Le ruggini ingabbiate I coglioni arrabbiati

Mio caro Péret,
da quando noi umani abbiamo cominciato a pórci seriamente la questione del
“dire”, il nostro rapporto con gli elementi del discorso si è fatto insensato et
nefando.
Per ciò che mi concerne, trovo risibile cercare un sollievo tra le parole: ci si
obbliga a rigurgitare lessemi, a smozzicare frasi, a cesellare invettive, ma si
finisce invariabilmente per ritrovarsi orfani di qualche emozione, come tanti
sofisti che collezionino assurdità in parodie di pensieri che conducono
all’inessenza.
Altrimenti detto, e senza menarla tanto, ti confesso che scrivo ormai quasi
sempre con una certa svogliatezza, e nelle poche occasioni in cui mi ritrovo a
farlo, foss’anche per una semplice lettera, ne sono come sconcertato.
Questo non vuol dire che lo scrivere, attraverso la macerazione epocale
dell’immaginario umanista, abbia perso senso. Anzi, proprio divenendo
“insensata”, la scrittura ha acquisito un senso altro, che spesso trascende il
rapporto dialettico e socialmente indotto tra significante e significato. (…).
I luoghi della scrittura, dove veniamo condotti dalla nostra abitudine al
“disastro”, non fanno che riportarcelo come indicibilità del senso. Ed è proprio
questo il bello.
Quanto al resto, a tutto ciò che beffa il pensiero sfuggendogli almeno in parte, e
che continua ad alimentare i nostri slanci verso una vita assolutamente poetica,
proprio a quel resto dobbiamo senz'altro la capacità di poter ancora distinguere i
nostri compagni nella nebbia.
Che poi s'impugni una penna o una pistola, a difesa di ciò che riteniamo
amabile, questo dipende soltanto dalla situazione, dal coraggio. E dal tasso di
poesia nel sangue.