Guerrilla gardeners tra gli scarti urbani - L'odore dei pomeriggi

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05.06.2013 Views

notizia è che ho vinto il concorso per un parco pubblico a Milano all'interno di un progetto più ampio di architettura sociale (case popolari). Già ho paura di quando mi chiederanno di scendere a compromessi con un'amministrazione che non riesce ad arrivare a contatto con il lato sensoriale del paesaggio. Quando ti trovi a fare un progetto di un parco pubblico quasi mai riesci a rivolgerti alle persone e alla natura, il tuo committente è una figura astratta incapace di sentire gli odori, anosmica, solo in grado di accettare ciò che è schematizzato e preconfezionato. Gli alberi per i viali si piantano a x metri di distanza, le siepi possono essere alte al massimo x centimetri. Le graminacee danno allegria, l'ambrosia è la nuova peste. Robinie e ailanti sono da tagliare a priori. Solo piante da vivaio. Solo piante dritte. Solo piante autoctone. Che follie! Non vorrei sentirmi costretto a fare per forza un parco attrezzato con l'area giochi per i bambini, il recinto per cani, le panchine per anziani. Ingabbiamenti inutili. Se i vandali spaccano e i “giardinieri” non hanno cura, forse vuol dire che un motivo c'è, forse hanno un pochino di ragione anche loro. Io credo che le persone vadano coinvolte e responsabilizzate nei progetti di paesaggio, ci vuole così tanto tempo per innescare la genesi di un giardino, che se non si chiede la collaborazione di tutti non si riuscirà mai a cambiare qualcosa.” (Pera, Perazzi, 2007, pg. 61-62) Questo brano, ad opera di un botanico e paesaggista, ci aiuta a scavare in profondità, scalfendo la superficie piana dei tappeti di graminacee. Molti parchi si somigliano tra di loro, pur essendo opera di architetti, geometri e paesaggisti diversi, perché i progetti devono rientrare di una rete di vincoli di tipo burocratico. Con questa epistola Perazzi ci fa capire che dovrà scendere a compromessi e che difficilmente riuscirà a realizzare il parco che ha in mente. Possiamo allora immaginare che i parchi vicentini più recenti siano quello che sono per una serie di ragioni, in particolar modo a causa di alcune regole routinizzate ed istituzionalizzate 2 relative all'uso delle 2 “Nei termini dei significati attribuiti dall'uomo alla propria attività, l'abitualizzazione elimina la necessità di ridefinire da zero ogni situazione, volta per volta. [...] Questi processi di consuetudinarietà precedono ogni istituzionalizzazione. [...] L'istituzionalizzazione ha luogo dovunque vi sia una tipizzazione reciproca di azioni consuetudinarie da parte di gruppi esecutori: 70 70

cosiddette “aree verdi”. La burocrazia dice che “gli alberi per i viali si piantano ad x metri di distanza”; le pratiche sedimentate prevedono che i parchi abbiano “l'area giochi per i bambini, il recinto per i cani, le panchine per gli anziani”. Se i parchi realizzati negli ultimi decenni si somigliano è forse perché è stato definito un modello, che discende da dettami burocratizzati (Weber, 1922) che a loro volta sono stati costruiti socialmente. Questo modello è oggettivato; pur essendo frutto di un'opera di creazione umana, si è staccato dalle persone e ora retroagisce su di esse. Vedendo un'area con qualche albero, una distesa di erba, delle panchine e una recinzione tutto attorno, sorge allora spontanea la parola parco. 7.1. Il caso del quartiere di San Giuseppe Ma in che senso possiamo parlare di retroazione? Ad esempio, pensiamo a chi disegna spazi di professione e vuole vincere un concorso pubblico. Probabilmente questa persona, se non gode già di una certa reputazione, come nel caso di Antonio Perazzi, sarà portata ad adeguarsi ad un'idea sedimentata e ampiamente diffusa di “parco” nel contesto in cui questo spazio sarà poi realizzato. Inoltre potremmo pensare che il soggetto in questione abbia imparato all'università a progettare degli spazi e che quindi abbia appreso delle regole ampiamente diffuse all'interno della sua categoria professionale. Enrica, la ragazza che mi ha descritto l'aspetto del nostro quartiere prima che il parco di San Giuseppe e quello delle Fornaci fossero realizzati, mi ha parlato del primo con una punta di fastidio, sottolineandone anche in in altri termini, ogni simile tipizzazione è un'istituzione.” (Berger e Luckmann, 1966, pg. 83) 71 71

cosiddette “aree verdi”. La burocrazia dice che “<strong>gli</strong> alberi per i viali si<br />

piantano ad x metri di distanza”; le pratiche sedimentate prevedono che i<br />

parchi abbiano “l'area giochi per i bambini, il recinto per i cani, le panchine<br />

per <strong>gli</strong> anziani”.<br />

Se i parchi realizzati ne<strong>gli</strong> ultimi decenni si somi<strong>gli</strong>ano è forse perché<br />

è stato definito un modello, che discende da dettami burocratizzati (Weber,<br />

1922) che a loro volta sono stati costruiti socialmente. Questo modello è<br />

oggettivato; pur essendo frutto di un'opera di creazione umana, si è staccato<br />

dalle persone e ora retroagisce su di esse. Vedendo un'area con qualche<br />

albero, una distesa di erba, delle panchine e una recinzione tutto attorno,<br />

sorge allora spontanea la parola parco.<br />

7.1. Il caso del quartiere di San Giuseppe<br />

Ma in che senso possiamo parlare di retroazione? Ad esempio,<br />

pensiamo a chi disegna spazi di professione e vuole vincere un concorso<br />

pubblico. Probabilmente questa persona, se non gode già di una certa<br />

reputazione, come nel caso di Antonio Perazzi, sarà portata ad adeguarsi ad<br />

un'idea sedimentata e ampiamente diffusa di “parco” nel contesto in cui<br />

questo spazio sarà poi realizzato. Inoltre potremmo pensare che il soggetto<br />

in questione abbia imparato all'università a progettare de<strong>gli</strong> spazi e che<br />

quindi abbia appreso delle regole ampiamente diffuse all'interno della sua<br />

categoria professionale.<br />

Enrica, la ragazza che mi ha descritto l'aspetto del nostro quartiere<br />

prima che il parco di San Giuseppe e quello delle Fornaci fossero realizzati,<br />

mi ha parlato del primo con una punta di fastidio, sottolineandone anche in<br />

in altri termini, ogni simile tipizzazione è un'istituzione.” (Berger e Luckmann, 1966, pg. 83)<br />

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