La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini tra la Vita e le rime

GIUSEPPE CRIMI
La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
tra la Vita e le rime
Versi nell’oscurità
Lo scopo di questo contributo consiste nell’evidenziare il significato delle
rime celliniane nel (e sul) carcere, anticipate e preparate dalla scrittura del più
celebre prosimetro. Prima di entrare nel vivo dell’esperienza di Cellini e di
seguire il suo viaggio tra prigioni e visioni 1 , appare necessario ricalcare i passi,
1 Sul motivo della prigione si veda il numero monografico di «Lectures», 12 (giugno,
1983), intitolato Prigioni, in particolare, per avviare un discorso teorico, il contributo di E.
GUIBERT-SLEDZIEWSKI, Le cachot: ressorts cachés (pp. 11-19); V. BROMBERT, La prigione
romantica. Saggio sull’immaginario (trad. it.), Bologna, il Mulino, 1991; M. L. MENEGHETTI,
Scrivere in carcere nel medioevo, in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Maria
Picchio Simonelli, a cura di P. Frassica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992, pp. 185-99 e il
numero monografico della rivista «Primapersona. Percorsi autobiografici» (a. IX, 17, 2007),
intitolato Carceri e carcerati. Non sono riuscito a prendere visione del volume di J.
SUMMERS, Late-medieval Prison Writing and the Politics of Autobiography, New York, 2004.
Per l’antichità classica si veda Carcer. Prison et privation de liberté dans l’Antiquité classique.
Actes du colloque de Strasbourg (5 et 6 décembre 1997), édités par C. Bertrand-
Dagenbach, A. Chauvot, M. Matter et J.-M. Salamito, Paris, De Boccard, 1999, mentre, per
aspetti che investono anche l’epoca medievale, si può consultare Carcer II. Prison et privation
de liberté Dans l’Empire romain et l’Occident médiéval. Actes du colloque de Strasbourg
(1 er et 2 décembre 2000), édités par C. Bertrand-Dagenbach, A. Chauvot, J.-M. Salamito et D.
Vaillancourt, Paris, De Boccard, 2004, in part. i saggi di Étienne Wolf (Poeta inclusus: le cas
de Dracontius, pp. 123-28), di Vincent Zarini (Captivité et liberté chez Boèce d’après la
Consolation de la Philosophiae, pp. 129-41) e di Barbara Morel (La prison et son image en
France du XIII e au XV e siècle, pp. 151-68), utile, quest’ultimo, per i numerosi riscontri con la
cultura italiana. Preziose indicazioni provengono dal contributo di S. JOSSA, Il luogo della
poesia: la prigione del Tasso a Sant’Anna, in Spazi, geografie, testi, a cura di S. Sgavicchia,
Roma, Bulzoni, 2003, pp. 45-57. Sulla prigionia di Cellini, sondata prettamente dal punto di
vista storico, si rimanda a E. RODOCANACHI, Le château Saint-Ange. Travaux de défense,
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più o meno illustri, che hanno preceduto l’orafo fiorentino, soprattutto per entrare
in confidenza con un immaginario e con una topica all’epoca condivisi.
La scrittura tra le mura delle prigioni ha uno tra i più noti antecedenti nella
lauda di Iacopone da Todi Que farai, fra’ Iacovone? 2 . Nel Quattrocento si può
ricordare il «Sonetto di Nanni Pegolotti in prigione al signor Alberto Marchese
da Esti», ovvero Se Minos tenne nella torre stretto, dove il motivo che permea i
quattordici versi consiste nell’ingiustizia della pena in rapporto all’azione commessa
3 . Nello stesso secolo, nel Meridione, versi copiosi furono scritti da
Giannantonio Petrucci 4 , arrestato il 13 agosto 1486 per motivi politici ed impri-
appartements des papes, sièges, prisonners, exécutions, le trésor, Paris, Librairie Hachette &
C IE , 1909, pp. 94, 102, 134-37, 151-52, L. GRECI, Benvenuto Cellini nei delitti e nei processi
fiorentini ricostruiti attraverso le leggi del tempo, in «Archivio di Antropologia criminale
Psichiatria e Medicina legale», s. IV, L, 1930, 4, pp. 342-85 e 509-42 (preceduto dall’articolo
Ombre criminali in Benvenuto Cellini, in «Corriere padano», 23 novembre 1929), P.
CALAMANDREI, Scritti e inediti celliniani, a cura di C. Cordié, Firenze, La Nuova Italia, 1971,
pp. 8-35, Benvenuto Cellini. Opere non esposte e documenti notarili, a cura di D. Trento,
Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1984, pp. 48-49, e CH. KLOPP, Sentences: The
Memoirs and Letters of Italian Political Prisoners from Benvenuto Cellini to Aldo Moro,
Toronto, University Press, 1999, pp. 12-15. Per quanto riguarda l’esperienza della detenzione
e la sua trasformazione in mito letterario vd. J. BERCHTOLD, Le séjour en prison dans l’autobiographie
d’artiste: mythification de l’expérience vécue dans la Vita de Benvenuto Cellini,
in Le Moyen Âge dans la modernité. Mélanges offerts à Roger Dragonetti, Etudes recueillies
et présentées par J.R. Scheidegger avec la collaboration de S. Girardet et E. Hicks, Paris,
Honoré Champion, 1996, pp. 73-91. A titolo di segnalazione si veda C. ANTONIADE,
Benvenuto Cellini, in ID., Trois figures de la Renaissance. Pierre Arétin, Guichardin,
Benvenuto Cellini, Paris, Desclée De Brouwer & C ie , 1937, pp. 275-84. Le burrascose vicende
giudiziarie celliniane spinsero Emilio Chiorando, navigato conoscitore degli anfratti di
Castel Sant’Angelo, a scrivere un racconto sul periodo di incarcerazione del nostro (dove la
fantasia dell’autore si mescolava con brani copiati dalla Vita), Le prigioni di Benvenuto
Cellini in Castel Sant’Angelo, Roma, Tip. Pinci & Brocato, 1921 (uscito precedentemente
con lo stesso titolo, ma con un taglio saggistico, in «Nuova Antologia», s. VI, CXCVI, luglioagosto
1918, pp. 31-46): nella prima parte veniva esaltata l’indole aggressiva di Cellini, salvo
poi far emergere l’ascetismo ed il misticismo (pp. 34-35); a p. 43 veniva riportato il sonetto
S’i’ potessi, signor, mostrarvi il vero. Alle pp. 49-51 (n.n.), poi, lo studioso tentava di ricostruire
i luoghi esatti della detenzione.
2 Una breve ma preziosa rassegna di testi scritti in carcere si deve a E. SCARPA, Andrea
de’ Medici detto «il Butto», in «Studi di filologia italiana», XLVII, 1989, pp. 151-52; la Scarpa,
poi, a p. 152, ricorda le importanti figure storiche di alcuni amanuensi prigionieri. Si pensi
anche a Cennino Cennini, che scrisse il trattato della pittura nel carcere delle Stinche.
3 Si legge in Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, 2 voll., Roma, Bulzoni,
1973-75, vol. II, p. 218.
4 Mi limito a segnalare F. TATEO, I sonetti di un carcerato: Giannantonio Petrucci, in ID.,
L’umanesimo meridionale, Bari-Roma, Laterza, 1981 2 , pp. 106-10, M. SANTAGATA, La lirica
aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979,
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gionato nella torre di San Vincenzo di Castelnuovo: fu decapitato, assieme al
fratello e al padre, l’undici dicembre dello stesso anno. In carcere il Petrucci
scrisse ottanta componimenti di vario metro, soprattutto sonetti, lamentando
l’avversità del destino e della fortuna (De sutto al Fato sta ciò che è creato, Conosco
contra me sí adverso fato, Quantunche da fortuna in sicco lito e Quando
omo se retrova in bono stato).
Vergati durante la detenzione sono i sonetti di Francesco Cagnoli, nei quali
vengono elencate le torture subite e dove si proclama energicamente l’innocenza
5 . Tra i più celebri sonetti sull’argomento, il Quattrocento annovera quelli burchielleschi,
Magnifici e potenti Signor miei, Lievitomi in sull’asse come ’l pane,
Ficcami una pennuccia in un baccello e Signori, in questa ferrëa graticola 6 .
Attribuito a Branca Brancacci, incarcerato nelle Stinche, è il sonetto O voi
ch’entrate dentro a questo chiostro 7 . Alla seconda metà del XV secolo, invece,
vanno ascritti i nove sonetti composti da Andrea de’ Medici detto il Butto 8 .
All’inizio del secolo decimosesto viene impressa l’opera di Piattino Piatti
(imprigionato a Monza), ovvero il Libellus de carcere. Elegiae cum epigrammatis
veteris et novis (Milano, G. de Ponte, 1508), che però deve essere stato composto
dopo il 1469-1470, periodo di detenzione dell’umanista 9 . Si ricordino poi
i due sonetti di Machiavelli a Giuliano di Lorenzo de’ Medici 10 ; del 1522 è
pp. 258-59 e B. BARBIELLINI AMIDEI, Alla Luna. Saggio sulla poesia del Cariteo, Firenze, La
Nuova Italia, 1999, pp. 18-21, da cui si può ricavare la bibliografia pregressa. Il testo di riferimento
è E. PERITO, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, con l’edizione completa
e critica dei sonetti di G.A. de Petruciis, Bari, Gius. Laterza & figli, 1926, pp. 171-287. Una
scelta di rime si può leggere nel più recente volume La lirica napoletana del Quattrocento, a
cura di A. Altamura, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1978, pp. 113-23.
5 Si leggono nel ms. Holkham Hall, 521, cc. 87r e 87v (il secondo è riportato nell’appendice);
per la descrizione del ms. rimando ad A. COMBONI, Rarità metriche nelle antologie di
Felice Feliciano, in «Studi di filologia italiana», LII, 1994, pp. 65-92.
6 In I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004, LXIII, LXXVI,
LXXVII e CXXVIII.
7 Si legge in Lirici toscani..., cit., vol. I, p. 327, segnalato da SCARPA, Andrea de’ Medici
detto «il Butto», cit., p. 152 e n. 1.
8 Ivi, pp. 202-209.
9 Cfr. A. SIMIONI, Un umanista milanese. Piattino Piatti, in «Archivio storico lombardo»,
s. IV, a. XXXI, II, 1904, fasc. III, pp. 5-50 e fasc. IV, pp. 227-301 (per i mss. vd. ivi, pp. 287-89).
10 N. MACHIAVELLI, Opere, III, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi-Gallimard, 2005, pp.
8-9. Cfr. P. VILLARI, Niccolò Machiavelli e suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 2a edizione
riveduta e corretta dall’Autore, 3 voll., Milano, Hoepli, 1895-1897, vol. I, pp. 204-209.
Seppur non siano state scritte in carcere, ma in uno stato di isolamento coatto, si possono
ricordare le rime di Isabella Morra, nelle quali si distingue il topos della lamentatio nei confronti
della fortuna (vd., ad es., I. MORRA, Rime, a cura di M.A. Grignani, Roma, Salerno
Editrice, 2000, I, 1-4, p. 46: «I fieri assalti di crudel Fortuna/ scrivo piangendo, e la mia verde
etate;/ ma che ’n sí vili ed orride contrate/ spendo il mio tempo senza loda alcuna» e ivi, XI,
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quello di Luigi Alamanni, scritto dal carcere di Brescia, Ben puoi questa mortal
caduca spoglia 11 ; un mazzetto di sonetti scritti in un carcere romano è stato
edito all’interno dell’ampio studio di Vincenzo Paglia 12 . Al 1529 risale la satira
del Pollastra sulle Stinche, le celebri prigioni fiorentine 13 . Scritta dal Lasca in
nome di Giovanni Fantini detto il Coglietta, in data 10 novembre 1530, è la canzone
sullo stesso carcere, Sognando a queste notti mi parea 14 .
27-30, p. 72: «È stata per me morta in te pietade,/ e spenta l’hai in altrui, che potea sciorre/ e
in altra parte porre/ dal carcer duro il vel del l’alma stanca»).
11 Si legge in Versi e prose di Luigi Alamanni, edizione ordinata e raffrontata sui codici
per cura di Pietro Raffaelli, con un discorso intorno all’Alamanni e al suo secolo, 2 voll.,
Firenze, F. Le Monnier, 1839, vol. I, p. 34.
12 V. PAGLIA, «La pietà dei carcerati». Confraternite e società a Roma nei secoli XVI-
XVIII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, pp. 29-30 e 253-54.
13 Si trova nel ms. Vat. Lat. 5225, cc. 573-76 (descrizione del codice in D. DE ROBERTIS,
Censimento dei manoscritti di rime di Dante, in «Studi danteschi», XLI, 1964, pp. 122-25,
num. 310, e in P. PROCACCIOLI, Corrispondenti aretiniani. Giovan Pollio Lappoli, il
Pollastra, e una sua satira inedita, in «Filologia e Critica», XVIII 1993, pp. 70-86, in part. p.
78): ringrazio Paolo Procaccioli per questa segnalazione. Il testo viene riportato in appendice.
Sul letterato si veda inoltre L.G. CLUBB-R. BLACK, Romance and Aretine Humanism in
Sienese Comedy: Pollastra’s ‘Parthenio’ at the Studio di Siena, Firenze, La Nuova Italia,
1993.
14 In A.F. GRAZZINI DETTO IL LASCA, Le rime burlesche edite e inedite, per cura di C.
Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, Canzoni, I, pp. 137-40. Il Lasca compose pure delle stanze
per Andrea Lori che scampò alla morte: In scusa di Andrea Lori quand’era in Prigione per
ladro [...] (così la rubrica nel ms. Magl. VII, 1293, cc. 32r-v, altro testimone dei versi; le ottave
sono stampate in GRAZZINI, Le rime burlesche..., cit., Ottave, CXII, pp. 445-46). Ancora
Emanuela Scarpa ricorda i versi del Berni dedicati alle Stinche nel capitolo Quanta fatica,
messer Alessandro, vv. 151-90 (in F. BERNI, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985,
pp. 157-58; per la datazione si oscilla tra il 1532 ed il 1533). Oltre ai celebri versi di
Campanella, mi limito a segnalare l’Echo supplicante al serenissimo Cosimo II Gran Duca di
Toscana Quarto di Giovanni Andrea Rovetti (si legge in MORMORIO D’ELICONA|POESIE|DEL
CAPITANO|GIOVANNI ANDREA|ROVETTI.|Vaghezze Amorose|Diporti Pastorali|Soggetti
Eroici|Materie Miste|Echo Supplicante|Pompe Nuzziali|Teneri Affetti. &|Duelli
Festivi|ALL’LL. MI SIG. RI |MARCHESE MARIO|E POMPEO|FRANGIPANI.|Terza impressione,
coll’|Epilogo di cento Sentenze.|IN VENETIA|Per Iacomo Sarzina.|1630.|con licenza e
Privilegio, pp. 169-204). Inutili, invece, per il nostro discorso il capitolo La prigione del
Bronzino, perché giocato fondamentalmente su un doppio senso erotico (vd. A. BRONZINO,
Rime in burla, a cura di F. Petrucci Nardelli, introduzione di C. Mutini, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 323-31) e l’anonima Canzona de’ prigioni (in Canti carnascialeschi
del Rinascimento, a cura di Ch. Singleton, Bari, Laterza, 1936, pp. 33-34). Sempre
il Bronzino scrisse due capitoli In lode della galea (ed. cit., pp. 64-88). Sarebbero da includere
anche le «Poesie di “Odetto della Nua” prigioniero a Tournai», risalenti al XVI sec. e contenute
nel ms. Parigino 1640 (vd. G. MAZZATINTI, Inventario dei manoscritti italiani delle
biblioteche di Francia, vol. I. Manoscritti italiani della Biblioteca Nazionale di Parigi,
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
Lo stesso carcere è musa dello Stradino nel sonetto Va, schatoletta mia povera
d’oro 15 .
Nel Cinquecento si incontrano le rime composte in prigione dal calabrese
Marco Filippi detto il Funesto (1521-1563 ca), il quale scrisse all’incirca
negli stessi anni di Cellini. Imprigionato, probabilmente per eresia, trascorse
con certezza due anni in prigione, il 1561 e 1562 nel carcere di Castellammare
di Palermo; e forse anche il 1563. I sonetti sono scritti in forma di una
confessione progressiva, dove appare evidente un intenso desiderio di espiazione
della colpa. In più, nella scrittura il Funesto costruisce un dialogo
costante con Dio, con l’invocazione frequente della morte come rimedio e
consolazione 16 .
Ma il senso di questo elenco tedioso ha soprattutto lo scopo di mettere in
luce quei temi portanti della scrittura in carcere che solo in parte Cellini abbraccia:
nella Vita e nelle rime, infatti, viene superata la semplice prospettiva di un
carcere fisico, che generalmente diventava occasione per una lamentazione contro
l’ingiustizia e la fortuna. È in fondo qui la differenza: i temi consolidati vengono
rimpinguati e rimaneggiati fino a fissare il carcere come il momento
essenziale di una riflessione che investe la dimensione spirituale e morale di chi
è condannato a giacere nell’umidità delle mura 17 .
Roma, Presso i Principali Librai, 1896, p. 250). Su toni comici si assestano i Due capitoli.
Uno in lode e l’altro in biasimo de la prigione di Giulio Cesare Croce, in «Varii al mondo son
gli umori» ovvero «la gran pazzia» nelle poesie di Giulio Cesare Croce, opere in italiano a
cura di M. Rouch, premessa di A. Prosperi, Bologna, Clueb, 2001, pp. 193-213. Altro capitolo
burlesco scritto in prigione, ma siamo già oltre il Cinquecento, è quello del Marino A
Matteo Conca (il cosiddetto Camerone), composto nel corso della prigionia presso le carceri
della Vicaria, a Napoli (si legge in G. MARINO, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino,
Einaudi, 1966, pp. 563-71).
15 Si trova nel ms. Laurenziano Antinori, 158, c. 37r: lo segnala T. ZANATO, Sulla tradizione
dei testi semi- o pseudo-popolari: le ottave delle «Ore estive», in La critica del testo.
Problemi di metodo ed esperienze di lavoro (Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre
1984), Roma, Salerno Editrice, 1985, p. 488 (desumo l’informazione da SCARPA, Andrea de’
Medici detto «il Butto», cit., p. 151, n. 3).
16 Vd., ad es., M. FILIPPI, Rime spirituali et alcune stanze della Maddalena a Christo, a
cura di P. Crupi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, Padre pietoso, homai traher non posso,
vv. 12-14, p. 66: «Purgami in questo fango, ch’io confesso/ Il mio peccato, ond’io tuo volto
eclisso,/ E fa, che lieto poi ti venga appresso».
17 Per il tema della poesia in carcere dal Cellini in poi (con implicazioni italiche ed iberiche)
si veda H. HUDDE, “En esta prisión triste y rigurosa”: in Haft geschriebene romanische
Sonette des 16. und 17. Jahrhunderts, in Sehnsuchtsorte. Festschrift zum 60. Geburtstag von
Titus Heydenreich, Herausgegeben von Th. Bremer und J. Heymann, Stauffenburg, Tübingen,
1999, pp. 49-58 (in part. pp. 51-53 per Cellini).
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Giuseppe Crimi
Il carcere della Vita
Il discorso intorno alle rime celliniane in carcere (ma sarebbe meglio precisare
sul carcere) 18 , che secondo Dario Trento rappresenta il gruppo di poesie più
ampio ed omogeneo prodotto fino ad allora dall’artista 19 , non può prescindere
da un rapporto, certo pure insidioso, con le vicende e con le idee espresse nella
Vita. Il che permette anche di perlustrare sotto una diversa ottica il prosimetro.
Certo, la commistione tra Vita e rime può essere rischiosa, perché, come è noto,
la prima fu stesa tra il 1558 ed il 1562, quindi con una lettura a posteriori delle
vicende vissute dal protagonista, mentre le rime, comprese quelle sul carcere,
resistono ancora ai tentativi di datazione sicura.
Sembra pacifico il fatto che la prigionia all’interno delle carceri romane,
avvenuta nel periodo 1538-1539 e circoscritta nei capitoli CI-CXXVIII della prima
parte della Vita (ma si ricordi che la divisione in parti e capitoli non sussiste nel
manoscritto), sia stata riletta come un percorso iniziatico, una sorta di sintesi,
detto all’ingrosso, tra la Vita nova e la Commedia, in cui il prigioniero-dannato
si trova in un’iniziale situazione infernale, attraversa una fase purgatoriale e
18 Si avverte fin da ora che per la Vita si cita dal volume B. CELLINI, La Vita, a cura di L.
Bellotto, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda Editore, 1996; per i versi mi
servo dell’edizione B. CELLINI, Rime, introduzione e commento di V. Gatto, Roma, Archivio
Guido Izzi, 2001 (in taluni casi sono stati rivisti i mss.): le rime utili per il nostro studio sono
principalmente le 15-29, 40, 110 e 118). Per la Vita il punto di partenza è A. CICCHETTI, La Vita
di Benvenuto di M ° Giovanni Cellini fiorentino scritta (per lui medesimo) in Firenze, in
Letteratura italiana. Le opere, volume secondo, Dal Cinquecento al Settecento, Torino,
Einaudi, 1993, pp. 541-62. Per la bibliografia relativa alle rime si veda: A. ORVIETO, Le Rime
[scil. del Cellini], in «Il Marzocco», V, 1900, 44, p. 4; GRECI, Benvenuto Cellini..., cit., p. 513;
E. CARRARA, Per un sonetto di Benvenuto Cellini, in «Giornale storico della letteratura italiana»,
LXXXVIII, 1926, pp. 37-63, in part. pp. 40-41, 45-47; B. MAIER, Le «Rime» di Benvenuto
Cellini, in «Annali triestini. Sez. 1 a Giurisprudenza, Economia e Lettere», s. IV, VI, 1952, pp.
307-58; P. PAOLINI, Le Rime di Benvenuto Cellini, in «Rivista di letteratura italiana», XVIII,
2000, 2-3, pp. 71-89, in part. p. 78; G. DELL’AQUILA, Benvenuto Cellini Lirico (2000), in EAD.,
La tradizione del testo. Studi su Cellini, Beni e altra letteratura, Pisa, Giardini Editori e
Stampatori, 2003, pp. 9-30, in part. su quelle del carcere pp. 18-20; M.A. GALLUCCI, Benvenuto
Cellini. Sexuality, Masculinity, and Artistic Identity in Renaissance Italy, New York, Palgrave
MacMillan, 2003 (la parte relativa alle rime, alle pp. 45-70, era stata anticipata nello studio A
New Look at Benvenuto Cellini’s Poetry, in «Forum Italicum», 34, 2000, 2, pp. 343-71); M.
PANETTA, «Da poi che m’è impedito il fare». Carattere delle Rime di Benvenuto Cellini, in Le
forme della poesia. Atti dell’VIII Congresso dell’ADI, Associazione degli Italianisti Italiani,
Siena, 22-25 settembre 2004, a cura di R. Castellana e A. Baldini, 2 voll., Siena, Ed.
dell’Università-Betti Editrice, 2006, vol. II, pp. 91-100. A basso contenuto letterario il recente
volume Benvenuto Cellini. Sculptor, Goldsmith, Writer, edited by M.A. Gallucci, P.L. Rossi,
Cambridge, Cambridge University, 2004 (si vedano almeno le pp. 148-68).
19 In Benvenuto Cellini. Opere non esposte..., cit., p. 48.
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
giunge alla salvifica visione finale 20 . Tutto questo mediante una complessa simbologia,
non proprio univoca, e una serie di rimandi interni che qui si tenta di
rendere dialoganti. Nel caso di Cellini, il carcere appare non solo una detenzione
fisica, ma si connota di una valenza fortemente spirituale: cella, quindi, come
cella del monaco, destinata alla penitenza. Sulla scorta della disarmante bibliografia
prodotta sulla Vita, oltre alle consuete ovvietà, si cercherà aggiungere
qualche tassello per completare il quadro.
Ma procediamo con ordine. Nel 1538 Cellini, all’incirca nel «mezzo del
cammin di nostra vita» («Questa fu la prima volta che mai io gustai prigione,
insino a quella mia età de’ trentasette anni», Vita, I, CI) 21 , viene accusato di
essersi impossessato, durante il sacco di Roma, di alcuni gioielli di Clemente
VII (ibid.): in questi passi che raccontano l’episodio mi pare sia importante rilevare
l’uso frequente del verbo “fidarsi” e del sostantivo “fede” («e dipoi fidandosi
di te, volse che tu gnene cucissi a dosso [...] Questo ce l’ha detto un tuo
lavorante, con il quale tu ti se’ confidato e vantatone», I, CII), che da questa
occasione tornerà per marcare il comportamento del prigioniero 22 . Per ordine di
Pier Luigi Farnese, Benvenuto viene arrestato il 16 ottobre. Marziano
Guglielminetti, che a ragione legge la parte dell’infanzia e le vicende dell’arresto
e della prigionia ricalcate su passi biblici 23 , ha notato come in questo passo
20 Si veda D.S. CERVIGNI, The “Vita” of Benvenuto Cellini. Literary Tradition and Genre,
Ravenna, Longo, 1979, pp. 25-42 (The Vita and Spiritual Autobiography). Per meglio cogliere
il contesto in cui Cellini vive, e poi scrive, questa particolare situazione, sarebbe il caso di
ricordare quanto si prescriveva ai confessori nelle carceri: «Giouirrà similmente al predetto
proposito hauer in pronto alcune sentenze et essempi della sacra scrittura cauati dalli scritti et
uite de Santi, che appartenghino a deschiarare la malitia et pena del peccato, la utilità della
patienza, il frutto della tribulatione il merito della patienza et la necessità di conuertirsi a Dio
non solo per euitar i flagelli corporali che il Signore suole mandare per li peccati, ma ancora
molto più per li supplicii apparecchiati nell’altra uita a gli ostinati nel peccato, del che li potrà
dar gran materia tra gli altri Flores Biblia, exempla ueteris et noui testamenti flores Doctorii
Dionisii de 4 nouissimus et de enormitate peccati collationes Cassiani» (in PAGLIA, «La pietà
dei carcerati»..., cit., p. 255).
21 Si noti l’uso del verbo “gustare” presente in un passo della Istruzione per i confessori
dei carcerati, dove si parla di «gustare un saggio dell’amaro fine delle dilettattioni carnali et
penali» (in PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., p. 255). Si veda anche Rime, 115, 12-14:
«Conviemmi per mio male dunque gustare/ di giorno in giorno per mala fortuna mia/ martìr,
pene, dolor, vivande amare».
22 Si vedano infatti, a séguito della fuga, le parole del Castellano: «Il Castellano, così
fuor di sé, si fece portare al Papa; e quando fu dinanzi a Sua Santità cominciò a gridare dicendo
che se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: “E’ m’è
fuggito sotto la fede che m’aveva data; oimè, che e’ m’è volato via, e mi promesse di non
volar via!”» (I, CXI).
23 Cfr. M. GUGLIELMINETTI, La Vita del Cellini e le memorie degli artisti, in ID., Memoria e
scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977, pp. 310-11 e 314-16 e sgg.
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dell’arresto «sia venuta incontro [...] la memoria del passo evangelico dell’arresto
di Cristo nell’orto del Getsemani», aggiungendo che «la “daga” di Benvenuto»
viene citata «in luogo del “gladium” posseduto ed usato dall’apostolo Pietro»
24 . Successivamente queste indicazioni, e in particolare il riferimento al
santo, si riveleranno ancor più preziose. Come indica Lorenzo Bellotto (n. 29 a
p. 368 dell’ed. citata), Castel Sant’Angelo non era un carcere normale, ma era
un luogo detentivo di riguardo per persone illustri («dove vanno li signori e li
uomini virtuosi», I, CI) 25 . Cellini si scaglia contro la falsità delle accuse, ricordando
il suo servizio al papa («È questa adunche la temeraria pretesca remunerazione
che si usa a uno uomo che vi ha con tanta fede e con tanta virtù servito e
amato?», I, CIII). Tuttavia l’orafo viene trattenuto «per omicidii et per altre mie
diavolerie così fatte» (I, CIV), dove si noti quel diavolerie che già contribuisce a
connotare la natura “dannata” del prigioniero.
Come accennato, la detenzione fu molto blanda 26 . Cellini rimane fermamente
convinto di essere stato arrestato a torto. Tuttavia gli viene concesso di muoversi
in carcere con un certo margine di libertà («ma che si fiderebbe liberamente
della fede mia», CIV). Da questo punto in poi vengono descritti episodi dove il
narratore-protagonista disegna in maniera inequivocabile il carcere come il
luogo della tentazione. Un chiaro rimando può essere costituito dall’episodio di
Cristo tentato dal demonio, ma non escluderei anche un richiamo alle tentazioni
dell’eremita sant’Antonio, che nel Rinascimento viene associato all’homo
24 Ivi, p. 337.
25 Vd. PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., p. 24. La confessione, parziale, si legge in
francese in Benvenuto Cellini orfévre, médailleur, sculpteur, recherches sur sa vie sur son
œuvre et sur les pièces qui lui sont attribuées par Eugène Plon, Eaux-forts de Paul Le Rat,
Paris, E. Plon et C IE Imprimeurs-Éditeurs, 1883, pp. 40-41 (la segnalazione è di Bellotto).
26 Cfr. Vita, I, CIV: «Il Castellano di Castel Sant’Agnolo si era un nostro fiorentino, il
quale si domandava misser Giorgio, cavaliere degli Ugolini. Questo uomo da bene mi usò le
maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare libero per il Castello a fede
mia sola; e perché gl’intendeva il gran torto che m’era fatto, volendogli io dare sicurtà per
andarmi a spasso per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avenga che il Papa
istimava troppo questa cosa mia, ma che si fiderebbe liberamente della fede mia, perché da
ugniuno intendeva quanto io ero uomo da bene: et io gli detti la fede mia, e così lui mi dette
comodità che io potessi lavorachiare qualche cosa. A questo, pensando che questa indegnazione
del Papa, sì per la mia innocenzia, ancora per i favori del Re, si dovessi terminare,
tenendo pure la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami
alcune cose da lavorare. [...] e perché in questo tempo che il Papa stava così, tutti e’ prigioni
si usavono con maggior diligenza riserrare; onde a me non era fatto nessuna di queste cotal
cose, ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il Castello». Tuttavia questo
margine di libertà era concesso a Cellini proprio perché personaggio illustre; inoltre, non è
escluso che l’artista pagasse di tasca propria questa libertà all’interno del carcere, come era
allora pratica diffusa (vd. PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., p. 27).
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
melancholicus e che per certi versi è capostipite dell’immagine del malinconico
in preda alle suggestioni del diavolo 27 : i soldati incitano il prigioniero a mancare
alla parola data e a fuggire 28 ; ma la sua “fede” resta salda. E tuttavia rimane
ancora sfumata la figura di Cellini, in parte ancora essere succube del diavolo 29
in parte pellegrino attorniato da essseri diabolici.
Il passo successivo è l’incontro con un frate luterano appartenente alla famiglia
dei Pallavicini, caratterizzato da una modalità di comportamento profondamente
simbolica, perché definito «il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s’accomodava
a tutte le sorte de’ vizii» (I, CV). Inizialmente questi cerca di “tentare”
Cellini con l’ingegno e con l’arguzia, ricordandogli come non sia «ubrigato a
osservar fede al Castellano»; in un secondo momento cerca di affascinarlo attraverso
la lettura delle prediche del Savonarola, testo assai sintomatico, se si
ricorda che il predicatore, nella sua parabola esistenziale, fu rinchiuso in carcere,
dove scrisse versi e sermoni 30 . Il frate gioca allora un’altra carta, e chiede a
Benvenuto il segreto per poter evadere, mettendo in luce ancora la sua natura
luciferina: «A questo, sentendomi io pugnere da questo diavolo di questo
frate 31 , gli dissi che io usavo sempre prometter di me con parole molto manco di
quello che io sapevo fare, e che cotesta cosa, che io avevo promessa, della chia-
27 Cfr. A. CHASTEL, «La tentazione di sant’Antonio» o il sogno del malinconico, in La
malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, a cura di A. Brilli, Urbino, QuattroVenti,
1982, pp. 15-23 e Mélancolie. Génie et folie en Occident, sous la direction de J. Clair, Paris,
Gallimard, 2005, pp. 64-70. Era credenza diffusa che il demonio approfittasse dei corpi dei
malinconici, molto più deboli degli altri, e della loro immaginazione.
28 Vita, I, CIV: «e più volte alcuni di quei soldati mi consigliavano che io mi dovessi fuggire,
e che loro mi arieno fatte spalle, conosciuto il gran torto che m’era fatto: ai quali io
rispondevo che io avevo dato la fede mia al Castellano, il quale era tanto uomo da bene, e che
mi aveva fatto così gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e’ mi diceva:
“Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubrigato né si può ubbrigare a osservar
fede, sì come nessuna altra cosa; fa’ quel che io ti dico; fùggiti da questo ribaldo di questo
Papa e da questo bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo”. Io che m’ero
proposto più volentieri perder la vita, che mancare a quello uomo da bene del Castellano
della mia promessa fede, mi conportavo questo inistimabil dispiacere» (corsivo mio).
29 Anche in questo caso va ricordato che proprio la malinconia era associata al diavolo:
cfr. Y. HERSANT, L’acédie et ses enfants, in Mélancolie..., cit., pp. 54-59.
30 Cfr. G. SAVONAROLA, Preghiere dal carcere, traduzione e note a cura del P. T.S. Centi
O.P., Siena, Cantagalli, 1990. Sulla lettura di testi sacri insiste anche Giulio Cesare Croce, nel
capitolo sulle Lodi de la prigione, vv. 70-72: «Chi legge un libro santo, chi l’offizio,/ chi dice
la corona del signore;/ ognun fa qualche nobile esercizio» (in «Varii al mondo son gli
umori»..., cit., p. 197). Questa sovrapposizione e convergenza con alcune figure cristiane
torna nelle parole del Castellano: «Andate presto e mettetelo in quella più sotterrania caverna,
dove fu fatto morire il predicatore Foiano di fame» (I, CXX).
31 Si ricordi l’espressione simile in I, LXXV: «Comesse a un certo diavoletto di un suo soldato
còrso».
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ve, era la più debole» (I, CV). Cellini, allora, illustra il metodo per contraffare le
chiavi all’interlocutore, il quale si prodiga immediatamente nel tentativo di evasione.
Una volta scoperto, la responsabilità viene fatta cadere anche su
Benvenuto. Ancora accusato a torto, Cellini decide allora che il risarcimento
migliore sia la fuga e programma l’evasione, ammassando le lenzuola sporche e
tagliandole per costruire una corda con la quale calarsi dalla finestra.
Nel corso di questi laboriosi preparativi, Cellini si sofferma sulla bizzarra
figura del Castellano, già preliminarmente indicato come un folle («Questo
Castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano del cervello a fatto»,
I, CVII), il quale manifesta inquietanti problemi di personalità, credendo di essere,
oltre che un orcio da olio ed un ranocchio come era avvenuto in precedenza,
un pipistrello; il che implica tentativi di volo con relative emissioni di suoni animaleschi.
E proprio mentre Cellini ha in programma l’evasione (di “volare”
dalla finestra del carcere, appunto), con chiara funzione premonitrice, il
Castellano gli chiede se abbia mai pensato di volare (I, CVII). Cellini risponde
perfino che l’uccello più adatto al volo è proprio il pipistrello. È sufficiente questo
per scatenare l’impulsiva reazione dell’interlocutore: «Come questo povero
uomo sentì quel nome di pipistrello, che era l’umore in quel che peccava quel
anno, messe una voce grandissima, dicendo: “E’ dice il vero, e’ dice il vero; questa
è essa, questa è essa”; e poi si volse a me e dissemi: “Benvenuto, chi ti dessi
le comodità, e’ ti darebbe pure il cuore di volare?”» (I, CVII) 32 . Emanuela Calura
32 E ancora: «Una sera di festa infra l’altre, sentendosi il Castellano molto mal disposto e
quelli sua omori cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se lor sentissino
che Benvenuto fussi volato via, lasciassino andar lui, che mi raggiugnerebbe, perché e’
volerebbe di notte ancora lui certamente più forte di me, dicendo: “Benvenuto è un pipistrello
contrafatto, e io sono un pipistrello da dovero” [...]» (I, CIX) e «In tanto il Castellano era
venuto inne’ sua maggiori uomori della pazzia, e voleva a forza di tutti e’ sua servitori volare
ancora lui da quel mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui, con il volarmi
drieto» (I, CXI). Sulla costruzione di questi personaggi “demoniaci” vd. E. CALURA,
L’orizzonte mitologico e fantastico nella Vita del Cellini, in «Lingua e stile», XXII, 1987, 1,
pp. 54-56. L’immagine della caduta contiene in effetti ancora l’idea del peccato (la più celebre
caduta, quella di Lucifero, è ricordata in Rime, 13, 9-11: «Cadde nel fuoco colle sue brigate/
quel ch’ubbidir non volse ’l suo maggiore,/ che aveva tante gran cose create»). Tuttavia
questa seconda andrà letta come un passaggio, purgatorio, appunto, in vista della visio finale.
Sul carcere-purgatorio si veda quanto si afferma nell’Istruzione per i confessori dei carcerati:
«E, se fosse alcuno a chi li paresse non ritrouarsi in Stato di douer sentire tali pene s’ingegni
almeno persuaderli che il Signor gli hauarà mandato questo poco d’afflittione o, per alcun
peccato occulto, del quale non ha fatto penitenza, o, per purgare le reliquie di quilli de quali
non è sufficientemente pentito, o, per preseruarlo di alcuni peccati graui ne, i quali sarebbe
forse incorso essendo libero, o, per custodirlo da maggior auuersità et pericoli che li soprastauano,
o, per darli in questo mondo il Purgatorio à fine che purgato per il fuoco della tribulazione
lo possi poi tirare a quel luoco doue nihil inquinatum introibit» (in PAGLIA, «La pietà
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
ha rilevato giustamente l’importanza dell’animale, da leggersi in chiave polisemica;
per il Castellano folle, infatti, il pipistrello non è altro che il simbolo di
pazzia (e a questo punto anche l’orcio e il ranocchio non rappresentano scelte
casuali perché sono metafore per indicare persone di scarso senno) 33 e di volo,
mentre, per Cellini, di fuga e di libertà 34 . Ma c’è altro. Come è stato notato, il
Castellano rappresenta anche una sorta di proiezione di Cellini stesso, un alter
ego. In questo senso mi preme indicare un punto non proprio irrilevante: il fatto
che il Castellano sogni di essere un orcio da olio è altro elemento che ci riporta
al contesto della malinconia: infatti: «molti malinconici hanno preoccupazioni
assurde che si riferiscono alla loro persona. Alcuni ritengono di essere vasi di
terracotta e temono continuamente di essere rotti. Talaltri credono d’essere vasi
da notte» 35 e ancora: «i soggetti malinconici talvolta immaginano di essere
dei carcerati»..., cit., p. 255). La stessa idea del carcere si ricava dai versi del Grazzini: «Dice
alcun: se non muore e’ fia mandato/ in un fondo di torre, od in galea,/ dove si sconta e purga
ogni peccato/ in prigion sempre o pur sempre in galea» (in GRAZZINI, Le rime burlesche...,
cit., Ottave, CXII, vv. 17-20, p. 445) e da quelli del Funesto, dove si richiede direttamente a
Dio l’espiazione: «Tu, Re del Ciel pietoso, (in me converso)/ Purgami ancor di questa vecchia
massa,/ Pria che ’l livor maligno il tutto opprima» e «Tu, Signor mio, che ’l tutto vedi et
odi,/ Et a i lamenti miei chiudi l’orecchie:/ Forse perché le colpe nuove, e vecchie,/ Di vedermi
purgar t’allegri, e godi» (in FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Già nato infruttuoso empio
Oleastro, vv. 12-14, p. 13 e Tu, Signor mio, che ’l tutto vedi et odi, vv. 1-4, p. 83).
33 Per l’“orciuolo” si veda il Grande dizionario della lingua italiana, diretto da S.
Battaglia e G. Bàrberi Squarotti, Torino, UTET, 1962-2002, vol. XII, p. 20, con esempi da
Berni, Cecchi e Allegri, mentre per il ranocchio, simbolo di cecità e di ottusità, si rimanda a
Rime, 1, 19-20: «così d’ogni giudizio ha spento gli occhi,/ simili a talpe, a lombrichi, a ranocchi»,
con una sfumatura che implica anche sciocchezza (si veda F. SACCHETTI, Il Pataffio,
edizione critica a cura di F. Della Corte, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005, III,
54, p. 14: «tu m’ài per gazzavelo e per ranocchio» e I sonetti del Burchiello, cit., CC, 15-17, p.
278: «Ella mi crede avere/ forse per un ranocchio o per un pesce,/ se io a lei et ella a me rincresce»).
A livello popolare, i pipistrelli erano considerati animali sciocchi perché incapaci di
sopportare la luce diurna che dava loro un aspetto stordito: vd. I sonetti del Burchiello, cit.,
CXLVIII, 1-3, p. 208: «Civette e pipistregli e tal ragione/ d’uccegli che hanno piú del nuovo
pesce,/ sol perché Phebo agli occhi lor rincresce» (per altre attestazioni si veda E. RUARO, Il
pipistrello come animale magico, in «Quaderni di semantica», a. XXIV, 2003, 1, p. 33).
Guglielminetti, invece, associava il castellano-pipistrello all’altra simbologia, quella demoniaca,
e lo definiva «servitore del diavolo», mentre Cellini presenterebbe un aspetto diabolico
soltanto apparente, perché al servizio di Dio (vd. GUGLIELMINETTI, La Vita del Cellini..., cit.,
pp. 342-43, ripreso in A. BIANCOFIORE, Benvenuto Cellini artiste-écrivain: l’homme à
l’œuvre, Paris, L’Harmattan, 1998, p. 312 con inclusa citazione dantesca da Inf., XXXIV, 49).
Sulla funzione simbolica di questi animali si veda M. MARI, Di alcune ossessioni celliniane,
in «Acme», LV, 2002, III, pp. 35-40.
34 Vd. CALURA, L’orizzonte mitologico..., cit., pp. 54-55.
35 L. BABB, Malinconia e scienza dal Medioevo al Rinascimento, in La malinconia nel
Medio Evo e nel Rinascimento, cit., p. 55.
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uccelli o altri animali e ne imitano i movimenti e le voci» 36 . Ma torniamo agli
animali, sulla cui interpretazione credo ci si possa spingere oltre. Il pipistrello,
infatti, è scelto da Cellini perché, come il prigioniero, vive in una specola, nell’oscurità
37 . Tuttavia esso poteva rappresentare anche l’astuzia, come si narrava
nelle favole di Esopo 38 , e quindi bene si poteva adeguare all’indole dell’orafo 39 ;
in secondo luogo, si tratta di un animale tipicamente saturnino, legato alla
malinconia, aspetto, questo, che incide sull’intera prospettiva della narrazione 40 ;
36 Ivi, p. 56, con bibliografia.
37 Si veda, ad es., in maniera analoga, il Funesto, che elegge la talpa ad animale emblema
della prigionia («Et io con queste mie dannose colpe,/ (Che son più lunghe dal mar Indo a
Calpe)/ Ne gli agi miei t’offendo, e come talpe/ Cerco la terra, acciò che più m’incolpe» (in
FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Ha pur la tana, ove si stia la Volpe, vv. 5-8, p. 51): l’animale
vive infatti sotto terra, nell’oscurità, che a sua volta può essere letta come luogo dell’assenza
di luce e quindi del peccato.
38 Cfr. A. CATTABIANI, Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti,
creature fantastiche, Milano, Mondadori, 2000, pp. 491-92.
39 Si veda quanto scritto in I, CVI: «e vorrei adoperare un poco li mia ingegni» e la definizione
di Cellini come di «diavolo ingegnoso» (I, CVII; la Calura ricorda appunto che l’animale
è simbolo del diavolo).
40 Cfr. P. FASANO, Il sogno del prigioniero, in Arcipelago malinconia. Scenari e parole
dell’interiorità, a cura di B. Frabotta, introduzione di J. Hillman, Roma, Donzelli, 2001, p.
194. Che da parte di Cellini vi sia consapevolezza della propria indole saturnina mi pare sia
evidente dal riscontro con Vita, I, XXVII: «Essendo io per natura malinconico» e Rime, 21, 1-2:
«Già tutti i santi, ancor Saturno e Giove/ m’han favorito [...]». Vd. CATTABIANI, Volario...,
cit., p. 495, che ricorda che l’animale è raffigurato nella Melancholia I di Dürer; la stessa
osservazione si trova in RUARO, Il pipistrello come animale magico, cit., p. 33 n. 64, dove la
studiosa aggiunge che l’animale, sempre legato alla melancolia, è menzionato anche nel De
occulta philosophia di Agrippa di Nettesheim (I, 25; 44). Per la simbologia del volatile si
riportano le parole di R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY e F. SAXL, Saturno e la melanconia. Studi
di storia della filosofia naturale, religione e arte (trad. it.), Torino, Einaudi, 1983, pp. 303-
304: «Il motivo del pipistrello è del tutto indipendente dalla tradizione figurativa. In effetti la
sua invenzione si deve esclusivamente a una tradizione di testi; e perfino nella Kurzgefasste
Mythologie del Ramler è ancora citato come l’animale simbolico dei melanconici. È menzionato
anche in Orapollo come segno dell’“homo aegrotans et incontinens”. Inoltre è servito
agli umanisti del Rinascimento come esempio (in senso positivo o negativo) di veglia notturna
o di lavoro notturno. Secondo Agrippa di Nettesheim la sua caratteristica essenziale è la
vigilantia; secondo il Ficino è un esempio su cui riflettere degli effetti rovinosi e distruttivi
dello studio notturno; e (cosa forse più notevole di tutte) in epoche antiche le sue membrane
erano usate realmente per scrivere, in particolare per stendere esorcismi contro l’insonnia». Si
integrino le parole con la scheda di Philippe Comar sull’animale in Mélancolie..., cit., p. 185
e B.G. LYONS, La malinconia di Amleto, in La malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento
cit., p. 139. Ricordo un aspetto assai calzante, ossia che proprio i prigionieri erano tra i figli
di Saturno. Per quel che riguarda il contesto notturno, si aggiunga che la fuga di Benvenuto
inizia «a dua ore innanzi il giorno» (I, CIX). Altro attributo di Saturno (vd. KLIBANSKY,
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
in terzo luogo, come animale che si muove nel buio, il pipistrello poteva rappresentare
il peccatore che vive nelle tenebre 41 . A me sembra che nella narrazione
tutto sia coerente: il Cellini-pipistrello/peccatore riesce a volare, ma solo per un
brevissimo lasso di tempo, perché, come un secondo Ulisse dantesco, fa leva
solo sull’astuzia, sull’ingegno (attributi, questi, anche dell’uomo malinconico),
e rimane ancora avvolto nel peccato 42 ; è privo insomma della grazia divina, e il
destino non può che essere la caduta 43 . Una caduta che non ha un senso definiti-
PANOFSKY e SAXL, Saturno e la melanconia..., cit., p. 268) erano le chiavi (che significavano
potere): a questo proposito si riveda il passo sopra citato dove Benvenuto mostra al frate
come riprodurre le chiavi della prigione (I, CV). Inoltre, anche l’immagine del cane accanto
all’uomo è riconducibile all’iconografia dell’homo melancholicus: «Io avevo un cane nero
quant’una mora, di questi pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai
non istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben tre volte chiamai il
mio servitore, che me lo levassi di sotto il letto, perché e’ mugliava paventosamente» (I, CXV);
e tuttavia, in un’ottica cristiana, il cane è simbolo del peccato: cfr. Rime, 44, 5-8: «Tutto ’l
mio ingegnio e ogni mio lavoro/ sol volgo a te, né mai più cose vani:/ fuggir vo’ i crudel impi
falsi cani,/ per quent’è ’l viver mio, infin ch’io moro».
41 A. CATTABIANI, Volario..., cit., p. 493, con l’esempio proveniente dal Bestiario moralizzato
di Gubbio («La noctola, de sì vile natura,/ né bestia non pare, né ucello,/ e va volando
per l’aire oscura/ e schifa lo giorno kiaro e bello./ Così fa l’omo k’en pecato dura:/ non se
lascia vedere lo taupinello/ a quelli ke de l’anima tengono cura,/ cotanto è verso Dio malvasgio
e fello», XLIII, De la noctola, vv. 1-8). Vd. anche GIORDANO DA RIVALTO, Prediche inedite
[...], pubblicate per cura di E. Narducci, Bologna, Romagnoli, 1867, XXIV, p. 133.
42 FASANO, Il sogno del prigioniero, cit., p. 194 recupera quanto indicato in G. AGAMBEN, I
fantasmi di Eros, in ID., Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino,
Einaudi, 1977, p. 34 n. 3: «nei Hieroglyphica di Orapollo il pipistrello in volo indica l’audacia
dell’uomo che vuole superare il proprio limite». E si veda anche J. CHEVALIER-A. GHEERBRANT,
Dizionario dei simboli (trad. it.), 2 voll., Milano, Rizzoli, 2006 7 , vol. II, pp. 229-30: «Il pipistrello
rappresenta anche l’essere definitivamente bloccatosi in una fase della sua evoluzione verso
l’alto: non è più al grado inferiore ma non è ancora al grado superiore: uccello mancato, è, come
diceva Buffon, “un essere mancato”. [...] Così, per molte immaginazioni, il pipistrello è la realizzazione
di un cattivo volo». Sul “volo dell’anima” cfr. P. COURCELLE, Conosci te stesso da
Socrate a san Bernardo, Presentazione di G. Reale, Trad. di F. Filippi, Milano, Vita e Pensiero,
2001, pp. 453-72. Anche il Funesto fa uso della stessa metafora: «Come posso aspirar su a l’alto
regno,/ S’al volo mio veggo troncate l’ali?» (in FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Come poss’io
caduco, et ampio segno, vv. 5-6, p. 84). Per il volo interrotto vd. anche il caso di Campanella
detenuto ricordato da HUDDE, “En esta prisión triste y rigurosa”..., cit., pp. 53-54.
Michelangelo esprime a pieno un significato simile nel verso «di penne l’alma ho ben tarpata e
rasa» (Rime, 267, 33, in ID., Rime e lettere, a cura di P. Mastrocola, Torino, Utet, 2006 2 , p. 273).
43 Vd. l’Istruzione per i confessori dei carcerati: «e tanto più dominio acquista sopra di
lui il nimico tal che ogni dì lui sarà più graue sbrigarsi dal legame del peccato et uscire dalle
mani del demonio, e, si ricordi che quanto più si carica la soma e più longamente si porta
tanto più è difficile il diponerla e, facile il rompersi il collo con essa» (PAGLIA, «La pietà dei
carcerati»..., cit., p. 257).
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vo, perché rappresenta sì un freno ma anche una possibilità per far proseguire il
viaggio dell’anima verso il purgatorio. Dopo la caduta avvenuta nel corso dell’evasione,
Cellini scrive: «Dipoi, volendosi far chiaro il giorno, quel poco del
fresco che viene un’ora innanzi al sole, quello mi fece risentire; ma sì bene
stavo ancor fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il
capo, e mi pareva d’essere innel purgatorio» (I, CIX) 44 .
In séguito ad altre vicende – siamo ormai nel 1539 – Cellini viene riconsegnato
dal Cornaro al papa, il quale lo fa rinchiudere prima in una delle segrete
di Castel S. Angelo, e, successivamente, nell’altro carcere romano, quello di Tor
di Nona 45 . Subito dopo Cellini precisa: «Istetti un pezo di quella notte col pensiero
a tribularmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e
perché io non la ritrovavo, forte mi dibattevo» (I, CXV). Cellini mette tutte le
carte in tavola ed esplicita il significato della sua prigionia con penitenzia (termine
che torna in I, CXXI). È questo il momento dello sconforto nel quale giunge
persino a desiderare la morte. La situazione descritta assume contorni ben definiti,
da ascrivere ad una concezione che risente delle suggestioni medievali: la
prigione-cella rimanda, infatti, all’idea di penitenza, di pena 46 , ma anche di un
luogo dove si ricerca il conforto degli auctores. Lo scopo del carcere è la correzione
spirituale del detenuto, il suo ravvedimento: e il condannato si identifica
con il peccatore fino alla mutatio vitae.
Proprio in questa occasione Cellini riesce a cogliere lo stretto rapporto che
intercorre tra la prigionia reale e quella spirituale, dichiarando: «Quanto più presto
io esca di questo carcer mondano, più mi sarà grato, maggiormente essendo
sicuro che l’anima mia è salva, e che io muoio a ˙ ttorto. Cristo glorioso e divino
mi fa compagno alli sua dicepoli e amici, i quali, e Lui e loro, furno fatti morire
a ˙ ttorto: così a ˙ ttorto son io fatto morire, e santamente ne ringrazio Idio» (I,
CXVI). Una concezione intrisa di neoplatonismo, ma anche, come è normale, di
cristianesimo. È interessante a questo proposito quanto veniva impartito nella
già vista Istruzione per i confessori dei carcerati (1550): «Istruttione per quelli
44 E si veda più avanti: «e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto che la mia
buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio» (I, CXVII).
45 Per l’uso di questo carcere romano si veda PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit.,
p. 14.
46 Vd. ivi, pp. 6-7: «L’inizio dell’affermarsi di quest’uso penale del carcere può essere
datato intorno al secolo IV, quando la Chiesa iniziò a comminare la penitenza come vera
pena. Un mezzo efficacissimo per assicurarne l’esecuzione fu la reclusione in un monastero:
qui il colpevole, lontano dalle occupazioni e dalle distrazioni del mondo del mondo, era
posto di fronte alla colpa commessa ed aveva tutto l’agio di meditare, di espiare e dolersi
della propria colpa. Così nacque la pena della prigione, luogo in cui il condannato doveva
fare, con il “pane del dolore e l’acqua dell’angoscia”, una penitenza perenne»; si vedano
anche le pp. 9-10.
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
che vanno à le carcere. L’interno di quelli, che vanno à le carcere ad aiutare
coloro, ch’in esse si ritrouano, deue essere procurare con l’essortationi così in
comune, come in particolare, che da la carcere corporale piglino occasione d’uscire
dalla spirituale del peccato, et faccino fermo proposito di mutar vita» 47 . Il
legame tra i due aspetti verrà riproposto nelle rime.
Cellini si sofferma poi sulla descrizione della stanza «oscurissima», «infelice
caverna» (altra definizione che rimanda a Platone), popolata da «tarantole» e
«vermi velenosi» (I, CXVII), secondo il topos della cella piena di insetti 48 .
In questa situazione Benvenuto si dedica alla lettura dei testi sacri, esperienza
che lo avvicina alla visione di un angelo 49 . Il primo testo poetico che si
incontra nel racconto sulla prigionia è rappresentato da un dialogo fra il corpo e
47 Ivi p. 254. Per il tema cfr. I. TOLOMIO, “Corpus carcer” nell’Alto medioevo. Metamorfosi
di un concetto, in Anima e corpo nella cultura medievale. Atti del V Convegno di studi
della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Venezia, 25-28 settembre 1995),
a cura di C. Casagrande e S. Vecchio, Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. 3-19,
in part. pp. 5-10, COURCELLE, Conosci te stesso da Socrate a san Bernardo, cit., ad indicem, e
L. MARCOZZI, Petrarca platonico, Roma, Aracne, 2004, pp. 11-45 (cap. I: Corpus carcer); per
il motivo in Petrarca ed in Michelangelo vd. G. PONSIGLIONE, La lirica di Michelangelo e i
poeti savonaroliani, in «Critica del testo», VI, 2003, 2, pp. 859-61 (sul divino Buonarroti si
vedano i preziosi spunti forniti da G. GORNI, Temi platonici in Michelangelo, in
«Intersezioni», XV, 1995, 3, pp. 382-83).
48 Vd. MOREL, La prison et son image..., cit., pp. 161-62 per simili riscontri nella letteratura
francese e F. DUBOST, Aspects fantastiques de la littérature narrative médiévale (XIIème
– XIIIème siècles). L’Autre, l’Ailleurs, l’Autrefois), 2 to., Paris, Champion, 1991, to. I, pp.
487-99 (La faune des prisons). Si veda anche infra la satira del Pollastra. Sulla presenza di
altri animali si veda la poesia di un anonimo carcerato di Corte Savella tratta dal ms. Vat. Lat.
7182, c. 475 e pubblicata in PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., p. 30: «Evvi di topi una
schiera sì folta/ che ai gatti, non che al [...] fan fan [sic] paura/ paiono huomini d’armi a chi
gli ascolta» (A voi, a cui non è l’alma rubella, vv. 16-18), sempre dello stesso autore il sonetto
Qui, dove (hai lasso) son sepolto vivo, vv. 9-11: «Qui si rubba via più, che ne le selve,/ né
si sa mai quando s’aggiorna, o annotta,/ né se ci rodon più i topi, o i pidocchi» (ivi, p. 254),
FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Come (lasso) s’inchina, vv. 16-22, p. 24: «In questo oscuro
albergo/ Ne vien la sera il Topo empio, e rapace,/ Et mentre ogn’un si tace,/ Divora il ladro
hor quella cosa hor questa:/ Poi quando il sol si desta,/ Et ha le chiome in oriente sparte,/
Fugge in secura parte» e Marino: «Non vi tratto di topi e delle sorche,/ che vi menan la danza
trivigiana,/ e sí grosse vi son che paion porche» (in MARINO, Lettere, cit., p. 570).
49 Su questo argomento può essere utile il riscontro con il sondaggio di S. EVANGELISTI,
Voci da dentro. Scrittrici mistiche e clausura monastica nell’Europa mediterranea tra Cinque
e Seicento, in Mediterranoesis. Voci dal Medioevo e dal Rinascimento mediterraneo, a cura
di R. Morosini e C. Perissinotto, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 219-34. Non vorrei proporre
chiavi di lettura troppo forzate, ma a me sembra che l’immagine del penitente in lettura
richiami la più celebre iconografia di san Girolamo, peraltro impiegata nelle raffigurazioni
delle malinconia: si veda S. WENZEL, L’accidia medievale: la noia della cella, in La malinconia
nel Medio Evo e nel Rinascimento, cit., pp. 25-52.
97

Giuseppe Crimi
l’anima a proposito del tentato suicidio (il corpo riprende l’anima di avere attentato
alla vita) 50 . Come ha notato Maier, il testo risente notevolmente dell’influsso
di Dante della Vita nova e di un certo cavalcantismo:
«Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita!»
«Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci andare a miglior vita.»
«Deh, non partite ancora,
che più felici e lieti
promette il Ciel, che voi fussi già mai.»
«Noi resterèn qualche ora,
purché del magno Idio concesso sièti
grazia, che non si torni a maggior guai» (I, CXIX) 51 .
La situazione del prigioniero in preda al dubbio del suicidio non è inedita:
valgano per tutti i sonetti del Petrucci Quïeta morte, ad me desiderata (XXV, pp.
207-208), in cui viene invocata la morte per porre fine alle sofferenze, e
Pompusi fausti con diverse gale (XXXVII, p. 224). Ma diverso è l’esito celliniano,
in cui il momento dell’indecisione si risolve in uno scatto verso l’alto, verso
una via di salvezza, all’inizio insperata. La lettura della Bibbia rappresenta il
conforto che spinge gradualmente il prigioniero verso un comportamento cristiano
segnato dalla speranza di una redenzione 52 . In questa condizione di disagio
addolcito dalla fede, Cellini inizia a comporre il capitolo in terza rima in
lode della prigione. Il culmine dell’esperienza giunge nella visione mistica paradisiaca
(I, CXXII), dove, nella salita verso la luce, si avverte l’eco del mito di Er
(Platone, Repubblica, X, XIII) e dove pure ha un’importanza decisiva la descrizione
della scala che conduce alla luce («Allora io dissi: “O amico mio, come
ho io da fare, che io mi potessi alzare tanto che io vedessi la propia spera del
sole?” Lui mi mostrò parecchi scaglioni che erano quivi alla mia man ritta, e mi
disse: “Va’ quivi da te”. Io spiccatomi un poco da ˙ llui, salivo con le calcagna
allo indietro su per quei parechi scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire
la vicinità del sole»; I, CXXII), che altro non è che la scala mistica (si veda
50 Il suicidio è prerogativa anche del malinconico: cfr. LYONS, La malinconia di Amleto,
cit., pp. 133-34 (ma era stato già osservato da Aristotele nei Problemata physica).
51 Cfr. E. CARRARA, Benvenuto Cellini (1500-1571), Torino, Paravia, 1938, p. 65: «ma
non l’anima, bensì “gli spiriti”, ossia il sentimento del poeta, anelano a uscire dalla prigione
oscura, che non è tanto quella della segreta, come del corpo».
52 Sul momento tipico della riflessione cfr. MENEGHETTI, Scrivere in carcere..., cit., p.
191: «la relegazione rappresenta una sorta di momento della verità, in cui emergono e anzi
vengono valorizzate le innate virtù del saggio o comunque dell’uomo di particolare merito».
98

La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
almeno Genesi, 28, 11 e sgg) 53 . Il tutto in un contesto letterario che ovviamente
si richiama al Paradiso dantesco 54 . Che la visione celliniana sia ricalcata sulle
esperienze mistiche sembra dato acquisito. Altro antecedente illustre da allegare
è quello del De consolatione Philosophiae di Boezio, ma credo non si debba
trascurare proprio la visione di san Pietro avvenuta nel periodo di detenzione
(Actus Apostolorum, 12, 5-11) 55 :
Et Petrus quidem servabatur in carcere; oratio autem fiebat sine intermissione ab ecclesia
ad Deum pro eo. Cum autem producturus eum esset Herodes, in ipsa nocte erat Petrus dormiens
inter duos milites vinctus catenis duabus, et custodes ante ostium custodiebant carcerem.
Et ecce angelus Domini adstitit, et lumen refulsit in habitaculo, percussoque latere Petri,
excitavit eum dicens: Surge velociter. Et ceciderunt catenae de manibus eius. Dixit autem
angelus ad eum: Praecingere et calcea te caligas tuas. Et fecit sic. Et dixit illi: Circumda tibi
vestimentum tuum et sequere me. Et exiens sequebatur eum et nasciebat quia verum est quod
fiebat per angelum; existimabat autem se visum videre. Transeuntes autem primam et secundam
custodiam venerunt ad portam ferream, quae ducit ad civitatem, quae ultro aperta est eis,
et exeuntes processerunt vicum unum, et continuo discessit angelus ab eo. Et Petrus ad se
reversus dixit: Nunc scio vere quia misit Dominus angelum suum et eripuitme de manu
Herodis et de omni expectatione plebis Iudaeorum 56 .
53 Il termine “scaglione” è anche dantesco (cfr. Purg. IX, 94; XII, 115 e XXVII, 67). Una
brevissima testimonianza della visione è affidata pure al sonetto S’i’ potessi, Signor,
mostrarvi il vero (I, CXXIII). Si veda anche Rime, 100. Per il sole come metafora di Dio, della
beatitudine e del paradiso si veda Rime, 16, 9-11: «Gli altri poi, che dannati in sempiterno/
restan fra l’aria e la spera del fuoco,/ girando sotto, e’ mai veggono ’l sole» e 34, 12: «Dio lo
privò del lume del suo inpero». Sulla scala mistica si rimanda a CH. HECK, L’échelle céleste
dans l’art du Moyen Âge. Une image de la quête du ciel, Paris, Flammarion, 1997 (in part.
pp. 149-51).
54 Cfr. L. SCORRANO, “Gli ha letto Dante”. Occasioni dantesche nella “Vita” del Cellini,
in «Rivista di letteratura italiana», XVIII, 2000, 2-3, pp. 29-45: pp. 35-36: «È innanzitutto la
figura del penitente che si volge, e si consegna, a Dio a risvegliare consonanze con Dante».
55 Ma su simili visioni si veda anche CICERO, De divinatione, I, XXV: «Est apud Platonem
Socrates, cum esset in custodia publica, dicens Critoni, suo familiari, sibi post tertium diem
esse moriendum; vidisse se in somnis pulchritudine eximia feminam, quae se nomine appellans
diceret Homericum quendam eius modi versum: “Tertia te Phthiae tempestas laeta locabit”
quod, ut est dictum, sic scribitur contigisse».
56 Cfr. B. MAIER, Umanità e stile di Benvenuto Cellini scrittore (studio critico), Milano,
Trevisini, 1952, e in part. il cap. V, L’elemento onirico (sogni, visioni, allucinazioni), la religiosità
ed il cosidetto «surrealismo» del Cellini, pp. 111-41, ma già alle pp. 67-68 lo studioso
parlava di una Imitatio Christi, e del carcere come esperienza spirituale e mistica (si veda
anche la p. 69, dove si tratta di letteratura visionistica e agiografica). CALURA, L’orizzonte
mitologico..., cit., pp. 61-62, invece, allegando il volume di R. Scholes e R. Kellogg, La natura
della narrativa (Bologna, il Mulino, 1970), parla di «“raddoppiamento” della metafora
dell’ego, che si estrinseca, come nella narrativa antica», attraverso l’uso di eventi soprannaturali
per motivare i processi psicologici (vd. anche MARI, Di alcune ossessioni celliniane, cit.,
99

Giuseppe Crimi
Aggiungo, per tornare ad una caratteristica che sembra pervadere questi
passi della Vita, che proprio negli individui di temperamento malinconico, sotto
l’influsso di Saturno, esisteva una certa predisposizione alla visionarietà e all’estasi
mistica 57 .
La visione divina riscatta la natura apparentemente diabolica che Cellini
nella prima parte aveva lasciato trapelare 58 (qualcuno afferma perfino «Oh se
quel diavolo di Benvenuto ci vedessi, guai a noi!»): il carcere, allora, non può
non essere che l’esperienza necessaria per redimere questa sorta di diavolo 59 . La
visione sembra rappresentare, inoltre, una sorta di controaltare all’evocazione
demoniaca avvenuta al Colosseo (I, LXIV) 60 .
L’ultimo testo in versi compreso nella Vita e qui utile per il nostro discorso è il
capitolo in terza rima in lode della prigione (I, CXXVIII), diretto a Luca Martini 61 .
p. 41 n. 23). Sarebbe quindi l’humor melancholicus a generare simili fantasmi. Inoltre, nella
visione il bagno d’oro viene associato al simbolismo alchemico. Vd. anche R. e M.
WITTKOWER, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese
(trad. it.), Torino, Einaudi, 2005 (I ed. 1963), p. 206: «le sue [scil. del Cellini] “allucinazioni”
appariranno forse meno notevoli mettendole a riscontro con le superstizioni e le credenze
demonologiche allora correnti. Si deve dire però che il Cellini soffriva di periodici attacchi di
febbre, probabilmente malarica, e che nessuno può sapere come gli funzionasse il cervello
quando ne era colpito». La cella può spingere a situazioni simili: nel caso precedente di
Giannantonio Petrucci si descrive una profezia visionaria (son. XLVIII, Io sento nel me’ senso
omni furore, p. 240; al v. 4 il prigionero scrive: «Dïo ha spirato nel mi pectóre»).
57 Cfr. CHASTEL, «La tentazione di sant’Antonio» o il sogno del malinconico, cit., p. 17 e
vd. pure BABB, Malinconia e scienza dal Medioevo al Rinascimento, cit., p. 63: «I sintomi
malinconici di un carattere religioso includono numerose fantasie estatiche. Alcune persone
devote, affette da malinconia, vedono beatificanti visioni: “Deos, et angelorum choros, et
similia”», e ivi, pp. 87-88.
58 Cfr. GUGLIELMINETTI, La Vita del Cellini..., cit., pp. 319-31.
59 Pur in uno stato avanzato di grazia, Cellini si raffigura ancora come essere demoniaco,
associando il suo aspetto a quello di un drago: «Però vennono [scil. gli angeli] a me tanto
armati, quasi che paurosi che io non fussi un velenoso dragone» (I, CXX); si rileggano anche
le parole del capitano delle guardie: «Presto presto, saltategli a dosso e pigliatelo. Non fussi
costui il diavolo che tanti noi doviamo aver paura di lui?» (I, CXX).
60 Cfr. BIANCOFIORE, Benvenuto Cellini artiste-écrivain..., cit., pp. 306-12. Segnalo che
ne La prontissima risposta de l’arguto Gobbo di Rialto a Pasquino Romano, vv, 63-64 si
legge: «tu che non sei cristian né giudeo/ parla coi spiritati al Coliseo» (in Pasquino e dintorni.
Testi pasquineschi del Cinquecento, a cura di A. Marzo, Roma, Salerno Editrice, 1990, p.
201), dove, però, “spiritati”, sulla scorta del Tommaseo-Bellini, è spiegato con ‘bislacchi’.
Sul passo celliniano si veda anche V. PAQUES, Les Sciences occultes d’après les documents
littéraires italiens du XVI e siècle, Paris, Université de Paris-Mémoires de l’Institut d’Ethnologie-VI
Institut d’Ethnologie. Musée de l’homme, 1971, p. 120.
61 Su di lui vd. S. LONGHI, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova,
Antenore, 1983, p. 53 e n. 49. Paolo del Rosso gli dedica due sonetti (cod. Magl. VII 1293, cc.
21r e 23v), mentre il Bronzino i capitoli I Romori e quello Contro a le campane (in
100

La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
Si tratta di un compendio delle circostanze accadute in carcere, un resoconto
giornaliero che sfocia in una costante lamentatio, tra toni seri 62 e toni ironici 63 .
Vista la situazione di disagio descritta, le terzine risentono sensibilmente del
tema del «malo alloggio» 64 , già frequentato nel Quattrocento. Nell’attacco viene
dichiarato il significato del carcere, luogo della sofferenza 65 , con una funzione
istruttiva, catartica e spirituale, proclamata con tono più o meno serio: «Chi
vuol saper quant’è il valor de Dio,/ e quant’un uomo a quel Ben si assomiglia,/
convien che stie ’n prigione, al parer mio» (vv. 1-3). Eppure non si può limitare
il capitolo a un semplice resoconto in versi; piuttosto, deve essere considerato
un elemento complementare rispetto alle vicende narrate in prosa. Interessa
mettere in luce un’idea di fondo che qui viene esplicitata, ossia il rapporto tra il
carcere e l’inferno: «Per dir il ver di quel ch’io ne discerno,/ qua si cognosce e
sempre Idio si chiama,/ sentendo ognor le pene dell’Inferno» (vv. 40-42) 66 .
BRONZINO, Rime in burla, cit., pp. 27-32 con n. 2 a p. 402, e pp. 33-44). Bruno Maier accosta
il capitolo celliniano all’esperienza di Iacopone, in particolare a quanto narrato in O signor,
per cortesia/ manname la malsania! (vd. B. CELLINI, La vita, [a cura di B. Maier], Milano,
Edizioni per il club del libro, 1959, p. 318, n. 3).
62 Vd. MAIER, Umanità..., cit., pp. 69-70, dove lo studioso rileva che nelle terzine manca
l’elemento burlesco e che il disagio è trattato in maniera estremamente seria.
63 Il capitolo è stato ristampato dall’ed. Maier, con un discreto apparato di note, in
Burchiello e burleschi, a cura di R. Nigro, introduzione di R. Nigro, Roma, Istituto poligrafico e
Zecca dello Stato, 2002, pp. 803-10. Sul tema cfr. il Capitolo della Mala Notte di Mattio
Franzesi, in IL|SECONDO LIBRO|Dell’opere Burlesche, di M. |FRANCESCO BERNI. |Del Molza, di M.
Bino, di M.|Lodovico Martelli.|Di Mattio Francesi, dell’Aretino,|Et di diuersi Autori|Nuovamente
posto in Luce, Et con|diligenza Stampato. [fregio]|IN FIORENZA, MDLV. [Colophon: IN
FIORENZA|Apresso li Heredi di|Bernardo Giunti.|MDLV], ff. 66b-68b. In àmbito secentesco
trovo il Lamento di Rodomonte aggiontovi di nuovo un capitolo sopra la prigione et una bellissima
villanella, In Venetia & in Trevigi, appresso Angelo Righettini, 1626; e alla lamentatio va
ricondotto, in àmbito anglosassone, la Luke Hutton’s Lamentation (fine XVI sec.), scritta, almeno
così parrebbe, da un prigioniero condannato a morte (vd. B. GEREMEK, La stirpe di Caino.
L’immagine dei vagabondi e dei poveri nelle letterature europee dal XV al XVII secolo (trad.
it.), a cura di F. Cataluccio, Milano, Il Saggiatore, 1988, pp. 180-81). MAIER, Le «Rime»..., cit.,
p. 337 riconduce la scrittura del capitolo all’esperienza del bernismo, rinviando ad Udite,
Fracastoro, un caso strano. Alle pp. 340-41 sono illustrati i contatti tra la Vita e i sonetti. I vv.
53-59 del capitolo sono posti in relazione con Vita, I, CXIX e i vv. 172-74 con I, CXXV. Sulla
scrittura comica in carcere una vera miniera di testi è fornita dall’opera di Louis Bellaud de la
Bellaudière: cfr. F. GARAVINI, Prigioni in oc, in «Lectures», 12 (giugno 1983), pp. 166-69.
64 Cfr. G. VITALETTI, Per il tema del «malo alloggio», in «Giornale storico della letteratura
italiana», LXXXIII, 1924, pp. 376-80.
65 Nelle carceri veneziane Luchinus Cremona incise nel 1458 la scritta «Disce pati» (in
G. SCARABELLO, Carcerati e carceri a Venezia nell’età moderna, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1979, p. 58).
66 Per questo descensus ad inferos, anticipato da una serie di puntuali sintomi che Cellini
manifesta, si veda CALURA, L’orizzonte mitologico..., cit., pp. 60-61. Cellini istituirà un simile
101

Giuseppe Crimi
Tutto, credo, torna a definirsi in maniera nitida e coerente. Cellini ha trascorso
nel carcere la fase infernale e in parte quella purgatoriale, per giungere gradualmente
fino al momento beatifico della visione divina e della redenzione. Non si
rapporto carcere-inferno anche nei versi: «Volsi anch’io alzarmi alla celeste corte;/ il carcer ’l
mio sentier volse all’inferno» (Rime, 62, II, 12-13). La visione in chiave dantesca viene stimolata
dalla frequente associazione tra la prigione e il luogo della dannazione eterna: vd. il
sonetto di Giannantonio Petrucci So’ entrato, in vita, e sensa alcun peccato (In PERITO, La
congiura dei baroni..., cit., son. IV, pp. 176-77): «So’ entrato, in vita, e sensa alcun peccato,/
Dove altro con morte e per delicti,/ Dove Minos judica gli afflicti,/ E so’ del chiaro lume anco
privato;/ Lo fiume de Acheronte agio passato,/ Le porte de lo enferno, ove fo scritti:/ Guai ad
vui che entrate, o povericti! –/ E giù al bascio cerchio fui calato./ Trovai lo limbo nudo e
despoliato,/ Altro non ce era che erbe seccate,/ Parse che Cristo all’orto fosse stato./ E cossì,
solo, sensa pïetate,/ Vo per lo enferno errando in omne lato.../ Resguarda, o Dio, ad tanta crudeltate!»
(e vd. il sonetto XII, pp. 187-88, Dal fundo de lo enferno ve saluto, vv. 1-8: «Dal
fundo de lo enferno ve saluto/ Ad vu’ de l’altro mundo io trapassato/ Llà dove Iove me ave
condannato,/ Tornato el mio color tucto de luto./ Non vesto sete più, né anco velluto,/ Ma
vado nudo, tucto transformato,/ Per queste obscuritate, in omne lato,/ Con l’altri che son qua
sempre disputo», nonché il son. XLV, 9-13, p. 236), ANONIMO CINQUECENTESCO, Che luogo è
questo? le cimerie grotte?, vv. 9-12: «Certo, io son vivo sceso ne l’inferno/ oimé, perché i
peccati miei non piansi/ in vita? oimé, ch’io sudo, oimé, mi noco!/ Ma u’ son i diavoli, ov’è il
foco?» (in PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., p. 253), GRAZZINI, Le rime burlesche, cit.,
Canzoni, I, 76-77, p. 139: «Ma che domin saria/ a voi cavarmi tosto dell’inferno», FILIPPI,
Rime spirituali..., cit., Quando fia, Signor mio, ch’al dolce scoglio, vv. 12-14, p. 22: «Deh,
Signor mio, la tua sembianza mira:/ Fa pace col figliuol, Padre clemente,/ E trammi fuor di
questo nuovo inferno» e G.C. CROCE, Biasmo de la prigione, 136-38: «Al fin convien che
concludendo dica/ che questo è il ver inferno de gli affanni,/ ove Pluton ha la sua stanza antica»
(in «Varii al mondo son gli umori»..., cit., p. 211), ID., Lodi de la prigione, vv. 196-97:
«Serra la bocca dunque e taci ormai/ né pinger ne l’inferno il paradiso» (ivi, p. 202), e pure il
Marino esordisce esibendo la consunta metafora: «Magnanimo signor, già volge un mese/ che
mi trovo sepolto in questo inferno,/ e per quanto conosco è un mal paese» (in MARINO,
Lettere, cit., p. 564). Nell’Opera nuova in versi volgare, intitulata specchio de la giustitia
scritta in terza rima dal veneziano Joannes Manenti intorno al 1540, la prima parte è dedicata
alle carceri lagunari ed è intitolata «l’Inferno del mondo» (vd. SCARABELLO, Carcerati e carceri...,
cit., pp. 29-31). Campanella, analogamente, nel sonetto Come va al centro ogni cosa
pesante, vv. 9-11, scrive: «Ch’altri l’appella antro di Polifemo,/ palazzo altri d’Atlante, e chi
di Creta/ il laberinto, e chi l’Inferno estremo» (T. CAMPANELLA, Le poesie, edizione completa,
testo criticamente riveduto e commento a cura di F. Giancotti, Torino, Einaudi, 1998, p. 254;
nella Lamentevole orazione profetale del profondo della fossa dove stava incarcerato, 2, vv.
4-5, ivi, p. 291, Campanella, attraverso un’eco dantesca, ripropone un simile concetto: «Che
al numero io mi trovo/ delle perdute genti»). Il Croce si spinge ad affermare iperbolicamente
che in prigione si odono «un strepito di chiave et un rumore/ di catenazzi, un batter usci e
porte/ da por fin ne l’inferno aspro terrore» (Biasmo de la prigione, vv. 91-93, in «Varii al
mondo son gli umori»..., cit., p. 209). Vd. anche O. WILDE, The Ballad of Reading Gaol, in
ID., Opere, a cura di M. d’Amico, Milano, Mondadori, 1992, p. 808: «And down the iron
stair we tramped,/ Each from his separate Hell», ivi, p. 818: «And they do well to hide their
Hell» e ivi, p. 820: «We turn the crank, or tear the rope,/ Each in his separate Hell».
102

dimentichi, però, che la relazione istituita tra carcere ed inferno, appunto, era
pure legittimata dall’auctoritas di Dante, che in maniera uguale e contraria
aveva definito l’inferno “cieco carcere” (Inf. X, 58-59 e Purg. XXII, 103; e vd.
Virgilio, Aen., VI, 734) 67 .
La condizione del disagio permette di esibire un repertorio ben attestato,
facendo sfoggio di un immaginario comico, attenuato però da perifrasi castigate:
«Allora allor della poesia il fuoco/ m’entrò nel corpo, e credo per la via/
ond’esce il pan: ché non v’era altro loco» (vv. 58-60) 68 .
Dal verso 133 inizia una sorta di visio dantesca 69 . È sufficiente, per spiegarla,
il legame carcere-inferno appena illustrato? Credo che nella scrittura del
testo agisca un riferimento più denso. Per capire l’operazione di Cellini, bisogna
infatti rammentare che il suddetto Luca Martini, come chiosa Bellotto, era un
letterato fiorentino appassionato di Dante. Ma non solo un appassionato. Questi,
nel 1546, collazionò almeno sette manoscritti della Commedia e, nel 1548, trascrisse
su un Aldina del 1513 le varianti di un antico codice oggi irreperibile 70 .
Quindi un destinatario in grado di cogliere pienamente il senso di un percorso
esistenziale e di rapportarlo in modo più immediato e calzante a quello dantesco.
Le rime
La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
Prima di esaminare le cosiddette “rime nel carcere”, occorre premettere che
le rime escluse dalla Vita e confluite in altri codici, per scelta dei più antichi editori
con conseguenze fino a quelli più recenti, nelle stampe sono artificiosamente
disposte per argomenti: in realtà nei manoscritti questa suddivisione non ha
67 Si veda anche quanto si dice dell’inferno in GIORDANO DA PISA, Avventuale fiorentino
1304, edizione critica a cura di S. Serventi, Bologna, il Mulino, 2006, XL, 41, p. 550:
«Dunque se la gratia di Dio non fosse che nne purga, tutti andremmo a le carcere del ninferno
[...]».
68 Vd., ad es., MICHELANGELO, Rime, 267, 19-21: «La toss’ e ’l freddo il tien sol che non
more;/ se la non esce per l’uscio di sotto,/ per bocca il fiato a pen’ uscir può fore» (in ID.,
Rime e lettere, cit., p. 272).
69 Il rapporto carcere-inferno spinge Campanella a fare uso della visio infernale di stampo
dantesco per descrivere i prigionieri: «Veggio spirti rivolti al Creatore/ schernir tormenti e
morte, del tiranno/ armi sovrane, e scherzar con l’affanno,/ onta e dispetto del moresco core»
(in CAMPANELLA, Poesie, cit., Sonetto in lode di carcerati e tormentati per difesa dell’innocenza,
vv. 1-4, p. 490).
70 Vd. la voce “Martini, Luca” nell’Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 1984 2 , III, p. 847, dove si rimanda al contributo di G. VANDELLI, Il più antico
testo critico della Divina Commedia, in «Studi danteschi», V, 1922, pp. 41-98, e la nota biografica
in Burchiello e burleschi, cit., pp. 959-61.
103

Giuseppe Crimi
luogo. Altro aspetto non secondario: le rime escluse dalla Vita dialogano intensamente
con il prosimetro. Nelle rime, poi, di frequente vengono riproposti temi
affrontati nella Vita, ma arricchiti o tratteggiati in maniera più puntuale.
Se l’esperienza carceraria descritta nella Vita rappresenta un evidente percorso
di purificazione del protagonista, secondo un disegno divino (Guglielminetti
parla di “agiografia”), le detenzioni descritte nelle rime sono vissute ed interpretate
(anche dall’autore stesso) in maniera differente. Sembra opportuno evidenziare
almeno due aspetti: il primo corrisponde alla nostalgia verso una condizione
di beatitudine irripetibile 71 , il secondo alla consapevolezza da parte di Cellini
di sentirsi vittima di un destino ormai avverso. Come accennato inizialmente, si
deve premettere un dato non proprio insignificante, ovvero che in genere ai
detenuti era proibito scrivere e quindi, quando era possibile, per la scrittura
venivano impiegati mezzi di fortuna (ma si ricordi il caso diverso di Marco
Polo, che dettò il Milione a Rustichello da Pisa): carcere e scrittura sembrerebbero
due elementi drammaticamente inconciliabili 72 .
Delle rime celliniane sul carcere si fornisce un assaggio, evidenziando gli
aspetti più fedeli alla tradizione e quelli che formano organismi più compatti.
Esiste un divario tra una vocazione spirituale di alcune rime e il senso dell’abbandono
di altre, fitte di imprecazioni nei confronti della giustizia cieca e del
destino crudele.
Ma riassumiamo le già note vicende biografiche successive agli eventi
descritti nella Vita. Nel 1556 Cellini viene accusato di violenza fisica: è imprigionato
per aver assaltato in agosto, in via della Pergola, l’orafo Giovanni di
Lorenzo con cinque colpi di bastone (quattro sulle braccia ed uno sulla testa).
L’anno successivo viene condannato al pagamento di una multa, perde i diritti
71 Si veda, ad es., son. 16, 1-4: «Risiede ’l sacro santo Iddio immortale/ con la sua corte
gloriosa e magnia/ in mezzo al sole, e con sua virtù bagnia,/ ciascun faccendo di sua grazia
equale» e Vita, I, CXXII: «Mi pareva questo sole sanza i razzi sua, né più né manco un bagno
di purissimo oro istrutto». Il passo in versi va ricondotto anche a Par., VII, 64-72 e XXVII, 111.
72 Lo ricorda anche il Burchiello, il quale, imprigionato, chiede ad un suo amico:
«Ficcami una pennuccia in un baccello,/ et èmpimi d’inchiostro un fiaschettino:/ mandamel
col mangiar, che paia vino» (I sonetti del Burchiello, cit., LXXVII, 1-4 e per i mezzi di fortuna
per la scrittura vd. ivi, 12-14: «Questo scrips’io con unn puntal d’aghetto,/ e prima il temperai
tre ore al muro/ ch’io potessi finir questo sonetto»). A simili condizioni estreme si riferiscono
anche i versi in prigione dal sapore galeotto ed attribuiti ad Alessandro Caravia, segnalati da
SCARABELLO, Carcerati e carceri..., cit., p. 46: «Per non aver penna né calamal/ Perché in
preson no’ ghe xe ’ste zavatte/ Te scrivo con la ponta del pugnal» (e vd. n. 23 a p. 216, dove
si rinvia al volume Delle rime piasevoli di diversi autori nuovamente raccolte da M. Modesto
Pino e intitolate la Caravana, Venezia 1573 (ho sotto gli occhi l’edizione RIME|PIACEVOLI|DI
DIVERSI|AUTTORI|Raccolte da M. Modesto|Pino, & intitolate|LA CARAVANA.|Di nuouo ristampate,
& ricorrette. [segue marca tipografica]| IN VENETIA, MDCXVI.|Appresso Lucio Spineda,
Capitolo V, vv. 1-3, f. 33a).
104

La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
civili e viene imprigionato nel carcere delle Stinche (27 febbraio), dove sconta
una condanna di 4 anni per sodomia. Ma il 3 marzo invia una supplica a Cosimo
I affinché gli riduca la pena, in modo da consentirgli di portare a termine il
Crocifisso 73 . Accolta la richiesta, viene scarcerato il 22 marzo. Ma il Cellini non
era nuovo a queste circostanze: già nel 1523, assieme a Matteo Rigoli, era stato
accusato di aver sodomizzato Domenico di Ser Giuliano da Ripa 74 . Su questi
avvenimenti scottanti, nella Vita, il Cellini getta il silenzio; le rime, pertanto,
costituiscono una parte integrativa (e per certi versi meno teatrale) della Vita.
Le rime sul carcere rappresentano un nucleo compatto di testi che racchiudono
vari motivi, spesso intrecciati tra loro. Si leggano i seguenti versi (il sonetto
è stato rivisto sul ms. Ricc. 2353, c. 2r):
Quel lume sol che ’l mondo e ’l cielo onora,
pe ’l quale io son più che animal divino,
che in mezzo d’esso in crocie a capo chino
viddi ’l Signior, che ’l cielo e ’l mondo adora,
piatoso in quello, e ’n questo carcere ora,
apri al tuo servo infelicie e meschino. (15, 1-6)
Il testo fu probabilmente scritto in prigione nel 1556. Un aspetto del Cellini
devoto che qui appare per la prima volta è la dichiarazione della servitù nei confronti
di Dio (v. 6), motivo per il quale si registrano altre occorrenze 75 : questo
sonetto, come altri coevi, insiste sulla disperazione di chi ha toccato la beatitudine
ma è tornato a soffrire una condizione infernale 76 . Per salvarsi, Cellini
richiede che gli sia concessa di nuovo la visione avuta nel 1539. Mi preme evidenziare
l’insistenza sul fattore della luce-Dio-salvezza, che naturalmente è in
chiara opposizione con le tenebre-peccato-prigione 77 . Nello stesso sonetto si
73 La lettera è stata edita in GALLUCCI, Benvenuto Cellini..., cit., p. 147.
74 Vd. GRECI, Benvenuto Cellini..., cit., p. 359. Il processo avvenne il 14 gennaio 1523;
Cellini pagò, invece dei 30 fiorini d’oro inizialmente pattuiti, dodici staia di grano.
75 Si veda Rime, 17, 12 (Nel carcere): «Io son tuo servo, e tu ’l mio Iddio divino», 18, 5-
6: «Porgi l’orechie, o Dio, al giusto infermo/ tuo servo, e la tua destra ancor vi pone», 33, 12-
14: «Tu, Padre e Figlio, tu sol santo, puoi/ quietar l’immenso mio crudel dolore,/ dappoi ch’eletto
m’hai fra’ servi tuoi», e 126, 17-18: «Deh fammi, Creator del tutto, degnio,/ come tuo
servo io son, tua creatura».
76 Si vedano anche i versi: «Già nelle tenabre ebbi maggior lucie/ che mai vedessi altro
uom [...]» (Rime, 104, 9-10).
77 Una simile antinomia ha riscontro anche nelle rime del Funesto: «Luce fra queste tenebre,
che fatto/ M’hai diletto figliuol d’inutil servo» (in FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Corsi da
primavera in su l’estremo, vv. 48-49, p. 7). Nel Cellini l’opposizione luce-tenebre si riscontra
anche in Rime, 126, 17-22: «Deh fammi, Creator del tutto, degnio,/[...] e fammi lucie in questa
valle oscura».
105

Giuseppe Crimi
richiama l’idea del purgatorio ai vv. 9-11: «E tu, Madre di Dio, fammi ormai
lieto,/ per quel divin splendor che in te si pose,/ qual purgò ’l cielo e nostre
colpe ’stinse», tema ripreso in Rime 16, 5-8: «Ogni uom che muore ha purgare ’l
suo male/ dentro alla luna: ivi sue colpe lagnia,/ fin che purgata e netta ella guadagnia/
quel don da Dio che più d’ogni altro vale» e ai vv. 13-14: «l’altre purgate
vanno al degnio loco,/ dentro una stella, e Dio contempla e cole», perché la
detenzione continua ad essere una delle occasioni più adatte per la riflessione
sul percorso spirituale e per la meditazione sulla salvezza dell’anima.
Negli altri componimenti in carcere mi sembra emerga con insistenza anche
il tema dell’ingiustizia. Proprio l’ingiustizia patita era stata chiamata in causa
per l’esperienza del 1539, era stata denunciata nella Vita e rimarcata in altri
versi: «A quella maggior, sola, etterna lucie/ dalle tenabre ingiuste fui portato:/
per nol soffrir mie viste, da un lato/ volse i gran razzi, e ’n quello apparve ’l
Ducie/ a braccia aperte in crocie, [...]» (Rime, 100, 1-5) 78 . Ma ad una situazione
con un epilogo positivo ora se ne contrappone una ben differente: si veda anche
la prima quartina del sonetto 18: «Cinquanta dua, sono oggi, giorni fermo/ son
dentro un carcere, dove la ragione/ non v’entra mai per quel che vi si pone,/ né
val con vita o morte usare schermo» 79 .
Su questa linea pare interessante, anche per altri aspetti, il sonetto che
Cellini scrisse [Dopo due mesi di prigionia] fuor del carcere e libero:
Creatore inmortal, che ’n sempiterno
fu la tuo gloria, né prencipio o fine
aver non puoi ne l’opre tue divine,
governi ’l cielo e superi lo ’nferno,
quei che di mal oprar abito ferno,
né credono alma, né del corpo fine
prigion de’ vizii, e quelle peregrine
alme c’han ’l cuor purgato in te sol fermo,
ben mi sovien di Roma il carcer vano
da quel Paul, che sol mosse avarizia:
piatoso ti scopristi allo innocente.
Signior, tu vedi ciò che noi facciamo;
del carcer d’or tu sai quanta ingiustizia,
e so che [’l] languir nostro in te si sente. (Rime, 23)
Anche in questo caso nel v. 13 riaffiora la tematica dell’iniquità delle pene
sofferte. Ma qualche spunto ancor più stimolante può provenire dalla lettura
78 Cfr Vita, I, CXX: «O giusto Idio, tu pagasti pure in su quello alto legno tutti e’ debiti
nostri; perché addunche ha a pagare la mia innocenzia i debiti di chi io non conosco?».
79 In genere l’idea dell’arresto ingiusto è motivo ricorrente: vd. anche il Funesto: «Non
osservar del mio processo, inico,/ Padre cortese, il grave, e lungo errore» (FILIPPI, Rime spirituali...,
cit., Corsi da Primavera in su l’estremo, vv. 93-94, p. 9).
106

degli altri versi. Nel cappello al sonetto Vittorio Gatto insiste sul tema della lode
a Dio ed evidenzia la fiducia di Cellini nel Creatore. Letterariamente, poi, l’invocazione
risentirebbe di un’eco dantesca 80 . Credo che i versi appaiano particolarmente
istruttivi perché costruiti su un doppio registro relativo al carcere, già
sperimentato nella Vita. Come nei testi che hanno preceduto la sua esperienza
letteraria, Cellini tratta, infatti, del carcere come detenzione fisica e come
profonda ingiustizia subìta, ma definisce il corpo «prigion de’ vizii». Il che
rimanda alla concezione del corpus-carcer al quale l’anima resta legata 81 . Ecco,
in quest’uso del doppio registro risiede una spinta innovatrice, in questa capacità
di parlare, all’interno di un testo su di un carcere reale, anche di un carcere
dell’anima. In questo senso anche i sonetti cosiddetti “in carcere” possiedono
una stretta parentela con quelli “spirituali”, come aveva rilevato la Gallucci 82 .
I temi che vengono affrontati in questi versi si ripetono e si ampliano. Si
prenda il sonetto 17 (rivisto sul cod. Ricc., 2353, c. 3v), forse da riferirsi alla
detenzione del 1539:
Signior del cielo, o Dio della natura,
tu mi formasti, e colla tua virtute
mi desti grazie qui non conosciute:
perché or tien tu di me sì poca cura?
Mi trovo stretto in questa tomba oscura,
sepulto vivo, e pur la mia salute
spero per l’alte sacre precie acute,
che fa chi grazia in te per me proccura.
Ferma ’l poter del mio fatal destino,
e vincitrice fa quella benignia
stella, che alzato m’ha dal vulgo gnioro 83 .
La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
80 Il rinvio per il v. 4 è a Par. I, 74: «[...] amor che ’l ciel governi» (nella n. al v. 14),
anche se si può ipotizzare l’incrocio con Morgante, VI, 69, 5-6: «Ma tu Signor, che i sempiterni
rai/ governi, e reggi il bel cielo stellato» (L. PULCI, Morgante, a cura di F. Ageno,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 151; corsivo mio).
81 Il concetto viene espresso anche in Rime, 43, 5-6: «L’alma immortal in questo mortal chiostro/
sovente sgrida l’impio suo furore» e 49, 1-4: «Quello inmortal sol Dio della natura/ fecie di
terra questa mortal spoglia,/ poi chiuse l’alma dentro a questa soglia,/ e fé ch’e’ ciel di quella avessin
cura». Un uso analogo a quello del Cellini è nel Funesto: «Anima travagliata, ancor ch’in breve/
Di sì grave prigion sarai disciolta,/ Per uscir da le tenebre, e dar volta/ A lui, ch’assai più dà, che
non vede» (in FILIPPI, Rime spirituali..., cit., Anima travagliata, ancor ch’in breve, vv. 1-4, p. 74).
82 Cfr. A New Look..., cit., p. 347: «likewise, sonnets written in prison are similar in language,
tone and imagery to his so-called spiritual sonnets». Per inquadrare il contesto della
lirica celliniana di stampo spirituale si parta da A. QUONDAM, Note sulla tradizione della poesia
spirituale e religiosa (parte prima), in Paradigmi e tradizioni, a cura di A. Quondam
(«Studi (e testi) italiani», 16, 2005), Roma, Bulzoni, 2005, pp. 127-211.
83 Si veda la convergenza con Rime, 29, 12-13: «Nel carcier qual io son parlar non oso,/
che ’l vulgo ignioro e vil m’ha posto incarco» e L. ARIOSTO, Orlando furioso, IV, 66, 3-4: «a
107

Giuseppe Crimi
Io son tuo servo, e tu ’l mio Iddio divino,
facendo grazie molte, pur si alignia
qual me, che sempre ti amo, laldo e adoro.
Altri temi si sovrappongono a quelli già visti: l’invocazione a Dio, la richiesta
di soccorso, la definizione del carcere come “tomba”, lemma spesso associato
all’aggettivo “oscura” 84 , dove il prigionerio è ridotto alla stregua di un essere
sepolto vivo 85 . Affiora qui, nel terzultimo verso, anche il motivo della lode di
Dio, esibito in altri testi 86 . Altro punto nodale: al v. 9 viene invocato Dio per
quel suave fin d’amor, che pare/ all’ignorante vulgo un grave eccesso», e ivi, XXV, 90, 3:
«acciò che l’ignorante vulgo taccia».
84 L’espressione tenebrosus carcer (presente anche in Vita, I, CXXII «questo carcere tenebroso»
e in Rime, 90, 6-7: «al gran Fattor del cielo, e dentro al fondo/ del carcier tenebroso
più giocondo») è già in sant’Agostino (vd. MARCOZZI, Corpus carcer, cit., p. 16 e n. 12, e 21-
22), mentre per l’immagine della prigione come tomba già Iacopone affermava «La presone
che m’è data,/ una casa sotterrata» e «En Todo iaccio sotterrato,/ en perpetua encarcerato»
(Que farai, fra’ Iacovone, vv. 15-16 e 151-52, in IACOPONE DA TODI, Laude, cit., pp. 147 e
152); si veda anche il verso del Burchiello incarcerato, che descrive una colomba posatasi
sulla finestra della cella: «e sbucò il capo e guardò giú la tomba» (I sonetti del Burchiello,
cit., LXXVI, 12), ANONIMO CINQUECENTESCO, Che luogo è questo? le cimerie grotte?, vv. 1-3:
«Che luogo è questo? le cimerie grotte?/ o de’ morti un’horrenda tomba oscura?/ o pur de’
vivi un’aspra sepoltura?», ID., Qui, dove (hai lasso) son sepolto vivo, vv. 12-14: «Qui in quest’horribil
tomba, o fogna, o grotta/ sepolti ne lo sterco infino a gl’occhi,/ trattati siamo assai
peggio, che belve» (in PAGLIA, «La pietà dei carcerati»..., cit., pp. 253 e 254), FILIPPI, Rime
spirituali..., cit., Uscirò, Signor mio, di questa tomba, vv. 1-2, p. 16: «Uscirò, Signor mio, di
questa tomba,/ O pur morrò, pria ch’io vega il Sole?», ivi, In questa tomba dolorosa, e scura,
vv. 1-4, p. 70: «In questa tomba dolorosa, e scura,/ In ch’io mi chiudo in vita,/ Non muto il
vezzo, et ho mutato (ohi lasso)/ Sì tosto in pel, che me n’accorgo a pena», e ivi, Il zoppo (tua
mercé) sorge al camino, vv. 13-14, p. 93: «Et io, perché sperar non debbo ancora/ D’uscir un
dì di questa tomba oscura?». A Venezia le Carceri dei Signori Capi venivano chiamate
«sepolture d’uomini» (vd. SCARABELLO, Carcerati e carceri..., cit., p. 59). Vd., inoltre, O.
WILDE, The Ballad of Reading Gaol, in ID., Opere, cit., p. 798: «And I trembled as I groped
my way/ Into my numbered tomb».
85 Vd. ANONIMO CINQUECENTESCO, Qui dove (ahi lasso) sono sepolto vivo (in PAGLIA, «La
pietà dei carcerati»..., cit., p. 253, ID., Qui dove sono, ahimé, sepolto vivo (ivi, p. 254), il
Marino «Magnanimo signor, già volge un mese/ che mi trovo sepolto in questo inferno,/ e per
quanto conosco è un mal paese» (in MARINO, Lettere, cit., p. 564) e l’annotazione di MOREL,
La prison et son image..., cit., p. 155 e p. 157: «La prison médiévale fait l’effet d’un tombeau
de pierre».
86 Cfr. Rime, 19 (in carcere), 2-4: «s’all’alma mia salute e ’l corpo tale/ posa quel peso, e
non mi faccia male,/ lalderò Dio e te, né mai fia lasso» e 110 (in carcere), 9-11: «Lauldarti e
ringraziarti quanto io possa/ d’essere in terra il più degnio animale/ con alma sacra, ignegnio,
carne e ossa». Non parrà singolare ritrovare il motivo della lode anche nei sonetti spirituali
Rime, 33, 9: «Lauldiamo tutti ’l nostro Creatore». Si veda anche Rime, 133, 3-4: «io pecco in
boschereccie poesie,/ pur lauldo Iddio con esse a tutte l’ore».
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La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
contrastare l’influenza negativa delle stelle: come vedremo anche questo aspetto
assumerà un contorno più sicuro.
Naturale, in una dichiarazione di ingiustizia, che la scrittura divenga luogo e
occasione dell’apologia e della lamentatio nei confronti dell’avversità della fortuna
(sonetto 24) 87 :
Padre, che ’n terra e ’n ciel primo monarca
sacro santo, inmortal se’, etterna facie,
fattor di vita e Dio d’ogni vivacie,
deh leva al servo tuo quest’aspra incarca!
Son inquisito a torto, e la mie barca
fragil sommergie esta belva mordacie;
volta a quel l’ira, e a me la santa pacie
dammi, ch’io entri alla tua celeste arca.
Per me ti piacque alzarti al santo Legnio,
e col tuo sangue battezzar la terra,
che le due lucie in ciel d’ira si ascose.
Metalli e marmi con qualche disegnio
sempre in tuo nome ho tochi: or tanta guerra
mi fa chi di me tien le miglior cose.
L’armamentario retorico di Cellini fa leva sugli stessi topoi: l’invocazione a
Dio, l’iniquità della pena, la servitù verso il Signore. Si aggiunge un fattore
interessante, ossia l’immagine della barca-vita agitata dai venti, comunque
impiegata in altri testi in versi sul carcere 88 . Il buio infernale può invitare alla
87 Sulla fortuna vd. ANONIMO CINQUECENTESCO, Qui dove sono, ahimé, sepolto vivo, 5-8:
«Perché di libertà poiché sono privo,/ et me fortuna ha, non io lei pel crine,/ onde al suo vil
voler vuol ch’io m’inchini:/ perché (ahi vil che son io) più spiro, et vivo?» (in PAGLIA, «La
pietà dei carcerati»..., cit., p. 254).
88 Il motivo applicato ad un testo sul carcere era stato già impiegato da Petrucci:
«Quantunche da fortuna in sicco lito/ E sïa da tempesta io conquassato» e «Mandato adversi
venti a le mie vele» (in PERITO, La congiura dei baroni..., cit., son., XXVII, 1-2, p. 210 e son.
XXXIV, 8, p. 220). Interessante il fatto di riscontrarlo anche nei versi di una canzone scritta in
carcere: «E con lo Spirito Santo/ spinge la nostra fragil barca al porto» (in PAGLIA, «La pietà
dei carcerati»..., cit., p. 302). Per il motivo in Cellini vd. Rime, 45, 5-6: «al porto glorioso ne
conduce,/ e ’n questa vita fa ciascun beato» e 94, 11: «tal ch’i’ son privo in alto mar del porto»
e cfr. MAIER, Le «Rime»..., cit. p. 330, mentre per l’uso della metafora, oltre a H. RAHNER,
Simboli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri (trad. it.), Milano, San Paolo, 1995 2 , pp. 511-
609, cfr. R.v.f., CXXXII, 9-10: «Fra sì contrari vènti in frale barca/ mi trovo in alto mar senza
governo», M. MARINUCCI, Batracomiomachia. Volgarizzamento del 1456 di Aurelio Simmaco
de Iacobiti, Padova, Esedra, 2001, vv. 9-10, p. 37: «Et tu, Apollo, che guidare solivi/ per ogni
mare la mia frale barca», LORENZO DE’ MEDICI, Capitoli, VII, 49-51: «Quattro venti in mar
fanno ogni tempesta,/ percotendo la nostra fragil barca,/ da coste, poppa, prua, che mai non
resta» (in ID., Tutte le opere, a cura di P. Orvieto, 2 tt., Roma, Salerno Editrice, 1992, t. II,
p. 1090); ID., La debil, piccioletta e fral mia barca (ivi, t. I, p. 40), L. ARIOSTO, Rime, introdu-
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Giuseppe Crimi
ricerca della luce divina. L’aggettivo fragil del v. 6 torna nel madrigale scritto in
carcere, per rafforzare l’idea della vanità e della precarietà dell’esistenza (118,
vv. 9-11: «Di sangue, carne e d’ossa/ Fragil composti siamo, e con tua voglia;/
deh! abbia ormai pietà di nostra doglia») 89 . Lo stesso Cellini, nella Vita, ricordava
come il carcere lo avesse spinto ad una simile riflessione: «Avevo un’ora e
mezo del dì di un poco di riflesso di lume, il quale m’entrava in quella infelice
caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e ’l
resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor
de’ pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana» (I, CXVII).
Il lamento contro la fortuna è tema abbastanza sfruttato: si rileggano i sonetti del
Petrucci Quando omo se retrova in bono stato, Ancor che la fortuna ad me crudele,
e Conosco contra me sì adverso fato 90 . Da cui le frequenti invocazioni contro la fortuna
91 , pure presenti in alcuni passi della Vita (I, XVI-XVIII). Ma le invettive nei confronti
del fato avverso possono essere affidate anche ad un registro più basso:
Porca fortuna 92 , s’ tu scoprivi prima
che ancora a ˙ mme piacessi ’l Ganimede 93 !
zione e note di S. Bianchi, Milano, Rizzoli, 1992, Capitoli, XXIV, 1-3, p. 178: «Vo navigando
un mar d’aspri martìri/ in fragil barca, perigliosa e grave,/ col vento impetuoso de’ desiri»,
MICHELANGELO, Rime, 285, 1-4, p. 177: «Giunto è già ’l corso della vita mia/ con tempestoso
mar, per fragil barca,/ al comun porto, ov’a render si varca/ conto e ragion d’ogni opra trista e
pia» (ID., Rime e lettere, cit., p. 284). Si noti tuttavia anche l’interessante convergenza con il
sonetto di Michelangelo rivolto a Dio: «Scarco d’una importuna e greve salma,/ Signior mie
caro, e dal mondo disciolto,/ qual fragil legnio a te stanco rivolto/ da l’orribil procella in
dolce calma» (MICHELANGELO, Rime, 290, 1-4, in ID., Rime e lettere, cit., p. 287).
89 E l’aggettivo viene impiegato anche in un altro sonetto in carcere e relativo alla condizione
umana: «Si accese a Dio questa mie ’nfelicie alma/ nel mille cinquecento, a Tutti e’
Santi,/ la notte che seguien pianti/ di chi lasciato ha qui la fragil salma» (27, 1-4). Si veda
inoltre Rime, 91, 5-6: «Certo so che ’l ben nostro e ’l mal discerni/ di quest’infima fragil
bassa parte». Anche questo tema appartiene alla topica del malinconico: cfr. LYONS, La
malinconia di Amleto, cit., p. 136.
90 Ed. cit., XIV, pp. 191-92; XXXIV, pp. 220-21; LXVIII, p. 266-67.
91 Cfr. GUGLIELMINETTI, La Vita del Cellini..., cit., pp. 310-11. Si ricordi, però, che già
nella Vita il tema era stato affrontato: in I, CI, all’inizio delle vicende che porteranno alla
prima detenzione Benvenuto scrive: «Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso, quanto possono
le maligne istelle coll’aversa fortuna in noi umani!»; successivamente la potenza di Dio
ha la meglio sulla negatività degli astri: «Qui ha potuto più la verità che la malignità degli
influssi celesti; così priego Idio, che se gli è in suo piacere, mi scampi da questo furore, e sì
bene come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male, ancora la feci alla speranza
del mio gran bene» (I, CXVII).
92 Cfr. P. ARETINO, Il Marescalco, IV, II, in ID., Tutte le commedie, a cura di G.B. De
Sanctis, Milano, Mursia, 1968, p. 81: «O sacrata nostra, o fortuna porca, io, an?».
93 Per quanto fossero ancora escluse ancora nei primi del Novecento (vd. almeno R.
RENIER, La psicopatia di Benvenuto Cellini, in ID., Svaghi critici, Bari, Laterza, 1910, p. 89),
110

La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
Son puttaniere ormai com’ogni uom vede,
né avesti di me la spoglia opima 94 .
Dinanzi ai tuo’ bei crin così si stima;
né chi ’l merta gli dai, né chi te i chiede;
gli porgi a tal che no gli cerca o vede.
Cieca, di te ormai non fo più stima.
Che val con arme, lettere, o scultura
affaticarsi in questa parte o ’n quella,
poi che tu se’ sì porca, impia figura?
Venga ’l canchero a ˙ tte, tuo ruote e stella 95 !
t’hai vendicata quella prima ingiuria:
che nol facevi nell’età novella. (ms. Ricc. 2353, c. 8r) 96
Credo che l’attacco con l’imprecazione nei confronti della fortuna sia interpretabile
come il rovesciamento dei sonetti spirituali aperti dall’invocazione a
Dio (vd. 17: Signor del cielo, o Dio della natura; 23: Creatore inmortal, che ’n
sempiterno; 24: Padre, che ’n terra e ’n ciel primo monarca; 40: Rettor del
cielo, o Dio della natura). Con un incipit che richiama il sonetto appena visto
inizia il num. 28:
le tendenze omosessuali di Cellini sembrano ormai fuor d’ogni dubbio: vd. J. M. SASLOW,
Homosexuality in the Renaissance: Behavior, Identity, and Artistic Expression, in Hidden
from History. Reclaiming the Gay and Lesbian Past, edited by M. Duberman, M. Vicinus and
G. Chauncey Jr., New York, Merdian, 1989, p. 100 e n. 21 a p. 505, e il recente contributo di
GALLUCCI, Benvenuto Cellini..., cit., pp. 22-30 (Cellini as Paradigmatic Sodomite) ed EAD.,
Cellini’s Trial for Sodomy: Power and Patronage at the Court of Cosimo I, in The Cultural
Politics of Duke Cosimo I de’ Medici, edited by K. Eisenbichler, Aldershot, Ashgate, 2001,
pp. 37-46. Anche nei sonetti Cellini si difenderà dall’accusa, a suo avviso, infondata. In effetti
poteva essere circostanza non rara quella di essere accusati ingiustamente di omosessualità.
Su simili episodi, frequenti nell’ambiente artistico per motivi di invidia o per screditare eventuali
concorrenti, è utile il passo epistolare dell’artefice Simone Ardizzoni a Ludovico
Gonzaga in data 15 settembre 1475: «E oltra de questo una sera fui asaltato da el nepoto de
Carlo di Moltone e piú de dece armati Zoano Andrea e mi per esere morti; e di questo poso
fare prova. E de novo per fare che non seguita la dita opera, Andrea Mantegna ha trovato certi
ribaldi per servirle me hano acusato per sodomito al maleficio; e colui che me ha acusato se
chiama Zoano Luca da Novara el Nodare, che a l’acusa è parento de Carlo Moltone» (lo si
legge in A. CANOVA, Gian Marco Cavalli incisore per Andrea Mantegna e altre notizie sull’oreficeria
e la tipografia a Mantova nel XV secolo, in «Italia medioevale e umanistica», XLII,
2001, p. 171).
94 Cfr. ARIOSTO, Orlando furioso, I, 41, 6: «et altri n’ha tutta la spoglia opima» e ivi,
XXVIII, 46, 8: «di mille moglie altrui la spoglia opima».
95 Vd. Vita, II, IV: «E’ mi rispose, menando certe sue manuzze di ragnatelo, con una vocerellina
di zanzara: “Perché non finisci questa tua opera? E’ si crede che tu no·lla finirai mai”.
Io subito gli risposi adirato e dissi: “Così vi venga il canchero et a voi et a·ttutti quegli che
non credono che io no·lla finisca”». L’imprecazione era largamente diffusa.
96 Su questo sonetto si veda GALLUCCI, A New Look..., cit., p. 343.
111

Giuseppe Crimi
Morte poltrona, tu ci hai tolto ’l bargello,
e prima ci togliesti il Polverino;
tu hai ’l cuor basso 97 e l’animo meschino:
sa’ tu fare altro, sciocca, o va al bordello 98 .
Adrian, Clemente, Paul, Iul, Marcello,
Francesco re; quest’ e quel signiorino
solevi tor, ch’er’ un veder divino,
menar sovente al tuo infernale ostello.
Iustizia e Morte han fatto compagnia:
Inganni, Fralde, Vizi, Adulazione,
Ignioranza porca a lor mostra la via.
Son vecchio ormai, e ho in cul queste persone 99 ;
ma se Morte mutassi fantasia,
si potrie metter fra le cose buone.
Nel travagliato allontanamento dalla fede, Cellini inizia ad attribuire la responsabilità
della sue condizioni all’influsso negativo degli astri, incontrastabile
ormai anche da Dio 100 :
Son Benvenuto, il qual diverse pruove
d’arte subblime ho fatto; e l’aspre stelle
con tutto il lor poter m’han misso al basso.
In Roma e ’n Francia il trionfante Giove,
Perseo a Fiorenze, e altre cose belle
mi paga un carcer: or son stanco e lasso (27, 9-14).
Rettor del cielo, o Dio della natura,
guidi e governi alma, vita e morte,
già stabilisti dentro alla tua corte
ciascun del bene e mal la sua ventura.
Che serve a quel che pregarti proccura,
che l’impie stelle sue rivoltin sorte? (40, 1-6).
Sulla sfiducia nei confronti di Dio è strutturato anche il sonetto Se valessi ’l
pregar le Parche strane (Rime, 110), dove le preghiere non trovano più ascolto
(«Hai l’ordin dato, e nostre precie vane/ son, tali i voti [...]», vv. 5-6).
97 Cfr. ARIOSTO, Orlando furioso, XX, 91, 6: «la vil plebe si mostri e di cor basso».
98 Cfr. G. VASARI, Vite, III, 51, Michelangelo Buonarroti: «Intese Michele Agnolo che e’
lodasse più il bronzo che l’artificio, perché sdegnato e con collera gli rispose: “Va’ al bordello
tu e ’l Cossa, che siete due solennissimi goffi nell’arte”».
99 Cfr. Vita, I, LXXVI: «Nicolò Benintendi allora disse: “Io ho in culo loro e il Duca”».
100 Cfr. Vita, I, CXV: «ma che a me mi pareva che m’intervenissi quello che aviene a certe
isfortunate persone, le quale, andando per la strada, casca loro un sasso da qualche grande
alteza in su la testa e gli amazza: qual si vede ispresso esser potenzia delle stelle: non già che
quelle che sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto innelle loro
cognunzione, alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cognosco d’avere il libero albitrio».
112

Da questo primo esame i dati raccolti disegnano una geografia abbastanza coerente
della scrittura celliniana. Sicuramente, per motivi fisiologici, la sezione della
Vita relativa alla prigionia offre un aspetto omogeneo e più complesso rispetto alle
rime scritte nelle occasioni delle successive detenzioni. Ma ad ostacolare una lettura
oggettiva delle rime resta ancora la datazione incerta. Sebbene Maier difenda il
carattere privato delle rime, i versi sul carcere vantano il pregio di una scrittura che
spesso è esibizione letteraria di motivi che la tradizione offriva e legittimava.
Con i dati finora a disposizione, mi pare che nel passaggio dalla Vita alle
rime si percepisca un lento ma progressivo distacco dal sentire religioso, almeno
in questo momento esistenziale; in tal senso le rime rappresentano un
momento di crisi, di rottura, rispetto alla fede e alla fiducia mostrate nella provvidenziale
esperienza della Vita.
APPENDICE
Si riportano in questa appendice due componimenti inediti utili per aggiungere
ulteriori prove alla codificazione della scrittura in carcere. Si distingue u da v, si introduce
la punteggiatura moderna, si inseriscono minuscole e maiuscole ove necessario.
Ms. Holkham Hall, 521, c. 87v.
La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
Come Francesco Cagnoli sendo in presone mal tractato dice non haver comesso mai fallo:
1 Se ’l feci mai, che dal ciel si mova
un gielo che distrugia st’alma trista;
se ’l feci mai, che ’l mio Evangelista
contra mi manda ogni biastema nova;
5 se ’l feci mai, che niente mi giova
l’aiuto del gran seme del Psalmista;
s’io ’l feci mai, ch’io perda la vista,
la terra si apra e ’l corpo non si trova;
9 se ’l feci mai, l’infocato e crudo
Vulcano mi divora e Sathanaso
somergia me nel suo puzente ludo;
12 s’io ’l feci mai, ch’io rimanga casso
da quella verginella ch’è mio scudo,
lei può liquidar il diamante e ’l sasso.
15 Ahi tormentato e lasso,
che publico si vede a tutta zente
dico tal fallo esserne innocente!».
113

Giuseppe Crimi
Cod. Vat. Lat. 5225, cc. 573r-574v.
Satyra di messer Giovanni Pollio
Chi crede sia di là peggior Inferno
che le stentate Stinche fiorentine
3 si mena il cazzo et sa poco il quaderno.
Certi pinzocheron’ 101 , scanna galline 102
esser nel centro della terra ha ditto
6 per far paura alle lor concubine.
Chi in l’aria tenebrosa l’han confitto,
et dicon che gli è nero et che gli è l’orco,
9 come ci fusser stati a cazzo ritto.
L’Inferno son le Stinche da dovero,
poste nel centro di questa cittade,
12 io ’l giurarei, ma non vo’ dir di Piero.
In questo oscuro carcer d’impietade
la gola, il culo, il dado arcifalsato 103
15 tengano il regno, et la dishonestade.
In questo luogo marcio e ’ncancarato 104
mariuoli, assassin’, delle spie padri,
18 purgan le colpe, et ogni immiterato 105 ,
chi le figliuole han fottuto et le madri,
falsar’ di scritti et falsar’ di metalli,
21 suppremi traditor’, suppremi ladri,
inventor’ di veleni et risagalli 106 ,
apostati nimici a Giesu Christo,
24 lussuriosi qual cunigli et galli 107 ,
101 Qui nel senso di ‘ipocriti’.
102 scanna galline, come nell’uso odierno, potrebbe stare per ‘farabutto, furfante di poco valore’,
ma si può pensare anche a ‘persona in grado di esercitare violenza solo sui più deboli’. Nel
Grande dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia (vol. XVII, p. 807) è registrato solo
scannagallo con il senso di ‘mozzo di cucina’ in una nave o di ‘addetto al vettovagliamento di una
nave’.
103 Cfr. PULCI, Morgante, cit., XVIII, 132, 1-2, p. 527: «Or queste son tre virtù cardinale,/
la gola e ’l culo e ’l dado, ch’io t’ho detto». Di “arcifalsato”, ossia ‘molto falsificato o truccato’,
non esistono altre attestazioni.
104 Ovvero “incancherato”, ‘insopportabile’, ma anche ‘maledetto’.
105 Portare la mitra in testa era segno di pubblica condanna, ma qui più propriamente il
termine significa ‘furfante’.
106 Il “risalgallo” è il disolfuro di arsenico, impiegato come veleno.
107 Sulla lussuria del coniglio si veda E. LAUZI, Lepre, donnola e iena: contributi alla storia
di una metafora, in «Studi medievali», s. III, XXIX, 1988, II, pp. 539-59, mentre per il
gallo, animale legato alla procreazione, CATTABIANI, Volario..., cit., p. 216.
114

La scrittura in carcere di Benvenuto Cellini
cavalier’ del bordel di Ponte Sixto 108 ,
padri delle biscazze 109 , e in fin non viene
27 qua dentro chi non ha titol di tristo.
Prima si contarien del mar l’arene 110
che i vitii che son qui, qua non s’accoglie
30 se non ribaldi et matti da catene 111 .
Chi in mille chiassi ha menata la moglie
et le sue carni data al trenta-paia 112
33 per gir po’ in Paradiso a suon di coglie.
Et perché spesso il dir col duol s’appaia,
la potta, il culo e ’l cazzo a briglia sciolta
36 si misuran qua dentro a quarti, a staia.
Qui il bargel 113 fa dimora, qui s’ascolta
il crudo biastemmiar d’empî marrani,
39 ponendo Iddio e tutti i santi in volta.
S’il padre de’ dappochi cappellani
avvien preghi per noi, Dio, santi e sante,
42 Christo, tu hai ’l torto a dargli nelle mani.
Di giorno il caldo et la notte le tante
pulci, pidocchi, cimici, zanzane
45 son la galantaria d’ogni furfante 114 .
108 Ponte Sisto era un luogo di Roma nei pressi del quale si esercitava la prostituzione:
cfr. Consigli utilissimi dello eccellente dottore mastro Pasquino [...], vv. 240-41, in Pasquino
e dintorni..., cit., p. 161: «Quando pur de donne hai voglia,/ voglia andar a Ponte Sisto».
109 Ossia ‘bische’.
110 Cfr. F. BECCUTI COPPETTA, Rime, CL, II, 25, vv. 5-8: «e chi tutte le doti accolte in ella/
contar potesse, ancor di tutti i fiumi/ conterebbe e del mar l’arena e quante/ stelle sostiene il
forte e vecchio Atlante» (in G. GUIDICCIONI-F. COPPETTA BECCUTI, Rime, a cura di E.
Chiorboli, Bari, Gius. Laterza e figli, 1912, p. 227).
111 Cfr. il sonetto di Machiavelli, In questa notte, pregando le Muse, vv. 7-11: «Dissigli il
nome, e lei per straziarmi/ mi batté al volto e la bocca mi chiuse/ dicendo: “Niccolò non se’
ma il Dazzo,/ poiché ha’ legato le gambe e i talloni/ e sta’ci incatenato come un pazzo”» (in
ID., Opere, III, cit., pp. 8-9). Tuttavia l’indicazione corrisponde al vero: alle Stinche erano
condotti anche i folli (cfr. G. MAGHERINI-V. BIOTTI, L’isola delle Stinche e i percorsi della follia
a Firenze nei secoli XIV – XVII, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, passim).
112 Ossia il demonio: cfr. T. FOLENGO, Baldus, a cura di M. Chiesa, 2 voll., Torino, Utet,
1997, XXII, pp. 428-29: «Trentaque para sonant, dum tirant retro per umbras/ schiodatas tavolas,
dum stringunt ilia buttis» (con n., nonché ivi, XXIII, 50) e P. ARETINO, Ragionamento, II, in ID.,
Ragionamento Dialogo, introduzione di N. Borsellino, guida bibliografica, note, indici dei nomi
e delle voci annotate di P. Procaccioli, Milano, Garzanti, 1984, p. 127: «Un frate che incantava
gli spiriti, e ne aveva piene le ampolle, salendo per certi muri di ortacci sopra il tetto della casa
di questa smugne-conventi, fece tanto che con il trenta-paia ci entrò una notte».
113 Il bargel è il capo dei birri.
114 L’antecedente è Burchiello: «Cimice e pulce con molti pidocchi/ ebbi nel letto et al
viso zanzale» (I sonetti del Burchiello, cit., CIV, 1-2, p. 148), ma se ne appropriano anche N.
115

Giuseppe Crimi
Corregge ampie risuonan per le tane,
lezzo, piscio, onto, farda, et succidume 115
48 il condimento son del nostro pane.
Fra la polver, il vento, il fiato e ’l fume
el non haver a sua posta mongioia 116
51 è più che rinegar, Christo, il tuo nome.
Le forche, i ferri, i cappi, il cappio, il boia
sempre stan dove noi con l’aguzzino
54 et nissun sa quando si viva o muoia.
Christo, tu hai il torto del tuo Polastrino,
se presto non mi trai 117 di tanti stenti,
57 forza è m’entri nel cul Pietro Aretino.
“Perdete ogni speranza”, son gli accenti,
“o voi che sete in questo oscuro guazzo,
60 di non uscir mai più di tai tormenti:
questo è l’Inferno, il Purgatorio è ’l cazzo!”.
MACHIAVELLI, Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti, vv. 5-6: «Menon pidocchi queste
parieti/ bolsi spaccati che paion farfalle» (in ID., Opere, III, cit., p. 8), ANONIMO, Qui, dove
(hai lasso) son sepolto vivo, vv. 9-11: «Qui si rubba via più, che ne le selve,/ né si sa mai
quando s’aggiorna, o annotta,/ né se ci rodon più i topi, o i pidocchi» (in PAGLIA, «La pietà
dei carcerati»..., cit., p. 254), G.C. CROCE, Biasmo de la prigione, vv. 25-29: «dove in un tratto
adosso ti si serra/ di pulci arrabbiate un gran squadrone/ e mille altri animali a farti guerra./
Chi ti dà una stoccata in un gallone/ chi un’imbroccata sotto de l’ascelle» (in «Varii al mondo
son gli umori»..., cit., p. 206) e Marino «I cimici, i pidocchi e gli altri eroi/ vi giuocano di
stocco e di rotella,/ con morsi che n’incacano i rasoi» (in MARINO, Lettere, cit., p. 570).
115 farda, cioè ‘roba sporca’; succidume, ossia ‘sudiciume’.
116 Il termine mongioia, di ascendenza cavalleresca, originariamente corrispondeva ad un
grido di guerra, ma qui potrebbe essere il lemma gergale per ‘denaro’ (cfr. B. MIGLIORINI,
Storia della lingua italiana, introduzione di G. Ghinassi, Milano, Bompiani, 2000, p. 375).
117 Prima di trai si legge stai cassato.
116