ELOGIO DELL'OLIVA E DEL SUO OLIO - Giacomo Bezzi
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4<br />
* Sardegna tale coltivazione pare sia stata introdotta dagli Spagnoli, al tempo che erano<br />
impegnati, al di là dell’Atlantico, nella colonizzazione dell’America del Sud.<br />
In quest’ultimo continente e nelle zone temperate del Cile, dell’Argentina e del Perù, fu<br />
tentata la coltivazione dell’olivo, che continua tuttora. La produzione sudamericana attuale<br />
di olio di oliva è tuttavia talmente esigua e di cattiva qualità da non impensierire più di<br />
tanto i produttori italiani.<br />
Invece, non c’è stato bisogno di colonizzazione di popoli mediterranei per far nascere una<br />
produzione olearia nell’Oceania: è bastato che alcuni ricchi australiani dai portafogli gonfi<br />
di dollari guadagnati allevando pecore, acquistassero nei vivai di Pescia intere partite di<br />
giovani piante di olivo e le acclimatassero nelle parti più temperate dei loro immensi<br />
territori. Così, ora, in piena globalizzazione, abbiamo anche l’olio di oliva australiano: ma<br />
neanche lui impensierisce più di tanto.<br />
Cosa che invece fanno i vini australiani, non solo; ma anche quelli californiani, quelli<br />
cileni, i sudafricani, i neozelandesi e gli argentini che molti giudicano di ottima qualità e<br />
che vengono esitati sui mercati mondiali a prezzi di assoluta concorrenza, malgrado i<br />
gravami logicamente altissimi dei noli marittimi. Prodotti come sono da vitigni cosiddetti<br />
internazionali - ma di chiara derivazione francese quali Merlot, Cabernet, Chardonnay,<br />
Sauvignon ed altri - cominciano a far paura ai loro lontani cugini italiani e, ironia della<br />
sorte, a quelli francesi.<br />
e<br />
L olive venivano raccolte a terra ed, immesse in sacchi di iuta od in ceste di vimini , erano<br />
trasportate nei frantoi: qui erano schiacciate da macine a mole cilindriche di pietra e ridotte in una<br />
pasta che veniva a sua volta ingabbiata con la pala in altre ceste di tessuto vegetale o animale<br />
(canapa, crine, giunco) per essere poi poste sotto lo strettoio (o strizzatoio) per sfruttarne per<br />
schiacciamento ogni goccia d’olio prodotto dalla frangitura.<br />
Le mole venivano mosse in un moto rotatorio continuo da un complicato sistema di viti senza fine<br />
(di legno, non essendo ancora conosciuta l’utilizzazione del ferro e dell’acciaio neanche nei macchinari<br />
più semplici) che veniva a sua volta messo in moto prima dagli schiavi, poi da animali<br />
pazienti quanto basta (asini o muli).<br />
Poi, scoperta la forza motrice, le mole vennero azionate prima con l’energia idraulica ed altrettanto<br />
complicati sistemi di gore, bottacci e ruote a pale; infine, con motori a vapore e, da<br />
ultimo, elettrici.<br />
Nel Carrarese, oltre il paese di cavatori di Torano, esistono tuttora i resti di una cava da<br />
ove venivano estratti i blocchi destinati ad essere ridotti, a colpi di scalpello, a macine o<br />
mole cilindriche per frantoi e mulini. La pietra, che è stata scavata fino ad un secolo e mezzo<br />
fa, non è marmo perché la cava delle macine è ai margini di quelli che i geometri chiamano<br />
agri marmiferi: è, invece, macigno, quella pietra grigiastra e dura da selciati, lontana<br />
parente della pietra serena con la quale fu costruita Firenze.<br />
Con la lunga macinatura delle olive e dalla pasta ricavatane, si otteneva così<br />
• l’olio extravergine (o di prima spremitura a freddo), mentre la pasta rimasta, miscelata ad<br />
acqua tiepida, veniva rimacinata e ristrizzata fino ad ottenere<br />
• l’olio di sansa, in genere di qualità a dir poco scadente ma di uso quasi quotidiano fra tutti i ceti<br />
sociali, sia per friggere che per condire.<br />
Quel che rimaneva dopo l’olio di sansa si chiamava morchia: era un impasto grasso, nero e piuttosto<br />
puzzolente che serviva per lubrificare i mozzi delle ruote dei carri e dei barrocci che, in<br />
campagna, abbondavano.<br />
Fra i sottoprodotti della frangitura delle olive non si deve dimenticare<br />
• l’olio da illuminazione (o lampante) per quelle fumiganti e non certo profumate lampade che<br />
sono state usate nelle campagne e nelle periferie delle città toscane fino all’arrivo della corrente<br />
elettrica, e