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ELOGIO DELL'OLIVA E DEL SUO OLIO - Giacomo Bezzi

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1<br />

GIACOMO BEZZI<br />

<strong>ELOGIO</strong> (SEMISERIO)<br />

<strong>DEL</strong>L’OLIVA E <strong>DEL</strong> <strong>SUO</strong> <strong>OLIO</strong><br />

********************<br />

(questo testo, riveduto e corretto il 1° Febbraio 2003, è stato pubblicato in più<br />

puntate dal portale web “Nettari di Bacco” e citato da numerosi motori di ricerca)<br />

Nota dell’Autore:<br />

Questo breve saggio - semiserio perché può esserci sempre in agguato un solone della<br />

Facoltà di Agraria pronto a prendermi in castagna - altro non è se non un capitolo di una<br />

guida rapida della quale sono l’autore dei testi e che ha per oggetto un viaggio ideale in<br />

una zona collinare della Toscana ove prospera l’olivo.<br />

Infatti........<br />

‘<br />

L albero dell’olivo vive nelle regioni temperate come la Toscana e tutta l’area mediterranea. C’è<br />

una massima, infatti, secondo la quale dove questa pianta smette di crescere, lì finisce il<br />

Mediterraneo.<br />

L’olivo, in condizioni climatiche favorevoli, diviene una pianta di incredibile longevità; quando è<br />

anziana, può raggiungere anche decine di metri di altezza e molti di circonferenza.<br />

In Sardegna, ad esempio, sono stati catalogati due olivastri (od olivi selvatici) della presumibile<br />

età di 2000 e più anni, dalla circonferenza del tronco di 12 metri e dal diametro di 25 metri alla<br />

fronda. Potrebbero - se la proposta di numerosi ambientalisti andasse in porto - divenire<br />

monumenti nazionali<br />

Nel mondo si conoscono duemila varietà di alberi di olivo, che si chiamano tecnicamente cultivar;<br />

solo in Italia se ne contano trecentonovantacinque.<br />

Spesso i frutti di questo albero, le olive - che, con termine botanico, sono drupe - hanno nomi a dir<br />

poco poetici a seconda delle loro varietà: e, così, ci sono<br />

• le leccine,<br />

• le moraiole,<br />

• le frantoio o frantoiane,<br />

• le caroleo,<br />

• le caratine,<br />

• le taggiasche,<br />

• le agùgge (aghi, in genovese),<br />

• le manzanelle,<br />

• le koroneiki,<br />

• le chetoul,<br />

• le lavagnine,<br />

• le colombare,<br />

• le pignole,<br />

• le mortine,<br />

• le casalive,<br />

• le bianchere,


2<br />

• le pendoline,<br />

• le correggiole,<br />

• le carboncelle,<br />

• le gentili,<br />

• le dritte,<br />

• le canine,<br />

• le pisciottane,<br />

• le ogliarole,<br />

• le ottobratiche,<br />

• le sinopolesi,<br />

• le maiatiche,<br />

• le peranzane,<br />

• le coratine,<br />

• le nocellare,<br />

• le biancolille,<br />

• le bosane,<br />

• le palme ed, infine,<br />

• le razzole; solo per citare quelle più conosciute.<br />

I rami dell’olivo dalle foglie grigio-argento, una volta potati, possono essere esitati<br />

durante la settimana antecedente la Domenica delle Palme per essere venduti agli ingressi<br />

delle chiese per la loro benedizione: è una antica tradizione cattolica che ha radici nel<br />

Vangelo.<br />

Come fanno parte della tradizione cattolico-romana e di quella greco-ortodossa i sacra<br />

menti che hanno, come tramite tra la Divinità e l’uomo, l’olio che - date le origini mediterranee<br />

della religione cristiana e le sue radici bibliche - non può essere che di olive.<br />

Lo stesso vocabolo Cristo è un aggettivo greco che vuol dire unto: e da chi se non dal<br />

Signore Dio dell’Universo?<br />

D’altra parte, partendo dalla stessa radice, si ha il sostantivo Crisma (volgarizzato in<br />

Cresima) che, sempre in greco, vuole dire unzione.<br />

E sono olii della tradizione cristiana quelli del battesimo, della cresima, quello della ordinazione<br />

sacerdotale e quello dei malati. Quest’ultimo si chiamava, in era preconciliare,<br />

olio santo o, che peggio, estrema unzione, perché con esso veniva segnata con la croce la<br />

fronte dei moribondi.<br />

Oggi, si è tornati alla antica dizione di olio dei malati, ed infatti nelle vecchie chiese ci sono<br />

ancora piccoli tabernacoli ove tale olio veniva custodito, e che portano tuttora incisa<br />

nella pietra la scritta latina oleum infirmorum.<br />

E sempre in altra epoca preconciliare - ma in questo caso si parla non del Concilio Vaticano<br />

Secondo, ma addirittura di quello di Trento che si tenne in pieno Rinascimento - era<br />

no proibiti il mercoledì, il venerdì, il sabato, per tutta la Quaresima ed i giorni di vigilia<br />

delle feste liturgicamente importanti, il mangiare la carne e l’uso dei grassi di origine animale<br />

(burro, strutto, lardo, etc.).<br />

Nella fascia mediterranea si sopperiva alla bisogna con l’olio di oliva e con quello di noci<br />

in quella prealpina. Fa fede di ciò l’episodio di fra’ Galdino nei primi capitoli dei<br />

Promessi Sposi.<br />

Questo consumo avveniva, ovviamente, nelle case dei nobili e dei prelati, ove si facevano<br />

pranzi e cene per strabiliare di fronte agli ospiti e dar loro segno del proprio potere. Non si<br />

hanno, invece, notizie certe di quanto accadesse invece nelle case dei povericristi, ma è<br />

indubbio che dei pranzi e delle cene dei ricchi ci sono pervenuti addirittura i menù e gli<br />

ordini di servizio al personale di cucina e di dispensa.


3<br />

E così si è venuti a sapere che, per esempio, nella dispensa dei palazzi di Lodovico Maria<br />

Sforza, l’ ultimo duca di Milano meglio conosciuto come Lodovico il Moro e come protettore<br />

di Leonardo da Vinci, c’era, oltre allo strutto ed al burro, l’olio di oliva (forse importato<br />

dalla Liguria) come unico condimento lecito nei giorni proibiti.<br />

Stessa cosa doveva accadere nella dispensa della corte dei Medici, tanto per rimanere in<br />

Toscana, ed in quelle di tante altre celebri casate dell’Italia delle Signorie.<br />

Nei paesi musulmani non mediterranei, come quelli della Penisola Arabica, invece, l’olio<br />

d’oliva aveva, invece, anche un significato medico se non taumaturgico: infatti, era venduto,<br />

fino a qualche anno fa, in ampolle o bottigliette nelle farmacie od in negozi similari.<br />

Oggi quasi certamente non più, perché anche paesi allora chiusi all’Occidente si sono<br />

omologati e sono entrati di forza anche loro nel mondo della globalizzazione.<br />

n<br />

A ticamente, da noi, le foglie degli olivi potati venivano anche usate in farmacia per ottenerne un<br />

infuso contro l’ipertensione arteriosa: se ne trova traccia nelle erboristerie dove questo ipotensivo<br />

all’olivo è stato rilanciato ed è divenuto un medicamento alla moda perché non chimico.<br />

Le stesse foglie, però, nelle nostre campagne venivano più prosaicamente date come pastura a<br />

vacche, buoi, cavalli, asini e muli.<br />

I rami, invece, una volta seccati, erano bruciati ed il loro fuoco emanava un sottile profumo, ottimo<br />

per aromatizzare arrosti allo spiedo di carni e selvaggina di ogni tipo.<br />

La raccolta delle olive si chiamava brucatura ed aveva inizio a fine novembre per quelle maturate<br />

precocemente, comunque mai più tardi del 13 Dicembre, giorno di Santa Lucia: un proverbio di<br />

origine incerta diceva: “Per Santa Lucia lascia la ghianda e piglia l’ulìa”.<br />

Fino alla seconda guerra mondiale, la frangitura delle olive veniva fatta nei frantoi a macine<br />

annessi alle case coloniche od in quelli pubblici, ma la lavorazione era identica a quella dei tempi di<br />

Omero, prima, e di Gesù, poi. Si parla, quindi, di due o tremila anni fa.<br />

Pare, addirittura, che la coltivazione degli olivi più o meno selvatici fosse stata introdotta<br />

in Liguria nella notte dei tempi dai Fenici o Focesi, che provenivano dall’attuale Libano,<br />

ai confini con l’Asia Minore dei poemi di Omero e con quelli con la Palestina della predicazione,<br />

della morte e della resurrezione di Gesù di Nazareth.<br />

Durante le loro peregrinazioni nel Mediterraneo, queste popolazioni di nomadi del mare<br />

avevano non solo colonizzato la zona delle foci del Ròdano e fondato una città che poi<br />

prese il nome di Marsiglia, ma si erano spinte al di qua del Golfo del Leone, nei territori<br />

abitati da dei rozzi celti chiamati Liguri.<br />

Nell’Italia del Sud, invece, pare che tale coltivazione fosse stata introdotta posteriormente<br />

dai Greci.<br />

Fenici e Greci avevano conosciuto l’olivo da popoli caucasici come gli àzeri - quelli<br />

dell’Azerbaijan di ora, insomma - coi quali erano entrati in contatto per motivi di scambi<br />

commerciali. Cose che facevano certamente anche gli Etruschi che abitavano quelle che<br />

sono oggi la Toscana meridionale ed il Lazio settentrionale.<br />

Etruschi, Fenici e Greci tramandarono le loro esperienze ai Romani.<br />

Invece, la coltivazione razionale dell’olivo come la si intende oggigiorno, viene fatta<br />

risalire da alcuni storici ad epoche più recenti, e cioè alle Crociate, quando dei soldati<br />

portarono dalla Palestina delle piante d’olivo ai benedettini. I buoni frati-lavoratori le<br />

disposero ordinatamente nel corso delle loro bonifiche dell’Italia malarica e delle sue<br />

campagne abbandonate dopo il passaggio dei barbari, fino alla creazione di quelli che oggi<br />

sono gli oliveti.<br />

Questo nella Penisola.<br />

Nelle isole, invece, la coltura razionale dell’olivo avvenne in maniera disordinata. Infatti,<br />

mentre in<br />

* Sicilia forse iniziò coi Greci nell’antichità e continuò coi Romani e proseguì cogli<br />

Arabi, in


4<br />

* Sardegna tale coltivazione pare sia stata introdotta dagli Spagnoli, al tempo che erano<br />

impegnati, al di là dell’Atlantico, nella colonizzazione dell’America del Sud.<br />

In quest’ultimo continente e nelle zone temperate del Cile, dell’Argentina e del Perù, fu<br />

tentata la coltivazione dell’olivo, che continua tuttora. La produzione sudamericana attuale<br />

di olio di oliva è tuttavia talmente esigua e di cattiva qualità da non impensierire più di<br />

tanto i produttori italiani.<br />

Invece, non c’è stato bisogno di colonizzazione di popoli mediterranei per far nascere una<br />

produzione olearia nell’Oceania: è bastato che alcuni ricchi australiani dai portafogli gonfi<br />

di dollari guadagnati allevando pecore, acquistassero nei vivai di Pescia intere partite di<br />

giovani piante di olivo e le acclimatassero nelle parti più temperate dei loro immensi<br />

territori. Così, ora, in piena globalizzazione, abbiamo anche l’olio di oliva australiano: ma<br />

neanche lui impensierisce più di tanto.<br />

Cosa che invece fanno i vini australiani, non solo; ma anche quelli californiani, quelli<br />

cileni, i sudafricani, i neozelandesi e gli argentini che molti giudicano di ottima qualità e<br />

che vengono esitati sui mercati mondiali a prezzi di assoluta concorrenza, malgrado i<br />

gravami logicamente altissimi dei noli marittimi. Prodotti come sono da vitigni cosiddetti<br />

internazionali - ma di chiara derivazione francese quali Merlot, Cabernet, Chardonnay,<br />

Sauvignon ed altri - cominciano a far paura ai loro lontani cugini italiani e, ironia della<br />

sorte, a quelli francesi.<br />

e<br />

L olive venivano raccolte a terra ed, immesse in sacchi di iuta od in ceste di vimini , erano<br />

trasportate nei frantoi: qui erano schiacciate da macine a mole cilindriche di pietra e ridotte in una<br />

pasta che veniva a sua volta ingabbiata con la pala in altre ceste di tessuto vegetale o animale<br />

(canapa, crine, giunco) per essere poi poste sotto lo strettoio (o strizzatoio) per sfruttarne per<br />

schiacciamento ogni goccia d’olio prodotto dalla frangitura.<br />

Le mole venivano mosse in un moto rotatorio continuo da un complicato sistema di viti senza fine<br />

(di legno, non essendo ancora conosciuta l’utilizzazione del ferro e dell’acciaio neanche nei macchinari<br />

più semplici) che veniva a sua volta messo in moto prima dagli schiavi, poi da animali<br />

pazienti quanto basta (asini o muli).<br />

Poi, scoperta la forza motrice, le mole vennero azionate prima con l’energia idraulica ed altrettanto<br />

complicati sistemi di gore, bottacci e ruote a pale; infine, con motori a vapore e, da<br />

ultimo, elettrici.<br />

Nel Carrarese, oltre il paese di cavatori di Torano, esistono tuttora i resti di una cava da<br />

ove venivano estratti i blocchi destinati ad essere ridotti, a colpi di scalpello, a macine o<br />

mole cilindriche per frantoi e mulini. La pietra, che è stata scavata fino ad un secolo e mezzo<br />

fa, non è marmo perché la cava delle macine è ai margini di quelli che i geometri chiamano<br />

agri marmiferi: è, invece, macigno, quella pietra grigiastra e dura da selciati, lontana<br />

parente della pietra serena con la quale fu costruita Firenze.<br />

Con la lunga macinatura delle olive e dalla pasta ricavatane, si otteneva così<br />

• l’olio extravergine (o di prima spremitura a freddo), mentre la pasta rimasta, miscelata ad<br />

acqua tiepida, veniva rimacinata e ristrizzata fino ad ottenere<br />

• l’olio di sansa, in genere di qualità a dir poco scadente ma di uso quasi quotidiano fra tutti i ceti<br />

sociali, sia per friggere che per condire.<br />

Quel che rimaneva dopo l’olio di sansa si chiamava morchia: era un impasto grasso, nero e piuttosto<br />

puzzolente che serviva per lubrificare i mozzi delle ruote dei carri e dei barrocci che, in<br />

campagna, abbondavano.<br />

Fra i sottoprodotti della frangitura delle olive non si deve dimenticare<br />

• l’olio da illuminazione (o lampante) per quelle fumiganti e non certo profumate lampade che<br />

sono state usate nelle campagne e nelle periferie delle città toscane fino all’arrivo della corrente<br />

elettrica, e


5<br />

• la carbonella di sansa, ottenuta facendo carbonizzare i nòccioli delle olive; questa carbonella<br />

veniva venduta nei neri negozi dei carbonai e veniva usata per farne la brace degli scaldini o<br />

caldani, unici mezzi di riscaldamento per le mani piene di geloni delle nostre nonne.<br />

Le olive, insomma, erano un po’ come Verdi ed il maiale: non si buttava via niente<br />

Infatti, le olive mature e cioè quelle nere, fresche o conservate in salamoia, avevano, poi,<br />

anche il loro giusto peso nella cucina toscana casalinga: facevano parte integrante di quei<br />

piatti detti alla cacciatora come stufati di pollo, coniglio ed addirittura cinghiale.<br />

Sparite le massaie che li sapevano preparare, questi piatti sono stati ripresi da qualche<br />

ardito ristorante dalle varie forchette e coltelli che li riesce ancora a preparare come<br />

ricette, sì, della nonna, ma a prezzi da nipote arricchito.<br />

In Liguria, le stesse olive nere, accoppiate però con i pinoli, componevano uno dei piatti<br />

genovesi ormai scomparsi: lo stufato di stoccafisso o stocchefìsce accomodòu.<br />

Le olive verdi, invece, quelle grosse o greche e anch’esse conservate in salamoia, venivano<br />

servite con della giardiniera a guarnizione di antipasti non molto dietetici a base di salame,<br />

prosciutto crudo, coppa, finocchiona ed altri salumi di produzione più o meno locale.<br />

Negli anni Ottanta, infine, l’arrivo imponente dei supermercati di capitale settentrionale<br />

con le loro vetrine scintillanti e ricolme di prodotti congelati, surgelati e precucinati dalle<br />

confezioni accattivanti, fece conoscere ai toscani prodotti alimentari fino ad allora del<br />

tutto ignoti perché nati al di là degli Appennini.<br />

Come le olive verdi ripiene all’ascolana, da friggere ancora surgelate: fu così che una città<br />

adriatica fino ad allora nota solo a qualche sportivo per le polemiche di Costantino Rozzi,<br />

- indimenticabile presidente dell’Ascoli Calcio - al Processo del Lunedì, andò a finire<br />

sulle tavole di chi aveva sostituito il fiasco col vino nostrano del su’ognato con quello in<br />

cartoni visto nei caroselli.<br />

Le olive ascolane, grandi e carnose, erano già conosciute nell’antichità e ne avevano<br />

parlato sia Plinio il Giovane sia Marziale; ma il piatto delle olive ripiene è forse di origine<br />

settecentesca e proviene dalla fantasia di qualche cuoco al servizio della nobiltà ascolana.<br />

Aveva un grande estimatore in Gioachino Rossini, pesarese, che si faceva spedire le olive<br />

all’ascolana a Parigi.<br />

Le olive all’ascolana, nella loro ricetta classica, sono prima snocciolate e poi farcite con<br />

un piccolo ripieno a base di carne.<br />

Ora c’è anche la versione col ripieno a base di pesce; ma è, per il momento, solo un’ardi-<br />

tezza di alcuni ristoranti alla moda.<br />

o<br />

T rnando all’olio extravergine, appena spremuto dalle olive scorreva dallo strizzatoio in un<br />

gorello per finire in un recipiente di legno chiamato tinella od ad una conca di terracotta, insieme<br />

all’acqua di vegetazione sulla quale galleggiava. Veniva quindi raccolto per sfioramento col piatto<br />

(o nappo) ed introdotto in barili di legno; successivamente era messo a chiarire per un giorno in<br />

conche di terracotta pulite ed asciutte.<br />

Il giorno dopo, calate sul fondo tutte le impurità, l’olio veniva definitivamente messo negli orci di<br />

terracotta; i locali dove l’olio maturava fino al consumo si chiamavano orciaie ed erano quello<br />

che, per il vino, sono le cantine.<br />

In Toscana i centri di produzione di orci da olio - a volte di proporzioni gigantesche - erano<br />

all’Impruneta ed a Montelupo, nel contado fiorentino, ed a Trequanda, nel Senese.<br />

Gli olii extravergini o di prima spremitura a freddo appaiono per qualche mese verdognoli: è<br />

l’effetto della clorofilla ancora presente nelle olive un po’ più acerbe che, a volte, si sono confuse<br />

con quelle veramente mature.<br />

Da più di cinquant’anni, comunque, la spremitura delle olive e, conseguentemente, la produzione<br />

dell’olio hanno raggiunto forme industriali considerevoli, sia come tempi di lavorazione sia come<br />

purezza del prodotto.


6<br />

C’è una ditta pratese di costruzioni meccaniche che ha addirittura messo in commercio un<br />

piccolo frantoio domestico su ruote: può lavorare nelle sue varie versioni dai 40 ai 150<br />

chili di olive all’ora e che funziona come un frantoio industriale moderno in tutte le varie<br />

sue fasi. La macchinetta evita all’olivicoltore il trasporto delle olive da oliveto a frantoio e<br />

può essere utilizzata anche dal vicinato: come la televisione ai tempi di Lascia o Raddoppia<br />

Il frantoietto domestico si chiama Olerina ed ha anche un sito web.<br />

Questo, solo parlando dell’extravergine.<br />

L‘olio di sansa, invece, dopo essere stato lavorato in raffinerie, assume la denominazione generica<br />

di olio d’oliva. Ne sono strapieni gli scaffali dei supermercati, e fa compagnia agli oli di semi,<br />

frutto di una moda importata, già dopo la fine del primo conflitto mondiale, dai paesi del Nord-<br />

Europa.<br />

Il consumo di questi olii, prodotti a bassissimo costo dalla spremitura della copra (la polpa dei<br />

cocchi seccata al sole africano), prima, e di quella dei semi di girasole, di soia, di colza, di mais ed<br />

ora addirittura di riso, soppiantò, per un buon mezzo secolo, quello dell’olio di oliva ritenuto a<br />

torto troppo mediterraneo e quindi troppo terrone.<br />

E’ stata, però, un’altra moda, quella della dieta mediterranea, a far tornare in auge l’olio di oliva e<br />

soprattutto l’extravergine.<br />

Oggi esistono anche, alla stregua dei sommeliers, degli assaggiatori di vini, gli<br />

assaggiatori di olii di oliva extravergini che sono in grado di dare un’aggettivazione<br />

diversa a seconda della provenienza (od origine) e delle cultivar: si hanno così olii fruttati,<br />

maturi, medi o leggeri, dolci, profumati, mandorlati, amari, piccanti, lisci ed intensi.<br />

Si sono adeguati a queste mode alcuni ristoranti dai vari cappelli e dalle varie forchette e<br />

dalle tariffe piuttosto robuste, che ora hanno - oltre alla carta dei vini - anche il carrello<br />

degli olii.<br />

Non solo: ma scopiazzando un po’ l’uso francese, hanno introdotto qualche anno fa presso<br />

una loro clientela tutt’altro che raffinata ma danarosa, la citronette e la vinaigrette che non<br />

sono altro che due salsette ottenute sbattendo con una forchetta un po’ d’olio ed un po’ di<br />

succo di limone, per la prima, ed un po’ d’aceto per la seconda. Ambedue le salsette necessitano<br />

anche di un pizzico di sale fino, e sono servite a certi ristoratori a far alzare i<br />

loro prezzi già poco abbordabili<br />

In Francia queste due salsette sono, però, poco più che un esotismo, perché l’olio prodotto<br />

dalla spremitura delle olive non fa parte della cultura francese se non, ed in maniera abbastanza<br />

esigua, di quella della sua fascia mediterranea: dalla Costa Azzurra che risente<br />

ancora delle consuetudini alimentari liguri, alla Linguadoca che guarda già oltre confine,<br />

verso la Catalogna. Il resto è mostarda.<br />

’<br />

L olio extravergine di oliva fa parte delle 103 denominazioni italiane protette dalla UE. Di<br />

queste, 72 con marchio DOP e 31 con IGP.<br />

21 denominazioni italiane protette sono relative all’olio extravergine DOP , ma una sola ad olio<br />

extravergine IGP: e quest’unica IGP si riferisce a quello che, se prodotto nella nostra regione, ha<br />

il diritto di chiamarsi Toscano.<br />

A loro volta, sono in corso di approvazione, da parte delle autorità comunitarie, alcune piccole<br />

varianti; infatti, oltre a Toscano IGP gli olii extravergini prodotti nella nostra regione potranno<br />

vantarsi anche di alcune denominazioni locali.<br />

E, quindi, si sono avuti da poco tempo l’olio del Chianti Classico e quello delle Colline<br />

Senesi, mentre sono in lista d’attesa quello delle Colline Lucchesi, quello della Lunigiana<br />

ed, addirittura, l’olio di Bòlgheri, sulle ali del fenomeno Sassicaia.<br />

Sono tutte zone piuttosto limitate dal punto di vista dell’ampiezza del territorio, ma va detto<br />

che i microclimi della Regione sono parecchi e le cultivar degli olivi sono altrettante, come<br />

del resto lungo tutta la Penisola dalle Prealpi a più profondo Sud.


7<br />

Le denominazioni di fantasia, poi, sono state proibite dalla UE , mentre, al contrario, so<br />

no di rigore quelle protette, sia come denominazioni d’origine (le DOP) sia come indica<br />

zioni geografiche (le IGP).<br />

Le DOP degli olii italiani extravergini si riferiscono all’olio<br />

• Aprutino-Pescarese, a quello di<br />

• Brisighella, al<br />

• Canino, a quella del<br />

• Cilento, a quello delle<br />

• Colline di Brindisi, di quelle<br />

• Salernitane e di quelle<br />

• Teatine, ed a quello<br />

• Dauno. Ci sono, poi, gli olii del<br />

• Garda e dei<br />

• Laghi Lombardi, dei<br />

• Monti Iblei e della<br />

• Penisola Sorrentina, quello della<br />

• Sabina, delle<br />

• Terre di Bari e di quelle di<br />

• Otranto, quello della<br />

• Umbria, quello delle<br />

• Valli Trapanesi, quello di<br />

• Lametia, ed, quello della<br />

• Riviera Ligure, quello - come riferito più innanzi - del<br />

• Chianti Classico ed, infine, quello delle<br />

• Colline Senesi o Terre di Siena.<br />

Quindi, se un olio è dichiarato, sì, extravergine, ma non vi sono nominate come protette né l’origine<br />

né l’indicazione geografica, vuol dire non solo che è prodotto da olive non raccolte in loco,<br />

ma che addirittura può essere risultato della raffinazione di olii grezzi provenienti da altre aree produttive<br />

del Mediterraneo comunitarie come Grecia e Spagna, od extracomunitarie come Turchia,<br />

Tunisia, e Marocco.<br />

Quindi, nessun olio che non sia interamente prodotto in Toscana in tutte le sue fasi potrà indebitamente<br />

accreditarsi come Toscano. E ciò anche a seguito di una decisione della Corte Europea<br />

Ad immagine e somiglianza di quelle associazioni civiche che favoriscono il turismo enogastronomico,<br />

sul tipo delle Città del Vino e di quelle del Tartufo, è nata e sta prosperando<br />

anche l’Associazione delle Città dell’Olio che comprende circa 120 associati tra comuni -<br />

che sono la maggioranza assoluta - camere di commercio ed altre istituzioni.<br />

La regione più rappresentata è, stranamente, la più piccola d’Italia, e cioè il Molise, mentre<br />

le meno presenti sono la Basilicata e, dati i climi non proprio mediterranei, il<br />

Friuli, la Venezia Giulia, la Lombardia (riva bresciana del Garda) ed il Veneto (riva<br />

veronese del medesimo lago).<br />

Rigorosamente fuori dal giro, Piemonte e Val d’Aosta ove l’olivo non ha mai attecchito.<br />

Curiosità nella curiosità: quattro olivi furono fatti attecchire, secoli orsono e chissà da chi,<br />

intorno alla chiesa parrocchiale di Tremeno (o Tramin) nel bolzanino, paesotto famoso per<br />

il Traminer, vino aromatico di mozartiana memoria.<br />

Ma anche nell’Appennino Emiliano, notoriamente freddo ed anticamera della nebbiosa<br />

Padania, qualcuno ha fatto attecchire l’olivo: è un’azienda agricola non lontana dall’elegante<br />

Salsomaggiore e specializzata nella coltivazione erbe aromatiche e medicinali.<br />

Questa azienda, conosciuta un po’ dappertutto per via del tam-tam di coloro che a Salso<br />

vanno a fare le acque, ha avuto qualche anno fal’incarico da parte del dipartimento delle


8<br />

piante arboree del CNR che ha sede a Scandicci (FI) di impiantare e far crescere l’olivo su<br />

quelle belle colline rigogliose d’estate ma innevate d’inverno.<br />

Pare che l’esperimento stia riuscendo; ma gli alberi non daranno raccolti da frangere, ma<br />

bensì foglie da sperimentare in erboristeria come ipotensivo.<br />

Qualcunaltro aveva, forse secoli fa, tentato la coltivazione dell’olivo e sempre nella stessa<br />

zona: ne è rimasta traccia solo in un albero, grande ed antico, che viene conservato<br />

religiosamente nei pressi di Tabiano.<br />

Non solo: ma si è fatta avanti, in questi ultimi tempi, una olivicoltura della piccola<br />

provincia di Trieste ove San Dorigo della Valle - ove l’italiano si tramuta nello sloveno ed<br />

il paese prende il nome di Obcina Dolina - ha voluto far parte delle Città dell’Olio.<br />

La cosa è piaciuta ai confinanti slavi che, a Pirano, hanno gettato le basi di una<br />

Associazione delle Città dell’Olio Slovene che vuole federarsi nella FEMO (Federazione<br />

Euromediterranea Municipalità Olivicole) che conta oltre 500 città in otto paesi bagnati<br />

dal Mare Nostrum.<br />

n<br />

I Toscana sono Città dell’Olio (rigorosamente in ordine alfabetico):<br />

Arcidosso,<br />

Castagneto Carducci,<br />

Castiglione d’Orcia,<br />

Cetona,<br />

Cinigiano,<br />

Montalcino,<br />

Montepulciano,<br />

Montespèrtoli,<br />

Pienza,<br />

Radicòndoli,<br />

Rapolano Terme,<br />

Reggello,<br />

San Casciano Bagni,<br />

San Gimignano,<br />

San Giovanni d’Asso,<br />

San Quirico d’Orcia,<br />

Sarteano,<br />

Seggiano,<br />

Siena,<br />

Sinalunga,<br />

Suvereto e<br />

Trequanda.<br />

Come si può notare, si tratta di località accentrate fra le province di Grosseto, Siena e Firenze, se si<br />

escludono Castagneto Carducci e Suvereto che fanno parte della provincia di Livorno.<br />

Le altre province, ad iniziare da quella di Lucca col suo olio bòno, quella di Pistoia con gli olii del<br />

Montalbano e quella di Pisa, con quelli del Monte Pisano e delle Colline Pisane, non hanno<br />

stranamente nessuna località citata nell’elenco di cui sopra.<br />

Sullo stile, poi, delle Strade del Vino (quella della Costa degli Etruschi è stata la prima in<br />

Toscana), stanno nascendo, forse un po’ laboriosamente, anche le Strade dell’Olio.<br />

La prima in assoluto in Italia, è nata nell’entroterra della provincia di Imperia, da dove<br />

proviene la cultivar detta taggiasca dal paese di Taggia che ha sulla costa un’appendice<br />

balneare, Arma, molto frequentata e, pertanto, più conosciuta dal grande pubblico.<br />

Altre iniziative stanno via via nascendo sempre sulla stessa falsariga: non solo si sono<br />

restaurati vecchi frantoi sul tipo di quello annesso all’ex convento di San Miniato al


9<br />

Monte, sul colle che domina Firenze e la cui basilica romanica si affaccia sul Piazzale<br />

Michelangelo, ma stanno prendendo vita anche i Musei dell’Olio.<br />

Il primo a nascere è stato quello di Cisano, frazione di Bardolino, amena cittadina di<br />

vignaioli che evoca il Beaujolais italiano; proprio là, sulle rive veronesi del Garda, un<br />

microclima quasi toscano aveva fatto crescere nel tempo, accanto a quella della vite,<br />

anche una cultura dell’olivo e vi era, nei tempi andati, abbondanza di frantoi e di gente<br />

dedita alla produzione ed al commercio dell’olio di oliva.<br />

Altri museini sulla stessa materia sono nati anche ad Imperia (quello dei Flli Carli) ed a<br />

Torgiano, in provincia di Perugia (quello delle Cantine Longarotti); un altro museo<br />

dedicato alla storia dell’olivicoltura è a Trevi, sempre in provincia di Perugia ed a due<br />

passi dalle fonti del Clitumno di carducciana memoria.<br />

Ma a Trevi non c’è solo il museo dell’olivicoltura: ce n’è anche uno dedicato all’arte<br />

contemporanea. Fa capo alla rivista Flash Art, molto nota agli appassionati delle<br />

bizzarrie degli artisti dell’ultima generazione, ed è ospitato nel Palazzo Lucarini.<br />

Recentemente quest’ultimo museo ha ospitato una grande collettiva dei più noti<br />

appartenenti alle varie transavanguardie, intitolata, perche no?, Extra Vergine sia in onore<br />

alla cittadina produttrice di una DOP , sia perché gli artisti riflettano su altri valori, come<br />

quelli della femminilità, della verginità, della sacralità e della purezza.<br />

Trevi ha un patrono, Sant’Emiliano, che fu un martire della prima cristianità: quasi<br />

certamente era un militare come Sebastiano ed anche lui fu legato ad una pianta degli olivi<br />

che già a quell’epoca erano rigogliosi in Umbria, ed ucciso per la sua fede.<br />

i<br />

F no a poche decine d’anni fa, l’olio prodotto dalla frangitura delle olive aveva, nella cucina<br />

casalinga toscana, gli impieghi più disparati che lo volevano a volte adoperato sia come legante al<br />

posto della panna, del burro o dello strutto che non facevano parte della cultura locale, sia come<br />

elemento essenziale per la<br />

• frittura del pesce di barca o delle verdure miste, sia infine come ingrediente di base nella<br />

pasticceria rustica, per la confezione della<br />

• stiacciata di Pasqua del contado pisano-livornese dal profumo di anice. Dolce da forno che non<br />

è affatto schiacciato come si sarebbe tentati a credere, ma a forma di cilindro, un po’ come il<br />

panettone milanese.<br />

Ironia della sorte e stravaganza della lingua italiana, la parola stiacciata o schiacciata significa in<br />

Toscana quella che è in Liguria è la fu^gassa che ha come ingrediente principe l’olio di oliva: ma<br />

le differenze fra la schiacciata toscana e la fu^gassa ligure sono molte, malgrado che le due regioni<br />

siano contigue.<br />

Anni fa, poi, un olio di oliva extravergine di Montespèrtoli, allegro paesotto alle porte del<br />

Chianti - importato chissà come in Piemonte - vinse una gara di bontà come ingrediente<br />

della bagnacauda che, come non tutti sanno, è un intruglio infernale a base di acciughe<br />

salate, aglio ed olio che, ben riscaldato se non bollente, è usato per intingervi verdure<br />

crude, nelle fredde serate di gelo e di nebbia degli inverni dell’Astigiano e delle campagne<br />

intorno a Torino.<br />

Un pinzimonio in versione Barbera.<br />

Una settantina d’anni fa i trattori toscani di prima generazione che invasero Milano, fecero<br />

conoscere agli intellettuali ed agli artisti di Brera la<br />

• ribollita, scatenando le ire dell’allora giovane Indro Montanelli che accusava di sacrilegio chi<br />

la aspergeva, invece che col filo d’olio di oliva come dalle sue parti, con una manciata di<br />

parmigiano grattato.<br />

Questo piatto povero, composto da fette di pane raffermo annaffiate da brodo di cavolo e di<br />

fagioli cannellini, assume, nella regione, diverse denominazioni:<br />

• minestra di pane, ad esempio, nell’Empolese, ma più semplicemente


10<br />

• zuppa (ma c’è anche la dizione inzuppa del contado) a Pisa.<br />

Ora che è stata mediata dalla televisione la parola romanesca bruschetta, molti toscani delle ultime<br />

generazioni non sanno neanche più che una fetta di pane abbrustolito, sfregata d’aglio, insaporito<br />

da sale e pepe ed irrorata d’olio di oliva, nella loro regione si è sempre chiamata<br />

• fettunta o, al massimo,<br />

• panunto.<br />

Altri piatti della cucina toscana povera - si sarebbe tentati a chiamarla primordiale - ma sempre a<br />

base di pane raffermo ed olio di oliva:<br />

• il pancotto (area carrarese-lunigianese): mollica di pane raffermo cotta in acqua salata con<br />

aggiunta di spicchi d’aglio e irrorato d’olio;<br />

• la zuppa lombarda (area pisano-lucchese): brodo di fagioli cannellini con aggiunta di foglie di<br />

salvia su fette di pane raffermo: il tutto condito con un filo d’olio;<br />

• l’acquacotta (area maremmana-senese), parente prossima della ribollita fiorentina ed della<br />

zuppa pisana, ma con aggiunta di uova fresche,<br />

• la panzanella (area fiorentina), insalata di pane raffermo inzuppato nell’acqua corrente e<br />

debitamente strizzato, condita poi con olio ed aceto ed arricchita da anelli di cipolla, fette di<br />

peperoni, rondelle di cetrioli, di ravanelli, di pomodori e di qualunque altra verdura<br />

dell’estate, ed infine,<br />

• il panzuppo (area carrarese) che era la merenda dei bimbi che non conoscevano la nutella:<br />

stesso procedimento della panzanella ma, ancor più semplicemente, fette di pane raffermo<br />

bagnato e strizzato e condito con olio, aceto, sale e pepe,<br />

• la pappa al pomodoro (area fiorentina) ottenuta con mollica di pane cotta e ricotta fino a<br />

divenire proprio una pappina, alla quale si aggiungono poi salsa di pomodoro, olio di oliva, sale<br />

e pepe.<br />

Nel contado fiorentino, poi, sono stati in voga fino a qualche decina d’anni fa i fagioli nel<br />

fiasco, o fagioli al fiasco. I componenti di questo piatto figlio della saggezza del popolo,<br />

erano l’acqua, il sale, i fagioli cannellini (o bianchi) toscani: meglio ancora se zolfini del<br />

Pratomagno, il massiccio selvoso che si erge fra le province di Firenze ed Arezzo e che è<br />

parte integrante del comprensorio della cosiddetta Montagna Fiorentina.<br />

Questo tipo di fagioli era in via di estinzione, trascinati nel baratro del consumismo; sono<br />

stati fatti rinascere e ricoltivati da un’associazione che, non per nulla, si chiama<br />

degli Agricoltori Custodi.<br />

Un fiasco spagliato veniva riempito di acqua salata e fagioli ammollati o freschi, e lo si<br />

coricava sopra la brace del camino non ancora ridotta a cenere. L’acqua si scaldava fino<br />

al punto di cuocere i fagioli che, poi, si facevano uscire dal fiasco rovesciandolo: una volta<br />

scolati ed, irrorati di olio di oliva di frantoio e con l’aggiunta di un pizzico di pepe nero,<br />

ecco pronto un piatto ricco di proteine vegetali.<br />

Qualcosa del genere doveva accadere anche molto prima dell’introduzione dei fagioli, di<br />

provenienza, come noto, centroamericana: quasi certamente gli Etruschi e gli Umbri condivano<br />

con olio di oliva i ceci e le lenticchie.<br />

L ’ olio di oliva, poi, verso la fine del ‘600, fu sposato molto bene da alcuni cuochi-pionieri con un<br />

altro prodotto vegetale di origine centroamericana, appena introdotto in Europa ed in Italia presso le<br />

corti dei regnanti, prima, e dei signorotti di campagna, poi. Questi ultimi lo facevano coltivare in<br />

larga scala dai villani perché si sfamassero a buon mercato.<br />

Si trattava della patata che era - ed è tuttora - un tubero che, cotto, poteva essere portato in tavola<br />

inventando, con l’aggiunta di altre verdure bollite, insalate abbastanza saporite per i gusti<br />

dell’epoca.<br />

Tuttora patate lesse con aggiunta di fagiolini ed altre verdure irrorate d’olio di oliva con l’aggiunta<br />

di po’ di sale (ed a chi piace un po’ di pepe nero) sono un piatto - a volte di contorno, a volte unico<br />

- di semplice esecuzione e di rara bontà.


11<br />

Pare addirittura che le insalate di patate lesse, con l’aggiunta di barbabietole rosse ed altre<br />

verdure invernali, amalgamate non più con olio d’oliva ma con maionese ed insaporite dalla<br />

senape avessero - nella Francia della Restaurazione, nelle cucine goderecce dei granduchi russi di<br />

stanza a Parigi - dato origine a quella che noi chiamiamo oggi insalata russa.<br />

Un altro sposalizio patate-olio è quello che prevede la presenza dello stoccafisso o del baccalà a<br />

seconda dei gusti: una semplice insalata di patate irrorate d’olio con aggiunta di un po’ di sale, a<br />

duettare con il merluzzo proveniente dagli àlgidi mari norvegesi e islandesi.<br />

La storia toscana dice che il primo carico di questi pesci essiccati al pallido sole del Mare del Nord<br />

arrivò a Livorno nel ‘600 con una nave battente bandiera inglese; alla dogana granducale i pesci<br />

secchi furono dichiarati pesci baccalari.<br />

Senza tenere in conto che l’olio di oliva è uno degli ingredienti principi di una salsa che, se non<br />

fosse per la ritrosia dei liguri in genere e dei genovesi in particolare, avrebbe potuto conquistare i<br />

palati di tutto il mondo forse più della pummarola ‘ncoppa dei napoletani: è il pesto alla<br />

genovese.<br />

Infatti gli ingredienti di questa salsetta, con la quale si condiscono sia le pastasciutte di trenette (o<br />

lingue di passero) sia i minestroni di verdure, sono cinque:<br />

• il basilico, che deve essere necessariamente quello della Riviera; l’altro sa di menta;<br />

• i pinoli, che devono essere di Pisa (e precisamente o di San Rossore o della Tenuta Salviati<br />

della Macchia di Migliarino);<br />

• l’aglio, del quale si deve sentire il profumo e non la puzza;<br />

• il formaggio sardo stagionato e grattugiato, che deve essere quello forte ed acuto che i sardi<br />

chiamano Fiore; si compra come i pinoli dai pizzicagnoli ad once (cioè a quarti di etto), dato<br />

alto costo;<br />

• l’olio di oliva, che serve per amalgamare il tutto, una volta che sia ridotto a poltiglia; e questo<br />

sia che sia stato usato il mortaio ed il pestello, sia che sia stata usata la mezzaluna ed il<br />

tagliere.<br />

Cose che ormai sanno fare solo poche massaie dal cognome Parodi, Traverso, Pedemonte o<br />

Boero.<br />

Fino a qualche decennio fa il pesto alla genovese non era neanche conosciuto in Toscana, terra di<br />

olio di oliva; lo stesso accadeva in Lombardia ed in Piemonte, terre di burro e strutto ma<br />

confinanti anch’esse con la Liguria.<br />

Oggi che il pesto alla genovese è negli scaffali dei supermercati, più o meno lo conoscono tutti,<br />

anche se, da una certa industria alimentare italiana, al posto dei profumati pinoli pisani sono usati<br />

gli insipidi pinoli cinesi. Quando non sono stati azzardati gli anacardi brasiliani e, per<br />

amalgamare, è stata usata la panna.<br />

Sempre meglio il pistou dei nizzardi, che aggiungono al basilico dei loro cugini genovesi, tuorli<br />

d’uovo lessi: in ambedue i casi, il povero Enzo Tortora avrebbe detto: Orrore!<br />

a<br />

L commercializzazione dell’olio di oliva avveniva, in altri tempi, in maniera piuttosto<br />

primordiale.<br />

Infatti, come in campo vinicolo esistevano i vinai che avevano negozi per la vendita del vino (le<br />

bottiglierie e le fiaschetterie) o che provvedevano alla vendita a domicilio (i damigianisti), così<br />

avveniva grossomodo con l’olio.<br />

Nel Genovesato, ad esempio, hanno resistito, fino all’arrivo della grande distribuzione, dei negozi<br />

di olii e saponi (perché il sapone si poteva produrre anche con i residuati della frangitura delle<br />

olive), mentre c’è chi ricorda anche le oliaie ambulanti che fornivano le massaie di olio spesso<br />

spacciato di produzione propria, fino a che non ci si accorse - primi anni sessanta - che di olive<br />

questi olii venduti porta-a-porta ne avevano visto ben poche.


12<br />

Addirittura si ipotizzò che tali olii fossero prodotti chimicamente attraverso la distillazione di scarti<br />

della macellazione: cioè con grassi ed ossa che dovevano essere destinati, invece, alla<br />

saponificazione.<br />

Poi furono creati i Nas e di questi intrugli non se ne parlò più.<br />

Nel Sei-Settecento, però, l’olio prodotto dagli oliveti toscani era considerato un bene<br />

primario ed addirittura sottoposto ad una specie di ammasso obbligatorio.<br />

Ne sono viva testimonianza, nella Livorno della Nuova Venezia, i Bottini dell’Olio che<br />

altro non erano che magazzini granducali ove l’olio veniva immagazzinato in grandi orci di<br />

terracotta interrati al di sotto del piano carrabile per poi essere distribuito a seconda delle<br />

richieste del mercato.<br />

I Bottini dell’Olio avevano, insomma, la funzione che oggi hanno, in campo vinicolo, le<br />

cantine sociali, ma perdettero nell’Ottocento la loro funzione originaria: furono ridotti a<br />

depositi comunali di carbone e di legna e divennero addirittura ricettacolo di materiale<br />

bellico dei vari eserciti che occuparono Livorno alla fine della seconda guerra mondiale.<br />

Furono anche semidistrutti dai bombardamenti aerei alleati, come tutti gli altri edifici dei<br />

rioni della Livorno storica.<br />

Qualche decennio fa i Bottini dell’Olio sono stati amorevolmente restaurati<br />

dall’amministrazione comunale ed adibiti a sede di mostre e di altre iniziative culturali: ma<br />

vi fa bella mostra di sé un vecchio grande orcio interrato, a ricordo della prima<br />

destinazione di quel capannone, perché in effetti di un capannone si tratta.<br />

Il suo ingresso, però, per toglierlo dall’anonimato, è adornato da una lapide che, nel latino<br />

aulico del Settecento, ricorda un granduca che volle tali magazzini.<br />

A gli<br />

inizi del ‘900, quando sulle tavole dei ricchi borghesi cominciava ad apparire l’olio raffinato e<br />

leggero di Oneglia, nacque il primo - e, per quasi mezzo secolo, unico - esempio di patrocinio<br />

culturale (meglio del anglolatino sponsorizzazione: da sponsor, colui che celebra le nozze).<br />

La ditta Sasso, produttrice dell’Olio Sasso che esiste tuttora, fece nascere, come evoluzione letteraria<br />

di una pubblicazione legata alla promozione dei suoi prodotti, “La Riviera Ligure”, una rivista<br />

che divenne un veicolo assolutamente innovativo nella cultura del Novecento. Ne diede le direzione<br />

a Mario Novaro e, sia dal punto di vista grafico sia dal quello contenutistico, fu ambita lettura di<br />

chi di poesia e di prosa poetica a quell’epoca s’intendeva.<br />

Ospitò firme abbastanza note nel panorama del primo Novecento: da epigoni del Classicismo come<br />

Francesco Gerace, Giuseppe Lipparini, Giovanni Marradi (livornese) e Guido Mazzoni, fino a<br />

poeti che guardavano a Pascoli ed a D’Annunzio, come Luigi Orsini e Aurelio Ugolini.<br />

Senza aderire a particolari movimenti alla moda, Mario Novaro fece pubblicare sulla propria<br />

rivista anche scritti di giovani disponibili a nuove esperienze, come Bino Binazzi, Filippo De Pisis,<br />

Lionello Fiumi, Francesco Meriano, Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa. Altri<br />

collaboratori della rivista, invece, lasciarono un segno profondo nella cultura italiana del ‘900, ed<br />

erano: Dino Campana, Emilio Cecchi, Umberto Saba, Clemente Rebora, Ceccardo<br />

Roccatagliata Ceccardi, Camillo Sbarbaro e Giuseppe Ungaretti.<br />

Esiste tuttora il Fondo Mario Novaro e della Riviera Ligure che, insieme a materiali stampati e<br />

fotografie relativi all’attività imprenditoriale dei Sasso, comprende quattromila lettere autografe e<br />

manoscritti dai collaboratori di quella antica rivista. Fra di essi, oltre i citati più sopra, Giovanni<br />

Pascoli, Guido Gozzano, Francesco Pastonchi, Corrado Govoni, Marino Moretti, Giovanni<br />

Boine, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Giovanni<br />

Papini, Salvatore Di <strong>Giacomo</strong>, Luigi Capuana, Aldo Palazzeschi e Piero Jahier.<br />

Al Fondo Novaro si sono aggiunte nel tempo numerose donazioni fatte da letterati ed uomini di<br />

cultura; tutta gente che non voleva disperdere testimonianze essenziali di un passato prossimo o<br />

recente, onde consentire la prosecuzione e lo sviluppo di particolari esigenze settoriali.<br />

Ecco cosa significava allora una sponsorizzazione culturale: ma erano anche i tempi di<br />

quell’enciclopedia popolare che furono le figurine Liebig.


Poi, vennero i concerti della Martini & Rossi.<br />

I nomi degli amici di Novaro se li ricordano solo i nostri nonni e qualche maestro elementare in<br />

pensione.<br />

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