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isolandolo dal resto del sermone.<br />

Con una cruda durezza che bene viene resa dall'omelista vercellese, il Cristo del<br />

De Misericordia, dopo avere ricordato al peccatore che la terra su cui vive non è sua ma<br />

del suo Creatore 85 , così apostrofa il suo interlocutore:<br />

“Pauperes mei uiuunt sine te. Tu si potes, dura sine me. Pauperes mei habentes me omnia<br />

habent. Tu quid habes si me non habes? O pauper, quid sollicitus es? Dominus habes et times?<br />

O diues, Dominum non habes et uiues. Quid aucturus est, miser? Misereberis miserum non<br />

uidere? Diues, forsitan times ne dando finias; qui hoc cogitas finem non cogitas. Si pecunia<br />

non finitur, uita tamen tua finitur quando non speratur. Sic considerauit ille diues qui in<br />

habundantia torquebatur, et quasi de inopia quærebatur. Quid inquit, faciam domum quia<br />

non habeo ubi fructus congregem” 86<br />

In questo caso, dunque, l'anonimo scrittore anglosassone, dopo avere reso con<br />

precisione l'immagine della vicinanza del Signore ai poveri e della parallela impotenza<br />

del ricco uomo tristemente privato del Suo appoggio, si allontana dalla fonte latina per<br />

tratteggiare il quadro del cupo destino del peccatore: è innegabile, però, che nelle<br />

ripetute e incalzanti domande di Cristo si possano leggere i risultati di una opera di<br />

sottile amplificazione del monito sulla finitezza della vita umana e sulla inanità delle<br />

ricchezze che muove il testo latino.<br />

L'errore di avere desiderato di prosperare nella ricchezza e non in Dio ha dunque<br />

condotto alla perdizione l'anima del ricco avido, un destino che potrebbe coinvolgere<br />

non solo lui ma anche i suoi sventurati eredi, così come sembra trasparire dall'ultima<br />

sequenza di incalzanti domande poste dal Redentore al suo silenzioso interlocutore:<br />

“Eawla, ðu, dysega ond gedwealda, to hwy getruwedest ðu ðe on þine speda ond on þine æhta?<br />

þin sawl on þisse ilcan niht bið be minre hæse of ðinum lichoman alæded. Ac hwa fehð þonne<br />

to þam þe þu lange stryndest? Oððe hwam gearwodest þu þin botl oððe þine getimbro, nu þine<br />

yrfeweardas leng lyfian ne moton, for þan þu me noldest nanne þanc don minra goda?” 87<br />

secondo Zacher, è la ripetizione all'interno del discorso del Salvatore (in ben quattro occasioni) del<br />

verbo afyrre (allontanare), espressione già utilizzata nel breve passo in versi seguente al Discedite a<br />

me, e strettamente connessa con il tema dell'esilio in esso contenuto. Cfr. Zacher 2004, pp. 62-63.<br />

85 “Nam ipsa quam dicis non est tua. Nam audisti dicentem: 'Domini est terra et plenitudo eius'. Producat<br />

terra fructus sine pluuia mea.” (cfr. Cross 1990, pp. 432 e 434)<br />

86 Cfr. Cross 1990, pp. 432 e 434-435.<br />

87 Cfr. Scragg 1992, pp. 207.190-208.196; “Oh tu, stupido e fallace, perché hai confidato nei tuoi<br />

successi e nei tuoi beni? La tua anima in questa stessa notte sarà condotta fuori dal tuo corpo per<br />

Mio stesso comando. Ma chi esulterà per ciò che tu hai per lungo tempo dissipato? O per chi hai<br />

preparato tu la tua casa o i tuoi possedimenti, ora i tuoi eredi potrebbero non vivere a lungo, dato<br />

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