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sentenze tribunali mobbing.pdf - 1.04 Mb - Psicologia

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SENTENZE TRIBUNALE<br />

Tribunale di Napoli<br />

Ordinanza del 23 maggio 2002<br />

Tribunale di Taranto<br />

Sentenza n. 2948/2001 del 7 dicembre 2001<br />

Palazzina LAF<br />

Tribunale di Pisa<br />

Sentenza del 7 ottobre 2001<br />

Estensore dott. Nisticò<br />

Fulceri contro Autogrill S.p.A. e Rigo<br />

Risarcimento del danno esistenziale e del danno morale per molestie sessuali e <strong>mobbing</strong>,<br />

determinanti dimissioni della lavoratrice per giusta causa. Responsabilità in solido del datore di<br />

lavoro e del molestatore per il danno “esistenziale”, in violazione dell’art. 2087 c.c.; a carico del<br />

solo molestatore, per il danno morale da reato.<br />

Tribunale di Pisa (giudice unico di 1° grado) – 7 ottobre 2001 (ud. 3.10.2001) - Giud. Nisticò –<br />

Fulceri (avv.ti Grando, Magro) c. Autogrill Spa (avv. Porcelli) e Rigo (avv. Santoni)<br />

Risarcimento del danno esistenziale e del danno morale per molestie sessuali e <strong>mobbing</strong><br />

Molestie sessuali e <strong>mobbing</strong>, determinanti dimissioni della lavoratrice per giusta causa – Danno<br />

contrattuale “esistenziale” e danno morale extracontrattuale (per atti di libidine molesta) –<br />

Sussistenza del diritto al risarcimento – Responsabilità in solido del datore di lavoro e del<br />

molestatore per il danno “esistenziale”, in violazione dell’art. 2087 c.c. – A carico del solo<br />

molestatore, per il danno morale da reato.<br />

Il riferimento codicistico (art. 2087 c.c.) e Costituzionale (art. 41, 2 co., attinente al divieto per<br />

l’iniziativa economica privata di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) alla<br />

necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro<br />

consente di qualificare come illecito contrattuale ogni comportamento che cagioni<br />

ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana. Normativa ordinaria e<br />

costituzionale dunque approntano una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni<br />

atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione, nel<br />

presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o<br />

costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.<br />

Lo status di soggezione anche meramente psicologica - che diventa ingravescente quando il<br />

rapporto di sottordinazione si realizza fra soggetti di sesso diverso (proprio perché ognuno si porta<br />

dietro la sua natura , anche quando va a lavorare) - comporta l’obbligo giuridico del datore di lavoro<br />

di vigilare affinché nel contesto organizzativo nessuno approfitti della sua posizione gerarchica per


acuire lo stato di soggezione del sottordinato, imponendo comunque il rispetto della personalità,<br />

soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli (minori, donne lavoratrici, lavoratori con contratti<br />

precari, lavoratori cui sono affidate mansioni semplici ) e conseguentemente più esposti ad ogni tipo<br />

di pressione , o, se si vuole, di ricatto, in ragione della necessità di non perdere il lavoro.<br />

Il danno conseguente alla violazione dell’art. 2087 c.c. , per la parte in cui tutela la personalità<br />

morale del lavoratore, non corrisponda sempre e solo al c.d. danno biologico, cioè a quel danno che<br />

comprometta la capacità di relazionare nella vita civile, mediante la causazione di un pregiudizio<br />

fisico o psichico; quello del danno per lesione della personalità morale è concetto più ampio del c.d.<br />

danno biologico quale oggi è inteso dalla giurisprudenza e consiste nell’oggettivo<br />

travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico che si concretizzi in un pregiudizio<br />

“morale” (quindi non necessariamente psichico). Si può correttamente qualificate tale danno – né<br />

biologico né morale – come danno “esistenziale “, eventualmente in concorso con il danno alla vita<br />

di relazione e quello – di natura extracontrattuale – che tradizionalmente si riconduce alla figura del<br />

danno morale, correlata alla ricorrenza del reato (in fattispecie individuabile negli atti di libidine<br />

molesta). Se si ritenesse l’ inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art. 2087<br />

c.c., quest’ultima norma risulterebbe inutiliter data, nelle ipotesi, frequentissime, di pregiudizio alla<br />

personalità morale che non cagioni un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti<br />

nella vita di relazione.<br />

Per il danno “esistenziale” o alla vita di relazione, conseguente a violazione dell’art. 2087 –<br />

liquidabile equitativamente in 30 milioni (utilizzando il parametro delle 15 mensilità opzionali<br />

previste indennitariamente ex art. 18 stat. lav. per il licenziamento ingiustificato) - sono responsabili<br />

in solido il molestatore (per comportamento commissivo) e l’azienda (per comportamento<br />

omissivo), mentre per il danno morale, liquidabile in 15 milioni, è responsabile esclusivamente<br />

l’autore del reato di molestie.<br />

Svolgimento del processo<br />

Con ricorso 28 settembre 1999 Tosca Fulceri esponeva di aver lavorato alle dipendenze della<br />

Autogrill s.p.a., presso una unità di Pisa, dal 1993 fino alla fine del 1998, a seguito di dimissione<br />

per giusta causa determinate da molestie sessuali poste in essere nei suoi confronti dal vicedirettore<br />

Francesco Rigo. In particolare segnalava un primo episodio verificatosi nel 1994 (seguito da altri e<br />

comunque da un atteggiamento vessatorio) e quindi un secondo nel maggio del 1998, in esito al<br />

quale il datore di lavoro comminava al Rigo la sanzione disciplinare della sospensione per cinque<br />

giorni. Ritenendo il datore di lavoro responsabile ex art. 2049 c.c., chiedeva la condanna, in solido<br />

con il Rigo, al risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale, allegando di aver contratto<br />

una malattia psichica come conseguenza dei fatti descritti.<br />

Resisteva in giudizio la Autogrill s.p.a. spiegando come all’atto delle dimissioni la ricorrente non<br />

avesse allegato alcuna circostanza costituente giusta causa. Aggiungeva che in occasione del primo<br />

episodio il Direttore dell’unità di Pisa aveva rimproverato aspramente il Rigo “ponendo in<br />

discussione il suo ruolo all’interno dell’esercizio”. Quindi spiegava come nulla fosse più successo<br />

fino al 1998 e che anzi i rapporti fra i due dipendenti si erano rasserenati fino al punto di lasciar<br />

presumere che fra di essi esistesse un rapporto di amicizia e confidenza. Riteneva inveritiero<br />

l’episodio relativo al maggio del 1998 e spiegava che comunque in esito ad esso l’azienda aveva<br />

adottato una sanzione disciplinare ed aveva provveduto a trasferire a Massa il vicedirettore. Negava<br />

ogni responsabilità e contestava ogni nesso fra il comportamento del Rigo e la presunta malattia<br />

psichica della ricorrente.


Il Rigo, costituitosi in giudizio, negava ogni comportamento e spiegava che il datore di lavoro non<br />

aveva dato corso alla sanzione disciplinare ed aveva revocato il trasferimento subito dopo le<br />

dimissioni della Fulceri. Contestata pure la sussistenza della malattia, concludeva per il rigetto della<br />

domanda.<br />

Esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, interrogate le parti e sentiti tutti i testi<br />

indicati dalle parti, il giudice autorizzava note scritte, dopo di chi , all’udienza del 3.10.2001, sulle<br />

conclusioni delle parti, decideva la causa dando pubblica lettura del dispositivo.<br />

Motivi della decisione<br />

1) Con un clamoroso mutamento della costruzione difensiva, il Rigo, che si era costituito in<br />

giudizio negando di aver mai posto in essere comportamenti irriguardosi nei confronti della<br />

ricorrente, in sede di interrogatorio (ud. 8.11.2000), ha ammesso di aver tentato – nel 1994 - di<br />

baciare la sua collega di lavoro in ascensore, spiegando la cosa con un rapporto di “tenerezza”;<br />

necessariamente richiesto di meglio specificare in che cosa fosse consistita tale relazione, il<br />

convenuto ha spiegato che, qualche giorno prima dell’episodio, i due si erano visti nella sua auto<br />

dove si erano intrattenuti in “un rapporto sessuale orale”. Ha, poi, aggiunto, che dopo la serata in<br />

macchina i rapporti si erano raffreddati, perché la Fulceri “aveva dei problemi”(“suo marito era<br />

andato a letto con la sorella e lei di questa cosa ne soffriva. Andava anche dicendo che dopo il parto<br />

era tornata vergine perché le era stata suturata la vagina”) , spiegando che la relazione con la Fulceri<br />

era durata lo spazio “della sera al parcheggio della Standa…”.<br />

Poiché la Fulceri, nel suo interrogatorio, aveva aggiunto che il Rigo aveva fatto oggetto delle sue<br />

attenzioni un’altra ragazza, Rigo ha dichiarato (che la stessa, ndr.) “ aveva avuto un rapporto<br />

sentimentale con il (mio) collega Barsella Silvestro : entrambi erano fidanzati con altri e (a<br />

me) capitava di dover coprire le loro scappatelle”.<br />

Tenuto conto che, come subito si dirà, appare del tutto certo che il Rigo abbia posto in essere i<br />

comportamento contestati con la Fulceri e con un’altra dipendente (v. infra), è del tutto evidente<br />

come la sua strategia difensiva – tardivamente meditata - sia consistita nel descrivere l’ambiente di<br />

lavoro come connotato da una sconcertante elasticità di rapporti interpersonali fra i lavoratori di<br />

sesso diverso, nel tentativo di giustificare i suoi comportamenti in un contesto lavorativo<br />

caratterizzato da estrema disinvoltura e tolleranza, dove tutti facevano un po’ di tutto, scappatelle e<br />

convegni amorosi in auto.<br />

Operazione, questa, maldestramente risoltasi nel solo effetto di ulteriormente qualificare il suo<br />

comportamento.<br />

Ciò premesso, quanto occorrerà verificare è se gli episodi lamentanti dalla Fulceri siano veri e se, a<br />

parte la responsabilità del Rigo ( di cui questo giudice può processualmente conoscere per ragioni di<br />

connessione ex art. 40 c.p.c.), vi sia responsabilità (omissiva) del datore di lavoro.<br />

La ricorrente ha confermato, con dovizia di particolari, l’uno e l’altro episodio (febbraio 1994 ed<br />

aprile 1998) spiegando anche che – prima e dopo i fatti del 1994 - il Rigo non perdeva occasione<br />

per “strusciarsi” e metterle le mani addosso, atteggiamento, questo, tenuto anche nei confronti di<br />

un’altra ragazza. Vale la pena qui riportare quasi integralmente le dichiarazioni rese dalla<br />

teste Simona Giannessi: “Ricordo che una sera (nel 1994) la ricorrente venne sul mio posto di<br />

lavoro e piangeva. Le chiesi cosa fosse successo ed all’inizio lei non mi voleva dir nulla. La presi da<br />

parte e la Fulceri mi raccontò che la sera prima era stata assalita dal Rigo nell’ascensore. Io ci ho<br />

subito creduto perché anche io ero stato oggetto di attenzioni da parte del Rigo. Ogni momento era


uono per toccare, con una scusa o con un’altra… Il primo episodio si verificò quando io ero<br />

intenta a mettere a posto dei bicchieri in un posto alto. Il Rigo mi venne dietro e mi abbracciò<br />

all’altezza del seno. In quella occasione io mi misi a piangere. Un’altra volta, nel 1995 verso<br />

maggio o giugno, mentre stavo tagliando una torta in cucina il Rigo mi venne da dietro e mi toccò,<br />

nel senso che si strusciò pesante”.<br />

Non vi è ragione alcuna per dubitare delle dichiarazioni del tutto disinteressate della Giannessi:<br />

esse, tuttavia, hanno trovato una sicura conferma in quanto dichiarato dall’allora Direttore del<br />

negozio (Di Pretoro, ud. 5.12.2000: “verso la fine di maggio dell’anno 1995 fui chiamato da dei<br />

colleghi di lavoro perché la Giannessi piangeva. Chiesi alla Giannessi cosa fosse successo e lei mi<br />

disse che mentre era in cucina e preparava delle creme cotte sentì una certa pressione al bacino da<br />

parte del Rigo. Convocai immediatamente il Rigo e lui mi disse che si era semplicemente sporto a<br />

vedere cosa facesse la Giannessi e che la Giannessi facendo mezzo passo indietro l’aveva urtato”),<br />

dalla dipendente Fernanda Giometti (ud. 6.2.2001: “preciso meglio che una volta di sfuggita la<br />

Giannessi mi parlò di molestie…Simona mi ha detto che il Rigo l’aveva molestata…”) e dal<br />

dipendente Barsella (teste all’ud. del 17.7.2001: “ non ho fatto caso a chi mi avesse detto che il<br />

Rigo si era strusciato. Certo ho avuto l’impressione che tutti lo sapessero”), dal teste Garlani Mauro<br />

(ud. 6.2.2001: “Il direttore non mi informò dell’episodio del 1994. Mi informò, invece, di un<br />

episodio che riguardava la Giannessi credo nel 1995, sempre con il Rigo protagonista…”).<br />

E’, dunque, sicuro che il Rigo abbia posto in essere atti di molestia nei confronti della Giannessi e<br />

questo consente di non dubitare della stessa quando riferisce di sé e della sua collega, oggi<br />

ricorrente.<br />

Che la Fulceri abbia detto la verità nel suo ricorso e nel suo interrogatorio risulta anche – oltre che<br />

dalla dichiarazioni della Giannessi - da una serie di elementi ulteriori: il direttore Di Pretoro ha<br />

confermato che il futuro suocero della Giannessi sia era recato in azienda per contestare l’episodio<br />

dell’ascensore e che la stessa Giannessi se ne fosse lamentata (ud. 5.12.2000), il dipendente<br />

Bianconi ha ammesso di essere venuto a conoscenza dell’episodio del 1994, e così la dipendente<br />

Rosellini (ud. 6.2.2001).<br />

E, dunque certo, che il Rigo si sia reso protagonista dell’episodio (dell’ascensore) del 1994: la<br />

reazione della Fulceri, poi, verificata dall’allora Direttore del negozio, riferita dalla Giannessi e<br />

dagli altri testimoni consente di ritenere che sicuramente la ricorrente non fosse consenziente: ce lo<br />

dice, nella sua contorta versione, lo stesso Rigo quando ammette che quel “rapporto di tenerezza” si<br />

era esaurito nell’arco di una serata, con un veloce e sbrigativo incontro nella sua auto: ma ce lo dice<br />

anche il buon senso , poiché, se fosse stato come dice il Rigo (e cioè se la Fulceri fosse stata anche<br />

tacitamente consenziente), sicuramente la stessa , a pochi giorni dell’incontro in auto, non avrebbe<br />

esposto al direttore del negozio l’aggressione in ascensore, a meno di non rischiare che la cosa<br />

venisse fuori, come logica vuole, nelle prevedibili difese del Rigo. E non è neppure ipotizzabile che,<br />

per una sorta di ritorsione (del tutto immotivata, poiché il Rigo nulla allega su tale possibile<br />

motivazione) la ragazza corresse il rischio di far sapere nel suo posto di lavoro della sua<br />

disponibilità ad incontri fugaci.<br />

Non vi sono neppure dubbi sull’episodio del 1998, poiché, intanto, dalla certezza del primo e dalla<br />

certezza sui fatti subiti dalla teste Giannessi si ricava una verisimile linea di comportamento del<br />

Rigo, a questo punto avvezzo ad atteggiamenti scorretti. Ma l’episodio è confermato ancora una<br />

volta dalla Giannessi (“So anche che il Rigo ci ha riprovato con la ricorrente di recente: la Fulceri<br />

mi disse: è risuccesso, e mi spiegò che il fatto si era verificato mentre era alla cassa”) ed<br />

indirettamente dal direttore Giusto (ud. 5.12.2000: “il 27 maggio del 1998 io facevo il mio turno<br />

pomeridiano e mi ha subito avvicinato la signora Fulceri che mi disse quanto era successo la


mattina”) e dal teste Garlani (loc. ult. cit.) il quale ha riferito che, relativamente all’episodio del<br />

1998, il Rigo si era limitato a “minimizzare” la cosa, spiegando che si era trattato di un “contatto<br />

fortuito”.<br />

Si può, allora, tenere per acquisito che il Rigo si sia reso responsabile di atti di molestia nei<br />

confronti della ricorrente.<br />

2) A questo punto c’è da chiedersi cosa abbia fatto il datore di lavoro per impedire il perpetrarsi del<br />

comportamento del Rigo, posto che, come meglio si vedrà in seguito, era suo obbligo salvaguardare<br />

la personalità morale della dipendente (art. 2087 c.c.).<br />

E’ certissimo che il direttore del negozio nel 1994 fosse venuto a conoscenza del primo episodio,<br />

perché ce lo dice lui stesso (teste Di Pretoro, ud. 5.12.2000); è certissimo, perché ancora una volta<br />

ce lo dice Di Pretoro(loc. ult. cit.), che egli fosse a conoscenza anche della molestie subite dalla<br />

Giannessi. E’ certo, ancora, che il direttore abbia informato i superiori, quantomeno relativamente<br />

alle molestie subite da quest’ultima.<br />

I provvedimenti presi in questa occasione si sono limitati ad un rimprovero verbale ed<br />

all’allontanamento fisico della Fulceri. Nessuna sanzione disciplinare è stata adottata nei confronti<br />

del Rigo e la spiegazione è semplice perché il datore non aveva dato peso alla questione (riferisce il<br />

teste Garlani, loc.ult.cit., “Il direttore non mi informò dell’episodio del 1994 perché non lo riteneva<br />

grave”).<br />

Ma il datore di lavoro non aveva dato peso neppure al secondo episodio: dice al proposito Garlani:<br />

“non avevamo la prova certa della responsabilità del Rigo perché c’era la sua parola contro quella<br />

della Fulceri. Tuttavia, siccome l’azienda è particolarmente severa e sensibile (sic! ndr) al<br />

problema decidemmo di comminare una sanzione conservativa e poi di trasferire il Rigo”.<br />

Ma ci spiega lo stesso Rigo (v. interrogatorio) che la sanzione si era risolta in un provvedimento<br />

meramente formale, privo di contenuti effettivi: “il Garlani mi disse che mi avrebbe dato cinque<br />

giorni di sospensione e che mi avrebbe trasferito a Massa solo per calmare un po’ le acque: difatti la<br />

sanzione non è stata mai eseguita e per Massa mi hanno sempre rimborsato tutte le spese. Il<br />

capoarea mi aveva assicurato che sarai tornato a Pisa appena possibile”.<br />

Dunque il provvedimento punitivo del datore di lavoro è un mero provvedimento di facciata, mai<br />

eseguito, il che è in linea con il convincimento della modesta portata lesiva del comportamento del<br />

Rigo.<br />

Il datore di lavoro sa benissimo fin dal 1994 che il suo vicedirettore mantiene quell’atteggiamento<br />

con la Fulceri e con altre, sa, ancora, che quel comportamento si ripete a distanza di anni e si limita<br />

ad adottare uno pseudoprovvedimento disciplinare assolutamente inadeguato rispetto alla estrema<br />

gravità del fatto, concorrendo omissivamente a cagionare nella dipendente sottordinata all’autore<br />

delle molestie quello stato di estremo disagio concretizzatosi addirittura in una malattia psichica.<br />

Né ha pregio la tesi difensiva di Autogrill s.p.a. che si trincera nell’affermazione di aver avuto la<br />

parola della Fulceri contro la parola del Rigo; tesi del tutto grossolana, se si considera che non vi<br />

era ragione alcuna perché una ragazza montasse un tale polverone esponendosi reiteratamente in<br />

prima persona, coinvolgendo i familiari, le organizzazioni sindacali, i vertici aziendali e se si<br />

considera che il datore di lavoro sapeva che quei “contatti occasionali” erano stati rivolti anche ad<br />

un’altra dipendente. Né il Rigo né il datore di lavoro danno una spiegazione plausibile del<br />

comportamento della Fulceri, salvo affermare del tutto gratuitamente che la dipendente “avesse dei


problemi”: ma questi problemi li aveva anche la Giannessi? E cosa poteva pretendere il datore di<br />

lavoro di più di questa enorme serie di riscontri, posto che normalmente il molestatore non molesta<br />

davanti a testimoni ?<br />

3) La fattispecie astratta alla quale deve essere parametrata la domanda della Fulceri è quella di cui<br />

all’art. 2087 c.c. secondo cui “ l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le<br />

misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica , sono necessarie a<br />

tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.<br />

Quanto oggi, dunque, si va attribuendo all’istituto – di importazione nordeuropea – del c.d.<br />

<strong>mobbing</strong> appartiene, da tempi non sospetti, alla cultura giuridica del nostro sistema lavoristico già<br />

dal 1942 e trova una conferma – a livello costituzionale – nell’art. 41, 2 co., Cost. dove, come è<br />

noto, si dice che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o<br />

in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.<br />

Il riferimento alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del<br />

datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni<br />

comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua<br />

personalità umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento<br />

ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione, nel<br />

presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o<br />

costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito.<br />

Intesa in tal modo, la norma codicista (supportata dal disposto costituzionale) appronta un<br />

diaframma ben preciso fra gli obblighi contrattuali inerenti al sinallagma ed ogni manifestazione<br />

di supremazia datoriale che al quel sinallagma non sia funzionale e che, nell’immanente squilibrio<br />

fra le due parti, consenta a chi offre il lavoro di pretendere da chi lo presta qualcosa in più rispetto<br />

alla corretta prestazione od addirittura, secondo alcune istanze attuali, una sorta di partecipazione<br />

totale al momento imprenditoriale, se non addirittura di devozione.<br />

La regola, dunque, impedisce ogni forma di pressione rivolta al lavoratore che sia estranea<br />

all’esecuzione della prestazione e sconfini nella pretesa di fagocitare all’impresa la persona del<br />

dipendente, che tale rimane, ancorché necessariamente inserita nel contesto della sua<br />

azienda, dovendo a quest’ultima nient’altro che una prestazione lavorativa.<br />

In tale contesto normativo il fenomeno del c.d. <strong>mobbing</strong> verticale si configura, allora, come obbligo<br />

del datore di lavoro di rispettare la personalità del suo lavoratore evitando ogni comportamento che,<br />

pur formalmente corretto, possa risolversi in una forma di pressione , di “accerchiamento”, sì che il<br />

lavoratore possa avvertire questa sorta di presenza costante, il fiato sul collo, la consapevolezza che<br />

ogni manifestazione della sua personalità non gradita al datore possa comportare conseguenze<br />

pregiudizievoli sul piano del rapporto contrattuale.<br />

In definitiva si può affermare che nel rapporto lavorativo è vietato ogni comportamento datoriale<br />

che realizzi una compromissione della personalità del lavoratore, posto che quest’ultima deve<br />

rimanere estranea alla prestazione e non è versata, in tutte le sue componenti (come da qualche<br />

parte oggi si pretende) nel sinallagma , ma mantiene la sua destinazione<br />

al patrimonio individuale, lontanissima del potere di sovraordinazione ed eterodirezione datoriale.<br />

La norma codicistica, poi, impone al datore di lavoro un comportamento attivo: egli deve<br />

approntare le misure di sicurezza finalizzate a tutelare l’integrità fisica del lavoratore e deve porre<br />

in essere tutti gli accorgimenti necessari a tutelarne la personalità morale.


In tale contesto il datore di lavoro che sa che un suo dipendente realizza comportamenti vessatori od<br />

addirittura comportamenti che si concretizzano in fattispecie delittuose di estrema gravità (come le<br />

molestie, o, se si vuole, gli atti di libidine molesta) è tenuto a porre in essere, secondo il tradizionale<br />

criterio della “massima sicurezza fattibile”(che appartiene, come è noto, allo schema dell’art. 2087<br />

c.c.) , quanto necessario per impedire il reiterarsi del comportamento illecito. E questo a maggior<br />

ragione quanto sa che tali comportamenti sono posti in essere approfittando della condizione di<br />

sottordinazione della vittima.<br />

Il contesto lavorativo, se si fa eccezione dei rari casi in cui si ha la fortuna si svolgere un lavoro<br />

(veramente) gratificante, è in sé un contesto organizzato secondo criteri verticistici, nel quale la<br />

personalità individuale del singolo lavoratore soffre necessariamente di tutte le restrizioni<br />

connaturate alla organizzazione ed è notorio che tanto più si acuisce il fenomeno quanto più si<br />

discuta di soggetti incaricati di mansioni semplici e comunque plurisottordinati. Benché si vada<br />

sostenendo che il lavoro è il luogo di realizzazione della personalità (al punto che si è anche visto di<br />

qualche singolare progetto volto a concentrare nel luogo di lavoro anche le altre manifestazione di<br />

vita della persona), questo è vero solo per chi ha la ventura di interessarsi di cose che in qualche<br />

modo coincidano con la manifestazione della sua personalità: non vale – ancorché da più parti<br />

(interessatamente) si sostenga il contrario- nei casi (che sono la maggioranza) in cui il lavoro, per la<br />

sua gravosità o per il suo modesto contenuto, rappresenti solo un mezzo per procurarsi un reddito di<br />

sopravvivenza, posto che, per restare al caso di specie, nessuno “si realizza” lavando piatti, o<br />

servendo le pizze ai tavoli.<br />

Allora è proprio in questi casi (nei casi, cioè, nei quali vi è una frattura netta fra la personalità del<br />

lavoratore ed il lavoro) che l’operatività dell’obbligo datoriale di rispettare la “personalità morale”<br />

del lavoratore assume contenuto massimo, poiché la condizione di soggezione è massima quando il<br />

lavoro è solo fatica.<br />

Ma vi è di più, perché, come dimostra la questione oggi sottoposta all’attenzione di questo<br />

giudice, lo status di soggezione anche meramente psicologica diventa ingravescente quando il<br />

rapporto di sottordinazione si realizza fra soggetti di sesso diverso, e questo proprio perché ognuno<br />

si porta dietro la sua natura , anche quando va a lavorare.<br />

E’, allora, obbligo giuridico del datore di lavoro vigilare affinché nel contesto organizzativo<br />

nessuno approfitti della sua posizione gerarchica per acuire lo stato di soggezione del<br />

sott’ordinato (v. Cass. 8.1.2000, n. 143 e Cass. 17.7.1995, n. 7768), imponendo comunque il<br />

rispetto della personalità, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli (minori, donne lavoratrici,<br />

lavoratori con contratti precari, lavoratori cui sono affidate mansioni semplici ) e conseguentemente<br />

più esposti ad ogni tipo di pressione , o, se si vuole, di ricatto, in ragione della necessità di non<br />

perdere il lavoro.<br />

4) Ciò premesso , è opinione di questo giudice che il danno conseguente alla violazione dell’art.<br />

2087 c.c. , per la parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore, non corrisponda sempre e<br />

solo al c.d. danno biologico, cioè a quel danno che comprometta la capacità di relazionare nella vita<br />

civile, mediante la causazione di un pregiudizio fisico o psichico. La legge, infatti, non tutela<br />

l’integrità psichica, ma la “personalità morale” del lavoratore, che è cosa diversa, la prima essendo<br />

riconducibile al generico obbligo di non recare pregiudizio alla salute (e quindi alla integrità fisica);<br />

sicché, per esempio, può ben capitare che vi sia una evidente lesione della personalità morale senza<br />

alcun danno psichico, quando il soggetto destinatario della pressione o della vessazione, per sua<br />

fortuna, possegga risorse proprie che gli consentano di superare indenne il comportamento vietato,<br />

così sicuramente avvertendo una compromissione della sua “personalità” ma senza alcuna<br />

conseguenza permanente nelle sue capacità psichiche. Dunque quello del danno per lesione della


personalità morale è concetto più ampio del c.d. danno biologico quale oggi è inteso dalla<br />

giurisprudenza e consiste nell’oggettivo travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico<br />

che si concretizzi in un pregiudizio “morale” (quindi non necessariamente psichico).<br />

Né questa ricostruzione soffre della apparente difficoltà di determinate l’ammontare di tale danno<br />

(che sfugge naturalmente alla grossolana determinazione “ a punti”), poiché il giudice ai sensi del<br />

combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 c.c. può determinarlo equitativamente.<br />

Né, ancora, vi è il rischio, sul piano sistematico di “duplicare” il danno morale, che, come è noto<br />

consegue – secondo i criteri di responsabilità extracontrattuale – ai casi in cui il fatto lesivo sia<br />

qualificato dal nostro ordinamento come ipotesi di reato.<br />

Per scongiurare il pericolo basta considerare che la logica che sorregge il danno morale è quella di<br />

restaurare “il prezzo del dolore” nei casi in cui la lesione sia di tale gravità da comportare<br />

l’applicazione astratta (anche) della sanzione penale, in mancanza di una norma, legale o pattizia,<br />

che descriva come obbligatorio un certo comportamento; ipotesi, questa, diversa dalla nostra nella<br />

quale si discute della violazione dell’obbligo contrattuale (art. 2087 c.c.) di rispettare la personalità<br />

morale del lavoratore, così trattandosi di una forma risarcitoria ex se, che concorre sia con il<br />

risarcimento patrimoniale, sia con il risarcimento alla vita di relazione, sia con il risarcimento da<br />

fatto delittuoso (c.d. danno morale).<br />

Certo è che il comportamento posto in essere con violazione dell’art. 2087 c.c., quando si tratta di<br />

omessa tutela della personalità morale, può realizzarsi senza che si verifichi alcun danno biologico<br />

(v. supra) e senza che il fatto costituisca reato.<br />

Si pensi, per accedere ad una fattispecie di attualità, al caso di reiterazione ingiustificata di<br />

accertamenti sullo stato di malattia, ritenuta vessatoria dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. n.<br />

475/1999 ): comportamento, questo, che né costituisce reato né appare oggettivamente idoneo a<br />

provocare permanenti pregiudizi psichici nel destinatario della condotta vietata.<br />

In tal senso, allora, si può correttamente qualificate tale danno – né biologico né morale – come<br />

danno “esistenziale” (da ultimo Trib. Forlì 15 marzo 2001, Rivista Critica di diritto del lavoro,2001,<br />

411), eventualmente in concorso con il danno alla vita di relazione e quello – di natura<br />

extracontrattuale – che tradizionalmente si riconduce alla figura del danno morale (per il concorso<br />

del danno contrattuale con quello extracontrattuale v. Pret. Milano 25.5.1997, ibidem, 1997, 157 e<br />

Pret. Milano 31.1.1997, ibidem, 619).<br />

Tutto ciò rimane confermato da una ulteriore considerazione: se, infatti, si ritenesse la<br />

inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art. 2087 c.c., quest’ultima norma<br />

risulterebbe inutiliter data, nelle ipotesi, frequentissime, di pregiudizio alla personalità morale che<br />

non cagioni un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti nella vita di relazione.<br />

Ovviamente, poi, quando le fattispecie ( come nel caso di specie, per quanto infra) concorrono,<br />

concorrerà anche la distinta determinazione del danno.<br />

5) L’applicazione delle regole astratte ora enunciate al caso di specie comporta - dimostrata la<br />

responsabilità commissiva del Rigo e quella omissiva del datore di lavoro – la loro responsabilità in<br />

solido in ordine alla fattispecie risarcitoria contrattuale (Pret. Milano 31.1.1997, cit.) per quanto<br />

concerne la violazione dell’obbligo legale di tutela della personalità morale, a questo punto<br />

assumendo rilievo del tutto attenuato accertare se il comportamento illegittimo abbia (anche)<br />

cagionato un danno psichico e se vi sia nesso fra detto comportamento e l’evento (ancorché dalla


certificazione medica in atti si evinca che lo stato depressivo patito dalla Fulceri sia insorto in<br />

concomitanza cronologica con gli episodi di molestia).<br />

Come accennato, infatti, qui si tratta di risarcire il danno c.d. esistenziale.<br />

Questo giudice, anche nelle ipotesi di danno biologico non condivide la determinazione del<br />

danno “a punti”, che non tiene conto della numerose sfumature che di norma caratterizzano i casi<br />

concreti. A maggior ragione tale criterio non appare utilizzabile nel caso di danno esistenziale, dove<br />

non si tratta di accertare la diminuzione di capacità lavorativa e/o relazionale . Soccorre, al<br />

contrario, il criterio equitativo che tenga conto della gravità del fatto, del numero degli episodi,<br />

della potenzialità offensiva del comportamento, movendo da un parametro che può essere mutuato<br />

dalla forma risarcitoria legislativa per il licenziamento illegittimo, e cioè dalle quindici mensilità<br />

che, come è noto, rappresentano un indennizzo forfetario idoneo in astratto a restaurare il<br />

pregiudizio derivante dalla ingiustificata cessazione del rapporto. Tale parametro, che appartiene sul<br />

piano positivo al nostro ordinamento, consente di verificare la congruità dell’operato giudiziario<br />

anche in forme risarcitorie ex art. 1226 c.c. , ovviamente con tutti gli adattamenti del caso concreto.<br />

Nel nostro, sulla scorta di tali indicazioni, il danno può essere quantificato nella somma di L.<br />

30.000.000.<br />

Poiché la fattispecie esaminata in astratto configura una ipotesi delittuosa, sul piano<br />

extracontrattuale il solo Rigo – autore del fatto – deve essere condannato al risarcimento dei danni<br />

morali che, tenuto conto delle circostanze concrete e della reiteratezza degli episodi, può essere<br />

quantificato in L. 15.000.000. Tale risarcimento non può essere posto a carico anche del datore di<br />

lavoro, nei cui confronti non è ipotizzabile alcuna violazione di ipotesi penalmente rilevanti.<br />

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, devono essere poste a carico solidale delle parti.<br />

P.Q.M.<br />

Il giudice accoglie la domanda avanzata dalla ricorrente nei confronti dei convenuti e per l’effetto li<br />

condanna in solido al risarcimento del danno alla vita di relazione ex art. 2087 c.c., quantificato in<br />

L. 30.000.000; condanna il solo Rigo Francesco a risarcire alla ricorrente anche il danno morale<br />

quantificato in ulteriori L. 15.000.000.<br />

Condanna i convenuti in solido al pagamento delle spese di lite che liquida in L. 10.000.000 oltre<br />

Iva e Cap di cui L. 6.000.000 per onorari, L. 3.900.000 per diritti e L. 100.000 per spese, oltre Iva e<br />

Cap.<br />

Dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.<br />

Pisa li 3.10.2001 (depositata il 7.10.2001)


Tribunale di Lecce<br />

Ordinanza del 31 agosto 2001<br />

Presidente Invitto - Relatore Buffa<br />

Ministero del Lavoro contro Claudi<br />

L’Amministrazione, che sola è parte del rapporto di lavoro con il dipendente, è titolare dell’obbligo<br />

di sicurezza ex art. 2087 c.c. nei confronti dei dipendenti e responsabile in quanto tale anche nei<br />

confronti di altri (artt. 1228 e 2049 c.c.)<br />

Trib. Lecce (sezione feriale) – 31 agosto 2001 (ud. 23.8.2001) - ordinanza – Pres. Invitto – Rel.<br />

Buffa - Ministero del lavoro e delle politiche sociali (avv. dello Stato) c. Claudi (avv. Spano).<br />

Mobbing nella pubblica amministrazione - Denunzia di gravissima persecuzione sul posto di lavoro<br />

ad opera del dirigente del servizio - Ricorso cautelare del dipendente tendente ad ottenere la<br />

reintegra nelle sue funzioni, nonché l'adozione di tutti i provvedimenti necessari ad impedire<br />

ulteriori lesioni della sua persona e ad impedire al dirigente la sottrazione delle mansioni e di<br />

procedere disciplinarmente nei suoi confronti - Azione giudiziaria - Va incardinata nei confronti del<br />

datore di lavoro- Dirigente del servizio - Non è litisconsorte necessario - Contenuto del<br />

provvedimento giudiziale cautelare - Provvedimenti che valgano ad impedire al dirigente qualsiasi<br />

azione nei confronti della ricorrente - Legittimità - Compressione dei poteri del dirigente del<br />

servizio – Ammissibilità qualora si tratti di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire<br />

abuso dei poteri e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente.<br />

La legge tutela il diritto del lavoratore a non essere dequalificato e a svolgere effettivamente le<br />

mansioni formalmente spettanti; nel caso però non si è in presenza solo di una dequalificazione, ma<br />

di un comportamento vessatorio ed illecito nei confronti della ricorrente, che è vittima non di mero<br />

<strong>mobbing</strong> ma di vero e proprio bossing aziendale ad opera di un dirigente a lei sovraordinato che<br />

opera contravvenendo alle disposizioni del preposto della Direzione del lavoro.<br />

A fronte di tale situazione, l'amministrazione - che sola è parte del rapporto di lavoro con la<br />

ricorrente - ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile<br />

all'interno dell'ufficio, e di evitare un'ulteriore lesione della personalità fisica e morale della<br />

lavoratrice: correttamente, allora, l'azione è incardinata nei confronti del datore di lavoro, titolare<br />

dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. nei confronti dei dipendenti e responsabile in quanto<br />

tale anche del comportamento vessatorio ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di altri (ex art.<br />

1228 e 2049 cod. civ.). Non occorre per converso che del giudizio sia parte il dirigente in questione,<br />

che non è litisconsorte necessario nel rapporto di lavoro dedotto in giudizio, e nei confronti del<br />

quale la ricorrente può azionare - se lo ritiene - altri rimedi civilistici autonomi rispetto all'azione<br />

cautelare spiegata in questo giudizio.<br />

Da ciò l'esigenza di provvedimenti che valgano ad impedire al detto dirigente qualsiasi azione nei<br />

confronti della ricorrente, e ad assicurare, per quanto possibile, che la stessa possa ritornare in<br />

servizio dallo stato di malattia senza peggiorare le proprie condizioni di salute e senza subire lesioni<br />

permanenti della propria sfera psico-fisica. Ciò si traduce inevitabilmente in una compressione dei<br />

poteri del dirigente del servizio, ma si tratta di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire<br />

abuso dei poteri medesimi e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente.<br />

Si tratta invero di interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell'amministrazione,<br />

e tuttavia di provvedimenti giurisdizionali consentiti nell'assetto normativo seguente al d.lgs. 29/93<br />

(come modificato dal d.lgs. 80/98 e 387/98), atteso che a seguito della c.d. seconda privatizzazione<br />

dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce "con i poteri e la capacità del<br />

privato datore di lavoro", e che il giudice ordinario "può adottare nei confronti dell'amministrazione<br />

tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati".


Svolgimento del processo e motivi della decisione<br />

Con ricorso cautelare dell'11.6.01, la ricorrente dott.sa Anna Claudi, direttore amministrativo IX q.f.<br />

ora C3, titolare - nell'ambito del Servizio Politiche del lavoro - dell'Area Cooperazione della<br />

Direzione provinciale del lavoro di Lecce, lamentava di aver subito e di continuare a subire una<br />

gravissima persecuzione sul posto di lavoro ad opera del dirigente del servizio Angelo D'Oria:<br />

esponeva che aveva da questo subito accuse infondate e calunniose per attività svolte sul lavoro,<br />

aggressioni verbali continue, illegittime sottrazioni di mansioni (quali l' "avocazione" degli incarichi<br />

ispettivi sulle cooperative, disposizioni ai dipendenti dell'Area lei assegnata di far riferimento solo<br />

al D'Oria medesimo scavalcando la ricorrente, riunioni in materia assegnata all'area con i dipendenti<br />

dell'area senza la titolare, costituzione di gruppi di lavoro senza la titolare d'Area diretti<br />

direttamente dal titolare del Servizio, "avocazione" del potere di vedere la corrispondenza<br />

dell'ufficio), addirittura irrogazione di sanzioni disciplinari da soggetto del tutto privo di qualunque<br />

potere in materia disciplinare, tanto che a seguito di alcuni screzi più violenti aveva accusato malore<br />

ed era stata trasportata all'ospedale, e che a seguito del clima presente in ufficio si era ammalata per<br />

"sindrome ansioso depressiva con disturbi di somatizzazione di natura reattiva, secondaria a<br />

difficoltà insorte nell'ambiente di lavoro". Aggiungeva che il preposto alla Direzione del lavoro,<br />

sovraordinato al D'Oria, aveva preso posizione ripetutamente in suo favore, invitando<br />

infruttuosamente il D'Oria a desistere dal suo comportamento e a rispettare la posizione di titolare<br />

d'area della ricorrente medesima.<br />

Tanto premesso, chiedeva in via d'urgenza: di essere reintegrata nelle funzioni di capo area<br />

Cooperazione della DPL di Lecce; di procedere nei confronti dei responsabili degli illeciti<br />

commessi nei confronti della ricorrente adottando tutti i provvedimenti necessari ad impedire<br />

ulteriori lesioni della sua persona; di impedire al dirigente pro-tempore del servizio Politiche del<br />

lavoro la sottrazione delle mansioni e di vietargli di avocare a sé l'assegnazione degli incarichi<br />

ispettivi sulle cooperative, di instaurare rapporti diretti con i tre capi settore e gli altri addetti all'area<br />

Cooperazione escludendola, di sottrarle la qualità di responsabile dei procedimenti amministrativi a<br />

lei spettanti quale capo area, di procedere disciplinarmente nei confronti della ricorrente; di<br />

sospendere gli effetti degli ordini di servizio 5/00 e 19/01 e dei procedimenti disciplinari aperti<br />

contro di lei dal dirigente del servizio Politiche del lavoro.<br />

Il ministero si costituiva in giudizio in sede cautelare deducendo di essere stato informato dal<br />

preposto del DPL della situazione di contrasto esistente nel servizio in discorso e che era in corso<br />

una verifica amministrativa; aggiungeva che la verifica non si era potuta concludere perché la<br />

"perdurante assenza della dott.sa Claudi dal posto di lavoro ha impedito ai dirigenti ispettivi …di<br />

interloquire con lei ai fini della più completa assunzione delle informazioni sullo stato dei fatti" e<br />

che comunque nelle more del giudizio il dirigente del Servizio in discorso aveva disposto il 3.7.01<br />

la riassegnazione delle mansioni richieste alla ricorrente e la revoca degli ordini di servizio dalla<br />

stessa impugnati. Tanto premesso, deduceva che il nuovo provvedimento escludeva il periculum in<br />

mora, "seppur mai fosse stato presente", e altresì il fumus boni juris (non essendovi più necessità<br />

dell'intervento giudiziale), e chiedeva quindi rigettarsi il ricorso.<br />

Il giudice di prime cure, ritenuto confermati i fatti dedotti (come desumibile delle lettere in atti del<br />

preposto alla DPL), rilevata il contrasto "dell'altalena dei provvedimenti" del D'Oria con il principio<br />

di buona amministrazione e con la serenità dell'ambiente di lavoro, e ritenuto il pericolo<br />

conseguente di compromissione delle condizioni di salute della ricorrente, disponeva: l'immediata<br />

reintegra della ricorrente in tutte le mansioni svolte quale capo area Cooperazione, ivi comprese<br />

quelle sottratte con singoli ordini di servizio o provvedimenti equipollenti dal D'Oria; l'inibizione<br />

per il D'Oria di avocare a sé o a personale dal medesimo designato le mansioni ed i compiti propri<br />

della ricorrente e del personale da lei coordinato, salvo motivati provvedimenti del preposto alla


Dpl Gurrado; l'inefficacia degli ordini di servizio 5/00 e 19/01 e dei procedimenti disciplinari<br />

promossi dal D'Oria.<br />

Avverso tale provvedimento del 19.7.01 propone reclamo il ministero, deducendo l'improponibilità<br />

della domanda per difetto assoluto di giurisdizione (in quanto il provvedimento giudiziale ottenuto<br />

impone un facere all'amministrazione ed entra nel merito dell'organizzazione della stessa,<br />

stabilendo competenze e reciproci rapporti tra preposto e dirigenti dei servizi), per infondatezza<br />

della pretesa nel merito (per difetto di periculum in mora in relazione all'assenza dal lavoro della<br />

ricorrente e all'intervenuto provvedimento 3.7.01 del dirigente D'Oria di ripristino della situazione<br />

quo ante ai provvedimenti impugnati) e per violazione del principio del contraddittorio in assenza<br />

dal giudizio del D'Oria, destinatario principale del provvedimento cautelare). Tanto premesso,<br />

chiedeva il rigetto del ricorso cautelare con vittoria di spese di lite.<br />

Il reclamo a parere del collegio è del tutto infondato.<br />

Come rilevato dalla ricorrente, la legge certo tutela il diritto del lavoratore a non essere<br />

dequalificato e a svolgere effettivamente le mansioni formalmente spettanti; nel caso però non si è<br />

in presenza solo di una dequalificazione, ma di un comportamento vessatorio ed illecito nei<br />

confronti della reclamata, che è vittima non di mero <strong>mobbing</strong> ma di vero e proprio bossing<br />

aziendale ad opera di un dirigente a lei sovraordinato che opera contravvenendo alle disposizioni<br />

del preposto della Direzione del lavoro: pacifici sono i fatti minuziosamente descritti nel ricorso<br />

(documentati nella documentazione allegata e non contestati neppure con clausola di stile dalla<br />

resistente) e sopra richiamati, in relazione ai quali i poteri esercitati dal dirigente del servizio in<br />

varie occasioni non trovano alcun fondamento normativo, atteso che allo stesso non compete<br />

secondo le norme alcun potere disciplinare diverso dal rimprovero verbale, non risulta alcun potere<br />

di avocazione di mansioni, che nel caso comunque non ha alcuna motivazione espressa<br />

dall'amministrazione, e considerato per converso che sullo stesso grava l'obbligo di comportarsi con<br />

correttezza e buona fede sia nella qualità di dirigente di servizio (che esplica poteri datoriali) sia<br />

come pubblico dipendente (che è al servizio dell'amministrazione ed è titolare di munera e non di<br />

meri poteri).<br />

A fronte di tale situazione, l'amministrazione - che sola è parte del rapporto di lavoro con la<br />

ricorrente - ha il preciso dovere (come si suppone noto all'amministrazione medesima per le sue<br />

specifiche competenze, anche ispettive, in materia di lavoro) di intervenire per rimuovere una<br />

situazione non più tollerabile all'interno dell'ufficio, e di evitare un'ulteriore lesione della<br />

personalità fisica e morale della lavoratrice: correttamente, allora, l'azione è incardinata nei<br />

confronti del datore di lavoro, titolare dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 cod. civ. nei confronti<br />

dei dipendenti e responsabile in quanto tale anche del comportamento vessatorio ed illecito dei suoi<br />

dipendenti nei confronti di altri (ex art. 1228 e 2049 cod. civ.). Non occorre per converso che del<br />

giudizio sia parte il dirigente in questione, che non è litisconsorte necessario nel rapporto di lavoro<br />

dedotto in giudizio, e nei confronti del quale la ricorrente può azionare - se lo ritiene - altri rimedi<br />

civilistici autonomi rispetto all'azione cautelare spiegata in questo giudizio.<br />

Deve escludersi, inoltre, che il provvedimento 3.7.01 a firma del preposto abbia determinato il venir<br />

meno del periculum in mora, atteso che il provvedimento non modifica nulla nell'immediato ("si<br />

assicura che al rientro in servizio la ricorrente, attualmente assente per malattia, riassumerà le<br />

funzioni di capo area Cooperazione e che contestualmente lo scrivente provvederà a revocare gli<br />

ordini di servizio a suo tempo emanati che contrastano con la disponibilità sopra dichiarata") ma si<br />

limita a preannunciare futuri provvedimenti favorevoli alla ricorrente ove la stessa ritorni in servizio<br />

dalla malattia, e affronti lo status quo in attesa della concessione del dirigente del servizio).


Inoltre, va osservato che il periculum non si ricollega alla titolarità formale (ribadita dal detto<br />

provvedimento) della posizione di capo Area della ricorrente (che il dirigente del servizio non<br />

poteva certo togliere alla ricorrente, essendo improprio ogni provvedimento al riguardo) ma al<br />

concreto esercizio dei poteri-doveri che alla detta titolarità si ricollegano: nulla invece dice il<br />

provvedimento 3.7.01 in ordine al contenuto specifico della mansioni che il dirigente del servizio è<br />

"disponibile" a riconoscere alla ricorrente. Nessun rilievo ha poi l'ordine di servizio 28/01, reso<br />

espressamente solo in esecuzione del provvedimento di primo grado.<br />

In vero, nel caso in questione, il periculum è insito nel documentato stato di salute della ricorrente e<br />

per converso nella situazione che si è verificata all'interno dell'ufficio a causa della presenza del<br />

dirigente D'Oria e del rapporto dello stesso con la ricorrente e con il personale dell'area<br />

Cooperazione, situazione perdurante finché vi è la presenza del detto dirigente e l'esercizio di poteri<br />

dello stesso che interferiscono pesantemente nelle mansioni del titolare d'Area: lo stesso preposto<br />

alla DPL, infatti, rilevava "incompatibilità quotidiane" con il dirigente SPL sin dallo scorso anno<br />

(nota 5.10.00), rapporti del dirigente SPL con il personale "deteriorati" e situazione "notevolmente<br />

aggravata che sta incidendo negativamente sia sul fisico dello scrivente… che su quello del<br />

personale" (nota 26.1.01), aggressioni verbali del D'Oria (di cui si scusava addirittura il preposto<br />

stesso: nota 14.3.01), esercizio di poteri di messa a disposizione della ricorrente da parte del detto<br />

dirigente ("siamo all'assurdo!": nota 6.4.01), una situazione di "conflitto acuitosi recentemente" con<br />

la ricorrente che è "solo uno dei tanti episodi del clima di tensione e di attrito instauratosi sin<br />

dall'insediamento del dr. D'Oria .., che nei confronti di diversi dipendenti si sostanzia in abituali<br />

atteggiamenti indisponenti che vedono mortificata la dignità dei funzionari ed impiegati e<br />

concorrono a creare un clima di forte tensione emotiva", tanto che "ogni occasione è giusta per il<br />

predetto dirigente perché si esprima con toni di aggressività verbale e con atteggiamenti di palese o<br />

velata minaccia" (nota 9.4.01), "lagnanze di carattere verbale quotidiane" addirittura da parte<br />

dell'Inps contro detto dirigente, che "sin dai primi periodi della sua dirigenza ha determinato<br />

spaccature fra il personale" e "rapporti basati su astio e risentimenti personali" (nota 9.4.01). La<br />

vicenda, inoltre, sollecitava addirittura l'iniziativa a difesa della ricorrente del sindacato (note<br />

27.3.01 e nota s.d. all. 13 fasc. reclamato), che rilevava -la situazione peraltro doveva ancora<br />

precipitare- che la situazione del servizio "è al limite della tolleranza in quanto non si riesce ad<br />

avere una convivenza civile e consona allo status di pubblici dipendenti per le angherie che il<br />

personale deve subire dal Dirigente".<br />

La descritta situazione di per sé impedisce un corretto e sereno svolgimento del lavoro dei<br />

dipendenti all'interno dell'ufficio ed è potenzialmente lesiva delle difficili condizioni di salute della<br />

ricorrente note all'amministrazione.<br />

Da ciò l'esigenza di provvedimenti che valgano ad impedire al detto dirigente qualsiasi azione nei<br />

confronti della ricorrente, e ad assicurare, per quanto possibile, che la stessa possa ritornare in<br />

servizio dallo stato di malattia senza peggiorare le proprie condizioni di salute e senza subire lesioni<br />

permanenti della propria sfera psico-fisica. Ciò si traduce inevitabilmente in una compressione dei<br />

poteri del dirigente del servizio, ma si tratta di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire<br />

abuso dei poteri medesimi e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente.<br />

Vanno pertanto confermati i provvedimenti dati dal giudice di prime cure.<br />

Si tratta invero di interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell'amministrazione,<br />

e tuttavia di provvedimenti giurisdizionali consentiti nell'assetto normativo seguente al d.lgs. 29/93<br />

(come modificato dal d.lgs. 80/98 e 387/98), atteso che a seguito della c.d. seconda privatizzazione<br />

dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce "con i poteri e la capacità del


privato datore di lavoro", e che il giudice ordinario "può adottare nei confronti dell'amministrazione<br />

tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati".<br />

Né può ravvisarsi un ostacolo alla tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori nella presenza di<br />

ripartizioni di compiti all'interno degli uffici amministrativi, atteso che nei confronti del lavoratore<br />

che chiede tutela dei propri diritti soggettivi la p.a.-datore di lavoro si presenta come soggetto unico<br />

che, proprio perché è giuridicamente responsabile della condotta dei suoi dipendenti, deve adeguare<br />

se del caso la gestione dei rapporti di lavoro e la stessa organizzazione amministrativa (purché si<br />

tratti, come nel caso in questione di c.d. microorganizzazione) alle norme specifiche individuate dal<br />

giudice nel provvedimento cautelare confermativo.<br />

L'ordine anzi resta rivolto all'amministrazione (e conforma i poteri di questa) anche nel caso in cui<br />

si tratti del comportamento di un dipendente, onde nel caso di specie così deve essere intesa<br />

l'inibitoria del provvedimento reclamato.<br />

Le spese delle due fasi cautelari, che vedono entrambe soccombente l'amministrazione, saranno<br />

regolate con la sentenza che definisce il giudizio di merito.<br />

P.Q.M.<br />

rigetta il reclamo e, per l'effetto, conferma il provvedimento reclamato.<br />

Tribunale di Como<br />

Sentenza del 22 maggio 2001<br />

Giudice Faragnoli<br />

Bongiorno contro Minonzio<br />

Tribunale di Forlì<br />

Sentenza n. 188/1999 del 15 marzo 2001<br />

Estensore dott. Carlo Sorgi<br />

Il danno derivante da una condotta mobbizzante va qualificato come danno esistenziale o alla vita di<br />

relazione. Il diritto al risarcimento di tale danno ha natura sia contrattuale sia extracontrattuale (art.<br />

2087 c.c. Tribunale di Forlì – sezione lavoro (1° grado) – 15 marzo 2001 – Est. Sorgi – Mulas c.<br />

Banca Nazionale dell’Agricoltura (poi Banca Antoniana Popolare Veneta).<br />

PER GENTILE CONCESSIONE DI WWW.FIBA.IT<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso presentato alla sezione del Lavoro del Tribunale di Forlì Giuseppe Mulas dichiarava di<br />

lavorare per la Banca Nazionale dell’Agricoltura dal gennaio 1979 come impiegato di concetto, dal<br />

12/1985 vice Capo Ufficio, dal 10/1989 Capo Ufficio e dal 7/1991 Quadro e di seguito dal 11/93<br />

Quadro Super. Dal 1996, esponeva sempre il ricorrente, il suo rapporto con l’azienda cambiava in<br />

negativo poiché, mano a mano, gli venivano tolte tutte le attività di responsabilità che<br />

caratterizzavano la sua mansione di Quadro Super. In particolare riconduceva i suoi problemi con


l’assunzione della Direzione della sede di Forlì della BNA da parte del Dottor Palumbo e la<br />

Vicedirezione da parte del Dottor Consogni, nomine avvenute nel giugno 1996. La sua attività<br />

veniva sempre più dequalificata, la sua posizione per nuovi incarichi sempre ignorata. Altri segnali<br />

modesti ma significativi erano stati l’esclusione dal beneficio del parcheggio o il rifiuto di incontri<br />

chiarificatori e da ultimo lo spostamento presso la sede di Rimini dal novembre 1998 in assenza di<br />

qualunque esigenza organizzativa e senza alcuna mansione lavorativa specifica ed ancora più<br />

incomprensibile per il ricorrente in considerazione del fatto che nella sede di Forlì risultava carenza<br />

di personale con trasferimento in tale sede di personale da Bologna, Cesena, Ravenna e Roma. Tutti<br />

gli elementi ricordati indicavano per il ricorrente una condotta della BNA mirata a produrre un<br />

ridimensionamento delle capacità professionali in termini di chances e di mancato apprezzamento<br />

del dipendente fino a produrre nello stesso seri problemi alla sua salute.<br />

Infatti a causa delle difficoltà nel lavoro il Mulas veniva colpito da una sindrome ansioso-depressiva<br />

somatizzata a livello cardiocircolatorio su base conflittuale lavorativa, secondo la diagnosi del<br />

medico curante del ricorrente, che dichiarava che mai prima del 1997 il Mulas aveva manifestato<br />

quadri morbosi di particolare interesse clinico. Il ricorrente richiedeva il ripristino delle mansioni<br />

precedentemente occupate, in particolare nell’ufficio sviluppo, o mansioni operative equivalenti e la<br />

condanna della banca al pagamento dei danni conseguenti l’illegittima dequalificazione ai sensi<br />

dell’art. 1226 c.c., danno professionale, all’immagine ed alla carriera, danno alla salute e danno<br />

biologico e danno per perdita di chance. Il ricorso era presentato unitamente ad una richiesta di<br />

provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per la reintegra presso la sede di Forlì ove era<br />

addetto prima e nelle mansioni precedentemente svolte dal ricorrente.<br />

Si costituiva in giudizio la Banca Nazionale dell’Agricoltura in persona del legale rappresentante<br />

respingendo in pieno le contestazioni formulate dal Mulas e chiedendo il rigetto del ricorso, oltre<br />

che ovviamente la non concessione del provvedimento di urgenza. Sul provvedimenti di urgenza, in<br />

particolare, le critiche relative al periculum in mora apparivano ben argomentate .<br />

Per altro nella fase d’urgenza le parti, concordemente, in uno spirito di ricerca dell’armonia<br />

necessaria per il lavoro dichiaravano di rinunciare e di accettare la rinuncia rinviando al merito le<br />

questioni.<br />

La BNA si costituiva allora per il merito. Venivano svolte una serie di precisazioni con riguardo al<br />

ricorso del Mulas. Il dipendente aveva avuto delle note di qualifica sempre meno positive ( 1995:<br />

distinto; 1996: buono; 1997: normale ). Il Mulas dopo la titolarità dell’agenzia 1 di Forlì era dovuto<br />

rientrare all’Ufficio Sviluppo dal gennaio 1996 per esigenze organizzative. Dopo un primo utilizzo<br />

nel settore amministrativo sezione segreteria e supporto operativo comparto titoli avendo lo stesso<br />

richiesto ed ottenuto il passaggio dal tempo pieno al part-time nell’agosto 1997 era stato necessario<br />

spostare lo stesso dall’area sviluppo, che richiede una costante presenza e disponibilità per i clienti.<br />

Conseguentemente gli erano state ritirate le chiavi del garage ed il permesso di usufruire del posto<br />

macchina. Successivamente il Mulas veniva trasferito presso la succursale di Rimini ed adibito al<br />

supporto gestori della rete clientela imprese , perfettamente coerente con la qualifica di quadro che<br />

gli competeva. Venivano fornite tutta una serie di giustificazioni relative al provvedimento di<br />

trasferimento del ricorrente, tutte riconducibili ad un’azione di ristrutturazione generale<br />

dell’azienda. Si negava che l’organico di Forlì fosse deficitario e si dava spiegazione di movimenti<br />

indicati dal Mulas come trasferimenti a Forlì mentre lui era trasferito a Rimini.<br />

Veniva contestata la genericità della domanda del ricorrente volta ad ottenere la reintegra in<br />

mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte ed acquisite e si evidenziava come alla luce<br />

delle declaratorie contrattuali le mansioni attribuite al ricorrente presso la filiale di Forlì e la<br />

succursale di Rimini fossero equivalenti e si sosteneva che l’operato della banca fosse in sintonia


con il potere della stessa in ordine allo jus variandi contro il quale si scontrava la volontà del Mulas<br />

di vedere cristallizzata la propria posizione all’interno dell’azienda.<br />

Mancava, comunque, secondo l’azienda convenuta la prova relativa all’esistenza di un eventuale<br />

danno risarcibile riconducibile alla lesione alla professionalità così come appariva priva di riscontri<br />

probatori la domanda tesa al riconoscimento del danno biologico ed assolutamente non giustificata<br />

la domanda di risarcimento danni per perdita di chance.<br />

Nelle more della prima udienza del merito parte ricorrente proponeva nuova richiesta di<br />

provvedimento ex art. 700 c.p.c. dichiarando che dopo la rinuncia al precedente ricorso d’urgenza,<br />

realizzata in un’ottica costruttiva di collaborazione per migliorare il rapporto, la situazione era<br />

ulteriormente peggiorata con la destinazione del Mulas al compimento di attività meramente<br />

operative e con peggioramento della propria sindrome ansioso depressiva e lunghe pause dal lavoro<br />

per motivi di salute.<br />

Nella prima fase istruttoria, nella quale andavano parallelamente il merito ed il ricorso di urgenza, si<br />

apprezzava la circostanza che la sede di Rimini aveva cambiato gestore ed era in fase di<br />

ristrutturazione. Per tali motivi si determinava la comune volontà delle parti di superare ancora una<br />

volta la fase di urgenza.<br />

Riteneva, relativamente al merito, il giudice che fosse indispensabile procedere ad una consulenza<br />

tecnica tesa ad accertate la sussistenza delle situazioni descritte dal ricorrente sotto il profilo del<br />

danno provocato allo stesso per la situazione lavorativo, situazioni oramai conosciute e riconosciute<br />

anche dalla giurisprudenza di merito sotto il nome di <strong>mobbing</strong> e veniva conferita la consulenza al<br />

maggior esperto nazionale dell’argomento che si avvaleva di un ausiliario neuropsichiatra per<br />

meglio delineare gli aspetti più strettamente medici. Venivano, inoltre, escussi i testi richiesti dalle<br />

parti.<br />

Alla conclusione delle attività descritte la Banca Nazionale dell’Agricoltura veniva incorporata<br />

nella Banca Antoniana Popolare Veneta s.c.a r.l. e ne seguiva una interruzione del processo per<br />

consentire la riassunzione nei confronti del nuovo soggetto processuale. All’esito dell’attività<br />

descritta veniva riproposto, in considerazione di questo mutamento della titolarità dell’azienda, dal<br />

giudice uno sbocco conciliativo che non veniva ritenuto neppure dalla nuova proprietà dell’azienda<br />

praticabile utilmente.<br />

All’esito di tale attività e dopo la discussione delle parti la causa appariva matura per la decisione,<br />

essendo state tutte le precedenti attività descritte svolte utilmente anche per il giudizio tra le attuali<br />

parti in causa.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

Ritiene il giudice che il ricorso debba essere accolto relativamente sia alla richiesta della revoca del<br />

trasferimento presso la succursale di Rimini che alla richiesta di risarcimento danni.<br />

Prima di entrare nel merito degli argomenti della decisione corre l’obbligo di precisare che la<br />

notizia del licenziamento che sarebbe stato comunicato al Mulas con raccomandata 16/1/2001,<br />

richiamato nelle note conclusive della parte ricorrente, non entrerà nella presente materia del<br />

contendere ( se non per un fugace spunto in tema di <strong>mobbing</strong> ) perché non oggetto del presente<br />

ricorso.


Sostanzialmente due sono le questioni che deve affrontare questo giudice proposte nel presente<br />

ricorso. La prima riguarda la legittimità o meno del provvedimento di trasferimento del Mulas e la<br />

seconda la qualificazione della situazione del Mulas rispetto alla banca ai fini risarcitori chiesti<br />

dallo stesso.<br />

Il primo punto in questione può essere affrontato agilmente anche se per la comprensione profonda<br />

dell’episodio si ritiene che non si possa non contestualizzarlo ma, per tale approfondimento, si<br />

rimanda alla successiva descrizione del problematico rapporto tra le parti. In questa prima fase verrà<br />

esaminato solo l’aspetto della legittimità del trasferimento a Rimini del Mulas.<br />

Non ci sono elementi che giustificano oggettivamente il trasferimento del Mulas nella succursale di<br />

Rimini. È inutile dire, come sostiene la società convenuta con argomentazione suggestiva ma non<br />

condivisibile, che si è voluto agevolare il Mulas che abita a Gambettola quando lo stesso non voleva<br />

essere trasferito, e questo è pacifico. Neppure appare argomento valido quello ulteriore sostenuto<br />

con riferimento alle condizioni familiari del Mulas che secondo l’azienda non presentava criticità al<br />

fine di ritenere il trasferimento fonte di disagi ( e, inoltre, pare a questo giudice che le due ragioni<br />

appena espresse si contraddicano logicamente ). Le ragioni tecnico organizzative dichiarate dalla<br />

banca appaiono impalpabili, indipendentemente dalla necessità di organico della sede di Forlì. Dire<br />

che il Mulas è l’unico in grado di occupare il posto di supporto gestore alla clientela particolarmente<br />

alla luce delle scarse, dequalificanti, se non mortificanti, attività che gli vengono attribuite è<br />

veramente poco credibile. Compito essenziale del Mulas è quello di fare fotocopie e non può essere<br />

l’unico in grado di farle e appare difficile immaginare l’utilizzo della professionalità di un Quadro<br />

Super con minore attenzione alla qualifica ed alla professionalità dello stesso. Questo a meno di non<br />

condividere l’impostazione prospettata dal teste Forasassi che testualmente dichiara:” anche per<br />

l’attività di fotocopiatura per fascicoli da inviare all’esterno occorre criterio per sapere quello che<br />

serve”, introducendo un nuovo ruolo di fotocopiatore di concetto ignoto sino ad ora.<br />

Per superare le difficoltà di comprensione di una collocazione professionale a dir poco riduttiva si<br />

sottolinea, allora, da parte della Banca che la determinazione rientra nella libertà di scelta<br />

dell’imprenditore ma anche sul punto non si concorda. Non è vero che nel nostro ordinamento viga<br />

il principio dell’intangibilità della libera iniziativa economica perché l’articolo 41 Costituzione al<br />

secondo comma afferma che la stessa non può svolgersi, tra l’altro, in modo da arrecare danno alla<br />

dignità umana e che la stessa debba essere riconosciuta anche ad un dipendente non può essere in<br />

dubbio.<br />

Conseguentemente deve ritenersi illegittimo il provvedimento di trasferimento del Mulas presso la<br />

succursale di Rimini e deve essere disposto il suo rientro nella sede di Forlì. È evidente che le<br />

mansioni da attribuire allo stesso dovranno tener conto effettivamente della sua esperienza<br />

professionale e della sua qualifica per evitare la reiterazione di ricorsi giurisdizionali.<br />

Si tratta di affrontare il secondo e sicuramente più problematico aspetto che è quello di verificare la<br />

sussistenza dei presupposti risarcitori nella condotta della Banca datrice di lavoro per le condotte<br />

subite dal Mulas.<br />

Siamo di fronte ad un caso di <strong>mobbing</strong> e su questo non possono esserci dubbi, anche alla luce delle<br />

risultanze della consulenza in atti.<br />

Per quanto non ancora definito con una normativa specifica che potrebbe sicuramente precisarne i<br />

contorni ed i profili relativi alla risarcibilità dei danni derivanti da questo, il <strong>mobbing</strong> è diventato<br />

oramai un concetto acquisito anche se non ben definito nella conoscenza comune anche alla luce di<br />

recenti <strong>sentenze</strong> di merito ( in particolare la più famosa è quella del Tribunale di Torino 16/11/99


alla quale segue l’altra dello stesso giudice 30/12/99, entrambe edite in svariate riviste e<br />

pubblicazioni con commenti tutti sostanzialmente favorevoli ) e dell’elaborazione sociologica e<br />

giuridica sviluppatesi negli ultimi anni in Italia dopo che nel resto dell’Europa, in particolare nella<br />

parte settentrionale, il <strong>mobbing</strong> era già conosciuto e riconosciuto come fenomeno di enorme<br />

rilevanza e problematicità nel mondo del lavoro.<br />

Sulla definizione si rimanda alle numerose pubblicazioni relative all’argomento che hanno dato un<br />

nome ad un fenomeno sempre presente nel lavoro e solo recentemente affrontato con la necessaria<br />

serietà e con l’approfondimento che richiede. Schematicamente si può ritenere riconducibile al<br />

fenomeno in oggetto quel comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone,<br />

colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato<br />

che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative<br />

anche di ordine fisico da tale situazione. Si richiama il concetto che in etologia è conosciuto come il<br />

rifiuto del branco nei confronti di un animale della stessa specie che ne viene scacciato.<br />

La storia professionale del Mulas può risultare paradigmatica per ritrovare tutte le caratteristiche<br />

essenziali del <strong>mobbing</strong>: dipendente modello della banca per la quale lavora da oltre un ventennio<br />

con riconoscimento assoluto delle proprie capacità e della propria professionalità fino al momento<br />

in cui qualcosa cambia e da dipendente modello in piena ascesa professionale diventa, nel breve<br />

volgere di pochi anni, un problema da gestire per la banca. Le qualifiche professionali si abbassano<br />

( da distinto del 1995 a buono del 1996, epoca dell’inizio dei problemi, a normale del 1997 ) si<br />

stenta a trovare per lui un ruolo professionale effettivo, viene trasferito da Forlì, sede di suo<br />

gradimento, a Rimini e non viene considerato per lui più nessun avanzamento in carriera.<br />

Addirittura alcune condotte, quali la privazione delle chiavi del garage e della possibilità di<br />

usufruire del posto macchina lamentate dal Mulas nel proprio ricorso come elementi di umiliazione,<br />

costituiscono situazioni paradigmatiche e scolastiche a livello di indizi per il <strong>mobbing</strong>.<br />

Che il conflitto, almeno vissuto come tale dal ricorrente, abbia inizio nel giugno 1996 con l’arrivo<br />

del nuovo direttore del gruppo di Forlì dottor Palumbo risulta chiaro ed incontrovertibile.<br />

Da notare che le caratteristiche del Mulas non sono quelle del dipendente debole ed introverso che<br />

nell’immaginario si ritiene sia la classica figura della vittima predestinata da Mobbing quanto<br />

piuttosto un dipendente con una forte personalità, almeno all’inizio del conflitto che si descrive,<br />

consapevole della propria professionalità che non esita ad esporre il proprio punto di vista. Ma,<br />

come saggiamente viene fatto notare dagli autori che si sono occupati approfonditamente<br />

dell’argomento, molto spesso a divenire vittima non sono soltanto soggetti deboli ma anche i<br />

dipendenti con troppa personalità, o troppo zelo, o con un’anzianità che è divenuta troppo onerosa.<br />

Il caso in esame, poiché astrattamente configurabile come vessazione da parte di un superiore<br />

gerarchico del lavoratore vittima, scientificamente viene definito bossing. Il bossing (o <strong>mobbing</strong><br />

verticale perché esercitato da chi è in posizione di supremazia rispetto alla vittima ) può essere<br />

utilizzato per intraprendere operazioni su più larga scala, come la riduzione di personale, il<br />

ringiovanimento o la riorganizzazione di interi uffici In questo senso depone anche il parere<br />

espresso nei confronti del Mulas nella valutazione per l’anno 1996 dove si scrive: “ pur dotato di<br />

capacità interpersonali molto buone pecca spesso di presunzione creando situazioni insostenibili”.<br />

Poiché in precedenza tale nota non era stata verificata ( almeno non risulta agli atti ) deve<br />

concludersi che la conflittualità con la dirigenza della sede di Forlì sia all’origine di tale valutazione<br />

negativa.<br />

La consulenza tecnica disposta da questo giudice risulta utile per la verifica della situazione di<br />

<strong>mobbing</strong> ipotizzata dal ricorrente.


Ci si è avvalsi della professionalità di quello che senza dubbio può essere considerato il più grande<br />

esperto nazionale di <strong>mobbing</strong> da un punto di vista della psicologia del lavoro, il dottor Harald Ege,<br />

se è vero che tutti i primi testi in Italia sul <strong>mobbing</strong> provengono dallo stesso consulente. Per<br />

approfondire ulteriormente la consulenza si è sfruttata la professionalità di una neuropsichiatra che<br />

ha fornito un contributo indispensabile di approfondimento in termini medici per la qualificazione<br />

del quadro del ricorrente.<br />

Per altro non si deve dimenticare che ci si muove in un terreno assolutamente nuovo, si tratta della<br />

prima consulenza affidata nella materia. Infatti nei rari precedenti giurisprudenziali sul tema il<br />

giudicante ha ritenuto di non dover svolgere consulenze sia sul punto dell’individuazione delle<br />

ipotesi di <strong>mobbing</strong> ( vedremo in seguito con quali risultati ) sia sotto il profilo delle conseguenze di<br />

tali condotte come danno procurato alla sedicente vittima del <strong>mobbing</strong>.<br />

Il consulente per verificare la rispondenza della situazione in astratto alla sua specifica<br />

professionalità ha sottoposto in via informale e preliminarmente ad un colloquio psicologico il<br />

Mulas, dandone per altro correttamente atto nella propria consulenza. All’esito di questa preventiva<br />

valutazione ha proceduto a svolgere la consulenza secondo le regole dettate dal codice di rito.<br />

La difesa della BNA, oggi Banca Antoniana, si duole di questa attività preliminare e ritiene che con<br />

la condotta appena descritta il consulente abbia calpestato il principio del contraddittorio di cui<br />

all’art. 194 c.p.c. e chiede che venga rinnovata la consulenza cambiando la figura del consulente.<br />

Come ha già spiegato questo giudice con ordinanza del 29/6/2000 l’attività preliminare del<br />

consulente relativa al colloquio psicologico con il Mulas non rientra nella attività di consulenza ( ed<br />

infatti si parla, oltre che di informale, di preliminare perché altrimenti si parlerebbe di iniziale ). Al<br />

colloquio non ha assistito nessun consulente di parte trattandosi di attività, come detto, preliminare.<br />

La particolarità della situazione, trattandosi della prima consulenza sul <strong>mobbing</strong> svolta affrontando<br />

il profilo psicologico dell’argomento oltre che quello delle conseguenze mediche, giustifica<br />

adeguatamente l’elasticità della condotta del consulente, che voleva prima rendersi conto<br />

astrattamente se il suo lavoro poteva essere utile, senza minimamente incidere sul principio del<br />

contraddittorio che è stato rispettato non appena si è entrati nella vera e propria attività di<br />

consulenza, cioè quando il consulente in piena coscienza ha ritenuto di potersi interessare al Mulas<br />

dopo una valutazione generale ed astratta della problematica, che proprio la complessità del caso<br />

rendeva utile e meritoria. Per fare un esempio calzante e collegato con i tempi se dieci anni fa fosse<br />

stato prospettato un caso di diritto di autore nel campo dell’informatica sicuramente sarebbe stato<br />

utile sfruttare un esperto della materia che avrebbe in primo luogo dovuto analizzare il campo di<br />

intervento per verificare l’utilità della propria professionalità nel settore in cui la stessa era stata<br />

richiesta.<br />

Oggi è così per il <strong>mobbing</strong>. Tutti parlano di questo fenomeno ma sono veramente in pochi a<br />

conoscerne l’esatto significato e sempre meno a capirne le caratteristiche e ancora meno, almeno<br />

allo stato, a poter indicare gli elementi distintivi del fenomeno. Prima di iniziare la sua vera e<br />

propria attività di consulenza il consulente del giudice ha voluto accertarsi che la sua professionalità<br />

fosse quella richiesta per il caso in esame e questo astrattamente senza alcun giudizio di merito in<br />

quella fase ma solo per verificare che astrattamente la casistica fosse riconducibile alle sue<br />

conoscenze.<br />

L’esame dei due precedenti casi di <strong>mobbing</strong> conosciuti dalla giurisprudenza di merito serve a<br />

confermare in termini chiari ed univoci la difficoltà che l’interprete incontra in questa primissima<br />

fase in cui il fenomeno <strong>mobbing</strong> viene spesso nominato ma difficilmente individuato nei suoi<br />

caratteri essenziali e differenzianti da situazione di attacco alla personalità di un lavoratore non<br />

riconducibili ai canoni del <strong>mobbing</strong>.


I due precedenti richiamati in tema di <strong>mobbing</strong>, infatti, lasciano non poche perplessità in ordine al<br />

criterio di identificazione del fenomeno e confermano che siamo di fronte al vero e proprio inizio<br />

dell’elaborazione e dello studio di tale complessa questione. Sia la prima sentenza ( sent. Trib.<br />

Torino 16/11/99 ) che la seconda sentenza (Trib. Torino, 30/12/99 ) si riferiscono a situazioni che<br />

sicuramente riguardano attacchi alla personalità morale, oltre che fisica, del lavoratore ma ritiene<br />

chi scrive che sia problematico rilevare in detti provvedimenti i caratteri tipici del <strong>mobbing</strong> e si è<br />

voluto fare questo riferimento per evitare un pericolo che si avverte nel tema oggetto della presente<br />

domanda. Oggi il rischio è di una equazione del tipo: tutto è <strong>mobbing</strong>, niente è <strong>mobbing</strong>. Per essere<br />

ancora più espliciti: si rischia di definire come <strong>mobbing</strong> situazioni che solo per alcuni caratteri<br />

possono ricondursi a tale fenomeno con il risultato che, in seguito agli approfondimenti che<br />

verranno e che non riconosceranno, a parere di chi scrive, tale qualificazione apparirà impossibile<br />

ritenere sussistente detto <strong>mobbing</strong>.<br />

Deve essere sin dall’inizio dello studio e dell’elaborazione giurisprudenziale chiaro questo concetto:<br />

si avrà <strong>mobbing</strong> solo ed in quanto determinate condotte presentino i requisiti richiesti dalla<br />

psicologia del lavoro internazionale (in particolare grazie ai lavori del professor Heinz Leyman ) e<br />

nazionale ( in particolare grazie ai lavori del professor Ege ) per poter parlare di tale fenomeno<br />

perché, in casi che presentano mera somiglianza con il <strong>mobbing</strong>, ogni episodio dovrà essere<br />

altrimenti catalogato e darà diritto a diversi profili di tutela risarcitoria a favore di chi ha subito le<br />

condotte. Si deve evitare che una moda o un atteggiamento approfondito meno del dovuto svaluti la<br />

potenzialità di un fenomeno della gravità e dell’importanza di quello in esame in questa sentenza.<br />

Questo fino a quando una legge ( ci sono diverse proposte unificate in un unico testo che la fine<br />

della legislatura non consente di licenziare ma sul tema un impegno di tutte le forze politiche<br />

congiunte lascia ben sperare per una prospettiva a breve termine ) sicuramente auspicabile nella<br />

materia non riesca a fornire chiarimenti in merito alla definizione del <strong>mobbing</strong> ed alle sue tutele<br />

risarcitorie.<br />

Il lavoro definitorio e di indicazione degli elementi per classificare una determinata condotta come<br />

<strong>mobbing</strong> appaiono, allo stato, sufficientemente acquisiti almeno dalla psicologia del lavoro e tale<br />

strada sarà quella seguita nella presente decisione.<br />

Veniamo al caso in esame ed analizziamo la storia professionale del Mulas alla luce di uno<br />

stereotipo di <strong>mobbing</strong>. Il tempo di durata di tale fenomeno appare in sintonia con il caso concreto (<br />

si parte dal giugno 1996 anche se, per trovare i primi dati significativi sull’attività del ricorrente con<br />

riguardo al conflitto con la nuova dirigenza delle sede di Forlì, si deve attendere il gennaio 1997 per<br />

parlare di demansionamento ). La circostanza che dopo il trasferimento (novembre 1998 ) sia<br />

proseguito il denunciato accanimento nei confronti del Mulas si spiega agevolmente se si considera<br />

come una volta instaurato un meccanismo e creata una difficoltà nel lavoratore la dirigenza, anche<br />

se non partecipe dell’iniziale condotta, verificando un calo di produttività e di presenze nel<br />

collaboratore inizierà a perdere fiducia nello stesso e, in seguito, a considerarlo un vero peso per la<br />

struttura lavorativa. Il meccanismo si perpetua: più forte è il disagio più aumenta la sfiducia, più si<br />

aggrava la malattia più si generano sospetti sulla stessa. Il demansionamento è un atteggiamento<br />

tipico con il quale si colpisce un lavoratore, operando sui meccanismi di autostima dello stesso che<br />

vengono messi in crisi, tanto più se si considera che il Mulas è un dipendente che si è fatto dalla<br />

gavetta e che ha percorso tutta la scala per arrivare al livello alto che viene minacciato e questo<br />

sicuramente aumenta la sua sensazione di difficoltà e di panico. Dopo il trasferimento<br />

dall’atteggiamento e dall’utilizzazione del Mulas si comprende agevolmente che lo stesso oramai è<br />

considerato un peso per la banca , utilizzato per le attività più modeste. I suoi periodi di malattia si<br />

allungano sempre più incrementando la sfiducia nello stesso in quanto la sua patologia ( che pure è<br />

stata accertata da un punto di vista medico in corso di causa ) non viene ritenuta evidentemente tale<br />

da giustificare le assenze protratte nel tempo.


Leggendo la esaustiva consulenza del professor Ege si trova il riferimento preciso a tutte le<br />

caratteristiche del <strong>mobbing</strong> nella storia professionale del Mulas. Il modello di <strong>mobbing</strong> italiano (<br />

che si differenzia da quello del professor Leymann che prevede quattro fasi ) prevede uno stadio<br />

iniziale e sei fasi successive nelle quali si evolve il <strong>mobbing</strong>. Dopo la c.d. condizione zero, di<br />

conflitto fisiologico normale ed accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si<br />

individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. Evidentemente la personalità<br />

di Mulas non si conciliava con quella dei nuovi dirigenti della sede di Forlì e la mancanza di<br />

mediatori sociali ha determinato il sorgere del conflitto. La seconda fase è il vero e proprio inizio<br />

del <strong>mobbing</strong>, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio. Il Mulas, dopo una<br />

continua ascesa, vede che qualche cosa non funziona, le sue note personali peggiorano e il suo ruolo<br />

viene ridimensionato e questo genera in lui insicurezza e, appunto, disagio. Da notare che in<br />

precedenza il Mulas non soffriva di alcun disturbo collegato con la sfera in esame. La terza fase è<br />

quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psico-somatici, i primi<br />

problemi per la sua salute. Il primo certificato significativo in questo senso per il Mulas è in data<br />

18/3/1998 del dottor Romagnoli :” è affetto da disturbo depressivo ansioso reattivo ed una<br />

situazione conflittuale insorta nell’ambiente di lavoro” al quale seguono una serie di altri certificati<br />

medici tutti in sintonia con il precedente. La quarta fase del <strong>mobbing</strong> è quella caratterizzata da<br />

errori ed abusi dell’amministrazione del personale che, insospettita dalle assenze del soggetto<br />

mobbizzato, erra nella valutazione negativa del caso non riuscendo, per carenza di informazione<br />

sull’origine della situazione, a capire le ragioni del disagio del dipendente. Questa fase è stata già<br />

descritta in precedenza con riferimento al caso del Mulas. La quinta fase del <strong>mobbing</strong> è quella<br />

dell’aggravamento delle condizioni di salute psico-fisica del mobbizzato che cade in piena<br />

depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione. In questo senso la diagnosi<br />

conclusiva in atti della dottoressa Astorre, la neuropsichiatra che ha collaborato con il consulente<br />

del giudice alla definizione del caso in esame, appare in sintonia con tale sviluppo: “ il Mulas ha<br />

riportato a seguito degli stress lavorativi grossi turbamenti sul piano emotivo ed affettivo che hanno<br />

avuto un ruolo determinante sulla modifica del sul carattere. Tale specifica condizione di sofferenza<br />

si è risolta in una vera e propria lesione della sfera psichica”. Da considerare che la situazione del<br />

Mulas è resa ancora più penosa dalla presenza di quella che viene definita condizione di doppio<br />

<strong>mobbing</strong>, cioè gli effetti che il disagio sul lavoro provocano sulla famiglia ( inizialmente conforto<br />

per il lavoratore ma, nel tempo, devastata dallo stesso ) in termini di conseguenze negative sia per i<br />

rapporti complessivi che per la qualità della vita dei singoli componenti.<br />

Le osservazioni formulate dal consulente di parte della banca, il professor Ariatti, appaiono<br />

sicuramente interessanti e profonde ma non affrontano il nodo della questione. Il consulente di<br />

parte, docente di psichiatria forense (significativa la nomina di uno psichiatra per una causa di<br />

<strong>mobbing</strong>), arriva alla conclusione che il Mulas abbia una personalità disturbata in senso paranoideo<br />

e sul punto il disaccordo con la dottoressa Astorri potrebbe non essere insanabile ( almeno da un<br />

punto di vista giuridico se non medico ) ma quello che non convince è l’apodittica affermazione (<br />

ma questa non del consulente di parte ) che il disturbo rilevato sia stato la causa e non l’effetto della<br />

vicenda in esame. Se è vero che il ricorrente ha una personalità disturbata di tipo paranoideo è<br />

possibile che l’avesse avuta da sempre, o comunque risalente nel tempo, o che si sia formata a<br />

seguito di fenomeni particolari ( allora convince più la diagnosi del disturbo dell’ansia e della<br />

depressione da stress lavorativo ). Se valesse la prima ipotesi, cioè disturbo risalente nel tempo, ci si<br />

chiede come mai la banca non abbia notato niente di particolare nel Mulas dal 1979 fino al 1996,<br />

considerandolo sempre in termini positivi, passando per quattro promozioni ed arrivando a dargli la<br />

direzione di una agenzia della banca. Nessun sintomo quantomeno sospetto il ricorrente avrebbe<br />

mai manifestato prima del nuovo dirigente della sede di Forlì che, pure, parla di presunzione ma<br />

non di personalità disturbata di tipo paranoideo. Appare difficile immaginare un errore così<br />

consistente per così lungo tempo senza alcuna avvisaglia o campanello di allarme, assolutamente<br />

mai evidenziato. In conclusione si ritiene che il sicuro disturbo del ricorrente sia da considerare


molto più verosimilmente una conseguenza di qualcosa subita piuttosto che la causa di un conflitto<br />

con la banca. Questo è il motivo per il quale questo giudice ha ritenuto di non procedere a<br />

rinnovazione della consulenza o a confronto tra consulenti.<br />

Torniamo al <strong>mobbing</strong> ed alle fasi dello stesso. Resta la sesta fase, per altro indicata solo e<br />

fortunatamente eventuale, nella quale la storia del <strong>mobbing</strong> ha un epilogo: nei caso più gravi nel<br />

suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in<br />

licenziamenti. Al riguardo si richiama l’informazione ricordata dell’avvenuta comunicazione del<br />

licenziamento nei confronti del Mulas per evidenziare come tale elemento appaia assolutamente<br />

inserito nel contesto in esame, quasi a voler completare tale percorso ed a rendere ancora più<br />

scolastica la casistica concreta nel confronto con la fattispecie astratta.<br />

Il profilo sicuramente più complesso da un punto di vista giuridico è quello relativo<br />

all’individuazione della natura del danno ipoteticamente subito di una eventuale responsabilità<br />

datoriale in merito all’asserito danno subito dal Mulas derivante dal comportamento della società<br />

datrice di lavoro.<br />

La tripartizione danno biologico- danno patrimoniale- danno morale oramai appare riduttiva per<br />

l’interprete in quanto lascia troppi spazi privi di adeguata tutela. Un danno subito da un lavoratore,<br />

ad esempio, senza conseguenze patrimoniali dirette (pensiamo ad un demansionamento con<br />

mantenimento dello stesso trattamento retributivo) e privo di rilevanza patrimoniale dal quale<br />

scaturisca una sofferenza non qualificabile classicamente come malattia non troverebbe, ad<br />

esempio, nessuna tutela.<br />

Partendo dalla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n.184/86 fino ad arrivare alle<br />

ultime pronunce di legittimità (vedi Corte di Cassazione, n.2569/2001) e di merito (vedi Tribunale<br />

Milano, n.9417/99) si arriva a definire una nuova ripartizione della materia.<br />

Sul punto oramai è acquisito, seppure recentemente, il concetto di danno esistenziale, o danno alla<br />

vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità<br />

senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria.<br />

Viene introdotto il concetto di personalità morale del lavoratore ed al limite posto dall’art. 41<br />

Costituzione all’esercizio dell’iniziativa economica privata. È stato molto efficacemente detto<br />

recentemente che la nuova categoria del danno esistenziale può aiutare a superare le incertezze<br />

evocate dall’uso dell’aggettivo morale collocando più propriamente la previsione in un’ottica di<br />

immediata tutela dei valori della personalità che sono direttamente coinvolti dallo svolgimento<br />

dell’attività lavorativa.<br />

Attraverso questo percorso, impegnativo perché nuovo ma niente affatto tortuoso e illuminato nella<br />

via dalla luce dei richiami alla Costituzione ed alla più recente giurisprudenza della Cassazione e<br />

dalla migliore dottrina, torniamo al <strong>mobbing</strong> ed al caso specifico in esame. Non a caso il <strong>mobbing</strong> è<br />

stato definito violenza morale e non a caso il danno esistenziale appare particolarmente congeniale a<br />

tale situazione. È la qualità della vita del lavoratore mobbizzato a risentirne principalmente, con<br />

tutte le conseguenze anche nell’ambito familiare ( si pensi al doppio <strong>mobbing</strong> del quale si è parlato<br />

in precedenza).<br />

Una volta qualificato come danno esistenziale quello che può risultare da una condotta mobbizzante<br />

vediamo di precisarne i contorni negli aspetti salienti con riferimento al profilo della definizione<br />

della natura del risarcimento richiesto.


Posto che all’origine della responsabilità datoriale si può cercare la strada della responsabilità<br />

contrattuale ex art. 2087 c.c. o quella del danno aquiliano, ex art. 2043 c.c., ci si deve chiedere<br />

astrattamente in quale delle due caselle collocare le conseguenze risarcitorie della nuova figura del<br />

danno esistenziale, ovviamente questo nel caso in cui il danneggiato sia un lavoratore. Differenza di<br />

non poco conto tenendo presente il diverso regime di onere della prova ed il diverso termine<br />

prescrizionale, solo per indicare le due differenze più eclatanti.<br />

Una ammirevole e recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (n.5491/2000) ha chiarito che il<br />

contenuto dell’obbligo ex art. 2087:” non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica<br />

prevenzione, riguardando altresì il divieto , per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito<br />

aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore”. Si<br />

concorda appieno con tale impostazione in sintonia con una lettura complessiva di tutela del<br />

lavoratore prevista dal nostro ordinamento già nella sua norma fondamentale. Per altro non deve<br />

dimenticarsi che sempre la Corte di Cassazione, nella già ricordata sentenza n.2569/2001, ha<br />

riconosciuto la tutela sia contrattuale che extracontrattuale in caso di diritti attinenti all’integrità<br />

psico-fisica del lavoratore e più in generale agli interessi esistenziali.<br />

Riconosciuta, quindi, sia la natura contrattuale che extracontrattuale del diritto al risarcimento di<br />

tale danno, derivante direttamente dall’obbligo per il datore di lavoro ex art. 2087 di tutelare non<br />

solo sotto il profilo antinfortunistico il lavoratore ma in un’ottica complessiva di tutela psicofisica<br />

oltre che dal combinato disposto degli articoli 32 Costituzione e 2043 codice civile, ne consegue<br />

che in termini di ripartizione dell’onere probatorio potrà applicarsi il criterio più favorevole al<br />

ricorrente, che sicuramente è quello che deriva dalla responsabilità contrattuale.<br />

Spetterà, dunque, al datore di lavoro, se vuole evitare profili di responsabilità ogni volta che il<br />

lavoratore abbia subito un danno esistenziale, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure<br />

necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore mentre spetterà al lavoratore, al<br />

contrario, come proprio onere probatorio dimostrare la sussistenza del nesso causale tra l’evento<br />

lesivo e il comportamento del datore di lavoro (così espressamente la sentenza della Corte di<br />

Cassazione richiamata n.5491/2000 che proprio per tale secondo profilo probatorio non ha accolto il<br />

ricorso nel caso esaminato).<br />

La Banca Nazionale dell’Agricoltura, oggi Banca Antoniana Popolare Veneta, non ha fornito alcun<br />

elemento utile rivolto a dimostrare di aver posto in essere attività tese a tutelare il lavoratore da<br />

comportamenti discriminatori dei diretti superiori dello stesso senza ricercare le ragioni. La banca<br />

non si è posta il problema di esaminare perché un dipendente in continua ascesa ad un certo punto si<br />

blocchi, del perché le note caratteristiche sempre positive diventino mediocri, del perché non ci sia<br />

progressione in carriera, sempre avvenuta in passato, e di chi sia la responsabilità. La banca si è<br />

limitata a sostenere il proprio diritto allo jus variandi senza il dovere di giustificare tale<br />

comportamento. In questo atteggiamento riduttivo della fattispecie e del proprio profilo di<br />

responsabilità il giudice vede il mancato assolvimento del proprio onere probatorio quale datore di<br />

lavoro. Per inciso sia detto che una maggiore sensibilità datoriale a problemi del genere<br />

consentirebbe un indiscutibile vantaggio per tutti, compreso il datore di lavoro che eviterebbe cali di<br />

produttività della propria forza lavoro particolarmente sensibili per lunghi periodi determinati da<br />

situazioni di <strong>mobbing</strong>. In una relazione ad un disegno di legge sul tema del <strong>mobbing</strong> si legge sulla<br />

questione che le forme depressive dovute al <strong>mobbing</strong> recano un danno socio-economico rilevante,<br />

quindi intervenire su questo problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e di<br />

correttezza nei rapporti umani e per la tutela dei valori della convivenza civile, ma anche di<br />

opportunità economica, sia per il buon funzionamento dell’azienda, sia per minimizzare i costi<br />

sociali e sanitari e si concorda pienamente con tale valutazione.


Relativamente al profilo dell’onere probatorio del lavoratore i richiami precisi e puntuali offerti<br />

nella consulenza d’ufficio, corroborati dall’attività della neuropsichiatra, hanno rilevato<br />

indiscutibilmente un collegamento tra le sofferenze patite e le conseguenze patologiche delle stesse<br />

con il contesto lavorativo del Mulas e da questo punto di vista si può dire che il nesso causale tra<br />

danno e lavoro è incontrovertibile nella sua dinamica e nelle sue conseguenze negative sul<br />

ricorrente.<br />

In conclusione sull’aspetto dell’onere probatorio si può dire che il ricorrente ha dimostrato<br />

pienamente il nesso causale che aveva l’onere di dimostrare mentre, al contrario, la banca non ha<br />

provato in alcun modo di aver posto in essere le dovute cautele per evitare la realizzazione del<br />

processo di mobbizzazione nei confronti del Mulas. Le regole del giudizio non possono che essere<br />

conseguenziali al risultato dell’onere probatorio e, quindi, il ricorso deve essere accolto.<br />

Si tratta, adesso, di quantificare il danno subito per indicare il risarcimento dovuto alla parte<br />

ricorrente, aspetto troppo spesso non considerato nella sua complessità e delicatezza.<br />

Sul punto specifico questo giudice ritiene che le valutazioni dei consulenti non siano condivisibili<br />

perché non ancorate a criteri oggettivi o, nel caso dell’asserita invalidità, perché riferiti a situazioni<br />

che possono risultare non definitive, in quanto tendenzialmente con l’eliminazione delle cause del<br />

<strong>mobbing</strong> si eliminano o si riducono sensibilmente le conseguenze negative in termini di patologie<br />

derivate.<br />

Pure i richiami generici a perdita di chances lavorative o per demansionamento appaiono<br />

difficilmente applicabili al caso concreto proprio per la sua riconducibilità ad un altro, più<br />

complesso fenomeno, che può sostanzialmente ricomprendere tutte le voci indicate.<br />

Occorrerà cercare altra strada per valutare l’aspetto del risarcimento dovuto per il già definito<br />

sofferto danno esistenziale.<br />

Pacifica la circostanza che ci muoviamo nell’ambito della valutazione equitativa, come ricavato da<br />

risalente ma ancora significativa giurisprudenza specifica sul punto (Corte di Cassazione,<br />

n.6135/84). Siamo nell’ambito del combinato disposto degli articoli 2056 e 1226 codice civile.<br />

Acquisito tale dato di partenza non può però confondersi discrezionalità con arbitrio valutativo. Il<br />

giudice di merito deve, cioè, trovare dei parametri a cui ancorare la valutazione che siano<br />

rispondenti ad una logica argomentativa. In questo senso di estremo interesse risulta una recente<br />

sentenza della Pretura di Milano (26/6/99, edita) che in un caso di demansionamento, rilevato un<br />

danno che colpiva la professionalità del lavoratore, oltre ai riflessi negativi nell’equilibrio<br />

psicofisico dello stesso, indicava il doppio parametro del tempo in cui tale situazione si è protratta e<br />

di una percentuale della retribuzione percepita dallo stesso come base per la determinazione del<br />

danno. In effetti appare logico ritenere che la durata della situazione di inadempienza costituisca un<br />

riferimento ma tale riferimento costituisce solo un parametro al quale deve aggiungersi un’altra<br />

grandezza, questa volta di natura economica, per determinare il quantum. Logico e ineccepibile che<br />

utilizzando la retribuzione come base il parametro sia rappresentato da una percentuale di tale<br />

retribuzione, da calcolare a seconda del danno inferto o della sofferenza subita. Elementi di<br />

valutazione che si potranno, quindi, modulare alle varie situazioni che dovranno considerare.<br />

Una volta individuati i parametri astratti vediamo di renderli concreti esaminando il caso del ricorso<br />

e partendo da quello temporale.


Il ricorrente parla dell’inizio della sua vicenda negativa retrodatandola al gennaio 1996 perché in<br />

quella data, dopo aver assunto la titolarità dell’agenzia 1 di Forlì, torna alla sede centrale quale capo<br />

ufficio sviluppo asserendo di non essere più il titolare dell’ufficio, affidato ad altro coadiutore. Ma<br />

ritiene questo giudice che fino a quella data non ci siano elementi per individuare una qualsiasi<br />

condotta con intenti di demansionamento nei suoi confronti: il capo ufficio sviluppo della sede<br />

centrale potrebbe ben aver un’attività e delle prospettive più significative di un titolare di una<br />

modesta agenzia cittadina. Le cose, al contrario, cambiano radicalmente nei rapporti con la<br />

dirigenza quando a dirigere la sede di Forlì viene chiamato il dottor Palumbo e vice direttore è il<br />

dottor Consogni. La figura di Palumbo nella ricostruzione operata dal consulente del giudice<br />

corrisponde a quella di chi inizia a sottoporre a <strong>mobbing</strong> il Mulas evidenziandone la centralità di<br />

tutto il processo successivo del quale il ricorrente è stato vittima. È dal gennaio 1997 che<br />

effettivamente si assiste ad un vero e proprio demansionamento come conseguenza della difficoltà<br />

dei rapporti del Mulas con la nuova dirigenza della sede di Forlì. Infatti da tale data il ricorrente ha<br />

affermato di essere stato adibito alle funzioni di consegna a domicilio di assegni circolari Inps alla<br />

clientela, sicuramente funzioni non paragonabili con la sua precedente attività, essendogli state<br />

sottratte le mansioni di sviluppo alle imprese, di specialista dei prodotti bancari e di acclaramento<br />

della clientela.<br />

Queste circostanze sono state smentite genericamente dalla banca che ricollega al part-time<br />

concesso al Mulas nell’agosto 1997 l’esigenza di spostarlo dall’area sviluppo (dove serviva un<br />

maggior impegno di tempo). Ma il ricorrente ha affermato che dal gennaio 1997 la funzione di<br />

consegna degli assegni circolari Inps ai clienti era la sua unica attività ed era stata sottratta ogni<br />

mansione di sviluppo ed altro già indicato. Questo dato non risulta contestato se non con un<br />

riferimento ad una nota del gennaio 1997 con la quale il nome del Mulas viene fatto dalla banca<br />

essendogli stata conferita la facoltà di seconda firma in caso di sostituzione dei titolari di agenzia<br />

della filiale, che niente ha a che vedere con le mansioni svolte. Ma ancora più significativo, in<br />

termini di mancata contestazione delle affermazioni del ricorrente, appare la missiva del sindacato<br />

16/12/97 nella quale si contesta apertamente il demansionamento operato nei confronti del Mulas<br />

dal settembre con il passaggio all’ufficio titoli senza alcuna mansione specifica. L’unica risposta in<br />

atti è il trasferimento del novembre 1998 alla filiale di Rimini. Queste precisazioni servono per<br />

confutare eventuali dubbi nella ricostruzione dei fatti operata sia dal consulente di ufficio che nella<br />

sentenza. Quindi il dato temporale deve partire dal gennaio 1997. Ma una significativa cesura in<br />

questo senso sarà quella del novembre 1998, data nella quale al Mulas viene imposto il<br />

trasferimento a Rimini, determinando una ulteriore appesantimento della sua situazione perché detto<br />

trasferimento viene vissuto come momento aggiuntivo di diffidenza nei suoi confronti. Il termine<br />

finale sarà quello della presente sentenza, febbraio 2001. Due periodi, quindi, il primo dal gennaio<br />

1997 all’ottobre 1998 per 22 mesi ed il secondo dal novembre 1998 al febbraio 2001 per 28 mesi.<br />

Ritiene questo giudice di poter valutare come dato medio mensile di reddito derivante dal proprio<br />

lavoro per il Mulas quello di cinque milioni, rendendo per altro attuali i risultati che non<br />

necessiteranno di ulteriori calcoli di rivalutazione o interessi. La valutazione è confermata dai dati<br />

relativi al reddito dichiarato in atti che, calcolato in dodici mesi, porta ad un risultato non distante<br />

da quello utilizzato.<br />

Per il primo periodo il giudice stima equa una valutazione di danno rapportata al 20% della<br />

retribuzione mensile, cioè un milione , che moltiplicato per i mesi di tale prima fase portano ad una<br />

somma di ventidue milioni.<br />

Per la seconda fase la percentuale deve aumentare per l’ulteriore elemento ingiustificato del<br />

trasferimento e sale al 30%, arrivando cosi ad un milione e mezzo che moltiplicato per i mesi porta<br />

ad una somma di quarantadue milioni.


Complessivamente si arriva ad una somma di sessantaquattro milioni che questo giudice ritiene una<br />

cifra equa per risarcire il ricorrente per il danno esistenziale subito nell’ultima parte del suo<br />

rapporto di lavoro con la banca convenuta.<br />

Sulla somma così complessivamente determinata andranno aggiunti gli interessi legali dalla data<br />

della sentenza a quella del saldo effettivo.<br />

La soccombenza nel giudizio comporta la condanna della Banca Antoniana Popolare Veneta,<br />

già Banca Nazionale dell’Agricoltura, al pagamento delle spese di consulenza tecnica ed alle<br />

spese di giudizio a favore della parte ricorrente, liquidate come da dispositivo.<br />

Tribunale di Bari<br />

Ordinanza del 29 settembre 2000<br />

Estensore dott. Beatrice Notarnicola<br />

Di Canosa contro Poste Italiane S.p.A.<br />

Il diritto del datore di lavoro ad attuare modifiche organizzative deve essere esercitato in modo da<br />

non ledere il diritto all’equivalenza delle mansioni dei lavoratori.<br />

L’inoperosità, il depauperamento delle mansioni, l’emarginazione logistica e fisica accompagnate al<br />

conseguente svilimento della personalità professionale costituiscono <strong>mobbing</strong>.<br />

TRIBUNALE DI BARI – G.U. (Est. Notarnicola) Ord. 29 settembre 2000 – Di Canosa c. Poste<br />

Italiane S.p.A.<br />

Il Giudice presso il Tribunale di Bari, dr.ssa Beatrice Notarnicola, in funzione di Giudice del<br />

lavoro, letti gli atti e sciolta la riserva,<br />

premesso<br />

che con ricorso ex art.700 c.p.c. depositato il 20.4.00, la dr.ssa Caterina Di Canosa deduceva la<br />

nullità del provvedimento di trasferimento comunicatole il 29.2.00 e l'illiceità dei comportamenti<br />

discriminatori e lesivi di emarginazione, depauperamento del suo bagaglio professionale e lesione<br />

della sua immagine, dignità e personalità, tenuti in suo danno nell'ultimo anno e mezzo dai dirigenti<br />

della sede pugliese delle Poste Italiane (di seguito P. I.) e chiedeva l'adozione dei provvedimenti di<br />

urgenza idonei a tutelare il diritto e la salute e, in particolare, l'ordine di immediata sospensione<br />

degli effetti del trasferimento del 29.2.00 - con i consequenziali provvedimenti, tra cui la<br />

reintegrazione nel posto di lavoro occupato prima, nonché l'ordine di cessazione di tutti i<br />

comportamenti volti danneggiare professionalmente la ricorrente, in particolare, tenendola<br />

inoperosa, isolata dai colleghi, ovvero assegnandole incarichi inadeguati alla sua professionalità.<br />

che si costituivano le P. I. contestando l'esistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora;<br />

che, all'esito dell'interrogatorio libero delle parti e dell'esame degli informatori, acquisite note,<br />

sentite le parti all'udienza del 22.9.00 questo GL si riservava;<br />

osserva quanto segue.<br />

La domanda è fondata.


Quanto al fumus boni iuris essa si fonda su un doppio ordine di motivi, rappresentati dalla nullità<br />

del provvedimento di trasferimento del 29.2.00 per insussistenza di motivazione tecnica, produttiva<br />

ed organizzativa e dall'illiceità della condotta datoriale di cd. <strong>mobbing</strong>.<br />

In ordine al primo motivo.<br />

E' pacifico che la ricorrente, laureata in Economia e Commercio era inquadrata dal 24.11.94<br />

nell'area Quadri 1 livello ed assegnata all'Area Servizi Finanziari, ove aveva ricevuto la<br />

responsabilità di dirigere l'articolazione "Servizi Conto Terzi" preposto alla gestione amministrativa<br />

e contabile dei servizi resi ai terzi, ovvero ai maggiori clienti dell'ente, (pensioni INPS, pensioni<br />

dello Stato, riscossione crediti, pagamenti, imposte, etc.) ed aveva espletato dette mansioni per<br />

quattro anni.<br />

A tale riguardo, l'informatore dr. Ventrella, Dirigente dell'Area Servizi Finanziari dal febbraio 1998<br />

al gennaio 1999, ha riferito che "la ricorrente si occupava del "Servizio Conto Terzi" … svolgeva<br />

attività di staff in quanto era responsabile del servizio e a lei facevano capo gli operatori della<br />

produzione, ... svolgeva attività di controllo, coordinamento ecc.... per quanto riguarda le trattative<br />

con i rappresentanti degli enti e delle società con cui erano strette le convenzioni, erano condotte<br />

personalmente dalla ricorrente e concluse da me sulla base delle relazioni fatte dalla ricorrente".<br />

Con lettera del 28.2.99, in atti, l'Ing. Augusto, Direttore Regionale R. T., aveva comunicato la<br />

soppressione della struttura di appartenenza e la prossima valutazione della ricollocazione della<br />

lavoratrice.<br />

Con lettera del 28.5.99, in atti, lo stesso ing. Augusto aveva comunicato l'assegnazione alla<br />

Direzione Privati - Divisione S.F.<br />

Con fax del 6.6.99, in atti, l'ing. Augusto aveva comunicato alla ricorrente l'affidamento del<br />

compito di rilevazione dei dati sulla qualità dei servizi finanziari.<br />

Dall'istruttoria è risultato che oltre tale attività di raccolta dati la ricorrente non ha svolto altre<br />

mansioni, tanto meno quelle proprie dell'area di assegnazione e che è stata tenuta al di fuori<br />

dell'attività dell'area stessa.<br />

Tale circostanza emerge dalle deposizioni degli informatori di parte ricorrente, che hanno dichiarato<br />

che la ricorrente "non aveva lavoro da fare ed era sola... la vedevo a disagio e lei mi diceva che non<br />

aveva lavoro da fare" (dr. Ventrella) e che "la ricorrente lamentava di avere paura di essere spostata<br />

dall'ambiente lavorativo della Direzione Regionale ... intorno alla ricorrente non vi era molto<br />

movimento" (dr. Oresta).<br />

Essa è confermata proprio dal dr. Toma, dirigente della Direzione Privati della Divisione<br />

Bancoposta, cui la ricorrente era assegnata, informatore citato dalle P. I.; il dr. Torna ha dichiarato<br />

che "la ricorrente non era inserita effettivamente nella Direzione Privati ...per quanto riguarda le<br />

mansioni espletate dalla ricorrente nel periodo in questione mi risulta che fosse addetta<br />

all'elaborazione dati .... da me non venivano impartiti disposizioni o incarichi".<br />

Con lettera del 29.2.00, in atti, l'ing. Augusto aveva comunicato la prossima assegnazione<br />

dell'istante ad un ufficio di produzione dal 1.3.00, individuato nell'U. P. Bari succ. 5 come da<br />

telefax del 1.3.00 del Direttore di Filiale, in atti. Dal 1.4.00 la ricorrente si era assentata dal lavoro<br />

per malattia. Dall'istruttoria svolta è emerso che la ricorrente era stata addetta nell'ambito dei<br />

servizio "Conto terzi", ad attività di staff, aveva curato personalmente i rapporti con i maggiori


utenti delle Poste; aveva sviluppato aveva svolto attività di coordinamento e controllo del servizio;<br />

era stata preposta gerarchicamente agli operatori del servizio; era stata sottoposta gerarchicamente,<br />

nell'ambito dell'area, solo al dirigente dr. Ventrella; aveva maturato elevate competenze e<br />

professionalità specifiche del settore.<br />

In definitiva la ricorrente presenta un bagaglio di professionalità notevole in materia di rapporti<br />

economici con i più importati clienti delle Poste, ovvero in ambito di attività cd. di staff.<br />

Invece, nel periodo dell'assegnazione alla Direzione Privati, che lo stesso dr. Toma ha definito<br />

"formale", la ricorrente ha svolto solo un'attività di raccolta dati.<br />

E' di palmare evidenza che si tratti di mansioni non equiparabili a quelle svolte in precedenza.<br />

In relazione alla oggettiva consistenza, l'attività successiva era una mera attività di rilevazione di<br />

dati mentre la precedente attività comportava funzioni di coordinamento, elaborazione di relazioni,<br />

etc.; in relazione alle modalità di espletamento, le mansioni erano espletate dalla ricorrente<br />

completamente sola, mentre le sue mansioni anteriori comportavano la responsabilità di un settore e<br />

la superiorità gerarchica sugli altri dipendenti addetti e il rapporto con altri enti pubblici e privati di<br />

primaria importanza.<br />

Pertanto, il demansionamento subito si rileva sia in relazione alla natura della mansioni e al<br />

depauperamento professionale che ne deriva sia in relazione alla diminuzione del prestigio subito<br />

nell'ambito delle relazioni interpersonali con interni ed esterni.<br />

Infine, non può neppure ritenersi legittima l'assegnazione dell’istante ad un ufficio postale, ovvero<br />

ad un settore tipicamente ed esclusivamente di cd. produzione.<br />

Secondo quanto dichiarato dall'informatore dr. Oresta "gli uffici postali comportano rapporti con la<br />

clientela e gestione di denaro, e questi problemi di natura contabile richiedono esperienza e<br />

specifiche propensioni".<br />

Si deduce, quindi, la differenza tra un'attività di cd. staff rispetto a quella di cd. produzione quale<br />

quella cui l'istante è stata destinata.<br />

Ciò impedisce l'utilizzazione del bagaglio di competenze specifiche maturate dalla lavoratrice e<br />

provoca un depauperamento delle stesse a causa del mancato esercizio.<br />

Questo comporta la negazione dell'equivalenza delle mansioni ai sensi dell'art.2103 c.c. cui l'istante<br />

aveva diritto.<br />

A riguardo non si condivide la tesi di parte resistente secondo cui l'equivalenza delle mansioni, nel<br />

caso di specie, è assicurata dalla circostanza che entrambe siano riconducibili alla previsione<br />

contrattuale dell'Area Quadri di 1 livello.<br />

Infatti, la violazione del diritto all'equivalenza delle mansioni può anche coesistere con<br />

l'inquadramento delle nuove mansioni nel medesimo livello o nella medesima area di provenienza<br />

individuati dalla contrattazione collettiva.<br />

L'equivalenza va valutata "in relazione alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto<br />

e alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisiti nella pregressa fase del rapporto e della<br />

precedente attività svolta", nonché nella possibilità per il lavoratore di "essere adibito a funzioni


confacenti alle sue qualità nell'ottica di un loro costante affinamento e di una progressiva<br />

evoluzione delle stesse" (Cass. 2428/99).<br />

In tale ottica, nel caso di specie l'equivalenza non sussiste.<br />

Peraltro, proprio la circostanza che all'indomani dell'inizio del processo di riorganizzazione<br />

aziendale la ricorrente fu assegnata alla Direzione Privati conferma la iniziale volontà delle Poste di<br />

assegnare la lavoratrice ad un settore a lei consono.<br />

Il fatto che l'istante sia stata tenuta completamente isolata ed estraniata dall'attività della direzione,<br />

nonostante il suo inserimento nella stessa, ad opera del dr. Toma, con il benestare - da egli stesso<br />

riferito - dei suoi superiori gerarchici, non può portare a ritenere che sia stata attuata solo una<br />

posticipazione del suo trasferimento presso la Filiale.<br />

Proprio la motivazione fornita dalle Poste, e cioè che l'assegnazione era solo "formale" denuncia<br />

un'irregolarità della gestione del rapporto lavorativo con la ricorrente.<br />

Infatti, in base alle regole della correttezza e della buona fede, la legittima assegnazione ad un<br />

determinato settore comporta il diritto - dovere da parte del datore di lavoro di pretendere ed anche<br />

assicurare al lavoratore ad esso destinato di esplicarvi la propria attività lavorativa, salva l'adozione<br />

di provvedimenti temporanei di mobilità che non sono stati certamente emessi nel caso di specie.<br />

Infine, l'innegabile diritto delle Poste ad attuare la propria organizzazione aziendale, connotata dalla<br />

necessità di trasformare un apparato di vecchio stampo tipico di una pubblica amministrazione in<br />

una impresa moderna, deve essere esercitato con le opportune cautele, in modo da non ledere il<br />

diritto all'equivalenza della mansioni dei lavoratori.<br />

Pertanto il trasferimento adottato con provvedimento del 28.2.00 è illegittimo.<br />

Quanto al secondo motivo.<br />

Dall'istruttoria espletata è risultata confermata la doglianza dell'istante, di essere stata sottoposta ad<br />

una condotta di cd. <strong>mobbing</strong>.<br />

Il termine <strong>mobbing</strong> è stato utilizzato dall'etologo Konrad Lorenz allo scopo di descrivere<br />

l'atteggiamento del branco che vuole allontanare un membro dello stesso.<br />

Introdotto nell'ambito lavoristico, il termine indica i comportamenti ostili, vessatori e di<br />

persecuzione psicologica realizzati da colleghi (cd. orizzontale); e dal datore di lavoro e dai<br />

superiori gerarchici (cd. verticale) nei confronti di un dipendente individuato come vittima,<br />

intenzionalmente rivolti ad isolare ed emarginare il soggetto passivo nell'ambiente di lavoro.<br />

Secondo le tabelle degli psicologi il <strong>mobbing</strong> si configura dopo almeno sei mesi di vessazioni<br />

ripetute.<br />

Sotto il profilo medico-legale, il fenomeno si concretizza in una lesione della salute del lavoratore,<br />

consistente in uno stato di disagio psicologico e nell'insorgenza di malattie psico-somatiche sino ai<br />

disturbi da stress ("Mobbing e rapporto di lavoro" P. Tullini, R. I. D. L., 2000, 1).<br />

All'esito di una tipizzazione sociale, il progetto di legge del sen. Tapparo ed altri individua come<br />

rilevanti, tra le altre condotte, "gli atti vessatori, persecutori, l'offesa alla dignità, ... la


delegittimazione di immagine, anche di fronte a soggetti esterni dell'impresa, ente o<br />

amministrazione (clienti, fornitori, consulenti)..." ovvero le condotte teleologicamente finalizzate a<br />

"... danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale ed informale, grado di<br />

influenza sugli altri, rimozione da incarichi, esclusione o immotivata marginalizzazione della<br />

normale comunicazione aziendale".<br />

Così individuato il concetto di <strong>mobbing</strong>, può rilevarsi come nel caso in esame sussistano i suoi<br />

elementi costituivi.<br />

Come già innanzi evidenziato la ricorrente, pur essendo formalmente assegnata alla Direzioni<br />

Privati, non fu mai coinvolta nelle attività della stessa.<br />

Il dr. Toma ha espressamente riconosciuto di un averle mai impartito ordini o direttive in quanto<br />

"non faceva parte dell'organico" a lui assegnato.<br />

Come pure già evidenziato, la ricorrente veniva anche lasciata senza lavoro, a parte la raccolta dei<br />

dati, attività certamente inadeguata alle sue capacità e al suo livello di inquadramento.<br />

Gli informatori hanno dichiarato che la ricorrente "non aveva lavoro da fare ed era sola… la vedevo<br />

a disagio e lei mi diceva che non aveva lavoro da fare" (dr. Ventrella) e che "la ricorrente lamentava<br />

di avere paura di essere spostata dall'ambiente lavorativo della Direzione Regionale ... intorno alla<br />

ricorrente non vi era molto movimento" (dr. Oresta).<br />

All'esclusione dal settore di assegnazione, alla riduzione qualitativa degli incarichi ed all'inoperosità<br />

si aggiungeva una situazione di emarginazione logistica e fisica.<br />

Lo stesso dr. Toma ha afferma che "Nel primo periodo la ricorrente era allocata all'8° piano e il<br />

personale a me assegnato era collocato tra il 9° e l'8° e in un secondo periodo, nell'ambito di una<br />

ricollocazione del personale, la mia direzione fu tutta spostata al primo piano. Non so se la<br />

ricorrente fu spostata e dove fu collocata".<br />

L'arch. Orlando, informatore di parte resistente, ha dichiarato di essere stato contattato dall'istante in<br />

quanto, una volta spostato il personale della Direzione Privati al 1° piano del corpo A, "Lei era<br />

rimasta all'8° piano"; di avere appreso dall'Ufficio Gestione Risorse Umane che la ricorrente era<br />

"assegnata ad un progetto speciale" e " non faceva parte di alcuna area" e di averla spostata,<br />

dovendosi chiudere il piano 8° al 2° piano del corpo B; presso tale piano è situato l'ispettorato "ed<br />

alcune stanze vuote per delle criticità".<br />

Il dr. Ventrella ha dichiarato che "la ricorrente rimase all'8° piano dove prima era sistemata l’Area<br />

dei Servizi Finanziari, mentre gli altri addetti all’Area Direzione Provati erano sistemati su altri<br />

piani … a dicembre 1999 sia io che la ricorrente fummo spostati in un'altra ala del palazzo e la<br />

ricorrente rimase poco tempo... quando fummo spostati, gli altri dipendenti della Direzione Privati<br />

non furono spostati dove eravamo sistemati noi … Constatai in tali circostanze che ... era sola... "<br />

Quindi, la ricorrente fu collocata in ufficio addirittura situato in un corpo di fabbrica differente<br />

rispetto a quello dove erano dislocati gli addetti alla Direzione Privati.<br />

L'inoperosità, il depauperamento delle mansioni, l'emarginazione logistica e fisica, accompagnate al<br />

conseguente svilimento della personalità professionale della dignità della persona costituiscono<br />

condotte sussumibili sotto la fattispecie del <strong>mobbing</strong>.


A tale riguardo il Tribunale dì Torino, nella sentenza dell'11 dicembre 1999, ha stigmatizzato come<br />

<strong>mobbing</strong> la condotta dì assegnazione di una lavoratrice a "compiti che, benché rientranti<br />

astrattamente nell'inquadramento di appartenenza.- assumono nella specie valenza del tutto<br />

dequalificante, avuto riguardo alla sua storia lavorativa, alla professionalità acquisita nel corso del<br />

tempo ".<br />

E ancora, lo stesso Tribunale, con sentenza del 16 novembre 1999, qualifica come <strong>mobbing</strong> la<br />

condotta del superiore della lavoratrice consistita, in via principale, nell'averla "stabilmente<br />

collocata ad una macchina, ... chiusa tra altre macchine e i cassoni di lavorazione, così da impedire<br />

possibili contatti, durante l'orario di lavoro, con i colleghi o colleghe o da renderli assai difficili o<br />

infrequenti... ".<br />

Nei confronti dell'istante le condotte di depauperamento di mansioni, emarginazione dal settore di<br />

assegnazione isolamento sono state perpetuate per un periodo superiore ai sei mesi, essendosi<br />

protratte, dopo la l'esaurimento della mansioni precedenti, quanto meno dal giugno 1999, in cui<br />

iniziò l'assegnazione alla Direzione Privati, sino al marzo 2000 in cui sono culminate nel<br />

trasferimento in agenzia.<br />

Inoltre esse hanno avuto riflessi sull'integrità psico-fisica della ricorrente.<br />

Il dott. Chianura, primario del Dipartimento di salute mentale dell'Ospedale "Di Venere", di cui il<br />

primo datato 1.4.00, nei certificati medici in atti ha attestato di avere riscontrato che la ricorrente era<br />

affetta da "stato ansioso depressivo reattivo ad avvenimenti lavorativi sfavorevoli" necessitante<br />

"l'astensione dall'attività lavorativa".<br />

Tale certificazione proviene dal primario di un settore specialistico di un ente ospedaliero pubblico<br />

ed appare quindi dotata di sufficiente attendibilità. Inoltre la diagnosi è stata confermata in sede di<br />

visita di controllo eseguita a cura dell'INPS, come risulta dal referto in atti.<br />

Essa non è stata neppure oggetto di contestazioni specifiche da parte delle Poste, che si è limitata a<br />

negare il nesso eziologico, senza addurre elementi di fatto specifici (preesistenza di disturbi<br />

assimilabili, etc.) sufficienti a confutare tali risultanze.<br />

Pertanto, anche in considerazione della sommarietà che connota la procedura cautelare, la<br />

certificazione medica prodotta è atta a provare - ai fini del presente giudizio - la dipendenza della<br />

patologia acclarata dalla situazione lavorativa sfavorevole.<br />

Infine, anche a prescindere dal richiamo alla emergente fattispecie del <strong>mobbing</strong>, e per ricondurre i<br />

fatti di causa nell'alveo degli istituti già individuati dal nostro ordinamento, va puntualizzato che<br />

essi costituiscono senz'altro inadempimento dell'obbligo datoriale sancito dall'art. 2087 c.c. di<br />

sicurezza e protezione dei dipendenti e lesione del diritto alla salute costituzionalmente sancito<br />

dall'art.32 Cost. It..<br />

Sussiste, infine, il periculum in mora.<br />

Accertata l'esistenza dello stato patologico, la lesione del diritto alla salute della ricorrente,<br />

compromesso da una situazione lavorativa sfavorevole appare difficilmente risarcibile per<br />

equivalente. Ciò a maggior ragione ove si ipotizzi che un perdurare della situazione lavorativa<br />

sfavorevole nelle more del giudizio ordinario non potrebbe che comportare un aggravamento della<br />

lesione dell'integrità psico-fisica dell'istante.


Inoltre, il perdurare di una condotta di <strong>mobbing</strong>, anche a prescindere dai suoi riflessi sulla salute<br />

dell'istante, avrebbe comunque un effetto lesivo sulla sua dignità e sulla sua immagine professionale<br />

e personale.<br />

Anche la professionalità della ricorrente potrebbe subire danni nelle more del giudizio ordinario: la<br />

ricorrente è dotata di competenze specifiche legate in modo preponderante alla conoscenza dei<br />

fenomeni e delle leggi del mercato, di normative, usi e prassi in continua evoluzione, anche alla<br />

luce del processo di riorganizzazione aziendale attuato dalle Poste, sicché l'allontanamento<br />

perdurante dalle mansioni di competenza porterebbe ad un depauperamento delle capacità e<br />

conoscenze tecniche e professionali pure irrisarcibile e renderebbe poi difficile il reinserimento<br />

della lavoratrice nei settori di staff cui andrebbe destinata.<br />

La gravità del pericolo del depauperamento professionale deve essere valutato anche in relazione al<br />

prestigioso inquadramento della ricorrente, appartenente al livello più alto costituito dall'Area dei<br />

Quadri di 1 livello, che, in base alla circ. n.25 dell'E.P.I., a seconda dei "filoni operativi di<br />

appartenenza sono responsabili di grandi unità organiche (f. o. gestionale), o svolgono attività<br />

tecniche con elevato contenuto specialistico (f. o. tecnico) o attività di natura professionale ( f. o.<br />

professionale)".<br />

Proprio la delicatezza e l'elevata responsabilità connotanti le mansioni dei Q 1 comportano che<br />

l'assegnazione a mansioni anche dello stesso livello di inquadramento ma non consone alla<br />

professionalità della lavoratrice rendono di maggiore rilevanza e gravità la non equivalenza delle<br />

mansioni di destinazione.<br />

Pertanto la domanda di tutela della ricorrente deve essere accolta sia in relazione all'impugnato<br />

trasferimento che in relazione alla cessazione delle condotte vessatorie. Spese al merito.<br />

P.q.m.<br />

Il GL così provvede: ordina alle Poste Italiane l'immediata sospensione degli effetti del<br />

trasferimento del 29.2.00 e la reintegrazione nel posto di lavoro occupato in precedenza dall'istante,<br />

nonché la cessazione di tutti i comportamenti volti danneggiare professionalmente la ricorrente, in<br />

particolare, tenendola inoperosa, isolata dai colleghi, ovvero assegnandole incarichi inadeguati alla<br />

sua professionalità; spese al merito.<br />

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti.<br />

Bari, 29.9.00<br />

Il GL<br />

Dr. Beatrice Notarnicola.<br />

Tribunale di Torino<br />

Sentenza del 30 dicembre 1999<br />

Estensore dott. Vincenzo Ciocchetti<br />

Stomeo contro Ziliani S.p.A.<br />

Il comportamento del mobber (in questo caso il datore di lavoro), autore di pressioni ed


intimidazioni atte ad indurre la lavoratrice a dimettersi, è fonte di responsabilità per il combinato<br />

disposto degli artt. 32 Cost. e 2087 c.c.<br />

Trib. Torino, sez. lav. 1° grado, 30 dicembre 1999<br />

(ud. 11 novembre 1999) - Est. Ciocchetti – Stomeo (avv. Moi) c. Ziliani S.p.A. (avv. De<br />

Pasquale, De Bernardi di Valserra)<br />

Rapporto di lavoro – Invito a rassegnare le dimissioni da parte del titolare dell’azienda – Induzione<br />

di malattia a sfondo depressivo reattivo, assunzione di altra lavoratrice a tempo indeterminato in sua<br />

sostituzione, assegnazione al rientro dalla malattia mansioni dequalificate, seguita dalle conseguenti<br />

dimissioni – Fattispecie di <strong>mobbing</strong> – Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. –<br />

Risarcimento di danno biologico e professionale – Spettanza e liquidazione equitativa.<br />

Il “<strong>mobbing</strong>” (dal verbo inglese “to mob”, attaccare, assalire), designante in etologia il<br />

comportamento di alcune specie di animali, solite circondare minacciosamente un membro del<br />

gruppo per allontanarlo, è riscontrabile nelle aziende quando si versa in presenza di ripetuti soprusi<br />

da parte dei superiori ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il dipendente dall’ambiente di<br />

lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di intaccare gravemente<br />

l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e<br />

provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.<br />

Attualizza il fenomeno del “<strong>mobbing</strong>” l’invito del titolare dell’azienda ad una lavoratrice di<br />

rassegnare le dimissioni – per ritorsione al fatto che il convivente, anch’esso in precedenza<br />

dipendente dell’azienda, si è impiegato in azienda concorrente – invito produttivo e scatenante nella<br />

lavoratrice prolungata sindrome depressiva reattiva, accompagnata, durante la malattia,<br />

dall’assunzione di sostituta a tempo indeterminato nelle di lei mansioni nonché dall’assegnazione<br />

(al rientro dalla malattia) ad incombenze diverse e dequalificate, con il conseguente effetto di<br />

indurne le richieste dimissioni .<br />

L’art. 32 della Costituzione e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c., tutelano tutti indistintamente i<br />

cittadini/lavoratori, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa più<br />

deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere. Sul datore di lavoro, riconosciuto responsabile di<br />

un comportamento afflittivo a carico della lavoratrice, grava pertanto l’obbligo del risarcimento sia<br />

del danno biologico sia di quello da dequalificazione professionale da essa sofferto, liquidabili<br />

congiuntamente ed equitativamente in 10 milioni, più interessi legali e trasmissione degli atti di<br />

causa alla Procura della Repubblica per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso in relazione a<br />

quanto accertato in corso di giudizio (1).<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato in cancelleria il 1° giugno 1999 la sig.ra Stomeo Maria Rosi – già<br />

dipendente della S.p.A. Ziliani dal 25.2.1991 al 30.9.1998, con inquadramento in V categoria,<br />

livello C1, e mansioni impiegatizie – chiede al giudice del lavoro di condannare il datore al<br />

pagamento in proprio favore della somma di L. 30.000.000= o di quella da determinare in corso di<br />

causa, se del caso anche in via equitativa, a titolo di risarcimento del danno alla professionalità e di<br />

danno biologico patiti, oltre accessori di legge.<br />

A fondamento di tale domanda osserva quanto segue :


1. 1. verso metà luglio 1997 viene convocata dal presidente della soc. Ziliani per un colloquio, nel<br />

corso del quale è invitata a rassegnare le proprie dimissioni,<br />

2. 2. la ragione di tale illegittima richiesta è rappresentata dal passaggio ad una società concorrente<br />

della Ziliani del proprio convivente, sig. Luvielmo Gianni, già dipendente di tale ultima società e<br />

dimessosi dalla stessa nel gennaio 1997,<br />

3. 3. tale colloquio la turba così profondamente da cagionarle un grave stato di crisi psicologica,<br />

accompagnato da significativi disturbi fisici, da rendere in pari tempo necessario il ricorso ad un<br />

neurologo e infine da comportare un’assenza per malattia, protrattasi sino all’1.12.1997,<br />

4. 4. nel settembre 1997 e cioè nel periodo della propria assenza dal lavoro, il datore intraprende la<br />

ricerca e selezione di una lavoratrice, poi individuata nella sig.ra Bianciotti Cristina, da utilizzare<br />

come assistente commercio estero e nelle stesse mansioni da lei in antecedenza svolte : contatti e<br />

gestione clienti stranieri, corrispondenza con l’estero, traduzione di normative e cataloghi tecnici,<br />

redazione in lingua straniera di documenti tecnici e non, interprete,<br />

5. 5. alla ripresa del lavoro (1.12.1997) viene trasferita dagli uffici amministrativi al magazzino e<br />

qui adibita a compiti di assistente, decisamente dequalificanti rispetto al livello di professionalità<br />

acquisita e tali da comportare un degrado della propria immagine di fronte ai colleghi di lavoro,<br />

6. 6. in tale nuova veste cessa infatti di fare uso delle lingue straniere conosciute, di intrattenere<br />

relazioni professionali con terzi estraneo all’azienda, di operare con autonomia,<br />

7. 7. il 31.9.1998 decide allora di rassegnare le proprie dimissioni e di intraprendere una nuova<br />

attività lavorativa, al fine di evitare il definitivo ed irreversibile depauperamento della propria<br />

professionalità,<br />

8. 8. solo a distanza di 11 mesi riesce però a reperire una nuova occupazione, non adeguata alla<br />

professionalità conseguita e con un contratto in prova, risoltosi dopo 2 mesi di lavoro,<br />

9. 9. attualmente è ancora alla ricerca di una nuova occupazione, confacente alle proprie capacità<br />

professionali.<br />

Parte convenuta si costituisce in giudizio e contesta la pretesa azionata in causa, ritenendola del<br />

tutto destituita di fondamento.<br />

Osserva in proposito quanto segue :<br />

1. 1. la ricorrente ha operato in azienda in compiti privi di autonomia e, in particolare, quale<br />

segretaria addetta alla corrispondenza, pur effettuando talora la traduzio-ne di alcuni testi e<br />

fungendo saltuariamente da interprete,<br />

2. 2. l’assunzione della sig.ra Cristina Bianciotti è stata determinata dall’esigenza di reclutare un<br />

responsabile delle vendite con l’estero, disposto a frequenti viaggi in paesi stranieri ed in possesso<br />

di elevata qualificazione, oltre che del diploma di laurea,<br />

3. 3. il presidente della soc. Ziliani non ha mai preteso che la ricorrente rassegnasse le dimissioni né<br />

ha mai avuto ragione di pretenderlo, svolgendo il sig. Luvielmo, convivente della ricorrente e già<br />

dipendente della convenuta, compiti di addetto alla sicurezza presso alcuni locali notturni, dopo le<br />

dimissoni dall’azienda,


4. 4. il trasferimento della ricorrente al nuovo incarico è avvenuto nel rispetto delle pregresse<br />

mansioni nonché dell’inquadramento contrattuale di appartenenza (gruppo 1, livello C).<br />

Fallita la conciliazione, il giudice dà corso all’istruttoria, interrogando le parti ed escutendo i testi,<br />

ivi compreso il sig. Luvielmo, non ravvisando il profilo di inammissibilità indicato dalla convenuta<br />

(non essere questi più in azienda dal 28.1.1997) né comunque situazioni di incapacità ex art. 246<br />

c.p.c. (1).<br />

All’esito dell’istruttoria, la causa viene discussa dai patroni delle parti.<br />

In tale sede i difensori della parti ribadiscono l’istanza, già formulata in corso di causa (2), di<br />

consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia lamentata<br />

dalla ricorrente (3).<br />

Dopo la discussione orale, la vertenza viene infine decisa, come da dispositivo trascritto in calce<br />

alla presente sentenza, di cui il giudice dà pronta lettura alle parti.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

1. 1. Sul <strong>mobbing</strong> in azienda.<br />

Prima di addentrarci nell’esame delle questioni specifiche di causa, occorre dare conto – ai sensi del<br />

2° comma dell’art. 115 cpc e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al “fatto notorio”,<br />

“acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in<br />

giudizio”(4) – di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda prospettata in ricorso.<br />

Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro<br />

che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi<br />

sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere<br />

pesantemente sulla salute individuale.<br />

Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come <strong>mobbing</strong>.<br />

Il termine, proveniente dalla lingua inglese e dal verbo to mob [attaccare, assalire] e mediato<br />

dall’etologia, si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare<br />

minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo.<br />

Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi<br />

da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad<br />

isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di<br />

intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la<br />

fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio(5).<br />

Il fenomeno ha ormai assunto, a seguito delle denunce di numerosi esperti di settore (medici,<br />

sociologi ecc.) e delle stesse vittime, proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere,<br />

secondo la stima di un autorevole settimanale francese, in ogni paese europeo, percentuali non<br />

indifferenti di lavoratori (v. oltre, tavola I, - omessa, n.d.r. -).<br />

In base a tale stima, oltre il 4% dell’intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di<br />

pratiche di <strong>mobbing</strong>.


Inoltre, secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro “Luigi Devoto” di<br />

Milano, che al tema del <strong>mobbing</strong> a fine febbraio 1999 ha dedicato un seminario nazionale, ogni<br />

dipendente ha il 25% di possibilità di trovarsi, nel corso della propria esperienza professionale, in<br />

tali condizioni, mentre il 10% dei casi di suicidio presenta come concausa una situazione di<br />

terrorismo psicologico sul posto di lavoro (6).<br />

* * * * *<br />

2. Sulla richiesta di Ctu medico-legale.<br />

Fatta questa doverosa premessa, assolutamente indispensabile al fine di inquadrare correttamente le<br />

problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di relazioni endo-aziendali attualmente<br />

esistenti, i quale conoscono e registrano con una certa frequenza pratiche di violenza morale e di<br />

terrorismo nei posti di lavoro, passiamo ad esaminare il caso oggetto di causa.<br />

In sede di discussione finale della vertenza i difensori delle parti ribadiscono<br />

l’istanza, già formulata in corso di causa, di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia,<br />

natura e gravità della patologia lamentata dalla ricorrente (7).<br />

Ad avviso del giudice non vi è ragione di dare corso all’adempimento richiesto, essendo<br />

l’accertamento peritale, nel caso in esame, del tutto superfluo.<br />

Gli elementi raccolti in sede istruttoria, come si vedrà nel prosieguo, risultano infatti di portata tale<br />

da consentire la definizione di ogni profilo della vertenza, sia per quanto concerne la sussistenza o<br />

meno del fatto lamentato dalla lavoratrice sia per ciò che attiene alla determinazione dell’entità del<br />

danno eventualmente patito, che esige ristoro.<br />

* * * * *<br />

3. Sui fatti di causa.<br />

L’istruttoria esperita in corso di causa ha consentito di accertare quanto segue.<br />

Nel gennaio 1997 il sig. Luvielmo Gianni, convivente della ricorrente e dal 1989 dipendente della<br />

società convenuta, si dimette volontariamente dal servizio e in pari tempo rende noto in azienda che<br />

di lì a poco sarà assunto da altro datore, ma in compiti totalmente diversi da quelli in antecedenza<br />

esplicati presso la soc. Ziliani e cioè attinenti la sicurezza (8).<br />

La circostanza riferita in azienda dal diretto interessato non è però rispondente al vero, in quanto<br />

egli è in trattative con la soc. Aries, concorrente della società convenuta, per un’assunzione con<br />

compiti di un certo rilievo, come in effetti avviene poi in concreto (9). Il sig. Luvielmo è spinto a<br />

tale singolare contegno, e cioè a tenere celato in Ziliani il vero nome del nuovo datore, dall’esigenza<br />

di salvaguardare il lavoro della ricorrente e in particolare il posto fino a quel momento ricoperto<br />

dalla stessa, essendo egli visibilmente preoccupato di possibili ritorsioni datoriali nei confronti della<br />

convivente, correlate alla propria nuova collocazione lavorativa, come del resto avvenuto in<br />

circostanze similari ai danni di altri dipendenti, stando almeno ad alcune voci raccolte in azienda<br />

(10).<br />

Successivamente, nel luglio 1997, la ricorrente viene convocata per un colloquio dal presidente<br />

della soc. Ziliani, il quale la sollecita a rassegnare le dimissioni e le preannuncia che, in difetto, non


potendo più essere mantenuta nell’incarico in antecedenza occupato presso l’amministrativo<br />

centrale, sarebbe stata spostata in altro comparto aziendale (11).<br />

La ragione di tale invito e annuncio è costituita dall’avere il presidente della Ziliani appreso, in<br />

circostanze verosimilmente fortuite (12), che il sig. Luvielmo si è dimesso dal servizio non per<br />

operare nell’ambito della sicurezza, come lasciato intendere, ma per divenire dipendente della soc.<br />

Aries e cioè di una concorrente della convenuta.<br />

Il colloquio con il presidente della soc. Ziliani turba e preoccupa così profondamente la ricorrente,<br />

da mutare nel successivo torno di tempo il corso regolare della sua esistenza.<br />

Dopo tale episodio, infatti, la lavoratrice<br />

Ø Ø deve fare ricorso prima al medico di famiglia e poi, su indicazione e sollecitazione di questo,<br />

ad un neurologo,<br />

Ø Ø presenta uno stato patologico acuto, diagnosticato dal medico di famiglia e dal neurologo come<br />

“sindrome ansioso-depressiva reattiva”, stato accompagnato da labilità emotiva, nervosismo,<br />

insonnia, inappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto,<br />

Ø Ø deve fare ricorso ad una terapia farmacologica costituita da ansiolitici, antidepressivi e<br />

disintossicanti,<br />

Ø Ø deve assentarsi per malattia, in concomitanza con lo sviluppo della fase acuta di tale patologia,<br />

malattia protrattasi sino agli inizi di dicembre 1997.<br />

Di ciò fanno fede, in modo assolutamente convergente, la deposizione del sig. Luvielmo (13)<br />

nonché le dichiarazioni e certificazioni in atti del medico di base (14) e del neurologo (15) che<br />

all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non ha mai sofferto in<br />

antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino all’inizio dell’estate 1997 la sua vita sia in<br />

ambito lavorativo che in ambito familiare è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e<br />

regolare (16).<br />

La situazione patologia sopra descritta si protrae anche nel corso del 1998 e, dopo un primo<br />

significativo miglioramento registratosi nell’ottobre 1998, in concomitanza con la cessazione della<br />

collaborazione lavorativa (17), si risolve definitivamente nel gennaio 1999 o in data anteriore e<br />

prossima a tale data (18).<br />

L’istruttoria esperita in corso di causa ha, in pari tempo, fornito anche due ulteriori risultanze, di<br />

indubbio significato e rilievo ai fini della decisione della causa.<br />

Prima. In data 10.11.1997 (19), mentre la ricorrente si trova in malattia, la convenuta assume altra<br />

dipendente, con contratto a tempo indeterminato ed inquadramento iniziale identico a quello della<br />

ricorrente (livello C, gruppo 1) (20), utilizzata in compiti di assistente al commercio estero e quindi<br />

in mansioni per buona parte già svolte dalla ricorrente medesima, tra cui la gestione dei clienti<br />

stranieri, la corrispondenza con l’estero in lingua francese, inglese, tedesco, spagnolo, la traduzione<br />

di capitolati dal tedesco in italiano, il lavoro di interprete (21).<br />

Seconda. In data 1.12.1997, alla ripresa del lavoro, la ricorrente viene trasferita dagli uffici<br />

amministrativi al magazzino e qui adibita a mansioni meramente esecutive di assistente, consistenti<br />

nell’emissione delle bolle di accompagnamento in uscita, nel controllo degli inventari e nel


caricamento a terminale delle bolle in entrata (22). Cessa in tal modo di fare uso delle lingue<br />

straniere conosciute e di intrattenere relazioni professionali con clienti esteri (23).<br />

Orbene, in base agli accertamenti e alle risultanze di cui si è in antecedenza dato conto, può ritenersi<br />

fornita la prova – innanzi tutto – del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente<br />

nella lavoratrice e l’ambiente di lavoro. Del che deve indubbiamente essere chiamata a rispondere la<br />

società datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., essendo la medesima tenuta a garantire<br />

l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire contegni aggressivi e vessatori<br />

dei responsabili nei confronti di quelli.<br />

Né quanto accaduto alla ricorrente potrebbe ritenersi frutto, nel caso di specie, di un tratto peculiare<br />

del suo carattere e cioè di una particolare emotività della stessa; così da spiegare in base a tale solo<br />

dato quanto accadutole sul piano personale.<br />

Stando infatti alle deposizioni, concordi in punto, del convivente della lavoratrice (24) e di un<br />

collega di lavoro dell’epoca (25), la ricorrente non ha mai manifestato, prima dei fatti di causa,<br />

alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale.<br />

Nel caso in esame non potrebbe conseguentemente prospettarsi – in riferimento alla previsione di<br />

cui ai commi 2° e 3°, dell’art. 41 c.p. e argomentando da essa – un’ipotesi di esclusione del nesso di<br />

causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace da sola di generare l’evento<br />

lesivo.<br />

A ciò aggiungasi che se anche si volesse ammettere per ipotesi che, come vittima dell’altrui<br />

condotta ingiusta, la lavoratrice ha reagito in modo del tutto singolare ed estremo, e cioè con<br />

profondo turbamento, così profondo da generare in lei l’insorgenza di una sindrome depressiva<br />

reattiva, ciò però è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la posizione nella<br />

ricorrente di persona offesa da essa.<br />

La Carta Costituzionale, nel suo art. 32, e la legge ordinaria, nell’art. 2087 c.c., tutelano infatti tutti<br />

indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni o siano viceversa<br />

più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere.<br />

Gli accertamenti e le risultanze di cui si è detto in antecedenza comprovano inoltre che quanto<br />

preannunciato dal presidente della soc. Ziliani, nel corso del colloquio avvenuto nel luglio 1997,<br />

come alternativa punitiva rispetto alle dimissioni sollecitate dalla lavoratrice, si è puntualmente<br />

avverato.<br />

A far tempo dall’1.12.1997, data del rientro della ricorrente in azienda dopo la malattia, e sino al<br />

30.9.1998, data di cessazione della medesima dal servizio, la lavoratrice viene infatti sollevata<br />

dall’incarico precedente esplicato, nel frattempo attribuito ad una neo-assunta, di iniziale pari livello<br />

contrattuale.<br />

La ricorrente viene in pari tempo collocata in un diverso comparto aziendale, senza l’esistenza di<br />

alcuna apprezzabile ragione, del resto neppur dedotta in memoria e provata in causa.<br />

Le vengono infine attribuiti compiti che, benché rientranti astrattamente nell’inquadramento di<br />

appartenenza, come del resto correttamente riconosciuto dalla stessa ricorrente in corso di causa<br />

(26), assumono nella specie valenza del tutto dequalificante, avuto riguardo alla sua storia<br />

lavorativa, alla professionalità acquisita nel corso del tempo e, infine, all’indubbio livello di<br />

autonomia conseguito.


Si tratta di una deminutio assai grave di per se, in quanto costituisce violazione dell’art. 2103 c.c., e<br />

destinata ad assumere un connotato ulteriore di gravità se raccordata (come accennato sopra)<br />

all’episodio e colloquio del luglio 1997.<br />

* * * * *<br />

4. Sul ristoro del danno patito.<br />

Accertata in base a quanto precede la sussistenza di condotte antigiuridiche imputabili a fatto e<br />

colpa della società datrice di lavoro, condotte produttive di danni, nella forma sia del danno<br />

biologico sia di quello da dequalificazione, si tratta a questo punto di determinare il quantum<br />

debeatur.<br />

In proposito va osservato, quanto al danno biologico, che non si versa in ipotesi di invalidità<br />

permanente, essendosi la patologia insorta nella lavoratrice risolta quantomeno nel gennaio 1999<br />

(27), dopo un primo significativo miglioramento già registratosi nell’ottobre 1998, in concomitanza<br />

con la cessazione della collaborazione lavorativa (28). A ciò aggiungasi, quanto al danno da<br />

dequalificazione, che esso risulta temporalmente circoscritto al periodo 1.12.1997-30.9.1998.<br />

Tenuto conto di tali dati, alla ricorrente viene equitativamente liquidato l’importo netto di L.<br />

10.000.000=.<br />

A ciò vanno aggiunti gli interessi legali dall’ottobre 1998 al saldo, essendo gli accessori del credito<br />

in antecedenza maturati, nel periodo compreso dall’insorgenza della patologia accertata in causa<br />

sino alla risoluzione del rapporto, già conteggiati e cumulati nel capitale sopra liquidato.<br />

Le spese di lite, menzionate nel loro esatto ammontare in dispositivo, vengono poste a carico della<br />

parte soccombente.<br />

Si ritiene doveroso informare di quanto in antecedenza accertato il Procuratore della Repubblica<br />

presso il Tribunale di Torino, per le valutazioni che al medesimo competono. A tal fine la<br />

Cancelleria dovrà trasmettere copia della presente sentenza a tale organo.<br />

P. Q. M.<br />

Visto l’art. 429 c.p.c.;<br />

- respinta la richiesta di CTU medico-legale;<br />

1. 1. CONDANNA parte convenuta a corrispondere a parte ricorrente l’importo netto di L.<br />

10.000.000=, oltre interessi legali dall’ottobre 1998 al saldo;<br />

2. 2. CONDANNA parte convenuta a rifondere a parte ricorrente le spese di lite, che liquida in L.<br />

6.000.000=, oltre IVA e CPA;<br />

3. 3. DICHIARA esecutiva la presente sentenza.<br />

Torino, 11 dicembre 1999.<br />

Note del Giudice estensore


1. 1. Cfr. proc. verb. p. 1.<br />

2. 2. 2. Cfr. proc. verb. p. 17.<br />

3. Cfr. proc. verb. p. 26.<br />

4 4 E’ questa la definizione del “fatto notorio” che ricorre in numerose decisioni del Supremo<br />

Collegio. Vedi, da ultimo, Cass., 28.3.1997, n. 2808.<br />

5 5 Cfr. Il <strong>mobbing</strong> in Italia, Bologna, Pitagora Editrice, 1997, p. 31 e ss.; La violenza sul lavoro, in<br />

“Rassegna sindacale”, 20.10.1998, Supplemento; Molestie morali e La fabbrica dei mostri, in “Il<br />

venerdì di Repubblica”, 19.2.1999, p. 11; Come soffre! E’ un caso di ordinario <strong>mobbing</strong>, in<br />

“L’Espresso”, 25.2.1999; Terrore nel posto di lavoro, in “Rassegna sindacale”, n. 9 23.3.1999.<br />

6. Cfr. Come soffre! E’ un caso di ordinario <strong>mobbing</strong>, cit., p. 167.<br />

7. 7. Cfr. proc. verb. pp. 17 e 26.<br />

8. 8. Cfr. dep. Luvielmo, p. 12; dep. Dutto, p. 9; memoria, p. 4.<br />

9. 9. Cfr. dep. Luvielmo, p. 12.<br />

10. 10. Cfr. dep. Luvielmo, pp. 12-13.<br />

11. 11. Cfr. dep. Luvielmo, pp. 13-14. Ma v. anche interr. rappr. soc. convenuta, p. 7, ove si<br />

riconosce che il colloquio del luglio 1997 tra la ricorrente ed il presidente della soc. Ziliani ha avuto<br />

ad oggetto il preannuncio di una diversa collocazione della lavoratrice in seno all’azienda e che in<br />

tale occasione il sig. Ziliani ha effettivamente parlato del convivente della lavoratrice : dati, questi,<br />

di indubbio rilievo e che confermano indirettamente la veridicità in punto della deposizione resa in<br />

giudizio dal sig. Luvielmo.<br />

12. 12. Cfr. dep. Luvielmo, p. 13; dep. Dutto, p. 9.<br />

13. 13. Cfr. proc. verb., p. 14.<br />

14. 14. Cfr. dep. dott.ssa Mondazzi, p.19 e ss., nonché cartella clinica redatta della medesima e<br />

acquisita al fascicolo d’ufficio all’udienza del 2.10.1999 (v. proc. verb., p. 19), in cui viene attestata<br />

l’esistenza di una “sindrome ansioso depressiva” a partire dal 19.8.1997.<br />

15. 15. Cfr. dep. dott. Amarù, p. 22 e ss., nonché certificato redatto dal medesimo in data 26.9.1997<br />

(v. doc. n. 5 prod. parte ricorrente), in cui si attesta l’esistenza di una “sindrome depressiva<br />

reattiva”.<br />

16. 16. Cfr. in particolare dep. Luvielmo, p. 14; dep. Dutto, p. 10/11.<br />

17. 17. Cfr. dep. Luvielmo p. 14.<br />

18. 18. Cfr. dep. dott.ssa Mondazzi, p. 19, e annotazioni sulla cartella clinica dalla medesima redatta<br />

sub 19.12.1997 (ove si evidenzia il perdurare di una “sindrome depressiva reattiva con insonnia” e<br />

si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998) e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun cenno alla<br />

pregressa patologia).


19. 19. Cfr. copia libro matricola, acquisita all’udienza dell’11.10.1999 (v. proc. verb., p. 24/25).<br />

20. 20. Così dep. Gay, p. 17.<br />

21. 21. Cfr. dep. Dutto, p. 9; interr. rappr. soc. convenuta, p. 7; dep. Gay, pp. 15 e 16.<br />

22. 22. Cfr. interr. ricorrente, p. 3, incontestato in punto; dep. Luvielmo, p. 12.<br />

23. 23. Cfr. dep. Gay, p. 16, da cui si evidenzia che, dopo il suo trasferimento in magazzino, la<br />

ricorrente ha fatto un uso del tutto episodico della lingua straniera e cioè nei brevi colloqui con gli<br />

autisti stranieri, colloqui del resto che già svolgeva in antecedenza, allorché operava nel settore<br />

amministrativo.<br />

24. 24. Cfr. dep. Luvielmo, p. 14.<br />

25. 25. Cfr. dep. Dutto, p. 10/11.<br />

26. 26. Cfr. proc. verb., p. 17.<br />

27. 27. Cfr. dep. dott.ssa Mondazzi, p. 19, e annotazioni della cartella clinica dalla medesima<br />

redatta sub 19.12.1997 (ove si evidenzia il perdurare di una “sindrome depressiva reattiva con<br />

insonnia” e si formula prognosi di malattia sino al 5.1.1998) e sub. 18.1.1999 (ove non si fa alcun<br />

cenno alla pregressa patologia).<br />

28. 28. Cfr. dep. Luvielmo p. 14.<br />

Tribunale di Torino<br />

Sentenza n. 5050/1999 del 16 novembre 1999<br />

Estensore dott. Vincenzo Ciocchetti<br />

Erriquez contro Ergom Materie Plastiche S.p.A.<br />

Risarcibile il danno psichico da <strong>mobbing</strong> alla lavoratrice dimessasi perché lasciata ad operare in<br />

locali angusti, in condizione di isolamento ed esposta a continui maltrattamenti dal capoturno<br />

Tribunale Milano 26 aprile 2000 - Est. Atanasio - Taviani (avv. Failla e Pomares) c. RAI<br />

Radiotelevisione Italiana Spa (avv. Tosi e Uberti).<br />

Totale inoperosità del dipendente - Illegittima dequalificazíone - Danni alla professionalità e<br />

all'identità professionale - Sussistenza - Risarcimento del danno - Oneri probatori - Contenuto.<br />

Dequalificazione - Determinazione del danno - Criteri.<br />

Costituisce illegittima dequalificazione la sottrazione di tutte le mansioni attribuire al dipendente,<br />

tale da determinarne la totale inoperosità; tale demansionamento lede la professionalità del<br />

lavoratore, intesa sia come insieme delle competenze professionali acquisite, sia come identità<br />

professionale del lavoratore percepita all'esterno della società civile, e cagiona un danno che può<br />

essere accertato anche sulla base di presunzioni semplici. Il danno da dequalificazione professionale<br />

- suscettibile di valutazione equitativa da parte del giudice - è determinabile in una quota della


etribuzione mensile; tuttavia, in ipotesi di totale e durevole svuotamento delle mansioni, il danno è<br />

da commisurare all’intera retribuzione.<br />

(... ) Con ricorso depositato in data 14/6/99 Taviani Giovanni conveniva in giudizio la Rai<br />

deducendo di essere stato nominato dirigente nel '78, quale procuratore responsabile del Supporto<br />

gestionale del Centro di Produzione di Milano e inquadrato in IV fascia dirigenti e di essere stato<br />

allora via via assegnato a incarichi di elevata responsabilità: quello di responsabile delle riprese TV,<br />

con inquadramento nella III fascia dirigente nel '87 e, contestualmente, quello di responsabile, in via<br />

interinale, anche delle riprese interne, incarico questo di IV fascia dirigenziale; e, nel settembre '91,<br />

sempre in via interinale, anche quello di responsabile delle riprese esterne, inquadrabile nella IV<br />

fascia dirigenziale.<br />

Lamentava che, però, a far tempo dall'aprile '94 era «stato oggetto di chiaro disegno emarginativo<br />

evidentemente atto a provocare l'allontanamento dalla società».<br />

Concludeva pertanto chiedendo al Giudice di dichiarare l'illegittimità della condotta tenuta dalla<br />

convenuta e di condannare la Rai a ricostruire la carriera del ricorrente inquadrandolo nel livello<br />

equivalente alla II fascia dirigenziale a partire dall'aprile '94 e quindi in quella di I fascia a far data<br />

dal novembre '98, a corrispondergli le relative differenze retributive nonché ad assegnargli mansioni<br />

equivalenti all'inquadramento predetto condannando la società, in caso contrario, a pagargli una<br />

penale di L. 20 milioni mensili; chiedeva altresì di dichiarare l'illegittimità del demansionamento<br />

subito a far data dall'aprile '94 condannando la società a risarcirgli il danno patrimoniale e non, alla<br />

salute, all'immagine e alla dignità professionale, quantificati in misura non inferiore a tutte le<br />

retribuzioni percepite dall'aprile '94 all'attualità quantificati in L.1.110.147.000 oltre le successive<br />

maggior somme maturate alla data di pronuncia alla sentenza; con vittoria di spese.<br />

Si costituiva la parte resistente contestando le avverse deduzioni e domande delle quali chiedeva il<br />

rigetto con vittoria di spese.<br />

All'udienza in discussione, i procuratori delle parti concludevano come in atti e il giudice decideva<br />

come da separato dispositivo, conforme a quello trascritto in calce al presente atto, di cui dava<br />

lettura.<br />

Motivi della decisione<br />

A) 1 ) La domanda avente a oggetto l'accertamento dei subito demansionamento è fondata.<br />

Del contenuto delle mansioni svolte dal Taviani prima che subisse il demansionamento ha riferito il<br />

teste Panfili, direttore del Centro di Produzione di Milano dall'aprile'94 al'98, il quale ha ricordato:<br />

« In quel periodo il Taviani è stato responsabile del gestionale dei Centro di produzione e<br />

successivamente è stato nominato responsabile delle Riprese TV.. Quale responsabile del Centro di<br />

produzione la cosa più importante era la gestione del personale del Centro; in sostanza era per così<br />

dire il capo del personale del Centro di produzione che aveva all'epoca circa 1000 dipendenti. C'era<br />

una gestione amministrativa e una valutativa: la prima riguardava proprio la gestione dei singoli<br />

eventi dei rapporto di lavoro dalla malattia alle ferie; l'altra riguardava invece la valutazione per<br />

promozioni o invece per procedimenti disciplinari. Per quanto riguarda l'aspetto delle valutazioni il<br />

Centro di produzione presentava delle proposte a noi della Sede e noi dopo avere formalizzato la<br />

proposta la presentavamo alla Direzione dei personale per l'assenso. Ciò anche per quanto riguarda<br />

le assunzioni. Poi il Centro di produzione e il Taviani avevano le proprie competenze per quanto<br />

riguardava gli aspetti commerciali, vale a dire degli acquisti dei beni necessari per la produzione;


ebbene sotto questo aspetto il Centro godeva di maggiore autonomia aspetto alla Direzione<br />

commerciale in quanto poteva scegliere i fornitori, contrattare il prezzo e stipulare il contratto... In<br />

qualità di responsabile delle Riprese TV sia esterne che interne il Taviani si occupava di gestire,<br />

organizzare e utilizzare il personale per la creazione del prodotto; pertanto doveva occuparsi anche<br />

dell'ottimizzazione delle risorse al fine della produzione».<br />

Lo stesso teste Panfili ha poi chiarito come a far data dall'aprile 1994 al Taviani non fu praticamente<br />

assegnato alcun compito, spiegando anche le ragioni di tale demansionamento al quale lo stesso<br />

PanFili non avrebbe potuto porre rimedio; ha ricordato il teste:<br />

« Nel '94 quando tornai da Torino la Sede fu cancellata. Fu in sostanza abolita la duplicazione del<br />

commerciale e del personale che prima esisteva tra la Sede e gestionale di produzione. Il Centro di<br />

Produzione divenne un vero e proprio stabilimento di produzione e presso di esso furono accentrate<br />

in pratica le funzioni prima distribuire tra Centro di produzione e sede... Io divenni il responsabile<br />

Centro di produzione di Milano. Il Taviani fu nominata mio assistente. Non potè però occupare<br />

posizioni di linea vale a dire occupare funzioni la cui nomina spetta solo ai CdA (su proposta dei<br />

Direttore Generale) o a quest'ultimo direttamente. Taviani con me non ha praticamente lavorato.<br />

Avrei dovuto creare attività esterne al centro di produzione per potere occupare il ricorrente, posto<br />

che quelle inerenti al Centro erano già tutte occupate da determinati altri collaboratori. Sono rimasto<br />

a Milano in qualità di responsabile dei Centro di produzione fino al settembre dei '98, la posizione<br />

del Taviani è rimasta invariata fino a quella data. Il ricorrente non espletava funzioni di<br />

Vicedirettore perché questa è una funzione di line che era già coperta. Successivamente invece il<br />

Vicedirettore non c'era più. Comunque non poteva il Taviani espleta re tale tipo di l'unzione. Il<br />

Taviani si è lamento di tale situazione anche parlandone direttamente a me. Il Direttore Generale<br />

aveva creato una gerarchia corta nel senso che si era passati da 32 a 7 dirigenti nell'ambito dello<br />

stabilimento di Milano. Quindi non avevo spazio per dare al Taviani funzioni se non trovandole tra<br />

quelle non essenziali alla produzione. Avrei certo potuto dargli dei singoli compiti, ma non l'ho<br />

fatto. Per esempio avrei potuto affidargli incarichi di pubbliche relazioni se fossi stato a Torino o<br />

Napoli dove questi vengono gestiti direttamente dal Centro di Produzione; non potevo farlo a<br />

Milano in quanto quella funzione dipendeva direttamente dalla Direzione. Esisteva già un dirigente<br />

responsabile delle Pubbliche relazioni che aveva una sua struttura e poi c'era un delegato del<br />

Direttore Generale senza struttura per i rapporti con l'esterno; quindi se anche avessi affidato al<br />

Taviani singoli compiti dei genere avrei interferito in qualche modo con questi soggetti, e pertanto<br />

non l'ho fatto».<br />

Il teste Panfili ha poi ricordato di essersi attivato presso la Direzione per la risoluzione del problema<br />

del Taviani, senza successo però: «Io dipendevo dalla Direzione della Produzione; mi sono attivato<br />

presso questa per risolvere il problema del Taviani; le risposte erano positive («vedremo, faremo»)<br />

ma poi il tempo passava e non succedeva niente; ciò peraltro stranamente perché di solito persone in<br />

qualche modo accantonate dopo certi periodi in Rai vengono ripescate per certi compiti, e invece<br />

con il Taviani ciò non è accaduto».<br />

La situazione dei Taviani non è affatto mutata quando al Panfili è successo quale direttore dei<br />

Centro di Produzione di Milano il Binacchi, il quale ha ricordato:<br />

« Quando sono arrivato a Milano anche a seguito della riorganizzazione della Rai, la Sede di<br />

Milano ha visto ridotte le posizioni di line del Centro di Produzione che sono passate da una diecina<br />

a quattro. Ho pertanto riesaminato le posizioni dei dirigenti presenti a Milano e ho proposto - anche<br />

a seguito di colloqui avuti con lo stesso Taviani - di assegnare a quest'ultimo una posizione di staff,<br />

in quanto la Direzione Centrale non intendeva assegnare al Taviani posizioni di line. Chiarisco che<br />

io non ho concordato con Taviani la nuova mansione; ho parlato con Roma che mi ha detto


«prendilo come assistente, inventati una posizione». Dopo di che ho proposto a Roma la soluzione<br />

che ho detto. In sostanza al Taviani dal febbraio'99 è stata assegnata la qualifica di assistente del<br />

Direttore in rapporto con la Direzione Centrale per l'organizzazione dei Grandi eventi quali Giro<br />

d'Italia, Sanremo, Salsoinaggiore ecc.; in tutti quei casi nei quali venga direttamente interessato il<br />

Centro di Produzione di Milano».<br />

In effetti il Binacchi, ha preso in parola la Direzione inventandosi una posizione per il collega senza<br />

che la stessa avesse alcuna reale consistenza sotto l'aspetto dei compiti che il ricorrente avrebbe<br />

dovuto svolgere.<br />

Ha infatti ricordato ancora il Binacchi:<br />

« Il ricorrente nella sua qualità di assistente del direttore deve occuparsi di pianificare le attività in<br />

particolare ponendo cura a ottenere un'ottimizzazione delle risorse anche sotto l'aspetto del budget<br />

impiegato in ognuno di quegli eventi. In tale veste il ricorrente non interviene direttamente sulla<br />

struttura verticale ma riferisce a me e al responsabile nazionale della struttura Grandi Eventi De<br />

Lella... E' vero che Taviani più volte si è lamentato di tale posizione chiedendomi - con riferimento<br />

alle riunioni stesse: «che ci vado a fare?»... E' evidente che Taviani non è essenziale<br />

all'organizzazione del Grande Evento che viene ugualmente organizzato anche senza la sua<br />

presenza; però è vero che la sua partecipazione può consentire di risparmiare sull'utilizzo di una<br />

troupe o di un tecnico e comunque nell'utilizzazione delle risorse».<br />

Tuttavia è evidente che il ricorrente rispetto ai Grandi Eventi era ed è del tutto esterno<br />

all'organizzazione e non in grado di intervenire al fine di incidere realmente sull'organizzazione<br />

stessa, potendosi al più limitarsi a fornire consigli al Direttore di Produzione.<br />

Sull'organizzazione Grandi Eventi il teste Scatena ha chiarito:<br />

« Io ho i] compito dì produrli quei Grandi Eventi. Il responsabile dell'organizzazione dei Grandi<br />

Eventi è De Lella. Il Taviani è l'interfaccia di Di Lella a Milano. Nell'ambito dell'organizzazione di<br />

un grande evento bisogna distinguere la fase organizzativa ideativa da quella più strettamente<br />

produttiva. E' nella prima fase che si decidono i mezzi, le strutture (a esempio telecamere, bus da<br />

utilizzare); è evidente che ciò implica l'utilizzazione maggiore o minore di risorse. A quella fase<br />

iniziale organizzativa partecipiamo ovviamente De Lella, io e il committente cioè la redazione<br />

sportiva. Il Taviani credo di ricordare che abbia partecipato a un paio di quelle riunioni. Nella fase<br />

dell'impostazione la decisione delle strutture da utilizzare per la realizzazione di un evento sono<br />

assunte collettivamente e comunque competono sia alla Direzione di produzione (di cui facciamo<br />

parte sia De Lella sia io) che alla Divisione editoriale. Alla fine della fase di organizzazione vi è una<br />

riunione di produzione che definisce nello specifico tutto ciò di cui c'è bisogno per la produzione<br />

dell'evento. Non so dire se Taviani a queste ultime fosse presente o meno; io di solito non ci sono<br />

perché vi è uno staff molta affiatato che se ne occupa».<br />

Da ciò si ricava che i margini di intervento del Taviani in una simile struttura già organizzata erano<br />

e sono pressocché nulli. Ma chiarisce poi l'impegno che comportava l'incarico del Taviani il numero<br />

di Grandi Eventi organizzato in Milano; su tale aspetto i testi Binacchi «Da febbraio a oggi i Grandi<br />

Eventi che hanno interessato Milano sono stati il Giro d'Italia, Miss Italia che è stata organizzata da<br />

noi, La Mostra del Cinema di Venezia che abbiamo organizzato insieme al centro di Produzione di<br />

Venezia, i Mondiali di ciclismo tra Verona e Treviso» e Scatena «I Grandi Eventi sono<br />

essenzialmente quelli sportivi (Giro d'Italia, Formula Uno - San Marino e Monza - Mondiali di<br />

Ciclismo). Non fa parte dei Grandi Eventi Salsomaggiore - Miss Italia che è ne stata esclusa; i<br />

Mondiali di sci sono classificati tra i Grandi Eventi ma poiché partecipiamo solo per le riprese TV e


non per l'organizzazione allora ci limitiamo a mandare i tecnici per le riprese. Pavarotti and Friends<br />

non è un Grande Evento. A volte la produzione è totalmente nostra a volte la facciamo con la<br />

Pavarotti Intemational» si sono trovati in qualche modo divisi.<br />

Tuttavia proprio in considerazione della concreta organizzazione di cui si occupa il teste Scatena si<br />

ritiene di dovere dare maggiore credito alle dichiarazioni di quest'ultimo.<br />

Sicché se si considera poi che «all'incirca occorrono un paio di riunioni per ogni grande evento»<br />

(cfr. teste Scatena), si deve giungere alla conclusione che per lo svolgimento del proprio compito da<br />

parte del ricorrente sarebbe sufficiente la partecipazione a circa otto riunioni l'anno, senza peraltro<br />

che lo stesso sia in grado di incidere concretamente sull'organizzazione dell'evento se non fornendo<br />

qualche consiglio al Direttore di produzione<br />

Sicché, a fronte di tale accertamento, la considerazione del teste Binacchi «Taviani non ha dato<br />

alcun contributo né scritto - sotto forma di relazioni - né orale per l'organizzazione Grandi Eventi,<br />

però ben avrebbe potuto farlo anche con la sola presenza alle riunioni nelle quali veniva convocato<br />

utilizzando la professionalità acquista sul campo in tutti gli anni passati» suona come un'ulteriore<br />

ingiusta umiliazione data al ricorrente per ciò che non è stato posto in grado di realizzare anche e<br />

soprattutto a causa di tutti coloro che - Binacchi compreso - hanno assistito alla consumazione,<br />

all’emarginazione professionale e umana di un dirigente che aveva occupato posizioni assolute di<br />

vertice nell'ambito della Rai di Milano.<br />

La società va pertanto condannata a reintegrare immediatamente il Taviani nelle pregresse mansioni<br />

o in altre equivalenti.<br />

2) Dal fatto che il ricorrente è stato lasciato dei tutto inoperoso per circa sei anni è certamente<br />

scaturito un gravissimo danno che va risarcito.<br />

Com'è noto, secondo la giurisprudenza di merito, condivisa da questo giudice, il demansionamento<br />

è causa di una lesione dell'immagine professionale del lavoratore «certamente derivante dalla<br />

prevalente sostanziale inoperosità e dalla sorta di isolamento cui è stata costretta» non invece della<br />

professionalità («conoscenze professionali acquisite») acquisita quando il demansionamento si sia<br />

limitato a un periodo di circa sei mesi (cfr. Pret. Milano 31/7/97); è causa di «un danno alla<br />

professionalità globalmente inteso anche con riguardo all'immagine professionale» pur se il<br />

demansionamento si sia limitato a un periodo di soli due mesi (cfr. Pret. Milano 7/1/97); è causa di<br />

«danni alla personalità e alla professionalità» in considerazione della totale inoperosità per un<br />

periodo di due anni, ma anche di «un danno in sé alla vita di relazione, alla propria dignità di<br />

lavoratore» ma non anche di danno alla professionalità, in considerazione della prossimità dei<br />

lavoratore alla pensione (cfr. Pret. Milano 11/3/1996); è causa di «danno alla dignità e alla<br />

personalità del dipendente» in considerazione dell'alto livello professionale occupato dal dirigente e<br />

dal fatto che esso costituiva lo «sbocco naturale di una lunga carriera mirata alla crescita delle<br />

funzioni decisionali e di direzione in ambiti sempre píù estesi di attività della banca»; è altresì causa<br />

di danno all'identità professionale e all'immagine che egli offre nella società civile (cfr. Pret. Milano<br />

9/12/1997); è causa di «pregiudizio non solo per la dignità ma anche per il bagaglio professionale<br />

mortificato e svilito» (cfr. Pret. Milano 19/2/99).<br />

Chi scrive e la giurisprudenza in genere tendono a riconoscere che il danno alla professionalità e<br />

all'identità personale si possa accertare sulla base di presunzioni semplici (al senso cfr. anche<br />

Trib. Milano 30/11/96); sicché non si richiedono particolari accertamenti se non l'uso di nozioni, di<br />

comune esperienza (concludendo per l'esclusione della sussistenza di un dann o nel caso del<br />

lavoratore ormai al limite della pensione o in considerazione della breve durata del


demansionamento o in occasione di svolgimento di mansioni di basso profilo (in tal senso cfr. anche<br />

Pret. Milano 28/3/97).<br />

Va registrato che sostanzialmente anche il Giudice di II grado in particolare del già Tribunale di<br />

Milano si pone sulla stessa posizione (cfr. Trib. Milano 6/7/96 e 30/5/97) affermando la lesione<br />

della professionalità a causa del patito demansionamento. Sentenze più rigorose con riferimento<br />

all'accertamento della sussistenza del danno da demansionamento - così ad es. Trib. Milano 9/11/96<br />

- dopo avere affermato che il danno da dequalificazione «ove non coinvolga profili ulteriori come il<br />

danno alla salute o il danno morale vada considerato sub specie del danno patrimoniale» e che<br />

«questo comporta che vadano provati e l'esistenza e l'entità dei danno stesso e il collegamento<br />

causale con la condotta», nega la sussistenza di un danno nel caso esaminato per la relativamente<br />

breve durata dei demansionamento, circa un anno, concludendo però per il riconoscimento di un<br />

danno all'immagine dei dipendente che come tale ha un'incidenza in ogni caso sul mercato dei<br />

lavoro.<br />

Bene, chi scrive ritiene che nella fattispecie di demansionamento che ci occupa proprio in<br />

considerazione della sua lunga durata, sei anni, e della circostanza che ha visto quale soggetto<br />

passivo uno dei massimi vertici della Rai di Milano rimasto del tutto privo di mansioni dopo avere<br />

avuto per lunghi anni alle proprie dipendenze fino a 1000 dipendenti - devono ritenersi sussistenti<br />

gravi, precisi e concordanti presunzioni dell'avvenuta consumazione di un danno alla professionalità<br />

e all'identità professionale del Taviani.<br />

Questo viene solitamente individuato in una percentuale variabile della retribuzione mensile<br />

(cfr. Cass. 10/4/96 n. 3341 la quale ha ritenuto la congruità di tale criterio di liquidazione del danno)<br />

anche se vi è grande diversità di opinioni in ordine alla misura di quella percentuale: e cosi v'è<br />

chi lo individua nel circa 100% della retribuzione percepita (cfr. Pret. Milano 7/1/97), nel 50%<br />

(cfr. Pret. Milano 31/7/97 e 14/2/96), nel 40% (cfr. Pret. Milano 22/8/96), nel 30% (cfr. Trib. Roma<br />

12/10/98), nel 15% (cfr. Trib. Milano 9/11/96), in un terzo della retribuzione (cfr. Trib. Milano<br />

30/11/96); c'è infine chi ritiene poi che la perdita del valore della professionalità aumenti col<br />

passare del tempo di esposizione al demansionamento (cfr. Pret. Milano 9/12/97) che l'ha fissato in<br />

1/4 della retribuzione per i primi 4 mesi , in 1/3 per i successivi 5 mesi, nel 50% per i successivi sei,<br />

in 2/3 nei successivi tre e infine nel 100% da quella data in poi).<br />

Tuttavia ritiene chi scrive che la durata del demansionamento e la totale inoperosità alla quale è<br />

stato costretto il Taviani possano essere adeguatamente risarciti solo con una quantificazione del<br />

risarcimento equivalente alla misura della retribuzione percepita nel periodo in considerazione, già<br />

comprensiva della rivalutazione e degli interessi, così equitativamente determinata.<br />

La società convenuta va pertanto condannata a risarcire al Taviani il danno professionale<br />

conseguente il patito demansionamento che si determina in via equitativa nella misura dei 100%<br />

della retribuzione mensile percepita dal Taviani, pari - per il periodo compreso tra il 1/4/94 e<br />

l'attualità - a lorde £. 1.290.147.000 (unmiliardoduecentonovantamilacentoquarantasettemila). Su<br />

tale somma vanno poi conteggiati interessi e rivalutazione monetaria dalla sentenza al saldo.<br />

B) Deve invece essere rigettata l'altra domanda in considerazione della genericità delle deduzioni e<br />

dell'incerto esito dell' istruttoria.<br />

In considerazione della parziale reciproca soccombenza, compensato un 1/5 delle spese di lite, la<br />

società convenuta va condannata a rimborsare al ricorrente gli altri 4/5 delle spese che si<br />

determinano in L. 18.000.000 di cui L. 100.000 per spese, 3.400.000 per diritti e L. 14.500.000 per<br />

onorari.


Sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.<br />

P.Q.M.<br />

dichiara che il ricorrente ha subito un demansionamento a far tempo dal 1/4/94; condanna la società<br />

convenuta a reintegrare il ricorrente nelle pregresse mansioni o in altre equivalenti; condanna la<br />

società convenuta a risarcire al Taviani il danno professionale conseguente al patito<br />

demansionamento che si determina in via equitativa nella misura del 100% della retribuzione<br />

mensile percepita dal Taviani, pari - per il periodo compreso tra il 1/4/94 e l'attualità - a lorde<br />

£.1.290.147.000 oltre interessi e rivalutazione monetaria; rigetta le altre domande (…)<br />

(già pubblicata in D&L, Rivista critica di diritto del lavoro, 2000, 750 con nota di Pavone)<br />

Tribunale di Milano, Sezione Lavoro - primo grado - sentenza depositata il 16.3.2001<br />

Risarcimento danni al dirigente estromesso<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato in data 11.10.99 il ricorrente in epigrafe, premesso: dì essere stato assunto<br />

dalla ……………, con la qualifica di dirigente e mansioni di direttore amministrativo e finanziario<br />

in data 1.3.82; dì essere stato nominato nel 1985 direttore generale e consigliere delegato, nonché<br />

membro del Comitato di Presidenza della società, istituita nel 1993; che con contratto del 4.2.99. la<br />

………. aveva acquistato la totalità delle azioni della ….., della quale aveva assunto la presidenza il<br />

Sig………, previo rinnovo del Consiglio di Amministrazione, che aveva affidato allo stesso la<br />

carica di amministratore delegato; che nel contratto di acquisto della ……. la…………. aveva preso<br />

atto del trattamento speciale goduto dal ricorrente; che a seguito del trasferimento di proprietà aveva<br />

dovuto subire una serie di accadimenti lesivi della sua posizione di direttore generale che lo<br />

avevano costretto ad adire la via giudiziaria per ottenere la reintegra nelle mansioni; che nelle more<br />

del giudizio d'urgenza con lettera 2.6.99 gli era stata contestata l'installazione nel suo ufficio di una<br />

microtelecamera;. che con lettera del 14..6.99, a seguito dell'addebito contestatogli, gli era stata<br />

intimato il licenziamento per giusta causa; tanto premesso adiva questo gíudice del lavoro per<br />

sentire dichiarare nullo il licenzìamento ex art.3 L.n.108/90 [1] e conseguente reintegrazione, in via<br />

subordinata sentire dichiarare il licenziamento privo di giusta causa e condannare parte convenuta a<br />

corrispondere l'importo di Lit.703.580.480 per preavvìso e Lit.1.200.939.080 per indennità<br />

supplementare ex art. 19 c.c.n.l. [2], oltre al risarcimento del danno per il licenziamento ingiurioso e<br />

quello conseguente al demansionamento delle funzioni di direttore generale.Si costituiva il<br />

convenuto chiedendo il rigetto della domanda e contestando la quantificazione delle pretese<br />

azjonate.La causa all'esito del giudizio veniva dìscussa e decisa con lettura del dispositivo in<br />

udienza.MOTIVI DELLA DECISIONELa domanda attrice è fondata nei limiti che verranno<br />

evidenziati nella motivazione.Invero, le domande attrici riguardano l'accertamento di un periodo di<br />

dequalificazione a partire dal febbraio 99 e della legittimità del successivo recesso intimato per<br />

giusta causa.Con riferimento alla prima domanda va osservato che con l'acquisto da parte della<br />

…………… della totalità delle azioni della ……… la posizione del ricorrente di Direttore<br />

Generale, che comportava la responsabilità della funzione di pianificazione, programmazione e<br />

controllo, è venuta sostanzialmente meno e di fatto è stata assunta integralmente dal Sig……,<br />

presidente e amministratore delegato della società, privo però dì incarichi direttivi-operativi.Sul<br />

punto le risultanze testimoniali sono risultate concordanti: i testi hanno, infatti, confermato che:a)<br />

tutte le pratiche che in precedenza dovevano essere sottoposte alla firma del ricorrente a partire<br />

dalla surrichiamata cessione delle quote dovevano passare per la Presidenza (vedi deposizione del


Sig…..);b) le richieste di incontri sindacali, contrariarnente a quanto avveniva in precedenza,<br />

venivano direttamente rivolte al Sig…. e la partecipazione agli stessi gli era stata preclusa (vedi<br />

deposizione del Sig……….; vedi doc.10 di parte ricorrente);c) i dirigenti (amministrazionefinanziaria-commerciale-personale)<br />

che si rivolgevano al ricorrente hanno poi dovuto rivolgersi al<br />

Sig……, per tutte le problematiche relative ai vari settori, anche per questionì di minima<br />

importanza (vedi deposizione dei Sig.ri ………..);d) incarichi, quale quello della compilazione dei<br />

budget, in precedenza dì competenza del ricorrente sono stati poi affidati direttamente ad un<br />

dirigente, scavalcando il ricorrente (vedi deposizione del Sig……; vedi delibera del consiglio doc.8<br />

di parte ricorrente);e) su questioni finanziarie, rientranti nelle competenze del ricorrente, il Sig……<br />

ha censurato direttamente il comportamento di un dirigente, scavalcando il ricorrente e ha preso<br />

decisioni operative senza consultarlo (vedi deposizione del Sig…….; vedi documento n.9 all. b di<br />

parte ricorrente);f) il ricorrente, pur continuando a rivestire la carica di direttore generale, era<br />

rimasto sostanzialmente senza compiti operativi e a lungo inattivo (vedi deposizione del<br />

Sig……..);.g) il coinvolgimento nella gestione di fatto veniva ammesso dallo stesso Sig…….., pur<br />

giustificandolo con la necessità di avere informazioni sulle "ripercussioni gestionali delle sue<br />

decisioni' (vedi lettera 21.4.99. doc.n.20 di parte ricorrente).Orbene la progressiva emarginazione<br />

dalla vita aziendale è stata immediatamente denuncìata, corne emerge anche dallo scambio<br />

epistolare intervenuto; il ricorrente denunciava sin dall’inizio come tutta la struttura societaria<br />

rispondeva di fatto solo al presidente (vedi lettera del 21.4..99 e del 18.5.99 – documento allegato<br />

n.21 di parte ricorrente); lo scambio epistolare tra le parti è stato però un dialogo tra sordi, la nuova<br />

proprietà non ha dato rassicurazioni concrete, dal tenore delle risposte si evidenzia in sostanza il<br />

ruolo attivo e decisorio del Sig…….,che appare incontrastato e quindi in contraddizione con<br />

l'incarico, rnai venuto meno ed anzi ribadito dalla nuova proprietà, di "direttore generale" del<br />

ricorrente, incarico che rappresenta il ruolo direttivo- operativo più elevato all'interno della<br />

società.La convenuta, invero, ha parlato di "disimpegno" da parte del ricorrente e cita a conferma la<br />

lettera del Sig……. del 20.4.99., tale lettera in realtà nulla prova e comunque la risposta del 21.4.99<br />

da parte dei ricorrente è puntuale, da le informazioni richieste dopo aver ribadito che la conoscenza<br />

della realtà aziendale da parte della nuova proprietà non includeva necessariamente il suo<br />

esautoramento.Orbene, è indubbio che un cambio ai vertici societari può comportare un certo<br />

disorientamento organizzativo intemo, un. assestamento può essere considerato sicuramente<br />

fisiologico, ma tale evento non può certo comportare anche un significatìvo e drastico svuotamento<br />

delle mansioni fino allora svolte in qualità dì Direttore generale (nonché dì amministratore ) dal<br />

ricorrente.Tele sostanziale grave dequalificazione può essere fatta decorrere dall'aprile 99, tenuto<br />

conto che dalle risultanze testimoniali è emerso che in un primo momento vi era stato un sostanziale<br />

affiancamento del Sig…. al ricorrente nella gestione, invasione di campo questa comprensibile con<br />

la necessità dì rendersi conto in prima persona della reale situazione societaria, ma in un secondo<br />

momento il totale e neppure mascherato scavalcamento del ricorrente appare privo di qualsivoglia<br />

giustificazione; la volontà della nuova Dirigenza di eliminare un direttore generale può<br />

legittimamente realizzarsi solo con un recesso, rnotivato o meno, soggetto comunque a controllo<br />

giudiziario, che comporta in ogni caso la responsabilità per tutte le conseguenze di legge connesse a<br />

tale provvedimento e non certo attraverso una progressiva e logorante emarginazione dal contesto<br />

aziendale finalizzato a favorire un recesso volontario dal rapporto.Il danno subito è evidente, sia in<br />

termini di professionalità che in termini psicologici, il ricorrente è stato totalmente emarginato nel<br />

preminente ruolo rivestito, venendo a perdere all'improvviso ogni credibilità e potere nei confronti<br />

dei dirigenti e dì tutto il personale e ad essere relegato all'inattività, con l'accusa dì scarsa<br />

collaborazione, non è stato però significativamente mai chiarito o precisato il reale livello richiesto<br />

di collaborazione.La situazione creatasi ha avuto conseguenze sul piano della salute del ricorrente<br />

come dimostrato dalla documentazione medica prodotta, che evidenzia proprio nel marzo aprite 99,<br />

una patologia strettamente collegata alle situazioni di stress (u1cera duodenale – vedi<br />

documentazione medica allegato n.30 di parte ricorrente).In questo contesto, appare equo valutare<br />

in Lit. 50.000.000 il danno professionale, collegato anche all'immagine compromessa per una


posizione di rilievo (come quella occupata dal ricorrente) e biologico subito dal ricorrente per oltre<br />

due mesi, in relazione ad una retribuzione mensile di circa Lit. 25.000.000.Passando, ora, al<br />

licenziamento intimato va rilevato che in via principale è stato chiesto di ritenere il provvedimento<br />

impugnato "discriminatorio" con conseguente nullità del recesso, per essere stato intimato per<br />

ritorsione contro legittime rivendicazioni fatte valere a tutela del suo ruolo (vedi ricorso per<br />

dequalificazione).Come ha osservato la convenuta il ricorso giudiziario in via d’urgenza del<br />

ricorrente è stato notificato l’11.6.99, nove giorni dopo quindi la contestazione disciplinare, su cui è<br />

stato fondato il provvedimento espulsivo, che è stata consegnata al ricorrente il 2 giugno, mentre le<br />

giustificazioni erano pervenute alla società il 14 giugno, va escluso quindi un immediato fine<br />

ritorsivo, la situazione lamentata può semmai influire sul giudizio di legittimità del recesso,<br />

nell’invalidare la valutazione della gravità dell’addebito posto a fondamento del licenziamento per<br />

giusta causa.Ora, l’addebito di avere installato una microtelecamera ed una centralina di allarme e<br />

videoregistratore senza averne dato notizia a chi lo aveva sostituito all’atto della cessazione<br />

dell’incarico di amministratore delegato, nel contesto della situazione determinatasi, attesa l’entità<br />

del fatto, in relazione alla qualifica rivestita ed alle circostanze emerse, appare chiaramente<br />

strumentale e finalizzato all’espulsione di un direttore non ritenuto utile dalla nuova<br />

direzione.L’addebito, peraltro, perde anche qualsiasi connotato di sanzionabilità, se si considera che<br />

le risultanze testimoniali hanno poi confermato l’assunto difensivo del ricorrente e cioè che<br />

l’installazione era nota ai vertici aziendali ed allo stesso Sig………(devi deposizioni dei<br />

Sigg.ri……..), che questa era stata installata dalla proprietà a fini di tutela e non di controllo, in<br />

conseguenza di alcuni ammanchi subiti dalla società ed aveva poi portato anche alla scoperta di un<br />

furto da parte di un dipendente; la microtelecamera non aveva audio, mentre il suo raggio visivo<br />

comprendeva le due porte d’ingresso, la scrivania e l’armadio contenente la cassaforte dell’ufficio<br />

del ricorrente.Significativa poi appare la circostanza che alla richiesta se era a conoscenza<br />

dell'esistenza di telecamere il ricorrente e la sua segretaria avevano immediatamente ammesso la<br />

circostanza, fornendo i dati della sua localizzazione (vedi deposizioni dei Sigg.ri<br />

…………………..).Ora, giustificare il licenziamento in tronco del direttore generale con la<br />

motivazione riportata, costituisce una scelta illegittima, che si commenta da sola; per gli stessi<br />

motivi il licenziamento però non può essere considerato "ingiurioso"; infatti l'installazione della<br />

telecamera è stato il motivo "pretestuosó' per sbarazzarsi del ricorrente, ma l'addebito, nella sua<br />

sostanza, fotografava una situazione di fatto reale, solo che questa non appariva meritevole di<br />

censura ed in nessun caso aveva, quindi, la possibilità dì ledere il prestigio dell'incolpato.Il<br />

licenziamento del dirigente, per quanto esposto, non solo non appare sorretto da giusta causa ma<br />

non può considerarsi neppure giustificato nell'accezione prevista dalla normativa per ì dirigenti.Al<br />

ricorrente spetta, quindi, oltre il preavviso, anche l'indennità supplementare ex art 19 c.c.n.l.<br />

dirigenti industriali.L'indennità supplementare, considerato che il ricorrente é stato dirigente della<br />

convenuta dal 1982 e che il recesso è stato attuato con modalità non del tutto corrette in relazione<br />

alla qualifica rivestita, si stima equo derminarla nell'ammontare di 20 mensilità.Per quanto riguarda<br />

ì conteggi delle spettanze oseervato che i conteggi riportati nel ricorso tenevano conto dei<br />

complessivo trattamento speciale goduto dal ricorrente, ma nell’interrogatorio reso all'udienza del<br />

21.1.01 il ricorrente con molta onestà, hariconosciuto che non vi era mai stata alcuna attività di<br />

consulenza per giustificare la voce compenso per "consulenza" (vedi documenti allegati numeri 1-2<br />

di parte ricorrente) e che una volta entrato nel consiglio di amministrazione era stato raggiunto un<br />

accordo per considerare parte dei "trattamento speciale" riconosciutogli come retribuzione per<br />

l'attività di amministratore.Ora i conteggi, che non potevano essere effettuati sulla parte dei<br />

compenso per l'attività dì amministratore, sono stati poi fatti sulla base del solo compenso per<br />

l'attività dirigenziale e nel risultato finale non sono stati contrastati; la contestazione, infatti, ha<br />

coinvolto solo la quantificazione del "benefit" dell'auto.Sul punto in questione va osservato che nel<br />

ricorso nulla si dice sulle caratteristiche dell'auto e del suo uso, solo tra i documenti prodotti i è una<br />

valutazione effettuata su dati non provati e con procedimento non del tutto supportato da dati reali;<br />

posto che l'uso dell'autovettura di grossa cilindrata è pacifico tra le parti (vedi verbale udienza


24.1.01) si rìtiene di dover adottare il criterìo di calcolo adottato dalla convenuta, che porta ad una<br />

retribuzione mensile di Lit. 27.571.522. calcolato in Lit.5.800.587 l’incidenza del benefit auto.<br />

L’indennità di preavviso, pertanto, è di Lit. 330.858.264, l’incidenza sul TFR di Lit. 24,508.020,<br />

l’indennità supplementare corrispondente a 20 mensilità di Lit. 551.430.522.Le spese seguono la<br />

soccombenza, si liquidano in complessive Lit. 20.000.000 di cui Lit. 900.000 per<br />

spese.P.Q.M.Definitivamente pronunciando, ogni altra domanda disattesa, ritenuta l’illegittimità del<br />

recesso per giusta causa intimato al ricorrente con lettera del 14.6.99, condanna parte convenuta a<br />

corrispondere al ricorrente Lit. 330.358.264 per indennità sostitutiva del preavviso, Lit. 24.508.020<br />

per l’incidenza del preavviso sul tfr, Lit. 551.430.522 per indennità supplementare; accertata la<br />

dequalificazione subita dal ricorrente a partire dall’aprile ’99, condanna la convenuta a risarcire il<br />

danno, che si determina in complessive Lit. 50.000.000, interessi e rivalutazione come per legge, la<br />

condanna, infine, al pagamento delle spese che si liquidano in complessive Lit. 20.000.000 a favore<br />

del ricorrente.<br />

Sentenza esecutiva.Milano, 13.3.2001<br />

Il GiudiceDepositato in Cancelleria in data 16 marzo 2001<br />

Tribunale Milano 4 maggio 2001, est. Martello, Barbieri (avv. Calabrese) c. Telecom Italia<br />

Mobile Tim (avv. Pessi).<br />

Art. 2103 c.c. - Adibizione del lavoratore a mansioni inferiori - Dequalificazione - Sussistenza -<br />

Danno alla professionalità - Oneri probatori - Ricorso all'art. 115 c.p.c - Ammissibilità - Danno alla<br />

professionalità - Quantificazione - Valutazione equitativa – Criteri - Danno da perdita di chances –<br />

Insussistenza (in presenza di promozioni discrezionali, non automatiche)<br />

L’assegnazione del lavoratore a mansioni in concreto inferiori comporta un’ illegittima<br />

dequalificazione quand'anche rimanga invariato il livello formale di inquadramento.<br />

In caso di demansionamento, il danno al patrimonio professionale causato dall’impossibilità per il<br />

lavoratore di svolgere le precedenti mansioni costituisce «fatto notorio» che il giudice, in base<br />

all'art. 115 c.p.c., può porre a fondamento dello decisione senza bisogno di prova.<br />

La determinazione del danno alla professionalità in senso stretto va compiuta in via equitativa, con<br />

riferimento alla quota della retribuzione globale nel periodo di demansionamento corrispondente<br />

alla parte di retribuzione che compensa la capacità professionale del lavoratore (in fattispecie il<br />

danno alla professionalità è stato risarcito in misura pari al 72% della retribuzione mensile per ogni<br />

mese di demansionamento).<br />

L'assegnazione a mansioni diverse e inferiori non produce danno da perdita di chances quando la<br />

promozione a un livello superiore a quello attribuito prima del demansionamento non sia<br />

automatica.<br />

(...) 1. Sulle mansioni<br />

Va preliminarmente osservato che - ai fini della valutazione sul demansionamento scarsa rilevanza<br />

ha la considerazione dei formale inquadramento attribuito al lavoratore, poiché bisogna aver<br />

riguardo alle mansioni svolte in fatto e nel concreto.


Si deve, quindi, avere riguardo alle mansioni svolte dal ricorrente prima e dopo l’ l/3/99, data della<br />

sua assegnazione alle mansioni di«Assistente ad attività specialistiche senior».<br />

Ciò posto, si può e si deve fare rilevare, innanzitutto, che - pur nel mantenimento dello stesso livello<br />

di inquadramento - non pochi e non lievi dubbi possono essere espressi in ordine all'equivalenza fra<br />

le due figure professionalità.<br />

Ma, ben oltre tale considerazione, si deve osservare che i compiti in fatto svolti dal ricorrente dopo<br />

la data predetta sono risultati essere del tutto privi di corrispondenza e inferiori a quelli previsti<br />

nella declaratoria della figura professionale formalmente attribuita.<br />

In tal senso vanno valutate le prove testimoniali che, in termini sostanzialmente concordanti, hanno<br />

descritto le attività in fatto svolte da Barbieri come attività di tipo meramente esecutivo e con<br />

contenuto professionale e concettuale alquanto limitato. E’ emerso, infatti, dalle testimonianze che<br />

il ricorrente - nelle ultime mansioni - doveva limitarsi al mero inserimento in computer dei dati<br />

forniti da altri uffici, compiendo quindi - lui che era inquadrato nel livello E - le stesse attività di<br />

altri dipendenti di livello B e sotto il coordinamento di una dipendente di livello C: si vedano in tal<br />

senso le dichiarazioni della teste Cattaneo, della teste Fontana («Barbieri non si occupava d'altro»),<br />

della teste Marzi («Il Barbieri riceveva gli ordini di servizio da Cattaneo, che provvedeva anche ad<br />

autorizzare ferie e permessi»).<br />

La discrepanza interna alla figura di assistente senior, poi, emerge con ancor maggior risalto ove si<br />

considerino i profili delle mansioni in fatto svolte da Barbieri quando era venditore senior. In tale<br />

prospettiva sono sufficienti le dichiarazioni testimoniali, dalle quali si evince che in precedenza il<br />

ricorrente «curava direttamente i rapporti con i clienti», “elaborava le offerte specificamente<br />

conformate sulle esigenze dei clienti», coordinava l’attività di assistenti alle vendite, si occupava<br />

dei recupero dei crediti sollecitando i pagamenti presso i clienti e stimolando gli adempimenti<br />

successivi.<br />

Si vedano, in proposito, le dichiarazioni della teste Fontana e, soprattutto, del teste Fumagalli.<br />

diretto superiore di Barbieri.<br />

La descrizione delle mansioni testé illustrate fa emergere con significativa chiarezza nell'attività di<br />

Barbieri i caratteri di autonomia, di profonda conoscenza del mercato del prodotto e dei servizi, di<br />

iniziativa commerciale di rapporti diretti con la clientela che connotano la figura del venditore e che<br />

sono dei tutto assenti da quella dell'assistente e - comunque e risolutivamente - dall'attività in fatto<br />

commessa al ricorrente dopo il 1/3/99.<br />

Le considerazioni che precedono portano a concludere che, in effetti, le ultime mansioni assegnate<br />

al ricorrente hanno comportato una dequalificazione, che non è esclusa dall'identità del livello di<br />

inquadramento professionale né dal mantenimento dei trattamento economico di base.<br />

L'accertata dequalificazione comporta l'obbligo della convenuta di adibire il ricorrente nelle<br />

mansioni in precedenza svolte o in altre equivalenti.<br />

1.a. Dalla predetta dequalificazione deriva, inoltre, l'obbligo della convenuta di risarcire il connesso<br />

danno alla professionalità.<br />

In relazione a tale danno, va affermata preliminarmente la sua ammissibilità, posto che non si può<br />

dubitare (né la convenuta lo contesta, in linea di principio) del carattere patrimoniale del pregiudizio<br />

connesso al mancato svolgimento dei lavoro e delle proprie mansioni.


La convenuta sostiene la necessità di una prova rigorosa dell'esistenza dei danno.<br />

In proposito si osserva che -anche a voler escludere che il danno sia in re ipsa - il pregiudizio<br />

connesso all'impossibilità di svolgere le proprie mansioni rientra fra le nozioni di comune<br />

esperienza; e che la valutazione di tale circostanza può essere fatta anche in base al c.d. «fatto<br />

notorio», costituente canone legale di prova, ai sensi dell'art. 115 c.p.c.<br />

Infatti va riconosciuto che l'impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un<br />

decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme<br />

delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il<br />

concreto esercizio della sua attività lavorativa; o, anche, come il bagaglio di esperienze e di<br />

specifiche abilità che si conseguono con l'applicazione concreta delle nozioni teoriche acquisite.<br />

La professionalità di un lavoratore dipende ed è costituita non solo dalle nozioni teoriche ma dalle<br />

capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze<br />

concrete poste dalla pratica quotidiana e viene conservata, se non anche stimolata e incrementata,<br />

dall'attività quotidiana e dalla pratica.<br />

In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività del lavoratore determinata dalla<br />

assegnazione a compiti del tutto diversi e inferiori a quelli suoi propri determina per il lavoratore un<br />

pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente valutabile.<br />

In ordine alla determinazione del danno subito dal ricorrente, si osserva che la difesa del ricorrente,<br />

consapevole della difficoltà di tale determinazione, si rimette alla valutazione equitativa del<br />

Giudice, pur indicando come parametro quello della retribuzione percepita dal ricorrente.<br />

Ritiene il Giudice che tale parametro possa essere utilizzato come termine di riferimento ma non<br />

integralmente accolto, come pure sostiene il ricorrente richiedendo un risarcimento pari alle<br />

retribuzioni maturate nel periodo di lontananza dal lavoro.<br />

Va rilevato, infatti, che la retribuzione vale a compensare diversi e vari elementi, quali il tempo di<br />

lavoro, la penosità fisica di esso, lo sforzo intellettuale e anche - ma non solo - la capacità<br />

professionale del lavoratore, cioè la professionalità, che certamente connota e caratterizza i predetti<br />

elementi ma non li esaurisce né li esclude.<br />

Tale valutazione, per altro, pare conforme all'ispirazione dell'art. 36 della Costituzione, che rapporta<br />

la retribuzione non solo alla «qualità» dei lavoro (identificabile anche nella professionalità); ma<br />

anche alla «quantità»: di tempo, di fatica ecc..<br />

Ebbene, è evidente che gli aspetti inerenti la quantità o, per meglio dire, la parte fisica e materiale<br />

della prestazione lavorativa sono coinvolti solo parzialmente nel caso di ridotta attività, con<br />

innegabile vantaggio per il lavoratore e con correlativa esclusione di un danno risarcibile.<br />

Va, infine, precisato che taluni dei danni connessi al mancato svolgimento di attività di lavoro<br />

possono essere evitati dal lavoratore con l'impiego dell'ordinaria diligenza che l'art. 1227 c.c.<br />

impone al creditore.<br />

Nel caso di specie, inoltre, devono essere considerate negativamente anche le particolari modalità e<br />

le circostanze del demansionamento, disposto in occasione di un dissenso del ricorrente sulla<br />

determinazione della retribuzione variabile.


Così fissati i criteri per la valutazione equitativa del danno, occorre precisare che il danno va<br />

determinato con riferimento al periodo di tempo corrente dalla data dell'1/3/99 a quella dell'effettiva<br />

reimmissione in servizio, come meglio specificato in dispositivo.<br />

Considerato che la retribuzione globale mensile del ricorrente di lire 2.194.000 nette (come dedotto<br />

in ricorso e non contestato da controparte), si liquida in via equitativa il danno alla professionalità<br />

subito dal ricorrente per ogni mese di dequalificazione in misura di lire 1.600.000 (un milione<br />

seicentomila) complessive e comprensive degli accessori fino alla data odierna.<br />

1.b. Quanto all'asserito danno all'immagine e alla professionalità, si osserva che in ricorso nessuna<br />

specifica deduzione viene svolta, né in fatto, relativamente alla loro esistenza, né in diritto,<br />

relativamente al titolo: per altro il risarcimento predetto deve essere globalmente inteso, cioè<br />

comprensivo anche dei danno all'immagine e alla professionalità, come ritenuto anche dalla<br />

sentenza Pret. Milano 7/1/97, richiamata dallo stesso ricorrente.<br />

l.c. Si deve rigettare, infine, la domanda relativa alla perdita di chances, che il ricorrente collega alla<br />

possibilità - frustrata dall'assegnazione di mansioni diverse e inferiori - di ottenere il passaggio al<br />

successivo livello F.<br />

In proposito si osserva - innanzitutto e in via astratta - che anche nel profilo professionale di<br />

Assistente ad attività specialistiche è previsto il livello F.<br />

Ma, ancor più, si deve osservare che il passaggio in questione è alquanto ipotetico ed eventuale,<br />

mancando un automatismo della promozione.<br />

Infatti, come si riconosce nello stesso ricorso, il passaggio di livello avviene tramite e a seguito di<br />

accertamento professionale. E che a esso si accompagna anche una valutazione discrezionale del<br />

datore di lavoro.<br />

Sul punto, quindi, il lavoratore è titolare di una mera aspettativa, che però non può dar luogo al<br />

sorgere di un diritto.<br />

(omissis)<br />

(pubblicata in D&L, Riv. crit. dir. lav. 2001, 705, con annotazione. In senso conf. Pret. Milano<br />

20.7.99, ibidem 1999, 885; Pret Milano 19.2.1999, ibidem 1999, 375).<br />

Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, sentenza depositata in data 21 giugno 2001<br />

Risarcibile lo stress da troppo lavoro<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato il 18 6 1997 . D. G. ha convenuto in giudizio di fronte al Giudice del Lavoro<br />

l’……. in persona del legale rappresentante chiedendone la condanna al pagamento della somma<br />

complessiva di L. 177.223.667 di cui L. 100 milioni a titolo di danno biologico, L. 70 milioni a<br />

titolo di danno patrimoniale conseguente alla perdita di compensi e alla perdita di chances e L.<br />

7.223.667 a titolo di maggiorazione per lavoro straordinario non corrisposte.


Ha a tal fine sostenuto di avere prestato attività lavorativa subordinata alle dipendenze dell’Istituto<br />

convenuto, essendo stato assunto in data 2.4.1996 con regolare scrittura teatrale per la direzione<br />

tecnica degli spettacoli ……………….. , produzioni del XXXIV ciclo di spettacoli classici, da<br />

tenersi presso il teatro ……. di ……… nel periodo maggio/giugno 1996.<br />

Ha proseguito evidenziando di avere prestato l’attività in una situazione di estremo disagio a causa<br />

delle deficienze organizzative, che hanno comportato notevoli disservizi per tutti gli operatori<br />

addetti agli allestimenti teatrali e lo hanno costretto a far fronte alle innumerevoli carenze attraverso<br />

l’effettuazione di numerose ore di lavoro straordinario con necessità di rinuncia ai riposi e ai pasti al<br />

fine di garantire il risultato dell’opera cui era stato preposto ossia la regolare messa in scena degli<br />

spettacoli alle scadenze fissate.<br />

Ha quindi specificato di essere stato costretto ad operare in una situazione di continua tensione<br />

psicologica, determinata dai tempi esigui di preparazione, dalla ritardata consegna di parte delle<br />

attrezzature e dalle precarie condizioni di sicurezza del lavoro nelle quali era costretto ad operare e<br />

a far operare i tecnici da lui diretti e dalla mancata adozione da parte della società convenuta degli<br />

accorgimenti necessari a migliorare le condizioni lavorative, sfociata in uno stato di malattia<br />

consistente in una articolata sintomatologia psichica riferibile ad uno stato d’ansia con<br />

manifestazioni somatoformi e spunti fobici e in una demodulazione in senso depressivo del tono<br />

dell’umore, valutata nella misura del 25,30% di invalidità permanente quale danno biologico.<br />

Ha inoltre richiesto il risarcimento del danno patrimoniale subito in conseguenza della anticipata<br />

cessazione dell’attività di direttore tecnico delle rappresentazioni teatrali indicate nonché relativo<br />

alla perdita di chances e alle spese mediche sostenute.<br />

Ha infine richiesto il pagamento delle maggiorazioni per lavoro straordinario svolto durante il<br />

periodo 11.4.96/21.5.1996 per 223 ore complessive.<br />

Fissata l’udienza di discussione si è costituito l’istituto convenuto che ha contestato le pretese<br />

avanzate dal ricorrente chiedendo l’integrale rigetto della domanda.<br />

La causa istruita con interrogatorio delle parti, prova testimoniale, produzione di documenti e<br />

C.T.U. sullo stato di salute del ricorrente, è stata decisa sulle conclusioni rassegnate dalle parti nei<br />

rispettivi atti.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

A seguito dell’istruttoria compiuta è rimasta pienamente dimostrata la esistenza del danno biologico<br />

dedotto dal ricorrente.<br />

Come noto ai sensi dell’art. 2087 c.c. [1] il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che,<br />

secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità<br />

fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.<br />

Ai fini della configurabilità del danno biologico è necessario che si sia verificata una lesione alla<br />

salute intesa come bene personale costituzionalmente protetto ossia alla integrità psico-fisica del<br />

soggetto.<br />

La risarcibilità del danno così inteso, quale conseguenza della responsabilità del datore di lavoro<br />

presuppone, quindi, l’accertamento della sussistenza di un nesso di causalità tra il comportamento


commissivo od omissivo del datore di lavoro e la causazione dell’evento dannoso in capo al<br />

lavoratore.<br />

Nel caso in esame il ricorrente ha dimostrato la sussistenza di uno stato patologico conseguente alle<br />

condizioni lavorative in cui ha operato.<br />

L’espletata C.T.U. ha, infatti, provato che il disturbo psichico del ricorrente può essere inquadrato<br />

come un episodio psicopatologico acuto cui e’ seguita una nevrosi fobica che perdura tutt’ora con<br />

vissuti soggettivi di ansia intensa e spiccati atteggiamenti di esitamento.<br />

Il C.T.U. ha altresì ritenuto che la situazione di disagio lavorativo descritta dal ricorrente e<br />

comprovata ampiamente dalla documentazione prodotta e dalle deposizioni rese in sede istruttoria,<br />

possa essere ritenuta stressante in misura tale da assurgere a fattore concausale del disturbo<br />

psichico.<br />

La prova testimoniale e i documenti prodotti hanno permesso di accertare che le condizioni di<br />

lavoro in cui operava il ricorrente erano effettivamente quelle descritte nel ricorso introduttivo e<br />

poste dal C.T.U. a fondamento del giudizio diagnostico formulato.<br />

In particolare l’esame testimoniale ha evidenziato che le mansioni di direttore tecnico per gli<br />

spettacoli di ………. e ……….. svolte dal ricorrente furono particolarmente impegnative durante la<br />

fase di allestimento scenico e durante le prove in quanto richiedevano la presenza costante e<br />

continua del D. B.<br />

La necessità di eseguire la messinscena di due spettacoli contemporaneamente che dovevano essere<br />

rappresentati a giorni alterni, ha comportato per il ricorrente un notevole impegno professionale<br />

fisico, egli, infatti doveva sovrintendere al lavoro di montaggio e smontaggio quotidiano di una<br />

complessa ed articolata struttura scenografica che comportava il coordinamento di circa 40 tecnici,<br />

inoltre egli doveva presenziare alle prove degli attori.<br />

Tali compiti, che sicuramente rientrano tra le mansioni del direttore tecnico, peraltro responsabile<br />

totalmente del buon andamento degli allestimenti teatrali stessi, sono stati svolti dal ricorrente,<br />

peraltro come riconosciuto dall’………, con grande professionalità e competenza, in tempi assai<br />

ristretti, facendo fronte a notevoli carenze organizzative e disservizi, si pensi che la grande struttura<br />

tecnica fu consegnata il 10.5.96 e la prova completa del suo integrale funzionamento fu effettuata<br />

solo il giorno prima della rappresentazione iniziale avvenuta il 16 maggio 1996.<br />

Tutti i testi escussi hanno confermato una presenza quotidiana del ricorrente sulle scene dalla<br />

mattina presto fino a tarda sera, senza intervalli per i pasti o i riposi anche settimanali.<br />

Il datore di lavoro, di converso, non ha dimostrato di avere adottato un comportamento volto a<br />

predisporre tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico fisica del lavoratore.<br />

Sono perciò ravvisabili nel comportamento omissivo tenuto dall’istituto gli estremi della colpa, in<br />

quanto non ha adottato le misure necessarie ad evitare che il ricorrente prestasse attività lavorativa<br />

per intere giornate senza pause per i pasti o per i riposi.<br />

Non è, infatti, stata fornita alcune prova da parte della società convenuta dell’adozione di adeguate<br />

ed idonee misure volte a garantire al ricorrente un ambiente di lavoro meno nocivo.


Non vale ad esimere il datore di lavoro da responsabilità la circostanza che il lavoro del ricorrente<br />

e’ stato svolto in breve lasso di tempo, pari a meno di due mesi, ne’ che allo stesso non fu mai<br />

richiesta la effettuazione di lavoro straordinario.<br />

Come sostenuto dalla stessa parte convenuta il ricorrente fu scelto per la sua competenza e<br />

professionalità e sicuramente l’istituto faceva affidamento su tali caratteristiche per il buon<br />

andamento degli spettacoli.<br />

Pertanto, la circostanza che al ricorrente non furono mai espressamente richieste ore di lavoro<br />

straordinario o la rinuncia ai pasti ed al riposo notturno e settimanale, non esclude la colpa dei<br />

datore di lavoro, in quanto al ricorrente era richiesta una prestazione di risultato, ossia la buona<br />

messinscena degli spettacoli nei tempi previsti. Ne’ vale ad escludere la responsabilità dell’istituto<br />

la considerazione che tali pretese e condizioni di lavoro sono connaturate al tipo di attività svolta<br />

delle quali il ricorrente era perfettamente a conoscenza, avendo messo in scena numerosi spettacoli.<br />

Sia il ricorrente che i testi escussi, hanno infatti, ricordato che in considerazione dei tempi ristretti in<br />

cui sono stati costretti ad operare e delle obiettive difficoltà tecniche insorte e comunque prevedibili<br />

connesse alla complessità delle strutture sceniche, le rappresentazioni suddette si presentavano<br />

come eccezionali.<br />

In conclusione la società convenuta non ha dimostrato, come era suo onere trattandosi di<br />

responsabilità contrattuale nascente dagli obblighi inerenti alla qualità di datore di lavoro, di avere<br />

ottemperato all’obbligo di protezione nei confronti del ricorrente nascente dalla previsione specifica<br />

di cui all’art. 2087 c.c.<br />

L’obbligo di protezione, infatti, non si esaurisce nella predisposizione di misure tassativamente<br />

imposte dalla legge, ma si estende anche all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare la salute<br />

del lavoratore.<br />

Ne consegue che la mancata adozione di misure idonee a fronteggiare la eccezionalità e la<br />

particolare difficoltà della messinscena dei due spettacoli da cui é conseguito il mancato<br />

impedimento di un superlavoro eccedente quantitativamente e qualitativamente i limiti di normale<br />

tollerabilità, nonché la mancata predisposizione di idonee ed adeguate misure volte a garantire<br />

condizioni di lavoro non eccessivamente stressanti ovvero un ambiente di lavoro "salubre" e,<br />

quindi, non pericoloso per la salute, configurano sicuramente un’ipotesi di responsabilità della<br />

società convenuta per il danno causato al ricorrente. Il consulente tecnico d’ufficio ha quantificato il<br />

danno biologico sofferto dal ricorrente nella percentuale del 5%. La valutazione del consulente deve<br />

essere condivisa perché adeguatamente motivata ed esente da vizi logici. La percentuale di<br />

invalidità riconosciuta appare infatti idonea a ristorare il ricorrente delle conseguenze subite dal<br />

comportamento colposo del datore di lavoro.<br />

In merito occorre evidenziare che la C.T.U. ha evidenziato che i fatti lavorativi hanno agito<br />

sicuramente come fattore concausale nel prodursi della patologia psicopatologica sofferta dai<br />

ricorrente: infatti," la derivazione etiologica della nevrosi dai fatti lavorativi (ancorché<br />

particolarmente stressanti) é dotata nella fattispecie di modesta significatività, trovando nella<br />

preesistenza psichica il fattore preponderante nella produzione dell’evento stesso.<br />

Quanto detto giustifica pienamente il riconoscimento in capo al ricorrente di una percentuale pari aI<br />

5% di danno biologico non ostante la gravità della patologia riscontrata e delle conseguenze in<br />

merito alla attività lavorativa e alla vita di relazione.


La valutazione tiene, infatti, conto della struttura di personalità preesistente del soggetto, senz’altro<br />

predisponente alla insorgenza, di fronte a stimoli particolarmente frustranti, della sindrome stessa.<br />

In merito alla liquidazione del danno subito occorre osservare che la liquidazione del danno<br />

biologico deve essere fondata su tutte le concrete circostanze individuali in modo da adeguare<br />

l’indennizzo al grado di inabilità<br />

accertato mediante l’adozione di parametri uniformi di individuazione, per la generalità delle<br />

persone fisiche, dell’equivalente patrimoniale dei valore umano perduto.<br />

A tal fine la liquidazione del danno può essere effettuata facendo ricorso ai metodo equitativo,<br />

utilizzando come valido criterio di quantificazione dei risarcimento quello che assume a parametro<br />

il c.d. punto di invalidità determinato sulla base di un valore medio.il danno biologico come tale<br />

comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della<br />

capacità di produrre reddito che la lesione dei bene alla salute ha provocato e non è perciò<br />

concettualmente diverso dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione che rispettivamente<br />

rappresentano, l’uno, una delle possibili lesioni dell’integrità fisica e, l’altro, uno dei possibili<br />

risvolti pregiudizievoli della menomazione subita dal soggetto..<br />

Entrambi entrano a far parte della liquidazione dei danno alla salute complessivamente considerato<br />

e non possono perciò essere considerati separatamente come voci di danno non patrimoniale<br />

autonomamente e ulteriormente risarcibili.<br />

La quantificazione del danno biologico patito dal ricorrente può quindi essere valutata in L.<br />

5.022.000 somma che appare equa tenuto conto delle tabelle di liquidazione del danno alla persona<br />

applicate da questo Ufficio (1.674, valore del punto, x 5 x 0,60, demoltiplicatore relativo all’eta’).<br />

La consulenza tecnica d’ufficio ha infine escluso che al ricorrente siano residuati esiti invalidanti<br />

incidenti sulla sua capacità lavorativa specifica.<br />

Nessuna conseguenza dannosa è perciò risarcibile con riferimento alla riduzione della capacità<br />

lavorativa del ricorrente che peraltro chiede il risarcimento del danno patrimoniale subito.<br />

In proposito occorre osservare che il risarcimento dovuto per la lesione al bene della salute<br />

comprende anche le conseguenze che incidono sulla idoneità a produrre reddito.<br />

Come detto la capacità lavorativa del ricorrente non è stata menomata, nessun danno è perciò<br />

risarcibile secondo la responsabilità contrattuale del datore di lavoro fatta eccezione per i periodi di<br />

inabilità assoluta di 30 giorni e di inabilità parziale di 30 giorni riconosciuti in sede di C.T.U. per i<br />

quali spetta al ricorrente la somma complessiva di L. 3.015.000.<br />

Occorre, quindi, verificare se sussiste una responsabilità aquiliana della società convenuta e se dal<br />

fatto costitutivo di tale responsabilità sia derivato il danno patrimoniale lamentato dal ricorrente.<br />

Sul datore di lavoro grava oltre che lo specifico dovere di protezione di cui aIl’art. 2087 c.c. anche<br />

il generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art. 2043 c.c. [2] la cui violazione è fonte di<br />

responsabilità extracontrattuale.<br />

La responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. può, perciò, concorrere con la<br />

responsabilità extracontrattuale se dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione di diritti<br />

dei lavoratore indipendenti dal rapporto di lavoro.li danno patrimoniale dedotto dai ricorrente non


può trovare la sua fonte nella responsabilità aquiliana della società convenuta i cui elementi<br />

costitutivi non sono stati dimostrati dai ricorrente.<br />

Il ricorrente, ha dato piena prova della colpa della società convenuta, ma non ha dimostrato i fatti<br />

costitutivi delle richieste a titolo di perdita di chances né ha dimostrato di avere subito conseguenze<br />

dannose maggiori rispetto a quelle liquidate tenuto conto delle risultanze della c.t.u. quanto a<br />

inabilità- permanente.<br />

A tal fine deve infatti tenersi conto della circostanza che il ricorrente era vincolato ad un contratto<br />

di lavoro a tempo determinato con scadenza giugno 1996, che dal maggio egli si trovava in malattia<br />

e che non ha dimostrato di non avere percepito durante la malattia la regolare retribuzione.<br />

In conclusione la parte convenuta deve essere condannata a risarcire ai ricorrente, per il danno<br />

subito, la complessiva somma di L. 8.037.000 oltre interessi e rivalutazione.<br />

Deve, infine essere rigettata la domanda relativa al pagamento della somma richiesta a titolo di<br />

maggiorazioni per lavoro straordinario.<br />

Al ricorrente che, come già detto era vincolato da un contratto a tempo determinato devono essere<br />

applicate le condizioni previste dal contratto stesso che prevede una retribuzione in misura<br />

forfetaria ossia già comprensiva del lavoro straordinario.<br />

La stessa disciplina collettiva invocata prevede che nel caso in cui il compenso sia stabilito in<br />

misura forfetaria, non spettino le maggiorazioni per lavoro straordinario. Per gli appartenenti alla<br />

categoria dei quadri, il citato c.c.n.l.. prevede un orario di lavoro di massima coincidente con<br />

l’orario normale osservato nella unità produttiva che il c.c.n.l. stabilisce in 36 ore settimanali.<br />

Non sono, perciò, applicabili al ricorrente ai fini della configurabilità del lavoro straordinario i<br />

limiti orari contrattualmente previsti. Deve, infatti, ritenersi, che la maggiore presenza sia già<br />

compensata dalla retribuzione pattuita. L’unica limitazione all’orario di lavoro potrebbe essere<br />

costituita dalla ragionevolezza della durata della prestazione lavorativa. Nessuna specifica<br />

dimostrazione è stata però data dal ricorrente in ordine all’effettuazione di una prestazione<br />

lavorativa oltre il limite di ragionevolezza.<br />

Le spese seguono la soccombenza come da liquidazione in dispositivo.<br />

Le spese di C.T.U. separatamente liquidate devono essere poste a carico della parte soccombente.<br />

TALI I MOTIVI DELLA DECISIONE IN EPIGRAFE<br />

P.Q.M.<br />

Definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza eccezione e deduzione, condanna<br />

..........al pagamento nei confronti del ricorrente della complessiva somma di Lit. 8.037.000 oltre<br />

interessi e rivalutazione e spese di lite liquidate in complessive Lit. 2.500.000 da distrarsi e spese di<br />

C.T.U. separatamente liquidate.<br />

Roma, 7 giugno 2001<br />

Il Giudice


Tribunale di Torino – sezione lavoro (giudice unico di primo grado) – 10 agosto 2001 Est.<br />

Ciocchetti – Solinas c. Sanpaolo IMI SpA.<br />

Risarcimento del danno da dequalificazione professionale e del danno biologico sofferto da un<br />

dirigente ultrasessantenne – Accertamento per testi, per il primo, e, dietro certificazione ASL, per il<br />

transitorio danno alla salute da patologia depressiva - Sussistenza e liquidazione equitativa (in<br />

ragione di circa mezza mensilità di retribuzione per ogni mese di demansionamento).<br />

E’ irrilevante a giustificare l’accantonamento di un dirigente (nel caso per la durata di 16 mesi) la<br />

giustificazione aziendale secondo cui, a seguito della fusione tra due istituti di credito, si sarebbe<br />

verificata una duplicazione di funzioni ed un conseguente esubero di personale, giacché è preciso ed<br />

ineludibile dovere del datore di lavoro, cui corrisponde un altrettanto specifico diritto del prestatore<br />

– entrambi discendenti dall’enunciato normativo contenuto nell’art. 2103 c.c. – di fornire al<br />

dipendente un incarico determinato e stabile, nel rispetto dell’inquadramento riconosciuto e della<br />

professionalità acquisita.<br />

Del pari irrilevante la circostanza che nei confronti del predetto dirigente l’azienda avesse<br />

l’intenzione, e fossero stati avviati contatti, di addivenire ad una risoluzione consensuale anticipata<br />

del rapporto di lavoro rispetto all’età per il pensionamento di vecchiaia, in quanto ciò non giustifica,<br />

in alcun modo, la pratica datoriale di spoliazione delle mansioni, irrispettosa della precitata<br />

previsione codicistica.<br />

Ne consegue, in ragione del riscontro di una forzata inattività per 16 mesi e di una sindrome<br />

depressiva indotta dall’illegittimo contegno aziendale – accertata come casualmente conseguente ad<br />

opera del Servizio neurologico dell’ASL, qualificato ed indipendente dalle parti, escludente<br />

pertanto il ricorso a CTU sanitaria – la liquidazione al ricorrente, in via equitativa ex art. 1226 c.c.,<br />

dell’importo netto di 100 milioni (comprensivo di interessi e rivalutazione monetaria) tenuto conto<br />

della retribuzione mensile percepita ed a ristoro cumulativo del danno professionale e biologico<br />

subito, nonché l’accollo alla banca soccombente delle spese di lite per 18 milioni.<br />

Svolgimento del processo<br />

Con ricorso depositato in cancelleria in data 22 febbraio 2001 il dott. Alberto Solinas – dal 1958<br />

dipendente dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino (ora San Paolo IMI spa), inquadrato come<br />

dirigente dall’1.5.1988 e con compiti di vice-direttore presso la sede di Torino, piazza San Carlo, a<br />

far tempo dal 28.2.2000 – chiede al giudice del lavoro:<br />

- di accertare la responsabilità del datore ex art. 2103 e 2087 c.c., per il danno professionale ed<br />

economico subiti, a causa dei comportamenti illeciti tenuti e del mancato adempimento degli<br />

obblighi specifici di protezione del dipendente;<br />

- di accertare la responsabilità del datore ex art. 2049 e 2043 c.c., per avergli causato, con il proprio<br />

comportamento omissivo e/o commissivo, un grave ed ingiusto danno professionale ed economico;<br />

- di condannare il datore al pagamento in proprio favore e a titolo di risarcimento del danno alla<br />

professionalità, alla carriera ed all’immagine ex art. 2103 c.c., di somma equivalente alla<br />

retribuzione mensile moltiplicata per il numero dei mesi di completa inattività e dequalificazione<br />

(22 mesi, dall’aprile 1998 al febbraio 2000), o di somma da liquidare ex art. 1226 c.c., avuto


iguardo alla gravità della lesione subita, della “perdita di chances” o “danno futuro”, del danno alla<br />

vita di relazione sociale, alla personalità, all’immagine e all’estetica;<br />

- di condannare infine il datore al pagamento di somma che sarà ritenuta di giustizia per il danno<br />

alla persona e/o esistenziale patito, ai sensi dell’art. 2043 c.c.<br />

A fondamento di tali domande osserva quanto segue:<br />

1. con lettera dell’11.6.1996 viene nominato responsabile Rischi Creditizi del servizio Risk<br />

Management, con incarico di studiare e realizzare le più avanzate metodologie e gli strumenti per la<br />

gestione dei rischi creditizi nonché di supervisionare l’attività di Controllo Rischi di Gruppo;<br />

2. in base a tale mandato elabora una proposta contenente i principi fondamentali per una gestione<br />

del Rischio Creditizio, approvata il 16.10.1996, con contestuale incarico rivoltogli di preparare un<br />

documento denominato "Credit Risk Management ", da presentare alla dirigenza della banca, avente<br />

gli stessi contenuti della proposta approvata;<br />

3. contatta quindi diverse banche straniere tra cui Barclays Bank, all’avanguardia nell’utilizzo dei<br />

nuovi sistemi di Credit Risk Management, fissando un primo incontro il 17.10.1996, ove apprende<br />

che tale banca si avvale, per la consulenza circa la metodologia da impiegare, di una società<br />

specializzata nel settore, la Oliver Wyman & Co., nella persona del direttore dott. Davide Taliente;<br />

4. per la realizzazione del progetto viene poi creato un Comitato Guida, composto dai responsabili<br />

dei vari settori interessati, fra cui lo stesso ricorrente, in qualità di responsabile Rischi Creditizi del<br />

Servizio Risk Management;<br />

5. la struttura organizzativa creata per la realizzazione del progetto viene quindi approvata in data<br />

10.12.1997 dall’Amministratore Delegato e Direttore Generale del San Paolo, Responsabile del<br />

Settore, Rag. Luigi Maranzana;<br />

6. di lì a poco e con decorrenza 1.4.1998 viene comandato al Servizio Risk Management del San<br />

Paolo il dott. Davide Alfonsi, già dipendente della società di revisione del San Paolo, Arthur<br />

Andersen spa e assunto per l’occasione dal San Paolo Asset Management SIM Fiduciaria spa;<br />

7. tale comando condizionerà negativamente tutta l’attività successiva del ricorrente;<br />

8. nel frattempo, in data 3.3.1998, si tiene la prima riunione del Comitato Guida, per relazionare<br />

sull’attività progettuale svolta dal dicembre 1997, ma tra gli invitati non compare il nome del<br />

ricorrente;<br />

9. alla successiva riunione del 7.4.1998 egli partecipa fisicamente, ma non gli viene recapitato<br />

l’invito formale, ottenuto – dopo vana richiesta rivolta alla dott.ssa Tubarello – dal rag. Mirone,<br />

componente del progetto, il quale nell’esaminare l’invito si avvede immediatamente che il suo<br />

nome risulta cancellato;<br />

10. segnala quindi l’accaduto al rag. Scalerandi, il quale in un primo momento sostiene che il<br />

ricorrente non fa più parte del Comitato Guida, dichiarando successivamente di essersi sbagliato;<br />

11. tale episodio evidenzia l’atteggiamento di completa delegittimazione che il Capo servizio adotta<br />

nei suoi confronti;


12. a seguito dell’inserimento in azienda del dott. Alfonsi, viene estromesso dal progetto di Credit<br />

Risk Management, tanto da essere escluso dall’incontro tra il rag. Scalerandi e il dott. Alfonsi e<br />

quindi tra quest’ultimo e la Banca d’Italia, per la presentazione del progetto in questione;<br />

13. con lettera 20.7.1998 egli decide di denunciare l’accaduto, chiedendo l’intervento dei superiori<br />

gerarchici, ma la missiva rimane senza risposta;<br />

14. dall’1.11.1998, a seguito del perfezionamento della fusione tra San Paolo ed IMI, la<br />

dequalificazione già iniziata nell’aprile 1998 si trasforma nell’esclusione totale e senza alcuna<br />

motivazione dall’incarico di Responsabile Rischi Creditizi;<br />

15. tale esclusione avviene con comunicazione verbale e senza alcuna formalizzazione ed avallo da<br />

parte del Comitato Esecutivo e/o dell’Amministratore Delegato della Banca;<br />

16. la situazione di totale inattività che caratterizza tale periodo termina solo con il 28. 2. 2000 e<br />

cioè quattro giorni prima della convocazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione, con la<br />

sua nomina a vice-direttore della sede di Piazza San Carlo.<br />

Parte convenuta si costituisce a sua volta in giudizio e contesta tutte le pretese azionate in causa,<br />

ritenendole destituite di fondamento, onde chiede il rigetto del ricorso.<br />

Osserva in proposito quanto segue:<br />

1. l’inserimento del dott. Alfonsi nel Risk Management del San Paolo risponde all’esigenza di<br />

utilizzare una professionalità avente specifica preparazione sui “rischi di mercato”, dal medesimo<br />

maturata presso la società Andersen e inesistente in ambito aziendale;<br />

2. l’assenza del nome del ricorrente nell’elenco delle persone da convocare per la prima riunione del<br />

Comitato Guida è dovuto a mero disguido, tant’è che successivamente il medesimo vi partecipa;<br />

3. divenuta operativa dall’1.11.1998 la fusione tra S. Paolo e IMI e costituito il cantiere di lavoro<br />

interaziendale Risk Management, emerge l’esigenza di collocarvi professionalità con forti<br />

conoscenze tecniche e non invece di tipo gestionale, come quelle facenti capo al ricorrente;<br />

4. in tale periodo il dott. Solinas continua pur sempre ad essere preposto al settore Rischi Creditizi,<br />

pur non essendo coinvolto nel relativo gruppo di lavoro, anche in quanto vengono nel frattempo<br />

avviati contatti tra le parti, in vista di una risoluzione anticipata dal servizio.<br />

Fallita la conciliazione, il giudice dà corso all’istruttoria, interrogando le parti ed escutendo<br />

numerosi testi.<br />

All’esito dell’istruttoria la vertenza viene infine discussa dai patroni delle parti ed in tale sede il<br />

ricorrente chiede disporsi CTU medico-legale, al fine di valutare il danno biologico patito, e CTU<br />

contabile, onde determinare il dovuto a titolo risarcitorio (cfr. proc. verb., p. 41, in riferimento alle<br />

pp.23-24 del ricorso).<br />

La convenuta formula opposizione ad entrambe le richieste, ritenendo inammissibile utilizzare a fini<br />

probatori la consulenza (cfr. proc. verb., p. 41, in riferimento alle pp. 32-33 della memoria).<br />

All’esito della discussione finale il giudice definisce infine il giudizio, come da dispositivo trascritto<br />

in calce alla presente sentenza, di cui dà pronta lettura alle parti.


MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

1. La difesa del ricorrente chiede in sede di discussione finale che il giudice voglia disporre una<br />

CTU medico-legale, al fine di valutare l’entità del danno biologico patito dal lavoratore in<br />

conseguenza dei fatti descritti nell’atto introduttivo della vertenza, e inoltre una CTU contabile,<br />

onde determinare quanto dovuto al prestatore a titolo risarcitorio (cfr. proc. verb., p.41, in<br />

riferimento alle pp. 23-24 del ricorso). In tale sede la convenuta formula a sua volta opposizione ad<br />

entrambe le richieste, ritenendo inammissibile utilizzare a fini probatori la consulenza tecnica,<br />

strumento di mera valutazione dei dati già acquisiti e provati (cfr. proc. verb., p.41, in riferimento<br />

alle pp. 32-33 della memoria). Ad avviso del giudice non vi è ragione di prendere posizione su tale<br />

questione controversa, essendo l’accertamento peritale richiesto, nel caso in esame, del tutto<br />

superfluo. Gli elementi raccolti in sede istruttoria e contenuti nella documentazione in atti, come si<br />

vedrà più oltre, risultano infatti di portata tale da consentire la definizione di ogni profilo della<br />

vertenza, sia per quanto concerne la sussistenza del fatto lamentato dal lavoratore e l’entità del<br />

pregiudizio patito sul piano personale e del diritto alla salute sia per ciò che concerne la<br />

determinazione delle somme eventualmente dovute, a titolo di ristoro del danno. Ciò premesso,<br />

passiamo ad esaminare il merito della causa.<br />

****<br />

2. La vertenza impone di prendere in considerazione i seguenti periodi in cui, secondo la<br />

prospettazione contenuta nel ricorso introduttivo, si sarebbe verificata la situazione di<br />

dequalificazione professionale e di danno alla salute del dott. Solinas ivi lamentata:<br />

a) aprile 1998 – novembre 1998,<br />

b) novembre 1998 – febbraio 2000.<br />

Nel periodo sub a) il lavoratore risulta responsabile del settore rischi creditizi, sia sul piano formale<br />

che sostanziale, e in tale posizione permane sino agli inizi di novembre 1998 (cfr. dep. Maino, p.<br />

23).<br />

Fa inoltre parte, ad ogni effetto, del comitato Guida del progetto in cui è coinvolto (cfr. dep.<br />

Scalerandi, pp. 27-28).<br />

Orbene, tali circostanze sono sufficienti – di per sé – ad escludere che nel periodo ora in esame il<br />

ricorrente abbia subito un impoverimento, anche solo parziale, dei propri compiti.<br />

Né ad una conclusione contraria può pervenirsi prendendo in considerazione l’episodio della<br />

presunta (ma, per la verità, non provata in giudizio) “sbianchettatura” del documento di<br />

convocazione per la riunione del Comitato Guida del 7.4.1998.<br />

A tale riunione il ricorrente ha infatti partecipato (cfr. dep. Scalerandi, p. 28), onde l’episodio – se<br />

avvenuto – non potrebbe comunque fornire la dimostrazione della situazione di svilimento delle<br />

mansioni spettanti e attribuite, lamentata in causa dal lavoratore.<br />

Prova dell’intervenuta dequalificazione non può neppure ritenersi il documento n. 26 prodotto dal<br />

ricorrente, costituito dal Verbale della riunione 24.6.1998 tenuta da Barone, Scalerandi e<br />

Giovannetti e avente ad oggetto l’avvio del futuro cantiere interaziendale Risk Management.


Il fatto che (come sottolineato a p. 10, punto XLIV, del ricorso introduttivo) in esso non compaia il<br />

nome del dott. Solinas, evidenziandosi invece quello del dott. Alfonsi, non pare infatti autorizzare la<br />

conclusione che ne trae il ricorrente.<br />

L’istruttoria ha infatti acclarato (cfr. dep. Picca, p. 19) la necessità di integrare la collettività di<br />

lavoro incaricata di occuparsi dei rischi creditizi con esperti di modelli matematici e statistici, per<br />

introdurre valutazioni di rischio centrate su tale piano.<br />

****<br />

3. Passando a questo punto ad esaminare il periodo menzionato sub b), il giudice osserva quanto<br />

segue.<br />

E’ provato in causa che nell’arco temporale che va dal 1° novembre 1998, corrispondente al<br />

momento in cui è divenuta operativa la fusione tra S. Paolo e IMI, sino al 28.2.2000, data in cui il<br />

dott. Solinas viene chiamato a svolgere la mansione di vice-direttore presso la sede di Torino,<br />

piazza San Carlo, il ricorrente non ha avuto nessun tipo di incarico e ruolo e cioè è rimasto<br />

totalmente inattivo.<br />

Di ciò fanno fede le deposizioni rese dai testi Ferraris (cfr. proc. verb., p. 31) e Musetti (cfr. proc.<br />

verb., p. 38), nonché lo stesso interrogatorio del rappresentante della convenuta (cfr. proc. verb.,<br />

pp.8-9), il quale non ha significativamente saputo indicare che cosa il dott. Solinas facesse e di che<br />

cosa si occupasse, nel periodo in questione, in cui solo formalmente era legato al Risk Management.<br />

Risulta in tal modo fornita in giudizio la dimostrazione del contegno illegittimo tenuto dalla<br />

convenuta nell’arco temporale ora in esame.<br />

Né la situazione può essere diversamente ricostruita e valutata prendendo in considerazione due<br />

circostanze cui la memoria della convenuta allude e illustrate dalla difesa della stessa nel corso della<br />

discussione finale e cioè:<br />

a) divenendo operativa dal 1 novembre 1998 la fusione tra S. Paolo e IMI, si è da tale momento<br />

registrata, specie sui livelli di professionalità ed inquadramento dirigenziali cui il ricorrente<br />

appartiene, una duplicazione di funzioni ed un corrispondente esubero di personale;<br />

b) nel periodo in questione vengono avviati contatti tra le parti in causa, in vista di una risoluzione<br />

anticipata dal servizio da parte del dott. Solinas.<br />

La circostanza sub a) è del tutto irrilevante, essendo preciso ed ineludibile dovere del datore, cui<br />

corrisponde un altrettanto specifico diritto del prestatore, entrambi discendenti dall’enunciato<br />

normativo contenuto nell’art. 2103 c.c., di fornire al dipendente un incarico determinato e stabile,<br />

nel rispetto dell’inquadramento riconosciuto e della professionalità acquisita.<br />

Del pari priva di rilevanza è la circostanza sub b).<br />

La presenza di contatti e colloqui tra le parti in causa, in vista di un’eventuale risoluzione anticipata<br />

del rapporto, ammessi dallo stesso ricorrente (cfr. proc. verb., p. 16), non giustifica infatti, in alcun<br />

modo, la pratica datoriale della spoliazione delle mansioni, irrispettosa della citata previsione<br />

codicistica.<br />

********


4. Alla luce di quanto in antecedenza esposto, va quindi riconosciuto al ricorrente il diritto al ristoro<br />

del danno patito, correlato e discendente dalla forzata inattività impostagli dal datore di lavoro, per<br />

lo spazio di 16 mesi continuativi e cioè dall’1.11.1998 al 28.2.2000.<br />

Al ricorrente va inoltre riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico subito, per la<br />

situazione di temporanea depressione indotta causalmente dal contegno datoriale.<br />

Di tale patologia e del suo carattere transitorio fanno fede i due referti prodotti dal ricorrente come<br />

documento n. 34, il primo dei quali, datato 24.3.1999, proviene dal servizio di neurologia dell’ASL<br />

n. 1 e cioè da servizio medico qualificato ed indipendente dalle parti.<br />

Per le due voci di danno ora indicate e tenuto conto della retribuzione erogata mensilmente al<br />

lavoratore (cfr. doc. n. 32 prod. p. ricorr.), viene equitativamente liquidato al medesimo, ai sensi<br />

dell’art. 1226 c.c., l’importo netto di £. 100.000.000 =, in esso computati anche gli accessori di<br />

legge (rivalutazione ed interessi) maturati medio tempore sino al febbraio 2000.<br />

Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.<br />

P.Q.M.<br />

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO IN FUNZIONE DI GIUDICE DEL LAVORO<br />

Visto l’art. 429 c.p.c.;<br />

1. Condanna parte convenuta a corrispondere a parte ricorrente l’importo netto di £. 100.000.000=,<br />

oltre alla rivalutazione ISTAT ed interessi legali sulle somme rivalutate dal febbraio 2000 al saldo<br />

effettivo;<br />

2. Condanna parte convenuta a rifondere al ricorrente le spese di lite, che liquida in £. 18.000.000=,<br />

oltre IVA e CPA;<br />

3. Dichiara esecutiva la presente sentenza.<br />

Torino, 27 giugno 2001<br />

Depositata in cancelleria il 10 agosto 2001 (inedita allo stato)<br />

Tribunale Civile di Roma, Sezione Lavoro 9 ottobre 2001, Giudice Buonassisi<br />

RISARCIMENTO DEL DANNO AL DIRIGENTE PER EMARGINAZIONE DALL’ATTIVITA’<br />

LAVORATIVA – Determinato in via equitativa (Tribunale Civile di Roma, Sezione Lavoro 9<br />

ottobre 2001, Giudice Buonassisi). Antonella G., dipendente della Telecom Italia S.p.A. con<br />

qualifica di quadro, ha chiesto al Tribunale di Roma il riconoscimento del suo diritto<br />

all’inquadramento come dirigente, sostenendo tra l’altro, di essere stata preposta per alcuni anni ad<br />

una struttura da ritenersi di livello dirigenziale, perché quando era stata affidata, successivamente,<br />

ad un suo collega questi era stato promosso dirigente. Ella ha chiesto inoltre il risarcimento del<br />

danno perché, in un secondo tempo, è stata emarginata dall’attività lavorativa. In proposito ella ha<br />

fatto riferimento alla giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui la lesione della<br />

professionalità costituisce un danno in se da liquidarsi in via equitativa. L’azienda si è difesa


sostenendo, tra l’altro, che la struttura a suo tempo affidata alla ricorrente era stata potenziata<br />

allorché vi era stato preposto il suo collega; essa tuttavia non ha fornito precisazioni in ordine<br />

all’asserito potenziamento. Il Tribunale con sentenza del 9 ottobre 2001, Giudice Dott. Buonassisi<br />

ha accolto la domanda, attribuendo alla lavoratrice il diritto alla qualifica di dirigente e<br />

condannando l’azienda al risarcimento del danno in misura di lire 50 milioni per dequalificazione e<br />

alla reintegrazione della ricorrente nelle mansioni dirigenziali.<br />

N. 194/00 R.G. A.L.<br />

N. 157/03 sent. LAV.<br />

N. 2675/03 cron.<br />

REPUBBLICA ITALIANA - TRIBUNALE DI TEMPIO PAUSANIA<br />

Il Tribunale di Tempio Pausania, in persona del Giudice del Lavoro, Dott.ssa Paola Ponassi, ha<br />

pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

nella causa portante n. 199/99 R.G. Lav. promossa da<br />

Fideli Angela Natalia, residente in Olbia, via Cesti 9 ed elettivamente domiciliata in Sassari, via<br />

Gorizia, n. 39, presso lo studio dell'avv. Casimiro Mastino, che la rappresenta e difende in forza di<br />

delega in calce al ricorso introduttivo;<br />

ricorrente<br />

CONTRO<br />

Comune di Loiri Porto San Paolo, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in<br />

Olbia, via Garibaldi, n. 37, presso lo studio dell'avv. Stefano Asara, che lo rappresenta e difende in<br />

forza di delega a margine della memoria difensiva e di costituzione in giudizio;<br />

resistente<br />

oggetto della causa: impugnazione sanzione disciplinare ed altro<br />

CONCLUSIONI<br />

Per la ricorrente:<br />

“Nel merito:<br />

- dichiarare l'illegittimità della sanzione della censura inflitta alla ricorrente in data 13 dicembre<br />

1999 dal Comune di Loiri Porto San Paolo;<br />

- condannarsi il Comune di Loiri Porto San Paolo al pagamento del danno patrimoniale di lit.<br />

2.577.100 di cui lit. 1.387.100 per la perdita dell'indennità mensile di vigilanza e lit. 1.190.000 per<br />

perdita della straordinario elettorale o, in subordine, al pagamento della diversa cifra che codesto<br />

Tribunale riterrà di giustizia;<br />

- condannarsi il Comune di Loiri Porto San Paolo al pagamento del danno di immagine patito dalla<br />

ricorrente, secondo il prudente equitativo apprezzamento del Giudice;<br />

- condannarsi il Comune di Loiri Porto San Paolo al pagamento del danno biologico dovuto ad<br />

attività persecutoria (<strong>mobbing</strong>), unitamente a dequalificazione professionale e danno di immagine<br />

per un ammontare di lit. 72.500.000 o, in subordine, al pagamento della diversa cifra che codesto<br />

Tribunale riterrà di giustizia;<br />

- condannarsi il Comune di Loiri Porto San Paolo alla rifusione delle spese e competenze legali del<br />

presente giudizio.”<br />

Per il resistente:<br />

“1) Rigettare la domanda.<br />

2) Condannare la ricorrente ai danni ex art. 96 c.p.c. per lit. 10.000.000 da versare a favore del<br />

comune.


3) Vittoria di spese e di onorari.”<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato il 23 maggio 2000, Fideli Angela Natalia, dipendente, dal 3 ottobre 1996, del<br />

Comune di Loiri Porto San Paolo, con la qualifica di vigile urbano, esponeva di aver sempre svolto<br />

le proprie mansioni in modo rigoroso, evitando favoritismi e compromessi nell'applicazione della<br />

legge, e di essersi vista costretta, in più occasioni, a respingere le richieste, formulate soprattutto da<br />

parte del Sindaco, volte ad impegnarla in compiti che nulla avevano a che fare con le competenze<br />

assegnatele dalla L. 65/86; lamentava che i suoi rapporti con il datore di lavoro (e segnatamente con<br />

il Sindaco) erano andati, progressivamente, deteriorandosi, sino al verificarsi di una perdurante<br />

situazione di tensione, nella quale essa ricorrente veniva “criminalizzata”; affermava che,<br />

nell'ambito di tale situazione lavorativa, le erano state irrogate sanzioni disciplinari illegittime, le<br />

era stata rigettata una richiesta di mobilità, era stata archiviata, a seguito dell'intervento personale<br />

del Sindaco presso la Prefettura, la propria richiesta, volta all'ottenimento della qualifica di agente<br />

di pubblica sicurezza, le erano stati tolti i compiti di polizia stradale, giudiziaria e di pubblica<br />

sicurezza e, più in generale, erano stati posti in essere nei suoi confronti, da parte del datore di<br />

lavoro, una serie di comportamenti che avevano raggiunto lo scopo di “ghettizzarla”, sotto il profilo<br />

sia umano che professionale, e di sottoporla ad un controllo disciplinare particolarmente intenso e<br />

persecutorio, sino a che ella era stata colta da uno stato depressivo che non aveva precedenti nella<br />

sua storia personale; lamentava, altresì, di avere subito, a causa degli illegittimi provvedimenti posti<br />

in essere dal datore di lavoro, un danno patrimoniale, costituito nella perdita di una parte<br />

dell'indennità mensile lorda di vigilanza (per l'importo di lit. 1.387.100) e nel mancato svolgimento<br />

di straordinario (per complessive lit. 1.190.000, corrispondenti a 70 ore di lavoro) – straordinario<br />

che era stato autorizzato per i suoi colleghi di lavoro, al fine di effettuare la consegna dei certificati<br />

elettorali, mentre a lei era stato rifiutato, imponendole peraltro, contestualmente, di consegnare i<br />

certificati elettorali durante le ore di servizio, benché si trattasse di un'attività non rientrante tra i<br />

suoi compiti. Evocava, pertanto, innanzi a questo Tribunale, il Comune di Loiri Porto San Paolo,<br />

affinché dichiarasse l'illegittimità della sanzione della censura inflitta ad essa ricorrente in data 13<br />

dicembre 1999 ed accertasse la condotta di <strong>mobbing</strong> posta in essere dal Comune, con condanna di<br />

quest'ultimo, in persona del Sindaco pro tempore, al pagamento del danno patrimoniale e non<br />

patrimoniale (all'immagine, da dequalificazione professionale e biologico) da ella subito – danno<br />

indicato in complessive lit. 2.577.100 per il danno patrimoniale ed in lit. 72.500.000 (da liquidarsi<br />

sulla base di una valutazione equitativa) per le altre voci di danno.<br />

Si costituiva in giudizio il Comune di Loiri Porto San Paolo, in persona del Sindaco pro tempore,<br />

resistendo alla domanda.<br />

Rilevava, in relazione al capo della domanda avente ad oggetto l'annullamento della sanzione<br />

disciplinare del 13 dicembre 1999, che in tale data non era stata irrogata alcuna sanzione, posto che<br />

vi era stata, unicamente, una segnalazione scritta, da parte del Sindaco, al Responsabile del Servizio<br />

Vigilanza, il quale però aveva deciso di sospendere qualunque determinazione, cosicché nessun<br />

provvedimento disciplinare era stato adottato. In relazione, più in generale, all'asserita attività<br />

persecutoria posta in essere nei confronti della ricorrente, osservava che:<br />

-) il rigetto della richiesta di mobilità non poteva ritenersi viziato, stante la palese infondatezza della<br />

pretesa della dipendente;<br />

-) alcune mansioni effettivamente estranee al profilo professionale di operatore di polizia<br />

municipale (quali, ad esempio, acquistare articoli di cancelleria, eseguire notifiche, consegnare<br />

documenti od effettuare spedizioni postali) erano state, effettivamente, richieste alla ricorrente, così<br />

come, peraltro, alla generalità dei dipendenti – i quali, “quando se ne presentava la necessità, si<br />

rendevano disponibili, su cortese richiesta”, in virtù del “sentimento di collaborazione nello<br />

svolgimento dei compiti dell'Ente.”;<br />

-) il Sindaco aveva, effettivamente, chiesto al Prefetto l'archiviazione provvisoria della pratica della<br />

ricorrente, volta al conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza; ciò, però, non per<br />

un intento punitivo, bensì per “ragioni di opportunità, nell'interesse della P.A. e della stessa agente,


perché l'amministrazione era venuta a conoscenza che quest'ultima era incorsa in vari episodi di<br />

intemperanza nei confronti degli utenti ed era sembrato ragionevole valutare con maggiore<br />

prudenza l'opportunità di consentirle il porto delle pistole.” Per analoghi motivi, inoltre, la<br />

ricorrente era stata adibita esclusivamente a compiti di polizia amministrativa (più precisamente:<br />

polizia tributaria, artigianale, industriale, commerciale, edilizia, sanitaria, etc.), revocando, nei suoi<br />

confronti, le mansioni di polizia stradale e di polizia giudiziaria;<br />

-) alla ricorrente era stata inflitta, con provvedimento a firma del Sindaco, emesso in data 6 ottobre<br />

1999, la sanzione della censura, della quale sussistevano i presupposti di legge, stante la fondatezza<br />

delle contestazioni;<br />

-) anche le altre contestazioni formulate successivamente dovevano ritenersi riferite ad episodi<br />

effettivamente verificatisi, integranti gli estremi di illeciti disciplinari.<br />

In conclusione, la domanda fondata sull'asserita attività di <strong>mobbing</strong> doveva ritenersi del tutto<br />

infondata, onde il Comune chiedeva che essa venisse rigettata, con condanna della ricorrente al<br />

risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., da quantificarsi in misura di lit. 10.000.000.<br />

La causa, istruita a mezzo di produzioni documentali, interrogatorio formale della ricorrente e prova<br />

per testi, all'udienza del 10 luglio 2003 era decisa, come da allegato dispositivo.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

Si rileva, innanzitutto, relativamente all'impugnazione della censura, asseritamente irrogata il 13<br />

dicembre 1999, che detta domanda non può essere accolta; dalla lettura degli atti emerge, infatti,<br />

che il 13 dicembre 1999 non venne irrogata alcuna sanzione ma vi fu soltanto una segnalazione<br />

scritta da parte del Sindaco, il quale così affermava: “...ritengo che alla dipendente Fideli Angela<br />

Natalia debba essere irrogata la sanzione prevista dall'art. 25 c. 4 del C.C.N.L. 6.7.1995, con<br />

l'applicazione della multa di importo pari a 4 ore di retribuzione”. A tale segnalazione, indirizzata al<br />

Responsabile Servizio Vigilanza, non è, poi, conseguita l'irrogazione di alcuna sanzione, posto che,<br />

con successiva missiva, in data 30 dicembre 1999, il Responsabile del Servizio informava la<br />

ricorrente che la sanzione predetta (che peraltro non risulta essere stata mai formalmente irrogata<br />

dall'organo competente) era stata sospesa.<br />

Passando all'esame della domanda avente ad oggetto l'attività persecutoria posta in essere dal<br />

Comune resistente, segnatamente a mezzo del Sindaco, nei confronti della ricorrente, vanno<br />

ricostruiti gli episodi lamentati dalla ricorrente, onde stabilire se gli stessi, esaminati singolarmente,<br />

siano viziati da illegittimità e se, considerati nel loro complesso, appaiano inseriti in una strategia<br />

persecutoria, nell'ambito della quale la ricorrente sia stata sottoposta ad una serie di condotte o di<br />

provvedimenti finalizzati ad uno scopo ingiusto, consistente nel danneggiarla, emarginarla e<br />

discriminarla, sino a provocarle danni alla salute.<br />

Il primo significativo carteggio (in ordine cronologico) rinvenibile negli atti è quello relativo alla<br />

richiesta di mobilità, formulata dalla ricorrente in data 27 maggio 1998 deducendo la sussistenza di<br />

motivi familiari – richiesta respinta dal Sindaco con una missiva, datata 28 maggio, che lascia<br />

intendere in modo del tutto palese la sussistenza di un rapporto conflittuale tra il Sindaco e l'odierna<br />

ricorrente. Mentre la richiesta dell'A.P.M. Fideli appare del tutto sobria e corretta nei toni (“La<br />

sottoscritta ... chiede di essere trasferita nei ruoli del Comune di San Teodoro per i seguenti motivi:<br />

motivi familiari. Si allega curriculum. Certa di una vostra risposta porgo distinti saluti”), la risposta<br />

del Sindaco esprime, con toni esarcebati, un profondo fastidio per lo stato dei rapporti personali con<br />

la ricorrente. Questo, infatti, il tenore del provvedimento: “La sua richiesta di trasferimento nei ruoli<br />

del Comune di Olbia mi coglie di sorpresa, e ritengo il Suo comportamento censurabile poiché<br />

nasce innegabilmente da una Sua, più volte dimostrata, allergia per gli ordini e le decisioni che Le<br />

vengono impartiti. Il Suo palese risentimento per non aver ottenuto con immediatezza quanto<br />

richiesto, La porta ad avere verso il sottoscritto e verso l'Amministrazione un comportamento<br />

astioso oltre che dispettoso. Resta il mio personale rammarico anche per il fatto che Lei non ha<br />

sentito il dovere di manifestare il suo intendimento di persona, come altre volte è capitato. La sua<br />

richiesta è, per il momento, rigettata. La invito comunque, per l'avvenire, ad astenersi da<br />

comportamenti di insofferenza continua nei confronti di tutti, amministratori, dirigenti e cittadini.


Colgo altresì l'occasione per sottolinearLe che è dovuto per dipendenza gerarchica o, quanto meno,<br />

per rispetto ed educazione, rivolgere il saluto verso gli Amministratori comunali e verso il<br />

Segretario comunale.”<br />

È ben vero che difetta, in capo a questo Giudice, il potere di dichiarare l'illegittimità di un<br />

provvedimento amministrativo emesso in epoca precedente al 30 giugno 1998 – atteso che, come<br />

noto, a norma dell'art. 45, comma 17, del decreto legislativo n. 80/98: “Sono attribuite al Giudice<br />

ordinario, in funzione di Giudice del Lavoro, le controversie di cui all'art. 68 del D. Lgs. 3.2.1993,<br />

n. 29, come modificato dal presente decreto (controversie in materia di pubblico impiego) relative a<br />

questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie<br />

relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite<br />

alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo e devono essere proposte, a pena di<br />

decadenza, entro il 15 dicembre 2000.” Peraltro, dovendosi valutare unitariamente la vicenda de<br />

qua, anche i comportamenti anteriori al 30 giugno 1998 possono, ad opinione di questo Giudice,<br />

essere presi in esame, al fine di accertare la fondatezza della domanda basata sull'asserito <strong>mobbing</strong>.<br />

Può dunque rilevarsi che la motivazione del suddetto provvedimento di rigetto (come sopra<br />

interamente trascritta) è solo apparente; in sostanza, il Sindaco sembra mettere in dubbio il diritto<br />

della ricorrente di proporre l'istanza (che, viceversa, appare del tutto legittima sino a prova<br />

contraria) e critica aspramente le motivazioni che, a suo parere, hanno indotto la ricorrente a<br />

formularla (motivazioni in ordine alle quali, a parere di questo Giudice, non aveva alcun sindacato,<br />

rientrando, le stesse, nella sfera personale della lavoratrice); infine, egli coglie l'occasione per<br />

formulare, nei confronti della ricorrente, una serie di generiche contestazioni che fanno riferimento<br />

ad episodi non meglio esplicitati – che vengono, comunque, ricondotti al “palese risentimento per<br />

non aver ottenuto con immediatezza quanto richiesto”, che avrebbe animato la ricorrente – e che<br />

(sulla base delle considerazioni che verranno svolte in seguito) sono verosimilmente da riferirsi alla<br />

vicenda relativa alla mancata conclusione della pratica che la ricorrente aveva avviato per<br />

conseguire la qualifica di agente di pubblica sicurezza.<br />

In definitiva, la motivazione del rigetto dell'istanza di mobilità appare basata unicamente su motivi<br />

di natura personale (i non buoni rapporti intercorrenti tra la ricorrente ed il Sindaco) piuttosto che su<br />

considerazioni di natura tecnico-giuridica, che sono, infatti, del tutto assenti.<br />

Secondo quanto emerso dalla prospettazione di entrambe le parti (e confermato sia da quanto risulta<br />

dal carteggio in atti, sia dalla deposizione del teste A.), l'episodio che ha portato al deterioramento<br />

di tali rapporti consiste, come sopra accennato, nella vicenda della pratica, avviata dalla ricorrente,<br />

volta ad ottenere la qualifica di agente di pubblica sicurezza – cosicché, alla luce del complesso del<br />

quadro probatorio acquisito, può verosimilmente ritenersi che ad essa si riferisse il Sindaco<br />

menzionando il “palese risentimento” manifestato dalla ricorrente “per non aver ottenuto con<br />

immediatezza quanto richiesto”.<br />

Questi, sinteticamente, i fatti.<br />

-) il 6 novembre 1997 il Sindaco di Loiri Porto San Paolo inoltrava alla Prefettura di Sassari<br />

l'istanza, dell'A.P.M. Fideli, volta all'attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza;<br />

-) il 4 febbraio 1998 la Prefettura di Sassari richiedeva, al Comune, l'integrazione della<br />

documentazione, prodotta a corredo della pratica, con il certificato di idoneità al maneggio delle<br />

armi, rilasciato da una sezione di tiro a segno nazionale;<br />

-) il 5 maggio 1998 la Prefettura sollecitava al Comune la trasmissione del predetto documento;<br />

-) il 2 novembre 1998 la Prefettura assegnava al Comune il termine perentorio di giorni sessanta per<br />

l'invio del certificato di idoneità al maneggio delle armi, preannunciando che, in caso di mancato<br />

invio dello stesso, la pratica sarebbe stata archiviata;<br />

-) venuta a conoscenza dello stato di stasi in cui si trovava la pratica, la ricorrente conseguiva, a<br />

proprie cure e spese, il certificato di idoneità al maneggio delle armi, che trasmetteva al<br />

Responsabile del Servizio, nonché, per conoscenza, alla Prefettura di Sassari;<br />

-) con nota n. 7743, del 18 dicembre 1998, il Sindaco, invece di inoltrare la suddetta<br />

documentazione alla Prefettura, chiedeva espressamente la sospensione della pratica.


È evidente, dunque, che il rigetto della domanda di mobilità (formulata nel maggio del 1998) si<br />

situa, temporalmente, in un periodo in cui era già iniziato, tra il Sindaco e la ricorrente, il conflitto<br />

avente ad oggetto l'attribuzione della qualifica – essendoci ben noto nell'ambito del Comune (si<br />

vedano le dichiarazioni dei testi F., U., A. e S.) che il Sindaco voleva evitare che la ricorrente<br />

conseguisse tale qualifica. In tale quadro, dunque, assume un significato la frase “il suo palese<br />

risentimento per non aver ottenuto con immediatezza quanto richiesto...” che va riferita, appunto,<br />

all'insistenza (lamentata dal Sindaco) con cui la ricorrente aveva sollecitato il buon fine della<br />

pratica, ed al suo disappunto per il mancato accoglimento della domanda, che l'avrebbe portata<br />

(secondo la prospettazione del Sindaco) ad assumere “un comportamento astioso oltre che<br />

dispettoso”.<br />

Ai sensi dell'art. 5, commi 1 e 2, l. 65/86, “il personale che svolge servizio di polizia municipale,<br />

nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita<br />

anche: a) funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia<br />

giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia giudiziaria, riferita ai responsabili del<br />

servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell'art. 221, terzo<br />

comma, del codice di procedura penale; b) servizio di polizia stradale, ai sensi dell'art. 137 del<br />

senso unico delle norme sulla circolazione stradale approvato con decreto del Presidente della<br />

Repubblica 15 giugno 1959 n. 393; c) funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 3<br />

della presente legge. A tal fine il prefetto conferisce al suddetto personale, previa comunicazione<br />

del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato il possesso dei seguenti<br />

requisiti: a) godimento dei diritti civili e politici; b) non aver subito condanna a pena detentiva per<br />

delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato<br />

espulso dalle Forze Armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici”. A<br />

norma del 5° comma del medesimo art. 5, “gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è<br />

conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione del Consiglio<br />

comunale, portare, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio<br />

nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti...”<br />

Nell'interpretare la suddetta normativa, la giurisprudenza amministrativa ha affermato, in più<br />

occasioni, che “l'art. 5, comma 2, della L. 7 marzo 1986 n. 65 prevede che l'assegnazione dei<br />

compiti di pubblica sicurezza ai soggetti appartenenti alla polizia municipale avvenga sulla base<br />

della verifica del possesso dei requisiti imposti dalla legge; pertanto la nomina prefettizia per<br />

l'acquisto della qualità di agente di P.S., così come la perdita di tale qualità, costituiscono atti<br />

vincolati al rispetto della legge, non presentando alcuna veste di carattere discrezionale” (Cons.<br />

Giust. Amm. Sicilia, sez. Giurisdiz. 26 febbraio 1998 n. 70; nello stesso senso TAR Campania<br />

Napoli, sez. I, 17 luglio 1995, n. 264).<br />

In ogni caso, a prescindere dalla natura dei poteri attribuiti alla prefettura, si desume in modo<br />

inequivocabile, dal tenore della norma in esame, che, nella procedura di conferimento della<br />

qualifica di agente di pubblica sicurezza, al sindaco è attribuita unicamente la funzione di<br />

trasmissione della comunicazione, mentre il soggetto deputato al conferimento della qualifica viene<br />

individuato, unicamente, nel prefetto.<br />

Alla luce di tali considerazioni, non può che ritenersi illegittima la condotta tenuta, nel caso di<br />

specie, dal Sindaco, il quale ha dapprima omesso (per circa un anno) di trasmettere alla Prefettura la<br />

documentazione necessaria a corredo della pratica dell'A.P.M. Fideli ed infine, una volta che<br />

quest'ultima si è attivata direttamente – acquisendo il certificato per il maneggio delle armi e<br />

ponendo in essere, così, le condizioni affinché la pratica potesse essere accolta – ha inviato alla<br />

Prefettura la nota n. 7743 del 18 dicembre 1998, chiedendo la sospensione della pratica.<br />

Appare significativa, ad opinione di questo Giudice, la circostanza che la richiesta di “archiviazione<br />

provvisoria” della pratica della ricorrente sia del tutto priva di motivazione – ciò che rende il<br />

provvedimento, già di per sé oggettivamente illegittimo (in quanto non rientrante nei poteri del<br />

Sindaco) vieppiù sospetto, sotto il profilo della bontà delle motivazioni che lo hanno determinato.<br />

Solo a distanza di vari mesi, infatti, il Sindaco ha ritenuto di dover giustificare il comportamento


tenuto nella vicenda de qua. E lo ha fatto nell'ambito della motivazione di un provvedimento<br />

disciplinare irrogato nei confronti della ricorrente, ritenuta colpevole di “non aver voluto<br />

comprendere il giusto, provvisorio e cautelativo diniego da parte del Sindaco per l'affidamento della<br />

pistola, in ciò indotto in errore dalla Prefettura che collegava il riconoscimento della qualifica di<br />

A.P.S. al possesso dell'idoneità al maneggio delle armi”, e di “aver più volte, ripetutamente e in<br />

forma ossessiva riproposto la necessità di aver in dotazione la pistola (cfr. nota al Prefetto del<br />

7.1.1999) con ciò alimentando la preoccupazione dello scrivente e della Giunta.”<br />

In base a tale contestazione (nonché ad altri addebiti, che in seguito dovremo esaminare) è stata<br />

irrogata alla ricorrente, direttamente dal Sindaco (con provvedimento in data 6 ottobre 1999) la<br />

sanzione della censura – sanzione impugnata dalla ricorrente nell'ambito di una separata causa, che<br />

è stata decisa, da questo Giudice, con la declaratoria di illegittimità del provvedimento impugnato.<br />

Appare peraltro necessario, ai fini della presente decisione, ribadire alcune delle considerazioni già<br />

svolte con la predetta sentenza, posto che, evidentemente, l'illegittimità del suddetto provvedimento<br />

rileva nelle due cause, a fini distinti.<br />

Orbene, deve ritenersi che con le contestazioni formulate, ai fini disciplinari, in data 6 luglio 1999,<br />

il Sindaco abbia cercato di fornire una qualche giustificazione del proprio operato (giacché<br />

consapevole del fatto che la ricorrente si era, nel frattempo, attivata, segnalando alla Prefettura<br />

l'illegittimità del suo intervento nell'archiviazione della pratica) addossando alla ricorrente la colpa<br />

di aver insistito nel richiedere, nonostante l'opposizione del Sindaco, la qualifica di agente di<br />

pubblica sicurezza. Ribaltando disinvoltamente ragioni e torti, il comportamento omissivo del<br />

Sindaco diventa “giusto, provvisorio e cautelativo”, e le legittime sollecitazioni della ricorrente,<br />

affinché venisse finalmente inoltrata la documentazione a corredo della propria pratica, vengono<br />

descritte alla stregua di manifestazioni ossessive, lasciando intendere, inoltre, che esse fossero il<br />

segnale di una personalità “non serena” - rappresentandosi, altresì, il rischio che l'affidamento della<br />

pistola, conseguente all'attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza, potesse tradursi<br />

in un pericolo per la stessa ricorrente, oltre che per i cittadini.<br />

Trattasi, evidentemente, di affermazioni gravi che sono rimaste, nel corso del giudizio, del tutto<br />

indimostrate e che, inoltre, rivelano elementi di contraddittorietà.<br />

Da un lato, infatti, il Sindaco contesta alla ricorrente di non aver voluto comprendere un diniego che<br />

egli stesso afferma fondato su un errore (a suo dire “indotto” dalla Prefettura); dall'altro, non viene<br />

spiegato sulla base di quali elementi si pretenda dalla ricorrente una tale “comprensione”, posto che,<br />

secondo quanto affermato nella parte motiva delle contestazioni, il Sindaco “non poté fornire alcuna<br />

risposta scritta” alla richiesta di chiarimenti in ordine alla vicenda in oggetto, “perché impegnato in<br />

qualità di candidato per le elezioni del Consiglio regionale del 13 e 27 giugno e, come tale, quasi<br />

sempre assente dal Comune.”<br />

Di fronte ad un comportamento omissivo protratto per circa un anno, ad una esplicita e immotivata<br />

richiesta di sospensione della pratica (allorché la stessa era stata sbloccata per iniziativa della<br />

ricorrente) ed, infine, al silenzio a fronte della richiesta di chiarimenti in ordine a quanto stava<br />

accadendo, la mancata comprensione da parte della ricorrente circa “il giusto, provvisorio e<br />

cautelativo diniego da parte del Sindaco” appare dunque, a parere di questo Giudice, quanto mai<br />

condivisibile, oltre che non integrante gli estremi di alcun illecito disciplinare.<br />

Si comincia a delineare, così, un intento persecutorio da parte del Sindaco nei confronti della<br />

ricorrente, posto che le legittime richieste della predetta si scontrano con provvedimenti illegittimi<br />

che la danneggiano, e che, inoltre, vengono formulate nei suoi confronti, una serie di contestazioni<br />

(disciplinari e non) che, in sostanza, mortificano la personalità della predetta – giacché fondate non<br />

su considerazioni di carattere tecnico-giuridico, ma su generiche critiche al suo cattivo carattere.<br />

L'esistenza di un siffatto intento persecutorio risulta confermato da ulteriori vicende.<br />

Ci si riferisce al demansionamento, all'isolamento (fisico oltre che morale) della ricorrente ed al<br />

trattamento discriminatorio riservatole rispetto ai suoi colleghi. Vediamoli nell'ordine.<br />

Con provvedimento in data 30 giugno 1999 il Sindaco ha disposto che l'A.P.M. Fideli venisse<br />

“adibita, con decorrenza immediata, esclusivamente a compiti di polizia amministrativa e


precisamente: polizia tributaria, artigianale, industriale, commerciale, edilizia, sanitaria, ecc.<br />

escludendo provvisoriamente compiti di polizia stradale, giudiziaria e di pubblica sicurezza”,<br />

affermando che detta disposizione veniva “adottata, in via provvisoria, per evitare il ripetersi di<br />

incresciose situazioni di conflittualità con gli utenti, che hanno comportato forti tensioni nella<br />

comunità e che potrebbero creare eventuali pericoli anche per l'incolumità della stessa dipendente.”<br />

Anche in questo caso, la motivazione del provvedimento è assai vaga, facendo riferimento ad<br />

episodi indicati molto genericamente (“Incresciose situazioni di conflittualità con gli utenti...”) che<br />

se, da un lato, non vengono formalmente contestati sopo il profilo disciplinare, pure sembra<br />

vengano ascritti a mancanze (o all'inadeguatezza) della ricorrente – con il risultato pratico che<br />

quest'ultima viene privata delle mansioni più qualificanti della propria funzione senza venire<br />

previamente posta in condizione di poter fornire elementi a propria discolpa.<br />

Nel corso del presente procedimento il Comune, insistendo nella prospettazione per cui la ricorrente<br />

avrebbe tenuto un comportamento scorretto nei confronti degli utenti, ha prodotto due missive<br />

(portanti data 16 giugno 1999 e 24 giugno 1999). Con la prima, un automobilista che aveva lasciato<br />

l'auto sotto un cartello del divieto di sosta, per andare a comprare il giornale, e che è stato per<br />

questo multato dalla ricorrente, lamenta il tono scortese usato dalla stessa e, pur non contestando la<br />

regolarità della sanzione, afferma che trova “sciocco” occuparsi di queste “sciocchezze” lasciando<br />

perdere cose che possono dare un disturbo reale o un pericolo, “vedi la musica che spesso suona al<br />

bar sino alle 2,00 di notte, svegliandoti o i ragazzi che sfrecciano sui motorini regolarmente senza<br />

casco o altre ancora.” Con la seconda, quattro proprietari di appartamenti di un complesso<br />

residenziale situato sulla via principale di Porto San Paolo, lamentano il disturbo causato loro dal<br />

rumore del fischietto, utilizzato dalla ricorrente nel corso del proprio lavoro.<br />

Ad opinione di questo Giudice le segnalazioni suddette non possono considerarsi idonee a ritenere<br />

la fondatezza della prospettazione del resistente, posto che le circostanze ivi menzionate seppure<br />

dovessero ritenersi veritiere (ciò che non può certo darsi per scontato) non integrano gli estremi di<br />

fatti aventi rilievo disciplinare e tanto meno appaiono idonee a fondare il provvedimento di<br />

modifica delle mansioni della ricorrente.<br />

Va ricordato, per completezza, che alcuni dei testi di parte resistente (C. e R.) hanno confermato che<br />

erano pervenute, al Comune, segnalazioni di utenti che si lamentavano dell'operato dell'A.P.M.<br />

Fideli. Tali dichiarazioni, però, appaiono del tutto generiche, non riferendosi ad alcun particolare<br />

episodio che possa ritenersi, effettivamente, indice di un comportamento scorretto o illegittimo; per<br />

contro va ricordata la testimonianza di F. G. (collega della ricorrente) il quale ha così deposto: “Non<br />

mi risulta che la ricorrente abbia dato luogo a episodi di intemperanza; capita tutti i giorni a noi<br />

Vigili Urbani di avere discussioni con gli utenti, perché nel momento in cui facciamo<br />

contravvenzioni è normale che le persone reagiscano, e a volte si scaldano. Comunque mi risulta<br />

che la ricorrente abbia avuto le solite discussioni di servizio e nulla più...”<br />

A fronte di tali dichiarazioni, e rilevato altresì che risultano pervenute al Comune solo le due<br />

segnalazioni scritte cui poc'anzi si è fatto riferimento, deve ritenersi che il provvedimento con cui la<br />

ricorrente (in data 30 giugno 1999) è stata privata dei compiti di polizia stradale, giudiziaria e di<br />

pubblica sicurezza – sull'asserito presupposto che si rendeva necessario “evitare il ripetersi di<br />

incresciose situazioni di conflittualità con gli utenti, che hanno comportato forti tensioni nella<br />

comunità e che potrebbero creare eventuali pericoli anche per l'incolumità della stessa dipendente”<br />

– integri gli estremi di un demansionamento e possa essere ritenuto indicativo di un intento<br />

persecutorio nei confronti della ricorrente.<br />

È lo stesso Sindaco, peraltro, che con il provvedimento in data 6 luglio 1999 (in cui contesta<br />

all'A.P.M. Fideli una serie di illeciti disciplinari) evidenzia l'importanza fondamentale, nella<br />

vicenda de qua, del deterioramento dei propri rapporti personali con la predetta – deterioramento<br />

che egli stesso ascrive, in buona misura, al fatto che ella non aveva accettato di buon grado<br />

l'archiviazione della pratica volta ad ottenere la qualifica di agente di pubblica sicurezza.<br />

Dal tenore di tale contestazione, è agevole rilevare il fastidio, da parte del Sindaco, per l'intervento<br />

della ricorrente presso la Prefettura (ove ella si era rivolta per chiedere se fossero ravvisabili, nella


condotta tenuta dal Sindaco, estremi di responsabilità) ed è, del pari, evidente che proprio l'esistenza<br />

di rapporti tesi tra i due soggetti (il Sindaco da un lato, la ricorrente dall'altro) abbia determinato<br />

tutta una serie di contestazioni che si basano sostanzialmente, più che su fatti oggettivi, sulle note<br />

caratteriali della ricorrente, mal tollerate dal Sindaco.<br />

Queste, infatti, le contestazioni poste alla base del provvedimento disciplinare:<br />

“1. aver tenuto un comportamento stizzito e bizzoso con atteggiamento provocatorio e di scontro<br />

nei confronti del Sindaco, dei Consiglieri comunali e del Segretario;<br />

2. aver esagerato, nell'espletamento del proprio servizio, il ruolo repressivo e trascurato quello<br />

preventivo;<br />

3. aver tenuto comportamento irriguardoso nei confronti dei cittadini che, pur riconoscendo spesso<br />

il loro errore, hanno sempre rivendicato, con giusta ragione, il diritto al rispetto soprattutto da parte<br />

di coloro che per istituto dovrebbero garantirlo;<br />

4. aver utilizzato carta intestata del Comune per uso privato;<br />

5. non aver voluto comprendere il giusto, provvisorio e cautelativo diniego da parte del Sindaco per<br />

l'affidamento della pistola, in ciò indotto in errore dalla Prefettura che collegava il riconoscimento<br />

della qualifica di APS al possesso dell'idoneità a maneggio delle armi;<br />

6. aver più volte, ripetutamente e in forma ossessiva riproposto la necessità di aver in dotazione la<br />

pistola (cfr. nota al Prefetto del 7.1.1999) con ciò alimentando la preoccupazione dello scrivente e<br />

della Giunta;<br />

7. aver chiesto di poter svolgere il servizio non più da sola per paura di rappresaglia ma in<br />

compagnia di altro agente, con ciò causando aggravio di costi per il Comune.”<br />

Si è già rilevata l'infondatezza di alcuni di tali addebiti (e segnatamente quelli sub 2, 3, 5, 6).<br />

Per quanto riguarda il “comportamento stizzito e bizzoso con atteggiamento provocatorio e di<br />

scontro nei confronti del Sindaco, dei Consiglieri comunali e del Segretario” (contestato sub 1), si<br />

rileva che dall'espletata istruttoria (nonché dalla documentazione versata in atti) non è emersa la<br />

sussistenza di particolari contrasti tra la ricorrente ed i Consiglieri comunali, o il Segretario,<br />

cosicché non è dato capire a quali episodi la contestazione faccia riferimento. Nella parte motiva<br />

delle contestazioni, il Sindaco precisa che la ricorrente, oltre ad aver manifestato scortesia nei<br />

confronti dei predetti soggetti, avrebbe continuamente contestato ordini e compiti a lei assegnati,<br />

perché ritenuti di non sua competenza, con ciò dimostrando scarsa collaborazione e disciplina.<br />

L'escussione dei testi ha però escluso la veridicità di tale circostanza; va menzionata, a tale<br />

riguardo, la deposizione del teste S., di parte resistente (all'epoca dei fatti responsabile degli affari<br />

generali e, in un secondo periodo, dell'area amministrativa), il quale ha dichiarato: “Corrisponde al<br />

vero che i dipendenti comunali solitamente accettano di prestare piccoli servizi quali, ad esempio,<br />

consegnare/ritirare documenti presso altri enti ed acquistare materiale di cancelleria ... Solitamente i<br />

dipendenti accettano di effettuare le suddette commissioni senza sollevare problemi ... Non mi<br />

risulta che la ricorrente si sia mai rifiutata di compiere a sua volta le piccole commissioni che le<br />

venivano richieste. Non so se abbia mai protestato; confermo che anche a lei venivano richieste e<br />

che lei si prestava a svolgerle.” Anche gli addebiti sub 1 si appalesano, dunque, infondati.<br />

In relazione all'uso della carta stampata (contestato sub 4) si ricorda che, a sostegno della stessa,<br />

non è stata scritta neppure una riga di motivazione per specificare gli elementi fattuali e temporali<br />

cui essa si riferisce. Posto che la ricorrente ha affermato, nelle proprie memorie difensive, di essersi<br />

limitata ad utilizzare la carta intestata per chiedere informazioni alla Prefettura di Sassari circa lo<br />

stato della propria pratica (per il conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza) e<br />

che nulla è stato, in merito, controdedotto, deve ritenersi che solo a ciò si riferisca l'addebito; pare,<br />

dunque, che anche esso sia infondato, in quanto la ricorrente si sarebbe limitata ad utilizzare la carta<br />

intestata del Comune per conoscere lo stato di una pratica che lo stesso Comune aveva il dovere di<br />

istruire (e che, invece, come già rilevato, è stata illegittimamente ostacolata dal Sindaco). La<br />

sanzione disciplinare, fondata su un addebito di così poco rilievo, appare, dunque, più che altro<br />

volta a scopi ritorsivi.<br />

Infine, venendo all'esame dell'addebito sub 7 (“aver chiesto di poter svolgere il servizio non più da


sola per paura di rappresaglia ma in compagnia di altro agente, con ciò causando aggravio di costi<br />

per il Comune”), deve ritenersi che esso sia ictu oculi infondato, solo che si osservi che la ricorrente<br />

si è limitata, secondo la stessa prospettazione del Sindaco, a formulare una legittima richiesta in<br />

ordine all'organizzazione del lavoro. Peraltro, la difesa del resistente non ha smentito le circostanze<br />

di fatto esposte dalla ricorrente sin dalla fase del procedimento disciplinare, e ribadite nel presente<br />

giudizio, secondo cui la predetta, nello svolgimento del servizio – che si protraeva, d'estate, anche<br />

in orario notturno – era comandata a pattugliare il territorio quasi sempre da sola, non disponeva di<br />

un'arma ed era dotata, per le comunicazioni con l'Ufficio, unicamente di un cellulare di servizio<br />

TIM, non sempre avente copertura in tutto il territorio di competenza. Alla luce di tali circostanze,<br />

pertanto, la richiesta de qua (poter effettuare il servizio con un altro Agente) appare, oltre che<br />

legittima, del tutto comprensibile ed, in ogni caso (anche qualora ritenuta non meritevole di<br />

accoglimento) sicuramente non integrante gli estremi di un'infrazione disciplinare.<br />

Sulla base delle considerazioni che precedono, si ravvisano, nella sanzione disciplinare irrogata, due<br />

profili di illegittimità. Dal punto di vista formale, le contestazioni de quibus sono state formulate in<br />

modo generico, se non, in alcuni casi, addirittura contraddittorio. Vanno richiamate, a tale riguardo,<br />

le numerose pronunce con cui la giurisprudenza amministrativa ha ribadito la necessità che,<br />

nell'effettuare le contestazioni, sia rispettato il principio di specificità, oltre che di immutabilità,<br />

degli addebiti, onde garantire che non venga meno la ratio dell'istituto della previa contestazione<br />

dell'illecito (v., tra le altre: TAR Bari, Sez. I, 26 marzo 1996, n. 224; TAR Brescia, 7 giugno 1999,<br />

n. 535; TAR Lazio, Sez. I, 7 settembre 1999, n. 1976; TAR Bologna, 5 giugno 2001, n. 453).<br />

Sotto il profilo sostanziale, non può che ricordarsi che non è stata fornita la prova, incombente sul<br />

datore di lavoro, in ordine alla fondatezza degli addebiti, onde gli stessi devono ritenersi, nel quadro<br />

della complessiva situazione venutasi a creare, in particolare, tra il Sindaco e l'A.P.M. Fideli,<br />

indicativi di un intento punitivo nei confronti di quest'ultima.<br />

Secondo la ricostruzione dei fatti sin qui operata, risulta dunque che dopo un anno circa dalla<br />

proposizione della domanda volta ad ottenere la qualifica di agente di pubblica sicurezza (periodo<br />

nel quale, si noti bene, nessun addebito è stato mosso alla ricorrente) ed allorché costei ha mostrato<br />

di attivarsi personalmente per conseguire quello che riteneva essere un suo diritto, sono stati posti in<br />

essere nei suoi confronti, direttamente da parte del Sindaco, una serie di provvedimenti per lei<br />

pregiudizievoli. Del rigetto della richiesta di mobilità – con provvedimento in data 28 maggio 1998,<br />

privo di motivazione tecnica ed, anzi, fondato su una serie di considerazioni personali che<br />

dimostrano il risentimento del Sindaco nei confronti della ricorrente – si è già detto. Allorché, poi,<br />

la ricorrente ha segnalato alla Prefettura l'illegittimità dell'intervento del Sindaco, sono stati posti in<br />

essere, nei suoi confronti, il demansionamento (con provvedimento del 30 giugno 1999) e<br />

l'irrogazione della sanzione disciplinare della censura (in data 6 ottobre 1999).<br />

Sono stati, inoltre, posti in essere comportamenti volti ad isolare, fisicamente e psicologicamente, la<br />

ricorrente.<br />

Significativo, di tale intento, è l'aver fisicamente separato la ricorrente dagli altri agenti di polizia<br />

municipale, facendole prestare l'attività lavorativa in un locale distinto da quello del comando di<br />

polizia municipale; alla ricorrente, infatti, dopo il provvedimento con cui è avvenuto il<br />

demansionamento, è stato assegnato, per lo svolgimento dell'attività lavorativa, uno stanzino<br />

ricavato da un sottoscala, nel quale, secondo quanto emerso dalle dichiarazioni della teste P., nessun<br />

dipendente era stato mai collocato. Si ricordano, inoltre, le dichiarazioni del teste P. D. (dedotto dal<br />

Comune resistente) il quale ha dichiarato: “La ricorrente per 7-8 mesi è stata in un ufficio davanti<br />

all'ufficio tributi che è effettivamente un po' più brutto e più scomodo degli altri uffici, in quanto è<br />

stato ricavato; per andare nell'ufficio tributi occorre passare da lì ... Adesso c'è una ragazza dei<br />

servizi socialmente utili.”<br />

A prescindere da qualsiasi giudizio sulla adeguatezza o meno di tale collocazione, deve ritenersi che<br />

l'isolamento fisico della ricorrente (dai suoi colleghi e dagli altri dipendenti del Comune) sia<br />

sintomatico, costituendo un tentativo di emarginarla ed isolarla anche psicologicamente – tentativo<br />

che si inserisce nell'ambito di una complessiva strategia persecutoria.


Nell'ambito di una tale strategia si collocano, peraltro, ulteriori significativi atti e comportamenti,<br />

posti in essere dal Sindaco ai danni della ricorrente.<br />

Ci si riferisce, innanzitutto al rigetto della domanda, formulata dalla ricorrente, di poter effettuare<br />

lavoro straordinario per effettuare la consegna dei certificati elettorali, in occasione delle elezioni<br />

previste nel novembre 1999.<br />

Costituisce circostanza pacifica (non contestata dal resistente e, vieppiù confermata dal teste P.) che<br />

la ricorrente avesse manifestato la propria disponibilità ad effettuare lavoro straordinario per essere<br />

adibita al servizio elettorale e che la sua domanda sia stata, però, disattesa. Due sono le circostanze<br />

che connotano negativamente tale rigetto. Da un lato, il fatto che esso abbia riguardato la sola<br />

ricorrente, mentre la stessa richiesta ha trovato accoglimento per gli altri agenti di polizia<br />

municipale; dall'altro, il fatto che alla ricorrente sia stato, contrariamente ai suoi colleghi, imposto<br />

di svolgere le stesse mansioni (consegna dei certificati elettorali) nell'ambito dell'orario di lavoro.<br />

SI ricorda che non è stata, dal resistente, smentita la circostanza che la Prefettura di Sassari assegna<br />

ai comuni una somma di denaro da utilizzare come finanziamento del lavoro straordinario<br />

necessario per eseguire la consegna dei certificati elettorali, così da ottenere lo svolgimento di detto<br />

servizio da parte dei dipendenti che, pur non essendo ad esso addetti, sono disposti ad eseguirlo<br />

ugualmente, trattandosi di servizio straordinario e legato a criteri di volontarietà.<br />

Nella vicenda in esame, dunque, il datore di lavoro ha palesemente discriminato la ricorrente,<br />

imponendole di svolgere un servizio che esulava dalle sue mansioni e privandola della possibilità di<br />

conseguire, attraverso lo svolgimento del lavoro straordinario, un incremento della retribuzione.<br />

Peraltro, nello stesso periodo (mesi di ottobre-novembre 1999) gli attacchi nei confronti della<br />

ricorrente, segnatamente da parte del Sindaco, si sono intensificati ed hanno assunto caratteristiche<br />

tali da rendere del tutto evidente la loro finalità persecutoria.<br />

Si pensi all'episodio avvenuto in data 2 novembre 1999, allorché la ricorrente stava parlando di una<br />

questione di lavoro con l'addetta all'Ufficio Servizio Elettorale, P. C.; il Sindaco ha apostrofato<br />

entrambe le dipendenti dicendo loro ”Smettete di fare salotto e lavorate” e si è poi rivolto alla sola<br />

ricorrente urlandole “Questo non è il tuo posto di lavoro. Torna al tuo posto di lavoro!” Il fatto,<br />

come dedotto in ricorso, è stato pienamente confermato dalla teste P. C., la quale ha altresì precisato<br />

quanto segue: che la ricorrente si trovava nell'Ufficio Elettorale in quanto doveva ritirare un atto da<br />

notificare ad uno scrutatore risultato irreperibile e che, in un successivo incontro con il Sindaco<br />

(incontro sollecitato dalla P. C. per chiedere spiegazioni sull'accaduto, ed al quale ella si era recata<br />

con un proprio rappresentante sindacale), costui si era limitato ad affermare che non ce l'aveva con<br />

lei, bensì con la Fideli. Anche il teste P. (Responsabile dei Vigili Urbani all'epoca dei fatti) ha<br />

deposto che quel giorno aveva egli stesso dato disposizioni alla ricorrente affinché si recasse presso<br />

l'ufficio della P. C., per ragioni di servizio.<br />

Le suddette circostanze appaiono rilevanti in quanto da esse si evince che le accuse formulate dal<br />

Sindaco nei confronti delle due lavoratrici erano pretestuose e che, inoltre, il vero bersaglio della<br />

scenata era la Fideli, cui il Sindaco si è rivolto alzando la voce ed intimandole di tornare nel proprio<br />

ufficio.<br />

Inoltre, che il Sindaco fosse consapevole della pretestuosità delle accuse appare evidente, sol che si<br />

consideri che in occasione del colloquio con la P. C. egli non ha ribadito le proprie ragioni (come<br />

avrebbe fatto se fosse stato convinto della fondatezza del rimprovero) ma si è limitato a<br />

giustificarsi, dicendo che il motivo della scenata era che ce l'aveva con la Fideli.<br />

Assume, del pari, significato persecutorio il richiamo scritto in data 9 novembre 1999, con cui il<br />

Sindaco afferma “Ho personalmente potuto verificare che la S.V. continua ad assentarsi dal posto di<br />

lavoro per recarsi al bar dopo le ore nove contravvenendo a precise disposizioni verbali e scritte di<br />

questa Amministrazione. La invito ancora una volta ad attenersi alle disposizioni impartite.” Anche<br />

in tale caso la ricorrente ha tempestivamente inviato delle memorie a difesa, nelle quali deduceva<br />

l'infondatezza dell'addebito e la genericità delle contestazioni; in particolare, rilevava che non le era<br />

mai stato contestato, nell'immediatezza del fatto, quanto affermato nel provvedimento di richiamo e<br />

che ella era in grado di documentare con orari e date ben precise tutte le pause caffé, in


ottemperanza con le disposizioni emanate dall'Amministrazione.<br />

Anche in questo caso, non risulta che il Sindaco abbia dato risposta a tali memorie difensive,<br />

cosicché – a fronte delle dichiarazioni, di segno opposto, sue e della dipendente – ciò che rimane è<br />

un richiamo scritto, basato su quanto il Sindaco afferma di aver personalmente verificato.<br />

Non occorre, in questa sede, esaminare la vicenda in modo particolarmente analitico; basti rilevare<br />

che, secondo quanto deposto dalla teste P. C., la disposizione per cui i dipendenti non si potevano<br />

recare al bar dopo le ore 9,00 “era da tutti disattesa”.<br />

Il richiamo di cui sopra dimostra, dunque, che nei confronti della ricorrente veniva esercitata una<br />

eccessiva pressione disciplinare – mentre vigeva un atteggiamento ben diverso, di elasticità e<br />

permissivismo, nei confronti della generalità degli altri dipendenti – cosicché deve ritenersi che sia<br />

anch'esso indicativo di un trattamento discriminatorio.<br />

Vi è, poi, da ricordare un ultimo provvedimento, in data 13 dicembre 1999, con il quale il Sindaco<br />

comunica al Responsabile del Servizio Vigilanza che all'A.P.M. Fideli deve essere irrogata la<br />

sanzione prevista dall'art. 25, c. 4 del CCNL 6.7.1995, con l'applicazione della multa di importo pari<br />

a 4 ore di retribuzione. Nella motivazione di tale richiesta, il Sindaco contesta alla ricorrente che il<br />

25 novembre 1999, alle ore 14,05, ella nel passare in prossimità del rilevatore delle presenze non gli<br />

avrebbe rivolto il saluto ed, invitatala ad essere rispettosa e a salutare, avrebbe risposto “... e poi se<br />

voglio la saluto e se non voglio non la saluto.” Stigmatizzando tale comportamento, il Sindaco<br />

rileva che il CCNL impone, a carico dei dipendenti, un comportamento tale da favorire rapporti di<br />

fiducia e di collaborazione, la disciplina del lavoro e il rispetto delle disposizioni impartite<br />

dall'Amministrazione – doveri che verrebbero violati dalla ricorrente, la quale non uniforma la<br />

propria condotta ai principi della buona educazione. A conclusione di tali valutazioni, il Sindaco<br />

afferma: “È impressione, se non certezza, dello scrivente che l'adozione di una condotta non<br />

conforme ai principi di correttezza verso gli altri, derivi da una errata interpretazione da parte<br />

dell'O.P.M. Fideli dei propri diritti e doveri. Non si capisce, infatti, da quale fonte possa trarre<br />

origine la sua certezza di impunità per la quale adotta comportamenti sempre più irriguardosi e di<br />

sfida verso tutti. È per lo meno ridicola, a tale proposito, l'irrogazione della censura a parti invertite,<br />

che l'O.P.M. Fideli infligge al Sindaco, con la nota n. 80009 del 5.11.99, nel ricordare l'episodio<br />

accaduto il 2.11.1999 che è bene riassumere correttamente ...”<br />

In pratica, dunque, la richiesta di sanzione disciplinare si fonda su un unico episodio specifico<br />

(quello di non aver rivolto il saluto al Sindaco il 25 novembre 1999) ma la contestazione viene<br />

inserita nel quadro complessivo dei “comportamenti sempre più irriguardosi e di sfida verso tutti”,<br />

tenuti dalla ricorrente. In che cosa consistano detti comportamenti non viene specificato, se non con<br />

riferimento ad uno solo, consistente, in pratica, nell'aver redatto il rapporto di servizio del 5<br />

novembre 1999 – nel quale la ricorrente, riferendo la vicenda verificatasi il 2 novembre 1999<br />

(allorché il Sindaco si rivolse a lei dicendole: “Questo non è il tuo posto di lavoro”) – chiedeva al<br />

proprio superiore (il Responsabile del Servizio) di “informare tempestivamente chi di dovere circa<br />

gli ordini impartiti alla Scrivente onde evitare, per il futuro a venire, episodi spiacevoli causa di<br />

discordia con i superiori”. Secondo il Sindaco, infatti, tale memoria conterrebbe affermazioni gravi<br />

e diffamatorie nei propri confronti e, financo, un'accusa di falso.<br />

Ritiene questo Giudice che, a prescindere da ogni altra valutazione, la richiesta di irrogazione della<br />

sanzione disciplinare evidenzi un uso particolarmente pressante del controllo disciplinare, che si<br />

inserisce nella già individuata strategia persecutoria nel confronti della ricorrente. Invero, ogni qual<br />

volta la ricorrente fa valere le proprie ragioni (con missive indirizzate alle sedi istituzionalmente<br />

competenti e con toni che appaiono corretti) il Sindaco risponde facendo uso della propria autorità,<br />

contestando alla ricorrente di aver posto in essere un comportamento irriguardoso e di sfida.<br />

Va sottolineato che ciò che rileva in questa sede, indipendentemente dalla legittimità, o meno della<br />

segnalazione della segnalazione disciplinare, è se la stessa sia stata utilizzata con una finalità<br />

persecutoria.<br />

A tale quesito può, ad opinione di questo Giudice, rispondersi positivamente, sol che si consideri<br />

che il mancato saluto, da parte della ricorrente, si inserisce in una situazione di conflitto personale


ormai esarcebato (tra il Sindaco e la ricorrente) originato, secondo quanto affermato in più<br />

occasioni dallo stesso Sindaco, proprio dall'intervento posto in essere dal medesimo per ottenere<br />

l'archiviazione della pratica avviata dalla ricorrente per ottenere la qualifica di agente di pubblica<br />

sicurezza – e, dunque, ad opinione di questo Giudice, da un atto sicuramente illegittimo. In tale<br />

situazione di accentuata tensione, la richiesta di sanzionare il mancato saluto (verificatosi in<br />

un'occasione) con la multa di importo pari a 4 ore di retribuzione pare, comunque, eccessiva –<br />

anche perché, da un lato, sembra che neppure il Sindaco abbia rivolto il saluto alla ricorrente, e,<br />

dall'altro, non può sottacersi che egli, per primo, non ha improntato il proprio comportamento, nei<br />

confronti della ricorrente, secondo canoni di formale rispetto. Basti pensare, a questo proposito, al<br />

fatto che le contestazioni orali sono state talvolta formulate, alla ricorrente, alla presenza di terzi e<br />

alzando la voce, nonché al fatto che mentre la ricorrente si rivolge al Sindaco usando il “lei” (v.<br />

quanto riferito dal Sindaco nello stesso provvedimento del 13 dicembre 1999) il Sindaco, nei<br />

confronti della ricorrente, usa disinvoltamente il “tu” (v. dichiarazioni della teste P. C., in relazione<br />

all'episodio del richiamo orale in data 2 novembre 1999).<br />

Sulla scorta di tali considerazioni, dunque, anche la richiesta di sottoporre la ricorrente alla sanzione<br />

della multa – scaturita da un episodio di natura strettamente personale – appare indicativa,<br />

sostanzialmente, di un braccio di ferro tra il Sindaco, da una parte, e la ricorrente, dall'altra – dove il<br />

vero problema è il conflitto caratteriale tra le due personalità e dove il soggetto oggettivamente più<br />

debole, che subisce l'autorità dell'altro, è inevitabilmente la ricorrente.<br />

Infine, si ricorda che – in una fase in cui i rapporti tra la ricorrente ed il Sindaco erano ormai<br />

esasperati – il Sindaco, con una disposizione di servizio in data 15 dicembre 1999, ha attribuito alla<br />

ricorrente, in aggiunta ai compiti già assegnatile, quello di effettuare verifiche e controlli sul<br />

servizio svolto dal Movimento per la Biodiversità (Canile Europa). Con successiva missiva del 18<br />

febbraio 2000 la ricorrente contestava la legittimità di tale provvedimento, rilevando che il Canile<br />

Europa era sito nel territorio del Comune di Olbia e che, a norma dell'art. 3 della legge n. 65 del 7<br />

marzo 1986, il personale di polizia municipale esercita le funzioni istituzionali, previste nella stessa<br />

legge, nell'ambito del territorio di competenza.<br />

Non può sottacersi che, nel quadro generale della vicenda che ci occupa – indipendentemente dalla<br />

legittimità o meno del provvedimento sindacale suddetto – appare quantomeno sospetta la finalità<br />

che lo ha ispirato, posto che con esso si è assegnato alla ricorrente un compito sicuramente a lei<br />

sgradito, la si è allontanata fisicamente dal suo luogo di lavoro abituale e la si è isolata nuovamente<br />

dai suoi colleghi.<br />

Sono state inoltre dedotte, dalla ricorrente, varie prove testimoniali aventi ad oggetto i rapporti tra il<br />

Sindaco ed altri dipendenti, onde dimostrare che in varie occasioni costui avrebbe adottato un<br />

atteggiamento di contrapposizione con coloro che non la pensavano esattamente come lui.<br />

Va ricordata, a questo riguardo, la testimonianza di L. G., la quale ha prestato servizio presso il<br />

Comune resistente dal 1979 al 1993. La teste, nel riferire che nei suoi confronti il Sindaco avrebbe<br />

più volte alzato la voce pronunciando frasi quale “te la faccio pagare” e simili, ha così precisato: “È<br />

successo che, alcuni mesi dopo la sua elezione (avvenuta nel maggio 1998, se non ricordo male) il<br />

Sindaco ebbe a dirmi che per andare d'accordo con lui avrei dovuto cancellare dalle mie amicizie i<br />

suoi nemici politici. Io gli risposi di non essere disposta ad accettare tale imposizione nella mia<br />

sfera privata e allora mi minacciò dicendomi: 'te la faccio pagare' ... Preciso che non avevo mai<br />

avuto problemi con i sindaci precedenti, pur non avendoli votati, mentre avevo votato per [lui]. ...<br />

Per quello che ho potuto capire io, al Sindaco dava fastidio vedermi frequentare occasionalmente<br />

(poteva capitare che prendessimo il caffé insieme) i sindaci precedenti. In realtà si trattava di una<br />

frequentazione a titolo puramente amichevole che non aveva nulla a che fare con la politica...”<br />

Vanno, poi, menzionate le deposizioni dei testi F. e V., i quali hanno, a loro volta, affermato di<br />

avere avuto aspri contrasti con il Sindaco e di aver avuto intenzione (poi, però, non coltivata per<br />

varie difficoltà pratiche) di impugnare i provvedimenti adottati nei loro confronti dal Sindaco –<br />

provvedimenti che essi ritenevano illegittimi ed ispirati unicamente da finalità persecutorie.<br />

Alle deposizioni da ultimo menzionate (F. e V.) questo Giudice ritiene di non dover attribuire alcun


ilievo, ai fini della presente decisione, posto che, stante la genericità degli episodi riferiti, non è<br />

dato accertare se, effettivamente, nei confronti dei predetti testi siano state poste in essere dele<br />

condotte persecutorie.<br />

Non può, invece, sottacersi che le circostanze riferite dalla teste L. G. (non smentite dal Comune<br />

resistente) – pur se di mero contorno rispetto al quadro probatorio complessivamente acquisito in<br />

ordine alle vicende per cui è causa – sono però sintomatiche di una concezione dei rapporti<br />

instaurati dal Sindaco con i dipendenti, alla stregua del principio “o con me o contro di me”, che<br />

poco ha a che fare con i canoni di correttezza e di collaborazione e che, in qualche modo, spiega<br />

l'accanimento dimostrato nei confronti dell'A.P.M. Fideli.<br />

Riassumendo, dunque, quanto emerso dall'espletata istruttoria, deve rilevarsi che si ravvisano, nel<br />

caso in esame, le caratteristiche tipiche della condotta di <strong>mobbing</strong> lamentata dalla ricorrente.<br />

La nozione di <strong>mobbing</strong>, come noto, trae origine dall'elaborazione della sociologia e psicologia del<br />

lavoro. Tra gli studiosi di maggior rilievo internazionale, si ricorda Leymann e la sua definizione di<br />

<strong>mobbing</strong> come quella forma “di comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da<br />

uno o più individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si<br />

viene a trovare in una posizione di mancata difesa”; mentre, citando uno studioso italiano, va<br />

ricordata la definizione di Ege, secondo cui costituirebbe <strong>mobbing</strong> “un processo di comunicazioni e<br />

di azioni conflittuali tra colleghi o tra superiori in cui la persona attaccata è messa in una posizione<br />

di debolezza e mancanza di difese, aggredita direttamente e indirettamente, da una o più persone<br />

con aggressioni sistematiche, frequenti e protratte nel tempo il cui fine consiste nell'estromissione,<br />

reale o virtuale, della vittima dal luogo di lavoro.”<br />

In ogni caso, l'elemento evidenziato è quello dell'aggressione psicologica in campo lavorativo,<br />

protratta per un lasso di tempo significativo (si è parlato, da parte di alcuni studiosi, di un periodo<br />

minimo di sei mesi) che produce, sulla vittima, uno stato di profondo disagio (nonché, talvolta, la<br />

compromissione dello stato di salute, con sintomi analoghi a quelli del disturbo postraumatico da<br />

stress) ed, in ogni caso, una lesione della sua personalità morale.<br />

Venendo alla elaborazione giurisprudenziale di tali concetti, si ricorda che le prime esperienze di<br />

merito che si sono confrontate con la nozione di <strong>mobbing</strong> risalgono alla fine degli anni '90 (le più<br />

citate: Trib. Milano 9 maggio 1998; Trib. Torino 16 novembre 1999; Trib. Forlì 15 maggio 2001;<br />

Trib. Pisa 25 luglio 2001; Trib. Pisa 3 ottobre 2001) mentre la prima sentenza di Cassazione che ha<br />

esaminato un caso di <strong>mobbing</strong> risale al 2000 (n. 143/2000). Pur non potendosi qui ripercorrere i vari<br />

orientamenti consolidatisi nel tempo, ciò che va, riassuntivamente rilevato è che le fonti della<br />

responsabilità del datore di lavoro sono state individuate sia nel generale obbligo del neminem<br />

laedere, espresso dall'art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale, sia<br />

nel più specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087<br />

c.c. ad integrazione, ex lege, delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è<br />

fonte di responsabilità contrattuale.<br />

L'art. 2087 è sicuramente una norma che ben si attaglia alle fattispecie di <strong>mobbing</strong>, posto che essa,<br />

trasferendo in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, riparte l'onere<br />

della prova così che grava sul datore l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione<br />

dell'integrità psico-fisica del lavoratore, mentre grava su quest'ultimo il solo onere di provare la<br />

lesione dell'integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento<br />

della prestazione lavorativa (in questo senso, tra le altre: Cass. 12763/1998).<br />

La tutela che viene più frequentemente riconosciuta al lavoratore mobbizzato è, dunque quella,<br />

avente natura risarcitoria, fondata sull'art. 2087 c.c., a norma del quale l'imprenditore è tenuto ad<br />

adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e<br />

la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.<br />

Si è, inoltre, rilevato che l'art. 2087 c.c., obbligando il datore di lavoro a tutelare la personalità<br />

morale dei prestatori di lavoro, si presta a tutelare il lavoratore anche da tutta una serie di<br />

pregiudizi, conseguenti all'attività mobbizzante, ulteriori rispetto alle tradizionali voci del danno<br />

patrimoniale e del danno biologico (si pensi, ad esempio, al danno da demansionamento).


Come noto, la giurisprudenza ha da tempo superato la ripartizione del danno non patrimoniale nelle<br />

categorie del danno biologico e del danno morale, elaborando la categoria del danno esistenziale<br />

che comprende qualsiasi danno che l'individuo subisce alle attività realizzatrici della propria<br />

persona (Cass. 7713/00). Vanno richiamate, a questo riguardo, le recenti <strong>sentenze</strong> della S.C.<br />

(8827/03 e 8828/03) con le quali si afferma che la tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059 c.c.,<br />

in relazione all'art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo,<br />

alla sofferenza contingente, al turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito<br />

integrante reato, non può essere ulteriormente condivisa. In tali <strong>sentenze</strong> si afferma, infatti, che deve<br />

intendersi ormai acquisito all'ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della<br />

nozione di danno non patrimoniale inteso come dano da lesione di valori inerenti alla persona e non<br />

più solo come danno morale soggettivo.<br />

Analogamente, la Corte Costituzionale (n. 233/03) ha affermato che può dirsi ormai superata la<br />

tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall'art. 2059 c.c. si<br />

identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo e – richiamando anch'essa le <strong>sentenze</strong><br />

della Suprema Corte sopra indicate (n. 8827/03 e 8828/03) rileva che è stato ricondotto a razionalità<br />

e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, con la<br />

prospettazione di un'interpretazione costituzionalmente orientata dall'art. 2059 c.c., tesa a<br />

ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante<br />

da lesione di valori inerenti alla persona: dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come<br />

transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima, sia il danno biologico in senso stretto,<br />

inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della<br />

persona, sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale)<br />

derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. E conclude<br />

affermando che l'art. 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in<br />

quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell'ipotesi in cui, in sede civile, la<br />

colpa dell'autore del fatto risulti da una presunzione di legge.<br />

Sulla base di tali principi, non v'ha dubbio che nel caso di condotta persecutoria rientrante nella<br />

nozione di <strong>mobbing</strong>, al lavoratore che provi il nesso causale tra detta condotta ed una serie di<br />

conseguenze pregiudizievoli a lui occorse (quali, ad esempio, oltre al danno patrimoniale ed al<br />

danno biologico, il danno all'immagine, il danno da demansionamento, le sofferenze per le<br />

mortificazioni subite e, più in generale, la mancata esplicazione della propria personalità attraverso<br />

l'attività lavorativa) compete il risarcimento di tale pregiudizio – con liquidazione da effettuarsi<br />

sulla base di criteri equitativi, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto<br />

tali privi di contenuto economico (v. analogamente, Cass. 8828/03, in un'ipotesi di danno morale ed<br />

esistenziale conseguente all'uccisione di un congiunto).<br />

Deve peraltro ricordarsi che, sul punto della liquidazione del danno al lavoratore mobbizzato, la<br />

giurisprudenza di merito tende a considerare tra i parametri cui fare riferimento, anche quello<br />

dell'ammontare dello stipendio (v. Trib. Forlì, 15 maggio 2001).<br />

Venendo alle caratteristiche dell'attività mobbizzante, è stato chiarito che tale attività può provenire<br />

anche da un solo soggetto (è rimasto isolato, infatti, il contrario orientamento espresso da Trib.<br />

Como, 22 maggio 2001) ma deve essere ripetuta, ovvero protratta in un arco significativo di tempo<br />

(comprendente almeno alcuni mesi) nonché ispirata ad una strategia complessiva, volta a recare un<br />

pregiudizio – fisico, psicologico, di immagine, ovvero attinente la sfera dell'esplicazione della<br />

personalità nell'ambito lavorativo – nei confronti della vittima. Non pare, invece, necessario<br />

soffermarci, in questa sede, sulle varie fasi del <strong>mobbing</strong> individuate dalla sociologia del lavoro<br />

(quattro, nel modello di Leymann ovvero sei, nel modello di Ege) atteso che, in ogni caso, ciò che<br />

in tali studi viene evidenziato è, da un lato, il dato oggettivo della ripetizione di più condotte<br />

persecutorie e, dall'altro, il dato soggettivo consistente nell'evoluzione, in capo al lavoratore, vittima<br />

della persecuzione, di un crescente disagio, che può sfociare in una serie di disturbi psicologici e<br />

può portare sino alle più gravi conseguenze (licenziamento, suicidio, etc.).<br />

Orbene, nel caso oggetto di esame è dato ravvisare, alla luce delle considerazioni sin qui svolte,


tutte le caratteristiche tipiche dell'attività di <strong>mobbing</strong>.<br />

Nei confronti della ricorrente sono state, infatti, poste in essere una serie significativa e ripetuta di<br />

condotte estrinsecantesi sia in meri comportamenti che in veri e propri provvedimenti, alcuni dei<br />

quali illegittimi e tutti, comunque, volti al fine di danneggiarla, sia sotto il profilo economico (si<br />

pensi al mancato conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza ed alla mancata<br />

autorizzazione a svolgere lavoro straordinario) sia sotto il profilo della realizzazione professionale<br />

(si pensi al demansionamento); rilevante, inoltre, deve ritenersi il danno all'immagine, posto che per<br />

giustificare il proprio intervento, volto a bloccare la pratica per il conseguimento della qualifica di<br />

agente di pubblica sicurezza, il Sindaco ha formulato pubblicamente in più occasioni, nei confronti<br />

della ricorrente, l'accusa di non essere all'altezza dei compiti tipici della sua funzione, di avere un<br />

atteggiamento particolarmente arrogante e prepotente, anche nei confronti degli utenti e, addirittura,<br />

di essere “pericolosa per sé e per gli altri” qualora avesse conseguito la detenzione di un'arma (in<br />

questi termini: v. la motivazione della sanzione disciplinare irrogata il 6 ottobre 1999).<br />

Riassuntivamente, possono ricondursi nell'ambito di un'identica strategia mobbizzante i seguenti<br />

episodi: il comportamento tenuto dal Sindaco in relazione alla pratica della ricorrente, volta al<br />

conseguimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza, sfociato nel provvedimento<br />

illegittimo con cui chiedeva alla Prefettura l'archiviazione provvisoria della pratica stessa;<br />

l'irrogazione, alla medesima, della sanzione della censura, con provvedimento emesso in data 6<br />

ottobre 1999; l'assegnazione della ricorrente ai soli compiti di polizia amministrativa, sottraendole i<br />

restanti compiti tipici della mansione di agente di polizia municipale; l'assegnazione della ricorrente<br />

ad un luogo di lavoro diverso e in condizioni deteriori, rispetto a quello dei suoi colleghi; il rifiuto,<br />

alla richiesta della ricorrente, di poter svolgere lavoro straordinario per la consegna dei certificati<br />

elettorali e l'imposizione, alla medesima, di svolgere tali mansioni durante il normale orario<br />

lavorativo; l'eccessiva pressione disciplinare esercitata – attraverso una nutrita serie di richiami<br />

scritti, comprendente una scenata fatta alla presenza di altro personale e la richiesta di sottoporre la<br />

ricorrente alla sanzione della multa – in relazione ad illeciti disciplinari inesistenti o, comunque, di<br />

lieve entità; il tutto nel quadro di un rapporto palesemente conflittuale con l'autorità apicale del<br />

Sindaco, il quale non risparmiava nei numerosissimi provvedimenti che riguardavano la ricorrente,<br />

toni critici al limite dell'insulto (si pensi, a titolo esemplificativo, alla frase: “Si ha l'impressione che<br />

lei abbia sbagliato professione”, contenuta nella disposizione di servizio del 1° marzo 2000, nonché<br />

al rigetto dell'istanza di mobilità, nella quale la motivazione è sostituita da una sorta di generico<br />

rimprovero).<br />

È stata, inoltre, acquisita la prova in ordine al fatto che l'attività mobbizzante posta in essere nei<br />

confronti della ricorrente le abbia procurato una serie di pregiudizi, tra cui un danno biologico<br />

consistente nell'insorgere di una sindrome depressiva, attestata dalla documentazione versata in atti.<br />

È stata prodotta, infatti, un ampia relazione a firma del dottor Francesco Ganau (Dirigente I^ livello<br />

psichiatria dell'A.S.L. n. 2 di Olbia) il quale – analizzati i dati anamnestici, documentali (cartella<br />

clinica ambulatoriale), obiettivi (esame psichico) e psicometrici (test di personalità MMPI) – ha<br />

diagnosticato uno stato ansioso depressivo reattivo alle problematiche nell'ambiente di lavoro<br />

(“disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso misti”), escludendo, invece, l'evidenza di<br />

psicopatologia cronica di alcun genere e segnatamente psicosi, nevrosi o psicopatia.<br />

Non si hanno ragioni per disattendere la diagnosi di detto referto, sia per l'autorevolezza del<br />

soggetto che l'ha sottoscritto (uno specialista inserito nella struttura sanitaria pubblica), sia perché,<br />

in sostanza, neppure il resistente ha formulato, sul punto, contestazioni specifiche – onde non si è<br />

ravvisata la necessità di espletare un accertamento a mezzo di consulente tecnico d'ufficio.<br />

Deve, altresì, ritenersi provato che la suddetta patologia sia insorta a seguito dell'attività di <strong>mobbing</strong><br />

per cui è causa e non avesse precedenti nella storia personale della ricorrente, posto che in tal senso<br />

depongono la testimonianza di F. S. (fratello della ricorrente, il quale ha deposto: “Non mi risulta<br />

che mia sorella sia mai stata affetta da depressione o comunque da disturbi psichici”) ed il<br />

certificato medico a forma del dottor L. M. (medico curante della ricorrente, il quale ha certificato<br />

che la predetta, nel periodo in cui è stata seguita da lui, a partire dall'aprile 1991, non ha mai


manifestato alcuna patologia psichiatrica, in particolare di tipo depressivo, né si sono evidenziate in<br />

capo alla medesima, labilità psicologiche o alterazioni psico-comportamentali).<br />

Secondo quanto attestato dal dottor Ganau, la ricorrente ha presentato, in passato, sporadici stati<br />

ansiosi, reattivi a dinamiche conflittuali relazionali, per i quali ha praticato sporadici controlli di<br />

contenimento presso il CIM di Olbia (quattro in tutto tra il 1991 e il 1994) senza necessità di alcuna<br />

terapia farmacologica – come certificato dal dottor Ganau nella relazione sopra citata; tale<br />

circostanza non vale, però, a far venir meno il nesso causale tra l'attività di <strong>mobbing</strong>, dalla stessa<br />

subita, ed il danno biologico per la sindrome ansioso depressiva derivatane, con conseguente<br />

responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c.<br />

Come rilevato dalla Suprema Corte (5539/03) se sussiste un nesso causale fra una causa umana<br />

imputabile e l'evento dannoso, l'esistenza di una concausa naturale non imputabile non comporta un<br />

parziale esonero di responsabilità per l'autore del fatto illecito; quest'ultimo deve essere pertanto<br />

ritenuto responsabile, per l'intero, dei danni subiti dalla vittima, in quanto una comparazione del<br />

grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di<br />

comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale<br />

non imputabile (sulla base di tali principi, la S.C. ha affermato che un dipendente colpito da<br />

sindrome ansioso-depressiva per effetto di un illegittimo licenziamento aveva diritto al risarcimento<br />

del danno subito anche qualora fosse stato fisicamente predisposto alla malattia).<br />

Può incidentalmente rilevarsi, a questo proposito, che le descrizioni caratteriali dei soggetti<br />

mobbizzante/mobbizzato, delineate dai sociologi e psicologi del lavoro, ben si attagliano al caso in<br />

esame, cosicché quelli che il resistente ha rimarcato come difetti caratteriali della ricorrente (ad<br />

esempio, una particolare puntigliosità nello svolgimento del lavoro e nel rapporto con i suoi<br />

superiori) non sono altro che caratteristiche spesso ricorrenti nel soggetto mobbizzato –<br />

caratteristiche che se, da un lato, possono far comprendere le dinamiche della vicenda che lo vede<br />

coinvolto, dall'altro non fanno venir meno, in capo al soggetto mobbizzante, la responsabilità<br />

risarcitoria per il pregiudizio derivante dall'attività persecutoria.<br />

È stato osservato – negli studi di Leymannn, Hyrigoyen, Ege e Gilioli – che se, da un lato, il<br />

soggetto che pone in essere l'attività di <strong>mobbing</strong> (c.d. mobber) si distingue per uno spiccato<br />

egocentrismo e per la mancanza di empatia nel rapporto con il prossimo, per la vittima non emerge<br />

una sola tipologia, ma spesso si tratta di un soggetto responsabile, ordinato e scrupoloso, sensibile<br />

tanto ai riconoscimenti quanto alle critiche.<br />

Dovendo ritenersi provato che la condotta di <strong>mobbing</strong> posta in essere nei confronti della ricorrente<br />

le abbia cagionato un danno, di natura sia patrimoniale che non patrimoniale, deve conclusivamente<br />

rilevarsi, alla luce delle considerazioni che precedono, che la ricorrente ha assolto l'onere probatorio<br />

sulla stessa gravante (consistente nella prova del nesso di causalità tra gli eventi dannosi e<br />

l'espletamento della prestazione lavorativa) mentre il resistente non ha dimostrato di aver<br />

ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore – cosicché sussistono i<br />

presupposti di legge per accogliersi, in parte qua, la domanda, fondata sulla tutela riconosciuta, al<br />

lavoratore, dall'art. 2087 c.c.<br />

Il danno patrimoniale, come già rilevato, consiste nell'indennità mensile lorda di vigilanza che la<br />

ricorrente avrebbe percepito qualora avesse mantenuto le originarie mansioni ed avesse conseguito<br />

la qualifica di agente di pubblica sicurezza. In ricorso tale somma è stata indicata in lit. 53.350,<br />

sulla base di un raffronto tra la busta paga e quella di un suo collega, e detto importo non è stato<br />

smentito dal resistente. Può dunque quantificarsi tale voce di danno in complessivi € 495,95 –<br />

somma che si ottiene moltiplicando lit. 53.350 per 18 mensilità e convertendo il risultato<br />

dell'operazione (lit. 960.300) in valuta attuale; il parametro delle 18 mensilità (utilizzato per il<br />

calcolo di cui sopra) si desume dal lasso di tempo intercorrente tra l'epoca in cui la Prefettura ha<br />

affermato che avrebbe proceduto alla definizione della pratica qualora avesse ricevuto la<br />

documentazione necessaria dal Comune (v. la missiva del 2 novembre 1998) e la data di deposito<br />

del ricorso (il 23 maggio 2000).<br />

Vi è poi da aggiungere, sempre a titolo di danno patrimoniale, la somma di € 206,58, relativa al


mancato svolgimento di lavoro straordinario. Tenuto conto che in ricorso sono stati indicati gli<br />

importi (non contestati da controparte) di lit. 17.000 lorde per 70 ore di straordinario (relativi alla<br />

busta paga di un collega della ricorrente), la somma di € 206,58 è stata calcolata stimando,<br />

prudenzialmente, lit. 10.000 di retribuzione netta per 40 ore di straordinario.<br />

Si perviene, così all'importo complessivo di € 702,53 – sulla quale non vengono liquidati accessori,<br />

in quanto non richiesti.<br />

Relativamente al danno non patrimoniale, devono distinguersi, ai fini della sua liquidazione, il<br />

danno biologico e quello che, più in generale, rientra nella categoria del danno esistenziale –<br />

comprendente, dunque, il danno da demansionamento, il danno all'immagine e, più in generale, le<br />

sofferenze patite dalla ricorrente per aver lavorato, per un lasso di tempo di molti mesi, in un<br />

ambiente ostile, dove ripetutamente venivano emessi nei suoi confronti provvedimenti, disciplinari<br />

e non, aventi natura pregiudizievole.<br />

Sulla base di un criterio equitativo – e tenuto conto, quali parametri ai fini della quantificazione,<br />

anche del lasso di tempo in cui il <strong>mobbing</strong> si è protratto e del tipo di patologia insorta a causa di<br />

esso (che non ha però comportato, per quanto risulta in atti, effetti permanenti sulla salute della<br />

ricorrente), si ritiene di liquidare il danno non patrimoniale subito dalla ricorrente nella complessiva<br />

somma di € 10.329,14.<br />

In ordine alle spese processuali, ritiene questo Giudice che la soccombenza della ricorrente su un<br />

capo della domanda (quello avente ad oggetto l'impugnazione del provvedimento disciplinare<br />

asseritamente emesso il 13 dicembre 1999) giustifichi la compensazione delle spese, tra le parti, in<br />

misura del 25%; per il restante 75% dette spese vanno poste a carico del Comune soccombente,<br />

nella misura meglio specificata in dispositivo.<br />

P.Q.M.<br />

il Giudice, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa e<br />

respinta, così decide:<br />

-) condanna il Comune di Loiri Porto San Paolo, in persona del Sindaco, al pagamento, in favore di<br />

Fideli Angela Natalia, di € 702,53;<br />

-) condanna inoltre il Comune di Loiri Porto San Paolo, in persona del Sindaco, al pagamento, in<br />

favore di Fideli Angela Natalia, di € 10.329,14, a titolo di risarcimento del danno conseguente<br />

all'attività persecutoria posta in essere nei confronti della ricorrente;<br />

-) compensa tra le parti, in misura del 25%, le spese del giudizio;<br />

) condanna il Comune di Loiri Porto San Paolo, in persona del Sindaco pro tempore, alla rifusione,<br />

in favore della ricorrente, delle spese del giudizio in misura del restante 75%, che liquida in<br />

complessivi € 6.205,84, di cui € 564,16 per spese, € 991,68 per diritti ed € 4.650 per onorari, oltre a<br />

quanto spettante per legge (per I.V.A. e C.P.A.).<br />

Tempio Pausania, 10 luglio 2003.<br />

Il Giudice<br />

Dr. Paola Ponassi<br />

Trib. Venezia (sezione lavoro, 1° grado) 15 gennaio 2003 – Giud. Ferretti - M. G. (avv. T., M.) c.<br />

C. S.P.A. (avv. I.) per gentile concessione di www.<strong>mobbing</strong>-prima.it<br />

Mobbing – Risarcimento di danni rivendicato dopo 10 anni dalla cessazione del<br />

comportamento mobbizzante – Intervenuta prescrizione ordinaria – Danno biologico da<br />

angina pectoris e ischemia insorto successivamente al decorso della prescrizione – Risarcibilità<br />

se riconosciuto causalmente dipendente dai comportamenti mobbizzanti prescritti.


Il <strong>mobbing</strong> è quel "comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima,<br />

teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo<br />

subisce delle conseguenze negative anche di ordine fisico da tale situazione" avente l’effetto di farne derivare la<br />

responsabilità del datore di lavoro discendente dall’obbligo posto a suo carico dall’art. 2087 c.c. di tutelare il dipendente in<br />

un ottica complessiva di tutela psicofisica.<br />

L’accertamento dei fatti come emersi in istruttoria conduce ad accertare che il comportamento<br />

adottato dalla convenuta C. nei confronti del ricorrente può essere qualificato come <strong>mobbing</strong> in<br />

relazione alla durata del fenomeno e alla pluralità di atti e provvedimenti tendenti ad indurre<br />

nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà, disistima verso se stesso quali sono stati la<br />

privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione professionale,il trasferimento<br />

"punitivo" e la squalificazione professionale, la vigilanza eccessiva, il demansionamento, gli<br />

atteggiamenti umilianti.<br />

Il fenomeno è cessato con il 1986; da questa data, dunque, il ricorrente poteva far valere (con inizio della decorrenza della<br />

prescrizione ex art 2935 c.c.) il diritto al risarcimento dei danni conseguenti a quel comportamento illecito e<br />

immediatamente prodottisi nella sua sfera giuridica in termini di danno patrimoniale, di lesione della sua personalità<br />

morale, di danno biologico per le malattie verificatasi,di perdita di chances. Egli ha proposto azione nel 1998 e pertanto<br />

per tali danni sono decorsi i termini (decennali) di prescrizione.<br />

Solo per il danno biologico da malattia nuova insorta (nel 1989) in un momento successivo al termine del comportamento<br />

illecito, come già detto, il termine di prescrizione decorre dal verificarsi dell’evento lesivo e, pertanto, richiamata la CTU<br />

già eseguita, deve accertarsi il diritto del ricorrente al risarcimento del danno biologico conseguente alla angina pectoris e<br />

alle altre manifestazioni ischemiche diagnosticate nel 1989 a condizione che, nel prosieguo di istruttoria, ne sia dimostrato<br />

il nesso eziologico con i comportamenti mobbizzanti esaminati.<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Il ricorrente, premesso di avere lavorato alle dipendenze della società convenuta dal 30/6/57 fino al<br />

pensionamento del 21/1/90, esponeva che il datore di lavoro prese a tenere comportamenti persecutori<br />

nei suoi confronti a partire dal 10/2/80, allorché egli fu trasferito come gerente presso l’Agenzia di<br />

Annone Veneto e sottoposto al potere direttivo di un funzionario sig. B. - con cui anni prima aveva<br />

avuto un grave alterco - il quale pose in essere atteggiamenti ostili ed ostruzionistici nei suoi confronti<br />

fino ad attribuirgli la nota di qualifica di "sufficiente" per l’anno 1980 a fronte del giudizio "distinto"<br />

ottenuto nei tre anni precedenti. Nel novembre 80 il ricorrente venne ingiustamente trasferito, quale<br />

caporeparto, alla Esattoria di S Donà di Piave, senza il suo consenso e in violazione del CCNL, con un<br />

incarico in progressiva estinzione, completamente diverso dall’attività fino ad allora svolta, avulso dalla<br />

sua preparazione professionale e, per di più, comportante una riduzione della retribuzione. Per effetto<br />

di tale trasferimento il ricorrente cadeva in depressione e si ammalava manifestando i sintomi delle<br />

patologie che sarebbero successivamente divenute permanenti (crisi ipertensiva di natura emozionale,<br />

stato d’ansia con elementi depressivi reattivi). Nel periodo successivo al trasferimento continuarono i<br />

comportamenti persecutori dei superiori e, in particolare, del vice-gerente dell’esattoria, da cui il<br />

ricorrente dipendeva, che si lamentava continuamente delle prestazioni del ricorrente presso la<br />

direzione generale e del direttore della filiale di S. Donà di Piave che giunse a tenere verso il ricorrente<br />

atteggiamento ingiurioso cacciandolo in data 22/12/81 con violenza dalla direzione della filiale. In<br />

conseguenza di tale episodio il ricorrente veniva ricoverato per eritrodermia psoriasica con stato<br />

depressivo reattivo durato 40 giorni. Per l’anno 1981 il ricorrente, pur non avendo ricevuto alcun<br />

richiamo, ricevette la nota di qualifica "insufficiente" che gli provocava un’ennesima crisi ipertensiva; la<br />

nota veniva poi mutata in quella di "sufficiente" per non privare il ricorrente del premio di rendimento.<br />

Il 10/5/82 il M. veniva nuovamente trasferito presso la filiale di S. Donà di Piave senza indicazione di<br />

mansioni venendo impiegato, con modalità vessatorie, (in piedi, senza sedia né scrivania, per 8 ore al<br />

giorno ) quale sportellista senza autorizzazione alla firma di assegni circolari al pari di un neo assunto e<br />

chiamato altresì a svolgere mansioni inadeguate alla sua anzianità quali: mettere la carta carbone sugli


stampati, inserire pratiche in segreteria, fare da dattilografo ad un collega di grado inferiore per redigere<br />

contratti. Lo svolgimento di tali degradanti mansioni portava il ricorrente ad avere crisi ipertensive e a<br />

subire dal 17/10 al 21/11/83 un nuovo ricovero per eritrodermia psoriasica, di natura nervosa, nonché<br />

in data 26/1/84 un ricovero per tachicardia presso il P.S. dell’ospedale di San Donà.<br />

Nel 1984, a seguito di intervento del sindacato, il ricorrente venne addetto alla gestione mutui in<br />

Segreteria ove continuavano tuttavia le vessazioni quali rimproveri ad alta voce con tono aspro e senza<br />

ammettere repliche davanti a colleghi e clienti della banca, l’uso di matita blu e rossa per apporre vistose<br />

correzioni sugli atti preparati dal ricorrente allo scopo di ridicolizzarlo, l’affissione al muro di alcuni<br />

moduli compilati dal M. e contenenti presunti errori segnati in lapis; detti episodi portarono ad una<br />

ulteriore crisi ipertensiva il 27/11/85 con un primo sintomo di angina pectoris. Le crisi si ripeterono il<br />

21/5/86 e il 2/5/88.<br />

Nel 1988 per il cambiamento dei vertici della filiale ebbero fine i comportamenti vessatori nei confronti<br />

del ricorrente che potè essere destinato dall’ottobre 88 ad un incarico confacente quale quello di<br />

addetto ai riesami; tuttavia il lungo periodo di stress e tensione psico-fisica comportò l’insorgere di una<br />

cardiopatia ischemica culminata con operazione di by-pass effettuata nel 1995 associata a psoriasi e a<br />

problemi psichici.<br />

In relazione alle vicende esposte il sig. M. lamentava di avere subito un danno patrimoniale per la subita<br />

dequalificazione operata in suo danno con il trasferimento dal settore credito al settore esattoria di lire<br />

7.889.080 quale differenza retributiva per l’anno 1981 poi ripercossasi nei 9 anni di lavoro successivi<br />

con un danno complessivo di L. 71.001.720.<br />

Lamentava inoltre la cristallizzazione dal 1980 in poi della propria carriera in quanto, in assenza delle<br />

evidenziate condotte persecutorie, con alta probabilità egli poteva diventare funzionario sin dal 1981<br />

con incremento retributivo non inferiore a L. 10 milioni l’anno per un danno complessivo di L.<br />

264.000.000 oltre alle ripercussioni sul TFR e sul trattamento pensionistico.<br />

Chiedeva ancora il risarcimento dei danni subiti ai sensi dell’art. 2087 c.c. a causa dei comportamenti<br />

attivi dei singoli autori delle prescrizioni vessatorie nonché delle omissioni colpevoli dell’Istituto, sin<br />

dall’inizio al corrente delle vicende personali del ricorrente. Allegava di avere subito un danno<br />

biologico, derivante dall’insorgere di una grave forma di ipertensione con problemi cardiaci, di una<br />

grave depressione e di una grave forma di psoriasi, danno che quantificava in complessive L.<br />

240.000.000.<br />

Si costituiva ritualmente la società convenuta eccependo la prescrizione delle domande attoree e<br />

contestando la ricostruzione dei fatti compiuta dal ricorrente nonché la fondatezza delle domande.<br />

Rilevava in particolare la intervenuta prescrizione del risarcimento danni da demansionamento, che si<br />

sarebbe verificato nel 1980 con il trasferimento del M. al servizio esattoria ovvero nel 1982 con il suo<br />

trasferimento presso la filiale di San Donà di Piave con ampio decorso del termine sia quinquennale che<br />

decennale, non soggetto a sospensione per effetto della tutela reale del rapporto di lavoro del ricorrente<br />

né ad interruzione ad opera delle lettere inviate dal ricorrente in quanto sprovviste dei connotati minimi<br />

necessari alla loro efficacia interruttiva. Anche la domanda di risarcimento del danno biologico era<br />

prescritta essendo il comportamento denunciato dal ricorrente iniziato 18 anni prima della proposizione<br />

della domanda e cessato 10 anni prima della notifica del ricorso medesimo.<br />

Eseguita CTU per accertare il momento di insorgenza delle malattie lamentate dal ricorrente, la causa<br />

veniva decisa con sentenza non definitiva del 15/2/2001 in ordine alla questione preliminare di<br />

prescrizione accertandosi la intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno per la asserita<br />

illegittima dequalificazione relativa al periodo anteriore al 15/7/88; la intervenuta prescrizione del<br />

diritto al risarcimento del danno per perdita di chanches relativo al periodo anteriore al 15/7/88; la


intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno biologico derivante da angina pectoris e<br />

dalle altre manifestazioni ischemiche cardiache di origine professionale.<br />

La causa proseguiva con l’assunzione delle prove testimoniali chieste dalle parti limitatamente alle<br />

circostanze di fatto ancora rilevanti e, autorizzato il deposito di note conclusive, veniva decisa in via<br />

non definitiva come da dispositivo letto alla udienza del 15/1/2003.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

Come è ormai noto, il termine <strong>mobbing</strong>, impiegato per designare una forma di terrore psicologico<br />

realizzata sui luoghi di lavoro, nei confronti di uno o più lavoratori, da parte dei colleghi o dei superiori,<br />

deriva dal verbo to mob (affollarsi intorno a qualcuno, assalire tumultuando).<br />

Una definizione completa del fenomeno è rinvenibile nel disegno di legge a firma del senatore T. e da<br />

altri, titolato "tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche nell'ambito<br />

dell'attività lavorativa" comunicato alla presidenza il 13 ottobre 1999, che così lo delinea: "Ai fini della<br />

presente legge vengono considerate violenze morali e persecuzioni psicologiche, nell'ambito dell'attività<br />

lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore. Gli<br />

atti vessatori, persecutori, le critiche e i maltrattamenti verbali esasperati, le molestie sessuali, l'offesa<br />

alla dignità, la delegittimazione di immagine, anche di fronte a soggetti esterni all'impresa, ente o<br />

amministrazione (clienti, fornitori, consulenti), comunque attuati da superiori, pari grado, inferiori e<br />

datori di lavoro". Queste condotte, per integrare la nozione di <strong>mobbing</strong>, "devono mirare a discriminare,<br />

screditare o, comunque, danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status, potere formale e<br />

informale, grado di influenza sugli altri, rimozione da incarichi, esclusione o immotivata<br />

marginalizzazione dalla normale comunicazione aziendale, sottostima sistematica dei risultati,<br />

attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali o della condizione fisica o di<br />

salute".<br />

Il citato è solo un progetto di legge ma la giurisprudenza si è comunque sforzata di considerare il<br />

fenomeno da tempo studiato dalla psicologia del lavoro e di individuare gli strumenti giuridici, tra quelli<br />

esistenti, attualmente utilizzabili al fine di contrastarlo. Così in Cass. 7768/95 si sostiene che l'obbligo<br />

previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. "non è limitato al rispetto della legislazione<br />

tipica della prevenzione, ma — come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a<br />

principî costituzionali e comunitari — implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo<br />

dell'integrità psico-fisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l'oggetto" mentre Cass 143/00<br />

afferma che "qualora da un siffatto comportamento (lesivo della integrità psicofisica ) derivi un<br />

pregiudizio per il lavoratore, implicante la lesione del bene primario della salute o integrante quel tipo di<br />

nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la<br />

responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l'esistenza di un nesso causale fra il suddetto<br />

comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio che ne deriva." Più puntualmente in Trib Torino<br />

11/12/99 viene qualificato come fatto notorio che " nelle aziende accade qualcosa di simile al<br />

comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per<br />

allontanarlo, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare,<br />

vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi<br />

più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del<br />

prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe<br />

emotiva, depressione e talora persino suicidio."; dalla sussistenza di condotte antigiuridiche imputabili a<br />

fatto e colpa del datore di lavoro e produttive di danni, si fa discendere l’obbligo risarcitorio.<br />

Tra le più recenti pronunce, Tribunale Forlì 15/3/01 ha con maggiore compiutezza definito il<br />

fenomeno "<strong>mobbing</strong>" - richiamando i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro - come quel<br />

"comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima,


teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in<br />

un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative anche di ordine fisico da tale situazione" per<br />

farne derivare la responsabilità del datore di lavoro derivante dall’obbligo posto a suo carico dall’art.<br />

2087 c.c. di tutelare il dipendente in un ottica complessiva di tutela psicofisica; sostanzialmente nello<br />

stesso senso altra giurisprudenza evidenzia come la necessità della protezione della dignità umana nel<br />

sistema giuslavoristico discenda oltre che dal generale dovere posto a carico dell’imprenditore di<br />

adottare le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità del lavoratore (art. 2087 ) anche dalle<br />

regole di civiltà contenute nella Costituzione che "valorizza i criteri di solidarietà (art. 2), di tutela del<br />

lavoro (art. 4) , di eguaglianza sostanziale(art. 3, 2° comma), di tutela in favore di soggetti debolissimi<br />

(art. 37), per prevedere, infine, in una disposizione che riguarda l’esercizio dell’impresa (art. 41), il limite<br />

attinente l’utile sociale ed il rispetto della dignità umana." (Trib Pisa 10/4/2002 )<br />

Il giudicante ritiene, aderendo al riportato orientamento giurisprudenziale, che il fenomeno <strong>mobbing</strong> vada definito come in<br />

Trib. Forlì citata e che all’accertamento della sussistenza di un comportamento mobbizzante consegua la responsabilità<br />

contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. e l’obbligo di risarcire tutti i danni provocati alla sfera psico-fisica del<br />

dipendente.<br />

Il dr. M. ha denunciato i comportamenti tenuti da C., come indicati in ricorso, nel periodo 1980/1988<br />

definendoli come vessatori e ha chiesto il risarcimento dei danni da dequalificazione, da perdita di<br />

chances e biologico.<br />

La prima questione posta dalla società convenuta è quella della prescrizione del diritto azionato,<br />

questione che è stata risolta con la sentenza non definitiva 15/2/01 che ha dichiarato prescritti fino al<br />

15/7/88 i singoli diritti risarcitori azionati. Con le note conclusive la difesa del ricorrente ha chiesto di<br />

rivedere la decisione adottata con la sentenza nr. 120/01 di questo Tribunale. Al riguardo va detto che il<br />

giudicante, oltre a non ritenere modificabile il decisum della citata sentenza che potrebbe essere riformato<br />

solo dal giudice di appello, ritiene peraltro condivisibile la statuizione posto che, anche considerando<br />

unitariamente il comportamento mobbizzante della convenuta – quale illecito contrattuale permanente<br />

– e unitariamente la domanda di risarcimento dei danni conseguenti a quel comportamento, dovrebbe<br />

comunque ribadirsi la intervenuta prescrizione essendo l’illecito generatore del danno (e il danno<br />

medesimo ) compiuto e concluso (come si dirà ) in periodo antecedente il decennio precedente la<br />

notifica del ricorso introduttivo. Anche con riferimento al danno da lesione personale il dies a quo di<br />

decorrenza della prescrizione si identifica con quello in cui la condotta illecita ha inciso nella sfera<br />

giuridica del danneggiato "salvo che non si manifestino nuove lesioni che costituiscano un’entità nuova<br />

e autonoma rispetto al danno manifestatosi in concomitanza con l’esaurimento dell’azione antigiuridica<br />

e si siano esteriorizzate in un momento successivo " (cfr. Cass.7937/00, 5327/99 tra le tante).<br />

Quanto alla fine del comportamento illecito, come si dirà meglio nel prosieguo, il ricorrente pur<br />

affermando che le vessazioni sono cessate nell’ottobre 1988 in realtà omette di allegare fatti o<br />

comportamenti mobbizzanti compiuti in suo danno dopo il 1986 con la conseguenza, per quanto ora<br />

detto, che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni (patrimoniale, professionale, da<br />

perdita di chances , esistenziale) conseguenti a quei comportamenti ha cominciato a deC.e dal 1986 ed è<br />

scaduto nel 1996 ad eccezione del danno biologico derivante dalla malattia (angina e altre<br />

manifestazioni ischemiche ) diagnosticata solo nel 1989. L’allegazione della sussistenza di un siffatto<br />

danno biologico per le malattie insorte in periodo non prescritto e originate dal <strong>mobbing</strong> comporta la<br />

necessità di esaminare e valutare il comportamento vessatorio denunciato.<br />

I FATTI<br />

1 - Risulta provato dalla istruttoria svolta che il dr. M. venne sottoposto, a partire dalla sua assegnazione<br />

all’agenzia di Annone Veneto quale gerente avvenuta il 10/2/80, a vessazioni, umiliazioni e angherie da<br />

parte dei suoi superiori: assegnato all’agenzia di Annone Veneto dopo avere operato, sempre quale<br />

gerente, presso l’agenzia di Noventa di Piave ed avere conseguito le note di qualifica di "distinto" nei tre


anni precedenti il ricorrente trova come suo diretto superiore il dr. B. (direttore della Filiale di<br />

Portogruaro) "con il quale vi erano attriti sicuramente derivanti dal carattere delle due persone" (cfr.<br />

teste C. ); il primo comportamento del suo nuovo superiore è di non accordare al M. l’autorizzazione a<br />

concedere fidi con ciò privandolo senza alcuna ragione né apparente né reale a) di un potere<br />

normalmente proprio di tutti i gerenti (cfr teste C. ), b) di uno strumento necessario alla acquisizione e<br />

allo sviluppo della clientela (che è compito precipuo del gerente) e, di conseguenza, privandolo di uno<br />

dei mezzi di esplicazione della propria professionalità. Il teste C. riferisce di ritenere che "se il ricorrente<br />

a settembre 1980 non aveva ancora avuto la facoltà di fido era perché il giudizio del suo superiore era<br />

negativo." Dove potesse appuntarsi tale giudizio negativo proprio non è dato comprendere posto che<br />

per il 1979 il giudizio fu "distinto" e lo stesso B. propose per le note di qualifica relative al 1980 il<br />

giudizio di "buono" evidenziando come lati positivi la voglia di emergere e la predisposizione a trattare<br />

con il pubblico ed inoltre una normale capacità professionale e preparazione del ricorrente, una<br />

normale quantità di lavoro svolto, una normale capacità di decisione e di giudizio, senso economico e<br />

senso del rischio; il B. giudica, come lati negativi, la verbosità, il modo di trattare i collaboratori, la<br />

superficialità e il disordine. Non pare che gli aspetti negativi evidenziati dal Direttore di Filiale potessero<br />

avere valenza decisiva al fine dell’autorizzazione alla concessione di fidi anche in considerazione della<br />

valutazione positiva in ordine a "preparazione e capacità professionale " che si legge nella scheda di<br />

valutazione. Né è da sottovalutare, ai fini della considerazione dell’atteggiamento assunto dal datore di<br />

lavoro nei confronti del ricorrente, la circostanza che, nonostante la proposta del B. (diretto superiore<br />

del M. ), il giudizio poi assegnato sia stato solo "sufficiente" – con quali argomentazioni non è dato<br />

sapere.<br />

La difesa di C. ha evidenziato che il 15/4/80 al M. venne contestato di avere concesso un<br />

finanziamento a tale sig. Mozzato Francesco con la fideiussione della sorella del medesimo ricorrente; è<br />

peraltro vero che a seguito delle giustificazioni fornite dal dipendente, C. non ritenne di sanzionare il<br />

comportamento contestato evidentemente ritenendole esaustive. E al riguardo è rilevante sottolineare<br />

che tali giustificazioni riguardano l’aver ottenuto l’autorizzazione del vice direttore di filiale per il<br />

finanziamento garantito dalla sorella del ricorrente e che il rag. S. ha confermato di avere autorizzato il<br />

finanziamento (cfr. lettera 29/4/80 ).<br />

La convenuta si difende ancora affermando che presso l’agenzia di Annone e successivamente il dr. M.<br />

fu costantemente irrispettoso dell’orario di lavoro e disordinato nello svolgimento del suo lavoro; ma<br />

non si vede proprio come un tale comportamento possa influire sulla decisione di accordare o negare<br />

l’autorizzazione alla concessione dei fidi – e non piuttosto sul potere disciplinare datoriale - tanto più<br />

che almeno dei ritardi non si parla nelle note di qualifica.<br />

Sta di fatto che C. decide di trasferire il ricorrente e assegnarlo dal 19/11/80 al reparto Esattoria presso<br />

l’agenzia A di San Donà di Piave.<br />

2 - In ordine a questo trasferimento (che costituisce il secondo atto di <strong>mobbing</strong> nella allegazione attorea<br />

) il ricorrente ne afferma la illegittimità perché il provvedimento fu adottato in difformità con le<br />

previsioni contrattuali e perché gli fu imposta una dequalificazione mediante assegnazione a mansioni di<br />

ripiego non corrispondenti alla professionalità acquisita.<br />

Il trasferimento da Annone a San Donà è stato sicuramente deciso (per quanto emerge dalla istruttoria )<br />

in contrasto, anche se per ragioni diverse da quelle allegate in ricorso,con le previsioni di cui all’art. 83<br />

del CCNL 1980 il cui 1° comma dispone che "Il trasferimento del lavoratore ad una unità produttiva<br />

situata in comune diverso può essere disposto dall’Istituto solo per comprovate esigenze tecniche,<br />

organizzative e produttive." C. nulla ha mai dedotto in ordine alla sussistenza delle previste esigenze<br />

tecniche organizzative e produttive se non il non aver il M. dato buona prova di sé e, come si è visto,<br />

tale giudizio pare quanto meno sproporzionato rispetto ai fatti risultanti in causa.


Così l’assegnazione al reparto Esattoria ha avuto una valenza "punitiva" e squalificante: secondo il teste<br />

C. "se un gerente di agenzia viene trasferito al servizio esattoria questo dipende da un giudizio negativo<br />

sul suo operato. Il (l’attività del, n.d.r.) capo reparto del servizio esattoria è attività qualitativamente<br />

inferiore a quella di gerente di un’agenzia. Il passaggio dai servizi creditizi a quelli esattoriali e viceversa<br />

avveniva in positivo quando si voleva valorizzare un dipendente addetto alla esattoria e viceversa in<br />

negativo quando un dipendente del settore credito era valutato negativamente." Sostanzialmente negli<br />

stessi termini si è espresso anche il teste S. il quale riferisce " è di mia conoscenza che in C. passare dal<br />

credito all’esattoria è considerato squalificante di norma". Anche il rag. T. (allora Direttore della Filiale<br />

di San Donà di Piave ) annota nelle note di qualifica 1982 che le mansioni assegnate al ricorrente sono<br />

"mansioni di ripiego".<br />

Della valutazione negativa dell’operato del M. (che dovrebbe giustificare la squalificazione operata in<br />

suo danno dalla convenuta ) si è già detto. I presupposti di tale giudizio negativo emersi in corso di<br />

processo riguardano i continui ritardi e il disordine del M.: ma, a tutto riconoscere, non si capisce<br />

perché punire un dipendente per il mancato rispetto dell’orario di lavoro squalificandolo<br />

professionalmente e non invece ricorrendo al potere disciplinare. L’unica spiegazione plausibile è che il<br />

trasferimento dall’agenzia di Annone ai servizi esattoriali dell’agenzia di San Donà non è stata una<br />

conseguenza reattiva dell’operato negativo del dipendente ma esplicazione di una volontà vessatoria<br />

diretta a screditare professionalmente, umiliare nell’ambiente di lavoro il ricorrente che il B. aveva<br />

definito "soggetto che ha una considerazione di sé al di là di ogni ragionevole limite" (cfr. note qualifica<br />

1980 ). Del resto gli studiosi del fenomeno <strong>mobbing</strong> hanno evidenziato come molto spesso le vittime<br />

non sono soltanto soggetti deboli ma lavoratori dotati di forte personalità o particolarmente zelanti.<br />

Va ancora detto che è incontestabile che la funzione di capo reparto dell’Esattoria è contrattualmente<br />

inquadrata nel grado IV/1°, proprio del ricorrente, posto che sia le funzioni di gerente di agenzia di 2°<br />

categoria (quale era Annone Veneto all’epoca dei fatti di causa ) sia il capo reparto dei servizi esattoriali<br />

delle Filiali e agenzia A sono inquadrati dal CIA 81 nel grado IV/1°; tuttavia è altresì incontestabile che<br />

l’assegnazione di mansioni che, pur inquadrate nella stessa categoria o area professionale e stipendiale,<br />

assolutamente siano incongrue rispetto alla specifica professionalità acquisita dal dipendente (il M.<br />

operava da lungo tempo nel settore creditizio ) costituisce una dequalificazione sia sotto il profilo di un<br />

impoverimento della professionalità acquisita dal ricorrente in anni di servizio nel settore credito, sia<br />

sotto il profilo della impossibilità di ulteriormente arricchire quella professionalità già acquisita, sia sotto<br />

il profilo della immagine professionale del dipendente nel suo specifico ambiente di lavoro (cfr. ex<br />

plurimis Cass.11457/00, 10284/00).<br />

Al servizio esattoria il M. rimane per circa un anno e mezzo durante il quale l’intento vessatorio del<br />

datore di lavoro (per il tramite dei suoi dirigenti ) continua a manifestarsi nel continuo controllo cui il<br />

ricorrente è sottoposto: ciò riferisce il teste Z. che dichiara " quando M. arrivò a San Donà il P. (gerente<br />

dell’agenzia A ) spesso riferiva al direttore di Filiale T. sul comportamento del M.. Presumo che ciò sia<br />

avvenuto perché la Direzione voleva sapere come stava andando il ricorrente dato che era nuovo del<br />

servizio. Sicuramente sono stato io stesso richiesto da T. a nome di De Vivo (allora capo del personale)<br />

di monitorare il comportamento di M. e ciò ho fatto inviando informative scritte almeno tre volte". Del<br />

resto che M. fosse un sorvegliato speciale risulta dalle note contenute nel fascicolo personale del<br />

ricorrente ove si rinvengono note di evidente risposta a richieste di sorveglianza. Tutto questo<br />

controllare da più parti un dipendente che fino a quel momento, sul piano operativo strettamente<br />

professionale, non aveva dato luogo a richiami o negligenze non pare rientri nel legittimo esercizio del<br />

potere datoriale di controllo tanto più che, quando M. lasciò i servizi esattoriali, "tutto era in ordine"<br />

riguardo alla gestione del servizio (cfr. teste Z. ), segno che, professionalmente e contrariamente a<br />

quanto riferito dal teste T., il ricorrente meritava una fiducia che i suoi superiori gerarchici non<br />

volevano accordargli verosimilmente a causa di quel caratteraccio cui ha fatto indiretto cenno il teste C..<br />

I testi T., Z., P. e S. ribadiscono ancora i ritardi addebitati al M. durante il periodo di servizio in<br />

esattoria a giustificazione della necessità di tenere sotto controllo il ricorrente ma parte di essi riferisce


anche che il ricorrente all’epoca soffriva di quella eritrodermia psoriasica denunciata in ricorso come<br />

conseguenza dei comportamenti vessatori del datore di lavoro. E’ quindi da chiedersi (in realtà lo<br />

afferma il teste S. ) se non fossero piuttosto i ritardi una reazione (non corretta ma comprensibile ) allo<br />

stato di tensione, squalificazione e sfiducia nel quale il dipendente era da tempo costretto ad operare a<br />

causa dei fatti sin qui esaminati, fermo restando quanto già supra rilevato ovvero che la corretta risposta<br />

ad eventuali mancanze o inadempimenti del dipendente è costituita dal procedimento disciplinare con<br />

tutte le sue garanzie mentre non risponde ai principi di buona fede e correttezza, cui si devono attenere<br />

le parti nella esecuzione del rapporto di lavoro, l’esercizio di un controllo continuo e pressante anche<br />

avuto riguardo all’inquadramento del lavoratore nel massimo grado impiegatizio.<br />

3 - Nel maggio 1982 il ricorrente torna finalmente nel settore credito e viene assegnato alla Filiale di San<br />

Donà con provvedimento privo della indicazione delle mansioni assegnate e inizialmente adibito a<br />

compiti di addetto allo sportello con modalità ancora una volta dequalificanti (questa volta anche con<br />

riferimento alle declaratorie professionali del CIA ) e umilianti: egli emetteva assegni circolari senza<br />

potere di firma, apponeva la carta carbone sugli stampati nonostante si trattasse di compito<br />

normalmente assegnato ai commessi e nonostante la presenza di due commessi in quella Filiale (cfr.<br />

teste F.), effettuava il pagamento effetti nonostante si trattasse di mansione normalmente svolta dai neo<br />

assunti (cfr. teste M. ). Tali mansioni sono ascrivibili al massimo al IV grado del CIA 1981 al quale<br />

appartengono gli impiegati che svolgono servizio cassa in ausilio al cassiere titolare presso le Sedi e<br />

Filiali.<br />

Il periodo durante il quale il M. venne assegnato a compiti di sportelleria è determinabile in oltre un<br />

anno sulla base alle note di qualifica del 1983 ove si legge che nell’ultima parte dell’anno 83 il M. fu<br />

impiegato in segreteria fidi "ove svolge semplici lavori di corredo". E’ dunque la stessa convenuta che<br />

riconosce il sottoutilizzo del dipendente!<br />

4 - A partire dalla fine del 1983 il ricorrente passa alla segreteria fidi e ad un certo punto è addetto alle<br />

pratiche di mutuo delle quali si occupava dall’inizio alla fine ma era privo della procura alla firma del<br />

contratto che invece avevano colleghi di grado inferiore (cfr. C.); la negazione della procura, di per sé<br />

fatto giuridicamente neutro, costituisce nel complesso della vicenda un ulteriore atto di compressione<br />

della personalità del ricorrente e della sua voglia di emergere nonché del suo prestigio nell’ambito<br />

lavorativo costringendolo a curare una pratica con l’esclusione del momento finale ed esterno. Ancora,<br />

in questo periodo si innesta la vicenda che ha dato luogo alla sentenza 267/87 a definizione del ricorso<br />

proposto dal M. per l’accertamento della illegittimità di una sanzione disciplinare inflittagli. Nella<br />

sentenza citata si legge "il F. (capoufficio ) aveva assunto atteggiamenti arroganti e di scherno nei<br />

confronti del convenuto (M.) – valga per tutti l’episodio della affissione sui muri dell’ufficio di alcuni<br />

moduli erroneamente compilati dal M. – e si capisce come l’ulteriore ingiustificato rimprovero, alla luce<br />

dei pregressi atteggiamenti arroganti e provocatori del F., abbia innescato la reazione, censurabile nelle<br />

sue modalità, del M. ". Perdurano, quindi, anche in questo periodo atteggiamenti umilianti,provocatori,<br />

aggressivi di superiori e colleghi del ricorrente inquadrabili in quella logica con cui operano quelle specie<br />

animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo di cui si legge in<br />

Trib. Torino citata.<br />

5 - Nel 1987 si pongono le premesse per un miglioramento della situazione del ricorrente che,<br />

rimanendo alla segreteria fidi, viene addetto alla istruttoria di fidi particolari e poi ai riesami dei fidi della<br />

Filiale di San Donà (cfr. note qualifica 1987 e seguenti nonché dichiarazione M. resa alla udienza<br />

15/1/03 ). Da questo momento – è anche da pensare che la sentenza 267/87 vi abbia influito – cessano<br />

i comportamenti vessatori in danno del ricorrente il quale viene adibito a mansioni di suo gradimento<br />

come riconosce egli stesso e come testimonia Del Turco. Il ricorrente sostiene che tali ultime mansioni,<br />

pur di suo gradimento, non erano però consone al suo grado. Questa è solo un’affermazione priva di<br />

riscontro e di fondamento atteso che, in mancanza di ulteriori allegazioni in fatto e in diritto (inesistenti<br />

in ricorso e nelle memorie successive ), la posizione del ricorrente sembra ricollegabile al mancato


svolgimento di funzioni di capo ufficio o capo reparto sulla scorta dell’inserimento di queste sole<br />

funzioni nel grado IV/1° da parte del CIA senza considerare che l’art. 16 del CIA 81 (la cui vigenza<br />

negli anni successivi al 1987 non è peraltro dimostrata in causa ) determina i posti in organico di capo<br />

ufficio e capo reparto ed attribuisce il grado ai dipendenti preposti ai singoli uffici o reparti ma<br />

certamente non esclude che il grado IV/1° sia attribuibile anche a mansioni, di contenuto professionale<br />

equivalente, diverse da quelle di capo ufficio o capo reparto.<br />

In conclusione l’accertamento dei fatti come emersi in istruttoria conduce ad accertare che il<br />

comportamento adottato dalla convenuta nei confronti del ricorrente può essere qualificato come<br />

<strong>mobbing</strong> in relazione alla durata del fenomeno e alla pluralità di atti e provvedimenti tendenti ad<br />

indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà, disistima verso se stesso quali sono stati la<br />

privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione professionale,il trasferimento "punitivo" e la<br />

squalificazione professionale, la vigilanza eccessiva, il demansionamento, gli atteggiamenti umilianti.<br />

Il fenomeno è cessato con il 1986; da questa data, dunque, il M. poteva far valere (con inizio della<br />

decorrenza della prescrizione ex art 2935 c.c. ) il diritto al risarcimento dei danni conseguenti a quel<br />

comportamento illecito e immediatamente prodottisi nella sua sfera giuridica in termini di danno<br />

patrimoniale, di lesione della sua personalità morale, di danno biologico per le malattie verificatasi,di<br />

perdita di chances: in ordine a tale ultimo profilo di danno val la pena rilevare come il ricorrente si sia<br />

limitato ad affermare la lesione alla progressione in carriera verso la qualifica di funzionario derivante<br />

dall’illegittimo demansionamento subito nel 1980 (trasferimento ai servizi esattoriali di San Donà ),<br />

senza peraltro allegare alcun dato o circostanza dalla quale desumere, nè in termini di alta probabilità né<br />

in termini di tempo, che egli avrebbe avuto effettive o molto probabili possibilità di divenire<br />

funzionario. Di conseguenza non è possibile stabilire se il danno ci sia stato – e, vertendosi in ambito di<br />

responsabilità contrattuale sussiste l’onere del lavoratore di dimostrare il nesso di causalità tra l’evento<br />

lesivo e il comportamento del datore di lavoro. Solo per il danno biologico da malattia nuova insorta in<br />

un momento successivo al termine del comportamento illecito, come già detto, il termine di<br />

prescrizione decorre dal verificarsi dell’evento lesivo e, pertanto, richiamata la CTU già eseguita, deve<br />

accertarsi il diritto del ricorrente al risarcimento del danno biologico conseguente alla angina pectoris e<br />

alle altre manifestazioni ischemiche diagnosticate nel 1989 a condizione che, nel prosieguo di istruttoria,<br />

ne sia dimostrato il nesso eziologico con i comportamenti mobbizzanti esaminati.<br />

Spese al definitivo.<br />

Dispone separatamente per il prosieguo di istruttoria.<br />

P.Q.M<br />

Il Giudice, non definitivamente pronunciando, cosi' provvede:<br />

Accertata la illegittimità dei comportamenti di cui in motivazione, tenuti dalla società convenuta nei<br />

confronti del ricorrente fino al 1985, per l’effetto la condanna a risarcire al ricorrente il danno biologico<br />

conseguente alle patologie "angina pectoris" e "altre manifestazioni ischemiche cardiache manifestatesi<br />

successivamente al 15/7/88 ove ne sia dimostrata l’origine professionale.<br />

Dispone separatamente per il prosieguo.<br />

Spese al definitivo.


Trib. Pinerolo (sezione lavoro, 1° grado) 6 febbraio 2003 (ud. 14 febbraio 03) – Giud. Reynaud. -<br />

C. Maria (avv. B., A.) c. I. – ISTITUTO ... (avv. O., P.) Per gentile concessione di www.<strong>mobbing</strong>prima.it<br />

Mobbing – Riscontro di demansionamento, vessazioni, controlli persecutori, accanimento disciplinare<br />

nell’arco di 6 anni – Sussistenza – Riconducibilità al danno esistenziale – Risarcibilità in via equitativa.<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data 11.4.2002, C. Maria conveniva in<br />

giudizio il datore di lavoro ISTITUTO ... (I.), lamentando d’essere stata vittima, dall’ottobre 1988 al<br />

novembre 2000, di <strong>mobbing</strong>, posto in essere dai superiori della sede di Pinerolo, in specie dai capi<br />

reparto R., S. e T., e dai direttori di sede TA., V. e P.. Sostenendendo che la condotta mobbizzante si<br />

sarebbe concretizzata, in particolare, in asfissianti e arbitrari controlli dei superiori, in ingiuste e<br />

continue lettere di contestazione e richieste di giustificazione (anche in ordine alla produttività),<br />

nell’attribuzione di mansioni dequalificanti (a partire dal 1994), nell’emarginazione (anche in termini<br />

d’isolamento fisico) sul luogo di lavoro, con conseguente detrimento delle proprie condizioni di salute<br />

psico-fisiche e grave peggioramento della qualità di vita in ambito lavorativo ed extralavorativo, la<br />

ricorrente deduceva di avere, infine, richiesto ed ottenuto, dal dicembre 2000, il trasferimento alla più<br />

lontana sede di Torino per sfuggire all’intollerabile situazione vessatoria che per lungo tempo era stata<br />

costretta a subire (e che l’aveva altresì indotta a non riprendere il lavoro a tempo pieno, pur venute le<br />

meno le esigenze familiari per le quali, dal 1°.1.1995, aveva ottenuto il part-time a 18 ore settimanali).<br />

Allegando che, dopo il trasferimento – cessata la situazione di <strong>mobbing</strong> e ottenute mansioni compatibili<br />

con il proprio inquadramento – le condizioni di salute e di vita erano sensibilmente migliorate (salvo<br />

che per i disagi connessi agli spostamenti quotidiani per raggiungere la nuova sede di lavoro), la<br />

ricorrente chiedeva la condanna dell’I. al risarcimento del danno da dequalificazione professionale (in<br />

misura pari alla differenza tra la retribuzione spettante ad un impiegato di 8° livello, qual era la<br />

ricorrente, e un impiegato di 4° livello, inquadramento cui sarebbero riconducibili le mansioni inferiori<br />

assegnate), del danno biologico temporaneo causatole (indicato nella misura del 30%), del danno<br />

esistenziale, del danno morale, del danno patrimoniale (per le spese mediche sostenute), negli importi<br />

indicati nella conclusioni in epigrafe trascritte. Ella chiedeva, altresì, la condanna del convenuto a<br />

reintegrarla presso la sede di Pinerolo, in mansioni confacenti con il proprio inquadramento<br />

professionale.<br />

Costituendosi ritualmente in giudizio, resisteva l’I., negando che la ricorrente fosse stata oggetto di una<br />

condotta vessatoria da parte dei superiori e sostenendo, invece, che, nei suoi confronti, erano stati<br />

legittimamente adottati provvedimenti di contestazione e lettere di deplorazione giustificati da numerosi<br />

errori compiuti sul lavoro e da negligenza nell’espletamento delle mansioni affidate. Sosteneva, inoltre,<br />

l’Istituto, che le mansioni assegnate alla ricorrente furono sempre compatibili con l’inquadramento<br />

assegnato (il 7° livello) e che le assenze per malattia della ricorrente, numerose nel periodo anteriore al<br />

1989, andarono invece scemando negli anni successivi, sicché, lungi dall’essere peggiorata, nel periodo<br />

per cui è causa, la salute della lavoratrice migliorò. La difesa dell’I. chiedeva quindi la reiezione del<br />

ricorso.<br />

Fallita la conciliazione, interrogati liberamente la ricorrente e l’attuale direttore della sede I. di Pinerolo<br />

P., acquisiti i documenti prodotti, escussi 18 testimoni e sentiti liberamente gli ex capireparto della<br />

ricorrente R. e T. (nei confronti dei quali, giusta le allegazioni contenute in ricorso, erano<br />

potenzialmente ravvisabili estremi di responsabilità extracontrattuale per i medesimi danni dedotti in<br />

giudizio, sicché essi avrebbero potuto partecipare al processo), all’udienza del 14.1.2003 i procuratori<br />

discutevano la causa rassegnando le conclusioni in atti e il giudice pronunciava sentenza dando lettura<br />

del dispositivo.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. La causa petendi delle azioni risarcitorie esercitate nel presente<br />

giudizio è stata qualificata, per un verso, quale situazione di demansionamento in violazione dell’art.


2103 c.c. e, per altro verso, quale condotta di <strong>mobbing</strong>, posta in essere in violazione degli artt. 2087,<br />

1175, 1375 c.c. e integrante anche gli estremi della responsabilità extracontrattuale. I due aspetti della<br />

questione debbono essere partitamente esaminati.<br />

A) Il demansionamento. L’istruttoria espletata consente di affermare che la ricorrente è stata assegnata a<br />

mansioni inferiori a quelle proprie del suo inquadramento professionale dal gennaio 1994 al novembre<br />

2000, quando richiese il trasferimento alla sede di Torino.<br />

Sin dal 1985, C. Maria era inquadrata nella VII qualifica funzionale, prevista per i dipendenti degli Enti<br />

Pubblici non economici e disciplinata, da ultimo, nel D.P.R. 1°.3.1988 n. 285. Secondo il menzionato<br />

decreto, i dipendenti inquadrati in tale livello svolgono, per quanto qui interessa, "attività di<br />

collaborazione istruttoria, di iniziativa promozionale, studio di addestramento, qualificazione e<br />

aggiornamento del personale, elaborazione e progettazione di natura amministrativo-contabile e tecnica<br />

che – nell’ambito di prescrizioni generali contenute in norme o procedure definite o in direttive di<br />

massima – presuppongono specializzazione e preparazione professionale nelle attribuzioni di settore o<br />

di modulo organizzativo interdisciplinare, capacità di valutazione e perseguimento dei risultati, nonché<br />

capacità di decisione, di proposta e di individuazione dei procedimenti necessari alla soluzione dei casi<br />

esaminati e delle concrete situazioni di lavoro". In particolare, quanto alle mansioni impiegatizie, il<br />

relativo profilo professionale del "collaboratore di amministrazione" è proprio di chi "svolge attività<br />

istruttoria mediante la predisposizione, la formazione, la definizione e la revisione di atti, provvedimenti<br />

e documenti anche di natura contabile-finanziaria, comportante l’applicazione di norme complesse, dei<br />

quali cura la sottoscrizione quando gli stessi non rientrino nella competenza dei livelli superiori,<br />

avvalendosi all’occorrenza di procedure e strumenti informatici…svolge compiti di studio, formazione,<br />

programmazione, analisi ed elaborazione di dati…cura e segue lo sviluppo ed il processo formativo<br />

psico-intellettuale dei singoli e di gruppo concorrendo alla formulazione dei programmi e<br />

promuovendo piani di intervento che i singoli casi richiedono…rilascia certificazioni che richiedono<br />

ricerche e/o elaborazioni". Si tratta, all’evidenza – ciò che trova conferma nella comparazione tra la<br />

menzionata declaratoria e quella propria delle categorie funzionali inferiori – di mansioni di particolare<br />

responsabilità, che presuppongono elevata specializzazione e preparazione (si consideri che, per i neoassunti,<br />

si richiede il possesso del diploma di laurea), notevole autonomia, anche decisoria.<br />

La ricorrente ha in effetti svolto mansioni confacenti alla qualifica attribuita sino al dicembre 1993<br />

(anche se già quell’anno fu adibita, per un certo periodo, allo svolgimento di compiti propri di un livello<br />

inferiore: si veda la lettera del 26.3.1993 – doc. 22 di parte ricorrente – nella quale il direttore<br />

dell’Istituto V. si dice consapevole della "demotivazione che può scaturire dal contingente espletamento<br />

di mansioni ripetitive" e certo che il responsabile dell’Ufficio "valuterà con attenzione il suo desiderio di<br />

essere reintegrata in mansioni confacenti con la qualifica rivestita"). Dal gennaio 1994 ella fu però<br />

assegnata all’Unità Operativa Prestazioni non pensionistiche e fu "incaricata dell’acquisizione dei<br />

certificati e della gestione dei dati acquisiti" (cfr. comunicazione di servizio del 14.1.1994: doc. 32 di<br />

parte ricorrente). Salvo quanto si dirà infra, C. mantenne quest’incarico sino al 4.1.1999 (cfr. doc. 49 di<br />

parte ricorrente, dove, per mero errore materiale, la data è stata indicata quale 4.1.1998).<br />

L’attività di acquisizione dei certificati di malattia – l’unica effettivamente svolta, a dispetto del<br />

riferimento alla "gestione dei dati acquisiti" contenuto nella citata disposizione di servizio – consiste<br />

nell’inserire nella banca dati informatica dell’Istituto le informazioni contenute nei certificati medici che,<br />

quotidianamente (e nell’ordine di svariate diecine), i lavoratori in malattia recapitano all’I.. Si tratta, in<br />

sostanza, di leggere (e decifrare perché, spesso, essendo manoscritti, non sono chiarissimi) i dati salienti<br />

(generalità del lavoratore, elementi identificativi del datore di lavoro, periodo di malattia…) contenuti<br />

nei certificati e di inserirli nel programma informatico. La cosiddetta acquisizione può avvenire tramite<br />

digitazione sulla tastiera dell’elaboratore, ovvero attraverso il lettore ottico: in questo secondo caso,<br />

proprio a causa della scarsa intelligibilità della scrittura, la trasposizione ottica determina errori che poi<br />

debbono essere corretti con la tastiera. In caso di dati mancanti (ad esempio, ciò che spesso difetta, il


codice identificativo della posizione attribuita al datore di lavoro), l’operatore addetto all’acquisizione<br />

deve ricercarlo su altra banca dati informatica e inserirlo.<br />

Si tratta, com’è evidente, di un’operazione meramente manuale, che non necessita di alcuno sforzo<br />

intellettuale, né di particolari capacità od esperienza: basta saper leggere e scrivere; un lavoro ripetitivo e<br />

privo di qualsiasi stimolo, che, proprio per questa ragione, era sempre stato suddiviso tra diverse<br />

persone aventi altre, principali, occupazioni. Si considerino, al proposito, le eloquenti affermazioni rese<br />

dal teste V., direttore della sede I. di Pinerolo dal 1992 al 1997: "credo che, pro-quota, l’acquisizione dei<br />

certificati fosse fatta da tutti, trattandosi attività non esaltante". In realtà, la persona ufficialmente<br />

deputata ad acquisire certificati medici – come da ordine scritto già citato – fu la ricorrente, e, come ha<br />

dichiarato il suo capo-reparto T., altre persone furono assegnate a questo incarico (per brevi periodi, o<br />

saltuariamente) per affiancare (e non per sostituire) la C. "e raggiungere gli standard, essendosi<br />

accumulati dei ritardi". I colleghi sapevano che nel periodo indicato l’attività assolutamente<br />

preponderante della ricorrente fu quella di acquisire certificati di malattia (cfr. deposizioni C., C., S., M.<br />

e le dichiarazioni della stessa T.). In particolare, per tutto il 1994, quando ancora lavorava a tempo<br />

pieno, e per il 1995 – quando richiese il part-time – la ricorrente non ebbe altri incarichi.<br />

Nel 1996 le fu richiesto, in aggiunta alla precedente mansione, di gestire le pratiche delle cure termali.<br />

Questo compito era compatibile con il profilo professionale, ma - per usare parole della stessa caporeparto<br />

T. – "le cure termali si svolgevano in un tempo limitato dell’anno e c’era un numero abbastanza<br />

esiguo e quindi non era certo l’adempimento preponderante…il lavoro delle cure termali si svolgeva<br />

sostanzialmente nel periodo maggio-luglio, per circa 12 pratiche nell’anno".<br />

Nel corso del 1998 – in un periodo d’assenza della capo-reparto T. – il direttore P. attribuì alla<br />

ricorrente (e al suo collega P.) il compito di liquidare le richieste d’indennità di disoccupazione con<br />

requisiti ridotti, mansione, questa, compatibile con il VII livello funzionale. Il periodo in cui ella svolse<br />

la nuova mansione, tuttavia, fu breve, posto che, al rientro della T. da un’assenza dovuta a malattia<br />

(collocabile nel settembre 1998), l’insoddisfazione della dirigente sull’operato della C. portò a esonerarla<br />

dal lavoro sulle indennità di disoccupazione con requisiti ridotti e a impiegarla nuovamente a tempo<br />

pieno nell’acquisizione dei certificati di malattia.<br />

Dopo ben cinque anni di attribuzione di tale dequalificante mansione – si pensi quanto al proposito<br />

riferito dalla teste M.: "ho svolto questo lavoro l’anno scorso: a tutti gli impiegati sono stati dati 200<br />

certificati per smaltire l’arretrato. Tutti ci siamo lamentati perché era un lavoro monotono e ripetitivo"<br />

– dal gennaio 1999 la ricorrente fu spostata dall’U.O. Prestazioni non pensionistiche alla dirette<br />

dipendenze della Direzione e le fu assegnato un solo incarico, nuovamente mortificante sul piano della<br />

professionalità e incompatibile con il livello d’inquadramento. La ricorrente, in sostanza, doveva<br />

prelevare, personalmente, in un polveroso archivio nel sottotetto, pratiche di pensione esaurite ed ivi<br />

collocate, in disordine, da anni, trasferirle in un apposito ufficio che le era stato assegnato e controllarle<br />

una per una prima che fossero avviate al macero. Il contenuto di tale attività di controllo è stato così<br />

riferito dal direttore P.: "occorreva verificare l’esatta data di morte dei pensionati, che l’eliminazione<br />

della pensione fosse avvenuta ai momenti giusti, la verifica che non fossero state riscosse rate<br />

posteriormente al decesso quando vi fosse un delegato alla riscossione, la sistemazione dei fascicoli per<br />

anni di evento, per avviarli al macero". Appare evidente come la lavoratrice sia stata estromessa da ogni<br />

processo produttivo e incaricata di svolgere, a tempo pieno, un lavoro noioso, ripetitivo, fisicamente<br />

pesante (lo spostamento dei fascicoli), che nessuno aveva fatto per molti anni e che – dopo il suo<br />

trasferimento – fu terminato ad opera di più persone, nessuna delle quali in ciò impiegata a tempo<br />

pieno (come P. ha ammesso). Il contenuto intellettivo dell’attività – vale a dire, la limitata opera di<br />

controllo sul fatto che, dopo il decesso del pensionato, non fossero state riscosse rate di pensione –<br />

appare ridottissimo e non può essere ritenuto elemento qualificante della complessiva mansione, né,<br />

comunque, presenta i caratteri tipici delle funzioni proprie del collaboratore di amministrazione<br />

(applicazione di norme complesse, compiti di studio, formazione, programmazione, analisi,


elaborazione dati…). La teste M., rilevando l’anomalia dell’incarico, ha riferito che "quel lavoro non era<br />

mai stato svolto nel reparto e non era stata organizzata nessuna task-force per farlo", come sarebbe<br />

stato ragionevole fare e come, in effetti, fu fatto dopo il trasferimento della C.. Del resto, un eloquente<br />

indizio della insignificanza qualitativa del compito (e, probabilmente, anche della sua stranezza), lo si<br />

ricava dall’elenco telefonico interno stampato nel febbraio 2000 (doc. 61 di parte ricorrente);<br />

diversamente dagli altri addetti alla sede di Pinerolo (per ciascuno dei quali è indicata una specifica<br />

mansione, propria dei processi produttivi o delle attività collaterali dell’Istituto), la funzione attribuita<br />

alla ricorrente viene descritta come "adempimenti vari": essendo pacifico che C. non aveva alcun altro<br />

compito oltre a quello sopra menzionato, tale (falsa) annotazione rivela probabilmente come non<br />

apparisse nemmeno decoroso indicare in un documento destinato alla circolazione interna la vera (ed<br />

unica) mansione attribuita alla lavoratrice.<br />

Le due dequalificanti incombenze che si sono descritte rientrano (se non, addirittura, nella IV qualifica<br />

professionale, come dedotto da parte ricorrente: ciò che vale soprattutto per il lavoro di acquisizione<br />

dei certificati, un’attività di "mera digitazione su terminale" prevista per il profilo dell’archivista e per<br />

l’attività di riordino e catalogazione dei fascicoli) nella V categoria, che contempla lo svolgimento di<br />

"attività amministrative…di carattere esecutivo che richiedono conoscenze specialistiche, preparazione<br />

specializzata, conoscenze tecnologiche, perizia nell’esecuzione". Tra i compiti previsti nel relativo<br />

profilo professionale impiegatizio (operatore di amministrazione) compare l’effettuazione di "ricerche e<br />

caricamento dati via terminale per elaborazioni elementari e fuori linea".<br />

C. Maria, dunque, - dopo aver ottenuto da 10 anni una qualifica professionale per la quale si richiede il<br />

possesso del diploma di laurea – fu costretta a svolgere, sostanzialmente per sette anni consecutivi,<br />

mansioni ripetitive, defatiganti, meramente esecutive che, a tutto concedere, potevano essere<br />

legittimamente affidate ad un dipendente con qualifica funzionale inferiore di almeno due livelli. Si<br />

consideri, poi, che, dal settembre 1999, alla ricorrente fu riconosciuto l’inquadramento nell’VIII<br />

categoria funzionale – cui corrisponde il profilo di funzionario di amministrazione, che, secondo il<br />

D.P.R. 285/1988, "è preposto ad un settore o struttura dell’Ente" – sicché il divario tra la qualifica<br />

posseduta e le mansioni in concreto disimpegnate divenne enorme. Il prolungato demansionamento<br />

della ricorrente – che, altrimenti, sarebbe certamente continuato (a tacer d’altro, si è accennato che il<br />

lavoro sulle pratiche archiviate non era ancora terminato) – si concluse soltanto quando ella,<br />

psicologicamente stremata, richiese ed ottenne, nel dicembre 2000, il trasferimento presso la sede di<br />

Torino.<br />

2. Il c.d. <strong>mobbing</strong>. Prima di esaminare il secondo profilo della causa petendi dedotta in giudizio,<br />

occorre fare qualche premessa sulla nozione e sulla considerazione giuridica del <strong>mobbing</strong>, un fenomeno<br />

– da tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociologiche e psicologiche – che è approdato nelle<br />

aule di giustizia italiane nel 1999. Costituisce fatto notorio che – sia pur con una certa approssimazione<br />

– il fenomeno in parola consiste in una condotta vessatoria, reiterata e duratura, individuale o collettiva,<br />

rivolta nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (<strong>mobbing</strong> verticale) e/o colleghi<br />

(<strong>mobbing</strong> orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti nei confronti di un superiore (<strong>mobbing</strong><br />

ascendente); in alcuni casi si tratta di una precisa strategia aziendale finalizzata all’estromissione del<br />

lavoratore dall’azienda (bossing). I numerosi progetti di legge presentati in Parlamento, nella trascorsa e<br />

nell’attuale legislatatura, per disciplinare il <strong>mobbing</strong> e le sue conseguenze non hanno sortito esito.<br />

L’unica indicazione normativa – non vincolante ai fini della presente decisione, ma pure significativa,<br />

anche dell’attenzione che l’ordinamento giuridico riserva alla questione – è contenuta nella L.R. Lazio,<br />

11 luglio 2002, n. 16, rubricata Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del "<strong>mobbing</strong>" nei<br />

luoghi di lavoro. All’art. 2, comma 1, di tale legge, si afferma che "per "<strong>mobbing</strong>" s’intendono atti e<br />

comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori<br />

dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione<br />

sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di<br />

persecuzione psicologica o di violenza morale". Da alcuni precedenti giurisprudenziali di merito che


hanno esaminato funditus il problema e che hanno fatto ricorso, in sede di CTU, a cognizioni<br />

scientifiche, si apprende che, secondo la psicologia del lavoro, il modello italiano di <strong>mobbing</strong><br />

consterebbe di uno stadio iniziale e di sei fasi successive che sono state così descritte: "dopo la c.d.<br />

condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato,<br />

in cui si indivuda la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale…la seconda fase è il vero e<br />

proprio inizio del <strong>mobbing</strong>, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio…La terza fase è<br />

quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi<br />

per la sua salute…La quarta fase del <strong>mobbing</strong> è quella caratterizzata da errori e abusi<br />

dell’amministrazione del personale…La quinta fase del <strong>mobbing</strong> è quella dell’aggravamento delle<br />

condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione<br />

di vera e propria prostrazione…la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente eventuale, nella<br />

quale la storia del <strong>mobbing</strong> ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle<br />

dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti" (v. Trib. Forlì, sent. 15.3.2001).<br />

Se questo è il <strong>mobbing</strong>, certamente il caso di specie – limitatamente ai periodi di cui si dirà – può<br />

esserne considerato un fulgido esempio. Reputa, tuttavia, il Tribunale che, al di là della questione delle<br />

"etichette" e in assenza di una disciplina normativa che ricolleghi ad un fenomeno chiamato "<strong>mobbing</strong>"<br />

certe, determinate, conseguenze giuridiche, non metta conto soffermarsi ulteriormente sulla questione<br />

definitoria, né abbia importanza appurare quale considerazione meriti il caso in esame nell’ambito della<br />

psicologia del lavoro. Per questa ragione – non essendovi stata, peraltro, richiesta di parte – questo<br />

giudice non ha ritenuto rilevante disporre un’apposita consulenza tecnica d’ufficio. Ciò che rileva,<br />

invece, è analizzare se le condotte vessatorie lamentate in ricorso – che, anche per comodità lessicale,<br />

ben possiamo definire <strong>mobbing</strong> – e i pregiudizi che si allega esserne derivati abbiano fondamento e se<br />

possano condurre all’accoglimento delle domande di risarcimento danni avanzate. Così posta, la<br />

questione è eminentemente giuridica e dev’essere valutata alla luce delle disposizioni del codice civile<br />

giustamente evocate in ricorso: l’art. 2087 (letto anche alla stregua degli artt. 1175 e 1375) sul piano<br />

della responsabilità contrattuale e l’art. 2043 sul piano della responsabilità aquiliana (essendo stata<br />

dedotta la lesione di diritti fondamentali della persona, è infatti pacifica l’ammissibilità del concorso<br />

delle due azioni). Occore, dunque, verificare se nei fatti lamentati dalla ricorrente siano ravvisabili, da<br />

un lato, una situazione d’inadempimento contrattuale o una condotta dolosa o colposa e, d’altro lato –<br />

quale conseguenza – dei danni risarcibili. A tal fine, il periodo di lavoro dedotto in causa dev’essere<br />

suddiviso in due distinti lassi temporali.<br />

Dall’ottobre 1988 alla fine del 1992. In relazione a questo periodo, non può dirsi provato che la<br />

ricorrente sia stata vittima di illegittime (o illecite) condotte vessatorie imputabili al datore di lavoro.<br />

Giova premettere che, dal 1990 alla seconda metà del 1992, quando direttore della sede I. di Pinerolo fu<br />

il dott. P., per stessa ammissione della parte ricorrente non vi furono problemi di sorta (cfr. capo 6 del<br />

ricorso e dichiarazioni rese nell’interrogatorio libero: "dal 1990 al 1992 direttore fu il dottor P. e io<br />

lavorai in totale serenità"). Il lasso di tempo in cui la C. sarebbe stata oggetto di indebite e ripetute<br />

pressioni da parte del proprio capo-reparto dott. R. si riduce, sostanzialmente, a poco più di un anno.<br />

Che negli ultimi mesi del 1988 e nel 1989 vi sia stati problemi tra la lavoratrice e i superiori appare<br />

chiaro leggendo la corrispondenza intercorsa tra gli stessi e la documentazione prdotta dalla ricorrente<br />

(docc. 1-17). Le prove testimoniali, tuttavia, non hanno confortato le allegazioni al proposito contenute<br />

nel capo 6 del ricorso, ove si afferma che R. avrebbe posto in essere "un asfissiante e arbitrario<br />

controllo sull’attività lavorativa della ricorrente" con "lettere di contestazione ovviamente infondate".<br />

Certamente ci fu il controllo da parte del superiore e ci furono le lettere di contestazione, ma non v’è<br />

prova che essi fossero, rispettivamente, arbitrario e infondate, né le ragioni che determinarono la crisi<br />

dei rapporti personali tra R. e C. (vale a dire, l’ostinato rifiuto di quest’ultima di seguire le<br />

interpretazioni che alla normativa dava il capo-reparto, ritenendole sbagliate) possono essere imputate<br />

al superiore gerarchico.


A quest’ultimo proposito, occorre infatti osservare che sul principale motivo d’attrito tra i due in ordine<br />

all’interpretazione della disciplina legale applicabile (che consisteva nel disaccordo sul numero massimo<br />

delle visite mediche di controllo ai lavoratori in malattia che potevano attribuirsi, al giorno, per ciascun<br />

medico), la tesi interpretativa della C. è stata sostanzialmente sconfessata da una testimone (sicuramente<br />

competente in materia) che la stessa ricorrente ha indicato, C. Maria. Questa, infatti, pur premesso che<br />

"la norma prevede che in linea di massima si possano dare tre visite di controllo per ogni fascia oraria<br />

per ogni singolo medico", ha poi affermato che "in alcune realtà si sono date molte più visite per ogni<br />

singolo medico…anche a Torino", giustificando tale prassi (che era quella seguita dal dott. R. e<br />

contestata dalla ricorrente) "perché, essendo obbligati a fare le visite di controllo richiesteci e avendo<br />

pochi medici, dovevamo darne di più".<br />

Quanto ai controlli e alle lettere di contestazione per scarsa produttività – e per ritardi accumulati<br />

nell’anno 1989 e precisamente quantificati, in una lettera a cui non risulta essere stata data risposta, in<br />

ben 1.519 minuti – si tratta di attività che rientrano nei poteri (e anche nei doveri) del superiore<br />

gerarchico e questo giudice non ha elementi per ritenere che si trattasse di atti arbitrari e di rilievi<br />

infondati. Anzi, il fatto che, per il 1989, la ricorrente sia stata esclusa dagli incentivi per scarso<br />

rendimento (fatto eccezionale, a quanto consta, per un ente come l’I.: cfr. anche le dichiarazioni rese dal<br />

teste S.) e che, pur avendo contestato tale decisione per il tramite di un’organizzazione sindacale, la<br />

vertenza non si sia risolta a suo favore (senza che C. ne abbia contestato l’esito in sede giudiziaria),<br />

depone nel senso della correttezza (o, quanto meno, della non arbitrarietà) dell’operato dell’I.. Non<br />

essendo ravvisabili inadempimenti contrattuali, non può quindi esaminarsi la questione della risarcibilità<br />

di pretesi danni (che, peraltro, sono stati indicati, per quel periodo di tempo, in maniera molto sfumata<br />

dall’unico testimone escusso sul punto, A. Andrea).<br />

Dal 1993 al 2000. In questo lasso di tempo, e, in particolare, dal gennaio 1994 in avanti – quando<br />

cominciò il grave demansionamento di cui già si è detto – la situazione lavorativa della C. appare invece<br />

connotata da condotte vessatorie illegittime e ingiustificate che, proprio perché protrattesi a lungo,<br />

sconvolsero la vita lavorativa ed extralavorativa della donna. Una fase iniziale di accettabile, se pur<br />

aspro, conflitto tra lavoratrice e superiori gerarchici, degenerò in una situazione di patologica "crisi" del<br />

rapporto di lavoro, in cui la lavoratrice, inizialmente reattiva e battagliera, fu sfiancata dai superiori<br />

gerarchici, che la colpirono – con intenti chiaramente punitivi – affidandole (a lungo) mansioni<br />

notevolmente inferiori rispetto al livello professionale acquisito; queste, data la loro natura, portarono<br />

ad un isolamento della C. rispetto ai colleghi impiegati nell’ordinario processo produttivo, ne minarono<br />

conseguentemente l’autostima determinando i pregiudizi di cui meglio, di seguito, si dirà e innescarono<br />

un "circolo vizioso" che, da un lato, portò la dipendente a non riuscire a svolgere in modo ottimale il<br />

(sia pur banale) lavoro affidatole e, d’altro lato, le attirò ulteriori riprovazioni da parte dei superiori.<br />

In particolare, il periodo temporale in questione è caratterizzato dai seguenti aspetti.<br />

A) Nel 1993 C. fu incaricata, insieme ai colleghi S. e S., di gestire uno sportello aperto al pubblico di<br />

nuova istituzione, denominato "progetto estratto conto unificato" e ampiamente pubblicizzato dall’I..<br />

In sostanza, dopo aver ricevuto un estratto conto della loro situazione contributiva, i lavoratori –<br />

personalmente o per il tramite dei patronati – potevano rivolgersi al nuovo sportello dell’Istituto per<br />

avere chiarimenti sulla loro situazione o per richiedere integrazioni e correzioni dell’estratto conto. A<br />

causa della novità del servizio e del grandissimo numero di utenti che accedevano allo sportello (molti<br />

dei quali, peraltro, necessitavano di fare chiarezza sulla propria situazione contributiva al fine di poter<br />

accedere ai benefici previsti dalla l. 223/1991 sulla mobilità, il cui termine di scadenza era fissato al<br />

31.12.1993), il lavoro era intensissimo e molto tempo doveva essere dedicato al contatto col pubblico,<br />

sicché era impossibile soddisfare altresì i requisiti di produttività nell’archiviazione delle pratiche<br />

eseguite. Di ciò hanno riferito i testi S. e S.. Non di meno, i tre addetti – la cui solerzia e competenza<br />

nell’adempimento delle mansioni otteneva positivi riscontri dagli utenti (cfr. deposizioni testi A. e B.) –<br />

erano sottoposti ad una esagerata pressione psicologica ad opera del capo-reparto S., il quale, con


cadenza quasi settimanale richiedeva loro (ma in modo particolare alla C.), anche per iscritto, i dati di<br />

produzione, ne contestava la non conformità agli standars previsti e sollecitava lettere di richiami del<br />

direttore della sede (che puntualmente giungevano) con richiesta di giustificazioni (altrettanto<br />

puntualmente fornite dai lavoratori). Dalla lettura della corrispondenza intercorsa in quel periodo (cfr.<br />

docc. 19-27 di parte ricorrente) tra azienda, lavoratori e organizzazioni sindacali (che intervennero a<br />

sostegno dei dipendenti), si ricava come la pretesa aziendale di una produttività conforme ai dati stabiliti<br />

a livello nazionale in sede di contrattazione collettiva non teneva nel debito conto le condizioni di<br />

particolare affluenza del pubblico (e le difficoltà che ogni nuovo progetto incontra nella prima fase di<br />

attuazione) che caratterizzavano l’attività svolta da C. e dai suoi due colleghi, sicché appare non<br />

conforme agli obblighi di correttezza e buona fede l’asfissiante e continuo controllo esercitato (cui,<br />

peraltro, non seguì mai l’adozione di provvedimenti sanzionatori, segno che lo stesso direttore V., come<br />

trapela dalle lettere da lui scritte, in realtà non riteneva i dipendenti colpevoli di negligenza, anche se<br />

concorreva con S. nel ternerli "sotto pressione"). In questo periodo, la ricorrente fu altresì vittima di<br />

"dispetti" da parte del superiore S., come il diniego a fruire di un periodo di ferie precedentemente<br />

concordato, benché le esigenze d’ufficio non richiedessero necessariamente la presenza della C., tanto<br />

da richiedere il personale intervento "di supplica" del marito della ricorrente – che già aveva prenotato il<br />

soggiorno per una breve vacanza con tutta la famiglia e con amici – per vincere, infine, l’opposizione<br />

del superiore (cfr. deposizioni testi S. e A.). Si è già ricordato, inoltre, il fatto che alla ricorrente furono<br />

affidate, per un certo periodo, mansioni che lo stesso V., per iscritto, giudicò non confacenti al livello di<br />

inquadramento.<br />

B) A partire dal gennaio 1994 – a seguito di una contestazione disciplinare relativa ad errori commessi<br />

nello svolgimento della mansione (contestazione, questa, che, almeno in parte, non si ha motivo di<br />

ritenere infondata, tenuto conto delle non convincenti giustificazioni addotte dalla ricorrente, e delle<br />

sue parziali ammissioni di responsabilità, e del fatto che il conseguente provvedimento di deplorazione<br />

scritta non è stato contestato) – la ricorrente fu trasferita ad altro ufficio e, come più sopra si è detto,<br />

iniziò il periodo di grave demansionamento. Ciò che rende più riprovevole l’adibizione a mansioni<br />

inferiori è che essa deve ritenersi assunta (e poi mantenuta) con intento punitivo (quindi, quale<br />

illegittima e atipica "sanzione disciplinare"), proprio a causa delle mancanze cui più sopra si accennava<br />

(e delle contestazioni successivamente mosse): nella lettera di deplorazione del direttore V. del<br />

12.4.1994 si legge, infatti, che "la negligenza mostrata…rivela scarse attitudini ad espletare le mansioni<br />

proprie della qualifica rivestita", frase, questa, che – se letta nel contesto di ciò che era appena avvenuto<br />

(vale a dire l’attribuzione di mansioni di gran lunga inferiori) – rivela le ragioni sottese alla violazione<br />

dell’art. 2103 c.c. Deve, inoltre, osservarsi che il direttore fu probabilmente contrariato anche dal fatto<br />

che l’iniziale sua decisione di adibire la C. alla reception dovette essere revocata a seguito della<br />

presentazione, da parte della ricorrente, di certificazione medica (poi convalidita dal medico legale<br />

dell’I.) che attestava la necessità che la dipendente lavorasse in un ambiente ben riscaldato (quale non<br />

era la reception, posto che attraverso il locale in questione affluivano, direttamente dall’esterno, con<br />

conseguente frequente apertura della porta, le numerose persone che si recavano giornalmente<br />

all’Istituto).<br />

C) Nel periodo in cui la ricorrente fu costretta a svolgere mansioni inferiori ella fu oggetto, inoltre, di<br />

atteggiamenti vessatori da parte dei superiori, volti a lederne l’immagine e la personalità morale intesa in<br />

senso lato, ad infastidirla, a metterla in imbarazzo davanti ai colleghi. In alcuni casi si trattava di atti<br />

illegittimi, in altri casi di provvedimenti che – pur rientranti nei poteri del datore di lavoro –<br />

presentavano caratteri anomali che ne disvelavano l’intenzione ingiustamente punitiva, in altri casi<br />

ancora di condotte soltanto moralmente riprovevoli (anche da parte di colleghi) aventi lo stessso scopo<br />

di "colpire" un dipendente oramai caduto in disgrazia. Si considerino i seguenti esempi:<br />

- nel luglio 1996, il direttore V. – a distanza di 12 giorni, quando la ricorrente già si trovava in ferie – le<br />

spedì nel luogo di villeggiatura una lettera di contestazione (doc. 40 di parte ricorrente) e affisse nella<br />

bacheca aziendale (conferendo così un’anomala pubblicità alla vicenda) l’avviso di avvio del


procedimento disciplinare; i fatti contestati appaiono essere stati eccessivamente enfatizzati e, anche a<br />

causa di una lettera di giustificazioni della ricorrente dal contenuto chiaramente remissivo, sono stati<br />

frettolosamente ritenuti come ammessi nonostante risultassero elementi di segno contrario (si vedano, a<br />

questo proposito, le dichiarazioni rese dalla teste M.), mentre la vicenda, soprattutto se giudicata così<br />

grave come l’I. ha mostrato di ritenere, avrebbe probabilmente meritato un più attento<br />

approfondimento, anche per capire, ad esempio, chi era il dipendente – pacificamente diverso dalla C. –<br />

che aveva portato il proprio figlioletto sul luogo di lavoro e che, in definitiva, era responsabile della sua<br />

condotta; ma, a prescindere dal merito della vicenda, i tempi (vale a dire il periodo in cui la lavoratrice<br />

era in ferie, benché non si potesse oramai più parlare di immediatezza rispetto alla data del fatto) e i<br />

modi scelti per muovere la contestazione rivelano un particolare accanimento;<br />

- l’atteggiamente intimidatorio e persecutorio (tanto da provocare nella ricorrente crisi di pianto in<br />

ufficio, delle quali hanno riferito numerosi testimoni) tenuto nei confronti della C. dalla capo-reparto T.<br />

negli anni 1997 e, in particolare, 1998, con sfuriate e rimproveri mossi ad alta voce e in modo tale che<br />

potessero essere uditi dai colleghi;<br />

la rinnovata abitudine, del capo reparto e del nuovo direttore, di muovere rilievi disciplinari (docc. 45-<br />

47 di parte ricorrente), cui la ricorrente replicò con dettagliate spiegazioni, in data 22.12.1998 (doc. 48),<br />

evidentemente ritenute accoglibili, posto che le contestazioni non ebbero seguito sul piano disciplinare;<br />

- il conseguente cambiamento di mansioni adottato con provvedimento del 28.12.1998 – nuovamente<br />

spiegabile in anomala chiave punitiva rispetto alle contestazioni di cui si è appena detto – con<br />

attribuzione di compiti parimenti dequalificanti e con l’ulteriore disposizione di lavorare, da sola, in una<br />

stanza adiacente a quella del direttore, e con questa comunicante per il tramite di una porta a vetri, così<br />

da ingenerare il timore di essere "controllata a vista";<br />

timore fondato, considerata l’ingiustificata "scenata" fatta pubblicamente dal direttore P. alla ricorrente,<br />

in presenza di colleghi, nel giugno 1999, perché questa – su richiesta, peraltro, di un funzionario di<br />

livello superiore – si era recata a dare una mano a colleghi che necessitavano di aiuto ed aveva osato<br />

"allontanarsi" dalla stanza che le era stata assegnata (episodio, peraltro non contestato da parte<br />

convenuta, di cui hanno riferito il teste A. e di cui si parla nella lettera di protesta della C. del 23.6.99);<br />

- il generale atteggiamento ostile nei confronti della C. che, in conseguenza delle chiarissime prese di<br />

posizione dei superiori e della direzione, anche alcuni colleghi pari livello furono indotti a tenere: si<br />

considerino le eloquenti dichiarazioni del teste S.: "i superiori un po’ la prendevano di mira: bastava una<br />

virgola sbagliata ed erano rimproveri…sentii T. che diceva C. ha fatto questo o quell’altro…ricordo<br />

fatti episodici, ma messi tutti insieme diventavano fatti continuativi ed era sempre lei ad essere presa di<br />

mira o segnalata…ad esempio andava a portare un certificato in banca, trovava coda, e i colleghi e<br />

superiori si lamentavano perché non tornava. Mentre per altri colleghi, in casi simili, una giustificazione<br />

si trovava, per lei non si trovava mai nessuna giustificazione"; si consideri, altresì, il fatto – riferito dalla<br />

teste B., utente dell’Istituto – che il portinaio della sede I., alla richiesta della stessa B. di poter parlare<br />

con la ricorrente (alla quale si era rivolta, con soddisfazione, qualche tempo prima per una pratica<br />

pensionistica), disse che la C. non era più lì e soltanto a seguito delle rimostranze dell’utente (che<br />

conosceva l’auto della ricorrente e l’aveva vista sul piazzale), si risolse ad indicarle dove fosse il suo<br />

luogo di lavoro.<br />

3. La responsabilità dell’I.. In ordine alle condotte di demansionamento e di <strong>mobbing</strong> più sopra<br />

descritte deve affermarsi la responsabilità di parte convenuta, sia sul piano contrattuale, sia sul piano<br />

extracontrattuale. Quanto al primo aspetto, se è conclamato l’inadempimento dell’obbligo statuito<br />

nell’art. 2103 c.c., è altrettanto chiara la violazione dell’art. 2087 c.c., nella parte cui obbliga il datore di<br />

lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro,<br />

anche alla luce dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede (artt. 1075 e 1375 c.c.). Non


soltanto, infatti, la convenuta non ha assolto all’onere della prova che le incombeva in ordine<br />

all’adempimento di tali obbligazioni, ma le circostanze sopra riepilogate mostrano, al contrario, come la<br />

lesione della personalità morale della C. – costretta per anni a svolgere mansioni dequalificanti e a<br />

subire vessazioni da parte dei superiori gerarchici – sia stata posta in essere direttamente (o comunque<br />

avallata) da chi, presso la sede I. di Pinerolo, rappresenta il datore di lavoro, vale a dire il direttore.<br />

Vane, peraltro, sono state le reiterate richieste scritte avanzate dalla ricorrente per far cessare le ostilità<br />

ai suoi danni, nelle quali ella esplicitava lo stato di sofferenza psicologica ed esistenziale in cui si trovava<br />

(cfr. docc. 36, 51, 55, 56, 57, 59, 64). Accertato, quindi, l’inadempimento dell’I. agli obblighi nascenti dal<br />

contratto, la ricorrente ha diritto al risarcimento del danno, del quale più oltre si dirà.<br />

Quanto alla responsabilità extracontrattuale, come già si accennato – e come meglio si porrà in evidenza<br />

di seguito, analizzando i concreti pregiudizi patiti dalla ricorrente a causa delle condotte poste in essere<br />

dai superiori – nel caso di specie vengono in rilievo (anche) danni alla persona, in violazione di diritti<br />

costituzionalmente garantiti, sicché, giusta consolidato orientamento giurisprudenziale, è ammissibile il<br />

concorso dell’actio ex lege Aquilia con l’azione di responsabilità contrattuale. Per quanto si appena<br />

osservato, è sicuramente ravvisabile (quanto meno) la colpa nei confronti dei superiori gerarchichi della<br />

ricorrente, colpa specifica per violazione di legge (in particolare, gli artt. 2103 e 2087 c.c.), e dei danni<br />

cagionati dal preposto nell’adempimento delle sue funzioni, il datore di lavoro risponde ai sensi dell’art.<br />

2049 c.c.<br />

4. I danni risarcibili. Prima di esaminare i concreti pregiudizi conseguenti all’inadempimento dell’I. e<br />

al fatto illecito dei suoi dipendenti, occorre chiarire quali tipologie di danno vengono astrattamente in<br />

rilievo nel caso di episodi di demansionamento e <strong>mobbing</strong>. Sul punto, infatti, gli orientamenti espressi<br />

in giurisprudenza non sono concordi e, prudentemente, la difesa di parte ricorrente ha invocato tutti i<br />

profili di danno conosciuti dalla prassi giudiziaria. Ritiene, tuttavia, il giudicante che sia fuorviante fare<br />

ricorso – come spesso si è fatto, soprattutto con riguardo alla violazione dell’art. 2103 c.c. – a pretese<br />

categorie di danno che sarebbero tipiche degli inadempimenti in parola, quale il c.d. "danno alla<br />

professionalità". Le categorie del pregiudizio risarcibile sono, anche in questi casi, quelle generali, e pure<br />

su questo punto – stante la varietà di opinioni – occorre fare chiarezza.<br />

In conformità ad una consolidata tradizione, si suole distinguere tra danno patrimoniale e danno non<br />

patrimoniale, ma la definizione di tali concetti – e di quest’ultimo in particolare – è controversa. La<br />

necessità di distinzione s’impone, com’è noto, per via della limite che l’art. 2059 c.c. pone alla<br />

risarcibilità di quello che ivi è definito "danno non patrimoniale" e che delimita la portata generale che<br />

altrimenti dovrebbe riconoscersi all’art. 2043 c.c. Nonostante la tradizionale lettura in termini<br />

"patrimonialistici" che di tale ultima disposizione è stata data, essa non pone, infatti, alcun limite alla<br />

natura del danno risarcibile. Per l’art. 2043 c.c., è risarcibile qualsiasi profilo di danno (incida esso sul<br />

patrimonio oppure no), purché sia "ingiusto", e – secondo l’ampia accezione affermatasi in progresso di<br />

tempo e di recente accolta dalla Corte Suprema, che riconosce alla norma la portata di una clausola<br />

generale primaria – tale è il "danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si<br />

risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento" (Cass. S.U., sent. 22.7.1999 n. 500).<br />

Ciò premesso, si deve affermare che il danneggiante è tenuto al risarcimento di qualsiasi tipo di<br />

pregiudizio consegua al fatto illecito, salvo il "danno non patrimoniale" di cui all’art. 2059 c.c., che può<br />

essere risarcito nei soli casi specificamente determinati dalla legge (tradizionalmente coincidenti con la<br />

commissione di illeciti penali, anche se, nell’ultimo decennio, diverse altre ipotesi settoriali sono state<br />

previste). Al proposito, in conformità all’autorevole insegnamento della Corte costituzionale – accolto<br />

dal prevalente orientamento della giurisprudenza – questo Tribunale ritiene che la limitazione posta<br />

dall’art. 2059 c.c. (che, altrimenti, sarebbe incompatibile con la Costituzione) valga per il solo danno<br />

morale soggettivo, coincidente con l’ansia, l’angoscia, le sofferenze psichiche o fisiche, il perturbamento<br />

dello stato d’animo (cfr. C. Cost., sent. 14.7.1986 n. 184). Come ha di recente affermato la Suprema<br />

Corte in materia di tutela dei diritti personali del lavoratore lesi dal datore di lavoro, deve quindi


itenersi che "la lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile<br />

impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il<br />

rimedio del risarcimento del danno non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non<br />

sia di natura patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta previsione dell’art.<br />

2059 c.c.", precisando, tuttavia – sulla scorta della sent. Corte cost. 27.10.1994 n. 372 – che, in tali casi,<br />

"se è indiscutibile che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell’esistenza del danno, è pur<br />

sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha<br />

prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c." (Cass., Sez. Lav., sent. 3.7.2001<br />

n. 9009).<br />

Le considerazioni svolte con riguardo al settore della responsabilità civile debbono ritenersi valide<br />

anche sul piano della responsabilità contrattuale. Del resto, l’art. 1223 c.c. – ad onta, pure qui, di una<br />

tradizionale lettura in senso patrimoniale – prevede la risarcibilità, accanto al lucro cessante, di qualsiasi<br />

"perdita" l’inadempimento abbia causato (senza richiedere, necessariamente, che essa abbia natura<br />

economica). Se, quindi, da un lato, il danno morale in senso stretto quale più sopra si è definito non<br />

costituisce "perdita", sicché – al di là della formale inapplicabilità dell’art. 2059 c.c., che opera soltanto<br />

per i fatti illeciti – esso non rientra nell’art. 1223 c.c., dall’altro lato, la disposizione considera qualsiasi<br />

altra perdita di un bene giuridicamente rilevante.<br />

Con riguardo ai danni che colpiscono la persona, poi, la Cassazione insegna che essi possono<br />

"consistere nella lesione dell’integrità fisio-psichica, cioè nel danno alla salute o danno biologico in<br />

senso stretto, oppure in quello che più genericamente si designa come "danno esistenziale", al fine di<br />

coprire tutte le compromissioni delle attività realizzatrici della persona umana (es. impedimenti alla<br />

serenità familiare, al godimento di un ambiente salubre e di una situazione di benessere, al sereno<br />

svolgimento della propria vita lavorativa)", poiché "non è solo il bene della salute a ricevere una<br />

consacrazione costituzionale sulla base dell’art. 32, ma anche il libero dispiegarsi delle attività dell’uomo<br />

nell’ambito della famiglia o di altra comunità" gode di una speciale considerazione negli artt. 2 e 29<br />

Cost., sicché "tanto i pregiudizi alla salute quanto quelli alla dimensione esistenziale, sicuramente di<br />

natura non patrimoniale, non possono essere lasciati privi di tutela risarcitoria, sulla scorta di una lettura<br />

costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile".<br />

Sulla scorta delle argomentazioni sopra svolte, deve quindi concludersi che, in materia di danni alla<br />

persona, accanto alle tradizionali tipologie del danno patrimoniale, del danno morale strettamente<br />

inteso e del danno biologico, viene in rilievo anche la categoria del danno esistenziale. Nell’area del<br />

danno non patrimoniale, essa si distingue da quella del danno morale – oltre che per il diverso regime<br />

giuridico, la prima rientrando nella generale disciplina di cui all’art. 2043 c.c e la seconda essendo<br />

soggetta alla previsione dell’art. 2059 c.c. – per la sua caratteristica di abbracciare quelle compromissioni<br />

dell’esistenza quotidiana che siano "naturalisticamente" accertabili e percepibili, traducendosi in<br />

modificazioni peggiorative del normale svolgimento della vita lavorativa, familiare, culturale, di svago,<br />

laddove, come si è detto, il danno morale è un pati interiore che prescinde da qualsiasi ricaduta sull’agire<br />

umano. E’ ben vero che la sofferenza, l’angoscia, il malessere psichico (non rilevante come patologia<br />

medica) possono indurre sostanziali cambiamenti nell’esistenza quotidiana; occorre tenere conto,<br />

tuttavia, che, per un verso, non sempre ciò accade e, per altro verso, laddove tale consequenzialità si<br />

apprezzi saranno ravvisabili due distinte "voci" di danno, sicché, sul piano della liquidazione –<br />

necessariamente equitativa – occorrerà valutare attentamente, e distintamente, la natura e la gravità dei<br />

diversi profili di pregiudizio per indennizzare "tutto" il pregiudizio, evitando, però, duplicazioni<br />

risarcitorie. Dal danno biologico – che, pure, rientra in una concezione lata di danno esistenziale, posto<br />

che, in tal caso, ciò che si risarcisce non è la lesione psico-fisica in sé, ma la ricaduta che essa produce<br />

sull’agire non reddituale del danneggiato (cfr. C. cost., sent. 372/1994), sicché il regime giuridico è il<br />

medesimo – il danno esistenziale (in senso stretto) si distingue a seconda che, a monte, vi sia una<br />

lesione del bene della salute fisica o psichica (accertabile con una consulenza medico-legale), ovvero<br />

l’iniuria concerna la lesione di altri beni della persona giuridicamente rilevanti.


4. Sulla scorta di queste premesse, occorre dunque esaminare le "voci" di danno di cui parte ricorrente<br />

lamenta l’esistenza e di cui chiede il risarcimento.<br />

A) Il preteso "danno alla professionalità". Ritiene il Tribunale che il panorama delle categorie<br />

concettuali di danno sopra riepilogate sia esaustivo, potendo esservi ricondotte tutte le "perdite" che, in<br />

concreto, una condotta illecita (o inadempiente) può determinare. Non appare quindi necessario<br />

richiamare il concetto di "danno alla professionalità" – che pure viene normalmente evocato in<br />

giurisprudenza nei casi di violazione dell’art. 2103 c.c. – trattandosi di una categoria disomogenea, cui<br />

sono stati ricondotti pregiudizi di svariata natura, i quali si fondono (e si confondono) in un contenitore<br />

che, a ben vedere, appare, per un verso privo di coerenza logica e sistematica e, per altro verso, foriero<br />

di complicazioni processuali, sia quanto al problema della prova del pregiudizio, sia quanto alla sua<br />

liquidazione. Guardando alla giurisprudenza che ha fatto uso del paradigma in questione si comprende,<br />

infatti, come esso sia stato utilizzato per compensare i diversi tipi di danno causati dal<br />

demansionamento, condotta, questa, che può ledere la professionalità del lavoratore (depauperandola o<br />

non consentendone l’incremento, con il conseguente pregiudizio sulla possibilità di carriera e sulla<br />

minor competitività nel mercato del lavoro: v. Cass. 7.7.2001 n. 9228), ma anche la sua dignità<br />

professionale (intesa quale diritto di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto<br />

lavorativo: Cass. 2.1.2002 n. 10) e la sua immagine all’interno e all’esterno dell’azienda (con possibili<br />

riflessi economici e morali: C. App. Milano 11.5.2001); può poi determinare danni biologici (soprattutto<br />

di carattere psichico: Trib. Torino, 27.6.2001) e, più raramente (perché non è frequente la realizzazione<br />

di reati), danni morali. Inoltre – considerando le ripercussioni negative che un demansionamento o,<br />

addirittura, una forzata e duratura inattività, producono sulla quotidiana esistenza del lavoratore – si è<br />

talvolta parlato di danni alla vita di relazione (Cass. 6.11.2000 n. 14443).<br />

Sul rilievo che il demansionamento comporta – pressoché sempre – un pregiudizio alla professionalità<br />

(a volte intesa quale elemento che consente al lavoratore di concorrere sul mercato del lavoro e,<br />

dunque, di ottenere reddito e, a volte, intesa, anche o soltanto, come lesione di un diritto della<br />

personalità) e all’immagine o al decoro professionale del prestatore d’opera, la più recente<br />

giurisprudenza di merito e legittimità – richiamata in ricorso – suole ritenere che tali danni siano in re<br />

ipsa, potendo essere desunti (e liquidati) sulla base di comuni regole di esperienza, valutabili quali indizi<br />

di carattere logico. Gli ulteriori profili di danno (salvo quello biologico, sempre tenuto ben distinto e<br />

liquidato soltanto a seguito di rigorosa prova), sono spesso ricompresi in tali pregiudizi e, in linea di<br />

massima, si afferma che l’intero danno da perdita di professionalità trova ristoro nel riconoscimento di<br />

una somma corrispondente ad una certa percentuale della retribuzione mensile o – come ha richiesto la<br />

difesa di parte ricorrente nel caso di specie – nell’importo corrispondente alla differenza tra la<br />

retribuzione prevista per l’inquadramento assegnato al dipendente e l’inferiore livello in cui rientrano le<br />

mansioni di fatto assegnate.<br />

Una parte della più recente giurisprudenza di merito e legittimità (Cass., 14.11.2001 n. 14199; Trib.<br />

Treviso, 13.10.2000) si mostra invece consapevole della plurioffensività della condotta posta in essere in<br />

violazione dell’art. 2103 c.c. e, anche ai fini risarcitori, rifiutando l’omnicomprensiva categoria del<br />

"danno alla professionalità", tende a distiguere le varie "voci" di danno. Siffatto metodo – ritiene questo<br />

Tribunale – è senza dubbio preferibile, sicché, facendo impiego delle comuni categorie descrittive del<br />

danno quali più sopra delineate, occorre innanzitutto distinguere il danno patrimoniale (danno<br />

emergente per diminuzione di retribuzione conseguente alla dequalificazione e per perdita di chances, o<br />

lucro cessante per la concreta perdita di possibilità di carriera interne all’azienda o di migliori impieghi)<br />

dal danno non patrimoniale. All’interno di quest’ultima categoria bisogna poi distinguere il danno<br />

biologico (che può assumere le forme di malattia psichica), il danno morale (ravvisabile in caso di reato)<br />

e il danno esistenziale, inteso come sconvolgimento della vita familiare, lavorativa e sociale conseguente<br />

al demansionamento.


B) Il danno biologico. Parte ricorrente ha allegato che dalla condotta di demansionamento e <strong>mobbing</strong><br />

imputabile all’I. sarebbe derivato un danno biologico temporaneo del 30% - così quantificato dal<br />

consulente di parte dott. M. – qualificabile come "disturbo dell’adattamento con significativa<br />

componente occupazionale". Rileva, al proposito, il giudicante che, in mancanza di un attendibile<br />

valutazione medica compiuta su dati di fatto oggettivi, non possa ritenersi provata l’esistenza di una<br />

patologia in senso medico-legale. In primo luogo, deve osservarsi come la diagnosi formulata nel<br />

febbraio 2000 dai clinici dell’X. consegua ad accertamenti diagnostici che questo giudice non è stato<br />

posto in grado di valutare (a parte il referto della visita neurologica, essi sono soltanto menzionati nella<br />

lettera di dimissioni prodotta come doc. 63), mentre il giudizio del dott. M. si è fondato (oltre che, e<br />

soprattutto, su tale diagnosi) soltanto su alcuni certificati medici, alcuni dei quali (quelli del 1989 e del<br />

1992) inutilizzabili perché antecedenti al periodo per il quale è stata riconosciuta la responsabilità della<br />

convenuta e altri non significativi (il certificato del 14.6.1999 riguarda una crisi d’ansia acuta a seguito<br />

della "scenata" subita quel giorno dal direttore P. – della quale già si è detto – senza indicazione di<br />

prognosi, mentre il certificato del medico curante dott. T. non è nemmeno stato prodotto in causa e<br />

sembra comunque trattarsi di un parere rilasciato appositamente per il presente giudizio). In secondo<br />

luogo, i tratti salienti della pretesa patologia quali rilevabili dalla lettera di dimissioni dell’X. (ansia e<br />

umore depresso) sembrano costituire – come, peraltro, espressamente si legge nel referto della visita<br />

neurologica – un non meglio qualificato "stato di disagio psicofisico", che è stato correlato (non tanto<br />

ad una situazione di alterazione organica, quanto) alla conflittualità ed emarginazione vissuti<br />

nell’ambiente di lavoro. Il principale rimedio suggerito, del resto, è stato l’inserimento in gruppi di autoaiuto,<br />

mentre la farmacoterapia (peraltro di carattere antidepressivo) è stata ritenuta soltanto "utile" (e<br />

non, quindi, necessaria), sicché appare fortemente dubbia (e non può dirsi provata) la sussistenza di una<br />

vera e propria malattia. Si consideri, da ultimo, che parte ricorrente – probabilmente consapevole della<br />

difficoltà di fornire un’adeguata dimostrazione del danno biologico lamentato – non ha nemmeno<br />

richiesto che fosse disposta una CTU medico-legale.<br />

C) Il danno morale. Se il turbamento psichico di cui si è appena detto non sembra valutabile quale<br />

patologia, certamente esso rientra nella nozione del danno morale di cui più sopra si è detto. Nel caso<br />

di specie, però, la limitazione contenuta nell’art. 2059 c.c. impedisce di ottenerne il risarcimento. La<br />

richiesta – non meglio specificata in ricorso – poggia, probabilmente, sul fatto che l’esistenza<br />

dell’allegata patologia avrebbe consentito di ravvisare il reato di lesioni (quanto meno) colpose.<br />

Disattesa questa prospettazione, non essendo ravvisabile (e neanche allegato), alcun altro illecito penale<br />

nella condotta tenuta dai superiori gerarchici della ricorrente, la relativa domanda deve quindi essere<br />

disattesa.<br />

D) Il danno esistenziale. Su questo piano, la domanda è certamente fondata. Lungi dall’aver prodotto<br />

soltanto meri turbamenti d’animo e disagi psichici o pure sofferenze, le vessazioni e il<br />

demansionamento subiti dalla ricorrente hanno infatti determinato un apprezzabile, e concreto,<br />

peggioramento delle condizioni di vita della C., sia sul posto di lavoro, sia nel mondo extralavorativo.<br />

Nel caso di specie, è quindi possibile affermare la sussistenza del danno esistenziale, seguendo gli<br />

insegnamenti della Corte di cassazione, che, al proposito, osserva come "il pregiudizio di un diritto<br />

inviolabile della personalità deve essere da colui che lo invoca allegato e provato (sia pure con ampio<br />

ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell’ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in<br />

relazione al quale l’alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile), nei suoi caratteri<br />

naturalistici (incidenza su di una concreta attività, pure non reddituale, e non mero patema d’animo<br />

interiore) e nel nesso di causalità", sicché, "su di un piano diverso e logicamente successivo, una volta<br />

accertato il cd. danno evento (cioè il pregiudizio del diritto fondamentale), si colloca la valutazione del<br />

cd. danno-conseguenza, cioè dell’entità del sacrificio sofferto, ai fini di una liquidazione naturaliter<br />

equitativa" (Cass., sent. 9009/2001).<br />

Nel caso di specie, quello che il giudice della nomofilachia, nella decisione appena citata, indica come<br />

danno-evento – ma che meglio potrebbe essere definito, come insegna Cass. S.U. n. 500/1999, quale


interesse giuridico protetto dall’ordinamento che consente di ritenere ingiusto il conseguente<br />

pregiudizio – è la lesione della personalità morale della dipendente (art. 2087 c.c.), del suo diritto a<br />

svolgere mansioni confacenti con il livello d’inquadramento attribuito (art. 2103 c.c.), della sua dignità<br />

quale donna e lavoratrice (art. 41, comma 2 Cost.), del suo diritto a realizzarsi, senza indebite<br />

costrizioni, nel mondo del lavoro e in altre formazioni sociali, in particolare in seno alla famiglia, ove la<br />

donna lavoratrice deve poter svolgere serenamente la propria essenziale funzione anche materna (artt.<br />

2, 29, 37 comma 1 Cost.). Or bene, osserva il giudicante come tali interessi meritevoli di tutela secondo<br />

l’ordinamento siano indubbiamente stati lesi e come ne siano conseguentemente derivati pregiudizi alla<br />

quotidiana esistenza della C. con particolare riguardo al mondo del lavoro e a quello familiare.<br />

Circa il primo aspetto della questione, è agevole rilevare che la qualità della vita lavorativa della C.<br />

peggiorò sensibilmente a far tempo dal gennaio 1994, quando cominciò ad essere attuato il<br />

demansionamento e dopo che, nel precedente anno 1993, la lavoratrice già era stata fatta oggetto di<br />

indebite ed esagerate pressioni da parte dei superiori (sicché se ne era già vulnerata la capacità di<br />

reazione). Già si è detto dell’illegittima costrizione a svolgere mansioni dequalificanti, delle "sfuriate" dei<br />

superiori, dell’accanimento disciplinare, delle non sporadiche crisi di pianto sul luogo di lavoro. A ciò si<br />

aggiungano, per qualificare la gravità del peggioramento dell’esistenza lavorativa, i seguenti, ulteriori,<br />

elementi raccolti nel corso dell’istruttoria testimoniale e riferiti al periodo 1994-2000:<br />

- la particolare prostrazione psicologica che la costrizione a svolgere così a lungo mansioni inferiori<br />

cagionò alla C.: ha riferito la teste M. "ricordo momenti di sconforto da parte della ricorrente perché era<br />

adibita esclusivamente a quel lavoro di acquisizione certificati. Sentiva che perdeva di professionalità e<br />

mi chiedeva come uscirne…rimasi di nuovo assente per malattia e tornai nell’ottobre 1995. La ritrovai<br />

adibita al medesimo lavoro, la trovai molto sconfortata; chiedeva una reintegrazione in altre mansioni,<br />

ma non riusciva ad uscirne fuori";<br />

- la trasformazione che lo stato di stress lavorativo dovuto all’inadempienza del datore di lavoro<br />

determinò nella ricorrente e che molti – soprattutto coloro che l’avevano conosciuta in epoca<br />

precedente e che per qualche anno non la frequentarono – colsero (testi B., C., M.); in particolare, la<br />

collega C., che aveva consciuto C. negli anni ’80, la rivide, dopo molti anni, nel 1999 e così ha<br />

dichiarato: "vidi una persona parecchio diversa da come l’avevo conosciuta. Sembrava un pulcino<br />

bagnato, molto magra, molto ansiosa, l’ho vista piangere un po’ di volte, cosa che a me era sconosciuta.<br />

Mi parlò di problemi seri che aveva dal punto di vista lavorativo. Lei era ossessionata dal fatto di andare<br />

in ufficio perché aveva un ambiente ostile, face dei lavori dequalificanti era molto depressa";<br />

- l’estrinsecazione, da parte della ricorrente, del proprio grave disagio sul luogo di lavoro nei confronti<br />

di tutti coloro con cui ebbe modo di rapportarsi (A., S., B., C., S., M., C., M.);<br />

- il progressivo sconvolgimento della vita lavorativa dovuto agli abnormi controlli di cui era fatta<br />

oggetto da parte dei superiori: "ricordo poi di averla incontrata al 5° piano, in una stanza adiacente alla<br />

direzione. I due uffici sono comunicanti internamente da una porta a vetri e così il direttore poteva<br />

vedere se le persone entravano in quella stanza. I nostri rapporti quindi vennero meno, perché avevo<br />

paura a farmi vedere dialogare con la signora…viveva un momento di sconforto ancora maggiore di<br />

quanto accadeva quando lavorava al lettore ottico" (M.); "quando ci sentivamo al telefono, lei parlava a<br />

voce molto bassa; mi diceva che se abbassava improvvisamente il telefono significava che non poteva<br />

più parlare. Mi spiegò che si sentiva controllata, che era stata collocata in ufficio vicino al direttore e lei<br />

era ansiosa e si sentiva male" (CA.); "nel 1999 venna a parlare con me. L’impatto per me fu duro. Vidi<br />

la ricorrente piangere; era in uno stato di prostrazione e umiliazione notevole. La signora mi raccontò di<br />

essere oggetto di vessazioni da parte del direttore della sede di Pinerolo" (SC.);<br />

- la grave compromissione della vita lavorativa indusse poi la ricorrente a fare scelte che, altrimenti non<br />

avrebbe fatto (anche per i pregiudizi economici che ne conseguirono), come il mantenimento dell’orario


a tempo parziale pur quando vennero meno le esigenze familiari che avevano determinato l’opzione (la<br />

necessità di accudire al figlio ancora piccolo) e, infine, la richiesta di trasferimento alla ben più scomoda<br />

sede di Torino al solo scopo di sfuggire ad una situazione di vessazione continua oramai divenuta<br />

insostenibile, dopo aver in ogni modo cercato di ottenere (tramite richieste ai superiori, alla sede<br />

regionale, alle organizzazioni sindacali) la cessazione delle condotte inadempienti e lesive (testi A., C.,<br />

SC.);<br />

- che gli sconvolgimenti esistenziali di cui si è parlato dipendessero soltanto dalle vessazioni patite sul<br />

lavoro, lo si ricava – in termini di ragionevole certezza (cfr., sul punto, anche il conforme giudizio<br />

medico dei sanitari dell’X.) – dal fatto che, dopo il trasferimento alla sede di Torino, la cessazione delle<br />

ostilità nei suoi confronti, il ripristino in mansioni confacenti all’inquadramento, la precedente buona<br />

qualità della vita (lavorativa e non) fu in breve recuperata, salvo il solo disagio conseguente alla<br />

scomodità del viaggio per raggiungere la nuova sede (testi A., C., SC.).<br />

Secondo criteri logici di normalità, è poi agevole desumere come la grave situazione lavorativa appena<br />

tratteggiata non potesse non ripercuotersi al di fuori del mondo nel lavoro, ledendo, in particolare, la<br />

vita familiare e le attività di svago e ricreazione. Di ciò, peraltro, ha riferito – in modo apparso<br />

indubbiamente attendibile, anche per i riscontri documentali – il teste A., marito della ricorrente: "una<br />

cosa che ha inciso sulla famiglia, fu la questione delle ferie. Mia moglie pianificava per tempo la richiesta<br />

di ferie, arrivato il momento di andare in ferie, magari con tutto prenotato, le veniva spesso detto che<br />

c’era una qualche ragione per cui non si potevano più concedere…in molti casi le lettere di<br />

contestazione arrivavano un giorno o due prima dei periodi di ferie, sicché ci rovinavano la<br />

vacanza…quando arrivavano le lettere cominciava ad avere periodi di insonnia, coliti, momenti di<br />

pianto e depressione che dopo un po’ si risolvevano. Con l’andare del tempo subentrò però un periodo<br />

d’ansia. Il colpo peggiore giunse nell’ultimo periodo quando fu isolata nella stanza di fianco al<br />

direttore…mia moglie è una persona estroversa e l’isolamento mise in crisi anche la sua<br />

autostima…oggi, per fortuna, a casa si parla di altre cose e non di I., come era successo nei lunghi anni<br />

precedenti. Non dico tutti i giorni, ma spesso, arrivata a casa, con mia moglie si doveva parlare a lungo<br />

per aiutarla a ripartire…d’accordo con la famiglia, telefonammo ad una nostra conoscente psicologa del<br />

San Luigi di Orbassano, perché la situazione si era fatta insostenibile, aveva frequenti crisi di pianto e ci<br />

consigliò una psichiatra del San Luigi. Mia moglie andò e fece diverse sedute…avevo sposato una<br />

persona e me ne ritrovavo un’altra".<br />

Quanto alla liquidazione del danno, è evidente che essa può avvenire soltanto in termini equitativi che<br />

debbono avere riguardo alla natura, all’intensità e alla durata delle compromissioni esistenziali che si<br />

sono rilevate. In assenza di altri parametri oggettivi – e non apparendo opportuno fare riferimento ad<br />

un parametro di natura patrimoniale come quello della retribuzione per liquidare il danno alla persona<br />

(che colpisce i danneggiati in modo indipendente dalle loro capacità di reddito) – ritiene il giudicante<br />

che possa seguirsi un metodo in qualche modo analogo a quello comunemente utilizzato dai giudici di<br />

merito per risarcire il danno biologico temporaneo. Già si è posto in evidenza, infatti, la similitudine<br />

sussistente tra le due "voci" di danno in questione, entrambe contraddistinte dalle ricadute sul concreto<br />

dispiegarsi della vita del soggetto leso. Se, dunque, una lesione psico-fisica che annulli del tutto, per un<br />

certo tempo, le possibilità del soggetto di dedicarsi alle normali attività (c.d. inabilità temporanea totale)<br />

trova equo ristoro – secondo canoni di valutazione comunemente condivisi dalla giurisprudenza di<br />

merito del distretto – in una somma che si aggira sui 50 Euro al dì, la compromissione delle attività<br />

realizzatrici della persona evidenziata nel caso di specie può essere assimilata alla inabilità temporanea<br />

parziale conseguente a malattia. Ciò premesso, occorre poi considerare i due diversi ambiti in cui il<br />

pregiudizio esistenziale per la C. si è prodotto.<br />

Quanto al peggioramento della vita lavorativa, tenendo conto che l’orario di lavoro era di sei ore al<br />

giorno (1/4 del tempo a disposizione nella giornata) e che il pur grave demansionamento non annullò<br />

del tutto la possibilità di realizzarsi come lavoratrice, si stima equo indicare il risarcimento in 10 Euro


per ciascun giorno lavorativo. Tenendo conto dei congedi feriali, dei giorni di permesso, delle assenze<br />

per malattia o altra causa, può prudenzialmente considerarsi un numero pari a 276 giornate lavorative<br />

nel 1994 e di 138 negli anni dal 1995 al 2000 (quando la ricorrente lavorò soltanto tre giorni a<br />

settimana), sicché se ne ricava un importo complessivo di 1<strong>1.04</strong>0 Euro.<br />

A ciò deve aggiungersi il risarcimento dovuto per il generale peggioramento dell’esistenza<br />

complessivamente intesa, essendo chiaro – per quanto più sopra riferito – che il periodo 1994-2000 fu<br />

segnato, per la ricorrente, da gravi limitazioni in tutti i campi in cui l’individuo realizza se stesso, con<br />

disturbi che hanno compromesso la qualità della vita (insonnie, cefalee, inappetenza, coliti…), spazi<br />

sottratti agli svaghi e alla coltivazione degli affetti e delle amicizie, ripercussioni sulla serenità della vita<br />

familiare. Reputa il giudicante che, come media – avendo sempre riguardo ad un rapporto di<br />

proporzionalità con gli importi usualmente liquidati per indennizzare la I.T.P. - tali pregiudizi possano<br />

trovare equo ristoro in una somma mensile complessiva di 200 Euro per 7 anni, pari a 16.800 Euro.<br />

A tali importi occorre ancora aggiungere una somma forfetaria per le residue compromissioni<br />

esistenziali che, nel primo anno successivo al trasferimento alla sede di Torino, residuarono nell’ambito<br />

extralavorativo, prima che il graduale recupero della normale esistenza portasse ad un sostanziale<br />

ristabilimento dello status quo ante e per gli effetti negativi sin qui prodottisi per il disagio dovuto al<br />

pendolarismo tra il luogo di residenza e il nuovo (necessitato) luogo di lavoro. Questi pregiudizi<br />

possono trovare equo ristoro nella somma di Euro 2.500.<br />

E) Il danno patrimoniale. La sola pretesa al proposito espressamente avanzata in ricorso riguarda il<br />

rimborso delle spese sostenute per gli accertamenti medici e diagnostici resisi necessari per far fronte<br />

alla situazione di stress e per impedire che essa degenerasse. Che tali esborsi siano ripetibili quali danni<br />

emergenti causalmente conseguenti alla condotta inadempiente dell’I. e illecita di suoi funzionari,<br />

indipendentemente dall’accertamento di una patologia e quindi di un danno biologico in senso stretto,<br />

non vi è dubbio: anche il costo sostenuto per gli accertamenti diagnostici finalizzati a tenere sotto<br />

controllo il proprio stato di salute per evitare l’insorgere di una malattia che sarebbe stata ascrivibile alla<br />

responsabilità di altri (condotta peraltro dovuta, ex artt. 1175 e 1227, comma 2, c.c.) costituisce infatti<br />

un danno. Trattandosi di spese documentate, deve quindi essere accolta la richiesta di condanna alla<br />

somma di 583,23 Euro.<br />

Occorre, ancora, esaminare gli eventuali profili di danno patrimoniale che possono ritenersi insiti nella<br />

richiesta di condanna al risarcimento del danno alla professionalità conseguente al demansionamento. A<br />

questo riguardo, osserva il giudicante come, nel caso di specie, non siano ravvisabili perdite o mancati<br />

guadagni. Ed invero:<br />

la ricorrente percepì sempre lo stipendio proprio del suo livello d’inquadramento;<br />

- non vi è prova che il prolungato demansionamento abbia inciso sulle chances di ottenere impieghi<br />

meglio remunerati: per un verso, la ricorrente non ha allegato, nemmeno nei momenti di massima<br />

pressione subita, di essere stata interessata ad assunzioni presso altri datori di lavoro e, anzi, quando si è<br />

trovata nella necessità di sfuggire alla situazione di <strong>mobbing</strong> ha optato per una soluzione interna all’I.;<br />

per altro verso, ella, al pari di colleghi di VII livello aventi analoga anzianità di servizio (C., C., CA.),<br />

ottenne la promozione nell’VIII livello (mentre altri colleghi - C., U. – rimasero di VII livello);<br />

- il sia pur lungo periodo di demansionamento, dunque, non ha avuto ricadute negative sul patrimonio<br />

e, se può aver ostacolato l’incremento della professionalità della ricorrente (occorre, tuttavia,<br />

considerare che, anche su questo piano, l’incidenza pare essere stata modesta, posto che ci si trova di<br />

fronte ad un’impiegata che lavora all’I. da 30 anni e che ha avuto possibilità di lavorare in diversi<br />

settori), l’unico soggetto che ne patisce le eventuali conseguenze patrimoniali è proprio l’Istituto


convenuto, che, al limite, non può pretendere dalla dipendente la resa che vi sarebbe probabilmente<br />

stata se la professionalità fosse cresciuta anche nei sette anni per cui è causa.<br />

5. Le ulteriori domande volte ad ottenere la condanna dell’I. a disporre il trasferimento della ricorrente<br />

alla sede di Pinerolo in mansioni confacenti all’VIII livello sono prive di fondamento. La difesa di parte<br />

ricorrente non ha in alcun modo argomentato, sul piano giuridico, le ragioni che potrebbero condurre<br />

all’accoglimento di siffatte conclusioni. Essendosi trattato di un trasferimento di sede richiesto dalla C.,<br />

si sarebbe dovuto richiedere una pronuncia di annullamento dell’atto negoziale presupposto,<br />

allegandone le ragioni; in difetto di esplicita domanda, giusta il principio di cui all’art. 112 c.p.c., questo<br />

giudice non può però affrontare la questione. Si consideri, del resto, che non consta l’impossibilità della<br />

ricorrente di riottenere, a semplice domanda, il trasferimento alla sede di Pinerolo. Quanto alla<br />

condanna ad ottenere mansioni confacenti all’attuale inquadramento, è pacifico che, da quando lavora a<br />

Torino, Maria C. svolge compiti propri del suo livello professionale.<br />

* * * *<br />

In conclusione, disattesa ogni altra istanza, l’I. dev’essere condannato a pagare alla ricorrente la somma<br />

complessiva di 30.923,23 Euro. Trattandosi di credito di valore liquidato secondo parametri correnti,<br />

sulla somma decorrono interessi legali dalla data della sentenza al saldo. In difetto di prova del maggior<br />

danno subito – giusta la previsione di cui all’art. 22, comma 36, l. 23.12.1994 n. 724 – non spetta,<br />

invece, la rivalutazione monetaria.<br />

Quanto alle spese, la parziale, reciproca, soccombenza – tenendo conto della misura della stessa e del<br />

fatto che, comunque, le domande respinte non hanno comportato l’aggravio di istruttoria – giustifica la<br />

compensazione di esse in misura di un terzo. Parte convenuta deve quindi essere condannata a<br />

rimborsare alla ricorrente la restante parte delle spese che, per l’intero – valutato il valore della causa in<br />

relazione alla domanda definitivamente accolta e tenendo conto, da un lato, della non eccessiva durata<br />

del giudizio (definito in sole 5 udienze) e, d’altro lato, della complessità dei problemi sottesi – dev’essere<br />

liquidata in complessivi 4.950 Euro, di cui 1.700 per diritti, 450 per rimborso spese generali e il resto<br />

per onorari, oltre IVA e CPA.<br />

P. Q. M.<br />

visto l’art. 429 c.p.c.,<br />

disattesa ogni altra istanza,<br />

dichiara tenuto e condanna l’I. a pagare alla ricorrente la somma di 30.923,23 Euro, oltre interessi legali<br />

da oggi al saldo.<br />

Compensa le spese di lite nella misura di 1/3 e condanna parte convenuta a rimborsare a parte<br />

ricorrente la restante parte delle spese, liquidate, per l’intero, in complessivi 4.950 Euro, oltre IVA e<br />

CPA.<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

TRIBUNALE DI TRIESTE sentenza 840/2003<br />

Il Giudice condanna in solido Azienda e mobbers


controversie di lavoro<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

Il Tribunale di Trieste in composizione monocratica in funzione di giudice del Lavoro,<br />

dott.ssa Gloria Carlesso, all'udienza del 23 settembre 2003 ha pronunciato la seguente<br />

S E N T E N Z A N O N D E F I N I T I V A<br />

nel procedimento promosso con ricorso depositato il 14 febbraio 2002<br />

da<br />

XXXX Stefano, elettivamente domiciliato a Trieste via Ghega, 1 presso lo studio<br />

dell’avv. Mmm che lo rappresenta per mandato in calce al ricorso<br />

contro<br />

ricorrente<br />

A DI Trieste in persona del Presidente in carica sig. Www rappresentata e difesa<br />

dall’avv. Ccc per procura speciale alla lite atto notaio nnn rep 64508 del 14.11.2002<br />

e contro<br />

resistente<br />

ZZZ YYY, elettivamente domiciliato in Piazza della Borsa 2 presso lo studio degli<br />

avvocati sss e ttt che lo rappresentano giusta procura a margine della memoria di costituzione<br />

oggetto: risarcimento danni da demansionamento e <strong>mobbing</strong><br />

resistente<br />

Conclusioni per XXXX Stefano:<br />

Disapplicare e dichiarare inefficaci gli ordini di servizio n.5/1995 dd 10.8.1995 n.2/99 dd<br />

26.1.1999, n. 18/01 dd 15.10.2001 e n. 24/01 dd 21.12.01 relativamente alla posizione del<br />

dott. XXXX in quanto viziati per violazione di legge e di norme cogenti interne, eccesso di<br />

potere, violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione nonché<br />

trasparenza e conseguentemente condannare e/o ordinare alla A DI TRIESTE di ripristinare<br />

il dott. XXXX nelle mansioni, funzioni, ruoli e compiti allo stesso assegnati in precedenza a<br />

detti o.d.s. e a porre in essere tutti i compiti e i provvedimenti all’uopo necessari;


Accertare e dichiarare in ogni caso l’illegittimità del demansionamento subito dal dott. XXXX<br />

a far data dal 15.10.2001 e pertanto accertare e dichiarare che il ricorrente ha diritto a<br />

essere assegnato, in conformità all’ordinanza cautelare dd 15.1.2002 – RG 782/01 a<br />

mansioni equivalenti al livello di inquadramento di appartenenza di cui alla categoria D –<br />

posizione economica D4 allegato A ccnl 31.3.1999 per i dipendenti di Enti Locali e Regioni –<br />

Q.F. VIII del dPR 347/83 e conseguentemente condannare e/o ordinare alla A DI TRIESTE<br />

ad assegnare al dott. XXXX le predette mansioni anche nel rispetto delle previsioni di cui<br />

all’art. 5 del contratto collettvio integratio per il personale della A DI TRIESTE di Trieste e<br />

a porre in essere tutti gli atti e i provvedimenti all’uopo necessari;<br />

Accertare e dichiarare che per effetto della dequalificazione subita dal dott. XXXX dal<br />

15.10.2001 in poi lo stesso ha diritto di percepire a titolo di risarcimento del danno alla<br />

professionalità, una somma ari a euro 1.000,00 per ogni mese di durata della<br />

dequalificazione e sino alla data di piena assegnazione di mansioni corrispondenti al suo<br />

livello di inquadramento e condannare pertanto la A DI TRIESTE a corrispondere al<br />

ricorrente dette somme, o quegli importi maggiori o minori ritenuti di giustizia con aggiunta<br />

di interessi legali e previa rivalutazione monetaria;<br />

Accertare e dichiarare che per l’effetto delle vessazioni e dei comportamenti persecutori<br />

subiti dal dott. XXXX dal 1995 a tutt’oggi per opera del segretario generale dott. ZZZ il<br />

ricorrente ha subito un danno biologico esistenziale e morale da quantificarsi nella misura di<br />

150.000 euro o maggiore o minore ritenuta di giustiZia e condannare pertanto i convenuti in<br />

solido a pagare al ricorrente la predetta somma con aggiunta di interessi legali e rpevia<br />

rivalutazione monetaria<br />

Condannare i convenuti in solido al pagamento integrale di sXXXXe diritti e onorari e d<br />

esborsi di lite anche relativi alla fase cautelare<br />

Conclusioni della A DI TRIESTE: accertare e dichiarare la nullità della domanda relativa<br />

alla richiesta di risarcimento del danno per violazione dell’art. 414 n.4 cpc<br />

Rigettare la domanda di risarcimento danni da demansionamento e <strong>mobbing</strong> siccome<br />

infondate e non provate<br />

In via subordinata, con riserva di gravame nelle denegata ipotesi che il ricorrente provi<br />

l’esistenza del danno da <strong>mobbing</strong> nonché la riferibilità di questo alla resistente rigettare nel<br />

merito la domanda siccome coperta da prescrizione quinquennale<br />

In via ulteriormente subordinata e con riserva di gravame, sempre nelle denegata ipotesi che<br />

il ricorrente provi l’esistenza del danno da <strong>mobbing</strong> e alla professionalità nonché la<br />

riferibilità di questo alla resistente, accertare e dichiarare la sussistenza del concorso<br />

colposo di quest’ultimo per non aver informato la resistente della patologia di cui esso<br />

soffriva ovvero dei comportamenti asseritamente mobizzanti del dott. ZZZ<br />

In ogni ipotesi con il favore delle sXXXXe anche del giudizio cautelare<br />

Conclusioni per YYY ZZZ: accertare la decadenza ai sensi della norma di cui all’art. 69<br />

settimo comma del decreto legislativo n. 165 del 2001 della domanda attorea per i fatti di cui<br />

al periodo anteriore al 30.6.98<br />

Dichiarare la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni a far tempo dal 13.2.1996 e<br />

comunque respingere la domanda siccome formulata dal ricorrente siccome assolutamente<br />

infondata in fatto e diritto<br />

Svolgimento del processo


Con ricorso depositato il 14 febbraio 2002 e notificato il 25.2.2002 XXXX<br />

Stefano esponeva di essere dipendente della A DI TRIESTE di Trieste (di seguito A DI<br />

TRIESTE) dal 1980 e di essere inquadrato attualmente al livello D –posizione D4 del<br />

ccnl – VIII qualifica funzionale del dPR 347/83, conseguita nel 1987;<br />

descriveva la struttura della A DI TRIESTE distinta in settori di attività,<br />

comprensivi dei servizi a loro volta distinti in uffici, precisando che ne era segretario<br />

generale il dott. YYY ZZZ, come tale preposto alla gestione del personale;<br />

descriveva la progressione di carriera e le funzioni espletate precisando che nel<br />

1983 era responsabile dell’ufficio che curava le pratiche relative ai procedimenti<br />

sanzionatori di competenza dell’UPICA;<br />

che nel 1987, aveva conseguito la VIII q.f. e il ruolo di capo servizio IV che<br />

comprendeva vari uffici (ufficio protesti cambiari, affari economici, albi e ruoli, borsa<br />

valori, borsa merci, centro elaborazione dati, e incombenze relative a Fiere e mostre) ed<br />

era alle dirette dipendenze del vice segretario generale godendo di una indennità<br />

economica prevista per i funzionari che dirigevano unità operative complesse;<br />

che nel 1989 era stato trasferito al settore III con la qualifica di capo servizio V,<br />

comprensivo dell’ufficio Studi e documentazione, UPS, Industria, Trasporti e Affari<br />

Economici, oltreché segretario della sezione Trasporti Aerei Marittimi e Terrestri e della<br />

sezione Turismo e responsabile amministrativo dei consorzi costituiti dalla A DI<br />

TRIESTE e successivamente dei gruppi di imprese (ruolo per il quale era alle dirette<br />

dipendenze del Presidente); che girava il mondo promuovendo l’economia di Trieste,<br />

predisponendo e curando le relative iniziative (partecipazione a fiere, allestimenti di<br />

stands, curando i rapporti con fornitori e funzionari);<br />

che svolgeva anche attività nell’ambito della formazione professionale,<br />

dell’ufficio provinciale industria, della raccolta di usi e consuetudini e delle sanzioni<br />

amministrative;<br />

che il proprio ufficio era allora collocato al primo piano, riservato agli uffici<br />

direttivi più importanti ed egli godeva di massima stima e considerazione per la<br />

professionalità con cui svolgeva il proprio ruolo;<br />

dichiarava che dopo l’arrivo del dott. YYY ZZZ nel 1993-1994, non avendo<br />

accettato la proposta di assumere il ruolo di capo della sua segreteria, aveva cominciato<br />

a essere destinatario di una serie di provvedimenti che oltre a privarlo progressivamente<br />

delle sue mansioni, e delle relative indennità, ne avevano svilito il ruolo professionale e<br />

avevano inciso sensibilmente sulla salute: elencava quindi analiticamente i<br />

provvedimenti e i comportamenti del dott. ZZZ;<br />

ricordava che all’esito di un procedimento d’urgenza dal medesimo avviato con<br />

ricorso del 17.11.2001 per l’accertamento del demansionamento e delle vessazioni<br />

subite, in particolare a seguito della emanazione dell’ordine di servizio n. 18 del 15<br />

ottobre 2001, che lo aveva privato di ogni incarico sino ad allora svolto limitando le sue<br />

mansioni a quelle di “responsabile dei procedimenti relativi a sanzioni amministrative”,<br />

il Giudice del lavoro, accogliendo parzialmente la domanda, aveva ordinato alla A DI<br />

TRIESTE l’assegnazione al ricorrente di mansioni equivalenti al suo livello di<br />

inquadramento (vd ordinanza del 15.1.2002), ma il provvedimento non aveva<br />

determinato sostanziali modifiche nelle mansioni assegnate;<br />

che a tale demansionamento si erano accompagnate continue vessazioni da parte<br />

del dott. ZZZ che gli aveva assicurato che “avrebbe sudato sangue”, consistenti nel<br />

privarlo dei propri collaboratori, nel bersargliarlo con abnormi rilievi disciplinari, nel<br />

negargli senza motivo ferie e permessi, nel contestargli addebiti poco prima della<br />

partenza per le ferie, promuovendo coloro che erano stati suoi subalterni e<br />

impartendogli il compito di assisterli, togliendogli importanti incarichi retribuiti,<br />

riducendolo alla totale inattività lavorativa e spostandone l’ufficio in stanze piccole e


poco illuminate, togliendogli in sintesi il riconoscimento formale del ruolo ricoperto e la<br />

dignità stessa di essere ricompreso nell’ambito di un ufficio; comportamenti che il<br />

ricorrente elencava analiticamente, e collegava ai problemi di salute che si andavano<br />

manifestando e aggravando;<br />

rilevava che simili comportamenti vessatori erano stati adottati anche nei<br />

confronti di quei dipendenti che non erano graditi al segretario generale, mentre erano<br />

stati favoriti, in modo arbitrario, coloro che godevano della sua simpatia (citando a mero<br />

titolo di esempio la carriera professionale della sig. Ziberna);<br />

esponeva che con delibera n.179 del 22 settembre 2000 la Giunta Camerale aveva<br />

evidenziato che alcuni episodi verificatisi all’interno della A DI TRIESTE (nei<br />

confronti di XXXX, Coloni e Gregoris) si potevano sospettare di <strong>mobbing</strong>, che<br />

l’atteggiamento del dott. ZZZ era stato poco lineare e aveva invitato quest’ultimo ad<br />

adeguare con sollecitudine le situazioni esistenti alle precedenti indicazioni impartite<br />

dalla Giunta; che in data 20 novembre 2000 subentrava al Presidente Donaggio il nuovo<br />

presidente sig. Antonio Paoletti e il primo piano, dove c’era l’ufficio della Presidenza e<br />

del segretario generale, era stato svuotato di tutti gli uffici direttivi, trasferiti al terzo<br />

piano, segnando, anche dal punto di vista logistico, una drastica separazione con il<br />

personale; che i comportamenti vessatori erano proseguiti giungendo anche alla<br />

privazione di qualsiasi attività svolta dal dott. XXXX ed estranea al ruolo di<br />

responsabile delle funzioni amministrative, assegnatogli con ordine del 15.10.2001.<br />

Chiedeva, a causa delle vessazioni subite dal 1995 di essere risarcito dei danni<br />

biologici, esistenziali e morali essendo state violate le norme di cui agli artt. 2043, 2049,<br />

2087, 2103 cod.civ, 2 e 32 e 41 della Cost, 572, 582 e 590 cod.pen; riteneva la A DI<br />

TRIESTE solidalmente responsabile con il segretario generale, autore materiale degli<br />

illeciti; chiedeva il riaffidamento delle mansioni che gli erano state tolte per effetto di<br />

ordini di servizio illegittimi, dei quali chiedeva la disapplicazione al giudice del lavoro;<br />

e in ogni caso l’assegnazione di mansioni equivalenti al proprio livello di<br />

inquadramento e il risarcimento del danno per l’umiliante demansionamento subito.<br />

Chiedeva nelle conclusioni l’accoglimento delle domande riportate in epigrafe.<br />

Il Giudice fissava udienza di discussione per il 21 giugno 2002 poi differita al 29<br />

novembre 2002.<br />

Costituitasi in giudizio con memoria depositata il 19 novembre 2002, la A DI<br />

TRIESTE contestava totalmente le domande negando che XXXX Stefano avesse<br />

subito il lamentato demansionamento, ripercorrendone la carriera e i compiti in<br />

concreto svolti; rilevava in particolare che presso l’UPICA il XXXX si era limitato a<br />

ricevere le domande di brevetto ma solo in assenza della sig. Selovin, che la attività di<br />

promozione dell'economia locale lo aveva impegnato per un breve periodo e comunque<br />

senza alcun potere decisivo autonomo; che rispetto alla attività promozionali erano stati<br />

marginali le funzioni di carattere amministrativo, che le funzioni di responsabile<br />

amministrativo dei Consorzi erano del Presidente;<br />

eccepiva che la modifica della collocazione dell’ufficio era diXXXXa da esigenze<br />

organizzative e strutturali della A DI TRIESTE mentre non poteva avere alcuna<br />

rilevanza la sottoposizione a procedimenti disciplinari; che risultava documentalmente<br />

smentito che il dott. XXXX avesse goduto di generale stima; che l’ordine di servizio n.<br />

18 del 2001 non lo aveva affatto dequalificato ma che, al contrario, era stato assegnato<br />

a una struttura organizzativa di nuova costituzione, l’Area di Regolazione del Mercato,<br />

nella quale erano compresi l’ufficio metrico, l’albo regionale promotori finanziari e<br />

l’ufficio brevetti, l’ufficio sanzioni amministrative e ordinanze ingiunzioni, nonché<br />

l’ufficio tutela consumatori e Fede Pubblica e nella quale ben avrebbe potuto espletare


la propria professionalità ed esperienza oltreché la propria preparazione giuridica; che il<br />

diniego a svolgere attività di formazione era stato determinato dall’osservanza di una<br />

norma di legge (art. 53 L165/2001);<br />

eccepiva inoltre e in via preliminare la nullità della domanda per assoluta<br />

mancanza degli elementi di diritto, nonché per l’impossibilità di individuare i diritti<br />

concretamente violati in relazione ai singoli comportamenti posti in essere dalla PA<br />

resistente a far data dal 10 agosto 1995; rilevava che era onere del ricorrente provare<br />

l’esistenza del danno, e che a tale fine non potevano valere i documenti medici prodotti<br />

perché in ossequio al nuovo principio sancito dall’art. 111 Cost le prove non potevano<br />

che essere raccolte nel processo e nel contraddittorio delle Parti, mentre i certificati<br />

pubblici per la parte ove contenevano un giudizio erano privi di fede privilegiata;<br />

in ogni caso nessuna responsabilità poteva essere ricondotta alla A DI TRIESTE<br />

che non era né poteva essere a conoscenza delle malattie del ricorrente né questi l’aveva<br />

mai avvisata del prodursi o dell’aggravarsi di un danno alla salute;<br />

che era inoltre onere del ricorrente provare il nesso causale tra danno e colpa;<br />

contestava analiticamente tutti gli episodi elencati dal dott. XXXX come mobbizzanti;<br />

sottolineava che nell’area di nuova istituzione il dott. XXXX aveva compiti<br />

autorevoli quale quello di seguire il progetto per arbitrati internazionali aderendo<br />

all’European Network for Dispute Risolution e a tale fine avrebbe curato dei corsi ai<br />

legali che fossero interessati a essere inseriti nell’elenco di arbitri; che doveva occuparsi<br />

della revisione degli usi per cui il dott. XXXX stava costituendo una commissione di<br />

esperti, che curava le operazioni a premio e, infine, aveva avuto l’incarico di controllare<br />

la vessatorietà delle clausole contenute nei contratti che i mediatori utilizzano nei<br />

rapporti con i terzi;<br />

la convenuta A DI TRIESTE eccepiva comunque la prescrizione quinquennale<br />

dei danni di natura extracontrattuale e quindi tutte le poste di danno anteriori al 19<br />

ottobre 1996 stante che il primo atto interruttivo della prescrizione era stata la richiesta<br />

del tentativo di conciliazione del 19.10.2001<br />

Chiedeva quindi l’accoglimento delle suesposte conclusioni.<br />

Con memoria del 19 novembre 2002 si costituiva in giudizio anche il dott. YYY<br />

ZZZ eccependo in via preliminare la nullità del ricorso in quanto era stata totalmente<br />

omessa da parte del ricorrente la questione della colpevolezza del dott. ZZZ, individuato<br />

come autore esclusivo delle lesioni subite, non essendo allegate le circostanze da cui<br />

dedurre un eventuale atteggiamento doloso del segretario generale; la domanda dunque<br />

doveva ritenersi carente degli stessi fatti costitutivi della responsabilità dedotta; che<br />

inoltre essendo prospettata una responsabilità extracontrattuale la domanda avrebbe<br />

dovuto essere promossa nelle forme ordinarie e non in quelle del rito del lavoro;<br />

eccepiva sempre in via preliminare la intervenuta decadenza del diritto a<br />

promuovere la controversia relativamente alle questioni attinenti al periodo del rapporto<br />

anteriore al 30 giugno 1998, rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice<br />

amministrativo, e la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni anteriori al 13<br />

febbraio 1996, ricostruita la responsabilità in termini extracontrattuali e in mancanza<br />

della natura di illecito permanente del fenomeno <strong>mobbing</strong>;<br />

rilevava in ordine al dedotto demansionamento che gli ordini di servizio<br />

impugnati appartenevano tutti agli atti di c.d. microrganizzazione e, quindi, dovevano<br />

considerarsi atti di gestione che il Segretario generale aveva adottato con i poteri e le<br />

capacità del privato datore di lavoro, per cui inconferente dovevano considerarsi gli<br />

eccepiti vizi di eccesso di potere o violazione di legge;<br />

contestava l’asserito demansionamento rilevando al contrario che i compiti<br />

affidati al dott. XXXX avevano valorizzato appieno la sua capacità professionale;


contestava altresì e analiticamente la sussistenza delle vessazioni eccependo come tutti<br />

i provvedimenti adottati fossero stati espressione del doveroso esercizio del potere<br />

organizzativo del Segretario Generale; contestava infine il danno lamentato perché non<br />

provato né sostanzialmente allegato e rilevava l’insussistenza del nesso causale;<br />

chiedeva quindi l’accoglimento delle conclusioni in epigrafe trascritte.<br />

Il Giudice svolgeva il libero interrogatorio delle Parti, sempre presenti in giudizio<br />

(ud. 29.11.2002, 4.2.2003, 11.4.2003, 19 settembre 2003) esperiva il tentativo di<br />

conciliazione (ud. 29.11.2002, 4.2.2003, 11.4.2003) e, respinta la eccezione di<br />

decadenza ex art. 416 cpc sollevata dal ricorrente (v. ordinanza 24.6.2003), assumeva<br />

le prove orali offerte dalle Parti (udienza dell’11 luglio 2003: testi Delle Vedove<br />

Franco, funzionario Enasarco, Donaggio Adalberto, ex Presidente della A DI<br />

TRIESTE, Coloni Anna, funzionario responsabile dell’Area Regolazione del Mercato,<br />

Giugovaz Grazia, impiegata ARIES, Marega Lucia, responsabile ufficio Albi e Ruoli,<br />

Ferrauto Margherita, responsabile Ufficio Studi, Gregoris Graziella, responsabile<br />

Ufficio Ruoli, Albonese Laura già impiegata ufficio protocollo, Gallina Luciano<br />

direttore Aries, Ziberna Fabio, ex segretario alla presidenza) acquisendo anche nel<br />

corso dell’udienza (11 luglio 2003 e 19 settembre 2003) ulteriori documenti che<br />

arricchivano il bagaglio, già consistente, di quelli prodotti dalle Parti.<br />

La causa così istruita è stata discussa all’udienza del 19 settembre 2003 dai<br />

procuratori che hanno depositato note difensive e decisa all’udienza del 23 settembre<br />

2003 con sentenza non definitiva di accoglimento, cui si accompagnava ordinanza<br />

istruttoria che disponeva perizia medico legale e conferiva l’incarico al CTU , dott.<br />

Raffaele Barisani, per la quantificazione del danno biologico e non patrimoniale subito<br />

dal ricorrente.<br />

Motivi della decisione<br />

La domanda proposta dal dott. Stefano XXXX si delinea nel suo contenuto, in<br />

termini sintetici ma completi, sin dalla richiesta del tentativo di conciliazione avanti la<br />

competente Commissione Provinciale:<br />

in esito ad una azione, mirata ma prolungata nel tempo, portata a compimento<br />

dai vertici camerali a mio discapito, ho subito un danno biologico debitamente<br />

certificato da idonee attestazioni mediche. Tale azione di <strong>mobbing</strong> si è concretizzata<br />

nell’ambito di un disegno unitario in una pluralità di episodi che si sono conclusi con il<br />

mio esautoramento dalle mansioni, trasferimento d’ufficio, danno economico, pretium<br />

doloris e quant’altro.<br />

La domanda, dedotta coerentemente nel ricorso introduttivo, è di risarcimento del<br />

danno subito a causa di una azione di <strong>mobbing</strong>, realizzata anche mediante il<br />

demansionamento del dipendente, posta in essere dal dott. YYY ZZZ, Segretario<br />

Generale della A DI TRIESTE.<br />

L’azione di responsabilità esercitata secondo gli elementi in fatto e in diritto<br />

esposti nel ricorso è, correttamente, duplice:<br />

contrattuale nei confronti del datore di lavoro per violazione degli artt. 2103 e<br />

2087 cod.civ ed extracontrattuale nei confronti del dott. YYY ZZZ (art. 2043 cod.civ)<br />

con cui concorre la responsabilità del datore di lavoro.


Ed invero, il datore di lavoro, anche pubblico, è obbligato ad adottare le misure<br />

necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del prestatore di lavoro (art. 2087<br />

cod.civ) ed è responsabile anche per il fatto illecito dei propri dipendenti (art. 1228<br />

cod.civ).<br />

Tale responsabilità concorre con quella personale e diretta del dipendente autore<br />

del comportamento illecito ex art. 2043 cod.civ, tanto da imporre il contestuale richiamo<br />

dell’art. 2049 cod.civ e, nel caso di pubblica amministrazione, anche dell’art. 28 Cost.<br />

secondo il quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono<br />

direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti<br />

compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato e agli<br />

enti pubblici.<br />

L’azione è stata legittimamente e ritualmente proposta, con la procedura del rito<br />

del lavoro, nei confronti di entrambi i responsabili, A DI TRIESTE e dott. YYY ZZZ, il<br />

quale ultimo, seppure potenzialmente e autonomamente legittimato ad una azione<br />

ordinaria, e litisconsorte non necessario nel procedimento promosso contro la A DI<br />

TRIESTE, è stato opportunamente convenuto in questo giudizio spiegando peraltro una<br />

difesa che si affianca e sostiene quella proposta dalla A DI TRIESTE di cui è<br />

Segretario Generale.<br />

Le azioni infatti sono connesse per l’oggetto e per il titolo (risarcimento del danno<br />

da <strong>mobbing</strong>), essendo comune il fatto posto a fondamento della domanda di<br />

risarcimento, e unico, per imprescindibili esigenze di economia processuale, deve<br />

essere l’accertamento giudiziale, da svolgersi avanti al giudice del lavoro secondo i<br />

principi di cui all’art. 40 del codice di procedura civile.<br />

Il fatto denunciato si articola, secondo la prospettazione dedotta nel ricorso, in una<br />

successione di episodi che hanno origine sin dal 1995:<br />

la deduzione è coerente con la nozione di <strong>mobbing</strong> rilevabile in giurisprudenza<br />

secondo la quale i caratteri identificativi del fenomeno <strong>mobbing</strong> sono rappresentati da<br />

una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti materiali posti in essere dal datore<br />

di lavoro (o da un suo preposto) che trovano una ratio unificatrice nella volontà di<br />

recare danno al prestatore di lavoro, di svilirne la personalità e professionalità, di<br />

isolare, emarginare, infastidire, indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà,<br />

disistima verso se stesso, fino al desiderio di lasciare il posto di lavoro;<br />

essi, lungi dal consistere in comportamenti tipizzati, possono manifestarsi in<br />

vario modo, anche subdolamente mediante provvedimenti in sé formalmente legittimi,<br />

oppure mediante la privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione<br />

professionale, con un trasferimento “punitivo”, o, ancora, con la squalificazione<br />

professionale, il demansionamento, o atteggiamenti umilianti o che rendano penosa la<br />

prestazione;<br />

ne sono elementi essenziali, quindi, l’aggressione o persecuzione di carattere<br />

psicologico, la frequenza e sistematicità e durata nel tempo, l’andamento progressivo, le<br />

conseguenze patologiche gravi per la vittima.<br />

(Si citano alcune dei provvedimenti dei giudici di merito che si sono pronunciate<br />

sull’argomento: Tribunale Como 22.2.2003 Bongiorno c/ Minonzio in Mass Giur<br />

Lavoro 2003, 328; Tribunale di Pinerolo 6.2.2003 Candelo c/INPS in Resp civile e prev.<br />

2003, 424; Tribunale di Torino 28.1.2003; Tribunale Milano 22 agosto 2002 Zazzi c/<br />

Comune di Milano in Or. Giur Lavoro 2002, 536; Tribunale Milano 30.9.2002 Spataro<br />

c/ Robert Bosh SpA In Or. Giur Lavoro 2002, 532; Tribunale di Ravenna 11.7.2002


Renda c/ Agenzia delle Entrate in Giustizia Civile 2003, I, 223; Tribunale di Forlì<br />

15.3.2002 Mulas c/ Banca Nazionale dell’Agricoltura in Riv Ital Dir Lav 2002, II, 521;<br />

Tribunale di Lecce 31 agosto 2001 Ministero del lavoro c/ Claudi in Lavoro e<br />

Previdenza oggi 2001, 1428; Trib Torino 11.12.1999 in Foro It 2000, I, 1555; Trib<br />

Milano 20.5.2000 Jungnans Italia srl c/ Bighi in Or Giur Lavoro 2000, 958).<br />

Volendo usare un concetto penalistico, ben possiamo assimilare il <strong>mobbing</strong> a un<br />

reato a condotta plurima o abituale, caratterizzato dalla reiterazione nel tempo di<br />

condotte delle stessa specie (si pensi ad esempio al reato di maltrattamenti), ovvero,<br />

meglio ancora, a un reato continuato (come il reato di lesioni continuate previsto dagli<br />

artt. artt 81-582 c.p.), nel quale la pluralità delle condotte è emanazione di un<br />

medesimo disegno criminoso.<br />

In entrambi i casi, la definizione giurisprudenziale del fenomeno <strong>mobbing</strong><br />

impedisce di considerare gli episodi gli uni separati dagli altri e di frazionare nel tempo<br />

la condotta:<br />

la considerazione è rilevante alla luce delle eccezioni sollevate dai resistenti:<br />

non è possibile infatti separare i fatti enucleati in ricorso nei due periodi, quello<br />

antecedente al 30 giugno 1998 (che rientrerebbe, secondo l’eccezione di difetto di<br />

giurisdizione e di decadenza nella giurisdizione del giudice amministrativo) e quello<br />

successivo al 30 giugno 1998 (giurisdizione del giudice ordinario) secondo il<br />

discrimine introdotto dall’art. 69 comma 7 D.lgs 30 marzo 2001 n. 165:<br />

il dato storico da considerare ai fini della identificazione del c.d. petitutm<br />

sostanziale in relazione al quale è insorta la controversia è costituito da una serie non<br />

frazionabile di comportamenti e provvedimenti.<br />

Rilevata la struttura essenziale della domanda proposta dal dott. Stefano XXXX<br />

vanno allora respinte, siccome infondate, le eccezioni sollevate dai convenuti.<br />

In particolare vanno respinte:<br />

a) l’eccezione di nullità del ricorso per mancanza degli elementi di diritto<br />

costitutivi della domanda: il ricorrente enuncia invero compiutamente il fatto,<br />

articolandolo analiticamente in una pluralità di atti e comportamenti, ed enuncia gli<br />

elementi di diritto e il complesso di norme sulle quali fonda la domanda di<br />

risarcimento;<br />

b) l’eccezione di decadenza, rectius di difetto di giurisdizione, ex art. 69<br />

L.165/2001 sollevata in relazione all’azione di responsabilità contrattuale per lesione<br />

del diritto alla integrità psico-fisica del prestatore di lavoro: tale azione, infatti, viene<br />

attratta nella giurisdizione del giudice ordinario proprio in applicazione dei principi<br />

sul riparto di giurisdizione enunciati dalla Suprema Corte che impongono di prendere<br />

in considerazione il petitutm sostanziale individuato con riguardo ai fatti allegati e al<br />

rapporto giuridico di cui essi sono manifestazione:<br />

nel caso in esame il dato storico cui deve aversi riguardo è costituito dalla serie<br />

di fatti materiali e circostanze (<strong>mobbing</strong>) posti a base della pretesa avanzata e in<br />

relazione alla cui giuridica rilevanza è insorta la controversia (Cass S.U. 7.3.2003,<br />

n.3438; Cass. S.U. 30.1.2003 n. 1511; Cass S.U. 11.6.2001, n. 7856, Cass S.U.<br />

25.7.2002, n. 10956; vds anche Consiglio di Stato sez V 6 dicembre 2000, n. 6311)


la successione dei fatti va considerata come un unicum fenomeno, non<br />

frazionabile, per cui non può distinguersi il segmento antecedente il 30 giugno 1998 da<br />

quello successivo, e l’intera vicenda va esaminata dal giudice ordinario in<br />

considerazione del momento in cui dovrebbe dirsi conclusa;<br />

c) l’eccezione di prescrizione va respinta sia perché il termine di prescrizione<br />

per la azione di responsabilità contrattuale nei confronti della P.A - dieci anni – non<br />

risulta ancora decorso al momento della notifica del ricorso (febbraio 2002 e, prima<br />

ancora in quella di comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione – ottobre<br />

2001 - che ha effetti interruttivi della prescrizione medesima vds art. 410 cpc), sia<br />

perché il termine di prescrizione quinquennale dell’azione di risarcimento da<br />

responsabilità extracontrattuale (art. 2948 c.c.) decorre dal momento in cui si è<br />

manifestato il danno e non da quello in cui si è verificata la causa del danno;<br />

il danno lamentato è, nel caso di specie, connesso all’intera successione di<br />

episodi globalmente intesa e, secondo quanto è emerso nell’istruttoria, neppure<br />

esaurita.<br />

Per completare il parallelismo con il diritto penale, va ricordato che il termine di<br />

prescrizione per il reato continuato decorre dal momento in cui è cessata la<br />

continuazione (art. 158 cod.pen);<br />

coerentemente il termine di prescrizione ex art. 2948 c.c . non può allora<br />

certamente dirsi decorso.<br />

(Sul tema va segnalato il caso di un risarcimento del danno rivendicato dopo<br />

dieci anni dalla cessazione del comportamento mobbizzante per un danno biologico<br />

sorto successivamente al decorso della prescrizione decennale, ma riconosciuto<br />

causalmente dipendente da comportamenti mobbizzanti e perciò ritenuto astrattamente<br />

degno di risarcimento- Trib di Venezia 15.1.2003 Marusso c/ Cassa di Risparmio di<br />

Venezia in Lav e Prev. Oggi 2003, 923)<br />

L’esame della vicenda dedotta in questo giudizio ed emersa nel corso di una<br />

complessa istruttoria orale e documentale viene svolto per capitoli.<br />

I seguenti:<br />

A) La Camera di Commercio e le posizioni del dott. Stefano XXXX e del<br />

dott. YYY ZZZ<br />

1) struttura e organi della Camera di Commercio – L’ARIES p.11<br />

2) Posizione del dott. YYY ZZZ p.12<br />

3) Posizione contrattuale e mansioni del dott. Stefano XXXX p.13<br />

B) Il <strong>mobbing</strong><br />

1) l’elemento soggettivo p.16<br />

2) la serie di atti e comportamenti p.18<br />

3) il demansionamento p. 33<br />

a) L’ordine di servizio n. 18/01 p. 34<br />

b) La perdita degli incarichi retribuiti. L’Enasarco p. 34<br />

c) La tutela cautelare. L’ordine di servizio 24/01 p. 36<br />

d) La vuota potenzialità dell’Area di regolazione di Mercato p. 37<br />

e) L’inosservanza del provvedimento cautelare dd 15.1.2002 p. 38<br />

f) Gli attuali compiti del dott. Stefano XXXX p. 41<br />

g) L’opera di erosione della professionalità p. 42


h) La tutela normativa del demansionamento p.44<br />

4) il metodo del mobber p. 45.<br />

dichiarazioni di<br />

a) Donaggio Adalberto p. 46<br />

b) Coloni Anna p. 46<br />

c) Gregoris Graziella p. 47<br />

d) Ziberna Fabio p. 48<br />

5) la responsabilità della Camera di Commercio p.49<br />

C) Il danno p.51<br />

A) La Camera di Commercio e le posizioni del dott. Stefano XXXX e del<br />

dott. YYY ZZZ<br />

1) struttura e organi della Camera di Commercio<br />

L’esame della posizione e del ruolo delle Parti non può farsi senza alcuni dati<br />

relativi alla Camera di Commercio e ai suoi organi.<br />

Secondo lo Statuto (vd doc. 80 fasc ricorrente) la A DI TRIESTE di Trieste è ente<br />

di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e, quale ente autonomo locale<br />

funzionale, svolge compiti di interesse generale per il sistema delle imprese della<br />

provincia di Trieste.<br />

E’ dotata di autonomia statutaria, organizzativa e finanziaria ed esplica funzioni di<br />

supporto e promozione degli interessi generali delle imprese…valorizza gli interessi<br />

economici del sistema delle imprese del territorio di riferimento con azioni svolte anche<br />

al di fuori della propria circoscrizione favorendone l’apertura ai mercati internazionali e<br />

l’inserimento nel mercato globale (vds art. 1 e art. 3 Statuto)<br />

La Camera di Commercio ispira la propria azione ai principi della massima<br />

semplificazione delle procedure (art. 5 ) e ai principi di qualità, trasparenza, efficacia,<br />

economicità ed efficienza, favorendo la partecipazione dell’utenza (art.8).<br />

Gli organi della Camera di Commercio sono il Consiglio, la Giunta, il Presidente<br />

(con compiti di indirizzo, di programmazione e di governo) e il Collegio dei revisori<br />

dei Conti.<br />

Per lo svolgimento della attività dell’Ente può avvalersi di consulenze e<br />

collaborazioni esterne conferendo incarichi (art. 29) e per il raggiungimento delle<br />

finalità di sostegno del sistema delle imprese e del mercato può costituire aziende<br />

speciali (vds art. 31, 32, 33 , 34 e 35 dello statuto)<br />

L’ARIES, di cui si parlerà in seguito, è una di queste: viene costituita nel 1998, è<br />

dotata di autonomia amministrativa, contabile e finanziaria nei confronti della Camera<br />

di Commercio (art. 1 dello Statuto Aries doc. 84 fasc ric.) e ha lo scopo di promuovere e


sostenere l’autonomia locale, con interventi nei settori della formazione, della<br />

diffusione di nuove tecnologie, dell’analisi economica e statistica, nonché dello studio,<br />

esecuzione e gestione di progetti speciali di interesse settoriale (art. 2).<br />

Per l’espletamento dei suoi compiti si avvale di personale camerale, a tempo<br />

pieno o a tempo parziale, della collaborazione di personale di ruolo camerale al di<br />

fuori dell’orario di lavoro, di personale proprio, e di consulenti (art. 12)<br />

2) Posizione del dott. YYY ZZZ<br />

Il dott. YYY ZZZ è dal 1994 Segretario Generale della Camera di Commercio di<br />

Trieste<br />

Al segretario generale spettano le funzioni di gestione amministrativa.<br />

E’ stato nominato dal Ministro dell’Industria, del Commercio e Artigianato su<br />

designazione della Giunta ed esercita funzioni di vertice dell’amministrazione.<br />

Egli sovrintende al personale camerale:<br />

- adotta gli atti amministrativi inerenti la realizzazione dei programmi e degli<br />

obiettivi decisi dal Consiglio e dalla Giunta, compresi gli atti che impegnano<br />

l’amministrazione verso l’esterno, con autonomi poteri di sXXXXa e di organizzazione<br />

delle risorse umane e strumentali;<br />

- propone alla Giunta la nomina del Dirigente con funzioni vicarie, adotta gli atti<br />

di gestione amministrativa, definisce gli obiettivi che i Dirigenti devono perseguire e<br />

attribuisce le relative risorse, adotta le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e<br />

svolge attività di gestione del personale (vds art. 24 Statuto).<br />

Tuttavia spetta alla Giunta verificare, avvalendosi del Nucleo di valutazione da<br />

essa nominato, la rispondenza dell’attività amministrativa e della gestione dirigenziale<br />

agli indirizzi impartiti (art.18 dello Statuto) : il Nucleo di valutazione opera in posizione<br />

di autonomia e verifica la realizzazione degli obiettivi, la corretta ed economica<br />

gestione delle risorse, l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa<br />

(art.28 St.).<br />

La Camera di Commercio è strutturata in Aree, Servizi e Uffici: l’ordinamento<br />

delle Aree e dei Servizi spetta alla Giunta, su proposta del Segretario Generale (art. 26<br />

St.)<br />

Gli atti di organizzazione e gestione del personale sono di competenza del<br />

Segretario Generale e dei Dirigenti, secondo i principi di autonomia, trasparenza ed<br />

efficienza e criteri di funzionalità, economicità di gestione e flessibilità della struttura.<br />

Le aree, i servizi e gli Uffici operano sulla base della individuazione delle<br />

esigenze del sistema delle imprese e del mercato, adeguando costantemente l’azione<br />

amministrativa e i servizi offerti, verificandone a rispondenza ai bisogni e l’economicità<br />

(art. 26)<br />

Secondo gli organigrammi in atti il dott. YYY ZZZ risulta allo stato anche (vds<br />

ordine di servizio 6/02)


- dirigente ad interim dell’Area Attività di Supporto che comprende l’ufficio di<br />

gabinetto della presidenza, la segreteria particolare dio Direzione, l’ufficio<br />

personale organizzazione e metodo, l’ufficio affari generali e Protocollo,<br />

l’ufficio Archivio storico e biblioteca, l’ufficio qualità e relazioni con il<br />

pubblico, ufficio procedimenti disciplinari, segreteria Nucleo Valutazione;<br />

- dirigente dell’Area Servizi per le imprese (uffici Registro delle Imprese,<br />

Ufficio Albi e Ruoli, registri ed Elenchi)<br />

- fanno a lui capo anche il servizio per il controllo delle clausole vessatorie e il<br />

servizio di conciliazione on line (vds lettera del 26 maggio 2003 allegata al<br />

verbale ud. 19 settembre 2003).<br />

3) Posizione contrattuale e mansioni del dott. Stefano XXXX<br />

E’ un dato pacifico tra le parti, allegato sia in ricorso sia nelle memorie di<br />

costituzione dei convenuti e risulta dai documenti prodotti, che il dott. Stefano XXXX è<br />

un funzionario amministrativo della A DI TRIESTE, inquadrato nella VIII qualifica<br />

funzionale dPR 347/1983, posizione economica D4 secondo il CCNL Enti Locali e<br />

Regioni e gode dal 1 gennaio 1988 della indennità prevista per “il personale con compiti<br />

di direzione di unità operativa organica complessa” (doc. 51 fasc ric.).<br />

Per comprendere il contenuto di tale inquadramento occorre richiamare le norme<br />

contrattuali che lo prevedono e disciplinano.<br />

Secondo il dpr 347/83 alla VIII qualifica funzionale appartengono i funzionari: le<br />

prestazioni proprie di tale qualifica sono attività di studio, di ricerca, di elaborazione di<br />

piani e programmi che richiedono elevata specializzazione professionale, nonché il<br />

controllo dei risultati nei settori amministrativi, tecnico-scientifici, ovvero l’istruttoria,<br />

la predisposizione e la formazione di atti e provvedimenti di notevole grado di<br />

difficoltà. Può comportare la direzione di unità operativa organica e l’esercizio di<br />

funzioni con rilevanza esterna<br />

L’attività è caratterizzata da facoltà di decisione e autonomia di iniziativa<br />

nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi generali e comporta la piena responsabilità<br />

dell’attività direttamente svolta, delle istruzioni impartite nonché del conseguimento<br />

degli obiettivi previsti dai programmi di lavoro (vds doc. 82)<br />

Parimenti, appartengono alla categoria D - all A al ccl 31.3.1999 (doc. 49) i<br />

lavoratori che svolgono attività caratterizzate da elevate conoscenze plurispecialistiche<br />

e un grado di esperienza pluriennale con frequente necessità di aggiornamento;<br />

contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo con responsabilità di risultati relativi a<br />

importanti e diversi processi produttivi-amministrativi; elevata complessità dei<br />

problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed<br />

elevata ampiezza delle soluzioni possibili; relazioni organizzative interne di natura<br />

negoziale e complessa, gestite anche tra unità organizzative diverse da quella di<br />

appartenenza, relazioni esterne (con altre istituzioni) di tipo diretto anche con<br />

rappresentanza istituzionale; relazioni con gli utenti di natura diretta anche complesse<br />

e negoziale.<br />

Già nel 1987 il dott. XXXX acquisiva la VIII qualifica funzionale e il ruolo di<br />

capo servizio.


Coerentemente con l’inquadramento riconosciuto, veniva assegnato al Servizio IV<br />

comprensivo di vari Uffici: Ufficio Protesti Cambiari, Ufficio Affari Economici, Ufficio<br />

Albi e Ruoli, Ufficio Borsa Valori, Ufficio Borsa Merci. Ufficio centro elaborazione<br />

dati; al Servizio inoltre erano affidate le competenze relative a Fiere e Mostre (docc. 50.<br />

50A, 58);<br />

dall’11 novembre 1989 veniva assegnato al Settore 3° con compiti di<br />

sovrintendere il Servizio V , Studi e Statistica, Ufficio affari economici, con la<br />

segreteria della sezione Industria, Ufficio Trasporti.<br />

A questo ruolo affiancava altri incarichi, quali quello (dal 13 agosto 1994) di capo<br />

servizio dell’Ufficio Albi e Ruoli (v doc. 52 e doc. 54 e doc 57 e 58), di coordinamento<br />

e controllo dell’attività dell’U.P.I.C.A. , compito quest’ultimo che svolgeva dal 1983<br />

(vds doc. 43A1-3) oltre a una serie di incarichi di docenza, ad esempio presso<br />

l’Enasarco (dal 1986).<br />

Orbene, né la qualifica funzionale, né la direzione di unità operative complesse<br />

possono essere messe in dubbio se non si vuole dubitare, ma nessuno ne dubita, della<br />

stessa legittimità della posizione rivestita dal dott. XXXX sotto il profilo<br />

dell’inquadramento contrattuale.<br />

Le mansioni concretamente svolte dal dott. Stefano XXXX erano molteplici.<br />

Il dott. XXXX curava in prima persona la attività di supporto e promozione<br />

dell’economia locale, e degli interessi delle imprese della provincia - compito<br />

istituzionale della A DI TRIESTE – mediante la realizzazione di iniziative<br />

promozionali a sostegno dei vari settori (industriali, artigianali, commerciali e di<br />

servizi); seguiva altresì le sezioni Nautica, Agroalimentare e cartografica dell’ARIES e<br />

l’ASSONAUTICA occupandosi delle funzioni amministrative dei relativi Organi, della<br />

predisposizione degli atti necessari per la partecipazione delle imprese della provincia<br />

alle varie manifestazioni fieristiche e promozionali, nonché dell’organizzazione della<br />

concreta partecipazione in loco.<br />

Le imprese dapprima organizzate in consorzi, vennero poi inserite in una Azienda<br />

Speciale con cui stabilmente collaborava il dott. XXXX (ARIES):<br />

secondo quanto riferito dall’ex Presidente DELLA a DI TRIESTE , dott. LLLL<br />

(ud. 11 luglio 2003 pag. 11-12), presidente dal 1995 al 2000 il dott. XXXX, come<br />

responsabile dei vari settori merceologici aveva ampia discrezionalità<br />

amministrativa…e attuava il programma deliberato dai consorzi: a tal fine andava<br />

sXXXXso all’estero alle varie fiere di importanza europea e internazionale (prendeva<br />

contatti per prenotare gli spazi, prendeva contatti con i singoli operatori, organizzava<br />

gli spazi, trovava un allestitore e coordinava la presenza degli operatori locali);<br />

il teste ha sottolineato quanto fosse importante per la Camera di Commercio<br />

l’attività di promozione, che rientra, in effetti, tra le attività istituzionali della Camera di<br />

commercio (vd Statuto art. 1 e 3)<br />

In tale ruolo il dott. Stefano XXXX partecipava direttamente alle convocazioni dei<br />

consorzi e aveva impiegate da coordinare (vds testi Giugovaz pag. 17 ud. 11.7.2003 e<br />

Marega pag. 18 e Albonese pag. 23), ed era impegnato in viaggi all’estero per la<br />

organizzazione di dette fiere almeno tre mesi l’anno e questo lavoro, secondo la teste<br />

Albonese, che lo aveva avuto come superiore dal 1980 al 1992, lo impegnava sei ore al<br />

giorno (pag.23): il dott. XXXX era pieno di idee e di iniziativa – dice la sig. Albonese -<br />

non posso che esprimere una grande ammirazione, aveva il difetto di chiedere che<br />

venisse fatto tutto subito, anzi prima, e questo per me risultava fonte di stress.


Oltre alla attività descritta egli era responsabile del servizio V che, come si è<br />

visto, era articolato in vari uffici: in tale ruolo coordinava più persone:<br />

la signora Ferrauto, che era all’ufficio Studi, e 4 dipendenti dell’ufficio Statistica e<br />

Ufficio Industria; la sig. Ferrauto ricorda che pur essendo il suo capo all’Ufficio Studi,<br />

per il lavoro che era in concreto deputata a svolgere (preparazione dei discorsi del<br />

Presidente) si coordinava direttamente con la segreteria del Presidente (vd pag. 20) e<br />

non con il dott. XXXX; ma questo non cambia la responsabilità che faceva capo a<br />

quest’ultimo.<br />

E’ pur possibile infatti che, al di là delle funzioni attribuite sulla carta quanto<br />

all’organigramma della Camera di Commercio, le funzioni amministrative di<br />

coordinamento degli uffici avessero un ruolo marginale (la possibilità viene evidenziata<br />

dallo stesso rag. Ziberna "gli organigrammi erano organizzazioni formali del personale<br />

ma non sempre rispecchiavano in realtà le effettive mansioni – vd pag. 25 verbale<br />

11.7.2003) e che gli impegni del dott. XXXX fossero concentrati prevalentemente nel<br />

settore della Promozione, ma questo non consente di escludere o vanificare – come<br />

sostengono i resistenti - la collocazione istituzionale del dipendente.<br />

Il dott. XXXX era anche responsabile dell’UPICA, e svolgeva una serie di<br />

incarichi quali quello di docente dei corsi ENASARCO, di membro della commissione<br />

esaminatrice per l’attività di impresa turistica, di collaborazione tecnico professionale<br />

con l’Assonautica, occupandosi nel frattempo anche della raccolta degli usi e delle<br />

sanzioni amministrative.<br />

I suoi compensi per il lavoro straordinario (che si è però progressivamente ridotto<br />

dal 1996 al 2000 – vds prospetti allegati al verbale udienza 11.7.2003 acquisiti nel corso<br />

della testimonianza della sig. Marega – pag. 18 e s.) e per gli incarichi svolti<br />

incidevano sensibilmente sulla entità dei propri redditi annuali.<br />

Egli aveva raggiunto, secondo l’espressione usata dalla teste Gregoris, già nel<br />

1995 il massimo della carriera direttiva (passando da capo reparto a capo servizio) e<br />

aveva sin da allora i requisiti per diventare vice segretario generale, ossia dirigente.<br />

Ma tale qualifica non è stata mai conseguita.<br />

Non solo.<br />

La ampiezza dei suoi incarichi e delle sue responsabilità è stata sensibilmente<br />

quanto progressivamente (dapprima) e quindi drasticamente (vd ordine di servizio<br />

18/01) ridotta, sino a compromettere la stessa individuazione di un suo preciso ruolo<br />

professionale e istituzionale all’interno della Camera di Commercio.<br />

B) Il <strong>mobbing</strong><br />

L’istruttoria orale e documentale consente di ritenere pienamente accertata una<br />

condotta mobbizzante del datore di lavoro, posta in essere dal Segretario Generale dott.<br />

YYY ZZZ nei confronti del dott. Stefano XXXX, conosciuta e non impedita dalla<br />

Camera di Commercio, e consistente in una serie di atti e comportamenti, sviluppatisi a<br />

partire dal 1995 e costituiti in sintesi nel demansionare il dott. XXXX, nel privarlo dei<br />

suoi collaboratori, nel bersargliarlo con una serie di rilievi e contestazioni anche<br />

disciplinari, seguiti dalla revoca in sede conciliativa delle sanzioni inflitte, nel negargli


ferie e permessi, nel promuovere coloro che erano stati suoi subordinati, imponendogli<br />

poi di assisterli nelle nuove incombenze assegnate, nel togliergli incarichi retribuiti, nel<br />

trasferirlo d’ufficio e di stanza, nel boicottare le attività assegnate, nell’umiliarlo<br />

attraverso una sostanziale inattività lavorativa con l’elogio tanto irridente quanto<br />

inconcludente della sua professionalità ed esperienza, togliendogli non solo il<br />

riconoscimento formale del ruolo ricoperto ma anche la dignità stessa di averne uno<br />

all’interno dell’ufficio.<br />

In tale contesto si comprende come il demansionamento subito con ordine di<br />

servizio n. 18/01 – che ha comunque determinato uno stravolgimento e depauperamento<br />

del patrimonio professionale del dipendente - costituisca solo una delle manifestazioni<br />

del <strong>mobbing</strong>.<br />

Sarebbe dunque limitativo, frutto di una infedele, se non ottusa, conoscenza della<br />

realtà dei fatti, esaminare il demansionamento come un evento isolato e svincolato dagli<br />

altri:<br />

esso va invece inserito in un contesto ben più complesso di comportamenti<br />

rivelandosi come la più grave, se non forse solo la più palese, modalità di esecuzione<br />

del <strong>mobbing</strong> posto in essere dal dott. YYY ZZZ attraverso una nutrita e a tratti persino<br />

serrata serie di comportamenti e provvedimenti, tutti sorretti dall’unica volontà di<br />

svilire la professionalità e la personalità del dott. Stefano XXXX.<br />

B- 1) L’elemento soggettivo<br />

Va in generale osservato che le controversie dirette ad accertare fattispecie di<br />

<strong>mobbing</strong> comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei<br />

comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e<br />

inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia<br />

dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un<br />

dipendente.<br />

La coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come<br />

elemento essenziale e costitutivo dell’illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi<br />

significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero tutti<br />

apparire legittimi e leciti.<br />

Va infatti evidenziato che, come in altri casi, anche in quello in esame, i<br />

comportamenti adottati dal mobber non si estrinsecano sempre e necessariamente in<br />

conclamati soprusi, ma sXXXXso si nascondono, in modo più sottile e insidioso, in<br />

provvedimenti che il Segretario Generale giustifica in forza del suo potere-dovere di<br />

controllo e di organizzazione dell’ufficio e del personale;<br />

in sé considerati, isolatamente nel tempo e nello spazio gli uni dagli altri,<br />

potrebbero a una visione superficiale o ingenua apparire inoppugnabili, indiscutibili,<br />

volti unicamente a garantire un servizio, e quindi legittima manifestazione del poteredovere<br />

organizzativo e disciplinare del dirigente, preposto dal datore di lavoro alla<br />

gestione del personale.<br />

La loro reale natura di atti vessatori è tradita e svelata da una serie di elementi<br />

quali la frequenza, la sistematicità, la durata nel tempo, la progressiva intensità, e, sopra<br />

e dentro tutti, la coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la<br />

vittima, che ne riporta un danno, anche alla salute psico-fisica.


E’ quindi importante sapere quale fosse la volontà del dott. YYY ZZZ e quale il<br />

suo reale porsi nei confronti del dott. Stefano XXXX.<br />

E’ importante saperlo prima di enucleare i fatti e gli atti.<br />

Nel caso in esame il dolo del mobber è stato svelato, all’esito della istruttoria,<br />

mediante un elemento che ha illuminato, come un fascio di luce, tutta la serie di atti e<br />

comportamenti sino ad allora acquisiti al giudizio e già dotati peraltro di un proprio<br />

significato.<br />

Il dato è emerso, tanto chiaramente quanto inaspettatamente per le Parti, nel corso<br />

dell’esame dell’ultimo teste, offerto dalla Camera di Commercio, all’udienza dell’11<br />

luglio 2003:<br />

il teste Ziberna Fabio era stato dipendente della Camera di Commercio per 45 anni<br />

e dalla sua posizione di segretario della presidenza (svolta con i presidenti Caidassi,<br />

Modiano, Tombesi e Donaggio), era stato particolarmente vicino agli organi di vertice,<br />

al Presidente e al Segretario Generale, con il quale pure concordava il testo di lettere<br />

dirette al dott. XXXX in risposta ad eventuali lamentele degli utenti.<br />

Il teste Ziberna, richiesto di riferire con quale animus venissero redatte le note da<br />

parte del dott. ZZZ, ha dichiarato:<br />

sXXXXso e volentieri il segretario generale affermava: “finché sarò io il<br />

segretario generale il dott. XXXX non farà mai carriera” (la sottolineatura è del teste<br />

che ha scandito le parole durante la sua deposizione).<br />

Non si può legittimamente dubitare della credibilità del teste ipotizzando<br />

l’intenzione di vendicarsi di una ingiustizia che a propria volta aveva subito:<br />

è vero che il dott. Ziberna era stato a propria volta “cacciato” via dal dott. ZZZ,<br />

tanto improvvisamente quanto immotivatamente;<br />

è vero che aveva cercato all’interno della Camera di Commercio di recuperare il<br />

suo ruolo (parlandone con il Presidente e alla presenza del dott. ZZZ), ma si era poi<br />

rassegnato ad attendere lo scioglimento del rapporto per raggiunti limiti di età, poi<br />

ricollocandosi nel mondo del lavoro con piena dignità;<br />

ma è altresì vero che egli non ha promosso alcuna causa, non ha mai dato segnali<br />

di rancore, né manifestato ai colleghi il suo, pur legittimo, turbamento per il modo in cui<br />

era stato trattato; non ha mai usato della sua posizione per screditare il dott. ZZZ<br />

durante e dopo la fine del suo servizio, altrimenti la Camera di Commercio non lo<br />

avrebbe certo offerto come proprio testimone; né poteva aspettare di essere sentito come<br />

teste (eventualità neppure da lui ipotizzabile) per “servire la sua vendetta”.<br />

Nulla di tutto questo.<br />

Il tono della testimonianza è stato pacato, fermo, leale nel riferire fatti e situazioni;<br />

e, fatto ancor più significativo perché emerso spontaneamente, le dichiarazioni<br />

del teste hanno trovato sostanziale conferma da parte del dott. ZZZ (a cui a tratti il teste<br />

si è rivolto nel corso della deposizione), il quale, presente, laddove riteneva di<br />

intervenire, ha avuto la facoltà di farlo, e non lo ha smentito.<br />

La testimonianza è stata dunque coerente, sincera, lucida, e, per il punto di<br />

osservazione privilegiato offerto, assolutamente attendibile: essa costituisce per questo<br />

giudice prova certa della dichiarazione pronunciata dal dott. ZZZ nei riguardi del dott.<br />

XXXX.


Essa è la prova della volontà di impedire che il dott. XXXX, nonostante avesse<br />

sempre lavorato bene (vd teste Ziberna), potesse avere all’interno della Camera di<br />

Commercio una qualsivoglia progressione professionale, è la prova della intenzione di<br />

attuare un sistematico blocco non solo alle aspirazioni professionali del dipendente, ma<br />

persino al godimento dei suoi diritti fondamentali (a lavorare in un locale idoneo, a<br />

godere di ferie e riposi, ad espletare la propria attività lavorativa in coerenza con la sua<br />

esperienza e conoscenza, ecc) :<br />

è la prova della volontà da parte del dott. ZZZ di essere un ostacolo deciso,<br />

potente, irragionevole e arbitrario, incontrollato e inarrestabile, per il miglioramento<br />

professionale del dott. XXXX, e di essere nel contempo la causa, sottile e feroce, di un<br />

crescente disagio, depauperamento e isolamento professionale e di un penoso<br />

aggravamento della salute psico-fisica del dipendente.<br />

La determinazione e la continuità con cui la frase è stata pronunciata (sXXXXso e<br />

volentieri..) vanno dunque collegate alla successione di atti e comportamenti che ora si<br />

espone.<br />

B 2) La serie di atti e comportamenti<br />

Anno 1995<br />

a) In data 10 agosto 1995 viene adottato un ordine di servizio (n.5/95 doc. 1 A<br />

fasc. ricorrente) con il quale il dott. YYY ZZZ predispone la riorganizzazione degli<br />

uffici e l’assegnazione del personale:<br />

il dott. XXXX compare come “capo servizio responsabile” dell’ufficio Statistica<br />

e Borsa Valori e dell’Ufficio Albi Ruoli e registri;<br />

non risulta invece più menzionato nel settore “promozione e informazione”<br />

settore che svolge attività in collaborazione con l’azienda speciale ARIES, nonostante<br />

egli avesse avuto sino ad allora, e continuasse ad avere, un rapporto di costante<br />

collaborazione per le attività di promozione (vds anche teste Donaggio e prospetti degli<br />

incarichi).<br />

La cancellazione del nome è un segnale importante, poiché anche il silenzio<br />

ferisce: e nessuna spiegazione viene offerta in proposito né dal dott. ZZZ, né si desume<br />

ex post dalla comparsa di costituzione.<br />

All’ufficio “Promozione e Informazione” viene preposto “ad interim” il rag.<br />

Fabio Ziberna con il quale il dott. XXXX direttamente collabora (vds teste Ziberna);<br />

è pacifico dunque che, nonostante l’assenza di un formale incarico, la attività nel<br />

settore da parte del dott. XXXX non cessa affatto, come peraltro rivela la lettera di<br />

“doglianze” scritta dal dott. ZZZ il 26 aprile 1996 .<br />

L’omissione del nome del dott. XXXX e la mancata attribuzione di un ruolo<br />

istituzionale nel settore della promozione ha un unico significato: quello di togliere al<br />

dott. XXXX una identità professionale, salvo poi attribuirgli comunque in fatto delle<br />

mansioni e delle responsabilità.<br />

E questo è un primo atto vessatorio.<br />

Anno 1996<br />

b) il 23 aprile 1996 infatti il Segretario Generale “richiama, ancora una volta”<br />

il dott. XXXX “sulla necessità che gli atti siano temXXXXtivamente programmati, che


siano confezionati secondo le normative vigenti nella pubblica amministrazione, che gli<br />

impegni siano assunti secondo regolarità amministrative e contabili e che negli stessi<br />

sia evidente l’iter logico giuridico contabile e reale con cui i medesimi vengono assunti.<br />

Le ricordo – conclude perentoriamente la lettera di richiamo che non ha nulla di<br />

“amichevole” (come vorrebbe il resistente nella comparsa di costituzione a pag. 29) -<br />

che nella pubblica amministrazione tali necessità sono, non solo, formali ma<br />

sostanziali, in considerazione della provenienza del denaro impegnato:<br />

il richiamo è tanto perentorio quanto ingiustificato a fronte della privazione di un<br />

ruolo istituzionale poco prima posta in essere dal dott. ZZZ nei confronti del dott.<br />

XXXX, che, effettivamente non aveva neppure l’autorità per poter chiedere o<br />

pretendere la collaborazione di altri dipendenti:<br />

se si vogliono attribuire delle responsabilità infatti, occorre previamente<br />

riconoscere un ruolo, che in questo caso invece è stato ufficialmente e dolosamente<br />

tolto.<br />

c) Il 26 aprile 1996:<br />

Il dr. ZZZ richiede formalmente al dott. XXXX spiegazioni scritte sul motivo per<br />

cui era stata chiesta al Vice Segretario Generale, dott. Coloni, la firma per una richiesta<br />

di autorizzazione all'A.S.S. per la mostra mercato "Appuntamenti di Primavera", avendo<br />

lui stesso rifiutato di firmarla;<br />

Il dott. XXXX risponde ( il 7 maggio 1996) offrendo giustificazioni basate<br />

sull’urgenza di ottenere l’autorizzazione veterinaria per garantire la buona riuscita della<br />

manifestazione<br />

Il dott. ZZZ in data 20 maggio 1996 avvia un procedimento disciplinare davanti<br />

a una commissione disciplinare, costituita cinque giorni prima (15.5.1996), che,<br />

ritenendo ingiustificata la mancata comunicazione del rifiuto di firmare alla dott.<br />

Coloni, sanziona il dr. XXXX con il rimprovero verbale.<br />

La sanzione non viene impugnata dal dott. XXXX, ma non può dirsi affatto<br />

pienamente giustificata: dal verbale delle informazioni assunte dalla signora Marcone<br />

allegato dalla convenuta A DI TRIESTE (vds sub doc. 14 fasc. resistente) infatti si<br />

rileva che il dott. ZZZ aveva rifiutato di sottoscrivere la domanda indirizzata all’USL<br />

perché riteneva che la richiesta di autorizzazione dovesse essere inoltrata dalla ditta<br />

interessata alla esposizione degli animali; il dott. XXXX aveva appreso dalla signora<br />

Marcone le ragioni del rifiuto e le aveva presentato il regolamento da cui si rilevava che<br />

tutte le autorizzazioni dovevano invece essere richieste dalla stessa Camera di<br />

Commercio;<br />

quindi in mancanza del dott. ZZZ, e nell’urgenza della situazione, aveva<br />

sottoposto l’atto alla firma della dott. Coloni.<br />

Ben lungi quindi dal poter ritenere giustificato il rifiuto di firmare da parte del<br />

dott. ZZZ (che in effetti sul punto non ritorna), si può dire che nella vicenda in esame<br />

sia mancato un momento di confronto diretto tra il dott. XXXX e il dott ZZZ, che<br />

effettivamente risulta assente dall’ufficio in tarda mattinata, mentre è assolutamente<br />

urgente l’autorizzazione dell’Usl dato che la manifestazione era prevista per il<br />

pomeriggio di quella medesima giornata; da qui la opportunità di una firma da parte<br />

della dott. Coloni, in grado, peraltro, di valutare autonomamente se la firma dovesse<br />

essere o no apposta.<br />

Ma al di là del merito della vicenda, quello che qui va rilevato, è la<br />

stigmatizzazione da parte del dott. ZZZ di un comportamento del dott. XXXX (non<br />

avere informato la dott. Coloni del rifiuto del dott. ZZZ di firmare) che non pare affatto<br />

a questo giudice contrario ai principi di correttezza verso i superiori, essendo piuttosto


animato dall’interesse di far riuscire la manifestazione nel rispetto dei regolamenti e nel<br />

rispetto dei fini istituzionali della Camera di Commercio medesima.<br />

Così valutata, la contestazione disciplinare poi sfociata in una sanzione, pare solo<br />

espressione della suscettibilità del dott. ZZZ e di un intento gratuitamente punitivo del<br />

dipendente.<br />

d) Il 24 maggio 1996 il dr. ZZZ richiede al dr. XXXX precisazioni scritte su<br />

quali adempimenti abbia posto in essere per apportare migliorie ai chioschi utilizzati per<br />

le mostre camerali, ritenendolo in premessa, “responsabile del procedimento<br />

amministrativo inerente a tale ciclo di iniziative”. (vds 4A e 4B fasc ricorrente e dco.<br />

15 fasc. A DI TRIESTE).<br />

Il dott. XXXX risponde facendo presente di avere solo avuto un<br />

“coinvolgimento consultivo” nella vicenda, rientrante nelle competenze dell’Ufficio<br />

Economato, ma si dichiara tuttavia (ingenuamente) investito in forza della lettera del<br />

ruolo di responsabile e assicura pertanto di attivarsi.<br />

Nella lettera del dott ZZZ, che carica il dott. XXXX di responsabilità mai, si<br />

sottolinea, ufficialmente attribuite, non può non emergere il gusto, quasi beffardo, di<br />

farlo attivare e agitare.<br />

e) Analogamente con lettera del 2 ottobre 1996 il dott ZZZ richiama il dott.<br />

XXXX per predisporre la documentazione relativa alle sXXXXe per il concorso<br />

Fedeltà al lavoro, ben sapendo che il dott. XXXX, come questi si premura di<br />

ricordare, aveva una sola collaboratrice a disposizione che offriva solo un tempo<br />

marginale alla predetta attività (vds doc. 5 A e 5B fascicolo ric e doc. 16 resistente).<br />

f) Nuovi richiami vengono fatti con lettere del 25 ottobre 1996 (doc. 6A fsc.<br />

Ric.) per la necessità di allegare un atto a un fascicolo relativo a una iniziativa con<br />

impegno di sXXXXa, e del 13 gennaio 1997 (doc. 7A) in cui il dott. ZZZ invita<br />

formalmente il dott. XXXX a volersi astenere dal sottoporgli pratiche all’ultimo<br />

istante (e il dott. XXXX giustifica quella pratica consegnata effettivamente all’ultimo<br />

memento in dipendenza di una scadenza a propria volta subita da parte del Comune di<br />

Muggia che, dal venerdì al lunedì, aveva fissato una riunione nella quale si doveva<br />

portare la posizione della Camera di Commercio).<br />

In questa successione di richiami e giustificazioni, per aspetti che forse avrebbero<br />

richiesto comunicazioni meno formali, non può non rilevarsi una sproporzione nei toni:<br />

il dott. ZZZ è, infatti, ben consapevole che il dott. XXXX è persona notoriamente<br />

scrupolosa e diligente, che assume con solerzia incarichi e responsabilità, che si attiva<br />

con passione e persino frenesia (come hanno riferito i testi), e ben conosce gli effetti di<br />

richiamo scritto, che “resta agli atti” e che richiede una risposta, anzi impone una<br />

“giustificazione”;<br />

egli pone costantemente il dipendente nella posizione di dover spiegare e scusarsi verso<br />

il superiore, anche quando i problemi sono modesti o quando dovrebbe essere<br />

sufficiente – nella fisiologia dei rapporti di lavoro - una semplice comunicazione<br />

verbale per risolverli, magari coinvolgendo direttamente il responsabile istituzionale del<br />

corrispondente ufficio (all’epoca il rag. Ziberna).<br />

La successione dei richiami, scritti, puntuali, a tratti pignoli, quasi reattivi, rivela<br />

un animus ben lontano da squisite esigenze di buon andamento del servizio ed evidenzia<br />

un puro intento persecutorio.


Anno 1997<br />

g) Il 19 giugno 1997 il dott. A.ZZZ avvia un procedimento disciplinare nei<br />

confronti del dr. XXXX per non essersi presentato ad una riunione interna del 18<br />

giugno 1997 in cui avrebbe dovuto svolgere una relazione sulla legge 127 del 1997<br />

senza comunicazione né giustificazione alcuna, e contesta formalmente l’addebito.<br />

Era noto che il dott. XXXX si trovava quella mattina fuori sede per un<br />

contemporaneo impegno che si era prolungato oltre il previsto; era stato comunque<br />

riferito subito da altri colleghi (dott. Coloni e sig. Ziberna), sia il suo precedente<br />

impegno (ossia il fatto che si era debitamente preparato la relazione da svolgere) sia il<br />

suo attuale impedimento.<br />

Questo avrebbe dovuto impedire a un dirigente in buona fede di effettuare una<br />

contestazione disciplinare<br />

il dott. ZZZ invece contesta formalmente l’addebito, che impone una relazione di<br />

spiegazioni e scuse, e quindi procede, con la commissione disciplinare, alla<br />

archiviazione sottolineando comunque la “mancanza oggettiva”, del dott. XXXX. (vd<br />

docc 9A,9B, 9C fasc ricorrente)<br />

Anno 1998<br />

h) il 29 luglio 1998 il dott. ZZZ chiede al dott. XXXX di offrire il quadro dei suoi<br />

impegni e incarichi (vd doc. 10A ric. o 21 fasc. A DI TRIESTE):<br />

non va dimenticato che il Segretario Generale è colui che stabilisce mansioni e<br />

ruoli, e autorizza incarichi, e dunque ben conosce le attività svolte da ciascuno dei<br />

dipendenti della Camera di Commercio: l’atto potrebbe apparire dunque solo un po’<br />

bizzarro o inconsueto; in realtà lascia trapelare da parte del dott. ZZZ il bisogno di una<br />

verifica “solenne” delle effettive mansioni del dott XXXX, che perciò, ancora una volta,<br />

è chiamato a “spiegare”, e per iscritto, quale lavoro sta facendo. E in questi termini la<br />

richiesta risulta umiliante.<br />

Anno 1999<br />

i) Il 26 gennaio 1999 il dott. ZZZ emana un nuovo ordine di servizio n.2/1999<br />

il cui il rag Ziberna viene individuato come responsabile dell’ufficio promozione Studi e<br />

Statistica, mentre il dott. XXXX viene indicato come “referente” dell’ufficio<br />

“promozione”<br />

E’ qui estremamente interessante rilevare che il dott. ZZZ, cui erano note le<br />

funzioni del dott. XXXX nel settore della promozione, e quelle di responsabile nel<br />

servizio V (comprensivo di più uffici vds supra pag. 11) richiesto del significato della<br />

“qualifica di referente” spiega che si tratta di “responsabile” (vds doc. 13B fasc. ric):<br />

in questo modo egli limita il ruolo istituzionale di responsabile del dott. XXXX a<br />

un singolo ufficio. E in tal modo lo degrada.<br />

l) A tale ordine di servizio fa seguito una segnalazione della DIREL<br />

organizzazione sindacale del personale dell’ex carriera direttiva (doc.13 C), che<br />

richiama l’attenzione del Presidente e della Giunta sull’ordine di servizio dato dal<br />

Segretario Generale, una lettera del dott. XXXX e una risposta del dott. ZZZ.


Quest’ultimo, in estrema sintesi, dichiara di non voler modificare una virgola nel<br />

piano che ha predisposto, ritenendo che il ruolo e la professionalità del dott. XXXX<br />

possano comunque esplicarsi.<br />

m) Tuttavia omette sistematicamente di convocare il dott. XXXX alle riunioni dei<br />

capiufficio.<br />

Alla “sorpresa” del dott. XXXX e del collega Sturman, responsabile dell’ufficio<br />

Studi e Statistica (vds lettera del 7 aprile 2000 doc. 13F fasc ricorrente), risponde, a<br />

mano e in calce, che gli inviti vengono diffusi secondo i temi trattati (10.4.2000):<br />

la risposta data dal dott. ZZZ, oltreché nei modi, è offensiva nel contenuto: non è<br />

logico né legittimo che alle riunioni dei “capiufficio dell’Ente” (ossia dei funzionari che<br />

rivestono quella qualifica indipendentemente dal tema trattato), non debbano essere<br />

invitati alcuni funzionari;<br />

il fatto di “escludere” solo determinati capi ufficio (il dott. XXXX in particolare)<br />

non può avere significato diverso da quello di non riconoscere, nei fatti, il ruolo e la<br />

responsabilità ufficialmente conferitegli, e, in tal senso, è offensiva della sua dignità<br />

professionale.<br />

n) Nel corso dell’anno 1999 si comincia a porre anche il problema dell’incarico<br />

del dott. XXXX a tenere i corsi di formazione presso l’ENASARCO.<br />

Il teste Delle Vedove ha riferito in udienza della difficoltà a ottenere una<br />

autorizzazione, di avere coinvolto anche il presidente della A DI TRIESTE (vd doc.<br />

15B);<br />

la lettera che il dott. ZZZ scrive il 9 aprile 1999 (nella quale autorizza “solo per<br />

questa volta” il funzionario dott. XXXX a prestare la collaborazione richiesta – doc. 14<br />

A fasc. ric.) e la stesso appunto in calce alla richiesta di autorizzazione presentata dal<br />

dott. XXXX il 9 novembre 1999 (va bene, solo per il corso che sta per iniziare vd doc.<br />

15 A) suonano come una graziosa “concessione”, comunque irripetibile, che in quanto<br />

sottende una immotivata resistenza, offende il senso e la continuità di una apprezzata<br />

collaborazione che durava da ben tredici anni.<br />

Anche l’anno successivo, nel mese di aprile 2000 si ripropone la fatica di<br />

ottenere l’autorizzazione a svolgere i corsi di formazione presso l’ENASARCO:<br />

questa volta il dott. ZZZ, che pure li aveva solennemente condizionati alla sua<br />

autorizzazione, rimette ogni decisione al Presidente (vds appunto in calce alla richiesta<br />

del dott. XXXX (doc. 23 A) e non pare che il corso sia stato per quel semestre tenuto<br />

dal dott. XXXX.<br />

o) Il 10 novembre 1999 viene inviata dal dott. ZZZ al dott. XXXX una nuova<br />

contestazione disciplinare per una condotta in violazione dell’art. 23 ccnl (doc. 16A in<br />

seguito a una segnalazione del dott.Jerman);<br />

la valutazione dell’addebito è rimessa all’ufficio per i procedimenti disciplinari<br />

ma a seguito della relazione presentata dal dott. XXXX (30.11.1999) il dott. YYY ZZZ<br />

decide di applicare la sanzione del rimprovero scritto;<br />

la sanzione viene impugnata dal dipendente con ricorso del 2 febbraio 2000 con<br />

l’assistenza dell’avv. Antonini che contesta sia la irritualità della procedura seguita per<br />

la irrogazione della sanzione (competendo l’irrogazione o l’archiviazione del<br />

procedimento all’ufficio disciplinare che ne era stato investito e non al dott. ZZZ) sia la<br />

fondatezza della contestazione che, rispetto al comportamento del dott. XXXX, viene<br />

giudicata incredibile, irreale e quasi artificiosa (vds doc. 16D fasc ric);


l’avv. Antonini segnala poi alla Camera di Commercio al Presidente e ai<br />

consiglieri di Giunta con lettera del 13 marzo 2000 la situazione incresciosa e<br />

inverosimile che si è venuta a creare a seguito di una serie incalzante di contestazioni<br />

disciplinari ….e la situazione di disagio in cui si trova il dott. XXXX (doc. 16 E)<br />

la Giunta il 17 marzo 2000 dà incarico al dott. ZZZ di rispondere evidenziando<br />

l’incompetenza della Giunta in materia disciplinare, ma il dott ZZZ non risponde.<br />

Solo a seguito della convocazione avanti all’ufficio di conciliazione e quindi a<br />

seguito di una seconda lettera dell’avv. Antonini (di data 25 luglio 2000 - vds doc. 16H)<br />

informa quest’ultimo (con lettera del 27 luglio 2000) di essere stato nominato in<br />

rappresentanza della Camera di Commercio, quale componente del collegio di<br />

conciliazione, proprio lui che era stato autore della sanzione:<br />

davanti il collegio di conciliazione, in data 11 settembre 2000 l’ente datore di<br />

lavoro (sostanzialmente rappresentato dall’autore della sanzione!) dichiara di rinunciare<br />

alla applicazione della sanzione disciplinare, a fronte della rinuncia del dott. XXXX alle<br />

sXXXXe sino allora sostenute anche per avviare il procedimento avanti il giudice del<br />

lavoro (vds 16 M fasc ric).<br />

p) Contemporaneamente, ossia mentre pende il procedimento disciplinare sub o),<br />

in data 15 febbraio 2000 il dott. XXXX viene richiamato a tenere nei rapporti<br />

interpersonali e con gli utenti una condotta uniformata a principi di correttezza e ad<br />

astenersi da comportamenti lesivi della dignità della persona (doc. 17A):<br />

le lettera giunge dopo una segnalazione della ditta “Il Baule d’oriente” circa un<br />

comportamento arbitrario e scorretto del dott. XXXX, il quale risponde con una<br />

dettagliata relazione (vds doc. 17B);<br />

nonostante la risposta del dott. XXXX e la dichiarazione di un teste a suo favore,<br />

il dott. ZZZ comunica (e non si desume sulla base di quale altra istruttoria) che l’ufficio<br />

di conciliazione aveva deliberato di irrogare la sanzione del rimprovero verbale (vds<br />

provvedimento del 13 marzo 2000 – doc. 17D)<br />

Anche tale sanzione viene impugnata e davanti al collegio di conciliazione, di cui<br />

il dott. ZZZ costituisce uno dei componenti, riunitosi sempre l’11 settembre 2000<br />

(unica seduta per due sanzioni disciplinari), l’ente datore di lavoro decide di revocare<br />

la sanzione (doc. 17P) a fronte della rinuncia del dott. XXXX alle sXXXXe.<br />

Le revoche delle sanzioni disciplinari non possono affatto indurre, come<br />

pretendono i resistenti, a non considerarle nella serie delle vicende in esame:<br />

al di là, infatti, della fondatezza o infondatezza delle singole sanzioni, questo<br />

giudice rileva come entrambi i casi siano stati vistosamente gestiti dal dott. ZZZ con<br />

una arroganza istituzionale che può spiegarsi solo nel disegno, da lui lucidamente<br />

coltivato, di “perseguitare” il dott. XXXX, tenuto comunque, per nove mesi, sotto la<br />

spada di Damocle di due procedimenti disciplinari con l’incertezza, l’attesa, l’ansia che<br />

ne sono connesse .<br />

Ma la volontà persecutoria si conferma anche nel comportamento<br />

immediatamente precedente e successivo del dott ZZZ.<br />

q) il 4 settembre 2000 infatti (quando è ragionevole presumere che fosse già<br />

maturata l’intenzione di revocare le sanzioni disciplinari irrogate), il dott. ZZZ scrive al<br />

dott. XXXX che questi aveva affermato in presenza di testimoni di non conoscere il<br />

regolamento delle sezioni ARIES e di aver perciò rifiutato la sigla su una<br />

determinazione presidenziale riguardante il salone nautico di Cannes (doc. 25A);


alla luce delle articolate e compiute giustificazioni immediatamente offerte dal<br />

dott. XXXX mediante l’avv. Antonini (lettera del 15 settembre 2000 - doc. 25 B) il<br />

rilievo del dott. ZZZ appare infondato e non ha in effetti seguito.<br />

Ma anche questa volta non è il merito della vicenda che rileva (per accertare il<br />

quale occorrerebbe esaminare le altre persone coinvolte, in primis il dott Auletta);<br />

qui rileva piuttosto evidenziare come sia stata gestita la vicenda dal dott. ZZZ e il<br />

tenore della sua risposta: questi, mentre da un lato invita l’avv. Antonini in buona<br />

sostanza a “mettere in riga” il suo cliente che dovrebbe sforzarsi di collaborare con<br />

tutti, dall’altro offre una, sicuramente involontaria, ammissione del suo illecito<br />

comportamento: ho deciso di non alimentare oltre la polemica con il dott. XXXX:<br />

“polemica”? Forse che l’azione di un dirigente del personale quale è il dott. ZZZ<br />

non dovrebbe essere volta a ben altri fini che quelli di instaurare o alimentare o<br />

risolvere le “polemiche” con i propri collaboratori?<br />

E mentre pendono i procedimenti disciplinari altri rilievi si accavallano:<br />

r) il 18 febbraio 2000 il dott. ZZZ scrive al dott. XXXX di volersi documentare e<br />

predisporre la revisione degli usi per l’anno 2000<br />

il compito pare rientrare più coerentemente nelle competenze dell’ufficio Studi e<br />

Statistica, cui era preposto un altro funzionario (dott Sturman vd ordine di servizio<br />

n.2/99 supra sub i) - doc. 13A), ma il dott. XXXX si dichiara (e certamente doveva<br />

farlo vista la specialità dell’incarico), pronto a provvedere chiedendo anche un apposito<br />

collaboratore:<br />

la risposta del dott. ZZZ, a mano e in calce alla lettera è secca e indispettita:<br />

non è possibile che tutto ciò che viene assegnato come lavoro alla S.V debba<br />

sempre avere un seguito epistolare, Per quanto riguarda il personale nella fase iniziale<br />

non servirà alcun aiuto. 24.2.2000 (doc. 18B).<br />

s) il 29 febbraio 2000 il dott. ZZZ non esita a comunicare per iscritto la<br />

sensazione di “rammarico” per la mancata comprensione di elementari principi di<br />

riservatezza, avendo il dott XXXX prelevato il suo foglio ferie non firmato dalla<br />

scrivania della sig. Decarolis segretaria del dott. ZZZ (nessuna indagine viene invece<br />

svolta se a sparire dalla scrivania del dott XXXX sono i suoi fascicoli – vds<br />

segnalazione del 26 gennaio 2001 da parte del dott.XXXX al direttore operativo Aries,<br />

con il quale si denuncia la scomparsa dal proprio tavolo di lavoro di un fascicolo che<br />

successivamente viene rinvenuto alla Segreteria Generale: ma questo si rileva solo tra<br />

parentesi).<br />

L’episodio del ritiro del foglio ferie viene fin troppo ampiamente spiegato<br />

dall’avv. Antonini nella relazione di risposta e rivela, anche alla luce della risposta data<br />

in seguito dal dott. ZZZ il comportamento vessatorio di quest’ultimo:<br />

nell’episodio in questione infatti il problema principale non è, come sottolineato<br />

dal dott. ZZZ (che non si è determinato in questo caso ad alcun rilievo disciplinare -vds<br />

lettera del 27 marzo 2000 – doc. 20C) quello della riservatezza, che sarebbe stata<br />

violata dal ritiro da parte del dott. XXXX di un foglio di ferie lasciato in bianco sopra<br />

la scrivania della segretaria, ma è piuttosto quello delle ragioni per cui tale richiesta di<br />

ferie, presentata il 24 febbraio per il 28 febbraio, siglata dal rag Ziberna responsabile del<br />

servizio, siglata dal dott. Rota vicesegretario generale, debba “giacere nell’ufficio del<br />

segretario dott ZZZ, senza alcuna risposta o annotazione, in attesa della<br />

“autorizzazione” dello stesso Segretario che ben doveva aver visto che le ferie erano


state richieste per il lunedì successivo e che con il suo silenzio avrebbe determinato,<br />

come ha in effetti determinato, il loro mancato godimento.<br />

Che un tale comportamento sia voluto, anzi “premeditato” lo si desume anche<br />

dalle successive occasioni di richiesta ferie.<br />

s1) analogo comportamento di prolungato silenzio del dott. ZZZ si ripete infatti<br />

anche per le ferie di giugno 2000 (vd doc.24 A)<br />

s2) mentre le ferie di aprile 2001 vengono negate (il 9 aprile 2001 vengono<br />

negate al dr. XXXX quattro giorni di ferie in quanto, su ordine del dr. ZZZ, durante i 10<br />

giorni di svolgimento della mostra "Mestieri in Piazza", il dr. XXXX avrebbe dovuto<br />

essere presente, sebbene l'organizzazione della stessa si fosse già conclusa considerato<br />

che l'esposizione aveva avuto inizio la settimana precedente all'inizio delle ferie<br />

richieste).<br />

s3) balza peraltro anche agli occhi del rag Ziberna che in materia di ferie si<br />

percepiva un certo ostruzionismo da parte del segretario Generale (vd pag. 26 verbale<br />

ud. 11.7.2003).<br />

t) Il 21 febbraio 2000, accusando affaticamento alla vista a causa della scarsa<br />

illuminazione con luce naturale della stanza in cui era stato collocato (n.213), il dr.<br />

XXXX, documentando la forte miopia, chiede direttamente alla Camera di Commercio<br />

l'autorizzazione a trasferirsi nella stanza libera di fronte alla sua, ben illuminata poiché<br />

esposta a sud e sulla piazza (doc. 19A).<br />

Il 24 febbraio giunge la risposta del dr. ZZZ di aver dato disposizioni al<br />

Provveditorato di dotare la stanza di idonea illuminazione (19 B) .<br />

Il 13 marzo 2000 il dott XXXX tuttavia segnala di aver riscontrato un netto<br />

peggioramento della vista (doc. 19 C) anche perché, nel frattempo, cioè dal 29 febbraio<br />

2000, era stato trasferito dalla stanza 213 alla stanza 223, ancora meno illuminata della<br />

precedente:<br />

l’intervento del dott. ZZZ, che aveva disposto il cambio stanza, sembra decisivo<br />

per peggiorare la condizione del dipendente.<br />

Che la stanza fosse poco illuminata lo riferiscono anche altri testi, in particolare il<br />

rag. Ziberna, che definisce quella stanza, anche da lui occupata per un certo tempo,<br />

dopo essere stato “cacciato” dal dott. ZZZ e privato di tutte le sue funzioni, come una<br />

topaia essendo piccola e dotata di una finestrella (vds pag. 25 verbale ud. 11.7.2003) .<br />

Occorre di nuovo l’intervento dell’avv. Antonini, che investe del problema anche<br />

l’Azienda Sanitaria e il servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (con<br />

lettere del 12 aprile 2000 e del 25 luglio 2000 doc. 19 E e 19 G) per ottenere<br />

nell’autunno 2000, sei mesi dopo, (vds lettera del dott. Rota 6 ottobre 2000 che scrive<br />

su direttiva impartita verbalmente dal Segretario generale doc. 19 I) il trasferimento<br />

nella stanza 214, già occupata in precedenza.<br />

u) Il 17 maggio 2000, il dott. XXXX chiede alla propria organizzazione<br />

sindacale di intervenire, segnalando il problema della sua posizione organizzativa<br />

all’interno dell’ente, il problema della materiale ubicazione del suo ufficio, e<br />

l’instaurazione di un clima intimidatorio (doc. 13 G fasc.ric).<br />

v) Con ordine di servizio n.5 del 6 giugno 2000 in attuazione di una propria<br />

determinazione, il dott. ZZZ muta la composizione dell’ufficio IRAP (doc. 68 fasc.ric).<br />

w) Il problema di come il Segretario generale “gestisca il personale” viene da più<br />

parti portato all’attenzione della Giunta che segnala l’esigenza di avere copia della


determinazioni del Segretario Generale “in modo da consentire ai consiglieri<br />

l’eventuale approfondimento sui vari atti…per vigilare sull’esecuzione degli atti<br />

deliberati e sull’attività svolta dal segretario”; appare evidente, dalla lettura del verbale<br />

(doc. 13 H fasc ric.) con quanta insofferenza il Segretario percepisca quella che dichiara<br />

essere una indebita ingerenza nella sua autonoma gestione;<br />

Il Presidente (dott. Donaggio) sensibilizza il Segretario generale sull’impressione<br />

percepita a livello di giunta di uno squilibrio nella distribuzione di mansioni e compiti<br />

ai vari dipendenti: per esempio alla sig.ra Giuliana Ziberna, per la quale va espresso il<br />

massimo apprezzamento, oltre alla direzione operativa dell’Azienda Speciale benzina<br />

Agevolata, risulta essere affidata la responsabilità dell’ufficio Albi e Ruoli, la<br />

segreteria della neocostituita commissione d’esami relativi al settore alimentare, la<br />

rottamazione delle licenze commerciali, il coordinamento dei rimborsi IRAP oltre a<br />

tenere lezioni ai corsi ARIES per gli esami di somministrazione.<br />

La giustificazione addotta dal Segretario generale oltreché illogica suona persino<br />

offensiva della professionalità dei dipendenti “scavalcati”, in quanto egli riferisce di<br />

essere in attesa del periodo di formazione di un altro dipendente, senza contare che la<br />

rag. Gregoris svolgeva il ruolo di responsabile dell’Ufficio Albi e Ruoli da molti anni e<br />

che si era ritrovata subordinata alla sig. Ziberna.<br />

All’esito della seduta del 4 agosto 2000 la Giunta camerale adotta la delibera<br />

n. 142 con la quale, valutata la situazione all’interno dell’Ente decide, all’unanimità,<br />

di formulare al Segretario Generale un invito forte e sostanziale al fine di farlo<br />

operare con maggiore attenzione sia per gli aspetti formali, relativamente ai casi che<br />

sono stati evidenziati nel preambolo, sia per gli aspetti sostanziali non confondendo<br />

decisioni soggette a ratifica con sue decisioni autonome, delle quali la giunta deve<br />

averne piena conoscenza. Vanno quindi valutate al meglio, in previsione di una<br />

riorganizzazione interna, le potenzialità dei dirigenti e del personale camerale in<br />

genere, consentendo a tutti di conseguire miglioramenti sotto il profilo dei rapporti<br />

interni come pure delle auspicabili progressioni economiche.<br />

x) il 22 settembre 2000 - dopo che si era concluso dunque il procedimento<br />

disciplinare con il dott. XXXX (vds seduta della Commissione di Conciliazione dell’11<br />

settembre 2000) ma erano pervenute altre segnalazioni, la problematica della gestione<br />

del personale della organizzazione degli uffici viene di nuovo portata all’attenzione<br />

della Giunta;<br />

Il presidente ritiene, da alcuni episodi verificatisi all’interno dell’Ente, che<br />

emerga il sospetto di essere in presenza di casi di <strong>mobbing</strong>, cioè di sopraffazione, di<br />

scontentezza esercitati nei confronti di alcuni dipendenti.<br />

Vengono riferiti in giunta “una serie precisa di episodi” a fronte dei quali risulta<br />

“un atteggiamento poco lineare del dott. ZZZ nei confronti di alcuni dipendenti” (es<br />

caso del dott. XXXX, caso della rag. Gregoris, caso della dott. Coloni);<br />

la Giunta prende atto che i casi esaminati dimostrano un atteggiamento<br />

persecutorio del Segretario Generale nei confronti di alcuni dipendenti con<br />

comportamenti preferenziali verso altri.<br />

il Presidente sente alla fine di esprimere (solo) un forte richiamo al Segretario<br />

Generale affinché si attenga strettamente alle sue funzioni all’interno della Camera di<br />

Commercio senza far trapelare all’esterno sue opinioni personali che risultano in netto<br />

contrasto con i comportamenti tenuti dai membri della Giunta;<br />

viene dunque condiviso l’orientamento di evitare decisioni punitive e la Giunta<br />

con delibera n. 179 del 22 settembre 2000 (vds Doc. 69 fasc.ric.) decide<br />

di formulare un nuovo forte richiamo al Segretario Generale affinché si attenga<br />

strettamente alle sue funzioni all’interno dell’Ente camerale, coordinandosi per ogni


decisione significativa sulla gestione degli uffici con la presidenza e senza formulare<br />

all’esterno del’Ente pareri o apprezzamenti sui consiglieri o esprimere considerazioni<br />

personali che non sono coerenti con il suo ruolo istituzionale e che non possono che<br />

influire negativamente sull’immagine della camera di commercio<br />

di formulare un preciso e puntuale invito al Segretario Generale affinché<br />

sulla base delle direttive emerse nel corso dell’odierna riunione relativamente alle<br />

situazioni di disagio interno del personale provveda ad adeguare con sollecitudine le<br />

situazioni di fatto esistenti a quelle che sono le indicazioni impartite dalla Giunta<br />

come indicato negli interventi precedenti.<br />

Il contenuto della delibera dovrebbe suonare forte e chiaro alle orecchie del<br />

Segretario Generale:<br />

nonostante le XXXXanti riserve manifestate sul conto del dott. ZZZ (che già era<br />

stato interessato due anni prima da un accertamento per comportamento antisindacale<br />

vd doc. 9 E fasc ricorrente e vd teste Marega pag.18 verb ud. 11.7.2003) tuttavia la<br />

Giunta si esprime in termini di mero “richiamo e invito”, evitando di adottare decisioni<br />

che delineino precise responsabilità, con conseguenti sanzioni anche radicali:<br />

le ragioni di tale delibera vengono spiegate dallo stesso dott. Donaggio, allora<br />

presidente della Camera di Commercio, che pur riconoscendo quanto fosse cambiato il<br />

clima, e anche in modo violento, ha riferito che non si erano volute prendere delle<br />

decisioni punitive perché il presidente era in regime di prorogatio e ogni decisione,<br />

anche grave quale poteva essere la proposta al Ministero di sostituzione del Segretario,<br />

pareva opportuno lasciarla ai successori (vd pag. 12 e 13 verbale 11.7.2003).<br />

La delibera della Giunta dunque pur prendendo conoscenza e consapevolezza – al<br />

di là dei toni misurati in cui vuole esprimersi - della situazione di <strong>mobbing</strong> in cui versa<br />

una parte del personale, decide di non intervenire con tutti i propri poteri e doveri<br />

necessari, limitandosi a un richiamo forte nei confronti del Segretario Generale,<br />

affidandosi, in questo modo, alla sua spontanea ottemperanza, ma lasciando i dipendenti<br />

che avevano sollecitato un intervento e si erano, in questo, fortemente esposti, in balia<br />

di una ritorsione del Segretario Generale. Che non tarderà infatti a realizzarsi<br />

La Giunta con questa delibera di “non assunzione di decisioni” sbaglia<br />

decisamente strategia, colpevolmente sottovalutando il dott. YYY ZZZ, nonostante gli<br />

inequivoci segnali di “squilibrio” nella organizzazione del personale e di insofferenza<br />

nei confronti della Giunta (alla quale aveva dovuto spiegare propri atti e<br />

provvedimenti) e del Presidente (si rileggano le dichiarazioni di Donaggio ud.<br />

11.7.2003) che costui aveva dato e, soprattutto sottovalutando la facoltà che con questa<br />

decisione gli lasciava, di non rispettare affatto la volontà di un a Giunta “uscente”.<br />

E così avviene.<br />

Il dott. ZZZ attende “il cambio di guardia” , ossia l’insediamento di nuova Giunta<br />

e nuovo Presidente per poter gestire “a proprio modo e in assoluta autonomia e arbitrio”<br />

il personale.<br />

y) Nel frattempo, già nell’autunno del 2000, dà i primi segnali di “ritorsione” nei<br />

confronti dei dipendenti che si erano permessi di segnalare il disagio, in particolare nei<br />

confronti del dott. XXXX:<br />

y1) Nega senza motivo al dott. XXXX , con un umiliante “no! ” scritto a mano in<br />

calce alla richiesta dd 23.11.2000 (vds doc. 28A) l’autorizzazione a svolgere i corsi<br />

Enasarco , salvo poi concederla, su pressione del Presidente, ma “solo per questa volta<br />

il 28 novembre 2000 (doc.28B);


y2) Poco prima (il 10 ottobre 2000) il dott. ZZZ distacca l'unica collaboratrice<br />

dell'Azienda Speciale Aries incaricata della Segreteria esecutiva della Mostra Mercato<br />

di Natale, in piena fase organizzativa, alla Segreteria del Presidente, dove rimane per<br />

circa un mese;<br />

y3)Con ordine di servizio n. 13 del 24 novembre 2000 sottrae al dott. XXXX –<br />

con effetto immediato - l’organizzazione della manifestazione “Appuntamenti di<br />

Natale” in programma dal 1 dicembre 2000 al 6 gennaio 2001, attribuendola ai<br />

“referenti” Pison e Tessaris (doc 29A), che espressamente qualifica nuovi responsabili<br />

della manifestazione nella nota del 27 novembre 2000 sollecitata da una richiesta di<br />

chiarimenti del dott XXXX, sino ad allora unico responsabile della manifestazione,<br />

aggiungendo una nota di ringraziamenti nei confronti del dott. XXXX, che neppure in<br />

apparenza può suonare sincera (doc. 29 C) laddove lo priva, immotivatamente, di un<br />

ulteriore incarico ;<br />

y4) Nonostante fossero passati ben cinque mesi da una lettera di protesta (dd 21<br />

giungo 2000) di uno degli espositori della mostra del Libro, il dott. ZZZ in data 28<br />

novembre 2000 chiede chiarimenti al dott. XXXX costringendolo a rispondere,<br />

ancora una volta, con una relazione dettagliata, nella quale peraltro si evince che ogni<br />

informazioni ivi contenuta ben poteva essere acquisita oralmente dal dott. ZZZ<br />

essendo già stata esaminata dal Comitato Tecnico di Gestione, che aveva ritenuto<br />

opportuno non dare alcuna risposta e aveva persino invitato il dott. XXXX a<br />

“soprassedere al tono eccessivo della stessa comunicazione” (doc. 30 B e allegato fasc<br />

ricorrente);<br />

y5) Il 22 dicembre 2000, il dott. XXXX, su richiesta del dott. ZZZ, che continua<br />

a sostenere di non conoscere le mansioni del collaboratore all'interno della Camera di<br />

Commercio, predispone un promemoria per il Presidente con l'elencazione di tutte le<br />

attività svolte alla Camera di Commercio nel corso dell'anno 2000 (doc. 31 A fasc ric).<br />

Mutata la Giunta e mutato il Presidente il dott. ZZZ dà alla propria condotta una<br />

forte impennata di assoluto arbitrio.<br />

z) Il dott. ZZZ dichiara espressamente che la Giunta precedente nell’intervenire in<br />

problematiche riguardanti il personale aveva compiuto un “abuso” e trova il consenso<br />

della nuova Giunta che, con delibera n. 37 del 12 febbraio 2001 (doc. 71A) decide<br />

- di dare mandato al Presidente in collaborazione e per concessione del<br />

Segretario generale, affinché proceda a verifiche del personale camerale e delle<br />

Aziende speciali al fine di individuare eventuali possibilità di miglioramento e di<br />

razionalizzazione delle risorse<br />

- di dichiararsi non competente in merito ai contenuti della delibera n. 179 dd<br />

22 settembre 2000 esprimendo solidarietà e piena fiducia nei riguardi del Segretario<br />

Generale<br />

La decisione opera come un “lasciapassare” per il dott. ZZZ, quasi una sorta di<br />

“preventiva e cieca approvazione” del suo operato e apre una nuova epoca del suo<br />

potere assoluto.<br />

aa) l’8 marzo 2001 Il dott.ZZZ, con una propria singolare e unilaterale<br />

determinazione che lo fa ergere a “giudice” dei provvedimenti della Giunta<br />

“determina di prendere atto che le decisioni assunte con delibera giuntale n.<br />

179 del 22 settembre 2000 risultano viziate sotto il profilo dell’incompetenza, tale<br />

da determinare l’inefficacia dell’atto stesso;


decide di annullare l’ordine di servizio n. 8 del 27.9.2000 (vd doc. 70 - con il<br />

quale – in ottemperanza al forte invito della Giunta precedente - aveva dovuto attribuire<br />

di nuovo le funzioni di responsabile dell’ufficio Albi, Ruoli, Registri ed Elenchi alla<br />

rag. Gregoris)<br />

e si riserva l’emanazione di nuovi provvedimenti sull’assetto del personale.<br />

A questo punto il grafico dell’arbitrio del dott. YYY ZZZ, che nulla a che vedere<br />

con i principi di qualità, efficienza, trasparenza, buon andamento della Camera, riceve<br />

una decisa ascesa:<br />

bb) con ordine di servizio n. 7/2001 annulla l’ordine di servizio n. 8/2000<br />

revocando quindi ogni attribuzione alla rag Gregoris e ripristinando la organizzazione<br />

preesistente (doc. 71 D);<br />

cc) assegna con ordine di servizio n. 5/01 l’incarico di avviare le<br />

procedure per il credito d’imposta sotto la sua direzione alle dipendenti Ziberna<br />

Giuliana, Marega e Torrenti (doc. 72)<br />

dd) con ordine di servizio n. 17/01 trasferisce l’attività inerente l’Albo dei<br />

Promotori di servizi finanziari il ruolo dei periti e degli esperti l’elenco dei<br />

raccomandatari, l’elenco degli spedizionieri e il ruolo dei mediatori alll’Area di<br />

regolazione del mercato, cui trasferisce la rag Gregoris con l’incarico però di segretaria<br />

(doc. 71 E)<br />

ee) redistribuisce gli incarichi tra il personale accrescendo vistosamente quelli<br />

attribuiti ad esempio alla sig. Ziberna (vds i prospetti della anagrafe degli incarichi<br />

1995-2002), sulla cui qualificazione la stessa Giunta (quella precedente) aveva<br />

sollevato delle riserve;<br />

ff) Dal punto di vista logistico cambia la logistica degli uffici, riservando in via<br />

esclusiva quelli collocati al primo piano al presidente e al segretario generale oltre alle<br />

rispettive segreterie, mentre tutti gli altri (anche quello della dott. Coloni) vengono<br />

trasferiti nel II e nel III piano: non si tratta di una mera redistribuzione per esigenze<br />

logistiche come asserisce il convenuto, ma di una lucida e visibile separazione tra<br />

organi di vertice e dipendenti;<br />

gg) Revoca, senza motivo e senza attribuzione di nuovo incarico, al rag.<br />

Ziberna l’incarico di segretario della presidenza che il dipendente svolgeva da oltre<br />

venti anni privandolo anche fisicamente di un posto nell’ufficio (vai dove ti pare, non<br />

me frega niente – vd pag. 25 verbale ud. 11.7.2003);<br />

hh) Coerentemente continua a ostacolare al dott. XXXX, poi graziosamente<br />

concedendola su richiesta del presidente, l’autorizzazione a svolgere i corsi<br />

ENASARCO: Il 15 febbraio 2001 risponde al funzionario DELLE VEDOVE presso<br />

l’Enasarco di non autorizzare il dr. XXXX a svolgere, al di fuori dell'orario di lavoro,<br />

la docenza ai corsi per agenti di commercio, dichiarando persino che in precedenza<br />

l'autorizzazione era stata concessa in deroga alle disposizioni vigenti (doc. 33 A); il<br />

dott.. XXXX segnala quindi al Presidente e al Segretario Generale che, nonostante<br />

l'esito positivo di un bonario intervento del Presidente presso il dr. ZZZ avvenuto a<br />

febbraio a seguito delle lettera di diniego, nulla è stato formalizzato all'Enasarco;<br />

finalmente l'autorizzazione è concessa e il corso avviato ma solo per il 2001 (doc. 33<br />

C).<br />

ii) E nel frattempo persevera nell’opera di “boicottaggio” della attività del dott.<br />

XXXX:


ii 1) il 14 febbraio 2001 il dr. XXXX apprende che il dr. ZZZ gli ha assegnato,<br />

senza alcuna formalizzazione, quale unico collaboratore per le mostre camerali, l'autista<br />

del Presidente, quasi sempre assente sede per servizio fuori sede e senza alcuna pratica<br />

di attività amministrativa; il dott. XXXX segnala la propria perplessità e<br />

preoccupazione al Segretario generale (in data 23.2.2001 doc. 34A) e apprende pochi<br />

giorni dopo che il suo unico collaboratore è stato autorizzato ad assentarsi per un<br />

periodo di ferie dallo stesso Segretario generale, mostrandosi vivamente preoccupato<br />

per l’esito della organizzazione (vd. Doc. 34 B – 26 febbraio 2001); sul punto la<br />

convenuta osserva che l’autista era pur sempre provvisto del diploma di maestro d’arte<br />

e che l’allestimento delle strutture era compito esecutivo di cui non doveva continuarsi<br />

a occupare il dott. XXXX, provvisto di un bagaglio culturale che avrebbe preteso<br />

mansioni ben più qualificate: la giustificazione è palesemente contraddittoria e perciò<br />

assai debole: se infatti, si osserva, al dott. XXXX dovevano essere attribuiti compiti non<br />

esecutivi, lo si sarebbe dotato di un collaboratore esecutivo, competente ma anche<br />

stabile e non di un collaboratore occasionale, mandato in ferie subito dopo, senza alcuna<br />

sostituzione; lo si sarebbe dotato di funzioni qualificanti e non privato, come è stato, di<br />

ogni ruolo.<br />

ii 2) il 10 maggio 2001 il dott. XXXX segnala al Presidente che, nonostante<br />

sollecitazioni, atti urgenti predisposti dal dr. XXXX e sottoposti alla firma del dr. ZZZ,<br />

rimanevano bloccati per la firma alla Segreteria generale.<br />

ii 3) Il 14 maggio 2001 essendo fermo alla firma del Segretario Generale da 7<br />

giorni il prospetto di missione del dr. XXXX al Salone Libro di Torino, il medesimo<br />

sottopone promemoria al Presidente segnalando la sua impossibilità di assicurare<br />

l'usuale coordinamento in loco per l'allestimento dello stand camerale al Salone, che<br />

aprirà il 17 maggio, ovvero dopo tre giorni (doc. 38A -38B); a detta manifestazione il<br />

dott. ZZZ invierà altra persona (il sig. Auletta): sul punto le ragioni addotte nella<br />

memoria della A DI TRIESTE (pag. 52 vale a dire la opportunità che persona diversa<br />

dall’organizzatore facesse un “rapporto” della manifestazione) provano non solo la<br />

volontà di frustrare le aspettative del dott. XXXX di “completare il lavoro iniziato”,<br />

partecipando alla manifestazione, ma peggio, rivelano la sfiducia nel lavoro svolto dal<br />

dott. XXXX tanto da richiedere un “controllo” da parte di persona diversa, pur sempre<br />

appartenente all’ARIES;<br />

ii 4) Il dott. XXXX scrive dunque in data 15 maggio 2001 un appunto “riservato”<br />

al Presidente (doc. 38C) in cui lamenta la frammentazione di incarichi per le stesse<br />

iniziative, la privazione del coordinamento in loco per partecipazione a fiere dal<br />

medesimo organizzate, la mancata sostituzione della collaboratrice, assente per<br />

maternità da quasi un anno e infine la richiesta di intervento del Presidente stesso al fine<br />

di consentirgli di svolgere con efficienza l'attività di collaborazione con l'Azienda<br />

Speciale Aries (doc. 38C).<br />

Evidentemente – e nonostante la riservatezza dell’appunto che avrebbe forse<br />

richiesto ben altra condotta - il Presidente, esponendo nuovamente il dott. XXXX alla<br />

“reazione del dott. ZZZ, chiede spiegazioni direttamente a quest’ultimo esibendogli<br />

l’appunto riservato: il dott. ZZZ quindi chiede al dott. XXXX di precisare per iscritto<br />

quali sono le attività svolte a favore della camera di Commercio e se le attività svolte<br />

per ARIES avvengono durante l’orario di lavoro (doc. 39A).<br />

Se fosse fondato, a questo punto, il rilievo di parte resistente, secondo la quale in<br />

il dott. ZZZ veniva ad avere in questo consapevolezza del fatto che l’attività di<br />

collaborazione del dott. XXXX nei confronti dell’ARIES era svolta tutta –


illegittimamente - in orario di lavoro, avrebbe mosso un addebito disciplinare (era stato<br />

fatto per molto meno in precedenza): e invece non avviene nulla.<br />

La ragione è semplice e risiede nel fatto che l’ARIES è una azienda speciale della<br />

Camera di Commercio, istituita, è stato detto in giudizio, per ragioni fiscali, come<br />

azienda distinta dalla Camera di Commercio ma al fine di realizzare un obiettivo<br />

istituzionale della Camera stessa, quello della promozione delle aziende locali:<br />

in tale contesto non pare dubbio che la collaborazione svolta da XXXX fosse sia<br />

professionale (e in tal senso risultava un distinto incarico con emissione di fattura) sia<br />

istituzionale, in piena coerenza peraltro con lo statuto dell’Aries stessa;<br />

ii 5) Il 6 agosto 2001 l'Ufficio Protocollo assegna al dr. XXXX - che cura la<br />

mostra mercato della Barcolana - l'invito del Sindaco a partecipare - come ogni anno -<br />

alla riunione di coordinamento della Barcolana. Il dr. XXXX chiede istruzioni in<br />

Segreteria ma gli viene indicato per iscritto che alla riunione parteciperà altra persona (e<br />

non lui).<br />

*******<br />

In buona sostanza il dott. XXXX non solo viene impoverito di ruoli e mansioni,<br />

non solo viene ipercontrollato e sfiduciato in quelle che deve svolgere, ma viene nello<br />

stesso tempo privato di collaboratori, e posto quindi nelle condizioni di “fallire” i<br />

risultati di volta in volta assegnati.<br />

*****<br />

Sono, poi anche i tempi e i modi dei rilievi disciplinari da parte del dott. ZZZ nei<br />

confronti del dott. XXXX che non lasciano dubbi, neppure al prudente avv. Antonini<br />

(che ricorda nelle sue lettere apertamente di vantare con il dott. ZZZ un ottimo rapporto<br />

personale e di curare anche i corrispondenti interessi della camera di Commercio) sul<br />

carattere persecutorio del comportamento, che viene rilevato con forza nella sua lettera<br />

del 5 luglio 2001 (doc. 40B) alla quale il dott. ZZZ risponde, con tono che questo<br />

giudice ritiene persino offensivo, che l’avv. Antonini aveva travisato “nota e colloquio<br />

telefonico” (doc. 40C) (l’avv. Antonini accetterà il chiarimento considerandolo<br />

comunque un revirement della Camera di Commercio – vds lettera del 17 luglio 2001<br />

doc. 75 fasc A DI TRIESTE).<br />

Non pare tuttavia a questo giudice che vi fosse alcun travisamento, e che pertanto<br />

legittima e fondata fosse la lettera dell’avv. Antonini del 5 luglio 2001.<br />

jj) E vediamo i fatti: il 3 luglio 2001, il dott. ZZZ aveva richiesto al dott.<br />

XXXX, un'ora prima della partenza per 15 giorni di ferie da lui medesimo autorizzate,<br />

di controdedurre entro dieci giorni (ossia entro il 13 luglio 2001) in merito a due note<br />

presentate da vari espositori in data 6 e 8 giugno 2001:<br />

al di là del fatto che tale richiesta potesse o no configurare una espressa<br />

contestazione disciplinare resta, nel merito assolutamente pretestuosa e, perciò,<br />

gratuitamente vessatoria:<br />

le deduzioni infatti erano state richieste nonostante le note fossero già state<br />

segnalate e discusse dal Comitato di gestione il 2 luglio 2001, presente lo stesso dott.<br />

ZZZ, e nonostante fosse stata predisposta anche una lettera di risposta da cui risultava<br />

chiara la vicenda (vds le deduzioni dell’avv. Antonini lettera del 27.7.2001 - doc. 40<br />

D).<br />

In sostanza il dott. ZZZ aveva chiesto al dott. XXXX, un’ora prima di partire per<br />

le ferie, in data 4 luglio 2001 (assicurandosi il ricevimento della nota vds all al doc.74<br />

fasc. resistente) spiegazioni scritte su una vicenda di cui era già compiutamente a


conoscenza e nella quale era stata rilevata, a livello istituzionale, l’assenza di<br />

responsabilità da parte del dott. XXXX:<br />

come valutare questo ennesimo comportamento se non come quello di un mobber<br />

mosso da una pervicace volontà persecutoria ?<br />

Una attività che non ha freni e che, per la sua intensità, sembra la principale, se<br />

non esclusiva occupazione del dott. ZZZ:<br />

kk) il 15 ottobre 2001 – giorno di rientro dalla malattia che durava da circa un<br />

mese, viene comunicato al dott. XXXX un nuovo ordine di servizio: con ordine di<br />

servizio n. 18/01 per rispondere a una razionalizzazione delle attività camerali si<br />

dispone il trasferimento del dott. Stefano XXXX, responsabile della promozione (area<br />

a) dell’Ufficio promozione Studi e Statistica) all’Area di regolazione del mercato e di<br />

tutela della fede pubblica, dove assume l’incarico di responsabile dei procedimenti<br />

relativi alle sanzioni amministrative nonché dello svolgimento delle relative qualità<br />

Il dott. XXXX redige verbale di consegna degli incarichi camerali<br />

ll) A seguito di tale verbale il dott. ZZZ, nella mattinata del 17 ottobre, convoca<br />

nel suo ufficio il dott. XXXX e, alla presenza del capo ufficio personale, gli comunica il<br />

divieto a svolgere qualsiasi lavoro che non sia attinente al nuovo incarico di<br />

responsabile delle sanzioni amministrative. Il dott. XXXX fa presente di avere degli<br />

incarichi particolari, autorizzati con delibere giuntali, a svolgere al di fuori dell'orario di<br />

lavoro funzioni direttive per conto di Assonautica e dell'Azienda Speciale Aries:<br />

mm) Bene: con nota n. 30517 dello stesso giorno (17 ottobre) il dott. ZZZ<br />

formalizza al dott. XXXX il divieto a svolgere, senza sua autorizzazione, gli incarichi<br />

predetti.<br />

La “spoliazione” professionale sembra completata.<br />

B 3) il demansionamento<br />

A questo punto parlare di demansionamento solo in relazione all’ordine di servizio<br />

n. 18/01 non può che apparire riduttivo.<br />

Tuttavia l’esame del provvedimento e i suoi effetti hanno luogo separatamente sia<br />

perché esso è stato oggetto di autonoma impugnazione, sin dalla fase cautelare, sia<br />

perché in ogni caso costituisce sicuro aggravamento della condotta di <strong>mobbing</strong> posta in<br />

essere nei confronti del dott. Stefano XXXX.<br />

a) L’ordine di servizio n.18/01<br />

Dunque lo si ripete:<br />

con ordine di servizio n. 18 del 15 ottobre 2001 il Segretario generale dispone il<br />

trasferimento del dott. Stefano XXXX all’Area di regolazione del Mercato e di Tutela<br />

della fede pubblica con l’incarico di responsabile dei procedimenti relativi alle sanzioni<br />

amministrative nonché dello svolgimento delle relative attività.<br />

Il Dott. XXXX – si legge nell’ordine di servizio 18/2001 (doc.43) – provvederà<br />

alla consegna relativa agli incarichi sinora svolti al dott. Francesco Auletta<br />

dell’azienda Speciale ARIES<br />

Egli perde da questo momento ogni altra funzione, la sua occupazione<br />

istituzionale è ridotta al ruolo di “responsabile dei procedimenti relativi alle sanzioni


amministrative”, mansione già compresa e in via assolutamente marginale nelle<br />

funzioni sino ad allora svolte.<br />

In quella funzione il dott. XXXX svolgeva un mero ruolo di consulente perché<br />

l’accertamento delle violazioni amministrative rimaneva in capo ad altri uffici (che<br />

essendo dotati di collaudata esperienza neppure chiedevano la sua consulenza) e la<br />

elaborazione delle sanzioni solo eventualmente controllata dal dott. XXXX (vds teste<br />

Coloni nel procedimento ex art. 700 cpc e verbale udienza 11.7.2003).<br />

b) Perdita di incarichi retribuiti. L’Enasarco<br />

Il dott. XXXX perde contestualmente anche ogni altro incarico retribuito, perché<br />

con lettera del 17 ottobre 2001 – formalmente collegata all’ordine di servizio – gli viene<br />

ricordato dal dott. YYY ZZZ che non può svolgere incarichi retribuiti se non conferiti o<br />

previamente autorizzati dal sottoscritto (che non ha però alcuna intenzione di conferirli)<br />

ai sensi del combinato disposto degli art.4 e 53 D.lgs 165/2001 che per opportuna<br />

conoscenza Le si trasmettono in allegato.<br />

Perde la collaborazione tecnico professionale con ARIES e con Assonautica,<br />

perde il ruolo di docente dei corsi di formazione e aggiornamento ENASARCO, che<br />

svolgeva dal 1986 (vds i prospetti dell’”anagrafe delle prestazioni e incarichi relativi<br />

agli anni 2000, e 2001).<br />

La giustificazione invocata dal dott. ZZZ per non rinnovare l’incarico è<br />

palesemente inconsistente e sposta apparentemente il cuore del problema:<br />

egli ricorda che l’incarico deve essere previamente autorizzato, fatto di cui non si<br />

dubita, né sarebbe stato necessario precisarlo se non per ricordare, e questo appare il<br />

senso, l’unico, della lettera, che l’autorizzazione dipendeva solo da lui, dott. ZZZ, il<br />

quale era (e questo è il messaggio non scritto, ma forte che traspare dalla lettera ed è<br />

confermato dal comportamento successivo) ben lungi dall’essere disposto a concederla<br />

al dott. XXXX.<br />

Nessuno dei provvedimenti può ritenersi motivato<br />

Non vi sono infatti motivi ragionevoli, peraltro non estrinsecati nella lettera, né in<br />

alcun modo emersi nel corso del giudizio, dipendenti da esigenze di sXXXXa ovvero da<br />

un negligente espletamento dell’incarico, per revocare ogni incarico al dott. XXXX.<br />

Il teste Delle Vedove Franco, funzionario dell’ENASARCO, è stato chiarissimo<br />

nel riferire come si è svolta l’intera vicenda e si riporta la sua testimonianza che vale<br />

anche a riprendere fatti già sopra esaminati, ma ora inseriti in un compiuto contesto:<br />

L’Enasarco è ente degli agenti e rappresentanti di commercio, iscritti anche alla<br />

Camera di commercio; con le legge 204/1985 sono stati introdotti dei requisiti<br />

per l’accesso al ruolo e chi non li aveva doveva fare un corso, interlocutori<br />

privilegiate a tale fine erano le Camere di commercio, alle quali avevamo chiesto<br />

la collaborazione sia per i locali sia per la nomina di un funzionario camerale<br />

direttore dei corsi e quindi nel 1986; su richiesta dell’ENASARCO la A DI<br />

TRIESTE di Trieste ha indicato il dott. XXXX, il quale, avendo poi un rapporto<br />

diretto con l’Enasarco riceveva un compenso (i corsi venivano fatti di sera dopo<br />

l’orario di lavoro e il dott. XXXX, laureato in giurisprudenza teneva anche<br />

lezioni; lo staff era composto oltre che dal dott.XXXX anche da altre tre docenti).


Il rapporto è andato avanti per anni in maniera impeccabile fino a qualche<br />

anno fa (l’anno si desume dalla corrispondenza);<br />

venivano tenuti in media due corsi all’anno.<br />

Poi ad un certo punto, nonostante avessimo il numero di allievi pronti per il<br />

corso, il dott. XXXX mi informava che era bloccato e non aveva più<br />

l'autorizzazione della Camera di commercio;<br />

dal momento che io dovevo tutelare gli interessi dei corsisti, mi sono<br />

premurato di sollecitare una definizione della cosa sia parlando con il dott. ZZZ<br />

sia parlando con il presidente Donaggio, che si è limitato a darmi assicurazioni<br />

che la situazione sarebbe stata sbloccata. Ricordo che il Presidente aveva<br />

chiamato anche il dott. ZZZ, di fronte a me non sono stati fatti grandi discorsi, mi<br />

pare che il dott. ZZZ ha tergiversato dicendo che il dott. XXXX non aveva più<br />

l’incarico di responsabile dell’ufficio Albi e Ruoli (ruolo che non era mai stato<br />

richiesto per lo svolgimento di quell’incarico).<br />

Io avevo detto che non avevamo nessun motivo per sostituire il dott. XXXX<br />

che aveva fatto un ottimo servizio, ma che se c’erano problemi mi dessero il nome<br />

di un altro funzionario.<br />

Il dott. ZZZ mi ha dato il nominativo di tale Gallina, che da quel che mi<br />

risulta mi pare fosse direttore dell’ARIES<br />

Non ho potuto concretizzare nulla perché il sig. Gallina non aveva la<br />

laurea, requisito essenziale ex legge 204/1985 per poter svolgere l’incarico; io<br />

l’ho fatto subito presente; in ordine alla mancata nomina del dott. XXXX mi pare<br />

che mi abbiano detto che il dott. XXXX svolgeva un altro lavoro, non era più<br />

responsabile del ruolo… non sono mai andato a sindacare perché il problema era<br />

interno alla Camera di Commercio<br />

Nel frattempo il tempo passava e alla fine dopo vari solleciti, mi pare che la<br />

risposta sia arrivata con il senso “solo per questa volta”. Si dovrebbe desumere<br />

dalle lettere<br />

Abbiamo dunque tenuto questo corso e anche altri sempre con il dott.<br />

XXXX, ma ogni volta si ripresentava questo “tiramolla” e dovevamo pregare ogni<br />

volta per l’autorizzazione, ricordo che si doveva aspettare ogni volta per un certo<br />

tempo e si doveva attivare il dott. XXXX.<br />

In seguito, a partire dal 2002, i corsi non sono stati più istituiti in forza di<br />

una deliberazione del consiglio di amministrazione e di una decisione del giudice<br />

del registro delle imprese che si adeguava a una decisione della Corte di<br />

Giustizia delle comunità europee<br />

Adr nella vicenda della mancata autorizzazione al dott. XXXX non mi hanno<br />

mai fatto richiamo a nuove norme di legge, così almeno mi ricordo, ma il ricordo<br />

è rafforzato dal fatto che al dott. XXXX in seguito l’incarico è stato riconfermato.<br />

Non so quali fossero le lettere di incarico al dott. XXXX, né so se nel 1986<br />

l’autorizzazione fosse stata data senza limiti di tempo o per singoli corsi; posso<br />

dire che da parte dell’ENASARCO il nome di un funzionario era stato chiesto per<br />

tutti i corsi che si fossero organizzati e da parte nostra l’incarico veniva dato per<br />

ciascun corso, in relazione ai singoli impegni di sXXXXa.<br />

Dalla testimonianza, unita alla corrispondenza già sopra esaminata, si rilevano<br />

elementi univoci per ritenere che il dott. XXXX non è stato più nominato a causa del<br />

gratuito ostruzionismo opposto dal dott. ZZZ, il quale dapprima ha addotto che il dott.<br />

XXXX non era più responsabile dell’ufficio Albi e Ruoli (condizione non necessaria e<br />

comunque non esistente già da anni e neppure ventilata nella lettera), poi ha indicato un<br />

altro funzionario in sostituzione del dott. XXXX, non avvedendosi però che non


avrebbe potuto assumere l’incarico perché non laureato (il sig Gallina responsabile di<br />

ARIES, azienda speciale della A DI TRIESTE sotto il diretto controllo del segretario<br />

generale, seppure il sig. Gallina non fosse mai stato sentito in merito e avesse dichiarato<br />

di non aver avuto alcun rapporto con l’Enasarco – vd testimonianza Gallina pag.24).<br />

Le dichiarazioni, libere, del dott. ZZZ, all’esito della testimonianza del sig. Delle<br />

vedove (“non so cosa avrei dovuto fare”), confermano, ove vi fosse ancora un margine<br />

di dubbio, anche la sua assoluta mala fede.<br />

Il risultato tuttavia è certo ed è che il dott. XXXX non solo non ha più ricevuto<br />

quell’incarico, ma neppure molti altri (vds le tabelle degli incarichi conferiti ai<br />

dipendenti della A DI TRIESTE dal 2000 al 2003 prodotte dalla resistente su ordine del<br />

Giudice).<br />

c) La tutela cautelare. L’ordine di servizio n. 24/01<br />

Il dott. Stefano XXXX impugna con ricorso ex art. 700 cpc depositato il<br />

17.11.2001 l’ordine di servizio n. 18/2001, esponendo anche la serie di vessazioni<br />

subite.<br />

Nel corso del procedimento, con ordine di servizio n.24 del 21 dicembre 2001, il<br />

Segretario generale nel dichiarato proposito di “chiarire i compiti dell’Area di<br />

regolazione del mercato” specifica che i compiti del dott XXXX, in ordine all’attività<br />

ex UPICA e alle sanzioni amministrative consistono nell’intervenire nella fase<br />

successiva all’accertamento e all’eventuale pagamento liberatorio, curando l’aspetto<br />

giuridico ma avvalendosi dell’esperienza della rag. Labianca – D1 (di livello inferiore<br />

del ricorrente), provvedendo alla stesura di comparse e partecipazione alle udienze,<br />

fornire la consulenza giuridica alla rag Gregoris per l’attività inerente all’Albo<br />

Promotori di Servizi Finanziari e al Ruolo dei Periti, e a vari Elenchi;<br />

nel collaborare all’attività di analisi degli statuti degli enti partecipanti ai consorzi<br />

e della legislazione ;<br />

nel curare infine la raccolta degli usi.<br />

Il Giudice del procedimento cautelare (vds ordinanza dott. Multari 15.1.2002), con<br />

motivazione che qui si condivide e si richiama, aveva già ritenuto che l’ordine di<br />

servizio n. 18/2001 aveva costituito una dequalificazione professionale del dott. Stefano<br />

XXXX anche in termini di perdita di prestigio;<br />

aveva rilevato che il dott. XXXX non aveva neppure una collocazione precisa<br />

all’interno dell’AREA , non aveva un proprio ufficio, inteso come entità autonoma;<br />

e aveva ritenuto prive di rilevanza le dichiarazioni della parte convenuta relative<br />

al carattere transitorio della situazione dovuto alla recente istituzione dell’Area e<br />

inidonee a modificare la sostanza del provvedimento impugnato constatando che la<br />

“consulenza giuridica” del dott. XXXX” si profilava pressoché inutile perché non<br />

richiesta da uffici che seguivano una prassi consolidata nel tempo.<br />

Né aveva rilevato sostanziali modifiche con l’ordine di servizio n. 24/2001<br />

In sintesi: le formali, e a tratti persino solenni, espressioni dell’ordine di servizio<br />

24/2001 nascondono il sostanziale vuoto di attribuzioni, risultando così, a parere di<br />

questo giudice, persino gravemente irridenti non solo della dignità del funzionario, ma<br />

della stessa intelligenza del giudice chiamato a valutare la effettiva volontà conciliativa<br />

delle Parti essendo quell’ordine di servizio intervenuto a tale fine sia nel corso del


procedimento cautelare (vd verbale ud. 18.12.2001-dott. Multari) sia nel corso del<br />

presente giudizio dove è stato ribadito e ripreso<br />

d) La vuota “potenzialità” dell’Area di Regolazione di Mercato:<br />

Ha ben presente questo giudice come all’Area di Regolazione di Mercato si siano<br />

attribuite “moltissime potenzialità” insistendo su questo aspetto per evidenziare come<br />

solo in quest’Area il dott. XXXX avrebbe potuto realmente sviluppare la propria<br />

professionalità ed esperienza (è una impressione che esprime anche la teste Marega).<br />

La determinazione con cui questa tesi è stata esposta in via di eccezione, negli atti<br />

e nel corso del libero interrogatorio in cui le Parti si sorprendono, a volte persino si<br />

indignano perché il dott. XXXX non sa cogliere l’opportunità di valorizzazione che gli<br />

viene offerta, aveva quasi convinto anche il giudicante sulla sincerità della<br />

prospettazione.<br />

Ma la realtà delle effettive competenze dell’Area di regolazione di Mercato e dei<br />

compiti concretamente assegnati al dott. XXXX, secondo quanto è emerso<br />

nell’istruttoria e a una più attenta lettura di atti e provvedimenti, è così lontana dalle<br />

asserite “potenzialità” da far apparire ingannevole la prospettazione, e comunque<br />

assolutamente infondata l’allegazione proposta in via di eccezione da parte resistente.<br />

Basti solo ricordare che molte delle attività che apparivano inserite nelle<br />

competenze di quell'Area, e segnatamente affidate al dott. XXXX, sono state man<br />

mano tolte e attribuite ad altri uffici o settori:<br />

- si pensi ad esempio all’attività di promozione delle forme di controllo sulla<br />

presenza di clausole inique, tolta al dott. YYY ZZZ e affidata all’ARIES e da<br />

lui medesimo direttamente controllata;<br />

- si pensi, ancora, allo sportello di conciliazione, che nelle intenzioni doveva<br />

essere affidato all’Area di regolazione del Mercato, ma poi è stato<br />

direttamente affidato al Segretario generale, che neppure consente al dott.<br />

XXXX di aggiornarsi in materia (vds doc. 95-96, 97 e la richiesta di<br />

partecipazione al convegno – negata – doc. 98-99 fasc ric), dandogli anche<br />

l’umiliazione di preferire che altri funzionari (vds dott. Vincis) partecipino ai<br />

convegni e si qualifichino responsabili del relativo ufficio.<br />

E’ evidente che, al di là della solenne dichiarazione di stima, ostentata anche in<br />

udienza, nei confronti del dott. XXXX, vi è la costante, decisa, perseverante volontà di<br />

squalificarlo, di annullarne ogni dignità professionale e personale, di impedirgli ogni<br />

miglioramento professionale:<br />

La contraddizione tra ciò che viene manifestato a parole dal dott. ZZZ e ciò che il<br />

“cuor intende” e poi esprime nei provvedimenti è così stridente da svelare senza<br />

equivoci il dolo che anima il suo <strong>mobbing</strong>.<br />

e) L’inosservanza del provvedimento cautelare dd 15.1.2002


Ne costituisce un’altra interessante espressione il comportamento tenuto dal dott.<br />

ZZZ dopo l’ordine dato dal Giudice alla Camera di Commercio di “assegnare<br />

immediatamente al ricorrente mansioni equivalenti al suo livello di inquadramento”,<br />

ordine che spettava precipuamente al dott. YYY ZZZ, dirigente del personale, attuare in<br />

concreto, e che viene invece deliberatamente quanto artatamente disatteso.<br />

La testimonianza della dottoressa Coloni e la documentazione acquisita nel corso<br />

della prova relativa alla corrispondenza intercorsa tra la dott. Coloni e il dott. ZZZ in<br />

ordine alla attuazione del provvedimento dato dal giudice della fase cautelare non<br />

lasciano equivoci in ordine al comportamento maliziosamente persecutorio del dott.<br />

YYY ZZZ.


La dott.ssa Coloni ha spiegato di avere avuto dal dott. ZZZ l’ordine di emettere un<br />

ordine di servizio analogo a quello n. 24/01, ma a propria firma con l’aggiunta di un<br />

“incarico” per il dott XXXX”;<br />

tale ordine giunge dal dott. ZZZ senza che la dott. Coloni avesse avuto visione<br />

diretta della ordinanza del giudice dott. Multari, dalla lettura della quale avrebbe<br />

immediatamente rilevato che non aveva senso alcuno emettere un ordine identico ad<br />

altro ritenuto illegittimo;<br />

il senso, l’unico, che si desume da tale condotta, è che il dott. ZZZ non intendeva<br />

affatto rispettare l’ordinanza del giudice e ha voluto darvi solo apparente ottemperanza,<br />

violando, da un lato, un ordine giurisdizionale, e offendendo, dall’altro, la dignità e<br />

l’intelligenza dei propri collaboratori.<br />

Questa la testimonianza della dott. Coloni:<br />

dopo l’ordinanza del giudice Multari il segretario generale mi ha chiamato per<br />

dirmi che lui avrebbe revocato l’ordine di servizio n. 24/01 e chiedendomi di emettere<br />

un ordine di servizio analogo, a mia firma, con l’aggiunta dello studio dell’arbitrato<br />

rituale e irrituale e il compito di predisporre un nuovo regolamento. Io in quella sede,<br />

non ero venuta a conoscenza del fatto che nel frattempo il Giudice aveva ritenuto<br />

quell’ordine di servizio inidoneo ai fini dell’affidamento delle mansioni al dott. XXXX;<br />

il dott. ZZZ mi ha mandato poi una lettera dd 29.1.2002 in cui mi faceva presente che<br />

all’interno dell’area non ci potevano essere settori dotati di autonomia funzionale, mi<br />

diceva in sostanza di fare un solo ufficio con varie attività, mi diceva che attendeva mie<br />

proposte e mi chiedeva di affidare al dott. XXXX funzioni corrispondenti al suo profilo<br />

professionale. Ma mi dice lei come facevo io ad affidare queste funzioni se all’interno<br />

dell’area non c’erano più settori dotati di autonomia funzionale?<br />

Se avessi conosciuto l’ordinanza mi sarebbe emerso subito all’evidenza che non<br />

potevo andare a copiare il contenuto di quell’ordine di servizio, già giudicato inidoneo.<br />

Ho visto l’ordinanza del giudice quando mi ha mandato la lettera del 29.1.2002 e<br />

della copia mancava la pag. 4 (quella in cui il giudice ritiene illegittimo l’ordine) che<br />

mi sono procurata all’ufficio personale.<br />

Risposi dunque con lettera dd 31 gennaio 2002 senza fare alcun preventivo<br />

colloquio con il dott. ZZZ e gli ho fatto delle proposte scritte<br />

Seguiva una lettera del dott. ZZZ del 6 febbraio 2002<br />

E successive risposte<br />

Da tale carteggio - allegato al verbale di udienza 11.7.2003 - questo giudice<br />

rileva:<br />

1) che il dott. ZZZ subordina la revoca dell’ordine di servizio 24/01 alla<br />

elaborazione di un identico ordine di servizio da parte della dott. Coloni, aggiungendo<br />

un compito per il dott. XXXX (studio dell’arbitrato rituale e irrituale) da svolgere però<br />

“sotto la guida” della stessa dott. Coloni, direttiva che contraddice vistosamente con<br />

l’intento (indicato anche nel corso del libero interrogatorio) di “affiancare “alla dott.<br />

Coloni il dott. XXXX come esperto nelle materie giuridiche e rivela, la effettiva e unica<br />

intenzione del dott. ZZZ di non riconoscere alcun autonomo compito al dott. XXXX;<br />

2) di fronte alla risposta della dott. Coloni (31.1.2002), che svela la illogicità della<br />

direttiva, e offre comunque una proposta di riorganizzazione dell’Area con<br />

l’affidamento al dott. XXXX del ruolo di responsabile, la risposta del dott. ZZZ<br />

(6.2.2002) è sconcertante:


mentre, da un lato, svela la volontà di vanificare, nell’immediato, l’efficacia del<br />

provvedimento cautelare a causa del suo carattere “provvisorio e urgente”, dall’altro<br />

dichiara di non avere più fiducia nella dott. Coloni (che aveva forse osato parlargli con<br />

chiarezza), e la minaccia, neppure velatamente, di licenziamento nella successiva nota<br />

del 12.2.2002.<br />

Si spiega perciò come la teste abbia chiesto all’esito di una testimonianza lucida,<br />

coerente, a tratti persino coraggiosa, assolutamente credibile anche perché confortata da<br />

completa documentazione, una “rassicurazione” sulle possibili conseguenze delle sue<br />

dichiarazioni (Vorrei che mi fossero date assicurazioni sul fatto che non subirò<br />

conseguenze per questa mia testimonianza).<br />

La lettura della corrispondenza acquisita (allegata al verbale dell’11 luglio 2003)<br />

rende dunque evidente non solo uno stato di tensione e vessazione, ma anche un<br />

atteggiamento di inaccettabile prepotenza, tanto sottile quanto arbitraria.<br />

La dott.ssa Coloni ha comunque eseguito la disposizione del Segretario Generale<br />

elaborando e sottoscrivendo – su delega del dott.ZZZ - l’ordine di servizio n. 4/02 del<br />

12.2.2002, nel quale il dott. XXXX risultava indicato come “responsabile per le attività<br />

dell’Area”;<br />

a detto ordine però il dott. ZZZ ne fa poco dopo seguire un altro 6/02 il 29.3.2002<br />

da lui sottoscritto nel quale il dott. XXXX viene indicato come “responsabile<br />

sostituto”:<br />

la differenza - spiega la dott. Coloni - tra l’ordine di servizio 4/02 (doc. 88)<br />

e l’ordine 6/02 (doc 89 fasc ricorrente) è sostanziale: nel primo caso il<br />

responsabile ha un potere autonomo di ingerenza negli uffici e di coordinare un<br />

qualcosina, nel secondo caso ha questi poteri solo quando sostituisce il dirigente;<br />

quando io ci sono è a capo solo del proprio ufficio cioè di se stesso.<br />

L’ordine 6/02 è diXXXXo da una riorganizzazione dell’ufficio che ha<br />

comportato la riduzione del personale di venti unità circa: di questa cosa sono<br />

stata informata a cose fatte, senza alcuna preventiva consultazione né<br />

comunicazione; era la vigilia di Pasqua<br />

Pare dunque che il metodo del dott. ZZZ sia quello di rispettare (rectius fingere di<br />

rispettare) in un primo tempo le disposizioni superiori (così era avvenuto anche per<br />

l’invito della Giunta del 22 settembre 2002, così è avvenuto per il rag. Ziberna, come si<br />

vedrà più avanti B-4 d) attendendo e preparando il momento di ribaltare ogni situazione<br />

riportandola al regime del proprio gradimento: nell’occasione, non solo “svuota<br />

nuovamente il ruolo del dott. XXXX, ma anche quello della dott.ssa Coloni, riducendo<br />

sensibilmente il personale dell’Area.<br />

f) Gli attuali compiti del dott. Stefano XXXX<br />

V’è da chiedersi, ed è stato chiesto, sin dalla fase del libero interrogatorio delle<br />

Parti, quali siano in buona sostanza gli attuali compiti del dott. XXXX


La dott. Coloni dirigente dell’Area di regolazione di mercato istituti nel 2000, e<br />

sovraordinata al dott. XXXX, in ordine alle attuali funzioni di quest’ultimo, ha<br />

dichiarato:<br />

Il dott. XXXX nel nostro ufficio di cui io sono dirigente dal 2000, l’anno in<br />

cui è stato istituito, è responsabile dell’Ufficio regolazione di mercato; Dirigente<br />

è chi coordina e il responsabile è colui che fa tutti gli atti ed è responsabile dei<br />

relativi procedimenti amministrativi;<br />

Va però notato che il dott. XXXX non ha affatto la qualifica di responsabile<br />

perché tale mansione è stata modificata con l’ordine di servizio n. 6/2002 come la<br />

stessa dott. Coloni ha spiegato<br />

Da noi il dott XXXX fa la revisione della raccolta degli usi (quasi ultimata),<br />

si occupa di questioni inerenti ai consumatori, ha fatto un lavoro di ricerca della<br />

clausole vessatorie, si è occupato della costituzione dello sportello di<br />

conciliazione:<br />

Subito dopo aggiunge però che tale sportello non è ancora avviato;<br />

è emerso peraltro nel corso dell’istruttoria, che la Conciliazione (una sorta di<br />

sportello di comunicazione con gi utenti via internet) on line era stata affidata<br />

all’avv. Bernardis e alla sig. Bozzo, per diretta iniziativa del dott ZZZ che aveva<br />

considerato il progetto, unitamente al servizio per il controllo delle clausole<br />

vessatorie, come rientrante nella sua esclusiva competenza (vds lettera del 26<br />

maggio 2003 – all ud. 19.9.2003) sostanzialmente sottraendolo alle competenze<br />

dell’area di regolazione del mercato (vds i chiarimenti richiesti dal dott. XXXX in<br />

lettura del 19.5.2003) senza riconoscere al dott. XXXX alcun autonomo compito<br />

in materia ( vds dichiarazioni del dott. XXXX ud. 19.9.2003 e documentazione<br />

allegata);<br />

è emerso altresì che alle conferenze in materia di conciliazione venne inviato<br />

un altro dipendente: in buona sostanza in materia di conciliazione il dott XXXX<br />

non svolge alcun compito con responsabilità e autonomia.<br />

La dott.ssa Coloni ha spiegato altresì che il dott. XXXX ha curato la<br />

costituzione di questo centro Euroarbitrato che però non è attivo perché<br />

dobbiamo formare gli arbitri; ha curato il seminario organizzato il 6.6.2003 (vds<br />

brossure allegata al verbale):<br />

va tuttavia notato che il compito del dott. XXXX è stato quello di ricevere<br />

un pacchetto fornito dal Central EDR di Torino e di renderlo operativo, senza<br />

bisogno di alcun autonomo contributo creativo.<br />

Ha poi curato una iniziativa che si chiama “Patto sicuro” sorta in<br />

collaborazione con le quattro camere di commercio della Regione che consiste<br />

nella adozione di un decalogo di comportamento da parte delle agenzie<br />

immobiliari aderenti a garanzia del consumatore:<br />

Anche in questo caso tuttavia il dott. XXXX si è limitato, per sua stessa<br />

ammissione, a recepire il modulo predisposto da un collega di Udine, in quanto la<br />

Camera di Commercio di Trieste aveva aderito al progetto<br />

E poi si occupa della emissione delle ordinanze ingiunzione: fornisce<br />

consulenza alla dipendente in materia di ordinanze riguardanti la benzina<br />

agevolata e il registro imprese; in particolare l’ordinanza è predisposta dalla


dipendente, il dott. XXXX fornisce la propria consulenza (controlla e mette la sua<br />

sigla) e io la sottoscrivo<br />

rappresenta l’ente camerale davanti alla autorità giudiziaria, redige le<br />

comparse su incarico del segretario generale, che le firma.<br />

Va rilevato che le ordinanze ingiunzioni emesse in un anno sono ben poche,<br />

e sono state solo sei i casi di impugnazioni, dunque non si tratta di un compito<br />

che incide sensibilmente sui tempi dell’attività giornaliera del dott. XXXX<br />

Nel suo ufficio è solo. C’è un dipendente all’interno dell’ufficio Albi e Ruoli<br />

che collabora con lui su sua richiesta<br />

Il dott. XXXX ha fatto un corso di computer e si scrive le sue cose da solo,<br />

come del resto faccio io.<br />

Recentemente, dal 1 giugno 2003, è stato incaricato anche in qualità di<br />

responsabile del procedimento amministrativo dei protesti cambiari; la Camera<br />

di Commercio tiene una banca dati dei protestati e in determinate condizioni il<br />

protestato può ottenere la cancellazione; ha una persona che collabora con lui<br />

per questo incarico, una persona non affidata direttamente a lui, ma inserita<br />

nell’Area e della quale può chiedere direttamente la collaborazione<br />

In questi giorni sta concludendo la raccolta degli usi<br />

L’Area di Regolazione del Mercato ha dieci persone, undici con XXXX.<br />

Il Dott. XXXX, oltre a i due indicati, non può avvalersi di altri dipendenti,<br />

perché non è suo l’ ufficio, può farlo quando io non ci sono perché mi sostituisce.<br />

In sostanza all’interno dell’Area di Regolazione di mercato in cui è inserito<br />

il dott. XXXX ha singoli incarichi e non interferendo con i vari settori dell’ufficio<br />

(ufficio metrico, ufficio Ambiente, ufficio albi e ruoli, ufficio brevetti, ufficio<br />

protesti) non si può avvalere dei relativi dipendenti se non limitatamente ai due<br />

casi che detto prima.<br />

Se vi fossero necessità dovrebbe chiedere a me di avvalersi di qualcun altro.<br />

g) L’opera di erosione della professionalità<br />

Pare evidente a questo giudice che il dott XXXX<br />

da un settore operativo in cui – almeno fino al 1994-1995 – gli è conferito un<br />

ruolo di dirigente di strutture complesse, gli sono richiesti dinamismo, fantasia,<br />

iniziativa, autonomia decisionale, in cui ha una molteplicità e varietà di relazioni sociali<br />

e personali, anche con organi di vertice, in cui assume direttamente responsabilità e<br />

iniziative e realizza risultati, in cui ha modo di trasmettere e arricchire il proprio<br />

bagaglio attraverso corsi di formazione, che ne accrescono e suggellano il prestigio e la<br />

stima di cui gode all’interno dell’ente (basti vedere la nutrita serie di incarichi che<br />

svolge negli anni 1995-1996 vd prospetti di anagrafe delle prodotti su ordine del<br />

giudice),<br />

passa a un settore in cui non ha la direzione di alcun ufficio, non ha neppure<br />

collaboratori diretti, e gli vengono richiesti, di volta in volta, quasi “elemosinati”<br />

rispetto al suo desiderio di lavorare, singoli incarichi di studio e ricerca anche per settori<br />

via via deliberatamente sottratti alla sua competenza (vd clausole vessatorie e<br />

conciliazione):<br />

per quanto importanti possano sembrare gli incarichi (si pensi alla raccolta degli<br />

usi – che doveva peraltro essere solo aggiornata essendosene già occupato in precedenza


- e la individuazione delle clausole vessatorie), essi sono però assolutamente limitati per<br />

durata e quantità, e certamente potrebbero e dovrebbero essere affiancati ad altre<br />

funzioni, consone alla qualifica e alla posizione contrattuale rivestita per consentire il<br />

pieno espletamento della professionalità del dipendente.<br />

Le funzioni attuali dunque (essendosi esaurito il lavoro di elaborazione delle<br />

clausole vessatorie, e di raccolta degli usi) ed essendo stato sottratto quello relativo alla<br />

conciliazione, e non ancora decollato quello relativo all’arbitrato, sono in sintesi le<br />

seguenti:<br />

1) consulenza (da nessuno richiesta) in ordine alla elaborazione di<br />

ordinanze- ingiunzione e rappresentanza dell’ente nei (rari) giudizi di<br />

opposizione<br />

2) ruolo di responsabile del procedimento amministrativo in<br />

materia di protesti cambiari<br />

Non se ne ravvisano altre.<br />

E se si rileggono con attenzione le dichiarazioni rese dal dott. ZZZ nel corso del<br />

libero interrogatorio svolto all’udienza dell’11 aprile 2003 (in virtù della sua laurea in<br />

giurisprudenza il dott. XXXX ….fa il supporto giuridico di tutto il reparto; in concreto<br />

si occupa della revisione periodica degli usi (che prevede l’attivazione di una serie di<br />

commissioni e sottocommissioni), si occupa della tutela del consumatore, avviando<br />

specifiche istruttorie per accertare eventuali abusi; verifiche le clausole vessatorie dei<br />

contratti delle agenzie immobiliari; ed è autorizzato a procedere autonomamente fino<br />

all’azione inibitoria davanti alla magistratura; va in giudizio in rappresentanza della<br />

A DI TRIESTE a difendere la Camera in Commissione Tributaria (è un incarico che ho<br />

conferito oggi e che non ha ancora visto); segue l’arbitrato internazionale (parla<br />

perfettamente il tedesco) e seguirà le conciliazioni: si tratta di un settore in evoluzione)<br />

si comprende bene come nella sostanza l’attività del dott. XXXX si riduca a ben<br />

poco e che fondata è la sua autovalutazione dell’inutilità del suo operato (l’ufficio<br />

regolazione di mercato è un ufficio pieno di fumo, se mi chiedono di dare la caccia alle<br />

mosche io lo faccio con il massimo impegno);<br />

avuto riguardo infatti, da una parte, alla drastica riduzione delle funzioni e alla<br />

progressiva cessazione di singoli incarichi e, dall’altra, alla sostanziale sottrazione<br />

all’Area di competenza di alcuni importanti funzioni, l’attività concretamente svolta dal<br />

dott. XXXX è nella sostanza quasi inesistente, tanto che ben si può ben dire che non è<br />

chiamato a fare sostanzialmente nulla, perché i compiti assegnati sono già esauriti e<br />

null’altro gli è stato affidato.<br />

Perciò, anche alla luce dell’intero contesto in cui si è articolato il rapporto tra il<br />

dott. ZZZ e il dott XXXX, e dell’animus che ha determinato ogni decisione, è realmente<br />

maliziosa e intrisa di profonda ipocrisia la dichiarazione resa dal dott. ZZZ all’udienza<br />

dell’11.4.2003: Io penso che il dott. XXXX, in buona fede, non si renda conto di quale è<br />

la potenzialità che lui ha in questo settore; gli ho fatto un appunto di elogio per la<br />

lettera che ha fatto ai mediatori; è un funzionario validissimo<br />

Non so perché ci troviamo qua; so solo che XXXX faceva un tipo di lavoro che a<br />

me non piaceva che lui facesse per il tipo di competenze che ha; si occupava di lavoro<br />

promozionale (organizzava le fiere dirigendo materialmente la apposizione delle<br />

casette); in sostanza tutte le iniziative che ho assunto per il dott. XXXX sono state a sua<br />

tutela


I compiti effettivamente assegnati al dott XXXX, anche quelli occasionali,<br />

rientrano certamente nel suo livello di conoscenza, ma non possono dirsi esaustivamente<br />

coerenti con il suo inquadramento, perché non solo non gli consentono di utilizzare<br />

l’esperienza pregressa e di accrescere la propria professionalità, ma in quanto limitati in<br />

quantità e qualità, palesemente la impoveriscono, sottraendogli anche un bagaglio di<br />

relazioni che aveva intessuto con passione e in una attività così intensa da risultare<br />

frenetica, per lo svolgimento dei vari incarichi istituzionali (capo servizio) e<br />

professionali (vds collaborazione Aries) isolandolo, anche fisicamente, in un ufficio in<br />

cui deve “chiedere il permesso del dirigente” anche per poter godere della<br />

collaborazione di singoli impiegati.<br />

Al trasferimento d’ufficio, al sostanziale svuotamento di mansioni, alla privazione<br />

di un ruolo direttivo, è anche seguita per il dott. XXXX la revoca ovvero il sistematico<br />

mancato conferimento di incarichi con connesse sensibili conseguenze economiche: i<br />

prospetti prodotti dalla A DI TRIESTE su ordine del giudice rivelano senza possibilità<br />

di diversa interpretazione l’assenza di incarichi del dott. XXXX dopo l’ottobre 2001: a<br />

tale progressiva carenza di incarichi non si accompagna alcuna motivazione da parte<br />

della A DI TRIESTE.<br />

Deve dunque ritenersi in fatto realizzata una XXXXante dequalificazione<br />

professionale del dott. XXXX a causa dell’ordine di servizio 18/01, sostanzialmente<br />

confermato da quello n. 24/01, dalla lettera dd 17 ottobre 2001, e dai provvedimenti<br />

successivi (n.6/02) che vengono perciò considerati illegittimi.<br />

h) La tutela normativa del demansionamento<br />

L’attenzione riservata al demansionamento, ben lungi dall’essere determinata dal<br />

considerarlo un fatto autonomo rispetto al contesto dei rapporti, è piuttosto giustificata<br />

dall’avere il divieto di dequalificazione professionale, nel nostro ordinamento, una<br />

puntuale previsione e una specifica tutela che trovano nell’art. 2103 del cod.civ e<br />

nell’art. 52 D.lgs 30 marzo 2001 n. 165 la loro diretta fonte.<br />

Stabilisce l’art. 52 d.lgs 165/2001: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle<br />

mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti<br />

nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a<br />

quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per<br />

effetto dello sviluppo professionale di procedure concorsuali o selettive<br />

Non si dubita che il datore di lavoro abbia diritto di mutare le mansioni in ragione<br />

dell’esigenze dell’organizzazione del proprio servizio, ma l’esercizio dello ius variandi<br />

è limitato dal rispetto del principio di equivalenza violato ogniqualvolta le nuove<br />

mansioni comportino uno stravolgimento e depauperamento del patrimonio<br />

professionale del lavoratore.<br />

In tale prospettiva non vi sono differenze tra l’art. 52 D.Lgs.165/2001 e l’art. 2103<br />

cod.civ, correttamente richiamato dal ricorrente:<br />

non si discute infatti qui della possibilità di un superiore inquadramento, per il<br />

quale nel settore pubblico non vige l’automaticità propria del lavoro privato (e solo in


tal senso l’art. 2103 c.c. non è applicabile), ma di dequalificazione professionale per cui<br />

non solo l’art. 2103 ben può essere invocato, ma soprattutto soccorre la giurisprudenza<br />

maturata per la sua interpretazione e applicazione.<br />

La giurisprudenza è costante nell’affermare che la norma dell’art. 2103 cod civ è<br />

violata non solo quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma anche<br />

quando il medesimo sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazioni<br />

di compiti costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di<br />

estrinsecazione della personalità del soggetto (Cass 6.11.2000, n. 14443).<br />

La violazione degli artt. 2103 cod. civ – art 52 L.165/2001 è dunque pienamente<br />

provata.<br />

B 4 ) Il metodo del mobber<br />

Se il dott. XXXX fosse l’unico dipendente a considerarsi “bersaglio” del dott.<br />

ZZZ, si potrebbe persino ipotizzare (ma si dovrebbe fare al di là di ogni esame di atti e<br />

fatti, che da solo basterebbe a smentire l’ipotesi, ed è stato implicitamente fatto nel<br />

corso del giudizio), che tale “vittimismo” possa essere frutto di una visione<br />

emotivamente distorta del dott. XXXX, soggetto che si carica di ansie e fantasie prive di<br />

qualsivoglia fondamento reale e che pretende con capricciosa immaturità di dissentire<br />

da una organizzazione del servizio che rientra nella competenza e discrezionale<br />

valutazione del Segretario Generale<br />

Ma così non è.<br />

L’istruttoria documentale e orale hanno evidenziato che il dott. ZZZ ha<br />

sperimentato e adottato analoghi sistemi di condotta nei confronti di altri dipendenti,<br />

tanto che si può ben delineare un vero e proprio e collaudato metodo di <strong>mobbing</strong> che<br />

ha come manifestazioni concrete il sistematico e immotivato demansionamento,<br />

trasferimenti ripetuti di stanza, squalificazione del ruolo istituzionale, svuotamento delle<br />

mansioni, ostruzionismo su atti e richieste (anche di ferie) in attesa della sua firma,<br />

avvio di procedimenti disciplinari poi non definiti con provvedimento.<br />

La prova di tal metodo è offerta dagli elementi emersi nel corso della istruttoria,<br />

dalle dichiarazioni di alcuni testi in particolare, che si riportano anche per esteso,<br />

quando la loro lettura rende superflua ogni ulteriori spiegazione.<br />

I dati e i casi relativi agli altri dipendenti non possono perciò dirsi estranei al<br />

thema decidendum di questo procedimento perché valgono a fornire ulteriori elementi<br />

di valutazione dei dati già esposti e a far maturare il convincimento che il dott.ZZZ<br />

abbia realizzato quasi in modo professionale, per sistematicità e intensità, una attività<br />

persecutoria nei confronti di alcuni dipendenti della Camera di Commercio, così<br />

dovendo valutarsi come dotato di particolare intensità il dolo che caratterizza la<br />

condotta posta in essere nei confronti del dott. XXXX.<br />

a) Che qualcosa non andasse con il personale e che il comportamento del dott.<br />

ZZZ fosse discontinuo tanto da compromettere il senso di collaborazione da parte dello<br />

stesso Presidente della Camera di Commercio, lo riferisce il dott. Adalberto Donaggio


presidente della Camera di commercio dal 1995 al 2000 (pag. 11-13 verbale udienza<br />

11.7.2003);<br />

ma la dichiarazione, seppur voglia lasciar intendere qualcosa, resta<br />

prudentemente generica, come se il teste avesse “chiuso” metaforicamente una<br />

esperienza che non è stata sotto questo profilo positiva e non volesse più diffusamente<br />

parlarne;<br />

dicono però certamente più del teste le dichiarazioni rese dallo stesso dott.<br />

Donaggio come presidente della Camera di Commercio e verbalizzate nelle sedute di<br />

Giunta del 4 agosto 2000, e del 22 settembre 2000 (vds supra sub y) e w), quando, alla<br />

luce dell’esame di fatti specifici, non si esita a parlare di attività persecutoria e di<br />

<strong>mobbing</strong> del Segretario Generale nei confronti di alcuni dipendenti.<br />

b) la teste dott. Coloni ha riferito di aver promosso una causa nei confronti del<br />

dott. ZZZ per aver visto revocati gli incarichi di dirigente di una serie di uffici e per<br />

essergli stati “sottratti” circa venti dipendenti: la pendenza della causa, lungi dal rendere<br />

poco credibile la teste, impone invece di valutare con attenzione le sue affermazioni:<br />

innanzitutto quando, all’inizio della testimonianza, dichiara di avere con il dott.<br />

ZZZ un rapporto strettamente contrattuale, questo giudice comprende che il rapporto<br />

deve mantenersi asetticamente contrattuale (di rispetto dei reciproci ruoli): e la<br />

comprensione è guidata dalla lettura dell’intera testimonianza, nel corso della quale, la<br />

teste prende coraggio e offre alla attenzione del giudicante una serie di elementi, che<br />

valgono a delineare come il dott. ZZZ abbia attuato il proprio “metodo”:<br />

la teste dichiara di non poter vedere più – per disposizione del Segretario<br />

Generale - la corrispondenza diretta al suo ufficio, non potendo così svolgere il ruolo di<br />

dirigente;<br />

di aver cambiato tre volte stanza nel giro di un anno e mezzo: lo disponeva il<br />

segretario generale non so per quali motivi; di essersi sentita trattata come un oggetto<br />

da spostare; di essere stata la sola dei dirigenti spostata dal primo al terzo piano in una<br />

stanza che ancora non aveva telefono mentre la sua stanza al primo piano era occupata<br />

da una consulente interinale;<br />

che all’interno della camera di commercio abbiamo una grande confusione di<br />

compiti: io per esempio sono stata incarica di stare davanti al computer, di vedere le<br />

gazzette ufficiali della Regione, di trasmettere vari estratti;<br />

si è già riportato sopra la corrispondenza tra la dott.ssa Coloni e il dott. ZZZ in<br />

ordine all’ottemperanza all’ordinanza del giudice ex art. 700 cpc;<br />

ma è la conclusione della testimonianza che offre il polso della tensione e della<br />

preoccupazione della teste per le conseguenze delle sue dichiarazioni: vorrei che mi<br />

fossero date assicurazioni sul fatto che non subirò conseguenze per questa mia<br />

testimonianza<br />

c) la rag. Gregoris Graziella ha dichiarato:<br />

Ho promosso una causa per chiedere il riconoscimento dell’indennità di<br />

posizione di quando ero responsabile Albi e Ruoli; avevo svolto il ruolo di<br />

responsabile dell’ufficio Albi e Ruoli, ma con l’ordine di servizio 2/99 bis ero stata<br />

nominata addetta con la qualifica di sostituto della responsabile della sig. Ziberna che<br />

aveva la responsabilità di altro ufficio (Azienda benzina con 15 dipendenti), ma era<br />

stata con una delibera della Giunta nominata responsabile dell’ufficio Albi e Ruoli e io,<br />

nonostante la superiore anzianità, addetta e sua sostituta; la segreteria UIL fece<br />

presente il problema e anche il mio disagio e venne fatto – su disposizione della Giunta<br />

- un nuovo ordine di servizio (8/2000) che mi nominava responsabile dell’ufficio Albi


e Ruoli . Da allora ho avuto la vita impossibile perché sono stata delegittimata e<br />

sottoposta a procedimenti disciplinari, per cui dovevo passare i week end a preparare<br />

le memorie; nessuno dei procedimenti ha avuto seguito.<br />

L’ufficio Albi e Ruoli è stato diviso in due, uno ufficio ruoli ed elenchi e uno<br />

ufficio albi e ruoli (ora sotto la responsabilità della sig. Marega, e prima la sig.<br />

Ziberna)<br />

Più volte ho pensato di dimettermi non riuscendo a sostenere la invivibilità del<br />

clima, ma poi ho pensato che siccome le vessazioni erano proprio dirette a questo<br />

scopo, ho pensato di rimanere.<br />

Lavoro serenamente nel mio ufficio perché mi sento tutelata dalla dott. Coloni<br />

L’ufficio albo promotori dipende dalla CONSOB che paga un compenso al<br />

segretario, cioè a me.<br />

Gerarchicamente dipendo dal Segretario generale, di fatto ho rapporti con la<br />

Consob.<br />

Il segretario generale interferisce nel mio lavoro ogni volta che predispongo gli<br />

atti, che porto alla firma della dott. Coloni e poi alla segreteria generale e nella<br />

restituzione vi sono ritardi incomprensibili; gli atti mi servono firmati per andare<br />

avanti nel mio lavoro;<br />

Ho segnalato anch’io al Presidente dei disagi che hanno portato alle delibera di<br />

giunta del 22 settembre 2000; a seguito di questa per me è giunto l’ordine di servizio n.<br />

8/2000 (di cui ho parlato) mentre per il dott. XXXX è stata disposto il cambio di stanza<br />

Dunque formalmente il dott. ZZZ ha rispettato la delibera, mentre da allora è<br />

cominciata la vita impossibile, anche per la dott. Coloni (che tante volte ho visto<br />

piangere) e continuata per il dott. XXXX.<br />

Adr prima del dott. ZZZ se un dipendente aveva problemi con il segretario<br />

generale si rivolgeva al presidente, ma ora non né più possibile; il clima dell’ufficio<br />

per qualcuno dei dipendenti è molto difficile; quelli che non hanno rapporti diretti<br />

sopravvivono, alcuni di particolare fiducia (4-5) stanno molto bene<br />

Spero di non aver conseguenze da quanto sto dicendo come teste<br />

d) e infine la testimonianza dl rag. Fabio Ziberna che si riporta quasi<br />

integralmente, anche con la dichiarazione spontanea del dott. ZZZ verbalizzata durante<br />

la deposizione:<br />

io ho avuto dei buoni rapporti con il dott. ZZZ fino a un certo momento, e si sono<br />

incrinati durante la presidenza del dott. Paoletti: dal momento dell’insediamento del<br />

nuovo presidente (mi pare novembre 2001) io sono stato cacciato dal dott. ZZZ (“vai<br />

dove ti pare, non me ne frega niente” mi ha detto) e mi sono trovato da solo una stanza<br />

al secondo piano (in due ore ho dovuto prendermi le mie cose e portarle su), già<br />

occupata dal dott. XXXX e lì sono rimasto tre mesi a far niente e poi, dopo alcuni mesi<br />

e prima del mio pensionamento è stata predisposta una delibera, nella quale dopo 40<br />

anni di onorata professionalità giornalistica, è stato scritto che la figura di capo ufficio<br />

stampa non era "professionalmente all’altezza" e come ciliegina finale mi ha nominato<br />

capo di me stesso e mi ha affidato un incarico estremamente delicato: “coordinare la<br />

biblioteca storica” cioè pulire i vecchi tomi della biblioteca in cui nessuna andava per<br />

anni.<br />

Non so perché mi abbia trattato in questo modo, lo chieda a lui.<br />

“non giochiamo sulle parole , ma sui fatti: sono stato cacciato”<br />

Il dott. ZZZ dichiara : questo si chiama spoil system bisogna chiederlo al<br />

presidente, l’incarico del rag. Ziberna era un incarico fiduciario


Il teste dichiara: io ero funzionario e dipendente della A DI TRIESTE, nessun<br />

incarico fiduciario! Ed ero gerarchicamente dipendete dal segretario generale anche se<br />

il mio rapporto diretto era con il presidente (ho lavorato come segretario di tutti i<br />

presidenti da Caidassi (18 anni in carica l’ho trovato già lì), Modiano (6 anni) ,<br />

Tombesi (10 anni) e Donaggio (5-6 anni)<br />

Dopo tre mesi di stand-by mi hanno ritrasferito al primo piano (stanza di fronte al<br />

segretario generale a fare poche cose, salvo un periodo che ho fatto il commercio<br />

estero, ma poi mi hanno messo in subordine a un'altra persona il sig.Pison)<br />

Sono stato trasferito al primo piano dalla stanza del secondo piano, da quella<br />

topaia (piccola con una finestrella), che non so quanti anni prima aveva occupato il<br />

dott. XXXX,<br />

Per questa vicenda nella stanza del presidente abbiamo parlato due volte di tre<br />

cose:<br />

1) io chiedevo che rimanesse il mio onore (e mi è stato tolto con la delibera della<br />

non professionalità del ruolo di ufficio stampa) ;<br />

2) che rimanesse inalterato il trattamento economico (e il segretario generale me<br />

l’ha levato, come ha fatto con tanti altri dipendenti: il trattamento era determinato<br />

anche da un incarico che avevo presso l’azienda benzina e che mi è stato tolto; si<br />

adducono motivi di legittimità, ma se tali fossero stati sarebbero emersi anche prima<br />

visto che l’incarico è durato 5-6 anni); quando ha fatto il provvedimento ha tolto<br />

incarichi anche ad altri; non so se sia stato affidato ad altri il mio incarico, non credo.<br />

3) Infine io dovevo dare tutto il mio know-how (esperienza) rispettivamente alla<br />

nuova segretaria del presidente e all’addetto stampa nuovo, ma mancati i primi due<br />

presupposti il terzo non potevo adempierlo, anche se per un periodo ho dato la mia<br />

esperienza.<br />

Dopo la “delibera” del dott.ZZZ ci siamo incontrati di nuovo avanti al<br />

presidente: il dott. ZZZ si è scusato davanti al presidente e poco tempo dopo ha<br />

ripetuto identica determinazione….<br />

Il Giudice chiede: visto che ci ha fatti entrare in questa “camera” ci dica quale<br />

era lo spirito che animava le risposte<br />

Il teste risponde: SXXXXso e volentieri il segretario generale affermava: “finché<br />

sarò io il segretario generale il dott. XXXX non farà mai carriera”.<br />

Non so dire i motivi di questa affermazione, non posso entrare nella testa del<br />

dott.ZZZ<br />

Il dott. XXXX ha il suo carattere e a volte ci andavo d’accordo a volte no: ma al<br />

di là del carattere posso dire che il dott. XXXX ha sempre lavorato bene<br />

B 5) La responsabilità della Camera di Commercio<br />

Nella vicenda in esame la Camera di Commercio ha omesso di adottare nei<br />

confronti del dipendente dott. XXXX le misure e le cautele adeguate per impedire,<br />

prevenire e reprimere il <strong>mobbing</strong> del dott. ZZZ, anche attuato tramite una grave<br />

dequalificazione professionale nei confronti del dott. Stefano XXXX;<br />

la Camera di Commercio ha violato l’art. 2087 cod.civ. omettendo di<br />

salvaguardarne la professionalità e il ruolo, la dignità personale, la salute e consentendo<br />

al dott. ZZZ di continuare a perseverare nel suo illecito operare.


Va qui ben tenuto presente che la Camera di Commercio si era resa<br />

profondamente e lucidamente conto della illiceità della condotta del dott. ZZZ, del suo<br />

comportamento definito eufemisticamente “poco lineare”, della attività persecutoria<br />

posta in essere nei confronti di alcuni dipendenti, in buona sostanza del <strong>mobbing</strong><br />

perpetrato nella gestione del personale:<br />

le delibere del 4 agosto 2000 e del 22 settembre 2000 sono una prova<br />

inconfutabile di tale consapevolezza, rispetto alla quale assolutamente infondate sono le<br />

eccezioni di parte resistente di non aver potuto conoscere i disagi e le patologie del dott.<br />

XXXX per il rispetto della privacy del dipendente (che, dal canto proprio non le aveva<br />

affatto nascoste allegandole persino alle proprie segnalazioni e doglianze) e l’eccezione<br />

del “concorso di colpa” del dipendente dott.XXXX per non aver adeguatamente<br />

segnalato il suo disagio (basta la lettera del 17 maggio 2000 vd supra B 2 –u) per<br />

respingere la eccezione).<br />

Ma la Giunta e il Presidente hanno deciso (e la fase di prorogatio non era certo<br />

un impedimento avendo comunque espressamente riconosciuto durante la seduta che<br />

non ne mancavano i poteri) di limitarsi ad adottare solo un richiamo, che è stato tanto<br />

forte quanto inefficace.<br />

L’atteggiamento, così sostanzialmente inattivo della Camera di Commercio (nel<br />

senso che decide di non adottare alcun provvedimento), acquista poi una veste formale<br />

con la delibera del 21 febbraio 2001 con cui la nuova Giunta dichiara di non essere<br />

competente in materia di gestione del personale, e vanifica, anche formalmente, il<br />

richiamo formulato dal collegio che l’aveva preceduta.<br />

Tale delibera, oltre a rivelare un atteggiamento indegnamente supino nei<br />

confronti del Segretario Generale (nella parte in cui delibera di dare mandato al<br />

Presidente in collaborazione e per concessione del Segretario Generale) al quale<br />

esprime “piena fiducia e “solidarietà” (espressione che tradisce un paradossale<br />

vittimismo del dott. ZZZ rispetto alla Giunta precedente), integra una condotta<br />

istituzionale della Camera di Commercio che questo giudice considera grave e fonte<br />

diretta di autonoma responsabilità nella vicenda in esame:<br />

la Giunta infatti quando delibera di dichiararsi non competente in merito ai<br />

contenuti della delibera n. 179 del 22.9.2000 non solo definisce un limite al proprio<br />

ambito di competenze (e, se questo fosse l’unico significato, apparirebbe del tutto<br />

inutile, bastando lo Statuto a definire le rispettive competenze degli organi camerali),<br />

ma manifesta la volontà di non volersi minimamente intromettere nella gestione del<br />

personale e nella organizzazione degli uffici da parte del Segretario generale,<br />

rinunciando (e qui sta la gravità) a un proprio obbligo di vigilanza, espressamente<br />

previsto dallo Statuto (vds art. 18 sub m) e art. 28 che richiama l’attività di valutazione e<br />

controllo strategico degli organi camerali, prevedendo il supporto del “Nucleo di<br />

valutazione”).<br />

Dunque la conoscenza o la riconoscibilità del comportamento del dott. ZZZ, la<br />

consapevolezza del proprio ruolo e dei propri poteri-doveri di azione, rendono la<br />

deliberata rinuncia a qualsivoglia forma di controllo e intervento fonte diretta di<br />

responsabilità per la Camera di Commercio, per cui i danni che il dott. ZZZ ha<br />

cagionato al dott. XXXX con il suo materiale comportamento, con i propri atti e<br />

provvedimenti, sono causalmente riconducibili anche alla condotta della Camera di<br />

Commercio.


Sotto il profilo della colpevolezza, dunque, la Camera di Commercio è incorsa<br />

non in mero, pur grave, difetto di diligenza e vigilanza, che configurebbe solo una<br />

colposa omissione di tutela, ma, a parere di questo giudice, in un vero e proprio<br />

concorso mediante omissione nella azione illecita dolosamente realizzata dal dott. YYY<br />

ZZZ.<br />

In tale prospettiva la responsabilità della Camera di Commercio è piena e duplice,<br />

è contrattuale ai sensi degli artt. 2087 e 1228 cod. civ , ed è extracontrattuale ai sensi<br />

degli artt. 2043 e 2049 cod.civ, è indiretta (per fatto del proprio dipendente) e diretta per<br />

fatto (omissivo) proprio.<br />

Unitamente al dott. YYY ZZZ, la camera di Commercio è dunque obbligata a<br />

risarcire il danno subito dal dott. Stefano XXXX.<br />

D) Il danno<br />

Il danno da <strong>mobbing</strong> va accertato e quantificato considerando una serie di<br />

pregiudizi connessi non solo alle modalità in cui si è estrinsecato ma anche alla<br />

tipologia del lavoratore che ne è vittima.<br />

In altri termini vanno considerate non solo gli effetti diretti delle azioni di<br />

<strong>mobbing</strong> (demansionamento, con tutti i connessi riflessi giuridici, patrimoniali e non<br />

patrimoniali, turbamento, isolamento organizzativo, stress, disistima, patologie psicofisiche,<br />

con i relativi effetti nella vita professionale, personale e familiare) ma anche la<br />

personalità per così dire “di partenza” del lavoratore, atteso che, come risulta ormai<br />

condiviso dagli studiosi del <strong>mobbing</strong>, il disagio patogeno colpisce maggiormente il<br />

lavoratore che ha investito psicologicamente di più sul lavoro, che ama la sua<br />

professione, che la svolge con passione e solerzia, e proprio per questo vive con<br />

maggior dolore una condizione di emarginazione e di svuotamento delle proprie<br />

funzioni.<br />

Va ben considerata dunque la personalità del dott. XXXX nella valutazione del<br />

danno da <strong>mobbing</strong>: egli è stato costantemente definito da tutti i testimoni come persona<br />

che lavorava molto bene, con diligenza, passione, creatività spirito di iniziativa: gli<br />

attestati di stima provengono anche dagli utenti seppure con questi ultimi, non siano<br />

mancati disappunti e contestazioni, sempre dovuti pare alla scrupolosa e dunque decisa<br />

osservanza delle regole da parte del dott. XXXX nell’obiettivo, superiore, di rendere<br />

efficace il servizio istituzionale della Camera di Commercio.<br />

Volendo separare, ai fini di una quantificazione, i singoli effetti del <strong>mobbing</strong> si<br />

distingue il demansionamento in sé considerato dagli altri effetti pregiudizievoli<br />

cagionati dal <strong>mobbing</strong><br />

1) Il demansionamento subito dal dott. XXXX rappresenta un caso di<br />

svuotamento quasi totale di ruolo e di mansioni, e si colloca dunque al ben di<br />

là della ipotesi – esaminata dalla giurisprudenza – di sensibile “riduzione del<br />

campo di intervento (o riduzione quantitativa delle mansioni) che è stato causa


di svilimento del ruolo del lavoratore e della sua immagine professionale<br />

all’esterno”.<br />

Al riguardo la giurisprudenza ha ritenuto che non ogni modifica quantitativa<br />

delle mansioni si traduca in una dequalificazione professionale, bensì quella in cui la<br />

sottrazione di mansioni sia tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui<br />

poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da comportare un<br />

abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione<br />

delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguenziale impoverimento della sua<br />

professionalità.<br />

La riduzione di mansioni, non compensata dal conferimento di mansioni<br />

alternative e qualitativamente omogenee a quelle sottratte, la privazione, nel caso del<br />

dott. XXXX delle mansioni qualificanti e di ogni potere direttivo, la mancata<br />

assegnazione di incarichi che ne confermino il ruolo e giammai consentano<br />

l’avanzamento di carriera, integrano gli estremi di una grave forma di dequalificazione<br />

professionale.<br />

Le conseguenze pregiudizievoli sono molteplici (c.d plurioffensività del<br />

demansionamento) perché relative<br />

- alla potenzialità economica (c.d danno patrimoniale puro)<br />

- alla salute psico-fisica (danno biologico e morale)<br />

- alla dimensione professionale (danno d’ordine professionale e d’immagine),<br />

che viene valutata come autonoma categoria di pregiudizio in quanto relativa alla<br />

dignità del lavoratore nel contesto lavorativo: si tratta di lesione alla libera esplicazione<br />

della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro e il danno che ne deriva alla vita<br />

professionale e di relazione dell’interessato, secondo la prevalente giurisprudenza,<br />

riveste indubbia dimensione patrimoniale e lo rende suscettibile di valutazione<br />

equitativa (vds Cass sez lav 1.6.2002 n. 7967; Cass 2.1.2002 n. 10; Cass sez lav<br />

20.1.2001, n.835)<br />

Con riguardo specificamente al danno professionale, considerato una autonoma<br />

categoria di pregiudizio, la quantificazione del danno avviene in giurisprudenza avendo<br />

riguardo a una percentuale della retribuzione mensile, determinata tenendo conto della<br />

gravità della dequalificazione, della durata, dell’importanza della stessa, dell’età del<br />

lavoratore e prendendo a base la retribuzione percepita durante il demansionamento.<br />

Nel caso in esame, considerata la gravità della dequalificazione, la serrata<br />

successione dei provvedimenti demolitori della professionalità, il contesto della<br />

organizzazione, i comportamenti anche successivi posti in essere dal dott. ZZZ,<br />

l’intensità del dolo, e la colpevolezza della Camera di Commercio, si ritiene equo<br />

quantificare la percentuale del danno in misura pari al 100% della retribuzione mensile.<br />

Va infine sottolineato che il dolo che ha animato i provvedimenti, confermati<br />

mediante la maliziosa inosservanza del provvedimento giurisdizionale che ordinava la<br />

assegnazione di mansioni equivalenti alla qualifica rivestita, risulta ancora più offensivo<br />

della dignità del lavoratore, la cui impotenza verso la prepotenza del mobber viene<br />

esaltata dalla impossibilità di vedere attuato persino un provvedimento giurisdizionale a<br />

sé favorevole e di non riuscire neppure più a sperare in qualche forma di tutela.


Dunque certamente a partire dall’ordine di servizio n.18/2001 dd 15 ottobre 2001<br />

Stefano XXXX ha diritto al risarcimento del danno da demansionamento nella misura<br />

pari al 100% della retribuzione mensile;<br />

il riconosciuto demansionamento impone altresì l’accoglimento della domanda<br />

volta a ordinare al datore di lavoro di assegnare al dott. Stefano XXXX mansioni<br />

equivalenti al suo livello di inquadramento: l’assegnazione a mansioni equivalenti<br />

serve anche al datore di lavoro a contenere il risarcimento, o mediante il ripristino della<br />

situazione (funzioni e incarichi) precedente all’ordine di servizio n. 18/2001 ovvero<br />

mediante la assegnazione di mansioni coerenti con la qualifica funzionale VIII livello di<br />

inquadramento D4, essendo altrimenti obbligato a continuare a erogare un risarcimento<br />

del danno che permane nella misura sopra quantificata<br />

2) Ma il <strong>mobbing</strong> ha pregiudicato l’equilibrio personale e professionale del dott.<br />

XXXX, ha danneggiato la sua salute psico-fisica, alterata da situazioni di elevato stress,<br />

che sono state causa di malattia o di aggravamento di stati patologici già in atto, ha<br />

cagionato dunque un danno biologico e non patrimoniale.<br />

Va ricordato che il danno non patrimoniale risarcibile è ravvisabile ogni volta che<br />

al dipendente siano derivate lesioni personali, fattispecie corrispondente, nella sua<br />

oggettività, alla astratta previsione di una figura di reato (art. 582, 590 c.p.), senza che<br />

sia necessario anche il preventivo accertamento in sede penale della concreta fattispecie<br />

di reato:<br />

in tal senso si pronunciata la Corte di cassazione (Cass 22.2.2002 n. 4129, Cass<br />

12 maggio 2003, n.7281 e 7282) e ancor più di recente la Corte Costituzionale con la<br />

sentenza n. 301 del 2003 che ha esteso la portata stessa dell’art. 2059 c.c<br />

ricomprendendo nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non<br />

patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno<br />

morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima;<br />

sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse<br />

costituzionalmente garantito all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente a<br />

un accertamento medico; sia infine il danno “esistenziale” derivante dalla lesione di<br />

altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona .<br />

I certificati medici prodotti dal dott. XXXX in ordine alle sue condizioni di salute,<br />

i ricoveri al Pronto soccorso in ospedale, con acuirsi dei fenomeni di aumento di<br />

ipertensione arteriosa, sembrano assumere i sintomi di una resistenza del dipendente al<br />

progetto del segretario generale di rendergli la vita impossibile, di “rovinarlo” sul piano<br />

personale e professionale.<br />

La successione di certificati, che segnano con propria drammatica frequenza,<br />

connessa – sXXXXso in modo ravvicinato - a quella degli episodi esposti sub B 2)<br />

viene qui riportata rimettendosi al medico legale la loro valutazione e integrazione: i<br />

sintomi riscontrati e la cadenza delle visite vengono ritenuti sufficienti per determinare<br />

la necessità di un più approfondito accertamento tecnico ai fini della valutazione del<br />

danno:<br />

a) referto del medico cardiologo dd. 19 maggio 1997 che diagnostica<br />

un'ipertensione arteriosa diastolica, nota da circa due anni, attualmente importante


) referto del cardiologo del 27 agosto 1997, che evidenzia il perdurare<br />

dell'ipertensione arteriosa unita a sintomi quali “stanchezza al cuore” e aumenta il<br />

dosaggio dei farmaci.<br />

c) referto del cardiologo del 10 settembre 1998 che evidenzia un "costante stato<br />

di stress" e disturbi al battito cardiaco negli ultimi mesi.<br />

d) referto del medico cardiologo del 16 agosto 1999 che raccoglie in dettaglio<br />

una serie di sintomi, pur diagnosticando una ipertensione arteriosa diastolica stabile nel<br />

tempo – si consiglia la visita oculistica<br />

e) Il 28 novembre 2000 di mattina il dott. XXXX accusa malore e in particolare<br />

un dolore toracico di tipo parietale rilevato al Pronto Soccorso<br />

f) Del giorno successivo, 29 novembre 2000 è il referto del medico cardiologo,<br />

al quale viene riferito lo stato di stress vissuto negli ultimi mesi da parte del dr. XXXX e<br />

del malessere notturno occorsogli nella notte antecedente.<br />

g) Il 27 febbraio 2001 lo stesso cardiologo rileva che la ipertensione arteriosa,<br />

attualmente non risulta ben controllata, mentre permangono sintomi di stress , e<br />

vengono prescritti farmaci più forti.<br />

h) Il 14 settembre 2001, alle ore 8 del mattino, il dott. XXXX, su disposizione<br />

del medico di base, viene ricoverato al pronto soccorso a seguito di risveglio notturno<br />

(ore 4) causato da dolore retrosternale a barre.<br />

Le analisi cardiologiche evidenziano ancora l’ipertensione arteriosa diastolica,<br />

dolore toracico di eziologia da definire, situazione di stress e lislipidemia<br />

Dopo una serie di esami specialistici vengono prescritte quattro settimane di<br />

riposo<br />

Il dott. XXXX rientra in servizio dalla malattia il 15 ottobre 2001, giorno in cui<br />

gli viene comunicato l’ordine di servizio n. 18/01<br />

Va fermamente respinta la eccezione di parte resistente circa la inutilizzabilità di<br />

certificati medici perché “contengono un giudizio”:<br />

I certificati medici sono prove documentali dell’esame effettuato da un medico su<br />

un paziente in un determinato momento storico:<br />

il medico chiamato a visitare un paziente raccoglie i sintomi, formula una<br />

valutazione, una diagnosi e una prognosi, che rientrano nella ordinaria espressione della<br />

sua professione.<br />

la valutazione dei sintomi, riferiti o rilevati da appositi esami, delle diagnosi e<br />

delle terapie è appositamente rimessa a un medico legale, nominato CTU il quale, in<br />

relazione alla successione degli eventi, riportata in sentenza, alla successione delle<br />

visite, registrata dai certificati, e necessariamente in base a ulteriori diretti esami e<br />

accertamenti, potrà esprimere il proprio giudizio medico legale sulla esistenza ed entità<br />

del danno.<br />

A tale fine viene dunque proseguita l’istruttoria come da ordinanza a verbale (ud.<br />

23 settembre 2003).<br />

**************


P.Q.M.<br />

Non definitivamente pronunciando nella causa di lavoro iscritta al n.98 del<br />

2002 promossa<br />

da<br />

XXXX Stefano<br />

contro<br />

C.C.I.A.A.<br />

YYY ZZZ<br />

così provvede:<br />

1) dichiara che XXXX Stefano ha subito un danno a causa del <strong>mobbing</strong> posto<br />

in essere nei suoi confronti dal dott. YYY ZZZ, anche mediante il<br />

demansionamento delle funzioni<br />

2) condanna la A DI TRIESTE in persona del legale rappresentante e YYY<br />

ZZZ a risarcire a XXXX Stefano il danno subito a causa della condotta sub 1),<br />

danno che determina, in via equitativa, e per la parte relativa al demansionamento<br />

subito in una somma corrispondente al 100% della retribuzione mensile oltre<br />

interessi legali con decorrenza 15 ottobre 2001 e per la parte relativa al danno<br />

biologico e non patrimoniale subito nella misura da determinarsi a mezzo CTU;<br />

3) condanna la A DI TRIESTE, in persona del legale rappresentante, ad<br />

assegnare al dott. XXXX mansioni coerenti con la qualifica funzionale<br />

corrispondente al livello di inquadramento D4 – qualifica funzionale VIII del DPR<br />

347/83;<br />

4) dispone con separata ordinanza per la prosecuzione della istruttoria<br />

Trieste 23 settembre 2003<br />

Il GIUDICE<br />

Dott.Gloria Carlesso


INDICE<br />

ZZZ<br />

INTESTAZIONE pag. 1<br />

Conclusioni delle Parti pag. 2<br />

Svolgimento del processo pag. 3<br />

Motivi della decisione pag. 7<br />

Natura della domanda e rigetto delle eccezioni preliminari<br />

A) La Camera di Commercio e le posizioni del dott. Stefano XXXX e del dott. YYY<br />

1) struttura e organi della Camera di Commercio – L’ARIES p.11<br />

2) Posizione del dott. YYY ZZZ p.12<br />

3) Posizione contrattuale e mansioni del dott. Stefano XXXX p.13<br />

B) Il <strong>mobbing</strong><br />

1) l’elemento soggettivo p.16<br />

2) la serie di atti e comportamenti p.18<br />

3) il demansionamento p. 33<br />

a) L’ordine di servizio n. 18/01 p. 34<br />

b) La perdita degli incarichi retribuiti. L’Enasarco p. 34<br />

c) La tutela cautelare. L’ordine di servizio 24/01 p. 36<br />

d) La vuota potenzialità dell’Area di regolazione di Mercato p. 37<br />

e) L’inosservanza del provvedimento cautelare dd 15.1.2002 p. 38<br />

f) Gli attuali compiti del dott. Stefano XXXX p. 41<br />

g) L’opera di erosione della professionalità p. 42<br />

h) La tutela normativa del demansionamento p.44<br />

4) il metodo del mobber p. 45.<br />

dichiarazioni di<br />

a) Donaggio Adalberto p. 46<br />

b) Coloni Anna p. 46<br />

c) Gregoris Graziella p. 47<br />

d) Ziberna Fabio p. 48<br />

5) la responsabilità della Camera di Commercio p.49<br />

C) Il danno p.51<br />

Dispositivo pag. 55


REPUBBLICA ITALIANA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

TRIBUNALE DI TREVISO<br />

IL GIUDICE UNICO DEL LAVORO<br />

PER GENTILE CONCESSIONE WWW.FIBA.IT<br />

dott.ssa Clotilde Parise<br />

ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

nella causa civile di primo grado in materia di lavoro promosse con ricorso depositato l’8.1.1998 e<br />

con ricorso in riassunzione depositato il 5.12.2000<br />

da:<br />

ricorrente<br />

Elettivamente domiciliata in Treviso presso lo Studio dell’Avv. Renato Fracassi che la rappresenta e<br />

difende come da mandato a margine del ricorso<br />

oggetto<br />

risarcimento danno patrimoniale e biologico<br />

contro: Banca resistente<br />

Elettivamente domiciliata in Treviso presso lo Studio dell’Avv. Maurizio Jacobi, che la rappresenta<br />

e difende come da mandato in calce alla memoria di costituzione<br />

Svolgimento del processo<br />

Con ricorso depositato l’8.1.1998 la ricorrente adiva questo Giudice del Lavoro, premettendo che:<br />

era stata dipendente della Banca convenuta dall’1.4.77 al 20.3.96 con le mansioni di impiegata e<br />

grado finale di vice capo ufficio; negli ultimi mesi del 1993 fino ad agosto 1994 aveva lavorato<br />

presso la Direzione Generale di … ed era stata incaricata di seguire il nuovo progetto di vendita di<br />

prodotti assicurativi presso dipendenti e clienti della Banca in collaborazione di Arca Vita, come<br />

Responsabile di Prodotto; tale progetto era considerato strategico dalla Banca e fu seguito con<br />

successo dalla ricorrente, come da documentazione allegata; nei mesi precedenti le ferie di agosto la<br />

ricorrente fu “tormentata” da voci circolanti tra il personale della Banca che attribuivano il merito<br />

del suo nuovo ed importante incarico ad una presunta e del tutto inesistente relazione con un<br />

dirigente della Banca; improvvisamente, al rientro dalle ferie di agosto, venne comunicata alla


Salvador la privazione dell’incarico ed il trasferimento, come aiuto sportellista, alla filiale di ….,<br />

che era già al completo di personale; il provvedimento di trasferimento fu impugnato anche<br />

giudizialmente e venne dichiarata l’illegittimità dello stesso, ma senza riconoscimento per la …. del<br />

diritto alla superiore qualifica richiesta; a seguito dell’ingiustificata sottrazione dell’incarico di<br />

lavoro e del declassante trasferimento, la … cadde in una grave crisi depressiva reattiva che le<br />

impedì di continuare il lavoro e spezzò gli equilibri familiari con il marito ed i figli per due o tre<br />

anni; la Salvador venne licenziata alla scadenza del periodo di conservazione del posto previsto dal<br />

contratto per la malattia e da allora era priva di lavoro, pur essendo iscritta alle liste di<br />

collocamento; la malattia era in nesso di causalità con l’illegittimo trasferimento e le conseguenze<br />

professionali dello stesso; la sentenza del Pretore di Treviso n.286/97 sopra citata era stata<br />

impugnata dalla Banca convenuta ed era pendente in fase di appello.<br />

Sulla scorta di tali premesse, la ricorrente conveniva in giudizio la Banca … chiedendo, nel merito,<br />

accertata e dichiarata l’illegittimità del provvedimento di trasferimento e comunque l’illegittimo<br />

comportamento del datore di lavoro, condannare la Banca convenuta, come in premessa<br />

identificata, a risarcire il danno biologico e alla vita di relazione della ricorrente nella misura<br />

equitativamente determinata dal giudice. Chiedeva altresì condannare la Banca stessa a risarcire il<br />

danno patrimoniale determinato dalla stessa malattia nella misura di tante mensilità di stipendio,<br />

secondo busta paga, quante sono maturate e matureranno dal licenziamento alla data della sentenza,<br />

o le diverse somme ritenute, oltre rivalutazione ed interessi, con rifusione di spese di lite.<br />

Si costituiva ritualmente la Banca convenuta chiedendo il rigetto del ricorso, con vittoria di spese di<br />

lite.<br />

Esponeva la convenuta che il trasferimento impugnato nella precedente causa, definito nelle more<br />

anche in grado d’appello con sentenza di conferma di quella di primo grado, non era illegittimo e<br />

che era pendente il termine per la proposizione del ricorso per Cassazione. In ogni caso, adduceva la<br />

Banca convenuta che incombeva a parte ricorrente l’onere di provare gli elementi costitutivi della<br />

responsabilità risarcitoria, non essendo a tal fine sufficiente l’illegittimità del trasferimento<br />

impugnato.<br />

La convenuta contestava altresì la sussistenza do nesso di causalità tra la malattia ed il<br />

trasferimento.<br />

Dopo l’esperimento senza esito positivo del tentativo di conciliazione, all’udienza del 14.7.98 la<br />

causa veniva sospesa ex art. 295 c.p.c., preso atto che la causa pregiudiziale inerente all’illegittimità<br />

del trasferimento era pendente in Cassazione (n.10346/98 R.G.).<br />

Con ricorso depositato il 5.12.2000 la causa veniva riassunta dalla ricorrente, all’esito del deposito<br />

in data 7.10.2000 della sentenza n.13361/2000 della Corte di Cassazione.<br />

Dopo l’espletamento di CTU medico-legale e la produzione di documenti da parte della ricorrente,<br />

la causa veniva discussa e decisa all’udienza del 21.12.2001 come da separato dispositivo letto in<br />

udienza ed allegato.<br />

Motivi della decisione<br />

La domanda della ricorrente è fondata e merita accoglimento.


Le pretese risarcitorie azionate dalla …. nel presente giudizio derivano dall’abuso del potere<br />

datoriale, secondo la prospettazione di cui al ricorso, consistito nell’illegittimità del trasferimento,<br />

attuato con modalità tali da recare pregiudizio all’integrità psichica della lavoratrice e da cagionare<br />

lesioni della personalità di quest’ultima e della dignità della stessa.<br />

Con le <strong>sentenze</strong> citate, ed in particolare da ultimo con la sentenza n.13361/2000 della Corte di<br />

Cassazione è stato definitivamente accertato che il trasferimento della … dalla sede della Direzione<br />

Generale di … alla filiale di … della Banca è stato attuato illegittimamente per insussistenza dei<br />

motivi posti a fondamento dello stesso.<br />

E’ stata infatti accertata, nei tre gradi di giudizio, la totale insussistenza delle esigenze tecnicoorganizzative<br />

poste a giustificazione dalla Banca dell’impugnato trasferimento, sia “in partenza”,<br />

sia “in arrivo”. Si richiamano sul punto le motivazioni delle <strong>sentenze</strong> di primo e secondo grado<br />

citate, con le quali è stato per l’appunto accertato, per un verso che la “soppressione del settore<br />

sviluppo non incideva sui compiti assegnati alla ricorrente e la parcellizzazione di tali compiti con<br />

loro ridistribuzione non era sorretta da adeguate e comprovate ragioni tecniche o organizzative” e,<br />

per altro verso, che la “necessità della … presso la Filiale di … non era affatto necessaria in quanto<br />

la Filiale era già al completo tanto che la Banca intendeva prelevarne un addetto per far posto alla<br />

ricorrente dopo che si fosse impratichita” (cfr. pagg. nn.8 e 9 sentenza Pretore Treviso e<br />

deposizione … in quel giudizio). Presso la Filiale di …. la Salvador era dunque “in sovrannumero”.<br />

Nella fattispecie ritiene questo Giudicante che siano state provate da parte della ricorrente non solo<br />

l’illegittimità del trasferimento, ma anche l’illiceità dei comportamenti con cui il medesimo è stato<br />

in concreto attuato.<br />

Sotto il profilo giuridico, si osserva che la violazione del precetto di cui all’art. 2087 c.c., in<br />

riferimento alla lesione della personalità morale, della professionalità e della dignità del lavoratore,<br />

integra illecito di natura contrattuale che è fonte di danno risarcibile secondo i criteri di cui agli artt.<br />

1218 c.c. e ss. .<br />

Peraltro come in tutti i rapporti contrattuali, anche il rapporto di lavoro deve essere eseguito da<br />

entrambe le parti in osservanza dei generici doveri di buona fede e correttezza ai sensi dell’art. 1375<br />

c.c.<br />

Orbene, nel caso in esame, sulla scorta di tutte le circostanze che di seguito verranno esposte, può<br />

ritenersi dimostrato che il trasferimento sia stato lo strumento per sottrarre alla …, in modo<br />

repentino e sostanzialmente immotivato e senza offrirle alcuna dignitosa alternativa professionale,<br />

l’incarico di “responsabile dei prodotti assicurativi” solo in quanto quest’ultima era persona non<br />

gradita ad altra dipendente, …, alle cui dirette dipendenze la ricorrente avrebbe dovuto operare nel<br />

prosieguo.<br />

In punto di fatto, sulla base della documentazione prodotta dalla ricorrente e sulla scorta<br />

dell’istruttoria testimoniale espletata nel giudizio di primo grado conclusosi con la sentenza<br />

n.286/97 citata (i cui verbali d’udienza sono stati acquisiti nel presente procedimento), sono state<br />

dimostrate le seguenti circostanze:<br />

1. Per la commercializzazione di prodotti bancari ed assicurativi era stata costituita una società<br />

tra più Banche …, denominata Arca Vita (cfr. teste …). Con la circolare della Banca convenuta<br />

n.86/93 la … riceveva l’incarico di “responsabile dei prodotti assicurativi”; in particolare la<br />

ricorrente teneva i contatti con la società Arca Vita e riferiva al proprio superiore gerarchico …


sia delle analisi di mercato che dei contratti avuti con la società Arca Vita e con altre società al<br />

fine di valutare la convenienza di altri prodotti assicurativi (cfr. teste …);<br />

2. Nel 1994 il progetto “Arca Vita” aveva avuto grande sviluppo e si trattava di un settore<br />

strategico per la Banca (cfr. teste …);<br />

3. In relazione a tale progetto la ricorrente individuava i nominativi dei dipendenti che dovevano<br />

partecipare ai corsi di marketing (cfr. teste …), teneva i contatti con le Filiali della Banca e con<br />

Arca Vita, teneva riunioni tra gli addetti delle varie filiali per dare indicazioni tecnicocommerciali,<br />

proponeva un budget in relazione ai prodotti assicurativi in base ad un’analisi dei<br />

risultati e delle dimensioni delle filiali (cfr. teste …);<br />

4. Già primo dell’assegnazione della … all’ufficio del … “esistevano attriti tra la … e la …, che<br />

era la responsabile del settore marketing” dello stesso ufficio. Per tale motivo la … fu posta alle<br />

dirette dipendenze del … e non dell’Ufficio marketing, come sarebbe stato giusto (cfr.<br />

testualmente deposizione … che così prosegue: “Immagino che questa stessa circostanza abbia<br />

influito sulla decisione di trasferire la ricorrente, anche se nulla posso riferire in merito non<br />

essendo stato sentito dalla direzione generale”);<br />

5. Anche il teste … ha confermato la circostanza che la … venne posta alle dirette dipendenze<br />

del …, responsabile delle Pianificazioni Marketing e Sviluppo, e non della …, responsabile del<br />

servizio marketing cui era assegnata la ricorrente, su espresso desiderio di quest’ultima;<br />

6. Circa i fatti anteriori al provvedimento di trasferimento, va sottolineato il contrasto tra quanto<br />

dichiarato dal …, il quale ha riferito di non essere stato interpellato circa il suddetto<br />

trasferimento, e quanto dichiarato dal …, secondo il quale: “Il … riferì che per gestire il<br />

prodotto assicurativo bastava una figura di minor grado professionale e che si occupasse anche<br />

di altro (attività amministrative) A.D.R. Non fu chiesto alla … se voleva assumere questo ruolo<br />

perché avrebbe avuto mansioni inferiori. Infatti il nuovo profilo non si sarebbe più occupato<br />

dello sviluppo del prodotto, del quale si sarebbero fatte carico le Filiali e la soc. Arca A.D.R.<br />

Proponemmo alla ricorrente di andare o alla filiale di … o a quella di …. La ricorrente non<br />

espresse alcuna preferenza rifiutando il trasferimento. La scelta fu fatta dalla Direzione cadendo<br />

sulla Filiale più vicina”.<br />

Orbene, in base alle emergenze suesposte, risulta sicuramente dimostrato che la ricorrente, prima<br />

del trasferimento, rivestiva un incarico importante ed anche di prestigio, richiamando le mansioni<br />

come sopra descritte dal teste …, in un settore considerato strategico dalla Banca.<br />

Altrettanto incontestabile è che tale incarico sia stato sottratto alla … in base ad esigenze tecnicoorganizzative<br />

del tutto insussistenti, e dunque solo perché quest’ultima non era persona gradita alla<br />

Zuliani, superiore gerarchico della ricorrente, come “immagina” il teste ….<br />

Altre motivazioni, escluse quelle già ritenute non valide in tre gradi di giudizio, la Banca convenuta<br />

non è riuscita a fornire e neppure ad addurre.<br />

La sottrazione dell’incarico ed il contestuale trasferimento sono pertanto avvenuti non solo<br />

ingiustificatamente, ed anzi per un motivo inespresso, ma sufficientemente dimostrato in causa in<br />

via induttiva, sicuramente contrario alle più elementari regole di buona fede e correttezza, ma anche<br />

in modo repentino e senza offrire alla … un’alternativa idonea a salvaguardare la professionalità<br />

acquisita in quel settore.


Come sopra evidenziato non venne neppure offerto alla ricorrente di continuare ad occuparsi del<br />

settore assicurativo, e le nuove mansioni presso la filiale di …, cui era assegnata in sovrannumero,<br />

erano di addetta allo sportello.<br />

Nell’ottica risarcitoria prospettata, ossia sotto il profilo dell’abuso del potere datoriale, viene in<br />

considerazione, nella fattispecie in esame e nel contesto che si è appena descritto, il<br />

demansionamento oggettivo, che deve valutarsi con riferimento alle mansioni concretamente svolte,<br />

prescindendo dall’inquadramento contrattuale.<br />

Sul punto in primo luogo va osservato che le precedenti pronunce, ed in particolare quella della<br />

sentenza di primo grado, non hanno preso in esame la questione del demansionamento, che non era<br />

oggetto di domanda, ma quella, diversa, del riconoscimento della qualifica superiore.<br />

Ai fini che interessano nel presente giudizio, l’oggettivo raffronto, in senso contenutistico, tra le<br />

mansioni di “responsabile dei prodotti assicurativi” presso la Direzione Generale della Banca e<br />

quelle di addetta allo sportello presso la Filiale di … in sovrannumero serve ad ulteriormente<br />

connotare il comportamento datoriale, al fine di valutare se ricorra, sotto tale profilo, anche la<br />

violazione degli artt. 2087 e 2103 c.c., nel senso di seguito specificato.<br />

Secondo le più recenti ricostruzioni giurisprudenziali e dottrinali, la lesione della professionalità<br />

generica è da ricondurre sia alla disciplina dell’art. 2103 c.c. sia nella previsione generale di cui<br />

all’art. 2087 c.c., mentre la lesione della professionalità specifica è tutelata esclusivamente dall’art.<br />

2103 c.c.<br />

Va specificato che la professionalità specifica attiene al mancato incremento di conoscenze<br />

professionali, oltre che al mancato utilizzo delle nozioni teoriche e delle capacità applicative già<br />

acquisite dal lavoratore illegittimamente adibito a mansioni contenutisticamente e qualitativamente<br />

inferiori.<br />

La professionalità generica, invece, riguarda il profilo della personalità morale, in particolare della<br />

libera esplicazione della personalità anche nel luogo di lavoro, a causa dei riflessi del nuovo<br />

incarico nell’ambiente di lavoro, e della dignità in genere, professionale ed extra-professionale, e la<br />

correlativa lesione comporta il danno all’immagine, alla vita di relazione con riferimento allo<br />

“status” sociale, per il mancato mantenimento di una situazione di maggior prestigio, nonché da<br />

perdita di chance, ossia di aspettative di carriera.<br />

Non può dubitarsi, a parere di questo Giudice, che siano risarcibili i danni derivanti dalla lesione<br />

della professionalità come sopra specificato, in quanto i corrispondenti diritti soggettivi sono<br />

previsti e tutelati dagli artt. 2103 e 2087 c.c. ed hanno rilevanza costituzionale ex art. 41, secondo<br />

comma, Cost., secondo il quale, com’è noto, la libertà di iniziativa economica privata, e dunque<br />

anche l’amplissima discrezionalità organizzativa datoriale non può svolgersi in modo da recare<br />

danno alla dignità umana.<br />

Orbene, tanto premesso in punto di diritto, nella fattispecie, deve accertarsi non solo e non tanto se<br />

la nuova mansione assegnata alla … risulti corrispondente alla qualifica della stessa secondo le<br />

declaratorie contrattuali (che comunque era quella di vice capo-ufficio, come incontroverso in<br />

causa), ma soprattutto se il trasferimento e la sottrazione dell’incarico siano stati attuati in<br />

osservanza del criterio di buona fede e correttezza e nel rispetto della professionalità generica e<br />

specifica della lavoratrice, mediante il raffronto contenutistico tra le mansioni in concreto svolte in<br />

precedenza e quelle successivamente assegnate.


Circa l’onere probatorio, trattandosi di responsabilità contrattuale (cfr. Cass. n.931/93), è sufficiente<br />

che il lavoratore provi il fatto, imputabile al datore di lavoro, qualificabile in termini di<br />

inadempimento.<br />

Nel caso in esame, a parere di questo Giudicante, in primo luogo sono configurabili come<br />

inadempimento sia il trasferimento illegittimo e la conseguente sottrazione di un incarico<br />

importante e gratificante, anche e soprattutto in riferimento ai rapporti con i colleghi e le altre filiali,<br />

sia l’aver adottato un provvedimento ingiustamente lesivo per la ricorrente solo per “accontentare”<br />

un superiore gerarchico della stessa, in palese violazione dei doveri di buona fede e correttezza.<br />

Per di più il raffronto contenutistico tra le mansioni è univocamente sintomatico del fatto non solo<br />

che non era stata offerta alla ricorrente alcuna alternativa idonea a salvaguardare la professionalità<br />

acquisita dalla stessa in quel settore ma anche che la nuova mansione, si ripete di addetta allo<br />

sportello “in sovrannumero” presso la Filiale di …, non si configurava oggettivamente e<br />

qualitativamente equivalente a quella precedente (ed invero “ad abuntantiam” neppure a quella<br />

contrattuale di vice capo-ufficio).<br />

Si ripete che la …, quale responsabile dei prodotti assicurativi del progetto Arca Vita presso la<br />

Direzione Generale della Banca, proponeva il budget, organizzava riunioni tra gli addetti delle varie<br />

filiali per dare indicazioni tecnico-commerciali, individuava i nominativi dei dipendenti che<br />

dovevano partecipare ai corsi di marketing, teneva i rapporti con le filiali, faceva analisi di mercato.<br />

(cfr. testi suindicati).<br />

In conclusione, sulla scorta delle considerazioni in fatto ed in diritto che precedono, deve affermarsi<br />

la responsabilità contrattuale della Banca convenuta per le violazioni suddette.<br />

Deve a questo procedersi ad esaminare la questione relativa ai danni subiti dalla ….<br />

In primo luogo deve essere riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento al danno biologico<br />

cd. psichico, che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, condiviso da questo<br />

Giudice, può essere risarcito solo se consiste in una menomazione anatomo-funzionale del soggetto<br />

(cfr. Cass. Sez. Lav. N. 10153/93; Idem, n. 4991/96).<br />

Parte ricorrente ha prodotto in allegato al ricorso n. 35 certificati medici a sostegno della sussistenza<br />

della malattia psichica causata dai fatti oggetto di causa.<br />

E’ stata pertanto disposta CTU medico-legale, al fine di ulteriormente verificare sia la sussistenza<br />

della suddetta malattia, sia il nesso di causalità della medesima rispetto alle vicende relative al<br />

trasferimento.<br />

La CTU espletata dal Prof. Silvano Bernardi, le cui conclusioni sono integralmente condivise da<br />

questo Giudicante, in quanto congruamente motivate ed immuni da vizi logici, nonché basate su<br />

dati clinici e sanitari, ha consentito di accertare che, a seguito dei fatti oggetto di causa, la … ha<br />

riportato disturbo “Di-stress post-traumatico nella vita quotidiana” di carattere permanente, che<br />

condiziona la stessa nel rendimento lavorativo. Il CTU ha quantificato pertanto il biologico<br />

permanente nella percentuale media del 18%, nonché il biologico temporaneo assoluto in mesi tre,<br />

quello temporaneo al 75% in mesi tre ed infine quello al 50% in nove mesi.<br />

Il CTU ha altresì segnalato, ai fini della monetizzazione del cd. punto pesante, che la ricorrente<br />

dovrà ricorrere ad energie di riserva per ottenere gli stessi risultati, se rientrerà al lavoro. Il prof.<br />

Bernardi infine non ha rilevato stati patologici psichici preesistenti.


E’ stata disattesa da questo Giudicante l’istanza di parte convenuta di audizione a chiarimenti del<br />

CTU in ordine alla “preesistenza di un peculiare assetto personologico favorente”, in quanto, per un<br />

verso, tale aspetto non è stato accertato o evidenziato in alcun modo dal CTU e comunque, per altro<br />

verso, è irrilevante ai fini del decidere.<br />

Su tale ultimo punto rileva questo Giudicante che l’ “assetto personologico” di ciascun individuo e<br />

quindi di ciascun lavoratore è ovviamente differenziato, sicchè l’impatto psichico di un fatto<br />

ingiusto può produrre conseguenze ugualmente ed ovviamente differenziate. Ciò non può tuttavia<br />

avere incidenza al fine di escludere o limitare la responsabilità risarcitoria, una volta dimostrati,<br />

come nella fattispecie, la sussistenza della malattia psichica, il nesso di causalità e la mancanza di<br />

preesistenza di patologie psichiche.<br />

In considerazione di quanto sopra e in ragione dei postumi accertati dal CTU, ritiene questo Giudice<br />

equo e conforme a giustizia determinare in £ 66.960.000 in moneta corrente l’entità del risarcimento<br />

complessivamente spettante a titolo di danno biologico per l’invalidità permanente, liquidando<br />

pertanto in £ 3.720.000 il valore del singolo punto di invalidità, alla stregua dei parametri<br />

individuati dalla costante giurisprudenza di merito (percentuale di invalidità, età, natura ed effetti<br />

dei postumi come sopra evidenziati – ciascun punto percentuale, nell’importo previsto nelle Tabelle<br />

2000 Tribunale Treviso, è stato appesantito di £ 620.000, per ristorare la ricorrente dell’ulteriore<br />

pregiudizio derivante dal ricorso ad energie di riserva, in caso di ripresa di attività lavorativa, come<br />

sottolineato dal CTU), nonché dell’ineludibile valutazione equitativa.<br />

Alla ricorrente va inoltre liquidata la somma di £ 5.400.000 a titolo di danno biologico per<br />

l’inabilità temporanea assoluta e di £ 4.050.000 per quella temporanea parziale al 75%, nonché di £<br />

8.100.000 per la temporanea parziale al 50%, somme parimenti determinate in via equitativa ed<br />

espresse in moneta attuale, tenendo conto della durata della compromissione fisica totale (£ 60.000<br />

al giorno x 90 - £ 45.000 x 90 - £ 30.000 al giorno per 270).<br />

In conclusione la Banca convenuta deve essere condannata a corrispondere alla ricorrente, a titolo<br />

di danno biologico temporaneo e permanente, la complessiva somma di £ 84.510.000, oltre interessi<br />

legali fino al saldo.<br />

La Banca convenuta deve essere altresì condannata a risarcire alla … il danno patrimoniale subito<br />

per effetto del comportamento illecito della controparte. La ricorrente è stata licenziata per<br />

superamento del periodo di conservazione del posto previsto contrattualmente in caso di malattia;<br />

poiché quest’ultima è stata causata dalla condotta della parte datoriale ed ha altresì determinato, in<br />

ragione del suo protrarsi, il licenziamento, la ricorrente ha diritto ad ottenere dalla Banca il<br />

conseguente danno patrimoniale subito, di importo pari alle mensilità di stipendio maturate dalla<br />

data del licenziamento sino alla data della presente sentenza, oltre interessi legali fino al saldo.<br />

Circa la sussistenza e la quantificazione di tale danno, si rileva che la … è tuttora disoccupata, come<br />

risulta altresì dal libretto di lavoro in atti.<br />

Può altresì ritenersi sufficientemente dimostrato che la memomazione psichica accertata dal CTU,<br />

necessitante ancora, all’epoca di espletamento della CTU, di trattamento farmacologico e<br />

psichiatrico (cfr. pag. n.7 CTU), nonché l’età della ricorrente hanno sinora di fatto impedito il<br />

reinserimento lavorativo della stessa.<br />

Gli emolumenti spettanti all’epoca del licenziamento sono stati specificati in ricorso, nonché<br />

documentati in base alla busta paga allegata al fascicolo di parte ricorrente, ed i successivi dovranno<br />

essere calcolati in base alle ordinarie dinamiche salariali.


Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.<br />

Le spese di CTU, già liquidate, sono poste definitivamente a carico di parte convenuta, che per<br />

l’effetto è condannata a restituire alla ricorrente quanto eventualmente anticipato a tale titolo.<br />

P.Q.M.<br />

Il Giudice Unico del Lavoro del Tribunale di Treviso, definitivamente pronunciando sulla<br />

controversia in epigrafe indicata, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così<br />

provvede:<br />

1. accoglie il ricorso e per l’effetto condanna parte convenuta a risarcire alla ricorrente il danno<br />

biologico temporaneo e permanente, liquidato nella complessiva somma di £ 84.510.000,<br />

nonché il danno patrimoniale subito di importo pari alle mensilità di stipendio maturate dalla<br />

data del licenziamento sino alla data della presente sentenza, oltre interessi legali fino al saldo;<br />

2. pone definitivamente a carico di parte convenuta le spese della CTU medico-legale, già<br />

liquidate, e per l’effetto condanna parte convenuta a restituire alla ricorrente quanto<br />

eventualmente anticipato a tale titolo;<br />

3. condanna parte convenuta alla rifusione delle spese di lite, liquidate d’ufficio in complessive £<br />

10.000.000, di cui £ 100.000 per anticipazioni, oltre IVA e CNA come per legge.<br />

Treviso, 21.12.2001<br />

Il Collaboratore di Cancelleria Il Giudice Unico del Lavoro


Tribunale di Torino, 1 agosto 2002 – Giud. Leo - Imp. Uccellini Leopoldo<br />

PER GENTILE CONCESSIONE DI WWW.FIBA.IT<br />

S E N T E N Z A<br />

nei confronti di:UCCELLINI Leopoldo - libero, contumace ;<br />

IMPUTATO<br />

Artt. 590 comma 1, 2, 3 c.p., e 583 comma 2, n. 1 c.p. – commesso in qualità di responsabile<br />

dell’Istituto di Vigilanza Privata Argus di Torino – per avere cagionato a Di Sabato Luigi,<br />

esercente l’attività di guardia giurata alle dipendenze di detto Istituto, una lesione personale da<br />

cui è derivata una malattia certamente insanabile (infarto del miocardio) che ha lasciato postumi<br />

anatomici permanenti (fibre miocardiche sostituite da tessuto fibroso cicatriziale), per colpa, e,<br />

in particolare, per negligenza, imprudenza, imperizia, e per inosservanza delle norme<br />

sull’igiene del lavoro, e segnatamente, degli artt. 2087 c.c., 3 comma 1, lettere a), f), l), m) e 4<br />

comma 5, lettera c) D. Leg. N. 626/1994, poiché ometteva di effettuare la valutazione del<br />

rischio da stress psico-fisico inerente alla sopraddetta attività di vigilanza, di adottare tutti i<br />

provvedimenti tecnici, organizzativi e procedurali necessari per contenere tali rischi (quali turni<br />

di lavoro di durata non superiore alle dodici ore consecutive sia diurni, sia notturni, e svolti da<br />

minimo di due persone tali da diminuire lo stress da timore aggressione; fornitura di strumenti<br />

di sicurezza quali torce per i servizi di piantonamento notturno, e radiotrasmittente, nonché<br />

mezzi di riscaldamento da utilizzare durante i piantonamenti esterni), di sottoporre il lavoratore<br />

ad adeguato controllo sanitario, preventivo e periodico, mirato sul rischio specifico inerente a<br />

rischi da stress lavorativo, di informarsi e di informare e addestrare il Di Sabato circa tale<br />

rischio specifico e i modi per ovviare al rischio medesimo, di allontanare il lavoratore dal<br />

rischio nonostante fosse già noto che il Di Sabato – a seguito della visita per l’arruolamento<br />

nella vigilanza privata – era stato riconosciuto idoneo al solo servizio sedentario; e che aveva<br />

una invalidità del 40% nell’uso delle gambe riconosciuta dalla Commissione Sanitaria Invalidi<br />

Civili della Regione Campania; che soffriva di nevrosi neuroastenica ipocondriaca, di postumi<br />

traumatici di frattura gamba destra e sinistra, di emiparesi dell’arto superiore destro e infine di<br />

ipertensione arteriosa; con la conseguenza che il suddetto lavoratore nella notte tra il 7 e l’8<br />

settembre 1995 subiva la menzionata lesione personale.<br />

In Torino tra il 7 e l’8 settembre 1995<br />

(capo di imputazione come modificato all’udienza del 30 maggio 2002).<br />

Con l'intervento del Pubblico Ministero dr.ssa Sara Panelli e dell’avv. G. Zancan del Foro di<br />

Torino, difensore di fiducia dell’imputato.<br />

Le parti hanno concluso come segue:<br />

PUBBLICO MINISTERO: chiede la condanna dell’imputato alla pena di un anno di reclusione.<br />

DIFESA: “esclusione della circostanza aggravante; riconduzione del fatto nella procedibilità a<br />

querela e dichiarazione di non doversi procedere, essendovi remissione di querela”. In<br />

subordine, nell’ipotesi di affermazione di responsabilità, “concessione delle circostanze<br />

attenuanti generiche, anche in mero giudizio di equivalenza, che fanno ritornare la pena nella<br />

forma base”, contenimento della sanzione “o come scelta o come conversione rispetto a quel<br />

massimo, tre mesi, che consente la conversione”.<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con decreto di citazione del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Torino in data 20<br />

settembre 2001, veniva disposto il giudizio nei confronti di UCCELLINI Leopoldo per<br />

rispondere del reato descritto nel medesimo decreto.<br />

La persona offesa, Luigi Di Sabato, si è costituita parte civile, “al fine di ottenere, previa<br />

condanna del prevenuto, il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali”,


consistenti in “pregiudizi conseguenti al grave danno biologico derivante” alla medesima “in<br />

diretta conseguenza dei fatti di causa, che hanno leso irrimediabilmente la salute dello stesso;<br />

pregiudizi di ordine morale patiti e patiendi dal Di Sabato in conseguenza del profondo stato di<br />

prostrazione morale in cui lo stesso tuttora versa a causa dei fatti oggetto del presente<br />

procedimento, oltre a quelli già patiti a seguito delle cure mediche cui è stato costretto e tuttora<br />

si sottopone a cagione delle patologie contratte; pregiudizi di ordine economico, consistenti<br />

nelle spese sostenute per le cure e l’assistenza necessarie in conseguenza della malattia” di cui<br />

si tratta.<br />

All’udienza del 30 maggio 2002, si procedeva all’istruttoria dibattimentale mediante<br />

l’escussione dei testi indicati dalle parti, le produzioni documentali e l’audizione in<br />

contraddittorio dei consulenti dell’accusa e della difesa, all’esito della quale il Pubblico<br />

Ministero modificava l’originaria imputazione nei termini di cui in rubrica.<br />

Veniva, pertanto, ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 516 e 520 c.p.p.,<br />

l’acquisizione al verbale del dibattimento dell’imputazione modificata e disposta la notifica del<br />

medesimo verbale per estratto al prevenuto rimasto contumace.<br />

Il processo, la cui istruzione dibattimentale proseguiva all’udienza del 9 luglio 2002 - all’esito<br />

della quale, indicati dal giudicante, ai sensi dell’art. 511 c.p.p., gli atti utilizzabili ai fini della<br />

decisione, il Pubblico Ministero concludeva come in epigrafe – subiva un ulteriore rinvio<br />

all’udienza del successivo 15 luglio, alla quale il difensore della parte civile faceva presente<br />

che, pochi giorni prima, era intervenuto un accordo transattivo tra Uccellini e Di Sabato, in base<br />

al quale si era stabilito che a quest’ultimo venisse versata la somma di 150.000 euro al netto da<br />

spese legali (di cui metà direttamente dall’imputato, l’altra metà dalla Reale Mutua<br />

Assicurazioni). In conseguenza di ciò, veniva revocata la costituzione di parte civile ed altresì<br />

rimessa la querela, “laddove l’atto di denuncia potesse essere concepito come denunciaquerela”;<br />

quindi il difensore dell’imputato concludeva come in atti.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

L’accusa, analiticamente contestata nel capo di imputazione riformulato dal Pubblico Ministero<br />

all’udienza del 30 maggio 2002, è rimasta ampiamente provata sotto tutti i profili contestati.<br />

All’uopo è sufficiente evidenziare quanto risulta per tabulas e dall’intero dibattimento il quale<br />

ha messo in rilievo, tra l’altro, questi elementi in fatto:<br />

- Luigi Di Sabato ha prestato servizio come guardia giurata presso l’Istituto di vigilanza<br />

ARGUS, di cui è presidente e direttore generale Leopoldo UCCELLINI, per un periodo di circa<br />

venti anni (dal mese di maggio del 1977 al 16 settembre 1997, data alla quale è stato licenziato,<br />

come risulta dalla lettera a firma dello stesso UCCELLINI, agli atti). Fin dall’inizio della sua<br />

attività, il Di Sabato è stato sottoposto a turni di lavoro stressanti, che prevedevano, oltre ai<br />

servizi di piantonamento effettuati prevalentemente di notte, un numero di ore di straordinario<br />

assai elevato, che la Argus richiedeva ai propri dipendenti assai spesso senza soluzione di<br />

continuità rispetto ai turni di notte e, quasi sempre, senza concedere loro il giorno di riposo<br />

stabilito e, soprattutto, le ferie durante il periodo estivo. Periodo che, anzi, secondo quanto<br />

concordemente riferito dai testi escussi all’udienza del 30 maggio 2002, risultava essere,<br />

unitamente a quello natalizio, il “più massacrante”.<br />

- La società in questione, alle dipendenze della quale lavorano circa trecento persone, ha per<br />

oggetto: la prestazione di servizi di sicurezza, custodia e sorveglianza, diurna e notturna, fissi o<br />

mobili, delle proprietà mobiliari ed immobiliari degli Enti pubblici e privati, di scorta al<br />

trasporto valori, nonché ogni attività e prestazione complementare ed affini (v. statuto della<br />

ARGUS, in atti; v., pure, le dichiarazioni del teste Mario Canova, responsabile<br />

dell’amministrazione del personale della predetta società, alle pagg. 144-146 della trascrizione<br />

relativa all’udienza del 30 maggio 2002). All’epoca dei fatti per cui si procede, l’attività dei


dipendenti, dunque, veniva svolta, in alcuni casi – e prevalentemente - all’esterno degli edifici<br />

e, spesso, di notte. In altri casi, consisteva, invece, in attività di vigilanza all’interno delle<br />

banche, degli uffici di “Canale Cinque”, o di supermercati; nel caso oggetto del giudizio,<br />

comunque, alla stregua di quanto è emerso in sede dibattimentale, senza che si tenesse in alcun<br />

conto, nell’affidamento dei vari compiti, delle capacità e delle condizioni del lavoratore in<br />

rapporto alla sua salute ed alla sicurezza, senza un regolare controllo sanitario del medesimo in<br />

funzione dei rischi specifici e senza che gli si mettessero a disposizione i necessari strumenti di<br />

protezione individuale; inoltre, senza che il direttore generale della Argus, il quale era sempre a<br />

conoscenza di eventuali malattie dei dipendenti o di incidenti capitati ai medesimi sul posto di<br />

lavoro, si astenesse dal ricollocarlo nello stesso servizio anche nei casi in cui erano stati prodotti<br />

certificati medici attestanti la non idoneità del dipendente per quel tipo di servizio. Con<br />

l’evidente conseguenza di mettere in grave pericolo la salute dello stesso (v. quanto riferito, in<br />

merito, dal Canova all’anzidetta udienza, alle pagg. 129-138 della relativa trascrizione: “…i<br />

certificati medici relativi ai nostri lavoratori, e qualsiasi tipo di documentazione che arrivi nel<br />

nostro ufficio, transita dalla direzione generale e poi viene smistata nei vari uffici. A capo della<br />

direzione generale, all’epoca dei fatti, c’era il presidente del consiglio di amministrazione che<br />

era il dottor Leopoldo UCCELLINI…Sono arrivati parecchi certificati medici del Di Sabato nei<br />

quali si attestavano diversi problemi fisici dello stesso…ho trasmesso personalmente il<br />

certificato ospedaliero relativo all’infarto alla direzione generale; di fatto, all’epoca quello che<br />

aveva contatto direttamente con gli uffici operativi ed amministrativi e con la gestione del<br />

personale era il dott. Tosi, ora deceduto, ma il direttore generale vedeva sempre i certificati”).<br />

Riguardo al Di Sabato, Canova ha ancora affermato: “la direzione generale, nel mese di<br />

febbraio del 1997, ha, dopo i numerosi incidenti capitati al Di Sabato, deciso di farlo sottoporre<br />

ad un accertamento sanitario urgente da parte del responsabile del servizio di medicina legale<br />

della U.S.L. 5 di Collegno” - a seguito del quale è risultato che il dipendente era “inidoneo in<br />

modo permanente a servizi armati tipo guardia giurata, soprattutto in turni lavorativi notturni,<br />

ma ricollocabile in attività che richiedono minor impegno psico fisico e minor impegno di<br />

energie e/o minore stress, come i lavori di ufficio e similari” –; “in realtà da un certo numero di<br />

anni a questa parte quando ci sono delle segnalazioni ufficiali da parte di organi competenti,<br />

ASL o ospedali, cerchiamo di inviare il lavoratore ad una visita di idoneità proprio per<br />

accertarne i requisiti. All’epoca, io ricordo che questa cosa non è stata fatta immediatamente;<br />

nel caso di invalidità temporanea di un dipendente, l’azienda non ha dato alcuna direttiva ai<br />

capiturno di assegnare il dipendente ad un servizio meno faticoso, tutto è lasciato alla<br />

discrezionalità…..che io ricordi, si è verificato un solo caso di assegnazione ad un lavoro meno<br />

stressante, quello del dipendente Varesano” (v. pagg. 144-151 della trascrizione).<br />

- Come risulta dalle dichiarazioni del teste Salvatore Uleri, tecnico del Dipartimento di<br />

prevenzione della ASL 1 di Torino, incaricato dal Procuratore della Repubblica della stessa<br />

città di “effettuare accertamenti in merito alla riconducibilità della patologia del Di Sabato a<br />

carenze nella prevenzione nell’ambiente lavorativo” (v. pagg. 163-165 della trascrizione<br />

relativa all’udienza del 30 maggio 2002), nonché dalla documentazione prodotta dall’accusa ed<br />

allegata agli atti, nella cartella relativa al predetto dipendente, consultata dallo stesso Uleri<br />

presso la ARGUS, era inserita una “annotazione preassuntiva” in data 3 maggio 1977, a firma<br />

del dott. Ermanno Angela, nella quale quest’ultimo attestava di aver visitato alla stessa data il<br />

signor Di Sabato e di averlo trovato in condizioni fisiche non perfette, al punto da ritenerlo<br />

“non idoneo all’arruolamento nel corpo di vigilanza privata”. Sempre il dottor Angela<br />

specificava in un certificato medico (agli atti) rilasciato il successivo 18 maggio, “ad uso<br />

arruolamento volontario nel corpo di vigilanza privata ARGUS”, che il Di Sabato “è di sana e<br />

robusta costituzione, ma non è esente da imperfezioni fisiche” e che, pertanto, “è idoneo al solo<br />

servizio sedentario”.


Ciò a causa del fatto che allo stesso era stata riconosciuta una invalidità del 40% in<br />

conseguenza di un incidente stradale avvenuto nel 1974 nel quale il medesimo aveva riportato<br />

una “frattura metafisaria prossimale della tibia e del perone sn complicata da frattura terzo<br />

medio tibia dx, ferita lacero-contusa della regione antero-esterna della gamba sn con<br />

abbondante gemizio”, invalidità della quale il Di Sabato, per sua stessa ammissione, aveva<br />

portato a conoscenza la ARGUS solo dopo l’assunzione, per paura di non essere dichiarato<br />

idoneo a quel lavoro.<br />

- Nonostante i certificati medici di cui sopra è menzione, seguiti da numerosi altri relativi alle<br />

condizioni di salute della persona offesa che, di anno in anno, si facevano sempre più precarie<br />

anche a causa dei numerosi incidenti avuti sul posto di lavoro (v. certificati attestanti che la<br />

stessa non era del tutto inabile al servizio, ma avrebbe dovuto essere destinata ad un lavoro<br />

sedentario e meno stressante), ad ogni “rientro alla ARGUS” dopo i periodi di malattia o di<br />

infortunio, i turni erano sempre gli stessi, il lavoro straordinario seguiva sempre a quello<br />

notturno quasi senza soluzione di continuità; i servizi di piantonamento, cui il Di Sabato era con<br />

frequenza addetto, prevedevano dodici ore continuative di lavoro “che diventavano sempre<br />

diciotto; tutti i giorni, inoltre” – ha dichiarato lo stesso all’udienza del 30 maggio 2002 (v. pagg.<br />

5-7 della trascrizione relativa) – “ero costretto a fare lo straordinario….lì dovevi essere per<br />

forza disponibile, non si poteva rifiutare lo straordinario, io delle volte facevo il giorno, la notte<br />

e poi anche il giorno successivo senza interruzione….se mi fossi rifiutato, avrei avuto le<br />

ritorsioni, le ripicche” (v., in particolare, pagg. 20-21 della trascrizione).<br />

Tali “ripicche”, cui hanno fatto, più volte, riferimento, nel corso delle rispettive deposizioni<br />

testimoniali, oltre al Di Sabato, anche Antonino Attardi (v. pure pagg. 93, 110, 111 della<br />

trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002), ex dipendente della ARGUS, nonché<br />

Aniello De Rosa, all’epoca dei fatti guardia giurata ed oggi caposervizio alla Argus,<br />

consistevano nel “non proporre lo straordinario quando eventualmente il lavoratore avesse<br />

avuto urgente bisogno di guadagnare di più o nel mandare il lavoratore nei posti più scomodi,<br />

dall’altra parte della città, oppure nell’assegnare turni nei quali il dipendente terminava la notte<br />

da una parte e doveva intraprendere subito dopo il diurno dall’altra parte di Torino”. Al<br />

proposito, De Rosa ha specificato: “anch’io ho fatto un po’ di malattia, anch’io ho avuto<br />

problemi alla schiena all’inizio e l’ex capo servizio allora mi fece capire che dovevo tenere una<br />

via dritta, altrimenti potevo rischiare di non esserci più al lavoro. I turni, poi, erano facoltativi,<br />

ma potevano diventare non più facoltativi perché se ti rifiutavi potevano esserci delle<br />

ripercussioni”.<br />

Sulle modalità di prestazione delle ore di straordinario, lo stesso responsabile del personale<br />

Canova ha affermato: “è innegabile che le ore di servizio in ARGUS siano dodici continuative,<br />

alle quali spesso seguono senza interruzione altre quattro, cinque, sei ore, sicuramente succede,<br />

sì succedeva e succede che, alla fine del turno, la persona possa essere richiamata in servizio;<br />

non posso negarlo, risulta da tutti i documenti ufficiali che abbiamo in azienda e la direzione ne<br />

era a conoscenza, perché, a cadenze fisse, richiedeva la situazione del numero di ore di<br />

straordinario effettuate da ogni singolo dipendente….non posso neppure negare che il Di<br />

Sabato aveva richiesto, in diverse occasioni, di essere adibito ad un lavoro meno faticoso e più<br />

consono al suo stato di salute” (pagg. 155-157 della trascrizione).<br />

L’eccessivo numero di ore di lavoro effettuate dalla p.o. e dalle altre guardie giurate risulta,<br />

inoltre, dalle rispettive buste-paga, in quanto, sempre secondo le concordi affermazioni di<br />

Canova, Di Sabato, Attardi e De Rosa, “le ore di straordinario, così come le ferie ed il mancato<br />

riposo settimanale, venivano pagate in busta”.<br />

Circa le ferie, quanto asserito dal Di Sabato (v. pagg. 36-38 della trascrizione) trova ancora<br />

conferma, oltre che nel tabulato (in atti) attestante le presenze dello stesso sul luogo di lavoro e<br />

l’incredibile numero di ore di straordinario effettuato, nelle dichiarazioni di Attardi (pagg. 94-


95 della trascrizione) e di De Rosa, nonché nelle ammissioni fatte dallo stesso Canova (pagg.<br />

154-155 della trascrizione).<br />

Il Di Sabato – il quale, pur apparendo molto provato nel fisico, ha partecipato a tutte le udienze,<br />

riuscendo, altresì, a ricostruire con precisione, in sede di esame testimoniale, i momenti<br />

fondamentali della sua vicenda lavorativa alla ARGUS – non ha mai inveito contro<br />

quest’ultima, ha anzi precisato di non aver dimenticato che detta società “gli ha dato da vivere<br />

per molti anni, consentendogli di mantenere con il suo unico reddito una famiglia numerosa”,<br />

ed ha, inoltre, affermato che “gli straordinari ed i giorni di mancate ferie e di riposi non goduti<br />

erano pagati bene”, ma ha anche sottolineato con rammarico per le gravi conseguenze<br />

capitategli: “le ferie non le facevo mai, loro preferivano pagarle che darle, perché avevano<br />

bisogno di lavoro, perché lì il lavoro è agosto, Natale e Pasqua….questi periodi non li ho mai<br />

potuti passare con la mia famiglia”.<br />

E Attardi: “Quello passato alla ARGUS è un periodo della mia vita che ho cercato di cancellare<br />

(pagg. 80-81, 95 della trascrizione)…le ferie e i riposi non venivano effettivamente goduti, il<br />

riposo settimanale all’inizio che ero alla ARGUS era un sogno…era un sogno; se non c’era<br />

disponibilità, le ferie non le facevi…i capiservizio ci facevano capire di metterci in mutua<br />

piuttosto che chiedere le ferie, per questo sono andato via dalla ARGUS; non mi ricordo quanti<br />

giorni di ferie mi hanno pagato, perché avevo delle ferie arretrate di anni addietro”.<br />

“Le ferie? Eh, quelle erano un dramma, non c’erano mai” – ha detto il De Rosa – “si<br />

richiedevano proprio solo per formalizzare, però ogni anno era un dramma…non ho mai fatto<br />

ferie in agosto. Per il riposo settimanale anche qui la prassi era che venisse pagato in busta,<br />

anche qui non si poteva rifiutare il mancato riposo, senza le rispettive conseguenze future”.<br />

- Le condizioni in cui veniva prestato il lavoro “di piantonamento” (in particolare quello<br />

notturno, già di per sé disagevole, soprattutto nei lunghi inverni torinesi, in cui la temperatura<br />

scende con frequenza di alcuni gradi sotto lo zero) erano rese ancora più insopportabili dal fatto<br />

che la società non forniva ai propri dipendenti le torce, né il telefono cellulare, né alcun mezzo<br />

per ripararsi dal freddo. E’ stato, infatti, acclarato che soltanto alla WESTINGHOUSE vi fosse<br />

un “gabbiotto” fornito di telefono e che, “soltanto là, i turni venivano svolti in coppia, per cui,<br />

di volta in volta, mentre l’uno rimaneva nel gabbiotto, l’altro faceva i giri di controllo dentro la<br />

fabbrica”; la qual cosa consentiva ai dipendenti di lavorare con una maggiore tranquillità anche<br />

perché, se uno dei due si fosse sentito male, come è capitato, in più di una occasione, al Di<br />

Sabato, l’altro avrebbe potuto soccorrerlo.<br />

Soltanto il servizio chiamato “Sagittario”, cioè la vigilanza antirapina, aveva in dotazione le<br />

torce (v. pag. 91 della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002), gli altri dipendenti,<br />

almeno quelli che potevano permetterselo, alla fine, stanchi di richiedere alla società gli<br />

strumenti per lavorare in condizioni di sicurezza accettabili, finivano per acquistare a proprie<br />

spese torce, telefoni cellulari, nonché giubbotti antiproiettile e, per ripararsi dal freddo, le<br />

giacche a vento da tenere sopra la divisa, perché la ARGUS forniva delle giacche che non<br />

riparavano abbastanza dal freddo della notte (v. pagg. 90, 99 della trascrizione).<br />

Qualora, poi, un dipendente avesse avuto un malore durante il servizio o si fosse sentito così<br />

stanco da avere necessità di ritornare a casa, non sempre veniva sostituito; ed anche nel caso in<br />

cui fosse riuscito ad avvertire la società da una cabina telefonica – ed alcune volte la p.o. non è<br />

stata in grado di farlo, perché, oltre ad essere priva di strumenti di comunicazione, non vi era<br />

alcun telefono pubblico vicino al luogo “di piantonamento” – “il cambio…molte volte non<br />

arrivava”; l’Attardi, sul punto, ha spiegato: “io una volta ho avuto la sostituzione, ma, in genere,<br />

ti chiedevano se potevi farcela a tirare avanti…cercavano di aggiustare le cose, perché,<br />

comunque, uomini disponibili per determinate mansioni non c’erano” (v. pagg. 91-92 della<br />

trascrizione).


- La notte del 30 dicembre 1985, il Di Sabato, durante “un servizio effettuato presso le case<br />

popolari, da solo e con la paura che potesse capitare qualcosa, perché il luogo era pieno di<br />

drogati…e c’era molto buio, tanto da non vedere dove mettere i piedi”, è stato colto per la<br />

prima volta da malore nel corso di un turno di lavoro. Al proposito, lo stesso ha riferito (v.<br />

pagg. 9 e segg. Della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002): “faceva un freddo<br />

da cani, aveva nevicato; io, purtroppo, non potevo accendere la macchina, come avevo fatto<br />

altre volte per ripararmi dal freddo, perché ero stato richiamato la sera prima dagli inquilini che<br />

non riuscivano a dormire per il rumore del motore acceso…..Ricordo che ho cominciato a star<br />

male, mi tirava un braccio, poi una gamba, sono caduto per terra…mi ricordo solo questo. Ho<br />

perso conoscenza…mi sono trovato ricoverato all’ospedale “Mauriziano” di Torino, dove sono<br />

rimasto circa quaranta giorni con una diagnosi di sofferenza cerebrale…Il mio medico, prima di<br />

tornare a lavorare mi ha visitato e mi ha rilasciato un certificato nel quale si consigliava di<br />

svolgere mansioni un poco più…però, quando sono rientrato è rimasto tutto come prima,<br />

dodici, tredici, quattordici ore di lavoro, con i turni di notte, da solo, al freddo, senza torcia, né<br />

radiotrasmittente, senza ferie, né riposo settimanale”. Dopo quell’episodio, nel 1988, il Di<br />

Sabato ha avuto un altro malore - mentre espletava un servizio di vigilanza in Corso Lione, in<br />

Torino - a seguito del quale è stato alcuni giorni assente dal lavoro.<br />

Il De Rosa ha, a sua volta, dichiarato che, dopo la sua promozione ad ispettore, durante i turni<br />

di sorveglianza notturna, spesso ha constatato che le guardie giurate accendevano dei falò per<br />

ripararsi dal freddo intenso e per fare un po’ di luce, perché con il buio pesto avrebbero<br />

rischiato di farsi male, soprattutto quando svolgevano il servizio di sorveglianza presso i<br />

cantieri.<br />

Come appare evidente, quindi, già dalla descrizione dei fatti fin qui riportata, la società in<br />

questione e, per essa, il presidente e direttore generale, non ha adottato le più elementari misure<br />

per evitare di mettere in pericolo la sicurezza e la salute psico-fisica del proprio dipendente -<br />

diritto che la Carta costituzionale, all’art. 32, garantisce come primario ed originario<br />

dell’individuo -, in particolare, omettendo di allontanare quest’ultimo dall’esposizione a rischio<br />

per motivi sanitari inerenti la sua persona e di conferirgli mansioni più consone alle sue<br />

condizioni in rapporto alla sua salute ed alla sicurezza.<br />

E ciò in violazione dell’anzidetto precetto costituzionale, delle disposizioni antinfortunistiche,<br />

fra le quali quelle contenute nel D. L.vo 19 settembre 1994, n. 626, che ha dato attuazione ad<br />

alcune direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori<br />

durante il lavoro, nonché dell’art. 2087 cod. civ., che costituisce “norma di chiusura del sistema<br />

antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e<br />

valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all’imprenditore<br />

l’obbligo di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti”.<br />

Detto obbligo non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di<br />

misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico”, ma attiene anche – e soprattutto – alla<br />

predisposizione “di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i<br />

lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in<br />

relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, come le aggressioni<br />

conseguenti all’attività criminosa dei terzi ed alla probabilità di concretizzazione del<br />

conseguente rischio”; rischio che le guardie giurate corrono giornalmente, e per il quale il Di<br />

Sabato, come dallo stesso dichiarato all’udienza del 30 maggio 2002, era continuamente in<br />

apprensione, particolarmente durante i turni di notte, perché era “da solo e c’era un buio pesto”<br />

ed in caso di aggressione da parte di più persone non avrebbe saputo come difendersi.<br />

Tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile si giustifica, alla stregua<br />

dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass.,<br />

sentt. nn. 8422/97 e 7768/95), sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute - art. 32<br />

Cost. -, sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio


– artt. 1175 e 1375 c.c. – cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del<br />

rapporto di lavoro, sia, infine, “pur se nell’ambito della generica responsabilità extracontrattuale<br />

o aquiliana”, ex art. 2043 c.c., in tema di neminem laedere (il Supremo Collegio, in proposito,<br />

ha, altresì, messo in evidenza che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere di<br />

neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo giuridico<br />

di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola<br />

contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un<br />

diritto altrui, è da considerare “responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è<br />

esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso”: così, tra le molte,<br />

Cass., Sez. III civ., 9 luglio 1998, n. 6691).<br />

Tornando alle condizioni di lavoro in cui il Di Sabato è stato costretto a continuare a prestare il<br />

suo servizio, prima dell’infarto occorsogli nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1995, e dopo il<br />

rientro in servizio a seguito dell’ultimato periodo di convalescenza, vi è ancora da sottolineare<br />

lo stato di angoscia e di costrizione psicologica nel quale egli è venuto a trovarsi, soprattutto<br />

durante i servizi notturni “di piantonamento”. Angoscia che traspare con evidenza dalle<br />

dichiarazioni che egli ha reso in sede di esame. “La mattina, dopo che avevo fatto la notte, mi<br />

mandavano a fare le aperture delle banche ed io, invece di andare a dormire, dovevo aspettare,<br />

perché l’apertura delle banche si fa dalle sette alle otto e mezza; dopo l’arrivo degli impiegati,<br />

me ne andavo a casa e mi pagavano mezz’ora” (v. pagg. 13-14 della trascrizione relativa<br />

all’udienza del 30 maggio 2002).<br />

E, ancora: “Il 29 novembre del 1994 ed il 4 luglio 1995 ho avuto altri due incidenti, mentre ero<br />

di servizio; nel ’94, mi trovavo in un supermercato in costruzione a Moncalieri, si trattava di<br />

un’area molto vasta, non c’era riscaldamento, ero solo, non potevo tenere la macchina accesa<br />

perché disturbavo gli inquilini dei palazzi circostanti. Dietro il supermercato era tutto aperto, lì<br />

c’era di tutto, gente, ragazzi che si andavano a drogare…ad un certo momento ho sentito che<br />

dei ragazzi mi inseguivano urlando, così, per non farmi vedere, andavo appoggiandomi ai muri,<br />

lo avevo imparato a memoria quel tragitto; c’erano chiodi per terra, tavole, e non avevo la<br />

lampada, così sono inciampato e sono caduto”.<br />

Quanto all’incidente avvenuto il 4 luglio 1995, due mesi prima dell’infarto, la dinamica è<br />

analoga: il Di Sabato si trovava a svolgere “un servizio alla SIPRA, dalle 19.00 alle 7.00 della<br />

mattina successiva”, doveva effettuare un lungo giro di sorveglianza, non poteva prendere<br />

l’ascensore “perché da solo non era prudente, visto che spesso si rimaneva bloccati dentro” e, “<br />

giunto all’ultimo piano”, si è sentito male, è caduto per le scale ed il mattino seguente è stato<br />

trasportato alle “Molinette” con una ambulanza. Anche in questo caso, nel certificato medico<br />

rilasciatogli e consegnato all’ufficio del personale si consigliava di attribuirgli mansioni meno<br />

stressanti.<br />

E’, dunque, da evidenziare che, nel periodo che ha preceduto l’infarto, le condizioni psicofisiche<br />

della p.o. sono divenute sempre più critiche – la qual cosa trova conferma, oltre che<br />

nelle concordi dichiarazioni dei testi escussi, anche nella documentazione medica agli atti -, al<br />

punto tale che la medesima p.o., durante il servizio, ha iniziato a fumare molte sigarette,<br />

“perché se non si fumava purtroppo ci si addormentava” (v. pag. 57 della trascrizione) ed è<br />

divenuta sempre più irascibile per la stanchezza ormai cronicizzata che spesso le produceva,<br />

come risulta dai referti agli atti, degli stati di ansia che sfociavano in veri e propri attacchi di<br />

panico.<br />

Inoltre, proprio in quel periodo, il Di Sabato, per la prima volta dopo lunghi anni di servizio<br />

senza mai lamentarsi, ha avuto un diverbio con il capoturno Gubbini – “dovuto alla stanchezza<br />

e all’esaurimento”, dice la stessa p.o., che ha ammesso di avere anche talvolta “pensato di farla<br />

finita, perché dalla stanchezza non ce la faceva più” –, in ordine al quale il direttore generale ha<br />

ritenuto di non dover prendere alcun provvedimento nei confronti della guardia giurata,


itenendo che si trattasse di un episodio “dovuto alla fatica sopportata negli ultimi tempi”(v.<br />

documentazione prodotta dall’accusa, in atti).<br />

Detti stati di malessere generale che, prima dell’infarto, hanno prodotto al Di Sabato continui<br />

“sbalzi pressori”, nonché un senso di depressione sempre più grave, sono, con ogni evidenza,<br />

alla stregua delle descritte provate circostanze e di quanto si dirà appresso, da ricondurre alle<br />

modalità di prestazione del servizio che venivano imposte allo stesso, peraltro in uno situazione<br />

di terrorismo psicologico che costringeva il dipendente a non richiedere ciò che gli spettava, a<br />

non farsi mai avanti, a non polemizzare sui turni di notte e sulle mancate ferie, per paura di<br />

essere licenziato: “Da noi, se si parlava troppo si usciva, questa è la verità…io parecchie volte<br />

arrivavo a casa distrutto, ma avevo paura, paura di parlare, perché avevo moglie e tre figli da<br />

mantenere” (v. pagg. 42-44 della trascrizione).<br />

Ed è, altresì, evidente che egli non ha mai avuto, durante i vent’anni di servizio alla ARGUS, il<br />

tempo di riprendersi dalla stanchezza e dallo stress che si sono accumulati di anno in anno. A<br />

ciò si aggiunga che la guardia giurata di cui si tratta non si sentiva compresa, per quanto in<br />

precedenza analiticamente esposto, dal suo datore di lavoro, ma, anzi, violata nella sua integrità<br />

fisica e psichica, con riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni ed i rapporti<br />

in cui, di norma, l’individuo esplica se stesso nella propria vita; non soltanto, quindi, con<br />

riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riguardo alla sfera spirituale, culturale, affettiva<br />

e sociale e ad ogni attività realizzatrice della persona umana (cfr., pure, Corte cost. sentt. nn.<br />

616/87; 356/91; 158/01).<br />

Non può non sottolinearsi, relativamente a questo profilo, che, ad esempio, il diritto del<br />

lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall’art. 36 della Costituzione, è ricollegabile non solo ad<br />

una funzione di corrispettivo dell’attività lavorativa, ma altresì al soddisfacimento di esigenze<br />

psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale, mediante le ferie, ha la possibilità di<br />

partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto<br />

alla salute nell’interesse dello stesso datore di lavoro (cfr. Cass., S.U., 8 giugno 2001, n. 278).<br />

Invero, la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come l’avvento della<br />

Costituzione abbia segnato un “momento di rottura rispetto al sistema precedente ed abbia, di<br />

conseguenza, consacrato il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale criterio cui<br />

improntare l’agire privato”. L’attività produttiva – che forma anch’essa oggetto di tutela<br />

costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa e<br />

rientra, quindi, nell’ambito di previsione dell’art. 41, I comma, della Costituzione – è<br />

subordinata, ai sensi del II comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa<br />

non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla<br />

collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona<br />

umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. E’ questa l’indicazione<br />

proveniente anche dal riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo, in quanto<br />

“valori di esperienza e di civiltà desumibili dalla realtà sociale nel suo divenire storico”. Da ciò<br />

consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo ha lasciato il posto ad una<br />

diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di<br />

essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale svolge la propria attività<br />

lavorativa –; momenti tutti che “costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come<br />

valori apicali dell’ordinamento.<br />

Pertanto, il datore di lavoro che non si fa carico di salvaguardare la dignità, la salute e la<br />

sicurezza del proprio dipendente, mortificando le sue aspettative e, omettendo di adeguare<br />

l’organico aziendale alle effettive necessità, impone un superlavoro con orari e turni che ledono<br />

quei diritti fondamentali; contribuisce a produrre nel lavoratore una progressiva sfiducia nelle<br />

proprie capacità, nonché stati di depressione che, in alcuni casi, possono condurlo anche al<br />

pensiero di gesti anticonservativi (v. dichiarazioni del Di Sabato in merito) e si può rendere<br />

responsabile, con il proprio comportamento omissivo, di eventuali malattie professionali che


eventualmente ne scaturiscano. E che consistono, come è stato evidenziato, in quelle patologie<br />

che, a differenza degli infortuni, “dipendono da un’azione lesiva operante non con rapidità,<br />

bensì con gradualità”.<br />

Per quanto, più in particolare, riguarda l’episodio avvenuto nella notte tra il 7 e l’8 settembre<br />

1995, il Di Sabato ha ricordato che aveva chiesto, più volte, anche alcuni giorni prima, al<br />

caposervizio Nicola Diamante se poteva essere sistemato “in un posto più decente, perché<br />

ormai non ce la faceva più” (v. pag. 24 della trascrizione).<br />

Quella notte si trovava alla SIPRA e svolgeva il turno dalle 19.00 alle 7.00. “Dalle 19.00 alle<br />

23.00” – ha ricordato la p.o. – “ho fatto i miei giri, ho chiuso, ho messo gli allarmi…verso le<br />

undici e mezza, mezzanotte, ho cominciato ad avere dolore al braccio, alla mandibola, alla<br />

mano e io lì non avevo nessuna cosa per chiamare disponibile, non avevo nessuna disponibilità,<br />

però mi sono detto…vado avanti, vado avanti. Ma, verso l’una e mezza, le due, mi è preso il<br />

colpo forte al petto; io lì avevo la luce spenta per non farmi vedere. Il telefono c’era, però non<br />

sono riuscito a chiamare; poi il mattino dopo mi hanno portato alle Molinette, sono stato<br />

ricoverato immediatamente in Medicina di urgenza e poi da lì mi hanno portato in sala<br />

rianimazione. Dopo un mese dal ritorno a casa, l’infarto si è ripetuto, sono stato di nuovo<br />

ricoverato, ho fatto la convalescenza…ma dovevo rientrare per forza, io avevo tre figli” (v.<br />

pagg. 25-26 della trascrizione).<br />

Al suo rientro ha avuto, inizialmente, un turno da svolgersi dalle 8.00 alle 18.00, senza<br />

interruzione; “il sabato e la domenica andavo a fare dodici ore alla SEPI di Bruino…un giorno,<br />

nell’aprile del 1996, dopo le dodici ore giornaliere, mi hanno chiesto, come facevano sempre<br />

loro, se potevo andare la notte alla MEDIASET di Beinasco…ho fatto troppo, sono scivolato ed<br />

ho fatto l’altro infortunio, verso mezzanotte sono caduto per le scale…questo è stato il mio<br />

ultimo lavoro, dopo ho cercato di rientrare, ma i capiturno non mi davano retta, non mi<br />

ricevevano, ho tentato anche di parlare con il signor Uccellini, ma invano. Dopo alcuni mesi, il<br />

signor Uccellini mi ha fatto visitare dai medici della USL di Collegno e nel settembre del 1997<br />

ho ricevuto la lettera di licenziamento, anche se quei medici dicevano che non ero inabile al<br />

lavoro”.<br />

Tutto ciò premesso – ed osservato, inoltre, che non si è ritenuto di soffermarsi su quanto riferito<br />

dal teste Augelli, ispettore della ARGUS, il quale è apparso un po’ confuso nella ricostruzione<br />

dei fatti, avendo, in un primo momento, asserito con sicurezza che il Di Sabato faceva solo otto<br />

ore di lavoro e quattro di straordinario, mentre dai tabulati agli atti, nonché dalle dichiarazioni<br />

del responsabile del personale Canova, risulta che il numero di ore e di straordinario erano di<br />

gran lunga superiori; ed affermato, subito dopo, che ricordava bene i turni dei dipendenti,<br />

perché erano solo centocinquanta, mentre è rimasto acclarato che alla ARGUS lavoravano<br />

trecento persone -, occorre ora soffermarsi sulle relazioni dei tre consulenti tecnici, due dei<br />

quali nominati dal Pubblico Ministero ed uno dalla difesa ed alle dichiarazioni dagli stessi rese,<br />

in contraddittorio, all’udienza del 30 maggio 2002.<br />

Al riguardo, è altresì, da ribadire, per dovere di completezza, che questo Giudice non ha<br />

ritenuto di accogliere la richiesta del difensore dell’imputato in merito alla nomina di un perito,<br />

ritenendo, nel caso in esame, del tutto superfluo l’accertamento peritale, essendo stato<br />

ampiamente spiegato dai consulenti – con argomentazioni che, immuni da vizi logici, sono<br />

interamente condivise dal giudicante - che lo “stress situazionale”, unito ad alcuni fattori di<br />

rischio, di cui la società in questione era al corrente e dei quali si parlerà più innanzi, possono<br />

agire da concausa della patologia occorsa al Di Sabato.<br />

Il dottor Carlo Panataro, specialista in cardiologia e medicina del lavoro ed il dottor Silvano<br />

Bosia, responsabile del Servizio di Medicina del Lavoro dell’Ospedale civile di Asti – entrambi<br />

consulenti del Pubblico Ministero ed ai quali quest’ultimo ha richiesto di stabilire “la natura,


l’entità, la data di insorgenza e/o aggravamento, la durata, gli esiti e le cause della malattia<br />

sofferta dal lavoratore, oggetto dell’accertamento”, nonché se la patologia in questione “sia<br />

associabile all’attività svolta dal lavoratore di cui è causa” –, hanno dichiarato (v. consulenza in<br />

atti, pagg. 10 e segg., nonché pagg. 170 e segg. della trascrizione relativa all’udienza del 30<br />

maggio 2002), innanzi tutto, che “certamente, il lavoro con turnazioni notturne, di per sé<br />

costrittivo perché oggettivamente antifisiologico, non era, già in partenza, il più indicato per<br />

questo tipo di personalità e decisamente sconsigliato dopo l’infarto (come fu, infatti, prescritto<br />

dalla dichiarazione della Divisione Cardiologica delle Molinette il 9.4.1996)”.<br />

Tra i numerosi fattori di rischio dell’infarto – hanno, poi, osservato i consulenti - “ve ne sono<br />

alcuni più importanti (dislipidemia, uso di tabacco, ipertensione, diabete, obesità), altri<br />

considerati meno importanti ma non trascurabili (attività fisica, familiarità, sesso, alcool, fattori<br />

psicosociali e comportamentali)”. E, se esistono studi che hanno analizzato le relazioni tra<br />

stress emotivo e sviluppo dei sintomi della cardiopatia coronarica i quali non hanno potuto<br />

evidenziare una significativa associazione tra la presenza di cardiopatia coronarica e lo stress<br />

lavorativo, ve ne sono altri che, osservando la frequenza di infarto del miocardio acuto e la<br />

mortalità per cardiopatia ischemica negli agenti di polizia – i quali, come è evidente, svolgono<br />

un lavoro le cui caratteristiche sono, per molti aspetti, simili a quello delle guardie giurate -,<br />

hanno rilevato significative correlazioni (v. pagg. 14 e segg. della consulenza).<br />

Lo stress cronico, infatti, “sembra contribuire allo sviluppo della malattia aterosclerotica<br />

coronarica, favorendo l’aumento della pressione arteriosa ed esaltando la reattività del sistema<br />

simpatoadreno-midollare e adreno-corticale pituitario, che agisce come fattore scatenante di<br />

modificazioni emodinamiche e/o biochimiche che determinano un danno alla parete arteriosa.<br />

Nel caso in oggetto”, secondo l’opinione dei consulenti dell’accusa, “si può ritenere che fossero<br />

presenti prima della comparsa della malattia coronarica sia una patologia depressiva che uno<br />

stato di stress cronico conseguente all’attività lavorativa svolta”. I due medici hanno posto,<br />

altresì, l’accento sulla possibile correlazione tra l’ansia, la depressione e le nevrosi fobiche<br />

(patologie da cui è affetta la p.o. e che si sono aggravate in conseguenza delle condizioni nelle<br />

quali è stata costretta a lavorare) con la patologia coronarica, “senza trascurare altri aspetti<br />

stressanti, correlati all’attività lavorativa svolta dal dipendente alla ARGUS, come guardia<br />

giurata addetta prevalentemente a turni notturni, spesso all’aperto”.<br />

Quindi: “il timore di aggressioni e le intemperie, seppur non quantificabili, vengono a<br />

completare il complesso di cause, tra loro interagenti, che non possono non essere considerate<br />

alla base di un evento infartuale in generale e, quindi, soprattutto, nel caso in esame”.<br />

Il dottor Panataro, in particolare, ha specificato in udienza (v. pagg. 175, 180, 181, 185 e 186<br />

della trascrizione relativa) che lo stress favorisce l’aumento dei valori pressori che, sicuramente,<br />

costituiscono uno dei fattori di rischio della patologia coronarica e che, in questo senso, “esiste<br />

una possibile concausa di questo tipo di lavoro nella determinazione dell’evento infartuale…E’<br />

logico, invero, pensare che il fatto di mantenere qualcuno in un possibile fattore di rischio su<br />

una patologia coronarica può essere un aspetto negativo ed è logico pensare che si debbano<br />

cercare di rimuovere dei fattori di rischio certi, o presunti tali, per cercare di evitare il ripetersi<br />

dell’evento…il lavoro notturno altera il ciclo biologico con importanza e ripercussioni non<br />

secondarie…anche un lavoro eccessivo, perché lo stress è costituito sia dall’orario di lavoro,<br />

come numero di ore, sia dalla collocazione nell’arco della giornata, quindi questa è sicuramente<br />

una cosa da tenere presente”; ed ha concluso: “voglio precisare che il fattore di rischio<br />

importante, qual è l’ipertensione, è quello che viene influenzato da uno stress lavorativo, perché<br />

lo stress può essere una causa importante di rialzo dei valori pressori e, quindi, di riflesso, lo<br />

stress può diventare una delle concause dell’infarto miocardico”.<br />

E il dottor Bosia ha posto soprattutto l’accento sul fatto che, dalla relazione redatta dai medici<br />

della USL di Collegno che hanno visitato il Di Sabato per disposizione dell’imputato, si evince<br />

che, nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una situazione di lavoro notturno che, nell’anno


1991, ha raggiunto punte del 71%; mentre, negli anni precedenti l’infarto, una media del 41 e<br />

oltre per cento e con punte quasi del 46% di lavoro in straordinario, per un totale “di quasi una<br />

metà di lavoro fatta in straordinario e, a volte, tre quarti fatto di notte” (v. pag. 187 della<br />

trascrizione). A parere del dott. Bosia, non si deve dimenticare che un terzo fattore di stress da<br />

tenere nel giusto conto è lo stress situazionale che consegue al fatto che il Di Sabato ha lavorato<br />

da solo per tutto il periodo dell’anno, in situazioni, comunque, obiettivamente non tranquille,<br />

nelle quali avrebbe potuto subire in ogni momento aggressioni di ogni tipo, esposto al freddo ed<br />

al caldo, in una situazione psicologica di base che sicuramente aggravava quello stato di stress e<br />

di cui si sarebbe dovuto tenere conto.<br />

Anche la dott. ssa Laura Marzano, consulente della difesa, pur affermando che non esiste, a suo<br />

giudizio, un rapporto certo tra lavoro notturno e malattie cardiovascolari, nulla ha potuto<br />

obiettare dinanzi alle considerazioni che precedono, relative al nesso tra tali malattie e le<br />

condizioni di lavoro massacranti cui veniva sottoposto il Di Sabato e sulla interferenza<br />

dell’aggravamento - dovuto alla mole di lavoro svolto - delle patologie da cui già il Di Sabato<br />

era affetto (quali, appunto, la depressione, l’ansia, gli sbalzi pressori) sulle predette malattie, in<br />

quanto costituenti importanti fattori di rischio delle stesse (v. pagg. 188-189 della trascrizione).<br />

La dott.ssa Marzano ha, altresì, ribadito che il Di Sabato è affetto anche da una patologia<br />

neuropsichiatrica importante e che i fattori di rischio cardiovascolare erano già presenti nello<br />

stesso ancor prima di essere sottoposto a quei ritmi di lavoro (v. pag. 183 della trascrizione).<br />

Ebbene, il datore di lavoro, nel momento in cui decide di assumere un soggetto che presenta<br />

una labilità psicologica, deve tenerne conto nell’affidamento al medesimo delle mansioni da<br />

svolgere. La destinazione di quel tipo di soggetto a turni di lavoro massacranti, infatti, può<br />

esporre lo stesso al rischio di insorgenza di patologie più gravi – come è avvenuto nel caso di<br />

specie – ed in tal modo costituire, se non la causa determinante, almeno una concausa di quelle<br />

patologie.<br />

Invero, una infermità generica, da cui un soggetto sia affetto, può avere una evoluzione in senso<br />

peggiorativo a causa delle modalità di svolgimento di un lavoro che, pur non essendo di per sé<br />

particolarmente stressante, può, comunque, influire sul determinismo di particolari patologie,<br />

assumendo un ruolo di concausa necessaria e determinante dell’evento, senza che, in contrario,<br />

rilevi la naturale predisposizione del soggetto all’insorgenza della patologia (cfr. Cons. Stato,<br />

Sez. IV, sent.12 giugno 1998, n. 928, nella quale è stato, tra l’altro, affermato che, pur se “la<br />

scienza medica tenda ad escludere la dipendenza da stress della TBC renale, deve riconoscersi<br />

come dovuto a causa di servizio l’aggravamento di tale patologia, sofferta da un dipendente,<br />

rispetto alla quale le modalità particolarmente stressanti della prestazione, legate alla necessità<br />

di continui spostamenti giornalieri di rilevante entità abbiano determinato, quantomeno come<br />

concausa, l’insorgenza o l’aggravamento della malattia”).<br />

Al proposito, la giurisprudenza della Corte di legittimità, anche in epoca non recente (cfr., ex<br />

multis, Cass., Sez. lav., 10 aprile 1976, n. 1252) ha stabilito che, qualora, durante il rapporto di<br />

lavoro, insorga una malattia del prestatore d’opera, la responsabilità del datore di lavoro va<br />

esclusa se egli abbia adottato tutte le cautele necessarie a tutelare l’integrità fisica del primo, in<br />

modo che tale evento non possa essere ricollegabile ad un comportamento colposo<br />

dell’imprenditore che, per negligenza, abbia determinato uno stato di cose produttivo<br />

dell’infermità. Deve, inoltre, risultare che questi abbia destinato il lavoratore ad altri compiti<br />

non appena gli sia stata prospettata l’ipotesi che le precedenti mansioni potessero concorrere a<br />

pregiudicare la salute del dipendente.<br />

Nella pronunzia che precede, la Cassazione ha, tra l’altro, affermato che l’imprenditore non<br />

“avrebbe potuto accertare, per suo conto, la causa patogena in occasione dei controlli sanitari<br />

cui aveva sottoposto il dipendente a causa delle sue assenze dal lavoro, in quanto siffatti<br />

controlli hanno la sola finalità di individuare l’effettiva esistenza del fatto morboso impeditiva


della prestazione lavorativa, ma non possono spingersi, senza violare la sfera dei diritti<br />

personalissimi del prestatore d’opera, a ricercare anche le cause delle infermità denunziate”.<br />

Più recentemente (cfr., in particolare, Cass., Sez. lav., I settembre 1997, n. 8267), il Supremo<br />

Collegio ha cassato la pronunzia del Tribunale che aveva negato il risarcimento del danno<br />

biologico richiesto da un lavoratore al proprio datore di lavoro per l’infarto che aveva subito<br />

che doveva considerarsi, alla stregua di quanto affermato dal CTU, causalmente conseguente<br />

allo stress accumulato per eccessivo lavoro, sostenuto attraverso la prestazione di straordinario<br />

in via continuativa e la rinunzia alle ferie, ed ha ritenuto fondate le rivendicazioni del<br />

lavoratore, affermando che, sulla base di quanto sancito dall’art. 41, II comma, Cost. e dall’art.<br />

2087 c.c., il datore di lavoro avrebbe dovuto impedire l’insorgere o l’ulteriore deterioramento di<br />

una situazione tale per cui lo svolgimento dell’attività lavorativa determini effetti patologici e<br />

traumatici nei lavoratori.<br />

Alla sussistenza di una consequenzialità tra stress psicologico ed evento fanno, altresì,<br />

riferimento alcune <strong>sentenze</strong> del Tribunale di Torino (v., tra le altre, sentt. 16 novembre 1999; 30<br />

dicembre 1999) e del Tribunale di Forlì (sent. 15 marzo 2001), in relazione, in particolare, ad<br />

ipotesi in cui il “disagio psicologico” nel quale si sia venuto a trovare il dipendente abbia<br />

assunto proporzioni tali da potersi configurare quale “evento patologico” produttivo di<br />

conseguenze negative sulla salute del medesimo, sottolineando che sono da ricomprendere nel<br />

<strong>mobbing</strong> – “istituto quest’ultimo che contiene una serie di figure tipiche di danni causati dallo<br />

stress, dall’eccessiva ripetitività e monotonia del lavoro svolto, dai rapporti conflittuali con i<br />

colleghi di lavoro, etc.” – fenomeni che possono ledere l’integrità psico-fisica dei lavoratori, tali<br />

da configurare un danno biologico in considerazione della durata, della responsabilità e del<br />

nesso causale.<br />

Ancora la Suprema Corte ha recentemente affermato (sentt. nn. 5/02; 3970/99; 1331/99) che<br />

“anche una condizione lavorativa stressante, ad esempio per sottorganico, può costituire fonte<br />

di responsabilità per il datore di lavoro” che abbia colposamente predisposto condizioni<br />

lavorative estremamente stressanti, le quali, unitamente a condizioni familiari particolari, note<br />

al medesimo datore di lavoro, abbiano concorso a produrre l’evento dannoso per l’integrità<br />

fisiopsichica del lavoratore. Con la conseguenza che “il nesso causale rilevante ai sensi dell’art.<br />

2087 cod. civ. non è riservato agli eventi che costituiscono conseguenza necessitata della<br />

condotta datoriale, secondo un giudizio prognostico ex ante, ma si estende a tutti gli eventi<br />

possibili, rispetto ai quali la condotta datoriale si ponga con un nesso di causalità adeguata”.<br />

Pertanto, alla stregua dell’insegnamento che precede, il semplice concorso di colpa del<br />

lavoratore non è sufficiente per interrompere il nesso causale, sicché “l’imprenditore è<br />

esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri<br />

dell’esorbitanza, atipicità ed eccezionalità rispetto alle condizioni di lavoro”.<br />

E, nella fattispecie, se appare evidente che lo stress cronico, dal quale, ad avviso dei consulenti,<br />

il Di Sabato non era esente - dovuto, come si è detto, al lavoro massacrante svolto dal<br />

medesimo alla ARGUS, protrattosi per circa venti anni; allo stress situazionale causato dal tipo<br />

di lavoro a rischio, effettuato in prevalenza da solo e di notte, e dalla consapevolezza di<br />

svolgere un’attività per la quale, a volte, è necessario fare uso dell’arma che si ha in dotazione;<br />

ed altresì al mancato godimento delle ferie e del riposo settimanale – è certamente una concausa<br />

dell’evento infarto, deve decisamente negarsi, per quanto emerge dagli esiti processuali, che il<br />

comportamento del dipendente di cui si tratta presenti i caratteri dell’esorbitanza, della atipicità<br />

ed eccezionalità rispetto alle condizioni di lavoro.<br />

Inoltre, il fatto che dall’evento infarto sia derivata una malattia insanabile appare evidente ove<br />

si abbia riguardo, ancora una volta, alle dichiarazioni dei consulenti, vagliate anche alla luce


della definizione che la Corte Suprema ha dato in merito alla predetta nozione. E’ insanabile la<br />

malattia che produca una qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché<br />

localizzata e non influente sulle condizioni organiche generali o un indebolimento permanente<br />

ancorché l’organo di cui è stato cagionato detto indebolimento sia menomato in misura anche<br />

minima nella sua potenzialità funzionale. Circa l’apprezzabilità dell’indebolimento permanente,<br />

si chiarisce, altresì, che “apprezzabile non significa notevole”.<br />

Ebbene, il cardiologo Panataro ha specificato che, a seguito degli accertamenti medici effettuati<br />

sulla p.o. (v. pagg. 175-176 della trascrizione relativa all’udienza del 30 maggio 2002) si può<br />

affermare che l’infarto ha determinato sicuramente una lesione della parete miocardica, lesione<br />

che è stata sostituita da tessuto cicatriziale di tipo fibroso che non consente più una normale<br />

funzione contrattile; tale lesione ha prodotto, appunto, una ipocinesia, cioè una riduzione della<br />

capacità contrattile di una porzione del miocardio, di grado lieve. La lesione infartuale non<br />

consente, infatti, il completo ripristino della parte di miocardio interessata.<br />

Per ciò che attiene, infine, alla posizione soggettiva di UCCELLINI all’interno della ARGUS, è<br />

rimasto delibato in dibattimento che lo stesso, presidente e direttore generale di quella società,<br />

fosse a conoscenza di quanto accadesse ai propri dipendenti (v. pure quanto riferito dal Canova<br />

in merito e di cui sopra si è detto; nonché lettera di licenziamento inviata, a firma dell’imputato,<br />

al Di Sabato e lettera, firmata sempre dallo stesso, con la quale si richiede alla USL di Collegno<br />

di sottoporre a visita medica il medesimo dipendente). La circostanza che, di fatto, per un<br />

periodo, sia stato il generale Tosi ad occuparsi del personale, non esime, comunque, da<br />

responsabilità il prevenuto, che rimane, a cagione della predetta qualifica, titolare della<br />

posizione di garanzia attribuitagli dalla legge con tutti i conseguenti obblighi di tutela<br />

(Schutzpflichten).<br />

Una eventuale delega che, per un periodo, possa essere stata conferita al generale Tosi – e della<br />

quale, peraltro, non vi è traccia – non comporta una deroga al dovere di sicurezza, ma un<br />

diverso modo di adempimento del precetto da parte del datore di lavoro, che in ogni caso<br />

rimane garante del bene tutelato, poiché la delega incide soltanto sulle modalità di<br />

adempimento del dovere di sicurezza e, quindi, sul “personale modo di adempiere ai doveri di<br />

sicurezza facenti capo alla posizione ricoperta”.<br />

Il datore di lavoro è, infatti, il principale destinatario delle norme in materia di prevenzione<br />

degli infortuni sul lavoro e la responsabilità dello stesso per violazione delle disposizioni<br />

antinfortunistiche, qualora si faccia aiutare da un dirigente nel controllo delle modalità di<br />

esecuzione del lavoro e in quello per il rispetto delle predette norme, viene meno solo se<br />

trasferisca alla persona nominata, che deve essere tecnicamente affidabile, i suoi poteri anche in<br />

tema di osservanza delle disposizioni in materia di infortuni sul lavoro e controlli che colui al<br />

quale ha conferito la delega la usi correttamente. Ove, comunque, manchi o non risulti una<br />

delega o la prova della stessa, l’obbligo della predetta osservanza incombe su di lui in<br />

applicazione del principio generale, contenuto nell’art. 2087 cod. civ., “per il quale l’obbligo di<br />

provvedere alle necessarie cautele per la tutela dell’integrità fisica dei lavoratori grava sul<br />

datore di lavoro” (cfr., tra le molte, Cass., Sez. IV pen., 12 dicembre 1995, n. 12297, Villa;<br />

Cass., Sez. IV pen., 2 maggio 1991, n. 4917).<br />

Le considerazioni che precedono, scaturite dalla descritta ricostruzione dei fatti per cui è<br />

processo, conducono inequivocabilmente all’affermazione della responsabilità dell’imputato in<br />

ordine al reato a lui ascritto, per il quale va pronunziata nei confronti dello stesso una sentenza<br />

di condanna.<br />

Quanto alla pena, valutati gli elementi tutti di cui all’art. 133 c.p., concesse le circostanze<br />

attenuanti generiche in considerazione del fatto che, seppur dopo la requisitoria del Pubblico<br />

Ministero, il Di Sabato ha ottenuto, come sopra riferito, la somma di 150.000 euro (versata per


metà direttamente dall’imputato e per metà dalla REALE MUTUA ASSICURAZIONI) –<br />

circostanze delle quali, a parere di questo Giudice, date le esposte modalità dei fatti e la natura<br />

del bene leso, va, però, tenuto conto in regime di “subvalenza”, secondo una terminologia<br />

adoperata in alcune <strong>sentenze</strong> della Corte di Cassazione, rispetto all’aggravante contestata – si<br />

reputa equo irrogare all’imputato mesi sei di reclusione.<br />

Segue, ex lege, alla condanna il pagamento delle spese processuali.<br />

Avuto riguardo alle condizioni di vita anteacta dell’UCCELLINI ed all’incensuratezza dello<br />

stesso, possono essergli concessi i doppi benefici di legge sul presupposto che si asterrà in<br />

futuro dal commettere ulteriori reati.<br />

P.Q.M.<br />

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p.;<br />

dichiara l’imputato colpevole del reato a lui ascritto e, concesse le circostanze attenuanti<br />

generiche, lo condanna alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese<br />

processuali.<br />

Pena sospesa e non menzione alle condizioni di legge.<br />

Visto l’art. 544 c.p.p.;<br />

indica in giorni venti il termine per il deposito della sentenza.<br />

Torino, 15/7/2002


Tribunale di Torino 21 marzo 2003 – Apostolo Gaetano c. SanpaoloImi SpA<br />

PER GENTILE CONCESSIONE WWW.FIBA.IT<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato presso la Cancelleria della Sezione Lavoro il 21 maggio 2001, si<br />

costituiva in giudizio il rag. Gaetano APOSTOLO, citando quale convenuta la propria datrice di<br />

lavoro, SANPAOLO IMI, ed esponendo: di essere stato assunto dalla banca convenuta il 20<br />

giugno 1966 con mansioni di aiuto contabile; di aver svolto poi la sua attività lavorativa in<br />

mansioni varie, sempre incrementando la propria professionalità, operando sia in Torino che in<br />

altre parti d'Italia, sino ad essere nominato dirigente nell'Aprile 1989; di essere stato incaricato,<br />

dall'ottobre 1994, di svolgere le funzioni di Responsabile del Settore Gestione e Risorse del<br />

servizio tecnico, a cui seguiva, nel 1996, anche l'investitura a Responsabile del settore della<br />

Sicurezza Fisica della sede centrale e di tutti i punti operativi di Italia; di aver svolto<br />

regolarmente la sua attività lavorativa, sino a quando, nell'ottobre 1999, suo superiore diveniva<br />

il sig. Firpo, venendo nominato come suo vicario il dott. Pagliaro, persone che si<br />

caratterizzavano ben presto per una critica sistematica dell'operato di tutto il personale della<br />

Divisione Immobiliare, nell'ambito della quale era inserita l'attività del ricorrente, favorendo il<br />

“pettegolezzo e il doppiogiochismo”, che divenivano assai diffusi; che essi inoltre avevano<br />

dotato (rectius: adottato, n.d.r.) la prassi di scavalcare i vari responsabili di settore, fra cui il<br />

ricorrente, dando incarichi “ad personam” ad alcuni collaboratori, all’insaputa dei loro diretti<br />

superiori; che quale primo atto significativo il Firpo, senza alcun preavviso né consultazione,<br />

aveva privato l'Apostolo del capo della sua Segreteria Operativa, la sig.ra Spadoni; che anche il<br />

dott. Pagliaro cominciava a rivolgersi al ricorrente in modo brusco e dispotico, anche in<br />

presenza di subalterni; che si verificava in sostanza una consistente diminuzione delle sue<br />

mansioni, venendo in proposito elencati una serie di compiti che, in progressione temporale,<br />

erano tolti dal complesso delle responsabilità in precedenza assegnate al ricorrente; che la<br />

situazione generale della funzione di Facility Management e quella personale dell'Apostolo<br />

avrebbero avuto l'effetto di causare in quest'ultimo crisi di panico, vomito, stress, etc.,<br />

determinando addirittura atteggiamenti insofferenti del ricorrente persino nei confronti della<br />

propria figlia di 9 anni; che attorno al Giugno 2000, senza alcun preavviso, il ricorrente veniva<br />

trasferito presso la Divisione Rete Filiali Italia, nell'ambito di un progetto denominato “Modelli<br />

Organizzativi di rete” e messo alle dipendenze di un responsabile che aveva la qualifica di<br />

dirigente di pari grado rispetto allo stesso Apostolo; che in sostanza quest'ultimo si era trovato<br />

confinato in un ufficio isolato rispetto agli altri, senza più alcuna delle responsabilità che a lui<br />

quale dirigente competevano, senza potersi più avvalere della collaborazione di alcun<br />

dipendente, e con incarico di svolgere mansioni esclusivamente esecutive, come fare il<br />

censimento degli immobili, anche attraverso la predisposizione di mere tabelle; che, con le<br />

nuove mansioni a lui affidate, l'Apostolo non riceveva più posta dell'ufficio, non firmava più<br />

nessun atto rilevante, non riceveva circolari interne, non aveva più alcuna facoltà di spesa,<br />

veniva definitivamente privato delle deleghe di cui in precedenza godeva, trascorrendo una<br />

giornata lavorativa vuota di impegni e che si consumava nella lettura dei giornali o poco più;<br />

che a causa del comportamento datoriale egli aveva quindi iniziato un lungo periodo di<br />

malattia; che dopo alcuni mesi di sua assenza era stato addirittura sgomberato il suo ufficio, con<br />

spostamento anche dei suoi effetti personali. Sulla base di tali dati di fatto, ritenendo dì dover<br />

imputare ; al comportamento datoriale tutti i problemi fisici, psicologici e familiari accusati dal<br />

ricorrente, quest'ultimo formulava nei confronti della società convenuta domanda di condanna<br />

al risarcimento dei danni patrimoniali, biologici, non patrimoniali, esistenziali e morali (se al<br />

Giudice non ne è sfuggito qualcuno), derivanti dall'illecita condotta della convenuta, assumendo


le conclusioni di cui in epigrafe. Si costituiva in giudizio la società convenuta, ricapitolando le<br />

modifiche intervenute pro tempore negli organigrammi del servizio tecnico e provveditorato, e<br />

comunque negando che al ricorrente, sino all’11 giugno 2000, fossero state modificate le<br />

mansioni che egli già svolgeva da alcuni anni, o che le medesime avessero subito variazioni<br />

significative, contestando punto per punto tutta la congerie di episodi elencati in ricorso a<br />

supporto della tesi dello svuotamento delle mansioni dirigenziali fino ad allora espletate, prima<br />

che del settore assumesse la responsabilità il Firpo. Affermava inoltre la Banca convenuta che il<br />

12 giugno 2000 il ricorrente veniva assegnato alla Divisione Rete Filiali Italia, con il compito di<br />

collaborare ad uno specifico progetto specialistico denominato "Modelli organizzativi di rete",<br />

progetto che richiedeva, per il suo studio e la sua redazione, una grande professionalità, anche<br />

in questo caso non essendosi verificata alcuna dequalificazione professionale, come viceversa<br />

preteso in ricorso. Venivano inoltre criticate, sotto il profilo processuale e sostanziale, tutte le<br />

pretese formulate dall'Apostolo, e attinenti ai più vari aspetti della sua vita di relazione, sociale,<br />

familiare, professionale, patrimoniale, esistenziale, morale, etc... . Anche le conclusioni di parte<br />

convenuta sono riportate in epigrafe.<br />

La controversia veniva inizialmente istruita in alcune udienze comprese tra il 19 settembre 2001<br />

e il 23 aprile 2002, resesi necessarie per consentire alle parti di elaborare un faticoso tentativo<br />

di conciliazione, e per escutere numerosi testimoni. All'ultima udienza di cui sopra il Giudice,<br />

dopo la discussione emetteva sentenza non definitiva, disponendo con separata ordinanza per la<br />

prosecuzione del giudizio. Dopo la consulenza tecnica del dott. Marcello Milano il Giudice<br />

decideva la lite in via definitiva all'udienza dell'8.3.2003.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

Il CTU, dott. Marcello Milano, in esito alle indagini peritali formulava le seguenti conclusioni:<br />

«Letti gli atti di causa e la documentazione medica;<br />

Esaminata la documentazione prodotta dalle parti;<br />

Visitato il periziato, discussi tutti i dati raccolti, riassunti, relativi ai fatti per cui è causa,<br />

Ritengo di poter rispondere ai quesiti posti dall'Ill.mo Signor Giudice dr. Maurilio Grassi, nel<br />

seguente modo:<br />

il signor Apostolo Gaetano è affetto da un disturbo dell'adattamento con Umore Depresso (sec.<br />

DSM IV R 309.0).<br />

L'accertato comportamento datoriale - demansionamento dal giugno 2000 all'ottobre 2000 - ha<br />

svolto ruolo di concausa nell'insorgenza della patologia.<br />

Non vi sono elementi di certezza o di alta probabilità per affermare la prevedibilità dell'evento,<br />

in base a quanto ragionevolmente conoscibile da parte datoriale, con riferimento alla personalità<br />

e/o patologie dell'interessato; poteva tuttavia essere previsto un cambiamento in senso<br />

peggiorativo della qualità della vita, in relazione alla precedente “vita lavorativa” del ricorrente.<br />

Tale peggioramento della qualità della vita non è quantificatile quale danno biologico e potrà<br />

essere eventualmente risarcito in via equitativa dall’Ill.mo Sig. Giudice.<br />

Quanto diagnosticato è riconducibile al demansionamento e alla situazione di stress correlata<br />

alla vicenda giudiziaria. Normalmente il Disturbo dell'Adattamento con Umore Depresso si<br />

risolve nel giro di 6 mesi dopo la cessazione del fattore stressante o delle sue conseguenze. Se il<br />

fattore stressante o le sue conseguenze persistono anche il disturbo dell'adattamento può<br />

persistere.<br />

Tenuto conto dell'età del soggetto e dei suoi tratti di personalità è abbastanza attendibile che il<br />

Disturbo da adattamento con Umore Depresso persista anche una volta cessati i fattori stressanti<br />

e le sue conseguenze.<br />

Tale patologia, qualora perduri, potrà comportare il riconoscimento di un danno biologico<br />

permanente intorno ad un 4-5% (quattro-cinque per cento); ha comportato una inabilità


temporanea al lavoro specifico di 592 gg. ed una incapacità biologica temporanea di 365 gg. a<br />

parziale al 25% e di 227 gg. a parziale al 10%.<br />

Sono da rimborsare spese sostenute e documentate per un importo di Lire 300.000 pari ad €<br />

154,94. Non si ritengono necessarie spese future per cure psicoterapiche tenuto conto da un lato<br />

che il soggetto non ne ha mai sostenute o quanto meno non le ha documentate e dall'altro che<br />

non è stata mai posta indicazione in tal senso da parte dello psichiatra curante. Delle predette<br />

conclusioni sono stati informati i Consulenti delle Parti».<br />

Il Giudice non ha motivo per discostarsi dalle risultanze della perizia, abbondantemente<br />

motivate e che paiono corrette sotto il profilo logico e giuridico.<br />

Non resta quindi che richiamare sotto il profilo dell' an debeatur quanto già esposto nella<br />

precedente sentenza non definitiva, e sotto il profilo quantificativo, procedere secondo i criteri<br />

che seguono.<br />

Per quanto riguarda il danno biologico, ritiene il Giudice di dover senz'altro aderire alla<br />

quantificazione effettuata dal CTU, e di dover in proposito rifarsi alle tabelle del Tribunale di<br />

Milano, criterio che le parti non hanno contestato, e che risulta tuttora adottato dalla prevalente<br />

giurisprudenza.<br />

In proposito, tenuto conto del fatto che il ricorrente, al momento del demansionamento, aveva<br />

54 anni di età, il danno, che secondo le tabelle deve considerarsi compreso fra € 3.220 e €<br />

4.238, può essere equitativamente quantificato in € 4.000 attuali secondo il parametro<br />

equitativo che, in quanto tale, può già comprendere in sé la rivalutazione della somma alla data<br />

odierna, se si tiene conto che i parametri impostati nelle tabelle di Milano si rifanno alla data<br />

dell’1.1.2002. Per quanto concerne il danno morale, poiché per prevalente giurisprudenza tale<br />

danno viene compreso fra un quarto e la metà del danno biologico, tale componente risarcitoria<br />

può essere quantificata in € 1.500,00, sempre individuati secondo il loro potere d'acquisto<br />

attuale.<br />

L'inabilità temporanea è stata quantificata nella consulenza tecnica ed ad essa può quindi farsi<br />

riferimento per ricavarne gli aspetti quantitativi; il CTU ha ritenuto di poter valutare il 25% di<br />

temporanea per 365 giorni e il 10% per i residui 227 giorni; calcolando il valore del<br />

risarcimento del danno giornaliero per invalidità temporanea assoluta in € 40, se ne ricava che<br />

devono riconoscersi 10 € al giorno per 365 giorni (25%) e 4 € al giorno per 227 giorni (10%); le<br />

moltiplicazioni danno un risarcimento del danno al 25% pari a € 3.650 e al 10% pari a € 908.<br />

Ritiene il Giudice di non poter riconoscere il danno "esistenziale", una delle numerose<br />

componenti che la giurisprudenza, sempre in cerca di nuove voci, estrapola da quello che<br />

costituisce, secondo questo Giudice, un danno già intrinseco sia a quello biologico sia a quello<br />

morale, nella logica del resto di quanto già statuito con la sentenza n. 911/99 della Suprema<br />

Corte di Cassazione, e sulla falsariga di quanto può ricavarsi dalla massima della sentenza n.<br />

15449/2002, che sottolinea come il pregiudizio “esistenziale” costituisca una componente del<br />

danno non patrimoniale o morale.<br />

Per quanto concerne il danno da demansionamento, osserva il Giudice che l'effettiva attività<br />

demansionata è durata circa tre mesi; parte ricorrente chiede che il danno si estenda anche al<br />

periodo di malattia, ma la tesi non può essere accolta. Durante l'assenza per malattia scattano<br />

altri danni, e cioè quelli sopra quantificati, senza che all'assenza possa imputarsi una<br />

“deprofessionalizzazione”; a riprova della inaccoglibilità della tesi attorea può considerarsi che,<br />

altrimenti, a fronte di una qualunque assenza determinata da una inadempienza datoriale, ad<br />

esempio un infortunio sul lavoro, il lavoratore potrebbe cumulare i danni normalmente<br />

riconosciuti a tale titolo ad un ipotetico danno da “demansionamento”, per il fatto di essere stato<br />

assente, a causa, appunto, di una inadempienza datoriale. Alla luce di tale considerazione,<br />

ritiene dunque il Giudice di dover liquidare in via equitativa, tenuto conto del livello culturale e<br />

professionale del dipendente, € 2.000 per ogni mese di effettiva dequalificazione, e cioè in<br />

complesso € 6.000 ( tre mesi effettivi per € 2.000).


Occorre solo osservare, ai sensi dell'art. 1225 c.c., che il datore di lavoro deve rispondere per<br />

tutti i danni di cui sopra, poiché la lesione e le disfunzioni lamentate devono considerarsi<br />

conseguenza immediata e diretta della inadempienza datoriale; inoltre il datore di lavoro non<br />

poteva non essere consapevole della notevole dequalificazione delle mansioni affidate<br />

all'Apostolo nei mesi centrali dell'anno 2000; le conseguenze di tale inadempienza del resto non<br />

potevano certo considerarsi del tutto imprevedibili poiché l'Apostolo ha reagito con una<br />

manifestazione patologica di tipo non gravissimo, e comunque sufficientemente preventivabile,<br />

alla luce della sua età, del suo inquadramento professionale, della partecipazione emotiva con la<br />

quale egli ha sempre corrisposto alle aspettative datoriali, nonché dell'investimento<br />

"esistenziale" (in questo caso il termine è senz'altro utilizzabile...) che il ricorrente riponeva<br />

nello svolgimento della sua attività lavorativa.<br />

Per quanto riguarda gli esposti dei quali viene chiesto il rimborso, CTU ha riconosciuto fondata<br />

solo la pretesa del rimborso di Lire 300.000 attuali (€ 160,00) in relazione alla visita medica di<br />

cui alle fatture emesse il 5.1 e il 4.4.2001 dal dott. Savio.<br />

Sulla base delle considerazioni di cui sopra, ritiene dunque il Giudice di dover condannare parte<br />

convenuta al pagamento delle seguenti somme, quantificate alla data odierna: € 4.000 a titolo di<br />

danno biologico; € 1.500 a titolo di danno morale; € 4.558 a titolo di invalidità temporanea; €<br />

6.000 a titolo di risarcimento del danno da demansionamento.<br />

Tali somme dovranno essere incrementate di rivalutazione monetaria e interessi legali solo dalla<br />

data della presente sentenza, tenuto conto che nella loro quantificazione attuale sono già stati<br />

tenuti presenti i parametri relativi a interessi e rivalutazione.<br />

Alle somme di cui sopra dovrà aggiungersi il rimborso di € 160, sui quali rivalutazione e<br />

interessi dovranno essere calcolati dall'aprile 2001.<br />

Le spese di lite possono essere compensate per metà, tenuto conto che le pretese attore<br />

risultavano molto più consistenti di quelle riconosciute in giudizio ma la residua metà deve<br />

essere in ogni caso addebitata alla parte convenuta, metà che si liquida in € 2,000 più Iva, cpa e<br />

successive occorrende (dì cui € 180 a titolo di spese generali, € 520 a titolo di diritti di<br />

procuratore ed il residuo a titolo di onorari di avvocato).<br />

Le spese di CTU sono addebitate a parte convenuta in via definitiva.<br />

P. Q. M.<br />

Il Giudice del Tribunale Ordinario di Torino - Sezione Lavoro<br />

Visto l'art. 429 c.p.c.<br />

- condanna parte convenuta al pagamento in favore di parte ricorrente della somma netta di €<br />

16.058,00 oltre rivalutazione ed interessi della presente sentenza ai saldo;<br />

- condanna parte convenuta al rimborso delle somme di € 160,00, oltre rivalutazione dall'aprile<br />

2001 al saldo;<br />

- condanna parte convenuta alla rifusione di metà delle spese di lite, metà che si liquida in €<br />

2.000,00 + Iva, cpa e successive occorrende;<br />

- pone le spese di CTU a definitivo carico di parte convenuta.<br />

Torino 8.3.2003 (dep. 21.3.2003)<br />

Tribunale di Torino – 8 gennaio 2004 – Apostolo Gaetano c. SanpaoloImi Spa<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso depositato in cancelleria in data 9 luglio 2003 il sig. Apostolo Gaetano - dipendente<br />

di Sanpaolo Imi spa con qualifica di dirigente e già ricorrente nel proc. Trib. Torino n. 4946/01,<br />

avente ad oggetto il reintegro in mansioni confacenti e il ristoro del danno da dequalificazione e


iologico patito, proc. concluso con sent. n. 3749/02 (non def.) e n. 1576/03 (def ) - chiede al<br />

Tribunale di condannare il datore a risarcirgli :<br />

- il danno da demansionamento e biologico subìto nel periodo successivo a quello preso in<br />

considerazione nelle citate pronunce e cioè dal 29.5.2002 al 9.7.2003, da determinare in via<br />

equitativa;<br />

- il danno patrimoniale patito nel periodo 2000-2002, nelle seguenti misure :<br />

- premio di rendimento anno 2000 : € 12.400,00 netti,<br />

- premio di rendimento anno 2001 :€ 15.000,00 netti,<br />

- premio di rendimento anno 2002 : € 17.500,00 netti,<br />

- ferie 2001 : somma corrispondente a n. 9 giornate sottratte,<br />

- V.A.P. 2001 : € 4.355,94 netti,<br />

- V.A.P. 2002: € 1.866,80 netti,<br />

- spese mediche: € 872,09 netti.<br />

La convenuta si costituisce a sua volta in giudizio e contesta tutte le pretese azionate in causa,<br />

ritenendole destituite di fondamento, onde chiede il rigetto del ricorso.<br />

Fallita la conciliazione, il giudice dà corso all'istruttoria, interrogando il ricorrente ed il<br />

rappresentante della società convenuta ed escutendo inoltre i testi.<br />

All'esito dell'istruttoria, la vertenza viene infine discussa e decisa, come da dispositivo trascritto<br />

in calce alla presente sentenza, di cui il giudice da pronta lettura alle parti.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

1. Gli aspetti in fatto della controversia, ricostruibili tramite la documentazione di causa e le<br />

risultanze dell'istruttoria in questa sede esperita, possono essere così sintetizzati :<br />

in data 23.4.2002 viene data pubblica lettura del dispositivo di sentenza non definitiva<br />

pronunciata dal Tribunale di Torino nell'ambito del giudizio n. 4946/01, giudizio introdotto dal<br />

sig. Apostolo Gaetano, attuale ricorrente, nei confronti di Sanpaoio Imi spa, attuale convenuta<br />

(1),<br />

la decisione accerta l'avvenuta dequalificazione del lavoratore per la durata (se si<br />

escludono le ferie) di circa tre mesi, dal giugno 2000 sino al 12 ottobre dello stesso anno, data<br />

in cui questi si ammala (2),<br />

essa ordina in pari tempo a Sanpaolo Imi di reintegrare il sig. Apostolo in mansioni<br />

equivalenti a quelle pregresse,<br />

come poi chiarito nella motivazione di tale sentenza non definitiva, depositata in<br />

cancelleria il 5.6.2002 e rubricata al n. 3749/02, la dequalificazione accertata dal Tribunale<br />

consiste nell'avere il datore attribuito al lavoratore, inquadrato come dirigente, mansioni non<br />

confacenti alla sua qualifica formale e alla sua storia lavorativa, in violazione dell'art. 13 Stat.<br />

Lav,<br />

nel periodo precedente al giugno 2000 il medesimo infatti rivestiva, a far tempo<br />

dall'ottobre 1999, il ruolo di responsabile amministrativo e contabile del Facility Management,<br />

esplicando in particolare compiti di controllo della documentazione di spesa del servizio e di<br />

gestione del suo numeroso personale (da 200 a 400 dipendenti, a seconda dei periodi),<br />

utilizzando per lo svolgimento di tali incombenze gli uffici del servizio stesso, cui sono addetti<br />

da 40 a 100 dipendenti, infine sovrintendendo, con potere di supremazia gerarchica, una ventina<br />

di collaboratori diretti (3),<br />

nel successivo periodo - in cui dal giugno 2000 è assegnato all'elaborazione di un progetto<br />

dì riorganizzazione della rete delle filiali, coordinato dal dirigente sig. Campari - gli viene<br />

invece affidato lo studio conoscitivo delle strutture immobiliari destinate ad ospitare le filiali,<br />

consistente (per quello che lo riguarda) nella mera redazione di tabelle di dati, provenienti dal<br />

centro e dalla periferia dell’Istituto, senza l'ausilio del benché minimo collaboratore (4),


alla data del 23.4.2002, momento in cui viene data lettura del dispositivo della sentenza<br />

non definitiva relativa al proc. n. 4946/01, il lavoratore è in malattia e in tale condizione rimane<br />

fino al 29.5.2002, giorno in cui, riprendendo servizio avrebbe dovuto essere collocato dal datore<br />

di lavoro in una condizione lavorativa tale da ottemperare all'ordine giudiziale di reintegrazione<br />

nelle mansioni pregresse, esplicate anteriormente al giugno 2000,<br />

in realtà lo stesso 29.5.2002 il lavoratore viene collocato in permesso retribuito per<br />

accertamenti sanitari e contestualmente inviato a visita medica di idoneità alle mansioni, ai<br />

sensi dell'art. 5 della legge n. 300/70, per ragioni del tutto incomprensibili (5),<br />

il 26.6.2002 è visitato dall'Unità Operativa Autonoma di Medicina del Lavoro dell'Azienda<br />

Ospedaliera San Giovanni Battista di Torino e giudicato idoneo a svolgere i compiti propri<br />

dell'inquadramento di appartenenza (6),<br />

in prosieguo, con lettera 5.7.2002 è convocato per il giorno 9.7.2002, ore 12, presso gli<br />

uffici del personale dell'Istituto (7), e quindi assegnato dal 16.7.2002 all'Ente Back Office della<br />

Direzione MOI (Macchina Operativa Integrata), con previsione di un periodo iniziale di<br />

affiancamento al rag. Aldo Maria Graglia, responsabile dei Sistemi di Pagamento e Rapporti di<br />

Conto (8),<br />

la lettera di incarico 9.7.2002 (9) non chiarisce le ragioni di quell'affiancamento, tant'è che<br />

il rag. Graglia, stupito del suo contenuto e, trovandosi di fronte a documento senza precedenti,<br />

decide di estrarne copia, per la singolarità di un'assegnazione ad una persona determinata,<br />

anziché (come d'abitudine) ad un ufficio (10),<br />

la prospettiva di un avvicendamento del ricorrente al rag. Graglia, per essere questi<br />

destinato ad altro incarico, è mera apparenza o, per meglio dire, pura finzione, atteso che il<br />

Graglia comunica la propria indisponibilità all'operazione, fin dalla sera antecedente al<br />

trasferimento del ricorrente all'Ente Back Office (11),<br />

nel periodo di permanenza del ricorrente all'Ente Back Office e cioè dal 16.7.2002 sino al<br />

13.10.2002 (12), periodo intervallato da 10 gg. di ferie (13), il medesimo non svolge alcun<br />

compito operativo, limitandosi ad assistere ad alcune riunioni e a prendere visione di alcuni<br />

documenti d'ufficio (14),<br />

in data 19.9.2002 il legale del sig. Apostolo invia a Sanpaolo Imi una lettera in cui lamenta<br />

l'inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegrazione nelle mansioni esplicate<br />

antecedentemente al giugno 2000, contenuto nella sentenza non definitiva 23.4-5.6.2002, sopra<br />

citata, e invita la convenuta ad adempiere (15),<br />

successivamente, con lettera 2.10.2002 il ricorrente è assegnato alla Direzione Acquisti,<br />

facente parte della Funzione Acquisti, in qualità di Responsabile Pubblicità e Marketing, a far<br />

tempo dal 14.10.2002 (16),<br />

in questa nuova collocazione il lavoratore è incaricato di acquisti promo-pubblicitari, ad<br />

es. di provvedere, su sollecitazione di altro ente, all'acquisto di 600.000 agende (17),<br />

in tal caso invia ai fornitori, desunti da apposito Albo aziendale, le lettere contenenti<br />

l'invito a formulare l'offerta e, dopo averle ricevute, formula una proposta di assegnazione, che<br />

verrà poi vagliata per la decisione definitiva dal capo servizio, dal capo di direzione o<br />

dall'amministratore delegato della società, a seconda della spesa impegnata (18),<br />

se la cifra coinvolta nell'acquisto è minima, se ne può occupare direttamente il ricorrente,<br />

in tal caso con facoltà decisionale (19),<br />

nello svolgimento di tali compiti il lavoratore ha due collaboratori, uno fisso e l'altro<br />

saltuario (20),<br />

quale responsabile dell'Ufficio Pubblicità e Marketing il sig. Apostolo ha in sostanza<br />

attribuzioni che, nell'assetto organizzativo antecedente all'ottobre 2002, in cui tale Ufficio non<br />

era autonomo, erano svolte da altro lavoratore inquadrato come semplice quadro direttivo (21),<br />

l'ufficio occupato dal ricorrente dal 14.10.2002 è spoglio e con poche pratiche (22),<br />

il 21.3.2003 viene depositata la sentenza definitiva n. 1576/03 del Tribunale di Torino, che<br />

conclude il giudizio n. 4946/01 (23),


in tale pronuncia viene accertato, sulla scorta di apposita CTU medico-legale (24) che il<br />

disturbo dell'adattamento, con umore depresso, diagnosticato a carico del ricorrente, deve<br />

ritenersi concausato dal demansionamento di cui è stato vittima dal giugno all'ottobre 2000 e<br />

dalla situazione di stress che ne è seguito comportando un'incapacità temporanea al lavoro<br />

specifico di gg. 592 nonché un'incapacità biologica temporanea di gg. 365 (a parziale del 25%)<br />

e di gg. 227 (a parziale del 10%), nell'arco temporale dal 12.10.2000 al 28.5.2002 (25),<br />

il ricorrente rimane assente dal servizio per malattia a far tempo dal 30.10 2002 e sino al<br />

15.2.2003 (26),<br />

questa nuova assenza deve essere correlata alla persistenza nel tempo del disturbo<br />

dell'adattamento e del conseguente stress già diagnosticati dal CTU nella perizia del precedente<br />

giudizio (27),<br />

essa deve inoltre ritenersi concausata - alla pari della situazione pregressa e già sottoposta a<br />

giudizio - dell'avvenuta attribuzione al lavoratore, come si è visto sopra, di mansioni non<br />

confacenti all'inquadramento di appartenenza e al livello di professionalità acquisito (28).<br />

2. Ciò premesso sul piano della situazione fattuale, si tratta a questo punto di prendere in<br />

considerazione le singole e specifiche domande avanzate dal lavoratore nell'ambito del presente<br />

giudizio.<br />

Esse possono essere così indicate e catalogate :<br />

A) periodo dal 29.5.2002 (data di rientro del lavoratore in servizio, dopo la malattia) al<br />

9.7.2003 (data di redazione e deposito dei ricorso) : danno da demansionamento (a1) e<br />

biologico (a2) subiti,<br />

B) periodo 1.1.2000-31.12.2002 : danno patrimoniale patito, rappresentato:<br />

b1) dalla mancata corresponsione del premio di rendimento anno 2000 (29) (per insufficiente<br />

rendimento) e 2001 (per assenza totale dal servizio) nonché dall'incompleta erogazione del<br />

premio 2002 (per assenza parziale dal servizio),<br />

b2) da nove giorni di ferie 2001, non riconosciuti in relazione alla minor presenza in servizio,<br />

b3) dal V.A.P. (premio di produttività) 2001 e 2002, non riconosciuto per assenza dal servizio,<br />

b4) dalle spese mediche sopportate.<br />

La domande sub a1) è fondata.<br />

L'istruttoria esperita ha infatti comprovato l’avvenuta attribuzione al lavoratore di mansioni non<br />

confacenti, rispetto a quelle esplicate prima del giugno 2000 accertate con sentenza non<br />

definitiva n. 3749/02; e questo sia nel periodo 29.5.2002-29.10.2002 sia in quello 17.2.2003-<br />

9.7.2003, per complessivi mesi 10.<br />

L'istruttoria ha altresì confermato che il periodo di malattia del lavoratore e cioè dal 30.10.2002<br />

al 15.2.2003. pari a gg. 105, è stato concausato, al pari di quello pregresso, da fatto e colpa del<br />

datore, in dipendenza della perdurante attribuzione di mansioni non confacenti.<br />

Anche la domanda sub a2) va pertanto ritenuta fondata.<br />

Il sig. Apostolo ha conseguentemente diritto al ristoro del danno patito, così computato, sulla<br />

base dei parametri già applicati dal Tribunale di Torino nella sentenza definitiva n. 1576/03<br />

(danno da dequalificazione = 2.000,00 € netti al mese; danno biologico da inabilità temporanea<br />

= da 10,00 € netti a 4,00 € netti al giorno, media € 7,00):<br />

danno da dequalifìcazione : € 2.000,00 mensili netti x 10 mesi = € 20.000,00<br />

netti [I].<br />

danno biologico da inabilità permanente : € 7,00 netti al giorno x gg. 105 = € 735,00 [II]<br />

*******<br />

3. Anche la richiesta sub b1), nella parte relativa al premio riflettente l'attività esplicata nel<br />

2000 ed erogato nel 2001, è accoglibile.<br />

Al lavoratore è infatti stato attribuita, quanto alle mansioni svolte nel citato anno di riferimento,<br />

una valutazione di insufficiente rendimento, talché non ha percepito il premio di rendimento<br />

l'anno successivo, che altrimenti gli sarebbe spettato.


Tate valutazione negativa deve però essere censurata e ritenuta illegittima, essendo il<br />

rendimento del lavoratore da porre in relazione concausale con la condotta datoriale, accertata a<br />

sua volta come illegittima dal Tribunale con sentenza non definitiva n. 3749/02.<br />

Quanto poi alle ulteriori richieste sub b1, b2) e b3), va osservato che la mancata o parziale<br />

erogazione del premio di rendimento 2001 e 2002, la riduzione del numero dei giorni di ferie<br />

retribuiti 2001 e la mancata corresponsione del premio di produttività 2001 e 2002, sono tutte<br />

situazioni da correlare all'assenza per malattia del lavoratore, di cui però il datore è<br />

corresponsabile,<br />

I relativi emolumenti spettano pertanto al ricorrente.<br />

Per tali titoli vanno liquidati al sig. Apostolo i seguenti importi :<br />

premio di rendimento 2000 : € 12.400,00 lordi [III], dovendosi ritenere plausibile la<br />

quantificazione del ricorso, effettuata con riferimento al collaboratore del ricorrente sig.<br />

Lampiano, inquadrato in qualifica inferiore,<br />

premio di rendimento 2001 : €12.400,00 lordi [IV] (idem),<br />

premio di rendimento 2002 : € 9.900,00 lordi [V], ottenute detraendo dall'importo<br />

domandato (€ 12.400,00) il quantum percepito (€ 2.500,00),<br />

nove giorni di ferie 2001 : € 3503,13 lordi [VI], importo indicato dal ricorrente in sede<br />

conclusiva e non contestato (30),<br />

V.A.P. 2001 e 2002 : €. 4.355.94 lordi [VII] e € 1.866,80 lordi [VIII], importi non<br />

contestati.<br />

Pure fondata è la richiesta sub b4), pari a € 872,09 netti [IX].<br />

Trattasi infatti di spese mediche sopportate dal sig. Apostolo, documentate in atti e inerenti la<br />

malattia di cui si è detto sopra.<br />

********<br />

4. Alla luce di quanto in antecedenza esposto, le domande vanno quindi accolte, nei limiti e per<br />

gli importi sopra indicati da [I] a [IX].<br />

Le spese di lite vengono poste a carico di parte convenuta, risultata soccombente.<br />

P. Q. M.<br />

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO IN FUNZIONE DI GIUDICE DEL<br />

LAVORO<br />

Visto l'art 429 c.p.c.;<br />

1. CONDANNA parte convenuta a corrispondere al ricorrente i seguenti importi :<br />

• € 44.425,87 lordi per premio di rendimento, residuo ferie e V.A.P.,<br />

• € 872,09 netti per spese mediche,<br />

• € 20.000,00 netti per risarcimento danno da dequalificazione,<br />

• € 735,00 netti per risarcimento danno biologico,<br />

oltre rivalutazione ed interessi legali dal maturato (dalla notifica del ricorso, quanto alle spese<br />

mediche) al saldo;<br />

2. CONDANNA parte convenuta a rifondere al ricorrente le spese di lite, che liquida in €<br />

7.500.00. oltre Iva e Cpa.<br />

Torino, 17 novembre 2003 (depositata l’8 gennaio 2004)<br />

Il Giudice<br />

dott. Vincenzo Ciocchetti


Tribunale di Modena - Sezione penale - Sentenza n. 58/2001 depositata il 01/02/2002<br />

Presidente: Pasquariello D.<br />

PER GENTILE CONCESSIONE DI WWW.FIBA.IT<br />

SENTENZA<br />

nella causa penale<br />

contro ... ...<br />

libro presente<br />

IMPUTATO<br />

Del delitto di cui agli artt. 81, 609 bis CP perché, con più azioni esecutive del il medesimo disegno<br />

criminoso, con violenza (consistita nel carattere repentino del gesto e nel trattenere la persona<br />

offesa cingendo la alla vita e alle braccia e impedendole per alcuni secondi i movimenti),<br />

costringeva ... a subire atti sessuali, e in particolare, abbracci lascivi e toccamento del seno,<br />

accompagnati o preceduti da turpiloqui concernenti la sfera sessuale nonché nel mostrare alla<br />

persona offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente pornografico.<br />

In ... nel settembre e ottobre 1998.<br />

Con l'intervento del Pubblico Ministero,<br />

dell'avv. ... del Foro di Modena, difensore di fiducia e della parte civile ... difesa dall'avv. Carmine<br />

Vaccaro del Foro di Modena.<br />

Il Pubblico Ministero chiede l'affermazione responsabilità dell'imputato ... concessa l'attenuante di<br />

cui all'ultimo comma dell'art. 609 bis CP e le attenuanti generiche, condanna alla pena di anni 1 e<br />

mesi 2 di reclusione con la concessione della sospensione condizionale della pena. Il difensore della<br />

Parte Civile chiede affermarsi la penale responsabilità dell' imputato in ordine ai reati a lui ascritti<br />

con condanna a pena di giustizia che l'onorevole Tribunale riterrà, con condanna al risarcimento<br />

danno morale in misura non inferiore a L. 160.000.000 e spese sostenute dalla parte<br />

civile come da nota spese che deposita e chiede la provvisionale nella misura massima consentita.<br />

Il difensore dell'imputato chiede l'assoluzione per non aver commesso il fatto o comunque ex art.<br />

530 cpp.<br />

FATTO E DIRITTO<br />

MOTIVAZIONE<br />

II15 febbraio 1999 ... ha proposto querela nei confronti di ...<br />

Nell'atto - che si riassume per maggior chiarezza espositiva della vicenda successivamente oggetto<br />

del processo - la donna esponeva di avere svolto, dal maggio 1997, attività di lavoro subordinato<br />

alle dipendenze della ... ; si tratta di un gruppo multinazionale (proprietà e controllo in Giappone,<br />

gestione del commercio europeo in Germania), di cui fa parte una società controllata italiana, con<br />

sede a Modena. Dal gennaio 1998 la sede di lavoro della donna era stata trasferita a ... , dove la ...<br />

aveva aperto una nuova sede operativa, ed ove (in un capannone a due piani) prestavano lavoro<br />

solamente ... , con funzioni impiegatizie (la controversia insorta in merito alle mansioni<br />

effettivamente esercitate non rileva strettamente in questa sede) d'ordine, e ..., ingegnere, con<br />

funzioni dirigenziali di assistenza alla clientela.<br />

I due lavoravano a stretto contatto, ed in solitudine, nei rispettivi uffici al secondo piano del<br />

capannone.


In questo contesto lavorativo ... ha denunciato il progressivo trascendere del comportamento di ... ,<br />

iniziato con allusioni sessuali, continuato con ripetute avances volgari, fino ad arrivare a molestie<br />

fisiche, di natura sempre sessuale, ed a concretizzare un quotidiano "assedio" sessuale.<br />

Nella querela si descrivevano più episodi specifici di tal natura.<br />

I rifiuti e l'intolleranza assoluta della donna verso le volgarità e le molestie dell'ing. ... ed il<br />

conseguente degrado dei rapporti tra i due, avevano - secondo il racconto della querelante - portato<br />

il dirigente a segnalare al legale rappresentante della ...italiana (...) inesistenti addebiti nelle<br />

prestazioni di lavoro della ..., e finanche l'uso del computer aziendale per collegamenti web a siti<br />

pornografici (cui in realtà indulgeva assiduamente ...).<br />

Nel dicembre 1998 questi addebiti erano formalmente contestati dal datore di lavoro a ... ;<br />

a seguito di questi, di un controllo effettuato dal ... presso i computers della ditta a ... il 10\12\98, e<br />

di un colloquio presso lo studio ... del giorno successivo, la donna veniva licenziata.<br />

Ella quindi aveva dovuto patire sia le ripetute molestie sessuali, sia la perdita del posto di lavoro, in<br />

conseguenza del suo comportamento non condiscendente verso il molestatore.<br />

Nel corso delle indagini il P.M. disponeva ispezione dei computers, e consulenza tecnica sulle<br />

memorie dei medesimi, in uso a ... ed a ..., nonché controlli dei tabulati telefonici relativi alle utenze<br />

usate per i collegamenti web.<br />

Alla luce della conferma, offerta da tali atti d'indagine, del racconto incriminante proposto dalla ...,<br />

il P.M. chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio, avanti questo Tribunale, di ..., accusato del reato di<br />

violenza sessuale, come specificato e descritto nella imputazione in epigrafe riportata.<br />

Il dibattimento si è svolto alla presenza dell'imputato, e con la costituzione di parte civile di (in<br />

merito alla sollevata questione di nullità dell'atto di costituzione si richiama integralmente<br />

l'ordinanza predibattimentale 13\2\01).<br />

L'istruttoria è consistita negli esami (testimoniale) della parte offesa e dell'imputato e<br />

nell'assunzione della deposizione del dr. ... sull'accordo delle parti infatti è<br />

stata data lettura, con utilizzabilità per la decisione, delle dichiarazioni testimoniali rese nel corso<br />

delle indagini preliminari da (... collega di ..., presente all'incontro del 11\12\98 ed al controllo dei<br />

computers del giorno precedente) e da ... (allora convivente, ora coniuge, di ...), nonché della<br />

relazione scritta del consulente informatico del P.M., con relativi allegati (supporto informatico e<br />

stampa di alcuni files memorizzati nei computers esaminati).<br />

Le parti inoltre hanno prodotto varia documentazione, relativa all'instaurazione del<br />

rapporto di lavoro ..., all'organizzazione della sede operativa della azienda, alle contestazioni<br />

disciplinari ed al licenziamento della dipendente, documenti cui si farà cenno unicamente per<br />

quanto di rilievo - nel senso oltre immediatamente precisato - in questa sede penale.<br />

La condotta incriminata infatti, consistita per quanto di maggior rilievo penale in toccamenti di<br />

inequivoca espressione di intento sessuale non può aver lasciato alcuna traccia oggettiva e<br />

possibilità di conferma probatoria materiale, ed è inoltre avvenuta nel contesto ristretto della sede di<br />

lavoro di ... della ..., frequentata soltanto dalla denunciante e dal denunciato; nella sostanziale<br />

negatoria dei fatti protestata dell'imputato l'attività valutativa dei giudici si è quindi dovuta<br />

incentrare e risolvere nel confronto tra le versioni - inconciliabili - dei fatti offerte da ... e da ...<br />

senza alcuna possibilità di riscontri decisivi al racconto dell'una o dell'altro.<br />

Ciò (in sintesi: narrazione della persona offesa e parte civile "contro" la narrazione dell'imputato)<br />

non comporta la preclusione a priori della possibilità di positiva e sufficiente verificazione<br />

processuale della tesi accusatoria, ma impone al giudice una rigorosa e cauta (nel senso della<br />

presunzione di innocenza che non può essere superata da un generico attestato di credibilità per la<br />

testimone d'accusa) valutazione della credibilità delle opposte narrazioni, valutazione che pertanto<br />

trova momenti di rilievo anche in fatti non strettamente contemplati dall'imputazione; a tale fine la<br />

vicenda del rapporto di lavoro e del licenziamento della denunciante può configurarsi come causa di<br />

dichiarazioni ritorsive ed incriminanti, ovvero come capitolo conclusivo del "<strong>mobbing</strong>" sessuale che<br />

la ... ha dovuto patire, ma non è in dubbio che dalla stessa si possano trarre elementi di giudizio per


la valutazione di attendibilità delle parti "contrapposte". Nei contenuti concreti ora precisati il<br />

collegio ha pertanto aderito al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la<br />

quale da un Iato "le dichiarazioni del testimone e persona offesa, per essere positivamente utilizzate<br />

dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e<br />

specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come<br />

le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri<br />

esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone"<br />

(nella specie la Corte ha precisato che, in tema di testimonianza della persona offesa, lo scrutinio<br />

del giudice di merito deve essere più accurato e approfondito, ma solo ai fini della credibilità<br />

oggettiva e soggettiva: Cassazione penale sez. III, 26 agosto 1999, n. 11829, A.), e dall'altro la<br />

testimonianza della persona offesa dal reato deve essere sottoposta ad un vaglio di attendibilità<br />

intrinseca particolarmente rigoroso, non essendo la stessa immune da sospetti in quanto portatrice di<br />

interessi antagonistici con quelli dell'imputato (ex multis Cassazione penale sez. VI, 6 ottobre 1999,<br />

n. 1423, D.).<br />

Con la guida di questi criteri si deve vagliare la testimonianza dibattimentale di ...<br />

Nel corso della deposizione ella ha confermato il quadro generale della<br />

vicenda e dei rapporti con l'ing. ... come già esposto in querela e sopra riassunto: il trasferimento a<br />

... nel gennaio 1998, la sede di lavoro limitata a lei ed al dirigente, aggiungendo che un primo<br />

screzio nei rapporti personali e di lavoro, fino ad allora corretti e collaborativi (si davano del tu) era<br />

avvenuto a seguito del fatto che la donna aveva chiesto ed ottenuto un aumento di stipendio<br />

direttamente dalla dirigenza tedesca della società, saltando ... e la scala gerarchica.<br />

Verso marzo-aprile erano iniziati i comportamenti "anomali" di ... , che prese l'abitudine di<br />

infliggere alla donna scherzi osceni e continue allusioni sessuali, proponendole a sorpresa immagini<br />

pornografiche nello schermo del computer: " ...lui mi chiamava nel suo ufficio, magari con la scusa<br />

di farmi vedere un documento di lavoro, io andavo di là e mi trovavo davanti ai miei occhi una foto<br />

porno .. e poi lui mi faceva dei commenti ... altre volte salivo su e mi trovavo il mio computer con le<br />

foto porno... "; in un'altra occasione alla donna venne fatta vedere una foto pornografica di un'attrice<br />

famosa, allo scopo di commentare significativamente che "per soldi qualsiasi donna farebbe<br />

qualsiasi cosa".<br />

La ... accoglieva con disgusto le immagini oscene e non dava certo spazio per equivocare il suo<br />

rifiuto alle implicite proposte sessuali, ma ciò nonostante la condotta di ...diventava più morbosa e<br />

sessualmente molesta, con avances verbali volgari ed esplicite: "con quelle tette saprei io cosa farti<br />

fare ... e più di una volta mi disse anche che lui mi avrebbe fatto sdraiare sulla scrivania ... mi<br />

diceva: ti farei fare io qualcosa di interessante ...".'<br />

Infine gli atti sessuali che hanno comportato un indesiderato contatto fisico, e che sono contestati<br />

nell'imputazione: in più occasioni ... , mentre la donna era ferma in piedi dinanzi alla macchina<br />

fotocopiatrice, con il pretesto di vedere cosa ella stesse facendo le si era avvicinato da dietro,<br />

appoggiandole la testa sulla spalla, e tendendo le mani in avanti, sul piano della macchina; in tal<br />

modo il corpo dell'impiegata era cinto, anche se non stretto, dall'uomo, con i volti vicini.<br />

Similmente numerose volte, con lo stesso pretesto, oppure per mostrare alcune operazioni da<br />

eseguirsi al computer, si appoggiava lievemente da dietro, con il gomito su di una spalla della donna<br />

seduta alla scrivania, avvicinando il volto.<br />

La testimone ha percepito, e subìto, questi atti, come di inequivoca espressione di approcci di natura<br />

sessuale:<br />

D. "Lei sentiva una pressione particolare?"<br />

R. "Ma no, sentivo il discorso suo che si appoggiava, sentivo al presenza, il fiato, quelle<br />

cose lì. Sentivo la presenza, anche perché, insomma è una persona robusta, quindi ... Cioè, io<br />

sentivo quando si poggiava di dietro ...<br />

D. L'ing. ... le ha mai toccato il seno?<br />

R. Sfiorato sì, perché lui, quando veniva da dietro, ripeto, e veniva spesso da dietro, che a me,<br />

soltanto a vederlo, veniva l'angoscia, si metteva poggiato faceva pressione da dietro


D. Lei ha sentito una pressione sul proprio corpo?<br />

R. Certo, certo, perbacco! L 'ho sentita sì, più di una volta ...,<br />

Ad inizio dicembre vi è l'epilogo della vicenda inerente il rapporto di lavoro, così sommariamente<br />

(per il non diretto rilievo nel presente procedimento) ricostruibile dai documenti in atti e dalle<br />

dichiarazioni ..., ...e ...; il 4 dicembre la ...riceve dal dr. ... una lettera di contestazione di addebiti<br />

disciplinari, del tutto pretestuosi, secondo il racconto della donna, ed originati da ritorsioni di ... per<br />

farle pagare la non condiscendenza alle avances; la dipendente risponde per iscritto alle<br />

contestazioni disciplinari, segnalando anche al dr. ... per la prima volta (almeno a lui) di essere stata<br />

oggetto di "attenzioni particolari" non corrisposte. AI contempo la ... , dopo aver contattato (in data<br />

coeva ma non accertata) telefonicamente la dirigenza tedesca della società, invia il 10\12 a mezzo<br />

fax una lettera alla dirigente del personale, Mrs. ... , denunciando la pretestuosità delle contestazioni<br />

disciplinari ricevute e descrivendo i comportamenti indebiti del diretto superiore ing. ...<br />

(collegamenti Internet a siti porno, molestie, tentativi di coinvolgimenti in "sex games"). La<br />

dirigenza tedesca contatta immediatamente il dr. ... e questi, il giorno stesso, unitamente alla dr.ssa<br />

... effettua un controllo presso la sede di lavoro di ...; dalla verifica della memoria dei computers<br />

(files contenenti gli elenchi dei precedenti collegamenti Internet) emergono collegamenti a siti<br />

pornografici (www.sex.com, etc.) unicamente dalla postazione di lavoro della ... . Il giorno<br />

successivo avviene un incontro presso lo studio ..., presenti questi, la ... e l'attuale coniuge, e la<br />

dr.ssa ..., nel corso del quale alla impiegata vengono contestati anche gli esiti del controllo dei<br />

computers, ed in cui le viene chiaramente fatto capire che sarebbe stata licenziata; infatti il giorno<br />

successivo le viene inviata nuova lettera di contestazione disciplinare e, il giorno 17, lettera di<br />

risoluzione senza preavviso dal rapporto di lavoro.<br />

Peraltro dalle prove in atti risulta inequivocabilmente che non poteva essere la ...la responsabile<br />

dell'utilizzo del computers aziendale per collegamenti a siti pornografici: nella relazione di polizia<br />

giudiziaria 6\3\99 (utilizzabile sull'accordo delle parti) riepilogativa dell'attività d'indagine compiuta<br />

in esecuzione di decreto di ispezione dei computers si segnala che effettivamente dai files relativi ai<br />

collegamenti Internet del computer della ... risultano ripetutamente esplorati siti a contenuto<br />

pornografico, e che invece collegamenti di tal genere non risultano dal computer di ..., ciò<br />

nonostante parecchie decine di quei collegamenti non potevano essere stati effettuati dall'impiegata,<br />

giacché risultanti realizzati in giorni nei quali questa era assente dal lavoro (in ferie o per malattia),<br />

o ben oltre il suo orario di lavoro pomeridiano. La consulenza tecnica effettuata dal P.M. ha tolto<br />

ogni dubbio in proposito. Le operazioni peritali sui computers sono state svolte il 30 marzo 1999, e<br />

sono state ostacolate dalla circostanza che la memoria del p.c. di ... (macchina n. 1 in perizia) era<br />

stata deframmentata solo 7 giorni prima.<br />

La deframmentazione è una operazione di manutenzione del software, che ha lo scopo di<br />

ottimizzare l'allocazione fisica dei files nel disco magnetico della memoria e l'occupazione degli<br />

spazi fisici di memoria; comporta però che non è più possibile recuperare i files cancellati.<br />

Il consulente è riuscito a trovare, nel programma di connessione ad Internet usato nella macchina n.<br />

1, un file di "Iog accessi www" (file di gestione, collegato all'indice di accessi della cache),<br />

denominato "www proxy server log", contenente l'indice, completo di date ed orari, dei<br />

collegamenti Internet, nonché dell'indirizzo della macchina da cui erano state attivate le<br />

connessioni.<br />

Ne è emerso che i collegamenti per la visione dei siti pornografici (vedi stampa indice<br />

degli indirizzi Internet e di date ed orari, allegata alla relazione del consulente) sono<br />

stati effettuati dalla macchina n. 1 - quella in uso a ... in orari lavorativi e non.<br />

Non solo; poiché dal controllo effettuato il 10\12\98 dal dr. ... presso i medesimi computers era<br />

invece risultato che nelle cartelle "temporary Internet files" (cartelle che il programma di<br />

navigazione genera automaticamente, contenenti elenchi delle videate scaricate, già in memoria per<br />

ridurre i tempi in caso di successivo collegamento al medesimo sito) del p.c. della ... vi erano gli<br />

indirizzi di siti pornografici, si deve necessariamente ritenere che ..., dal cui p.c. la consulenza ha<br />

accertato venivano fatti i collegamenti, abbia effettuato una operazione di "taglia ed incolla", od


analoga, dalla memoria del proprio p.c. a quello dell'impiegata (le macchine del resto erano in rete).<br />

Ha così simulato le tracce dell'uso "incongruo" del computer aziendale a carico della ... .<br />

L'accertamento in parola è un forte indice di attendibilità e di credibilità della parte offesa, e<br />

specularmene di smentita della affermazioni di ... di negatoria dei comportamenti incongrui<br />

addebitatigli dalla dipendente (al dibattimento l'imputato ha riconosciuto - ma ciò era ormai<br />

evidente - di essere egli l'autore dei collegamenti web, peraltro realizzati sempre dopo l'orario di<br />

lavoro e mai alla presenza della donna).<br />

Se era ... ad indulgere, a tutte le ore (vedasi stampa delle videate, indicanti anche gli orari dei<br />

collegamenti), all'esplorazione di siti pornografici, non è incongruo credere alla ... quando questa<br />

riferisce dell'umiliazione derivatale dalla sottoposizione a sorpresa di immagini oscene.<br />

Certo i rapporti fra i due erano deteriorati, e ne fanno prova i fax 10\4\98 da ... a ... e 20\4\98 da<br />

questa al primo (produzioni difesa imputato) relativi a contestazioni e precisazioni sulle prassi di<br />

lavoro tenute dall'impiegata, ed il degrado delle relazioni personali - a tacere del licenziamento- può<br />

avere influito sulla obiettività della parte offesa nella percezione dei fatti e nel ricordare la vicenda.<br />

Ciò solo in ipotesi; al contrario l'unica verificazione oggettiva possibile ha offerto pieno riscontro al<br />

racconto accusatorio, del resto offerto in sede dibattimentale, con una valutazione secondo<br />

parametri intrinseci e soggettivi, con apparente accentuata sincerità, congruità di toni ed assenza di<br />

contraddizioni.<br />

Sulla base della descrizione dei fatti e degli atti subiti dalla parte offesa, come sopra riportati nelle<br />

parti di rilievo, è però da ritenersi che questi non abbiano superato la soglia di rilevanza penale<br />

posta dall'art. 609 bis contestato.<br />

... ha descritto posture incongrue dell'uomo (il dato più incisivo e spontaneo che si ricorda della<br />

deposizione riporta alla sensazione di "oppressione" per la ravvicinata fisicità, ma non di costrizione<br />

da contatto del corpo apprezzabilmente insistito) ed accennati sfioramenti, con l'avambraccio, ai Iati<br />

del seno, in contesti, ed accompagnati occasionalmente da commenti che lasciano pochi spazi alla<br />

possibilità di travisamento di gesti in realtà malaccorti, o comunque senza "intento" sessuale.<br />

Sia pure da ricondursi all'espressione indebita della soddisfazione dell'istinto sessuale, ovvero da<br />

qualificarsi come volgari avances di natura sessuale, secondo la percezione riferita dalla parte<br />

offesa, questi gesti, giacché solo accennati, non hanno comportato una apprezzabile materiale<br />

invasione, con violenza agita, della libertà fisica, e quindi anche sessuale, della parte offesa.<br />

Ai fini di questa valutazione si riprende l'orientamento della S. C. , secondo la quale la nozione di<br />

"atti sessuali" cui fa riferimento l'art. 609 bis c.p., non può non comportare un coinvolgimento della<br />

corporeità sessuale della personale offesa. Non possono quindi qualificarsi come "atti sessuali", nel<br />

senso richiesto dalla suddetta norma incriminatrice, tutti quegli atti i quali, pur essendo espressivi di<br />

concupiscenza sessuale, siano però inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima,<br />

comportando essi soltanto offesa alla libertà morale di quest'ultima (Cassazione penale sez. 111, 28<br />

settembre 1999, n. 2941, C.).<br />

Più precisamente, inoltre, vanno esclusi dall'area di punibilità circoscritta dall'art. 609 bis CP "quei<br />

comportamenti che si risolvono, ad esempio, in ossessivi corteggiamenti o in assillanti proposte,<br />

ove "lo sfondo sessuale" costituisce soltanto un motivo e non un elemento della condotta" (nella<br />

specie, relativa ad annullamento senza rinvio, perché il fatto non sussiste, di sentenza di condanna<br />

per il reato di cui all'art. 521 c.p., per avere l'imputato compiuto atti di libidine consistiti, mentre<br />

manifestava l'intenzione di abbottonare i pantaloni ad una ragazza e di calzarle le scarpe, nel toccare<br />

il bottone dei pantaloni e nel baciarle una gamba, sugli stessi "jeans", senza trattenerla né toccarla in<br />

altre parti del corpo, la S.C. ha ritenuto che, in sostanza, l'imputato aveva posto in essere una<br />

"molestia sessuale" che non varca la soglia della rilevanza penale in relazione all'art. 609 bis c.p. e<br />

non è altresì riconducibile ad altre ipotesi criminose, dovendosi escludere con palese evidenza la<br />

ravvisabilità di un intento ingiurioso e non potendo configurarsi, in un'abitazione privata, la<br />

contravvenzione di cui all'art. 660 c.p.: Cassazione penale sez. 111, 15 novembre 1996, n. 1040,<br />

C.).<br />

La condotta posta in essere da ... non ha quindi integrato il reato di violenza sessuale a lui


contestato.<br />

All'imputato peraltro è stato espressamente contestato nell'imputazione (ed in tal senso la decisione<br />

che porta al dispositivo che segue rispetta il disposto dell'art. 521 CPP), sia pure come corollario<br />

dell'attività di intimidazione e violenza sessuale fisica, il turpiloquio concernente la sfera sessuale, e<br />

di aver mostrato "alla persona offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente<br />

pornografico".<br />

Tale condotta, emersa perdurata pressoché fino alla interruzione del rapporto di lavoro (il rilievo è<br />

per la non tardività della querela in atti) integra la fattispecie incriminatrice posta dall'art. 594 CP.<br />

E' indiscutibile che, secondo i parametri comunemente accettati della convivenza civile e del<br />

rispetto dell'altrui integrità morale, sottoporre una persona ad apprezzamenti volgari sul proprio<br />

corpo e sulla propria sessualità (vedi frasi sopra riportate), ed imporle la visione non consenziente di<br />

immagini pornografiche, costituisca comportamento ingiurioso, ovvero offensivo dell'onore e del<br />

decoro, e lesivo di uno degli aspetti più intimi della libertà morale, relativo alla sfera sessuale.<br />

Per la parte in esame della condotta contestata ... va pertanto ritenuto responsabile del reato p. e p.<br />

dagli artt. 81 e 594 CP, commesso in danno di ... .<br />

Pena equa, in considerazione dell'incensuratezza (che consente altresì il beneficio della non<br />

menzione) è da individuarsi nella sanzione pecuniaria, equa nella misura di £ 1.000.000 di multa.<br />

La condotta illecita dell'imputato ha cagionato danni morali alla persona offesa che ha dovuto<br />

sopportare, per i comportamenti di natura ingiuriosa accertati (i fatti relativi alla vicenda di lavoro,<br />

ed al licenziamento, sono estranei al reato strettamente considerato ed al danno diretto conseguente;<br />

del resto la domanda risarcitoria è stata limitata al danno morale) l'umiliazione ed il patimento<br />

morale derivati dall'invasione offensiva della propria libertà morale e sessuale, umiliazione e<br />

patimento ancor più accentuati dalla circostanza di provenire da persona in situazione di supremazia<br />

nel rapporto di lavoro, e verso la quale quindi vi era ridotta possibilità di reazione, e particolare<br />

condizione di soggezione.<br />

L'imputato deve essere quindi condannato, in accoglimento della domanda azionata<br />

dalla parte civile a risarcire i danni anzidetti, che si possono liquidare in via unicamente equitativa,<br />

avuto riguardo alle circostanze sopra poste in rilievo, in £ 15.000.000, come richiesto, oltre<br />

rifusione delle spese di difesa, liquidate come in dispositivo.<br />

Non è stata chiesta la provvisoria esecutorietà della condanna al risarcimento.<br />

P. q. m.<br />

Il Tribunale, visti gli artt. 521, 533 e 535 CPP,<br />

qualificato il fatto come p. e p. dagli artt. 81 cpv. e 594 CP,<br />

dichiara l'imputato responsabile del reato così qualificato e lo condanna alla pena di £ 1.000.000 di<br />

multa, oltre al pagamento delle spese processuali. Concede il beneficio della non menzione. Visti<br />

gli artt. 538 e segg. CPP<br />

Condanna l'imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita,<br />

equitativamente liquidato in £ 15.000.000;<br />

condanna l'imputato alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte civile costituita, che<br />

si liquidano in £ 2.790.000, oltre £ 40.000 per anticipazioni esenti, oltre IVA e CPA come per<br />

legge. Giorni 60 per il deposito.<br />

Modena, 7\6\01


TRIBUNALE DI FORLI’ – 6 febbraio 2003 – FISCELLI OMBRETTA c. GIANGASPERO<br />

FELICE e Azienda USL di Cesena.<br />

PER GENTILE CONCESSIONE DI WWW.FIBA.IT<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Con ricorso presentato alla sezione del Lavoro del Tribunale di Forlì Fiscelli Ombretta<br />

dichiarava di lavorare in qualità di medico specializzato in anatomia patologica presso<br />

l’Ospedale Bufalini di Cesena sin dal 1975 e di aver subito un processo di <strong>mobbing</strong> dall’arrivo<br />

nel reparto di Anatomia Patologica del nuovo Primario Felice Giangaspero, nel febbraio 1996,<br />

sempre più pesante e gravido di conseguenze anche per la propria salute. Riteneva che ci<br />

fossero profili di responsabilità sia in capo al Giangaspero autore delle condotte dannose, che<br />

nei confronti dell’amministrazione dell’Azienda USL di Cesena, che gestisce l’Ospedale<br />

Bufalini. Chiedeva di conseguenza, una volta accertati i danni biologici, morali e patrimoniali<br />

provocati alla stessa nonché il danno alla professionalità per la dequalificazione condotta nei<br />

suoi confronti, venissero condannati in solido il Primario del reparto e l’Azienda USL al<br />

risarcimento dei suddetti danni indicati nel ricorso. Il Primario Felice Giangaspero e l’Azienda<br />

USL di Cesena si costituivano congiuntamente nel presente giudizio contestando integralmente<br />

le pretese della parte ricorrente e chiedendo il rigetto del ricorso. Secondo tali parti non ci<br />

sarebbe stato alcun atteggiamento discriminatorio o comunque negativo nei confronti della<br />

dottoressa Fiscelli. Gli episodi di confronto tra Giangaspero e la Fiscelli venivano<br />

ridimensionati a ordinaria dialettica interna all’ambiente di lavoro, la patologia della ricorrente<br />

non appariva riconducibile a eziologia lavorativa e tutti i fatti descritti dovevano essere letti nel<br />

loro insieme in un contesto di un rapporto professionale sicuramente problematico ma non per<br />

questo rilevante sotto il profilo del danno e della conseguente responsabilità. Nel corso del<br />

giudizio si procedeva ad escutere un numero rilevante di testimoni a conoscenza della<br />

situazione sia precedente che contemporanea ai fatti per i quali la ricorrente aveva agito. Questo<br />

giudice disponeva procedersi a consulenza psichiatrica per verificare le caratteristiche della<br />

diagnostica patologia psichiatrica della ricorrente e il nesso casuale eventuale con la condizione<br />

lavorativa. Durante il processo, caratterizzato anche da provvedimenti di urgenza e durante il<br />

quale il Primario Giangaspero passava ad altro incarico lasciando l’Ospedale di Cesena,<br />

venivano depositate anche risultanze di attività di consulenti di parte non autorizzate dal giudice<br />

che contribuivano a rendere la materia ancora più articolata. Al termine dell’impegnativa fase<br />

istruttoria e dopo la discussione la causa appariva matura per la decisione.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

La materia del presente ricorso rientra in quella complessa e sempre più viva problematica<br />

relativa all’ambiente di lavoro ed alla tutela da accordare al lavoratore alla luce del disposto<br />

degli articoli 2,3,32,41 della Costituzione ed in generale dall’ordinamento a favore della parte<br />

debole del rapporto di lavoro, non solo sotto il profilo della tutela delle condizioni materiali ma<br />

anche della sua dignità come persona e come lavoratore. Tematiche antiche ma mai come ora<br />

attuali se ripensa al complessivo contesto determinato dalla globalizzazione sul mercato<br />

internazionale del lavoro in generale ed in particolare nella nostra realtà ai mutamenti derivanti<br />

dalla sempre maggiore richiesta di flessibilità che comportano una più marcata precarizzazione<br />

del lavoro ed una sempre più necessitata disponibilità ad accettare condizioni lavorative<br />

indipendentemente dalle garanzie contenute nel posto offerto (si pensi, sotto questo profilo, alla<br />

condizione degli immigrati ed alla correlazione tra il lavoro e il permesso di soggiorno). In<br />

questo senso si è parlato con grande sensibilità di <strong>mobbing</strong> di sistema nelle situazioni con<br />

potenzialità aggressiva in re ipsa derivante dalla condizione priva di strumenti di reazione. In


questo scenario, non solo nazionale, si inserisce una rinnovata attenzione alla figura<br />

complessiva del lavoratore ed alla tutela da accordare allo stesso non solo per le sue condizioni<br />

materiali ma anche sotto il profilo della tutela della sua personalità e professionalità, a rischio in<br />

un contesto nel quale le regole si fanno sempre più “leggere” e le esigenze del mercato sempre<br />

più “pesanti” nella valutazione degli spazi di tutela del lavoratore. Non a caso, è stato fatto<br />

notare dai migliori studiosi del <strong>mobbing</strong>, l’interesse internazionale sul tema si è sviluppato<br />

quasi in contemporanea in diversi paesi del mondo occidentale a economia sviluppata alla fine<br />

degli anni ottanta quando il mondo del lavoro ha cominciato a conoscere massicciamente gli<br />

effetti delle grandi trasformazioni portate dalle nuove caratteristiche dell’economia attuale.<br />

In questo contesto una causa come la presente, che sarebbe stata impensabile solo alcuni fa<br />

come struttura e come domande, appare attuale e inserita nelle nuove tematiche collegate alla<br />

sempre maggiore sensibilità accordata dalla giurisdizione alla dignità del lavoratore. Siamo in<br />

una situazione dove, per l’altro, le garanzie formali sono presenti -un rapporto di lavoro di un<br />

medico specialista con una Azienda Usl in un Ospedale – ma dove i potenziali attacchi alla<br />

sfera personale del lavoratore possono essere particolarmente insidiosi e pericolosi per la stessa<br />

persona considerando i livelli di professionalità della ricorrente.<br />

La dottoressa Fiscelli lamenta di essere stata vittima di un atteggiamento vessatorio nei suoi<br />

confronti da parte del dottor Giangaspero Primario del reparto di anatomia patologica, struttura<br />

per la quale lavorava già da oltre vent’anni, e chiama in causa l’Azienda Usl per non essere<br />

intervenuta a tutelare la propria condizione pur essendo perfettamente a conoscenza della<br />

situazione di conflittualità e delle sofferenze lamentate. La casistica viene ricondotta dalla<br />

ricorrente alla tipologia del <strong>mobbing</strong>. Per una definizione del <strong>mobbing</strong> si rimanda ai numerosi<br />

studi sull’argomento ed alle oramai non isolate decisioni della giurisprudenza che hanno parlato<br />

del tema fornendo contorni acquisiti con una certa sicurezza, in attesa di una definizione del<br />

legislatore nazionale. Questo fenomeno corrisponde ad una figura che da alcuni anni nel nostro<br />

paese, prima nel settore della psicologia del lavoro e in seguito anche in quello del diritto, ha<br />

avuto un riconoscimento adeguato e che a livello continentale costituisce un problema non<br />

sottovalutato, come la recente risoluzione del Parlamento Europeo (20/9/2001 n-A5-0283/2001)<br />

dimostra. Per poter accertare la riferibilità di tale struttura alla reale situazione in esame occorre<br />

esaminare i fatti salienti che si sono verificati negli ultimi anni della vita lavorativa della<br />

ricorrente e, una volta conosciuti, leggerli alla luce della richiamata fattispecie. Abbiamo già<br />

ricordato che Giangaspero diventa Primario del reparto di anatomia patologica dell’Ospedale di<br />

Cesena nel febbraio 1996. in precedenza il Primario era il professor Tison, una figura di medico<br />

e di uomo sicuramente mirabile per come descritta concordemente da tutti i testimoni<br />

interrogati sul punto, morto nell’aprile del 1995 ma già da tempo malato. La Fiscelli era aiuto<br />

nella vecchia terminologia ospedaliera - sostituita prima nel 1996 con medico di I°livello<br />

dirigente e dal 1999 con dirigente medico - del Tison ed aveva un rapporto professionale ed<br />

umano di grande intensità. Con la malattia del primario – iniziata nel 1993 e con diagnosi<br />

infausta realizzata dalla stessa Fiscelli – la ricorrente contemporaneamente vive il dramma<br />

della sofferenza per il suo Primario gravemente malato e l’impegno del primariato, essendo<br />

stata a lei affidata informalmente per il lungo periodo di malattia del Tison la responsabilità del<br />

reparto. È sicuramente un contesto emotivamente molto impegnativo se si considera la<br />

particolare cura che dedica al lavoro la Fiscelli e il profondo legame umano e professionale che<br />

l’univa al professor Tison. Infatti in quel periodo la ricorrente inizia a frequentare una<br />

psicologa, la dottoressa Domenicali, dalla quale apprende tecniche di training autogeno e,<br />

contestualmente, cerca sostegno per la pressione alla quale è sottoposta. Dopo la morte del<br />

professor Tison il reparto viene affidato all’altro aiuto dottor Caruso, che possedeva i requisiti<br />

formali per poter guidare la struttura prima della nuova nomina, ed i rapporti con la Fiscelli ,<br />

stando alla testimonianza del Caruso stesso, in quel periodo sono problematici. È questa una<br />

circostanza che psicologicamente ed umanamente risulta comprensibile se si pensa che la<br />

Fiscelli viene sostanzialmente riportata al ruolo precedente sotto le direttive dell’altro aiuto che


per un lungo periodo lei aveva diritto. Con l’arrivo del nuovo Primario nel febbraio 1996 si<br />

crea una situazione di generale tensione con riferimento ai metodi utilizzati dal Giangaspero. Il<br />

personale, sia medico che paramedico si rivolge all’amministrazione per avere chiarimenti sulla<br />

condotta del Primario ma, dopo un periodo di assestamento, la situazione tende a migliorare nel<br />

suo complesso. Si deve per altro contestualizzare questa nomina e considerare che,<br />

contemporaneamente, si assiste al fenomeno della ristrutturazione del servizio nazionale con un<br />

taglio sempre più manageriale ed alla trasformazione delle unità sanitarie locali con la richiesta<br />

di una maggiore attenzione alle tematiche della produttività del servizio, situazione che vede nel<br />

Giangaspero un rappresentante della nuova filosofia. La Fiscelli, per mentalità e per<br />

formazione, rappresenta il prodotto della precedente cultura, molto più attento all’analisi ed<br />

all’approfondimento che al budget, ed inevitabilmente le due mentalità non si trovano e<br />

finiscono per scontrarsi. Molto bene la situazione viene descritta nella memoria di parte<br />

ricorrente 20/12/2002 a pag.12 “la personalità e soprattutto la metodologia di lavoro della<br />

ricorrente, non si conciliava con quella del nuovo Primario e la mancanza di mediatori ha<br />

determinato il sorgere del conflitto”.<br />

Per altro le condizioni della Fiscelli più o meno in quel periodo non erano delle migliori se è<br />

vero che nel giugno (20/6/96) c’è agli atti un certificato medico del dottor Gatticchi, medico<br />

curante della ricorrente, che parla di depressione reattiva di notevole entità della Fiscelli<br />

indicando la necessità di quindici giorni di riposo e, ancora più significativo, un ulteriore<br />

certificato della dottoressa Valpiani, gastroenterologa , che quasi contemporaneamente<br />

(21/6/96) parla di una patologia da reflusso gastroesofageo della ricorrente che ha determinato<br />

un quadro di astenia e debilitazione con consistente calo ponderale e lo collega verosimilmente<br />

a problematiche di ordine psicologico. Non è possibile riconnettere tale situazione al rapporto<br />

con il Giangaspero per una serie di motivi. In primo luogo si deve ricordare che in un primo<br />

periodo (e da febbraio a giugno 1996 è sicuramente un breve periodo) il conflitto non era<br />

personalizzato ma riguardava l’intera struttura e il nuovo Primario che veniva vissuto come<br />

corpo estraneo. In secondo luogo dalle teorizzazioni sul <strong>mobbing</strong> si ricava agevolmente che il<br />

momento delle conseguenze di ordine fisico e psichico del fenomeno si manifestano dopo un<br />

certo lasso di tempo e non certo in uno stadio così iniziale. Il teorizzatore delle sei fasi del<br />

<strong>mobbing</strong> nel modello italiano, il dottor Ege utilizzato tra l’altro come consulente di parte nel<br />

presente processo, parla di una terza fase del <strong>mobbing</strong> nella quale il mobbizzato comincia a<br />

manifestare i primi sintomi psico-somatici, i primi problemi per la sua salute collocandola nel<br />

tempo ad una distanza ragionevole dalle precedenti fasi. Infatti esaminando il caso in esame<br />

Ege colloca questa terza fase dopo oltre un anno, cioè nel maggio 1997, quando la ricorrente<br />

comincia un vero e proprio percorso con uno psichiatra e con l’ausilio di farmaci specifici. Se<br />

avesse conosciuto con esattezza le circostanze appena descritte relative all’anno prima il dottor<br />

Ege non avrebbe potuto ritrovare lo schema delle fasi del <strong>mobbing</strong> nel caso in esame poiché<br />

avrebbe verificato una sovrapposizione tra la così detta fase zero e la terza fase che, al<br />

contrario, segue dopo un periodo ragionevole le atre che necessariamente si susseguono. Quindi<br />

si rilevano due incongruenze gravi per ricondurre il caso concreto alla struttura teorica del<br />

<strong>mobbing</strong>: il sovrapporsi tra due fasi ben distinte nella teorizzazione del fenomeno e la evidente<br />

carenza delle fasi intermedie, la uno e la due, che dovrebbero succedersi nel tempo dopo la fase<br />

zero e prima della fase tre. Questi elementi costituiscono una prima enorme perplessità rispetto<br />

all’ipotesi di ricondurre il caso in esame alle tematiche del <strong>mobbing</strong>. Ma la complessità della<br />

materia determina la necessità di proseguire nell’esame.<br />

Alla fine del 1996 quando la situazione generale del reparto tende a normalizzarsi e il contrasto<br />

a personalizzarsi tra la Fiscelli ed il Giangaspero una nuova grande fonte di preoccupazione<br />

colpisce la ricorrente e riguarda la salute del figlio.<br />

In realtà la questione è meno grave fortunatamente di come appare in quel periodo e si risolve<br />

positivamente - per altro solo dopo un’ultima operazione nell’estate 1997 – ma per un mese<br />

alla fine del 1996 la Fiscelli prende aspettativa per accudire il figlio ricoverato in ospedale dopo


una operazione al setto nasale. Dire che si è trattato di una sinusite che si è risolta in due mesi<br />

(pag.22 memoria 20/12/2002 Fiscelli ma nella consulenza di parte della dottoressa Astorra del<br />

3/1/2002 la malattia viene definita addirittura episodio banale e non può essere così perché non<br />

si prende4 un mese di aspettativa dal lavoro per una banalità, sicuramente non la Fiscelli) vuole<br />

dire non dare il giusto peso alle cose, come invece ha dato con estrema professionalità il<br />

consulente del giudice nella sua relazione.<br />

Sicuramente anche questo episodio ha influito sulla salute della Fiscelli e la necessità di<br />

ricorrere ad un aiuto sempre più specialistico per la sfera psichiatrica (i primi certificati dello<br />

psichiatra Amadei sono del maggio 1997) si collocano in un contesto che definire almeno<br />

complesso è doveroso. Evidentemente non la pensava così il dottor Cecchetti (medico<br />

chirurgico odontostolomatologo) che dopo aver visitato nel luglio 1997 Fiscelli indica nel<br />

<strong>mobbing</strong> la causa esclusiva delle problematiche mandibolari descritte nel certificato 11/2/98 in<br />

atti. La dottoressa Schilio successivamente, in maniera sicuramente più sobria parla di probabile<br />

origine lavorativa per i dolori alle articolazioni temporo-mandibolari: certificato 1/3/2000).<br />

Un dato certo è che sin dall’origine viene diagnosticata una depressione di carattere reattivo<br />

come origine delle sofferenze della Fiscelli, su questo elemento sono d’accordo tutti. Anche la<br />

dottoressa Astorre, consulente di parte ricorrente come neuropsichiatria, parla nel certificato<br />

22/12/99 di depressione oltre i limiti ed aggiunge “presenti postumi da disturbo post-traumatico<br />

da stress” che se la lingua non inganna indicano una situazione pregressa (postumo è un effetto<br />

tardivo o conseguenza di una malattia) parlando di un danno nell’ordine del 12%. Ma nella<br />

successiva consulenza 24/7/2000 (a distanza di soli sette mesi dalla prima relazione) dopo aver<br />

collegato il reflusso gastroesofageo allo stress lavorativo (detto reflusso era stato diagnosticato<br />

nel giugno 1996 quindi prima dell’insorgere dell’ipotetico <strong>mobbing</strong>) ritiene che dopo quel<br />

periodo – nel quale si ricorda che la Fiscelli non ha fatto un giorno di lavoro perché in malattia<br />

per tutti e sette i mesi tra il primo ed il secondo certificato - ci sia stato un peggioramento delle<br />

condizioni tali da comportare un danno del 25%. Anche la diagnosi cambia e per la prima volta<br />

si parla di disturbo paranoico con tratti schizoidi a chiara genesi lavorativa.<br />

Un momento di estremo interesse nel contesto del rapporto è rappresentato dalla missiva in data<br />

3/5/97 che l’avvocato Riccardo Pinza scrive per conto della Fiscelli al Direttore Generale<br />

dell’Azienda USL lamentando l’emarginazione subita dalla cliente confinata al ruolo modesto e<br />

ripetitivo delle patologie infiammatorie della cute. La risposta del Direttore Generale del<br />

16/6/97 – dopo i chiarimenti forniti dal Giangaspero del 19/5/97 - è secca: ritenendo che la<br />

Fiscelli abbia ribaltato completamente i termini della questione si ricorda che è stata la<br />

resistente ad aver chiesto l’attribuzione di una particolare responsabilità nel campo nei confronti<br />

della Fiscelli.<br />

La ricorrente a quel punto scrive di proprio pugno in data 26/6/97 riconoscendo la particolare<br />

attenzione rivolta dal Direttore Generale al reparto ed alla dottoressa in particolare. Colpisce la<br />

circostanza che in questa fase che dovrebbe essere per la psichiatria interessata al tema la fase<br />

del disconoscimento e dell’autosvalutazione della vittima con autocolpevolizzazione, il<br />

comportamento della Fiscelli si manifesti, a contrario, molto reattivo fino a rivolgersi ad un<br />

avvocato per riaffermare i propri diritti, salvo modificare i toni dopo le smentite subite sia dal<br />

teorico mobber che dal Direttore Generale dell’Azienda.<br />

Nel dicembre 1997 comincia una serie di registrazioni di conversazioni tra presenti, operata<br />

dalla ricorrente che produce in atti le trascrizioni, che evidenzia sicuramente una situazione di<br />

diffidenza della Fiscelli nei confronti del Giangaspero e, complessivamente, dell’ambiente. Per<br />

altro tale documentazione non appare in alcun modo fondamentale per decidere sulla pretesa di<br />

<strong>mobbing</strong> poiché vi è certamente la conferma della problematicità dei rapporti ma non elementi<br />

univocamente riconducibili a situazioni tipiche della figura richiamata nel ricorso. In data<br />

8/2/99 la Fiscelli scrive una lunga lettera al Direttore sanitario ed al Direttore Generale per<br />

descrivere la sua condizione e per lamentare una serie di situazioni. Vengono descritti<br />

l’episodio del gruppo IMI (Istituto Italiano per il Melanoma) nel quale la ricorrente si è sentita


emarginata, l’episodio del corso di formazione presso l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata<br />

nel quale le sarebbe stato consentito di svolgere aggiornamento, e si evidenzia il clima generale<br />

di contrasto, richiamando l’attenzione anche del proprio sindacato (ANAAO) sui rapporti<br />

indicati.<br />

Alla richiesta di chiarimenti del Direttore Sanitario del 24/2/99 risponde il Giangaspero in data<br />

8/3/99. la riunione per l’IMI era meramente operativa e non richiedeva la presenza della Fiscelli<br />

mentre il suo nome venne fatto per il gruppo che partecipava all’iniziativa del GIPME (Gruppo<br />

Italiano per il melanoma) circostanza che esclude una volontà di emarginazione. Per quanto<br />

riguarda il corso di tre settimane presso l’IDI il Giangaspero precisava che trattandosi di<br />

iniziativa rivolta “sia a dermatologi che a patologi privi di una specifica preparazione del<br />

settore” non potesse essere rivolto alla Fiscelli per la sua specifica preparazione in dermatologia<br />

e per tale motivo aveva proposto una soluzione alla collega che tenesse conto di questa<br />

circostanza e non costituisse un peso per il reparto (una settimana di aggiornamento facoltativo<br />

e due di ferie per frequentare il corso). All’esito dei chiarimenti il Giangaspero ha presentato<br />

una querela nei confronti della Fiscelli, così come risulta dagli atti che la Fiscelli ne abbia<br />

presentate due nei confronti di Giangaspero. Come abbiamo detto dal dicembre 1999 la Fiscelli<br />

entra in malattia ed uscirà solo nel marzo 2002, sostanzialmente in contemporanea con la<br />

presentazione del ricorso, ed al rientro al lavoro avrà difficoltà nel reinserimento lavorativo<br />

tanto da arrivare a presentare un ricorso d’urgenza risolto dal giudice richiamando un<br />

precedente ordine di servizio che prevedeva l’utilizzazione della ricorrente solo nel settore della<br />

dermopatologia nel quale la stessa ha conservato la padronanza tecnica e professionale. La<br />

conclusione della vicenda in termini di rapporto tra le parti in causa è quantomeno originale se<br />

inserita nel contesto <strong>mobbing</strong>: non è il soggetto mobbizzato che viene espulso dalla realtà<br />

lavorativa ma esattamente l’opposto. Infatti il Giangaspero, già in aspettativa dall’ottobre 2001,<br />

nel giugno 2002 lascia l’incarico a Cesena per un’altra opportunità di lavoro. Quanto abbia<br />

influito in questa scelta il contrasto con la Fiscelli, i numerosi procedimenti, penali oltre che il<br />

presente processo del lavoro, ai quali è stato sottoposto non è dato sapere ma di certo che il<br />

mobber abbandoni l’ambiente di lavoro costituisce una soluzione certamente non riconducibile<br />

alla sesta fase descrittiva dalla psicologia del lavoro relativa alle casistiche di <strong>mobbing</strong>.<br />

Vediamo quali sono gli elementi che secondo il consulente di parte dottor Ege riconducono la<br />

fattispecie al <strong>mobbing</strong>. In primo luogo si è visto che i riferimenti temporali sono errati e non c’è<br />

corrispondenza tra la classica divisione in sei fasi del <strong>mobbing</strong> e la presente fattispecie. La fase<br />

quarta, definita degli errori ed abusi dell’amministrazione, fatta risalire dal dottor Ege alla<br />

risposta effettivamente dura dell’amministrazione in data 16/6/97 non è vissuta come tale dalla<br />

Fiscelli che la missiva 26/6/97 ricordata dimostra di aver molto apprezzato l’intervento della<br />

Direzione Generale nel manifestarle solidarietà. Quindi quanto meno soggettivamente la quarta<br />

fase per la Fiscelli sicuramente non si colloca nel 1997, a ulteriore conferma della confusione<br />

dell’evoluzione della figura. La sesta fase, come visto, presenta un epilogo rovesciato rispetto<br />

alle situazioni tipizzate di <strong>mobbing</strong>. Anche i due episodi dei quali si è parlato in precedenza,<br />

cioè IMI ed IDI per intenderci, risultano adeguatamente spiegati dal Giangaspero e non si<br />

inseriscono in un contesto di azioni tese ad arrecare disagio alla ricorrente.<br />

Il riferimento alla postazione di lavoro, cioè all’ufficio personale destinatole dal Primario e<br />

definita isolata, piccola e polverosa dalla Fiscelli che se ne lamenta, merita alcuni chiarimenti.<br />

La postazione di lavoro, fondo di corridoio, in precedenza era affidata ad altra dottoressa, segno<br />

che comunque si trattava di un ufficio, e rispetto all’arredo risulta che sia stata sufficiente una<br />

richiesta al soggetto incaricato (vedi teste Mambelli dell’economato) per avere una scrivania<br />

più confacente con le proprie esigenze. Per quanto riguarda la richiesta di un deumidificatore<br />

avanzata dalla ricorrente risulta (registrazione trascritta 14/5/99 in atti) che il primario abbia<br />

richiesto come condizione che lo stesso fosse garantito a tutti i suoi collaboratori e questa non<br />

sembrava una forma di emarginazione o discriminazione ma un giusto comportamento del<br />

Primario.


Per quanto concerne le mansioni affidate ritenute da Ege limitate e molto al di sotto delle<br />

proprie capacità basta sentire i testi Landi e Leardini per apprezzare la professionalità acquisita<br />

dalla Fiscelle nella dermopatologia e l’interesse sempre dimostrato dalla stessa al settore<br />

specifico nel quale è sempre stata la referente anche per le strutture esterne all’Ospedale. Non si<br />

conoscono atti di violenza minore o maldicenze a conferma di quanto riferito dal dottor Ege. Le<br />

espressioni verbali forti sono state reciproche, come verificato oltre che nelle trascrizioni offerte<br />

dalla stessa ricorrente da tutti i testi escussi sul punto (testi Nuzzo, Caruso, Cerasoli, Tabarri in<br />

particolare).<br />

In buona sostanza non si può in questa sede concordare sulla verifica delle condizioni che<br />

caratterizzano la situazione di <strong>mobbing</strong> perché molti, sostanzialmente tutti, gli elementi indicati<br />

dallo psicologo del lavoro, a lui riferiti, appaiono o inesistenti o valutati in modo eccessivo<br />

rispetto alla effettiva portata.<br />

In realtà, e l’elemento appare chiaro e pacifico, tra Fiscelli e Giangaspero si realizza uno<br />

scontro di mentalità e di modi di intendere la propria attività in termini di assoluta<br />

incompatibilità. Il Giangaspero, anche per la responsabilità del reparto, tiene molto al risultato<br />

da raggiungere e valuta i propri collaboratori in considerazione dei risultati quantitativi ottenuti.<br />

Diametralmente opposta è la Fiscelli che ritiene, al contrario di dover approfondire ogni<br />

aspetto problematico e che la fretta non si accompagni con la qualità dei risultati. Come non<br />

dare ragione ad entrambi nei rispettivi ruoli è francamente impensabile. Tutti vorremmo avere<br />

un medico come la Fiscelli ma ogni azienda sanitaria, almeno dopo le ricordate riforme che non<br />

hanno certo migliorato il servizio nel suo aspetto qualitativo, vorrebbe Giangaspero, come<br />

Primario. Se a questo uniamo elementi umani imponderabili e una scarsa propensione al<br />

dialogo costruttivo allora comprendiamo integralmente la situazione che si è verificata in questi<br />

anni, fino al 2002 quando Giangaspero è andato via, nel reparto di anatomia patologica<br />

dell’Ospedale di Cesena. Gli esposti e le querele, le memorie degli avvocati, la predisposizione<br />

di elementi probatori quali le registrazioni e i certificati medici ad hoc non sono elementi<br />

caratteristici della figura del mobbizzato così come Giangaspero non corrisponde assolutamente<br />

alla figura del mobber.<br />

In primo luogo escludiamo profili di responsabilità personale del Primario nella materia.<br />

Trattandosi di colleghi il titolo di responsabilità dovrebbe essere quello della responsabilità<br />

extracontrattuale ex art.2043 c.c. che richiede per poter parlare di pretesa risarcitoria<br />

dell’elemento psicologico del dolo o, almeno, della colpa e nessuno dei due profili soggettivi<br />

appare riconducibile alla condotta del Primario che potrà peccare di scarsa educazione (ma il<br />

conflitto assume reciproche forme forti), sicuramente deficita in termini di comprensione<br />

umana e disponibilità al confronto ma agisce nell’esclusivo interesse del proprio reparto e dei<br />

propri colleghi, come riconosciuto dagli stessi nelle dichiarazioni testimoniali raccolte. Questo<br />

non vuole però dire automaticamente che non sia configurabile il <strong>mobbing</strong> da chi pur operando<br />

con condotte di per sé lecite realizza lo stesso complessivamente le condizioni per un ambiente<br />

mobbizzante e questo dato comporterebbe comunque, anche escludendo il concorso di<br />

responsabilità excontrattuale dell’autore della condotta, la responsabilità dell’Azienda Usl per<br />

l’ipotesi di <strong>mobbing</strong>. Ma nel caso in esame manca anche l’oggettività delle tipiche condotte da<br />

<strong>mobbing</strong> o, almeno, elementi riconducibili a tale fattispecie. Come primo elemento è dimostrato<br />

che le sofferenze di ordine psichico e successivamente psichiatrico della Fiscelli non sono<br />

riconducibili al periodo nel quale si manifesterebbe il <strong>mobbing</strong> in tutto il suo potenziale lesivo.<br />

La consulente di ufficio così descrive la situazione: “ la dottoressa Fiscelli è affetta dal 1996<br />

circa da una depressione maggiore di entità medio grave ad espressività prevalentemente<br />

somatoforme, attualmente in fase di precario compenso grazie a terapia farmacologia intensiva.<br />

Tale patologia era presente in forma subclinica dal 1994. Tale depressione è insorta su una<br />

personalità con tratti disfunzionali di carattere prevalentemente narcisistico e paranoie,<br />

caratterizzato da profondi bisogni di riconoscimenti personali”. La consulente non ha rilevato<br />

nesso di casualità tra l’attività lavorativa prestata e la patologia descritta. La critica mossa alla


icordata consulenza è che non ha tenuto conto di periodi successivi al 1996 ma questo giudice,<br />

esaminando tutta la storia lavorativa della Fiscelli, non ha trovato che conferme a tale<br />

situazione descritta dalla consulente di ufficio.<br />

Non ci sono condotte vessatorie in termini oggettivi realizzate dal Giangaspero nei confronti<br />

della Fiscelli che, per altro, subisce tale rapporto in termini di persecuzione. Ma non dobbiamo<br />

dimenticare che la paranoia viene riconosciuta come una sofferenza mentale caratterizzata da<br />

idee deliranti, ad esempio, di persecuzione in personalità per il resto normali. Anche le<br />

caratteristiche narcisistiche della personalità della Fiscelli (sempre e comunque stimata come<br />

ottima professionista dall’ambiente di lavoro, ed in questo senso le testimonianze raccolte sono<br />

univoche) viene messa a dura prova dal cambio di gestione e dall’impostazione del<br />

Giangaspero che sicuramente non la stima sotto il profilo dei risultati quantitativi del proprio<br />

lavoro, ma questo certamente non è <strong>mobbing</strong> o non è da solo un elemento che possa qualificare<br />

così chiaramente un rapporto. L’incompatibilità di carattere di impostazione professionale tra le<br />

due figure in conflitto è assoluto e Giangaspero non ha la capacità di comprendere che con le<br />

sue pretese nei confronti della Fiscelli richiede una profonda opera di riconversione di tipologia<br />

professionale alla stessa nel momento più delicato della sua vita ma anche questo non è<br />

<strong>mobbing</strong> perché la scarsa sensibilità è un limite delle persone, magari anche un difetto, ma non<br />

può collocarsi tra gli indici rivelatori di una volontà mobbizzante. Non dimentichiamo che la<br />

miglior dottrina risalente alla psicologia del lavoro in tema di <strong>mobbing</strong> descrivendo le<br />

caratteristiche imprescindibili del <strong>mobbing</strong> parla del cosiddetto “intento persecutorio” che<br />

indica come il disegno vessatorio coerente e mirato che muove il comportamento lesivo del<br />

mobber. Non c’è modo di vedere, negli atti a disposizione di questo giudice, tale intento<br />

persecutorio del Giangaspero nei confronti della Fiscelli e, di conseguenza, lo stesso a nessun<br />

titolo può essere considerato il mobber della situazione. Se tutto quanto esposto è vero allora<br />

dobbiamo concludere che anche nei confronti dell’azienda USL di Cesena non si rinvengono<br />

quelle caratteristiche riconducibili a responsabilità ex art.2087 c.c., magari sotto il profilo<br />

omissivo dell’aver permesso ad altri di operare in termini mobbizzanti nei confronti di una<br />

propria dipendente, e quindi l’ipotesi contenuta del ricorso non trova neppure sotto questo<br />

profilo una adeguata conferma. Quindi, in conclusione per quanto riguarda tale tema, questo<br />

giudice ritiene che non sussista l’ipotesi di <strong>mobbing</strong> richiamata nel ricorso sia a carico del<br />

Giangaspero che dell’Azienda Usl di Cesena.<br />

Rimane, però, il dato oggettivo che la Fiscelli ha subito una profonda ferita alla propria<br />

professionalità derivante dal conflitto evidente e conclamato con il proprio Primario. Pensiamo<br />

quanto sarebbe potuta crescere una figura di medico così attento e scrupoloso dedito alla ricerca<br />

nella dermopatologia se l’ambiente fosse stato sereno e disteso e che occasioni di crescita e di<br />

riconoscimenti nel lavoro la ricorrente ha perso a causa della situazione che tutti conoscevano e<br />

che nessuno ha risolto. La professionalità si sostanzia in un patrimonio complessivo che un<br />

lavoratore possiede nella propria attività e tanto maggiore si presenta tanto più rilevante è il suo<br />

valore intrinseco e, al tempo, più realistico immaginare una possibile lesione della stessa, se si<br />

pensa, alla Fiscelli considerando la sua anzianità di servizio, la stima generale della quale<br />

godeva e gode, il suo ruolo nel reparto, almeno prima dell’arrivo di Gingaspero, è facile<br />

percepire l’importanza del concetto per la ricorrente e la necessità di salvaguardarla. Ma<br />

sicuramente non poteva pensarci il Primario Giangaspero, chiamato ad affrontare il compito<br />

organizzativo del reparto ed a garantire dei risultati per poter continuare a godere della fiducia<br />

dell’amministrazione dell’Azienda. Inoltre lo stesso, non dimentichiamolo, era coinvolto come<br />

la Fiscelli nello scontro descritto e non è pensabile che non ne abbia risentito in termini<br />

personali in maniera tale da non trovare le necessarie energie per cercare una strada per<br />

superare un contrasto che peggiorava l’ambiente di lavoro. La conclusione del suo rapporto con<br />

l’Azienda Usl di Cesena sembra confermare tale lettura. Da ultimo non era a lui richiesto di<br />

farsi carico dei profili di professionalità della ricorrente non essendoci un obbligo specifico, a<br />

parte il profilo deontologico che in questa sede non può essere valutato, con riguardo alla


Fiscelli se non un generico richiamo all’art.2043 c.c. che sicuramente come visto in precedenza,<br />

non riguarda questa situazione così qualificata. Lo stesso ragionamento non può farsi per<br />

l’Azienda Usl di Cesena. Che vi fosse una situazione di trasparenza dello scontro è dimostrato<br />

dalle missive e dalle dichiarazioni raccolte da questo giudice. L’Azienda ha sempre saputo tutto<br />

riguardo all’estrema difficoltà della situazione nel reparto di anatomia patologica sin dall’arrivo<br />

del Giangaspero come Primario e quando è intervenuta non lo ha fatto in termini costruttivi per<br />

prevenire l’acuirsi del disagio dei propri dipendenti o per risolvere la conflittualità ormai<br />

presente in particolare tra la ricorrente ed il Primario ma solo per giustificare la propria<br />

condotta e per richiamare al rispetto della correttezza formale. Anche gli interventi sindacali<br />

non hanno prodotto effetti positivi e questo nonostante la Fiscelli non abbia mai voluto<br />

accentuare il contrasto con l’amministrazione. Infatti la missiva 26/6/97 della Fiscelli, ricordata<br />

in precedenza, appare significativa della scelta della ricorrente di non cercare lo scontro ma solo<br />

un intervento utile per la sua condizione umana e professionale. Anche il verbale relativo<br />

all’incontro a Bologna tra il Consiglio dell’Ordine dei Medici e la dottoressa Fiscelli in data<br />

26/10/2000 in atti (doc.14 Ausl) è significativo sul punto. Nel verbale si legge che la ricorrente<br />

si è sempre consigliata con la Direzione Generale che l’ha sempre sostenuta. Questo è un<br />

ulteriore elemento che conferma per un verso la mancanza di animosità della Fiscelli nei<br />

confronti dell’Amministrazione e per altro la necessità, non realizzata, per l’Azienda di<br />

prendere delle iniziative utili per il caso concreto in termini di mediazione del conflitto in<br />

essere. Allora veniamo a circoscrivere il campo di interesse di questo giudice e riportiamolo<br />

alla necessità per il datore di lavoro di tutelare la dignità professionale dei propri dipendenti,<br />

secondo l’insegnamento dell’art.2087 c.c. che parla, oltre che di integrità fisica, di personalità<br />

morale del prestatore di lavoro. Il tutto in sintonia con il disposto della nostra Costituzione che<br />

all’articolo 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri<br />

inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, che all’articolo 35 tutela il lavoro in<br />

tutte le sue forme ed applicazioni e cura la formazione e l’elevazione professionale dei<br />

lavoratori, che all’articolo 41 dichiara che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in<br />

modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana e che all’art. 97 richiede<br />

che i pubblici uffici siano organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità<br />

dell’amministrazione.<br />

Nel caso in esame l’Azienda Usl di Cesena ha omesso di tutelare la dignità professionale della<br />

Fiscelli non intervenendo per risolvere la situazione di difficoltà nella quale la stessa si trovava;<br />

l’azienda non ha manifestato forme di solidarietà, se non a parole (vedi missiva Fiscelli<br />

26/6/97), per essere accanto ad una propria dipendente in un momento di difficoltà, non ha<br />

tenuto in alcun conto l’impossibilità della Fiscelli di elevarsi professionalmente in una realtà<br />

conflittuale come quella del suo reparto, pur consapevole delle enormi qualità professionali e<br />

delle potenzialità espansive della stessa; non ha curato adeguatamente la dignità umana della<br />

propria dipendente, e forse neppure del Primario dottor Giangaspero, non impegnandosi nel<br />

cercare di risolvere una situazione penosa e dolorosa per i contendenti; non ha curato il buon<br />

andamento della propria struttura intervenendo sul contrasto tra i propri dipendenti per<br />

risolverlo, ridimensionarlo, porre i due medici in condizione, comunque, di portare il loro<br />

contributo di professionalità all’Azienda invece di contrastarsi a vicenda. Le conseguenze<br />

negative del prolungato scontro tra la Fiscelli e Giangaspero sono ricadute sicuramente sulla<br />

professionalità della Fiscelli ma, nello stesso tempo, anche sul Giangaspero, chiaramente non in<br />

condizioni di svolgere il suo ruolo di Primario con la necessaria serenità, e sulla struttura intera,<br />

che certamente non può non avere risentito negativamente del contrasto evidenziato. Se ne<br />

deduce che un intervento dell’amministrazione tempestivo ed efficace in termini di<br />

superamento della conflittualità si sarebbe collocato in un’ottica di buona amministrazione oltre<br />

che fornire una risposta alle continue richieste di intervento della propria dipendente.<br />

Per questo motivo lo scrivente ritiene che nel caso in esame un danno sia stato arrecato alla<br />

Fiscelli dall’amministrazione con il mancato intervento o in chiave preventiva o quantomeno in


chiave risolutiva del contrasto con il Primario e che l’amministrazione stessa aveva l’obbligo<br />

giuridico di evitare tale situazione ai sensi degli articoli 2087 c.c. e 2,35 e 97 della Costituzione.<br />

Questa costruzione consente il superamento della chiusura imposta dal sistema in termini di<br />

risarcimento danni privi del profilo della patrimonialità.<br />

Procedendo logicamente una volta verificato la sussistenza di un danno risarcibile sotto il<br />

profilo dell’omessa cura della professionalità di un proprio dipendente dobbiamo verificare a<br />

quale tipologia di danno fare riferimento. Escluso il danno patrimoniale e quello morale, inteso<br />

come conseguenza della realizzazione di un reato, dobbiamo fare riferimento ad altre tipologie<br />

di danno.In linea con la recente dottrina e giurisprudenza relativa alla quadripartizione delle<br />

tipologie dei danni, con l’introduzione della categoria del danno esistenziale, insieme alle altre<br />

già codificate ed adeguatamente riconosciute, riteniamo che nel caso di specie non vengano in<br />

considerazione danni riguardanti patologie della Fuscelli, come detto preesistenti quanto meno<br />

in parte allo scontro e comunque non riferibili univocamente allo stesso, e di conseguenza<br />

anche la figura del danno biologico non appare adeguata al caso di specie ed allora proprio al<br />

danno esistenziale dobbiamo fare riferimento.<br />

Si è detto che il danno esistenziale è la categoria che tutela la qualità della vita di un soggetto e,<br />

da questo punto di vista, è lampante come la qualità di vita della Fiscelli durante la prolungata<br />

polemica con il Primario sia stata deteriorata da tale realtà, particolarmente considerando<br />

l’importanza del lavoro nella vita ricorrente. Inoltre la categoria del danno esistenziale tutela<br />

beni immateriali e la professionalità in questo senso è il classico profilo di un lavoratore che,<br />

pur costituendo parte del risultato del suo impegno lavorativo, difficilmente trova adeguato<br />

riconoscimento, conforto, apprezzamento e tutela davanti ad un giudice e di conseguenza<br />

proprio la categoria del danno esistenziale si appalesa come quella idonea a tale scopo.<br />

Il problema principale è trovare criteri di liquidazione dello stesso convincenti e ragionevoli.<br />

Essendo evidentemente la necessità di operare un tipo di liquidazione equitativa, ex art. 1226<br />

c.c., essendo chiara la difficoltà per la ricorrente di dimostrare, oltre la lesione del bene,<br />

professionalità, la gravità di tale lesione seguendo i criteri dell’onere della prova in questa<br />

materia (vedi Corte di cassazione n.10203/2002) si deve cercare il parametro di riferimento per<br />

tale liquidazione. Come primo criterio varrà l’osservazione che trattandosi di una situazione di<br />

tutela originale, se non innovativa, l’aspetto risarcitorio avrà più valore simbolico e di principio<br />

che di vera e propria riparazione economica.<br />

Il secondo criterio sarà rapportare tale risarcimento alla durata del periodo di sofferenza o,<br />

meglio, di compressione delle proprie potenzialità professionali per la valutazione del danno. Il<br />

terzo elemento sarà quello di individuare un parametro di riferimento. Sotto questo profilo il<br />

giudice ritiene di averlo trovato in quanto indicato dalla ricorrente come spesa per un corso di<br />

formazione professionale. Nella missiva 8/2/99 all’Azienda la Fiscelli dichiara di aver speso<br />

personalmente la somma annuale corrispondente al costo di un corso di formazione, proprio per<br />

lo specifico profilo della professionalità che si è ritenuto non protetto, arrivando così alla<br />

somma complessiva di €7,000 possa costituire un criterio di liquidazione del danno in termini<br />

di equità e di ragionevolezza. Si ripete che tale somma non costituisce se non un dato simbolico<br />

di riconoscimento per la ricorrente di quanto sofferto in termini di compressione della propria<br />

professionalità per il contrasto con il Primario che l’amministrazione non si è data cura di<br />

appianare e risolvere ma il riconoscimento di un principio deve trovare le sue affermazioni in<br />

termini non punitivi ma adeguati alle aperture contenute nel discorso giuridico sottostante.<br />

La somma, come detto aggiornata, andrà ulteriormente adeguata con gli interessi legali dalla<br />

sentenza al saldo effettivo.<br />

In considerazione della particolarità delle conclusioni del giudizio stima equo questo giudice,<br />

compensare integralmente le spese del giudizio relativamente alla posizione di Giangaspero.<br />

Con riferimento alle altre parti processuali condanna l’Azienda Usl di Cesena, in persona del<br />

legale rappresentante, al pagamento delle spese di CTU e, previa compensazione di due terzi


(2/3) delle spese di giudizio, condanna l’Azienda Usl al pagamento del rimanente terzo (1/3) a<br />

favore di parte ricorrente che liquida come da dispositivo.<br />

Il Tribunale di Forlì<br />

Quale Giudice del Lavoro<br />

P.Q.M.<br />

Accogliendo parzialmente il ricorso condanna l’azienda U.S.L. di Cesena, in persona del legale<br />

rappresentante al pagamento della somma di € 7.000,= a titolo di risarcimento danni<br />

professionali a favore di Ombretta Fiscelli, oltre agli interessi legali dalla sentenza al saldo<br />

effettivo.<br />

Spese integralmente compensate relativamente alla posizione Giangaspero Felice.<br />

Previa compensazione di due terzi (2/3) delle spese del presente giudizio condanna l’azienda<br />

U.S.L. di Cesena, in persona del legale rappresentante, al pagamento del rimanente terzo (1/3)<br />

delle spese legali di parte ricorrente, liquidando tale frazione in € 3.000,00, di cui € 1.000,00<br />

per competenze, € 2.00,00= per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. oltre 10% spese generali.<br />

Dispone la restituzione atti come da ordinanza 16/10/02<br />

Forlì, 30/1/2003 (dep. 6.2.2003)<br />

IL GIUDICE Dott.Carlo S


Trib. Venezia 15 gennaio 2003 - MARUSSO GIULIO c. CASSA DI RISPARMIO DI<br />

VENEZIA S.P.A.<br />

PER GENTILE CONCESSIONE DI WWW.FIBA.IT<br />

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<br />

Il ricorrente, premesso di avere lavorato alle dipendenze della società convenuta dal 30/6/57<br />

fino al pensionamento del 21/1/90, esponeva che il datore di lavoro prese a tenere<br />

comportamenti persecutori nei suoi confronti a partire dal 10/2/80, allorché egli fu trasferito<br />

come gerente presso l’Agenzia di Annone Veneto e sottoposto al potere direttivo di un<br />

funzionario sig. Berlin - con cui anni prima aveva avuto un grave alterco - il quale pose in<br />

essere atteggiamenti ostili ed ostruzionistici nei suoi confronti fino ad attribuirgli la nota di<br />

qualifica di “sufficiente” per l’anno 1980 a fronte del giudizio “distinto” ottenuto nei tre anni<br />

precedenti. Nel novembre 80 il ricorrente venne ingiustamente trasferito, quale caporeparto, alla<br />

Esattoria di S Donà di Piave, senza il suo consenso e in violazione del CCNL, con un incarico<br />

in progressiva estinzione, completamente diverso dall’attività fino ad allora svolta, avulso dalla<br />

sua preparazione professionale e, per di più, comportante una riduzione della retribuzione. Per<br />

effetto di tale trasferimento il ricorrente cadeva in depressione e si ammalava manifestando i<br />

sintomi delle patologie che sarebbero successivamente divenute permanenti (crisi ipertensiva di<br />

natura emozionale, stato d’ansia con elementi depressivi reattivi). Nel periodo successivo al<br />

trasferimento continuarono i comportamenti persecutori dei superiori e, in particolare, del vicegerente<br />

dell’esattoria, da cui il ricorrente dipendeva, che si lamentava continuamente delle<br />

prestazioni del ricorrente presso la direzione generale e del direttore della filiale di S. Donà di<br />

Piave che giunse a tenere verso il ricorrente atteggiamento ingiurioso cacciandolo in data<br />

22/12/81 con violenza dalla direzione della filiale. In conseguenza di tale episodio il ricorrente<br />

veniva ricoverato per eritrodermia psoriasica con stato depressivo reattivo durato 40 giorni. Per<br />

l’anno 1981 il ricorrente, pur non avendo ricevuto alcun richiamo, ricevette la nota di qualifica<br />

“insufficiente” che gli provocava un’ennesima crisi ipertensiva; la nota veniva poi mutata in<br />

quella di “sufficiente” per non privare il ricorrente del premio di rendimento. Il 10/5/82 il<br />

Marusso veniva nuovamente trasferito presso la filiale di S. Donà di Piave senza indicazione di<br />

mansioni venendo impiegato, con modalità vessatorie, (in piedi, senza sedia né scrivania, per 8<br />

ore al giorno ) quale sportellista senza autorizzazione alla firma di assegni circolari al pari di un<br />

neo assunto e chiamato altresì a svolgere mansioni inadeguate alla sua anzianità quali: mettere<br />

la carta carbone sugli stampati, inserire pratiche in segreteria, fare da dattilografo ad un collega<br />

di grado inferiore per redigere contratti. Lo svolgimento di tali degradanti mansioni portava il<br />

ricorrente ad avere crisi ipertensive e a subire dal 17/10 al 21/11/83 un nuovo ricovero per<br />

eritrodermia psoriasica, di natura nervosa, nonché in data 26/1/84 un ricovero per tachicardia<br />

presso il P.S. dell’ospedale di San Donà.<br />

Nel 1984, a seguito di intervento del sindacato, il ricorrente venne addetto alla gestione mutui<br />

in Segreteria ove continuavano tuttavia le vessazioni quali rimproveri ad alta voce con tono<br />

aspro e senza ammettere repliche davanti a colleghi e clienti della banca, l’uso di matita blu e<br />

rossa per apporre vistose correzioni sugli atti preparati dal ricorrente allo scopo di<br />

ridicolizzarlo, l’affissione al muro di alcuni moduli compilati dal Marusso e contenenti presunti<br />

errori segnati in lapis; detti episodi portarono ad una ulteriore crisi ipertensiva il 27/11/85 con<br />

un primo sintomo di angina pectoris. Le crisi si ripeterono il 21/5/86 e il 2/5/88.<br />

Nel 1988 per il cambiamento dei vertici della filiale ebbero fine i comportamenti vessatori nei<br />

confronti del ricorrente che potè essere destinato dall’ottobre 88 ad un incarico confacente<br />

quale quello di addetto ai riesami; tuttavia il lungo periodo di stress e tensione psico-fisica


comportò l’insorgere di una cardiopatia ischemica culminata con operazione di by-pass<br />

effettuata nel 1995 associata a psoriasi e a problemi psichici.<br />

In relazione alle vicende esposte il sig. Marusso lamentava di avere subito un danno<br />

patrimoniale per la subita dequalificazione operata in suo danno con il trasferimento dal settore<br />

credito al settore esattoria di lire 7.889.080 quale differenza retributiva per l’anno 1981 poi<br />

ripercossasi nei 9 anni di lavoro successivi con un danno complessivo di L. 71.001.720.<br />

Lamentava inoltre la cristallizzazione dal 1980 in poi della propria carriera in quanto, in<br />

assenza delle evidenziate condotte persecutorie, con alta probabilità egli poteva diventare<br />

funzionario sin dal 1981 con incremento retributivo non inferiore a L. 10 milioni l’anno per un<br />

danno complessivo di L. 264.000.000 oltre alle ripercussioni sul TFR e sul trattamento<br />

pensionistico.<br />

Chiedeva ancora il risarcimento dei danni subiti ai sensi dell’art. 2087 c.c. a causa dei<br />

comportamenti attivi dei singoli autori delle prescrizioni vessatorie nonché delle omissioni<br />

colpevoli dell’Istituto, sin dall’inizio al corrente delle vicende personali del ricorrente. Allegava<br />

di avere subito un danno biologico, derivante dall’insorgere di una grave forma di ipertensione<br />

con problemi cardiaci, di una grave depressione e di una grave forma di psoriasi, danno che<br />

quantificava in complessive L. 240.000.000.<br />

Si costituiva ritualmente la società convenuta eccependo la prescrizione delle domande attoree e<br />

contestando la ricostruzione dei fatti compiuta dal ricorrente nonché la fondatezza delle<br />

domande. Rilevava in particolare la intervenuta prescrizione del risarcimento danni da<br />

demansionamento, che si sarebbe verificato nel 1980 con il trasferimento del Marusso al<br />

servizio esattoria ovvero nel 1982 con il suo trasferimento presso la filiale di San Donà di Piave<br />

con ampio decorso del termine sia quinquennale che decennale, non soggetto a sospensione per<br />

effetto della tutela reale del rapporto di lavoro del ricorrente né ad interruzione ad opera delle<br />

lettere inviate dal ricorrente in quanto sprovviste dei connotati minimi necessari alla loro<br />

efficacia interruttiva. Anche la domanda di risarcimento del danno biologico era prescritta<br />

essendo il comportamento denunciato dal ricorrente iniziato 18 anni prima della proposizione<br />

della domanda e cessato 10 anni prima della notifica del ricorso medesimo.<br />

Eseguita CTU per accertare il momento di insorgenza delle malattie lamentate dal ricorrente, la<br />

causa veniva decisa con sentenza non definitiva del 15/2/2001 in ordine alla questione<br />

preliminare di prescrizione accertandosi la intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento<br />

del danno per la asserita illegittima dequalificazione relativa al periodo anteriore al 15/7/88; la<br />

intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno per perdita di chanches relativo al<br />

periodo anteriore al 15/7/88; la intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno<br />

biologico derivante da angina pectoris e dalle altre manifestazioni ischemiche cardiache di<br />

origine professionale.<br />

La causa proseguiva con l’assunzione delle prove testimoniali chieste dalle parti limitatamente<br />

alle circostanze di fatto ancora rilevanti e, autorizzato il deposito di note conclusive, veniva<br />

decisa in via non definitiva come da dispositivo letto alla udienza del 15/1/2003.<br />

MOTIVI DELLA DECISIONE<br />

Come è ormai noto, il termine <strong>mobbing</strong>, impiegato per designare una forma di terrore<br />

psicologico realizzata sui luoghi di lavoro, nei confronti di uno o più lavoratori, da parte dei<br />

colleghi o dei superiori, deriva dal verbo to mob (affollarsi intorno a qualcuno, assalire<br />

tumultuando).<br />

Una definizione completa del fenomeno è rinvenibile nel disegno di legge a firma del senatore<br />

Tapparo e da altri, titolato «tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni<br />

psicologiche nell'ambito dell'attività lavorativa» comunicato alla presidenza il 13 ottobre 1999,<br />

che così lo delinea: «Ai fini della presente legge vengono considerate violenze morali e<br />

persecuzioni psicologiche, nell'ambito dell'attività lavorativa, quelle azioni che mirano


esplicitamente a danneggiare una lavoratrice o un lavoratore. Gli atti vessatori, persecutori, le<br />

critiche e i maltrattamenti verbali esasperati, le molestie sessuali, l'offesa alla dignità, la<br />

delegittimazione di immagine, anche di fronte a soggetti esterni all'impresa, ente o<br />

amministrazione (clienti, fornitori, consulenti), comunque attuati da superiori, pari grado,<br />

inferiori e datori di lavoro». Queste condotte, per integrare la nozione di <strong>mobbing</strong>, «devono<br />

mirare a discriminare, screditare o, comunque, danneggiare il lavoratore nella propria carriera,<br />

status, potere formale e informale, grado di influenza sugli altri, rimozione da incarichi,<br />

esclusione o immotivata marginalizzazione dalla normale comunicazione aziendale, sottostima<br />

sistematica dei risultati, attribuzione di compiti molto al di sopra delle possibilità professionali<br />

o della condizione fisica o di salute».<br />

Il citato è solo un progetto di legge ma la giurisprudenza si è comunque sforzata di considerare<br />

il fenomeno da tempo studiato dalla psicologia del lavoro e di individuare gli strumenti<br />

giuridici, tra quelli esistenti, attualmente utilizzabili al fine di contrastarlo. Così in Cass.<br />

7768/95 si sostiene che l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. “non è<br />

limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma — come si evince da una<br />

interpretazione della norma in aderenza a principî costituzionali e comunitari — implica anche<br />

il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità psico-fisica dei dipendenti, qualunque<br />

ne siano la natura e l'oggetto” mentre Cass 143/00 afferma che “qualora da un siffatto<br />

comportamento (lesivo della integrità psicofisica ) derivi un pregiudizio per il lavoratore,<br />

implicante la lesione del bene primario della salute o integrante quel tipo di nocumento che<br />

dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la responsabilità del<br />

datore di lavoro purché sia accertata l'esistenza di un nesso causale fra il suddetto<br />

comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio che ne deriva.” Più puntualmente in Trib<br />

Torino 11/12/99 viene qualificato come fatto notorio che “ nelle aziende accade qualcosa di<br />

simile al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un<br />

membro del gruppo per allontanarlo, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da<br />

parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette<br />

ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di<br />

intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e<br />

la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.”;<br />

dalla sussistenza di condotte antigiuridiche imputabili a fatto e colpa del datore di lavoro e<br />

produttive di danni, si fa discendere l’obbligo risarcitorio.<br />

Tra le più recenti pronunce, Tribunale Forlì 15/3/01 ha con maggiore compiutezza definito il<br />

fenomeno “<strong>mobbing</strong>” - richiamando i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro - come quel<br />

“comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della<br />

vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale<br />

comportamento in un certo arco di tempo subisce delle conseguenze negative anche di ordine<br />

fisico da tale situazione” per farne derivare la responsabilità del datore di lavoro derivante<br />

dall’obbligo posto a suo carico dall’art. 2087 c.c. di tutelare il dipendente in un ottica<br />

complessiva di tutela psicofisica; sostanzialmente nello stesso senso altra giurisprudenza<br />

evidenzia come la necessità della protezione della dignità umana nel sistema giuslavoristico<br />

discenda oltre che dal generale dovere posto a carico dell’imprenditore di adottare le misure<br />

idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità del lavoratore (art. 2087 ) anche dalle regole<br />

di civiltà contenute nella Costituzione che “valorizza i criteri di solidarietà (art. 2), di tutela del<br />

lavoro (art. 4) , di eguaglianza sostanziale(art. 3, 2° comma), di tutela in favore di soggetti<br />

debolissimi (art. 37), per prevedere, infine, in una disposizione che riguarda l’esercizio<br />

dell’impresa (art. 41), il limite attinente l’utile sociale ed il rispetto della dignità umana.” (Trib<br />

Pisa 10/4/2002 )<br />

Il giudicante ritiene, aderendo al riportato orientamento giurisprudenziale, che il fenomeno<br />

<strong>mobbing</strong> vada definito come in Trib. Forlì citata e che all’accertamento della sussistenza di un


comportamento mobbizzante consegua la responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art.<br />

2087 c.c. e l’obbligo di risarcire tutti i danni provocati alla sfera psico-fisica del dipendente.<br />

Il dr. Marusso ha denunciato i comportamenti tenuti da Ca.Ri.Ve., come indicati in ricorso, nel<br />

periodo 1980/1988 definendoli come vessatori e ha chiesto il risarcimento dei danni da<br />

dequalificazione, da perdita di chances e biologico.<br />

La prima questione posta dalla società convenuta è quella della prescrizione del diritto azionato,<br />

questione che è stata risolta con la sentenza non definitiva 15/2/01 che ha dichiarato prescritti<br />

fino al 15/7/88 i singoli diritti risarcitori azionati. Con le note conclusive la difesa del ricorrente<br />

ha chiesto di rivedere la decisione adottata con la sentenza nr. 120/01 di questo Tribunale. Al<br />

riguardo va detto che il giudicante, oltre a non ritenere modificabile il decisum della citata<br />

sentenza che potrebbe essere riformato solo dal giudice di appello, ritiene peraltro condivisibile<br />

la statuizione posto che, anche considerando unitariamente il comportamento mobbizzante della<br />

convenuta – quale illecito contrattuale permanente – e unitariamente la domanda di<br />

risarcimento dei danni conseguenti a quel comportamento, dovrebbe comunque ribadirsi la<br />

intervenuta prescrizione essendo l’illecito generatore del danno (e il danno medesimo )<br />

compiuto e concluso (come si dirà ) in periodo antecedente il decennio precedente la notifica<br />

del ricorso introduttivo. Anche con riferimento al danno da lesione personale il dies a quo di<br />

decorrenza della prescrizione si identifica con quello in cui la condotta illecita ha inciso nella<br />

sfera giuridica del danneggiato “salvo che non si manifestino nuove lesioni che costituiscano<br />

un’entità nuova e autonoma rispetto al danno manifestatosi in concomitanza con l’esaurimento<br />

dell’azione antigiuridica e si siano esteriorizzate in un momento successivo “ (cfr.<br />

Cass.7937/00, 5327/99 tra le tante).<br />

Quanto alla fine del comportamento illecito, come si dirà meglio nel prosieguo, il ricorrente pur<br />

affermando che le vessazioni sono cessate nell’ottobre 1988 in realtà omette di allegare fatti o<br />

comportamenti mobbizzanti compiuti in suo danno dopo il 1986 con la conseguenza, per quanto<br />

ora detto, che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni (patrimoniale,<br />

professionale, da perdita di chances , esistenziale) conseguenti a quei comportamenti ha<br />

cominciato a decorrere dal 1986 ed è scaduto nel 1996 ad eccezione del danno biologico<br />

derivante dalla malattia (angina e altre manifestazioni ischemiche ) diagnosticata solo nel 1989.<br />

L’allegazione della sussistenza di un siffatto danno biologico per le malattie insorte in periodo<br />

non prescritto e originate dal <strong>mobbing</strong> comporta la necessità di esaminare e valutare il<br />

comportamento vessatorio denunciato.<br />

I FATTI<br />

1 - Risulta provato dalla istruttoria svolta che il dr. Marusso venne sottoposto, a partire dalla sua<br />

assegnazione all’agenzia di Annone Veneto quale gerente avvenuta il 10/2/80, a vessazioni,<br />

umiliazioni e angherie da parte dei suoi superiori: assegnato all’agenzia di Annone Veneto dopo<br />

avere operato, sempre quale gerente, presso l’agenzia di Noventa di Piave ed avere conseguito<br />

le note di qualifica di “distinto” nei tre anni precedenti il ricorrente trova come suo diretto<br />

superiore il dr. Berlin (direttore della Filiale di Portogruaro) “con il quale vi erano attriti<br />

sicuramente derivanti dal carattere delle due persone” (cfr. teste Cecconi ); il primo<br />

comportamento del suo nuovo superiore è di non accordare al Marusso l’autorizzazione a<br />

concedere fidi con ciò privandolo senza alcuna ragione né apparente né reale a) di un potere<br />

normalmente proprio di tutti i gerenti (cfr teste Cecconi ), b) di uno strumento necessario alla<br />

acquisizione e allo sviluppo della clientela (che è compito precipuo del gerente) e, di<br />

conseguenza, privandolo di uno dei mezzi di esplicazione della propria professionalità. Il teste<br />

Cecconi riferisce di ritenere che “se il ricorrente a settembre 1980 non aveva ancora avuto la<br />

facoltà di fido era perché il giudizio del suo superiore era negativo.” Dove potesse appuntarsi<br />

tale giudizio negativo proprio non è dato comprendere posto che per il 1979 il giudizio fu<br />

“distinto” e lo stesso Berlin propose per le note di qualifica relative al 1980 il giudizio di<br />

“buono” evidenziando come lati positivi la voglia di emergere e la predisposizione a trattare<br />

con il pubblico ed inoltre una normale capacità professionale e preparazione del ricorrente, una


normale quantità di lavoro svolto, una normale capacità di decisione e di giudizio, senso<br />

economico e senso del rischio; il Berlin giudica, come lati negativi, la verbosità, il modo di<br />

trattare i collaboratori, la superficialità e il disordine. Non pare che gli aspetti negativi<br />

evidenziati dal Direttore di Filiale potessero avere valenza decisiva al fine dell’autorizzazione<br />

alla concessione di fidi anche in considerazione della valutazione positiva in ordine a<br />

“preparazione e capacità professionale “ che si legge nella scheda di valutazione. Né è da<br />

sottovalutare, ai fini della considerazione dell’atteggiamento assunto dal datore di lavoro nei<br />

confronti del ricorrente, la circostanza che, nonostante la proposta del Berlin (diretto superiore<br />

del Marusso ), il giudizio poi assegnato sia stato solo “sufficiente” – con quali argomentazioni<br />

non è dato sapere.<br />

La difesa di Carive ha evidenziato che il 15/4/80 al Marusso venne contestato di avere concesso<br />

un finanziamento a tale sig. Mozzato Francesco con la fideiussione della sorella del medesimo<br />

ricorrente; è peraltro vero che a seguito delle giustificazioni fornite dal dipendente, Carive non<br />

ritenne di sanzionare il comportamento contestato evidentemente ritenendole esaustive. E al<br />

riguardo è rilevante sottolineare che tali giustificazioni riguardano l’aver ottenuto<br />

l’autorizzazione del vice direttore di filiale per il finanziamento garantito dalla sorella del<br />

ricorrente e che il rag. Saro ha confermato di avere autorizzato il finanziamento (cfr. lettera<br />

29/4/80 ).<br />

La convenuta si difende ancora affermando che presso l’agenzia di Annone e successivamente<br />

il dr. Marusso fu costantemente irrispettoso dell’orario di lavoro e disordinato nello<br />

svolgimento del suo lavoro; ma non si vede proprio come un tale comportamento possa influire<br />

sulla decisione di accordare o negare l’autorizzazione alla concessione dei fidi – e non piuttosto<br />

sul potere disciplinare datoriale - tanto più che almeno dei ritardi non si parla nelle note di<br />

qualifica.<br />

Sta di fatto che Carive decide di trasferire il ricorrente e assegnarlo dal 19/11/80 al reparto<br />

Esattoria presso l’agenzia A di San Donà di Piave.<br />

2 - In ordine a questo trasferimento (che costituisce il secondo atto di <strong>mobbing</strong> nella allegazione<br />

attorea ) il ricorrente ne afferma la illegittimità perché il provvedimento fu adottato in<br />

difformità con le previsioni contrattuali e perché gli fu imposta una dequalificazione mediante<br />

assegnazione a mansioni di ripiego non corrispondenti alla professionalità acquisita.<br />

Il trasferimento da Annone a San Donà è stato sicuramente deciso (per quanto emerge dalla<br />

istruttoria ) in contrasto, anche se per ragioni diverse da quelle allegate in ricorso,con le<br />

previsioni di cui all’art. 83 delCCNL 1980 il cui 1° comma dispone che “Il trasferimento del<br />

lavoratore ad una unità produttiva situata in comune diverso può essere disposto dall’Istituto<br />

solo per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive.” Carive nulla ha mai dedotto<br />

in ordine alla sussistenza delle previste esigenze tecniche organizzative e produttive se non il<br />

non aver il Marusso dato buona prova di sé e, come si è visto, tale giudizio pare quanto meno<br />

sproporzionato rispetto ai fatti risultanti in causa.<br />

Così l’assegnazione al reparto Esattoria ha avuto una valenza “punitiva” e squalificante:<br />

secondo il teste Cecconi “se un gerente di agenzia viene trasferito al servizio esattoria questo<br />

dipende da un giudizio negativo sul suo operato. Il (l’attività del, n.d.r.) capo reparto del<br />

servizio esattoria è attività qualitativamente inferiore a quella di gerente di un’agenzia. Il<br />

passaggio dai servizi creditizi a quelli esattoriali e viceversa avveniva in positivo quando si<br />

voleva valorizzare un dipendente addetto alla esattoria e viceversa in negativo quando un<br />

dipendente del settore credito era valutato negativamente.” Sostanzialmente negli stessi termini<br />

si è espresso anche il teste Scantamburlo il quale riferisce “ è di mia conoscenza che in Carive<br />

passare dal credito all’esattoria è considerato squalificante di norma”. Anche il rag. Trevisiol<br />

(allora Direttore della Filiale di San Donà di Piave ) annota nelle note di qualifica 1982 che le<br />

mansioni assegnate al ricorrente sono “mansioni di ripiego”.<br />

Della valutazione negativa dell’operato del Marusso (che dovrebbe giustificare la<br />

squalificazione operata in suo danno dalla convenuta ) si è già detto. I presupposti di tale


giudizio negativo emersi in corso di processo riguardano i continui ritardi e il disordine del<br />

Marusso: ma, a tutto riconoscere, non si capisce perché punire un dipendente per il mancato<br />

rispetto dell’orario di lavoro squalificandolo professionalmente e non invece ricorrendo al<br />

potere disciplinare. L’unica spiegazione plausibile è che il trasferimento dall’agenzia di Annone<br />

ai servizi esattoriali dell’agenzia di San Donà non è stata una conseguenza reattiva dell’operato<br />

negativo del dipendente ma esplicazione di una volontà vessatoria diretta a screditare<br />

professionalmente, umiliare nell’ambiente di lavoro il ricorrente che il Berlin aveva definito<br />

“soggetto che ha una considerazione di sé al di là di ogni ragionevole limite” (cfr. note qualifica<br />

1980 ). Del resto gli studiosi del fenomeno <strong>mobbing</strong> hanno evidenziato come molto spesso le<br />

vittime non sono soltanto soggetti deboli ma lavoratori dotati di forte personalità o<br />

particolarmente zelanti.<br />

Va ancora detto che è incontestabile che la funzione di capo reparto dell’Esattoria è<br />

contrattualmente inquadrata nel grado IV/1°, proprio del ricorrente, posto che sia le funzioni di<br />

gerente di agenzia di 2° categoria (quale era Annone Veneto all’epoca dei fatti di causa ) sia il<br />

capo reparto dei servizi esattoriali delle Filiali e agenzia A sono inquadrati dal CIA 81 nel grado<br />

IV/1°; tuttavia è altresì incontestabile che l’assegnazione di mansioni che, pur inquadrate nella<br />

stessa categoria o area professionale e stipendiale, assolutamente siano incongrue rispetto alla<br />

specifica professionalità acquisita dal dipendente (il Marusso operava da lungo tempo nel<br />

settore creditizio ) costituisce una dequalificazione sia sotto il profilo di un impoverimento della<br />

professionalità acquisita dal ricorrente in anni di servizio nel settore credito, sia sotto il profilo<br />

della impossibilità di ulteriormente arricchire quella professionalità già acquisita, sia sotto il<br />

profilo della immagine professionale del dipendente nel suo specifico ambiente di lavoro (cfr.<br />

ex plurimis Cass.11457/00, 10284/00).<br />

Al servizio esattoria il Marusso rimane per circa un anno e mezzo durante il quale l’intento<br />

vessatorio del datore di lavoro (per il tramite dei suoi dirigenti ) continua a manifestarsi nel<br />

continuo controllo cui il ricorrente è sottoposto: ciò riferisce il teste Zuin che dichiara “ quando<br />

Marusso arrivò a San Donà il Pasinato (gerente dell’agenzia A ) spesso riferiva al direttore di<br />

Filiale Trevisiol sul comportamento del Marusso. Presumo che ciò sia avvenuto perché la<br />

Direzione voleva sapere come stava andando il ricorrente dato che era nuovo del servizio.<br />

Sicuramente sono stato io stesso richiesto da Trevisiol a nome di De Vivo (allora capo del<br />

personale) di monitorare il comportamento di Marusso e ciò ho fatto inviando informative<br />

scritte almeno tre volte”. Del resto che Marusso fosse un sorvegliato speciale risulta dalle note<br />

contenute nel fascicolo personale del ricorrente ove si rinvengono note di evidente risposta a<br />

richieste di sorveglianza. Tutto questo controllare da più parti un dipendente che fino a quel<br />

momento, sul piano operativo strettamente professionale, non aveva dato luogo a richiami o<br />

negligenze non pare rientri nel legittimo esercizio del potere datoriale di controllo tanto più che,<br />

quando Marusso lasciò i servizi esattoriali, “tutto era in ordine” riguardo alla gestione del<br />

servizio (cfr. teste Zuin ), segno che, professionalmente e contrariamente a quanto riferito dal<br />

teste Trevisiol, il ricorrente meritava una fiducia che i suoi superiori gerarchici non volevano<br />

accordargli verosimilmente a causa di quel caratteraccio cui ha fatto indiretto cenno il teste<br />

Cecconi. I testi Trevisiol, Zuin, Pasinato e Scantamburlo ribadiscono ancora i ritardi addebitati<br />

al Marusso durante il periodo di servizio in esattoria a giustificazione della necessità di tenere<br />

sotto controllo il ricorrente ma parte di essi riferisce anche che il ricorrente all’epoca soffriva di<br />

quella eritrodermia psoriasica denunciata in ricorso come conseguenza dei comportamenti<br />

vessatori del datore di lavoro. E’ quindi da chiedersi (in realtà lo afferma il teste Scantamburlo )<br />

se non fossero piuttosto i ritardi una reazione (non corretta ma comprensibile ) allo stato di<br />

tensione, squalificazione e sfiducia nel quale il dipendente era da tempo costretto ad operare a<br />

causa dei fatti sin qui esaminati, fermo restando quanto già supra rilevato ovvero che la corretta<br />

risposta ad eventuali mancanze o inadempimenti del dipendente è costituita dal procedimento<br />

disciplinare con tutte le sue garanzie mentre non risponde ai principi di buona fede e<br />

correttezza, cui si devono attenere le parti nella esecuzione del rapporto di lavoro, l’esercizio di


un controllo continuo e pressante anche avuto riguardo all’inquadramento del lavoratore nel<br />

massimo grado impiegatizio.<br />

3 - Nel maggio 1982 il ricorrente torna finalmente nel settore credito e viene assegnato alla<br />

Filiale di San Donà con provvedimento privo della indicazione delle mansioni assegnate e<br />

inizialmente adibito a compiti di addetto allo sportello con modalità ancora una volta<br />

dequalificanti (questa volta anche con riferimento alle declaratorie professionali del CIA ) e<br />

umilianti: egli emetteva assegni circolari senza potere di firma, apponeva la carta carbone sugli<br />

stampati nonostante si trattasse di compito normalmente assegnato ai commessi e nonostante la<br />

presenza di due commessi in quella Filiale (cfr. teste Fusco), effettuava il pagamento effetti<br />

nonostante si trattasse di mansione normalmente svolta dai neo assunti (cfr. teste Marzola ).<br />

Tali mansioni sono ascrivibili al massimo al IV grado del CIA 1981 al quale appartengono gli<br />

impiegati che svolgono servizio cassa in ausilio al cassiere titolare presso le Sedi e Filiali.<br />

Il periodo durante il quale il Marusso venne assegnato a compiti di sportelleria è determinabile<br />

in oltre un anno sulla base alle note di qualifica del 1983 ove si legge che nell’ultima parte<br />

dell’anno 83 il Marusso fu impiegato in segreteria fidi “ove svolge semplici lavori di corredo”.<br />

E’ dunque la stessa convenuta che riconosce il sottoutilizzo del dipendente!<br />

4 - A partire dalla fine del 1983 il ricorrente passa alla segreteria fidi e ad un certo punto è<br />

addetto alle pratiche di mutuo delle quali si occupava dall’inizio alla fine ma era privo della<br />

procura alla firma del contratto che invece avevano colleghi di grado inferiore (cfr. Correr); la<br />

negazione della procura, di per sé fatto giuridicamente neutro, costituisce nel complesso della<br />

vicenda un ulteriore atto di compressione della personalità del ricorrente e della sua voglia di<br />

emergere nonché del suo prestigio nell’ambito lavorativo costringendolo a curare una pratica<br />

con l’esclusione del momento finale ed esterno. Ancora, in questo periodo si innesta la vicenda<br />

che ha dato luogo alla sentenza 267/87 a definizione del ricorso proposto dal Marusso per<br />

l’accertamento della illegittimità di una sanzione disciplinare inflittagli. Nella sentenza citata si<br />

legge “il Fiozzo (capoufficio ) aveva assunto atteggiamenti arroganti e di scherno nei confronti<br />

del convenuto (Marusso) – valga per tutti l’episodio della affissione sui muri dell’ufficio di<br />

alcuni moduli erroneamente compilati dal Marusso – e si capisce come l’ulteriore ingiustificato<br />

rimprovero, alla luce dei pregressi atteggiamenti arroganti e provocatori del Fiozzo, abbia<br />

innescato la reazione, censurabile nelle sue modalità, del Marusso “. Perdurano, quindi, anche<br />

in questo periodo atteggiamenti umilianti,provocatori, aggressivi di superiori e colleghi del<br />

ricorrente inquadrabili in quella logica con cui operano quelle specie animali, solite circondare<br />

minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo di cui si legge in Trib. Torino citata.<br />

5 - Nel 1987 si pongono le premesse per un miglioramento della situazione del ricorrente che,<br />

rimanendo alla segreteria fidi, viene addetto alla istruttoria di fidi particolari e poi ai riesami dei<br />

fidi della Filiale di San Donà (cfr. note qualifica 1987 e seguenti nonché dichiarazione Marusso<br />

resa alla udienza 15/1/03 ). Da questo momento – è anche da pensare che la sentenza 267/87 vi<br />

abbia influito – cessano i comportamenti vessatori in danno del ricorrente il quale viene adibito<br />

a mansioni di suo gradimento come riconosce egli stesso e come testimonia Del Turco. Il<br />

ricorrente sostiene che tali ultime mansioni, pur di suo gradimento, non erano però consone al<br />

suo grado. Questa è solo un’affermazione priva di riscontro e di fondamento atteso che, in<br />

mancanza di ulteriori allegazioni in fatto e in diritto (inesistenti in ricorso e nelle memorie<br />

successive ), la posizione del ricorrente sembra ricollegabile al mancato svolgimento di<br />

funzioni di capo ufficio o capo reparto sulla scorta dell’inserimento di queste sole funzioni nel<br />

grado IV/1° da parte del CIA senza considerare che l’art. 16 del CIA 81 (la cui vigenza negli<br />

anni successivi al 1987 non è peraltro dimostrata in causa ) determina i posti in organico di<br />

capo ufficio e capo reparto ed attribuisce il grado ai dipendenti preposti ai singoli uffici o<br />

reparti ma certamente non esclude che il grado IV/1° sia attribuibile anche a mansioni, di<br />

contenuto professionale equivalente, diverse da quelle di capo ufficio o capo reparto.<br />

In conclusione l’accertamento dei fatti come emersi in istruttoria conduce ad accertare che il<br />

comportamento adottato dalla convenuta nei confronti del ricorrente può essere qualificato


come <strong>mobbing</strong> in relazione alla durata del fenomeno e alla pluralità di atti e provvedimenti<br />

tendenti ad indurre nel destinatario situazioni di disagio, difficoltà, disistima verso se stesso<br />

quali sono stati la privazione di poteri normalmente conferiti alla posizione professionale,il<br />

trasferimento “punitivo” e la squalificazione professionale, la vigilanza eccessiva, il<br />

demansionamento, gli atteggiamenti umilianti.<br />

Il fenomeno è cessato con il 1986; da questa data, dunque, il Marusso poteva far valere (con<br />

inizio della decorrenza della prescrizione ex art 2935 c.c. ) il diritto al risarcimento dei danni<br />

conseguenti a quel comportamento illecito e immediatamente prodottisi nella sua sfera giuridica<br />

in termini di danno patrimoniale, di lesione della sua personalità morale, di danno biologico per<br />

le malattie verificatasi,di perdita di chances: in ordine a tale ultimo profilo di danno val la pena<br />

rilevare come il ricorrente si sia limitato ad affermare la lesione alla progressione in carriera<br />

verso la qualifica di funzionario derivante dall’illegittimo demansionamento subito nel 1980<br />

(trasferimento ai servizi esattoriali di San Donà ), senza peraltro allegare alcun dato o<br />

circostanza dalla quale desumere, nè in termini di alta probabilità né in termini di tempo, che<br />

egli avrebbe avuto effettive o molto probabili possibilità di divenire funzionario. Di<br />

conseguenza non è possibile stabilire se il danno ci sia stato – e, vertendosi in ambito di<br />

responsabilità contrattuale sussiste l’onere del lavoratore di dimostrare il nesso di causalità tra<br />

l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro. Solo per il danno biologico da malattia<br />

nuova insorta in un momento successivo al termine del comportamento illecito, come già detto,<br />

il termine di prescrizione decorre dal verificarsi dell’evento lesivo e, pertanto, richiamata la<br />

CTU già eseguita, deve accertarsi il diritto del ricorrente al risarcimento del danno biologico<br />

conseguente alla angina pectoris e alle altre manifestazioni ischemiche diagnosticate nel 1989 a<br />

condizione che, nel prosieguo di istruttoria, ne sia dimostrato il nesso eziologico con i<br />

comportamenti mobbizzanti esaminati.<br />

Spese al definitivo.<br />

Dispone separatamente per il prosieguo di istruttoria.<br />

P.Q.M<br />

Il Giudice, non definitivamente pronunciando, cosi' provvede:<br />

Accertata la illegittimità dei comportamenti di cui in motivazione, tenuti dalla società<br />

convenuta nei confronti del ricorrente fino al 1985, per l’effetto la condanna a risarcire al<br />

ricorrente il danno biologico conseguente alle patologie “angina pectoris” e “altre<br />

manifestazioni ischemiche cardiache manifestatesi successivamente al 15/7/88 ove ne sia<br />

dimostrata l’origine professionale.<br />

Dispone separatamente per il prosieguo.

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