Ricordi 5 - Paolo Cason

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05.06.2013 Views

hanno fornito delle uova di bachi, attaccati su un grande foglio di carta bianca, per come erano state deposte dalla farfalla; erano grandi come una testa di spillo, di colore giallo e diventavano scuri man mano che il baco incominciava la sua vita, poi dopo circa tre mesi di incubazione, nasceva un vermetto dalla grandezza di tre millimetri, che forava l’uovo. Noi sempre attenti a questi eventi che aspettavamo con ansia, eravamo già pronti con le più piccole e tenere foglie di gelso, di cui loro si cibavano voracemente. I primi tempi della nascita erano i più faticosi, ci voleva tanta attenzione e cura, perché i bachi erano così piccoli che quasi non si vedevano, ma mangiavano continuamente. Quando diventavano grandi come una sigaretta e prendevano un bel colorito giallo dorato salivano su dei rametti a croce, che noi ci eravamo procurati negli alberi di gelso, cominciavano a tessere la seta, chiudendosi nel bozzolo, dove restavano chiusi, trasformandosi in crisalide. Quando questa rompeva il bozzolo e ne usciva, divenuta farfalla, il nostro gioco-lavoro era terminato. Andando ancora un po’ indietro nel tempo, chi si ricorda di Busadiya? Era un vecchietto smilzo e magro, aveva appesi al corpo dalla testa ai piedi molte cose, lattine, specchietti e ossa che producevano strani suoni , facendoli dondolare con i suoi movimenti. Aveva anche il tamburo, che annunziava il suo arrivo, e quando qualche spettatore gli buttava una monetina, con una finta battaglia, la faceva scomparire, catturandola, e così viveva con poco, divertendo noi ragazzi. Continuando a parlare di vecchie usanze, non si possono dimenticare i forni arabi. Erano proprio caratteristici, si indovinava la loro presenza,dal buon odore che sprigionavano. Si entrava da un portoncino abbastanza largo e al piano terra si trovava un assito in tavole che serviva ad appoggiare ciò che ognuno portava da infornare. Dopo queste tavole c’era una buca larga circa sessanta centimetri, dove stava il fornaio, che si vedeva solo dalla cintola in su e che aveva alle spalle il forno, dove veniva cotto tutto ciò che la gente portava, dietro pagamento di pochi soldi,che lui faceva scivolare in una fessura fatta apposta sull’assito. Anche io sono stato assiduo frequentatore di quei forni, infatti mia mamma , con l’aiuto di mia sorella Angela preparava a volte pane ,pietanze, biscotti, battezzati da noi “tripolini”,e incaricava me o mio fratello di portarli al forno arabo più vicino , che si trovava in via Liguria, strada che andando in su e girando a sinistra sboccava in via Vittorio Veneto, conosciuta dai vecchi tripolini come Sciara Macchìna . Avevamo preso l’abitudine di consumare queste delizie , anche quando andavamo tutti al bosco Littorio ,che si trovava tra porta Benito e porta Azizia, all’ombra degli eucaliptus,per festeggiare la Pasquetta. Nel periodo estivo, ogni anno mio papà prendeva in affitto sulla spiaggia, nella zona chiamata tomba dei Caramanli, sul lungomare Badoglio, un pezzetto di terra, con l’obbligo di sistemarvi una cabina in legno. Essendo mio papà falegname, ne ha costruito una con la collaborazione di tutti noi , quella era una abitazione che usavamo per tre mesi e qualche volta qualcuno di noi restava a dormire, potendo ammirare il mare di sera e ai primi albori. Proprio di mattina presto, prima che la spiaggia si popolasse, mio fratello Carmelo ed io praticavamo un tipo personale di pesca subacquea. Prendevamo due pentole grosse e profonde, attaccavamo al loro fondo un impasto di mollica di pane e formaggio grattugiato e le coprivamo con un

panno bianco, lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le pentole, andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci arrivava al mento, piano piano, facevamo riempire le pentole dal buco, e le depositavamo sul fondo, ritornando a riva. Dopo un po’ di tempo ritornavamo al largo, correndo quando l’acqua ci arrivava ai ginocchi e allo stomaco, rallentando quando ci arrivava al collo. Tenevamo gli occhi aperti anche sott’acqua e potevamo vedere un’infinità di pesci che gironzolavano attorno al buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola. Rapidamente a testa in giù, la afferravamo con una mano, chiudendo con l’altra il buco, avviandoci verso riva, portando in trionfo il nostro bottino. Questa operazione veniva ripetuta, fino ad ottenere un pasto abbondante per tutta la famiglia. Da ragazzo, dopo le ore scolastiche,ho lavorato presso una parrucchiera per signora, al pian terreno del palazzo Gadzischi, in via Vittorio Veneto, prima d’arrivare alla Cattedrale. La proprietaria era triestina, la signorina Ines Kavalla. Ho cominciato come ragazzo di bottega, poi ho preso a rispondere al telefono, prendere appuntamenti e fare qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni, io riscaldavo e le porgevo i ferri adatti, che dovevano essere ben caldi, ma non bruciare i capelli. Per sentirne il calore, avvicinavo il ferro alla guancia, se era troppo caldo, lo facevo roteare velocemente, per raffreddarlo e poi glielo porgevo; con essi Ines creava delle belle pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la più brava era la Ines. Una volta si è assentata per una ventina di giorni , per andare in Italia, ci ha affidato il suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le chiavi del negozio, la cassa, il libro delle entrate e uscite, compito che io ho svolto con gran serietà e precisione. Al suo ritorno , Ines ha trovato tutto a posto e mi ha elogiato. Ma quel viaggio era servito per tastare il terreno nella sua città e ben presto vi è ritornata, cantando “Trieste mia”. Mentre ero ancora a scuola, l’Italia si preparava alla guerra in Africa orientale,era il 1935. I nostri soldati guidati da due grandi generali, Badoglio dal fronte eritreo e Graziani dal fronte somalo, con travolgenti manovre, dopo aver occupato Adua, Amba Alagi e altri punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il resto del territorio, sconvolgendo l’esercito etiope. Con questa conquista il nostro re poteva fregiarsi del titolo di Imperatore d’Etiopia. Io da casa mia seguivo con molta attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio, in una parete tenevo appesa una grande carta dell’Abissinia, dove c’erano segnate tutte le località e ad ogni conquista, vi spillavo una bandierina. Ho sempre avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato il mio mestiere. Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine Santagati e Covato e ho avuto la fortuna di essere assegnato ad un bravo maestro . Questa officina si trovava in corso Sicilia, quasi di fronte al palazzo Tascone, era autorizzata ed ha vinto la gara di appalto con le forze armate italiane, per la riparazione di tutti i mezzi fuori uso. Al principale venivano assegnate dalle autorità 15 macchina da rimettere a nuovo, per lo più camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano portate al nostro deposito ed ogni reparto faceva il suo lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi all’impianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore, cambio e differenziale. Il mio maestro ed io prendevamo in consegna un motore, che veniva sistematicamente smontato e pulito, si portavano al comando militare i pezzi fuori uso che venivano

panno bianco, lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le pentole,<br />

andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci arrivava al mento, piano piano,<br />

facevamo riempire le pentole dal buco, e le depositavamo sul fondo, ritornando a<br />

riva. Dopo un po’ di tempo ritornavamo al largo, correndo quando l’acqua ci arrivava<br />

ai ginocchi e allo stomaco, rallentando quando ci arrivava al collo. Tenevamo gli<br />

occhi aperti anche sott’acqua e potevamo vedere un’infinità di pesci che<br />

gironzolavano attorno al buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola.<br />

Rapidamente a testa in giù, la afferravamo con una mano, chiudendo con l’altra il<br />

buco, avviandoci verso riva, portando in trionfo il nostro bottino. Questa operazione<br />

veniva ripetuta, fino ad ottenere un pasto abbondante per tutta la famiglia.<br />

Da ragazzo, dopo le ore scolastiche,ho lavorato presso una parrucchiera per signora,<br />

al pian terreno del palazzo Gadzischi, in via Vittorio Veneto, prima d’arrivare alla<br />

Cattedrale. La proprietaria era triestina, la signorina Ines Kavalla. Ho cominciato<br />

come ragazzo di bottega, poi ho preso a rispondere al telefono, prendere<br />

appuntamenti e fare qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni, io<br />

riscaldavo e le porgevo i ferri adatti, che dovevano essere ben caldi, ma non bruciare i<br />

capelli. Per sentirne il calore, avvicinavo il ferro alla guancia, se era troppo caldo, lo<br />

facevo roteare velocemente, per raffreddarlo e poi glielo porgevo; con essi Ines<br />

creava delle belle pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la più brava<br />

era la Ines. Una volta si è assentata per una ventina di giorni , per andare in Italia, ci<br />

ha affidato il suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le chiavi del<br />

negozio, la cassa, il libro delle entrate e uscite, compito che io ho svolto con gran<br />

serietà e precisione. Al suo ritorno , Ines ha trovato tutto a posto e mi ha elogiato. Ma<br />

quel viaggio era servito per tastare il terreno nella sua città e ben presto vi è ritornata,<br />

cantando “Trieste mia”.<br />

Mentre ero ancora a scuola, l’Italia si preparava alla guerra in Africa orientale,era il<br />

1935. I nostri soldati guidati da due grandi generali, Badoglio dal fronte eritreo e<br />

Graziani dal fronte somalo, con travolgenti manovre, dopo aver occupato Adua,<br />

Amba Alagi e altri punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il resto del<br />

territorio, sconvolgendo l’esercito etiope. Con questa conquista il nostro re poteva<br />

fregiarsi del titolo di Imperatore d’Etiopia. Io da casa mia seguivo con molta<br />

attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio, in una parete tenevo appesa<br />

una grande carta dell’Abissinia, dove c’erano segnate tutte le località e ad ogni<br />

conquista, vi spillavo una bandierina.<br />

Ho sempre avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato il mio mestiere.<br />

Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine Santagati e Covato e ho avuto<br />

la fortuna di essere assegnato ad un bravo maestro . Questa officina si trovava in<br />

corso Sicilia, quasi di fronte al palazzo Tascone, era autorizzata ed ha vinto la gara di<br />

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principale venivano assegnate dalle autorità 15 macchina da rimettere a nuovo, per lo<br />

più camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano portate al nostro deposito<br />

ed ogni reparto faceva il suo lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi<br />

all’impianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore, cambio e differenziale. Il mio<br />

maestro ed io prendevamo in consegna un motore, che veniva sistematicamente<br />

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