tra musica italiana (nella <strong>di</strong>stesa cantabilità che scorre istintivamente nella vena <strong>di</strong> questo maestro e, naturalmente,<br />

anche <strong>di</strong> questo brano), rigore polifonico europeo e architettura strutturale propria della Ouverture alla francese<br />

(lento-veloce-lento) nel cui andamento tripartito si consuma questa “piccola offerta musicale” de<strong>di</strong>cata ad Alfredo<br />

Casella, compositore che da un lato ricevette una solida formazione francese, mentre dall’altro guardò – così come<br />

lo stesso Debussy – a Johann Sebastian Bach con grande devozione filiale, e proprio a questo sommo Maestro <strong>di</strong><br />

tutta la storia musicale europea ha sicuramente pensato, come tra<strong>di</strong>sce il titolo del brano, lo stesso Nino Rota.<br />

a cura <strong>di</strong> Giuseppe Fagnocchi<br />

DOMENICA 18 NOVEMBRE<br />

Colori europei nel Novecento storico<br />

CLAUDE DEBUSSY (1862 - 1918) Petite Suite<br />

En bateau<br />

Cortège<br />

Menuet<br />

Ballet<br />

JACQUES IBERT (1890 - 1962) Trois pièces brèves<br />

Allegro<br />

Andante<br />

Assai lento – Allegro scherzando<br />

FERENC FARKAS (1905 - 2000) Sérénade<br />

Allegro<br />

Andante espressivo<br />

Saltarello<br />

8 9<br />

Antiche danze ungheresi<br />

Intrada<br />

Lento<br />

Danza delle scapole<br />

Chorea<br />

Saltarello<br />

NINO ROTA (1911 - 1979) Petite offrande musicale<br />

Quintetto Ethos<br />

flauto Paola Bassi - oboe Antonella Spremulli - clarinetto Elisa Marastoni<br />

corno Dario Cavinato - fagotto Chiara Turolla


A sintetico commento del programma del concerto ricorre il titolo <strong>di</strong> una celebre, commossa ed allucinata composizione<br />

<strong>di</strong> “guerra” per due pianoforti, En blanc et noir (1915) <strong>di</strong> Claude Debussy, che richiama con imme<strong>di</strong>atezza i<br />

colori (bianco e nero, appunto) dei tasti del pianoforte, ma racchiude anche altri significati quale ad esempio il certamen<br />

tra i due strumenti e le varie parti ad essi affidate (nel secondo pezzo si “affrontano” un celebre corale luterano da<br />

un lato e le note della Marsigliese dall’altro) che nella guerra allora in corso <strong>di</strong>viene crudele e mortale lotta tra i<br />

popoli, ma anche le infinite gamme <strong>di</strong> sfumature che si collocano tra questi due estremi <strong>di</strong> colore, ancora una volta<br />

quin<strong>di</strong> la straor<strong>di</strong>naria tavolozza <strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong>namica, timbrica, <strong>di</strong> attacco e <strong>di</strong> successivo sostegno dei suoni, che al<br />

pianista viene offerta in maniera sempre più raffinata ed ampia e dalla quale egli deve saper trarre sempre più molteplici<br />

ed efficaci effetti.Tale riferimento al lavoro <strong>di</strong> Debussy ben si spiega scorrendo rapidamente i pezzi proposti: se si<br />

esclude infatti il brano <strong>di</strong> apertura i successivi tre lavori risentono della tempesta d’acciaio della prima guerra mon<strong>di</strong>ale<br />

durante la quale, è altresì interessante annotare, Ferruccio Busoni – <strong>di</strong> cui ascolteremo in apertura le due melo<strong>di</strong>e (o<br />

danze) finlandesi op. 27 – si ritirò in Svizzera combattuto tra le “sue” due nazioni in conflitto, l’Italia e la Germania.<br />

Protagonista <strong>di</strong> una vita senza requie, nato in Italia ma ben presto in viaggio per tutta la mitteleuropa da Vienna a<br />

Lipsia e poi – dopo Mosca e gli USA – prevalentemente a Berlino ma non senza ulteriori importanti ritorni in Italia,<br />

Busoni trascorse gli ultimissimi anni Ottanta del <strong>di</strong>ciannovesimo secolo ad Helsinki dove fu chiamato quale docente<br />

<strong>di</strong> pianoforte ed è in quel frangente che scrisse la sua op. 27 nella quale il severo contrappunto bachiano e un tardo<br />

romanticismo teutonico ancora presente si innestano al folklore finnico.Proce<strong>di</strong>menti politonali e poliritmici, per<br />

giungere infine in Pagine <strong>di</strong> guerra a veri e propri feroci e rumoristici cluster con i quali contrastano desolanti momenti<br />

<strong>di</strong> vuoto sonoro, immagini dell’orrore della morte violenta, accompagnano i due lavori <strong>di</strong> Casella da poco tornato in<br />

Italia dopo la straor<strong>di</strong>naria esperienza parigina (nel corso della quale eseguì anche En blanc et noir in duo con lo<br />

stesso Debussy), ma subito amareggiato non solo per le sorti dei milioni <strong>di</strong> giovani in guerra, ma anche per l’ambiente<br />

musicale “deplorevolmente provinciale e arretrato”, come lui stesso commenta, con la conseguenza inevitabile che<br />

“ogni mio lavoro veniva immancabilmente sabotato”. Veri e propri quadri sonori richiamanti le provocazioni tipiche<br />

dei vari linguaggi artistici del Futurismo Pupazzetti troveranno una loro successiva collocazione (strumentati per nove<br />

strumenti) proprio in uno spettacolo <strong>di</strong> pupazzi “futuristi”, mentre i violenti bombardamenti sensoriali <strong>di</strong> Pagine <strong>di</strong><br />

guerra sono a giusta ragione definiti dal compositore stesso quali “film musicali” coerentemente alla visione cinematica<br />

dell’arte figurativa tipica, ancora una volta, del Futurismo. Ai tre film “girati” sul fronte occidentale e a quello sul fronte<br />

russo Casella ne aggiungerà successivamente – in seguito all’entrata in guerra dell’Italia – un quinto dal titolo Nell’Adriatico.<br />

Corazzate italiane in crociera.Fil rouge tra il tardo romanticismo <strong>di</strong> Busoni e il dramma della prima guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale è dato dagli otto Walzer op. 6 <strong>di</strong> Paul Hindemith i quali, nel loro corso, si “spostano” dalle descrizioni delle<br />

“drei wunderschöne Mädchen im Schwarzwald” evocanti il soggiorno del compositore nella Foresta Nera nel corso<br />

dell’estate 1914 e dalle evidenti citazioni dalle analoghe raccolte <strong>di</strong> danze <strong>di</strong> Brahms e <strong>di</strong> Reger alle deformazioni ritmiche<br />

che drammaticamente prendono piede nelle pagine finali unitamente alla cupa e inquietante chiusura (l’apertura<br />

era stata nella tonalità <strong>di</strong> si maggiore) sull’accordo <strong>di</strong> si minore.<br />

a cura <strong>di</strong> Giuseppe Fagnocchi<br />

DOMENICA 25 NOVEMBRE<br />

Italia e Mitteleuropa<br />

Immagini “en blanc et noir” del Novecento<br />

FERRUCCIO BUSONI (1866 – 1924) Zwei Finnlän<strong>di</strong>sche Volkweisen op. 27 (1889)<br />

ALFREDO CASELLA (1883 – 1947) Pupazzetti (1916)<br />

Marcetta<br />

Berceuse<br />

Serenata<br />

Notturnino<br />

Polka<br />

10 11<br />

Pagine <strong>di</strong> guerra (1915)<br />

Nel Belgio. Sfilata <strong>di</strong> artiglieria pesante tedesca<br />

In Francia. Davanti alle rovine della Cattedrale<br />

<strong>di</strong> Reims<br />

In Russia. Carica <strong>di</strong> cavalleria cosacca<br />

In Alsazia. Croci <strong>di</strong> legno<br />

PAUL HINDEMITH (1895 – 1963) Acht Walzer op. 6 (1915)<br />

Duo pianistico a quattro mani<br />

Martino Fe<strong>di</strong>ni - Matteo Franco


La conclusione dell’itinerario attraverso il Novecento musicale europeo c.d. “storico” si snoda nei paesi dell’est ove<br />

le ampie aperture alla musica c.d. colta dell’occidente sono sempre avvenute me<strong>di</strong>ante il felice connubio delle auliche<br />

forme con i ricchi contenuti delle tra<strong>di</strong>zioni popolari, caratterizzate musicalmente dalla prevalenza <strong>di</strong> ritmi piuttosto<br />

complessi e <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>e strutturate sopra svariate armonie <strong>di</strong> stampo modale, sapientemente ed efficacemente “organizzate”<br />

nelle ampie campiture <strong>di</strong> sonate e sequenze <strong>di</strong> variazioni. A tali tra<strong>di</strong>zioni delle loro terre d’origine hanno<br />

prestato una attenzione ed una passione del tutto particolari proprio i primi due compositori in programma, Bartók<br />

e Kodály, impegnati sia nella “ricerca sul campo” delle tracce della musica popolare e quin<strong>di</strong> maestri anche della moderna<br />

etnomusicologia, sia nell’applicazione nei loro testi non dei reali motivi popolari, ma del loro “respiro” e “colore”<br />

spirituale, astratto dalla contingenza, senza dubbio ben più efficace a sostenere composizioni <strong>di</strong> ampio respiro quali<br />

le strutture “colte” richiedono, garantendo comunque con estrema chiarezza le immagini e le suggestioni acustiche<br />

del loro mondo nativo. Sia la Sonata op. 4 <strong>di</strong> Kodály, sia la Rapso<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Bartók, rispecchiano uno schema piuttosto<br />

simile: entrambe sono articolate in due movimenti, il primo lento e a “fantasia”, con intenti prevalentemente me<strong>di</strong>tativi<br />

nonostante i <strong>di</strong>versi caratteri dei rispettivi temi, il secondo invece più veloce e decisamente coinvolgente sotto il<br />

profilo dell’incalzare ritmico, ed in entrambe la conclusione è data dal ritorno della citazione del tema iniziale del<br />

primo movimento, come in una sorta <strong>di</strong> danza circolare nella quale il soggetto è destinato a tornare su stesso, in un<br />

ideale, continuo ed eterno, ritorno alla certezza della “casa paterna” da cui il “viaggio” ha preso le mosse; un ritorno<br />

dal carattere ben <strong>di</strong>verso, <strong>di</strong> intima espressività e alle soglie del silenzio nell’op. 4, esuberante invece nella Rapso<strong>di</strong>a la<br />

cui versione originaria è per violino e che <strong>di</strong> questo strumento conserva per tutto il corso l’i<strong>di</strong>omatica brillantezza<br />

anche nell’arrangiamento per violoncello opera dello stesso Bartók.Anche il moravo Janáček fu attento stu<strong>di</strong>oso e<br />

amante del folklore, della cultura e della storia non solo del suo paese ma, più in generale, <strong>di</strong> tutto il mondo slavo e<br />

russo: fonte <strong>di</strong> ispirazione <strong>di</strong> Pohádka è il poema epico Skazka o tsare Berendyeye opera dello scrittore russo Andreyevich<br />

Shukovsky operante nella prima metà del <strong>di</strong>ciannovesimo secolo. Sottotitolato significativamente Storia del re<br />

Berendyey, del principe Ivan, suo figlio, degli intrighi <strong>di</strong> Kaščei l’immortale, e della saggezza della principessa Marja, figlia <strong>di</strong><br />

Kaščei, il lavoro <strong>di</strong> Janáček sviluppa, in un cupo pessimismo <strong>di</strong> fondo, i temi della lotta tra le forze del bene e del male,<br />

il dolore e l’amore, l’inganno e soprattutto la paura della per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> un figlio, e a questo riguardo si affaccia nel brano<br />

anche la vicenda autobiografica del compositore al quale era morta la figlia Olga. L’ascolto <strong>di</strong> Pohádka crea <strong>di</strong> conseguenza<br />

suggestioni spesso sospese nel vuoto del dubbio, dell’incertezza e della desolazione, in una sorta <strong>di</strong> ossessiva<br />

e allucinante ripetitività, cullanti ma anche tragiche ninna-nanne, alternate a squarci <strong>di</strong> ottimismo dati da sezioni che<br />

richiamano l’esterno paesaggio del mondo orientale espresso dai suoi popolari ritmi <strong>di</strong> danze e dalle sue semplici<br />

ma suggestive melo<strong>di</strong>e <strong>di</strong> festa popolana, proprio per questo dotate <strong>di</strong> genuina e schietta felicità. Il programma si<br />

conclude con un brillante lavoro <strong>di</strong> Martinů, compositore ceco, nel quale i motivi e i ricor<strong>di</strong> della terra d’origine si<br />

incontrano con un eclettico e molteplice bagaglio <strong>di</strong> esperienze, dal neoclassicismo stravinskiano alle ricerche <strong>di</strong><br />

avanguar<strong>di</strong>a parigina, fino a giungere alla componente jazzistica. Il rigore della forma, pur se intrisa <strong>di</strong> variegati contenuti,<br />

domina sempre nelle composizioni <strong>di</strong> Martinů e lo sguardo al passato ammicca, nel nostro caso, con ironia sottile,<br />

alla bravura virtuosistica del grande violoncellista Gregor Piatigorsky del quale offre un ritratto attraverso il “piacere”<br />

<strong>di</strong> alcune rivisitazioni sopra un tema <strong>di</strong> Gioacchino Rossini.<br />

a cura <strong>di</strong> Giuseppe Fagnocchi<br />

DOMENICA 2 DICEMBRE<br />

Tra<strong>di</strong>zione popolare ed espressioni colte<br />

nella musica del Novecento storico nell’Est europeo<br />

ZOLTÁN KODÁLY (1882 – 1967) Sonata op. 4 (1910)<br />

Fantasia<br />

Allegro con spirito<br />

BELA BARTÓK (1881 – 1945) Rapso<strong>di</strong>a (1929)<br />

Moderato<br />

Allegretto moderato<br />

LEOŠ JANÁČEK (1854 – 1928) Pohádka (Un racconto) (1910)<br />

Con moto<br />

Con moto<br />

Allegro<br />

Presto<br />

BOHUSLAV MARTINŮ (1890 – 1959) Variazioni sopra un Tema <strong>di</strong> Rossini (1949)<br />

Violoncello: Luca Paccagnella - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi<br />

12 13


GIUSEPPE GOLTARA<br />

14<br />

LA PITTURA<br />

Considerata, fin dagli inizi e a giusta ragione, una piccola miniera <strong>di</strong> sorprese e capolavori, anche nei casi in<br />

cui la qualità delle opere non è altissima e rimanda semmai a rigurgiti del manierismo e del barocco, la pinacoteca<br />

dell’Accademia dei Concor<strong>di</strong> è tra le più importanti del Veneto e ha attirato l’attenzione dei maggiori<br />

stu<strong>di</strong>osi. Ma, fra le sue raccolte, l’Ottocento e soprattutto il Novecento appaiono penalizzati, sia per<br />

la presenza rarefatta <strong>di</strong> opere importanti, sia per la casualità che ha presieduto alle acquisizioni.<br />

Eppure, non mancano le meraviglie e gli improvvisi sbalor<strong>di</strong>menti, che coniugano la raffinatezza con l’alta<br />

ispirazione. Si potrebbe parlare, almeno per il Novecento, <strong>di</strong> una collezione <strong>di</strong> nicchia, limitata nel numero<br />

e nella qualità, certo, ma non certo priva <strong>di</strong> organicità. Non è, infatti, <strong>di</strong>fficile in<strong>di</strong>viduare una piccola storia,<br />

colta nel suo farsi e perfino nelle sue velleità, dell’arte del Novecento, dal realismo provinciale all’informale,<br />

sovente con risultati <strong>di</strong> ottimo livello.<br />

Proprio per darne conto, sia pure con i limiti <strong>di</strong> un contesto che punta soprattutto al rapporto fra i <strong>di</strong>versi<br />

tipi <strong>di</strong> espressione artistica, abbiamo ritenuto opportuno orientare intorno al Novecento la rassegna <strong>Musica</strong><br />

e Pittura, che, in <strong>di</strong>ciassette anni <strong>di</strong> vita, ha ormai raggiunto una sua maturità. Si tratta, dunque, della opportunità<br />

<strong>di</strong> informare e soprattutto mostrare. Raramente le opere del secolo scorso sono state presentate<br />

al pubblico, se non secondo l’articolazione delle mostre personali.<br />

Sono passati più <strong>di</strong> trent’anni da quando Antonio Romagnolo, che era allora l’illuminato e appassionato <strong>di</strong>rettore<br />

della Pinacoteca dei Concor<strong>di</strong>, con la rassegna «Nati sotto Fetonte» (<strong>di</strong> cui resta fortunatamente<br />

il bel <strong>catalogo</strong>, irrinunciabile punto <strong>di</strong> riferimento) aveva fissato i termini e i percorsi <strong>di</strong> una storia dell’arte<br />

nel Polesine del Novecento, riuscendo a raccogliere ben cinquantacinque artisti, «dai maestri storici ai giovani<br />

che ancora frequentano le accademie <strong>di</strong> belle arti», senza timore <strong>di</strong> far «coesistere generi molto <strong>di</strong>versi<br />

e ricerche contrastanti». A questa iniziativa, aveva fatto importante riscontro una serie <strong>di</strong> piccole e preziose<br />

mostre personali <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> artisti italiani contemporanei, curata sempre e puntualmente da Antonio Romagnolo<br />

in collaborazione con l’importante gallerista ed e<strong>di</strong>tore mantovano Maurizio Corraini. Si trattò, allora,<br />

<strong>di</strong> un autentico svecchiamento della cultura artistica locale, ma anche <strong>di</strong> un ponte sicuro che metteva in<br />

comunicazione la provincia polesana con la grande arte internazionale. Purtroppo, in entrambi i casi, non ci<br />

fu un seguito.<br />

A tutto questo si riallaccia, con la necessaria modestia, l’o<strong>di</strong>erno percorso, minimale, ahimè, attraverso l’arte<br />

del Polesine del Novecento, con il riscontro del presente <strong>catalogo</strong>, che ripropone in appen<strong>di</strong>ce anche le<br />

opere <strong>di</strong> quei gran<strong>di</strong> maestri italiani che testimoniano la citata serie <strong>di</strong> mostre.<br />

Le scelte non sono casuali, ma prevedono ulteriori rassegne, così da dare visibilità a quegli artisti polesani<br />

che hanno operato fuori dai vincoli della provincia e <strong>di</strong> mercati che oggi si rivelano ben miseri.<br />

15<br />

Sergio Garbato


GIUSEPPE GOLTARA<br />

16<br />

17<br />

GIUSEPPE GOLTARA


CASIMIRO JODI CASIMIRO JODI<br />

18 19


CASIMIRO JODI<br />

20<br />

21<br />

ANGELO PRUDENZIATO


ANGELO PRUDENZIATO ANGELO PRUDENZIATO<br />

22 23


ERVARDO FIORAVANTI ERVARDO FIORAVANTI<br />

24 25


TOMASO FOSTER UGO BOCCATO<br />

26 27


UGO BOCCATO<br />

28 29<br />

ELVIO MAINARDI


OSVALDO FORNO<br />

30 31<br />

MARCO LAZZARATO


GABBRIS FERRARI<br />

L’opera “Lasciare Venezia” è <strong>di</strong> proprietà della Fondazione Banca del Monte <strong>di</strong> Rovigo<br />

32 33<br />

GABBRIS FERRARI


GIUSEPPE GOLTARA<br />

Di umili con<strong>di</strong>zioni, nato ad Arquà Polesine nel 1870, Giuseppe Goltara aveva seguito dapprima il corso <strong>di</strong> decorazione<br />

nella Scuola <strong>di</strong> <strong>di</strong>segno industriale applicata ai mestieri che Riccardo Cessi aveva aperto a Polesella,<br />

volgendosi anche allo stu<strong>di</strong>o del paesaggio. Se a dargli sostentamento era la «pratica restaurativo-muraria», a<br />

dargli qualche prestigio, soprattutto in ambito locale e, in seguito, anche altrove accanto al bolognese Achille<br />

Casanova, era l’attività <strong>di</strong> decoratore con inclinazioni al liberty, <strong>di</strong> cui resta compiuta traccia nella realizzazione<br />

della cappella funebre <strong>di</strong> monsignor Giacomo Sichirollo nel cimitero <strong>di</strong> Arquà. Come pittore, Goltara rivela<br />

una pre<strong>di</strong>lezione per il paesaggio. Il suo lascito consiste in una ventina o poco più <strong>di</strong> quadri a olio, in cui prevale<br />

il gusto per ambienti che gli sono famigliari, tinte chiare ma al tempo stesso un po’ fosche, venate sempre da<br />

un timbro nostalgico e da sommessi sentimenti. Proprio in questi paesaggi, che non si <strong>di</strong>scostano più <strong>di</strong> tanto<br />

dal linguaggio del tempo, l’artista riesce a trovare una cifra personale, che consiste soprattutto in una luce epifanica<br />

e in una completa sintonia con i soggetti e, in questo, è innegabile un rapporto con Segantini così come<br />

con il <strong>di</strong>visionismo, ma anche con certi repiri dell’impressionismo e perfino con l’ere<strong>di</strong>tà dei preraffaelliti. Vale,<br />

comunque e sempre, la spontaneità e la rispondenza poetica. Non va, infine, <strong>di</strong>menticata la con<strong>di</strong>visione delle<br />

istanze sociali che si precisavano a cavallo dei due secoli, come testimoniano l’adesione al programma della<br />

Società Operaia e le simpatie per il socialismo. Troppo breve l’esistenza <strong>di</strong> Giuseppe Goltara, che morì prematuramente<br />

nel 1914, perché tante premesse e tanto talento trovassero il necessario sviluppo. Significativo il<br />

fatto che al suo funerale fosse presente lo scultore ro<strong>di</strong>gino Virgilio Milani.<br />

CASIMIRO JODI<br />

Se c’è un artista che ha cantato con felicità Rovigo, restituendoci freschi e quoti<strong>di</strong>ani paesaggi urbani, quello è<br />

Casimiro Jo<strong>di</strong>, che polesano non era, dato che era nato a Modena nel 1886. A Rovigo, Jo<strong>di</strong> sarebbe approdato<br />

solamente nel 1937, già cinquantenne e artista maturo, e qui sarebbe morto appena una decina <strong>di</strong> anni dopo<br />

nel 1948.<br />

La storia <strong>di</strong> Jo<strong>di</strong> artista è contrassegnata da una continua evoluzione e dalla acquisizione <strong>di</strong> uno stile personale<br />

e compiuto, quella dell’uomo è invece un susseguirsi <strong>di</strong> spostamenti e trasferimenti nella sua carriera <strong>di</strong> insegnante,<br />

da Modena ad Asola <strong>di</strong> Mantova, da Brescia a Lovere <strong>di</strong> Bergamo e poi ancora Brescia, Piacenza e<br />

infine a Rovigo. Aveva esor<strong>di</strong>to giovanissimo come <strong>di</strong>segnatore satirico, per poi frequentare dal 1901 al 1908<br />

il Regio Istituto <strong>di</strong> Belle Arti <strong>di</strong> Modena, dal 1901 al 1908, per poi passare , come vincitore del concorso Luigi<br />

Poletti, all’Accademia <strong>di</strong> S. Luca a Roma, dove fu allievo <strong>di</strong> Aristide Sartorio. Lo ritroviamo a Modena nel 1913,<br />

ma dal 1915 al 1919, come ufficiale <strong>di</strong> fanteria, è a Verona, dove si sposa e frequenta artisti come Felice Casorati<br />

e Guido Trentini. Ritornato a Modena, terrà la sua prima e importante mostra personale con una settantatina<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti. Nel 1927 vince il primo premio alla Biennale nazionale del paesaggio <strong>di</strong> Bologna e sette anni dopo<br />

34<br />

partecipa alla XIX Biennale <strong>di</strong> Venezia. A Rovigo si trasferisce nel 1937 come preside del liceo scientifico Paleocapa.<br />

Attivissimo come pittore e come organizzatore <strong>di</strong> manifestazioni artistiche, Jo<strong>di</strong> racconta soprattutto<br />

la città, nella quale si trova a suo agio, con scorci e paesaggi <strong>di</strong> una straor<strong>di</strong>naria freeschezza, ma anche atmosfere<br />

e interni <strong>di</strong> grande suggestione. Nel 1948, l’anno della morte, aveva presentato una veduta <strong>di</strong> Rovigo (Mercato<br />

sotto le torri) alla XXIV Biennale <strong>di</strong> Venezia.<br />

ANGELO PRUDENZIATO<br />

Il vero esor<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Angelo Prudenziato, nato a Borsea nel 1907, è un autoritratto del 1929, quando già aveva<br />

concluso i corsi all’Accademia <strong>di</strong> Venezia con Gui<strong>di</strong>, in cui il giovane artista appare già proiettato nella pittura<br />

dei gran<strong>di</strong> maestri del Novecento, a testimonianza <strong>di</strong> una autonomia che si sarebbe <strong>di</strong>ramata poi in mille altre<br />

<strong>di</strong>rezioni, secondo le inclinazioni <strong>di</strong> un eclettismo estetico e tecnico che ha dell’incre<strong>di</strong>bile. Una volta terminata<br />

un’opera e attraversata una fase, Prudenziato era subito preso da nuovi soggetti e affascinato da altri stimoli,<br />

in un affastellarsi <strong>di</strong> progetti e <strong>di</strong> esperimenti, accostamenti e approssimazioni. Per lui, l’identità della pittura si<br />

trovava necessariamente nel molteplice. Eccolo, così, farsi futurista e con risultati strepitosi (quel Semaforo che<br />

è ormai un classico!), astratto, informale, figurativo e perfino pompier, smaniando come Proteo in mille e <strong>di</strong>verse<br />

forme, nelle quali finiva per non sentirsi mai realizzato. Tutto, insomma, <strong>di</strong>ventava sperimentazione, tentativo, ricerca.<br />

E le tracce <strong>di</strong> questo percorso accidentato sono spesso <strong>di</strong> altissimo livello espressivo, bagliori accecati,<br />

come molti lavori del periodo informale o della ricerca materica e tutta, o quasi, l’opera grafica. Solo la morte,<br />

nel 1980, riuscì a interrompere quel flusso ininterrotto <strong>di</strong> pittura e arte.<br />

ERVARDO FIORAVANTI<br />

Nato a Calto nel 1913, Ervardo Fioravanti aveva presto mostrato pre<strong>di</strong>sposizione per il <strong>di</strong>segno e la pittura,<br />

così aveva frequentato il vicino Istituto d’Arte <strong>di</strong> Castelmassa e poi l’Istituto <strong>di</strong> Belle Arti per la decorazione e<br />

l’illustrazione <strong>di</strong> Urbino, dove si era <strong>di</strong>plomato. La guerra lo aveva portato in Croazia e poi a Pantelleria, dove<br />

era stato catturato dagli Alleati e spe<strong>di</strong>to in un campo <strong>di</strong> prigionia a Hereford nel Texas, dove aveva incontrato<br />

altri artisti, scrittori e intellettuali. Al suo ritorno, dopo avere insegnato per due anni a Urbino, si era inse<strong>di</strong>ato<br />

a Ferrara, dove sarebbe <strong>di</strong>ventato <strong>di</strong>rettore dell’Istituto d’Arte Dosso Dossi. L’inverno del 1996, dopo una<br />

lunga malattia, se l’era portato via.<br />

Personalità versatile, pittore, giornalista e scrittore, fondatore <strong>di</strong> riviste e sodale dei maggiori intellettuali del<br />

suo tempo, Fioravanti del Polesine sapeva tutto, in una lunga e curiosa filastrocca <strong>di</strong> nomi e cognomi, luoghi e<br />

locali. Fin dall’adolescenza, aveva <strong>di</strong>segnato e <strong>di</strong>pinto quei paesaggi unici al mondo. Ma nei suoi quadri, c’era soprattutto<br />

la gente, c’erano quei personaggi rinserrati in scuri tabarri, con il cappello calcato in testa, che si por-<br />

35


tavano addosso l’odore acre del fumo e il sentore della nebbia. E i ciclisti che arrancavano sugli argini come<br />

ombre remote contro il biancore in cui sfumava la notte. Ma c’erano anche le piazze <strong>di</strong> paese e i crocchi <strong>di</strong><br />

donne con scialli e sottane sformate all’angolo <strong>di</strong> una strada, i vecchi consunti seduti per terra con la schiena<br />

appoggiata a un muro o a un albero. E gli interni <strong>di</strong> osterie, con i tavoli ingombri <strong>di</strong> bicchieri, le carte da gioco<br />

squadernate tra le <strong>di</strong>ta, il fumo denso dei mezzi sigari. Al Polesine aveva de<strong>di</strong>cato quadri e <strong>di</strong>segni e incisioni.<br />

Dai primi e già compiuti ritratti <strong>di</strong> paesani del 1932-33 agli scorci e agli schizzi <strong>di</strong> Rovigo e <strong>di</strong> altre località che<br />

il Polesine Fascista e Resto del Carlino gli avevano pubblicato tra il 1938 e il 1940, per poi continuamente soffermarsi<br />

sui paesaggi e sulle figure <strong>di</strong> una terra che restava familiare e vissuta nel profondo, fino al ciclo delle<br />

«Favole Polesane» del 1970 e a tutta una serie <strong>di</strong> quadri eseguiti sul limitare degli anni Ottanta.<br />

TOMASO FOSTER<br />

Poco si sa, a conti fatti, <strong>di</strong> Tomaso Foster, come se l’artista adriese fosse da sempre immerso alla sua leggenda.<br />

Artista unico e anche, se si vuole, <strong>di</strong>scontinuo, ma innegabilmente <strong>di</strong> grande livello. Avrebbe potuto segnare il<br />

momento <strong>di</strong> passaggio dalla pittura polesana del primo Novecento alla temperie degli anni Cinquanta, come<br />

<strong>di</strong>re da Riccardo Cessi e da Camillo Tumiatti a Boccato. Ma Foster era davvero un caso isolato, lontano da<br />

scuole e cronologie e attento piuttosto a un intimo rapporto con il paesaggio, come se fosse la prima volta<br />

che il delta del Po venisse rappresentato e interpretato. Ecco le dense macchie <strong>di</strong> vegetazione, gli stagni verdastri<br />

e il limitare paludoso delle valli da pesca, con le anitre selvatiche in volo e il cacciatore in agguato. L’importante<br />

era l’imme<strong>di</strong>atezza e dunque la rapi<strong>di</strong>tà dell’esecuzione, l’occhio era quello del cacciatore e del pescatore. Da<br />

qui una straor<strong>di</strong>naria forza espressiva, ma anche una profonda poesia della natura.<br />

Non era un naïf e c’era semmai molta e segreta sapienza nel suo modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>pingere. Aveva il gusto dell’amicizia<br />

e dell’insegnamento, proprio per questo, negli anni Cinquanta, aveva fondato ad Adria con altri artisti e sodali<br />

un gruppo che prendeva il suo nome e poi ancora il “Circolo Artistico Adriese” e il concorso nazionale <strong>di</strong><br />

pittura extemporanea “Via Ruzzina”. Paradossalmente la morte lo aveva colto, negli anni Sessanta, a Luino, lontano<br />

da Adria, dove però è sepolto.<br />

UGO BOCCATO<br />

Figlio <strong>di</strong> un calzo laio, Ugo Boccato era na to a Adria nel 1890 e aveva ottenuto una li cenza con primo pre mio<br />

in <strong>di</strong>segno decorativo alla Scuola d’arte applicata. Nel 1909 lo troviamo a Venezia con Milesi, Parmi e Cobianco.<br />

È artista anche nello spirito ribelle e nella vocazione per l’anarchia. Tre anni dopo partecipa alla spe<strong>di</strong>zione in<br />

Libia, dove viene ferito. Poi è la volta della Grande Guerra, nel corso della quale viene deferito alla corte<br />

marziale per avere pesantemente criticato le gerarchie militari e il governo in alcune lettere sottoposte a cen-<br />

36<br />

sura: quattro anni <strong>di</strong> carcere, subito amnistiati. Tra il 1919 e il 1920 soggiorna a Milano, legato a Frissa, Cantù e<br />

Amigoni. Poi il ritorno definitivo ad Adria, dove nel frattempo aveva messo su una famiglia numerosa. Antifascista,<br />

aderì al Comitato <strong>di</strong> Liberazione Nazionale, ma nel 1944 venne arrestato e rinchiuso in campo <strong>di</strong> concentramento<br />

in Polonia. Dal dopoguerra fino agli ultimi anni <strong>di</strong> vita continuò a <strong>di</strong>pingere e ad esporre (l’ultima mostra<br />

è del 1980). La morte lo colse ad Adria nel 1982. Settant’anni e più <strong>di</strong> pittura, dunque, affrontando tutti i generi,<br />

estraneo alle mode e attento piuttosto alla voce della propria ispirazione, pronto sempre a rimettersi in gioco,<br />

ma altrettanto decisamente ad abbandonare le strade che non lo portavano da nessuna parte. Luce e colore,<br />

piuttosto che la forma e i volumi, pittura assoluta innanzi tutto, che ben si coglie nei ritratti e nei moltissimi<br />

paesaggi.<br />

ELVIO MAINARDI<br />

Nato ad Adria nel 1934 e cresciuto all’ombra <strong>di</strong> una vecchia idrovora, che oggi è uno dei segni elementari del<br />

paesaggio, Elvio Mainar<strong>di</strong> ha coltivato una vocazione precoce, che si è definita progressivamente con gli stu<strong>di</strong><br />

a Bologna con Ilario Rossi e Corrado Corazza. E sono uomini e donne della sua terra, la fatica e il lavoro e la<br />

miseria che si affacciano nelle opere che lo avvicinano al neorealismo degli anni bolognesi. E sono anni <strong>di</strong><br />

intensa attività, nel corso dei quali l’artista cerca e trova il suo stile, partecipando a concorsi nazionali e internazionali<br />

ed esponendo nelle maggiori città italiane e, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, all’estero<br />

e più particolarmente negli Stati Uniti (importante l’antologica all’Istituto Italiano <strong>di</strong> Cultura <strong>di</strong> Los Angeles nel<br />

1996). Il trasferimento sotto i cieli purissimi della Valtellina, e più precisamente a Bormio, coincide non soltanto<br />

con una nuova vita, più libera e a contatto con la natura, ma anche con una nuova fase della sua pittura, che<br />

ormai si gioca sulla luce e sulla memoria, in una sovrapposizione <strong>di</strong> immagini e sensazioni che convivono <strong>di</strong>ventando<br />

ombre trasparenti e tracce cromatiche. È la luce, insomma, a farla da padrona attraverso le forme<br />

che si compenetrano trascolorando e si moltiplicano in riquadri e griglie e lontananze, una pittura che sa attingere<br />

in maniera personale a una tra<strong>di</strong>zione antica, non <strong>di</strong>mentica delle luci dei fiumi e delle nebbie, ma anche<br />

dei vetri romani e dei vasi greci che respirano nel grande museo <strong>di</strong> Adria.<br />

OSVALDO FORNO<br />

Nato a Rovigo nel 1939, Osvaldo Raffaele Forno si è <strong>di</strong>plomato all’Istituto d’Arte <strong>di</strong> Castelmassa e dal 1971<br />

ha insegnato all’Istituto d’Arte Dosso Dossi <strong>di</strong> Ferrara. La parabola artistica <strong>di</strong> Forno è il risultato <strong>di</strong> un processo<br />

creativo che, nel tempo, non si è mai <strong>di</strong>scostato da una coerentissima ricerca sulle forme e sul movimento<br />

della luce. Una continua sperimentazione linguistica, che partendo dalle avanguar<strong>di</strong>e storiche è giunta a liberarsi<br />

<strong>di</strong> ogni orpello, per costituirsi come momento autonomo in uno spazio che sta tra il silenzio e lo sguardo.<br />

37


Forno è attratto dal movimento profondo e silenzioso che sollecita ogni cosa, tanto da avventurarsi alla ricerca<br />

<strong>di</strong> quello che c’era all’origine, prima della forma, perché forse a quei barlumi si finirà per ritornare. Si tratta <strong>di</strong><br />

visioni che aspettano <strong>di</strong> sciogliersi in altre parvenze e trovare nuova vita. C’è, insomma, l’attesa <strong>di</strong> una forma,<br />

che finalmente permetta ai prototipi <strong>di</strong> cominciare a vivere e respirare in un mondo in cui è ammesso solo ciò<br />

che assomiglia a qualcosa. È, appunto, in questa attesa che la pittura si decanta ed è poi nel trapasso da una<br />

forma all’altra che si precisano nuove istanze cromatiche e la ricerca <strong>di</strong> una luce capace <strong>di</strong> dare senso a qualsiasi<br />

immagine. L’equilibrio si ottiene quando le forme si sintetizzano in moduli semplici e ripetitivi e tutti i colori<br />

dormono in un’attesa senza luce.<br />

GIANPAOLO BERTO<br />

Gian Paolo Berto è nato a Adria nel 1940 e ha iniziato a <strong>di</strong>pingere come auto<strong>di</strong>datta in giovanissima età, a soli<br />

se<strong>di</strong>ci anni ha tenuto la sua prima mostra nella Piccola galleria del Polesine a Rovigo. In quella occasione, Tono<br />

Zancanaro e Carlo Levi apprezzano le opere del giovane artista. E poco più tar<strong>di</strong> sarà proprio Levi, riferimento<br />

imprescin<strong>di</strong>bile e costante, ad accogliere Berto nel suo stu<strong>di</strong>o romano stabilendo con lui un rapporto profondo<br />

durato tutta la vita. Zancanaro, dal canto suo, introdurrà il giovane nel mondo della grafica, sollecitandolo a una<br />

«poetica <strong>di</strong> intrecci, contaminazioni, velature, segni che rimandano da un archetipo all’altro e da un’intuizione<br />

all’altra, in un processo <strong>di</strong> conoscenza». Titolare della cattedra <strong>di</strong> incisione e decano dei docenti all’Accademia<br />

<strong>di</strong> Belle Arti <strong>di</strong> Roma e artista <strong>di</strong> fama internazionale, Berto è un vero e proprio vulcano, pronto a sconvolgere<br />

abitu<strong>di</strong>ni e tempi organizzati, con gli estri e le piroette <strong>di</strong> uno che non si contenta della ingombra solitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />

un atelier, ma in ogni momento della sua giornata, tra acciacchi veri o solamente paventati, chiacchiere <strong>di</strong> pittura<br />

e filosofia, telefonate chilometriche a notte alta, entusiasmi e malinconie, slanci e ripensamenti, esercita una maieutica<br />

che è anche arte <strong>di</strong> una memoria infallibile con il vezzo dell’imprecisione. E tutto questo, va da sé, lo si<br />

ritrova in una selva variegatissima <strong>di</strong> opere lungimiranti e straor<strong>di</strong>nariamente composite, in cui la memoria e il<br />

genius loci (continuo e inevitabile il rimando alle acque del Polesine e ai canali <strong>di</strong> Venezia) svaporano nel sogno.<br />

Sogno vacillante <strong>di</strong> una società più giusta e sogno <strong>di</strong> amori perduti e impossibili, ma anche sogno che si apre<br />

a un vero e proprio an<strong>di</strong>rivieni <strong>di</strong> maestri, da Tono Zancanaro e Carlo Levi a Guttuso e Picasso e De Chirico,<br />

che, a saper guardare oltre le immagini, è un nume tutelare.<br />

MARCO LAZZARATO<br />

Il ba<strong>di</strong>ese Marco Lazzarato, docente <strong>di</strong> plastica ornamentale all’Accademia delle Belle Arti <strong>di</strong> Bologna, è anche<br />

filosofico e delicatissimo artista da molto tempo affermato in campo nazionale e internazionale. Dapprima delicatezza<br />

e perfetta adesione alla tecnica dell’acquerello e gusto <strong>di</strong> un <strong>di</strong>segno che, <strong>di</strong>etro l’apparenza decorativa,<br />

38<br />

cerca piuttosto nella <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> segni e figure geometriche <strong>di</strong> ritrovare una sorta <strong>di</strong> perfezione, quasi un<br />

mondo chiuso e concluso in sé, con riman<strong>di</strong> sottili al Rinascimento. A quelle immagini, quasi rispondendo a un<br />

progetto che si evoluto e perfezionato nel tempo, rispondono oggi dei «pensieri musivi», che sono saggi e<br />

sperimentazioni, che coinvolgono non solo la forma, ma l’uso e la rispondenza dei materiali, i rapporti cromatici<br />

e un piacere fisico nello stabilire la finitezza dell’opera. Pensare secondo i mo<strong>di</strong> del mosaico, significa aggirarsi<br />

intorno al figurativo, senza compromettersi e senza rifuggire. Una sorta <strong>di</strong> zona neutra, in cui i colori (e la<br />

qualità dei materiali), come nell’astratto, la fanno da padroni, secondo un rigoroso or<strong>di</strong>ne compositivo, che<br />

però finisce inevitabilmente per rifarsi a una forma geometrica, che a sua volta riconduce a simboli e significati<br />

profon<strong>di</strong>, che non vengono svelati, ma lasciati agire sottilmente.<br />

GABBRIS FERRARI<br />

Il ro<strong>di</strong>gino Gabbris Ferrari era <strong>di</strong>ventato pittore, quando era ancora poco più <strong>di</strong> un ragazzo. Da Angelo Prudenziato<br />

aveva, forse, appreso che la pittura è anche qualcosa che ha a che fare con tutto ciò che è fisico e<br />

tangibile, che le forme sono le cose e che tutto bisogna toccare e sperimentare. Ma presto aveva imparato<br />

che la pittura è anche esorcismo, capacità <strong>di</strong> esprimere che va oltre il tangibile, appunto, intuizione e avvicinamento<br />

progressivo, memoria incompiuta che continua nel tempo. E c’erano state le stagioni e i passaggi <strong>di</strong> una<br />

storia personale, che aveva trovato felice, ma provvisoria, risoluzione sui palcoscenici dei teatri, dove la pittura<br />

era percepibile dappertutto, ma viveva solamente in funzione <strong>di</strong> una rappresentazione. La pittura era anche<br />

<strong>di</strong>ventata, sotto le mentite spoglie del <strong>di</strong>segno, appunto <strong>di</strong> viaggio, riflessione e confessione, sfogo, in<strong>di</strong>zio <strong>di</strong><br />

altri percorsi e perfino <strong>di</strong>vinazione. Il pittore Gabbris (ri)nasce proprio quando il viaggio sembra approdare in<br />

un porto definitivo, che invece, come era capitato a Ulisse e ad altri ancora, è invece un luogo da cui partire<br />

nuovamente, con un itinerario mai casuale e sconosciuto, ma neppure noto, perché deciso e in<strong>di</strong>viduato <strong>di</strong><br />

momento in momento. È forse per questo che Gabbris Ferrari, dopo vent’anni <strong>di</strong> lontananza, ha <strong>di</strong>pinto e realizzato<br />

in pochi mesi, in uno stato <strong>di</strong> euforia e <strong>di</strong> turbamento, una settantina <strong>di</strong> opere, molte <strong>di</strong> grande formato<br />

e <strong>di</strong> felicità espressiva, in cui gioia e dolore si mescolano e si mascherano in colori luminosi e chiari, in forme<br />

sempre più inafferrabili, con presenze misteriose, ma anche rivelatrici.<br />

39<br />

Le schede sono a cura <strong>di</strong> Sergio Garbato


MARIO SIRONI<br />

TESORI DEL NOVECENTO<br />

NELLA PINACOTECA<br />

DELL’ACCADEMIA DEI CONCORDI


BRUNO MUNARI LUIGI VERONESI<br />

42 43


LUCIO DEL PEZZO<br />

44 45<br />

ACHILLE PERILLI


TOTI SCIALOJA TOTI SCIALOJA<br />

46 47


ENRICO CASTELLANI ENRICO CASTELLANI<br />

48 49


GIUSEPPE SANTOMASO<br />

50<br />

51<br />

GIULIO TURCATO


GIOSETTA FIORONI<br />

52 53<br />

CARLA ACCARDI


CONCETTO POZZATI<br />

54<br />

55<br />

ALBERTO BIASI


LEONE MINNASSIAN LEONE MINNASSIAN<br />

56<br />

57


INDICE<br />

Presentazione pag. 3<br />

Programma generale pag. 4<br />

La <strong>Musica</strong> pag. 5<br />

La Pittura pag. 15<br />

Tesori nel Novecento<br />

nella Pinacoteca dell’Accademia dei Concor<strong>di</strong> pag. 41


Pubblicazione a cura <strong>di</strong>: SERGIO GARBATO<br />

Progetto grafico a cura <strong>di</strong>: BARBARA MIGLIORNI<br />

Impaginazione&Stampa: TIPOGRAFIA ARTESTAMPA (RO)<br />

Le immagini fotografiche sono dell’Accademia dei Concor<strong>di</strong><br />

tranne quelle alle pagg. 46, 47, 48, 49, 50 ,51, 52, 54, 55 che sono <strong>di</strong> Paolo Ferrari.<br />

L’opera in prima <strong>di</strong> copertina è il Violino <strong>di</strong> GIANPAOLO BERTO<br />

L’opera in quarta <strong>di</strong> copertina è il Stu<strong>di</strong>o sul violoncello <strong>di</strong> GABBRIS FERRARI<br />

Fondazione Banca del Monte <strong>di</strong> Rovigo<br />

P.zza Vittorio Emanuele II, 48 - Rovigo<br />

Tel. 0425 422905<br />

<strong>Conservatorio</strong> Statale <strong>di</strong> <strong>Musica</strong> «F. Venezze»<br />

Corso del Popolo, 241 - Rovigo<br />

Tel. 0425 22273<br />

Accademia dei Concor<strong>di</strong><br />

P.zza Vittorio Emanuele II, 14 - Rovigo<br />

Tel. 0425 27991<br />

Finito <strong>di</strong> stampare nel mese <strong>di</strong> Novembre 2012<br />

n. copie 500

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