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Paese e accendere un faro sul riutilizzo degli immobili confiscati nella
capitale mi sembra significativo.
R.: Lei di cosa si occupa nello specifico?
I.: Lavoro per Report dal dicembre 2006. Da allora mi occupo di tutto. Non
ho un settore specifico di competenza, ma il tema della criminalità, della
gestione e degli sprechi nella pubblica amministrazione è sicuramente quello
che mi affascina di più.
R.: Qual è il rapporto tra giornalismo ed antimafia?
I.: Deve essere un rapporto simbiotico. Il giornalismo è antimafia anche
quando non parla di mafia. Deve raccontare, rendere pubblici e portare alla
luce fatti altrimenti non visibili all’opinione pubblica. Deve denunciare cosa
non va, che si tratti di mafia vera e propria o di qualsiasi altro
condizionamento.
R.: Cosa ne pensa della gestione/assegnazione dei beni confiscati alle mafie
a Roma e nel Lazio?
I.: Siamo molto indietro. Sicuramente mancano le risorse economiche per far
rivivere al meglio i beni confiscati, ma quello che ho potuto documentare
durante il mio lavoro è che in alcuni casi i responsabili del Comune, che
dovrebbe gestire questi immobili, non sanno neanche quanti ne hanno. Il
Comune di Roma si pregia di aver assegnato quasi tutti i beni a disposizione,
ma se poi verifica cosa viene fatto, fin troppo spesso, ci troviamo di fronte a
situazioni di abbandono e degrado.
R.: Il mancato utilizzo dei beni cosa provoca simbolicamente alla
collettività?
I.: I beni confiscati hanno e devono avere un forte impatto simbolico nei
confronti della criminalità: lo Stato si appropria di un bene che è il frutto
dell’illegalità. Al tempo stesso sono un messaggio di speranza verso
l’opinione pubblica: lo Stato è vicino ai cittadini, combatte la malavita e i
“proventi” li distribuisce sul territorio attraverso spazi pubblici e progetti
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