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RICORDI TRIPOLINI DI GIOVENTU’<br />
Sono ancora Emilio Parlato, finora ho raccontato episodi della mia vita,avvenuti<br />
quando ero già in età matura, questa volta vorrei soffermarmi su avvenimenti<br />
accaduti prima del 1943, sconosciuti ai giovani nati dopo quella data, stuzzicando i<br />
ricordi di quelli della mia età, ma continuando sempre a parlare di Tripoli, nome caro<br />
a tanti di noi, che vi sono nati e vissuti. Era il 14 maggio 1923, quando ho visto la<br />
luce, in Zenghet Hassuna Pascià n. 12. Sebbene fosse una piccola strada, si trovava al<br />
centro della città ed univa due grosse arterie importanti, corso Vittorio Emanuele e<br />
via Lombardia, poi diventata via Costanzo Ciano. Il mio arrivo è stato accolto con<br />
grande festa da mamma, papà, mio fratello Vincenzo, di 9 anni, Angela di 8 e<br />
Carmelo,che anni ne aveva 3. Nel 1929 è nata l’ultima, Maria, quando io avevo già<br />
sei anni e frequentavo la scuola dei Fratelli Cristiani, in via Roma. Conservo, di<br />
quell’anno, una foto di gruppo con i due Fratelli insegnanti e noi 39 alunni con il<br />
tricolore al centro. Poi sono passato alla scuola Roma per completare le elementari<br />
con un bravo maestro Mario Villani, che era molto severo e pretendeva il massimo<br />
dell’attenzione, usando , qualche volta, la bacchetta sulle nostre mani. Anche di<br />
questa scuola ho le pagelle, quella del 33 e quella del 36 con scritte un po’ in<br />
grassetto Opera Balilla e fasci Littori, infatti eravamo inquadrati alla G.I.L.<br />
“Gioventù Italiana del Littorio”, che un po’ nelle ore di educazione fisica e un po’ il<br />
sabato pomeriggio, chiamato sabato fascista, ci teneva in forma, nelle palestre e negli<br />
stadi dove avveniva pure il saggio ginnico il 24 maggio,anniversario dell’entrata<br />
dell’Italia nella prima guerra mondiale. Si partecipava con grande entusiasmo prima<br />
come Balilla, poi come avanguardista, quindi come giovane Fascista, secondo l’età.<br />
La nostra divisa ginnica consisteva in un paio di pantaloncini neri, una maglietta<br />
bianca a maniche corte, orlata da una fettuccia nera alle maniche e al collo, al centro<br />
del petto un fascio con fronde ai lati e scarpette da ginnastica. Le giovani Italiane<br />
portavano scarpette da ginnastica, calzini bianchi, gonna nera a pieghe, camicetta<br />
aderente al corpo, con una grande M, che simboleggiava il nome del Duce. Oltre la<br />
scuola frequentavo pure la chiesa e mi rivedo in Cattedrale ad ascoltare la messa<br />
domenicale e al catechismo del pomeriggio, e dopo la benedizione, tutti di corsa,<br />
passando dalla sacrestia e dal cortile attorno al campanile, a prendere i posti migliori<br />
per assistere alle proiezioni del cinema parrocchiale. Mi ricordo di aver visto un film<br />
con Amedeo Nazzari, era Luciano Serra pilota, che impersonava uno dei nostri eroi<br />
nella guerra in Abissinia. Ricordo il vescovo Vittorino Facchinetti, padre Umile<br />
Oldani,padre Illuminato Colombo, quest’ultimo molto amico della mia famiglia.<br />
Aveva l’abitudine di andare in bicicletta e passando per Collina verde, dove abitavano<br />
ormai i miei genitori, si fermava per riposare, prima di raggiungere la chiesetta di<br />
quella zona, accettava una bibita, chiacchierando cordialmente, sotto un bell’albero di<br />
limone lunario.<br />
Durante il periodo scolastico, mio fratello Carmelo ed io abbiamo avuto l’idea di<br />
allevare bachi da seta, naturalmente per hobby,non per commercio, anche se ciò ci<br />
portava via molto tempo che doveva essere dedicato allo studio. Dei coetanei ci
hanno fornito delle uova di bachi, attaccati su un grande foglio di carta bianca, per<br />
come erano state deposte dalla farfalla; erano grandi come una testa di spillo, di<br />
colore giallo e diventavano scuri man mano che il baco incominciava la sua vita, poi<br />
dopo circa tre mesi di incubazione, nasceva un vermetto dalla grandezza di tre<br />
millimetri, che forava l’uovo. Noi sempre attenti a questi eventi che aspettavamo con<br />
ansia, eravamo già pronti con le più piccole e tenere foglie di gelso, di cui loro si<br />
cibavano voracemente. I primi tempi della nascita erano i più faticosi, ci voleva tanta<br />
attenzione e cura, perché i bachi erano così piccoli che quasi non si vedevano, ma<br />
mangiavano continuamente. Quando diventavano grandi come una sigaretta e<br />
prendevano un bel colorito giallo dorato salivano su dei rametti a croce, che noi ci<br />
eravamo procurati negli alberi di gelso, cominciavano a tessere la seta, chiudendosi<br />
nel bozzolo, dove restavano chiusi, trasformandosi in crisalide. Quando questa<br />
rompeva il bozzolo e ne usciva, divenuta farfalla, il nostro gioco-lavoro era<br />
terminato.<br />
Andando ancora un po’ indietro nel tempo, chi si ricorda di Busadiya? Era un<br />
vecchietto smilzo e magro, aveva appesi al corpo dalla testa ai piedi molte cose,<br />
lattine, specchietti e ossa che producevano strani suoni , facendoli dondolare con i<br />
suoi movimenti. Aveva anche il tamburo, che annunziava il suo arrivo, e quando<br />
qualche spettatore gli buttava una monetina, con una finta battaglia, la faceva<br />
scomparire, catturandola, e così viveva con poco, divertendo noi ragazzi.<br />
Continuando a parlare di vecchie usanze, non si possono dimenticare i forni arabi.<br />
Erano proprio caratteristici, si indovinava la loro presenza,dal buon odore che<br />
sprigionavano. Si entrava da un portoncino abbastanza largo e al piano terra si<br />
trovava un assito in tavole che serviva ad appoggiare ciò che ognuno portava da<br />
infornare. Dopo queste tavole c’era una buca larga circa sessanta centimetri, dove<br />
stava il fornaio, che si vedeva solo dalla cintola in su e che aveva alle spalle il forno,<br />
dove veniva cotto tutto ciò che la gente portava, dietro pagamento di pochi soldi,che<br />
lui faceva scivolare in una fessura fatta apposta sull’assito. Anche io sono stato<br />
assiduo frequentatore di quei forni, infatti mia mamma , con l’aiuto di mia sorella<br />
Angela preparava a volte pane ,pietanze, biscotti, battezzati da noi “tripolini”,e<br />
incaricava me o mio fratello di portarli al forno arabo più vicino , che si trovava in<br />
via Liguria, strada che andando in su e girando a sinistra sboccava in via Vittorio<br />
Veneto, conosciuta dai vecchi tripolini come Sciara Macchìna . Avevamo preso<br />
l’abitudine di consumare queste delizie , anche quando andavamo tutti al bosco<br />
Littorio ,che si trovava tra porta Benito e porta Azizia, all’ombra degli eucaliptus,per<br />
festeggiare la Pasquetta.<br />
Nel periodo estivo, ogni anno mio papà prendeva in affitto sulla spiaggia, nella zona<br />
chiamata tomba dei Caramanli, sul lungomare Badoglio, un pezzetto di terra, con<br />
l’obbligo di sistemarvi una cabina in legno. Essendo mio papà falegname, ne ha<br />
costruito una con la collaborazione di tutti noi , quella era una abitazione che<br />
usavamo per tre mesi e qualche volta qualcuno di noi restava a dormire, potendo<br />
ammirare il mare di sera e ai primi albori. Proprio di mattina presto, prima che la<br />
spiaggia si popolasse, mio fratello Carmelo ed io praticavamo un tipo personale di<br />
pesca subacquea. Prendevamo due pentole grosse e profonde, attaccavamo al loro<br />
fondo un impasto di mollica di pane e formaggio grattugiato e le coprivamo con un
panno bianco, lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le pentole,<br />
andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci arrivava al mento, piano piano,<br />
facevamo riempire le pentole dal buco, e le depositavamo sul fondo, ritornando a<br />
riva. Dopo un po’ di tempo ritornavamo al largo, correndo quando l’acqua ci arrivava<br />
ai ginocchi e allo stomaco, rallentando quando ci arrivava al collo. Tenevamo gli<br />
occhi aperti anche sott’acqua e potevamo vedere un’infinità di pesci che<br />
gironzolavano attorno al buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola.<br />
Rapidamente a testa in giù, la afferravamo con una mano, chiudendo con l’altra il<br />
buco, avviandoci verso riva, portando in trionfo il nostro bottino. Questa operazione<br />
veniva ripetuta, fino ad ottenere un pasto abbondante per tutta la famiglia.<br />
Da ragazzo, dopo le ore scolastiche,ho lavorato presso una parrucchiera per signora,<br />
al pian terreno del palazzo Gadzischi, in via Vittorio Veneto, prima d’arrivare alla<br />
Cattedrale. La proprietaria era triestina, la signorina Ines Kavalla. Ho cominciato<br />
come ragazzo di bottega, poi ho preso a rispondere al telefono, prendere<br />
appuntamenti e fare qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni, io<br />
riscaldavo e le porgevo i ferri adatti, che dovevano essere ben caldi, ma non bruciare i<br />
capelli. Per sentirne il calore, avvicinavo il ferro alla guancia, se era troppo caldo, lo<br />
facevo roteare velocemente, per raffreddarlo e poi glielo porgevo; con essi Ines<br />
creava delle belle pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la più brava<br />
era la Ines. Una volta si è assentata per una ventina di giorni , per andare in Italia, ci<br />
ha affidato il suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le chiavi del<br />
negozio, la cassa, il libro delle entrate e uscite, compito che io ho svolto con gran<br />
serietà e precisione. Al suo ritorno , Ines ha trovato tutto a posto e mi ha elogiato. Ma<br />
quel viaggio era servito per tastare il terreno nella sua città e ben presto vi è ritornata,<br />
cantando “Trieste mia”.<br />
Mentre ero ancora a scuola, l’Italia si preparava alla guerra in Africa orientale,era il<br />
1935. I nostri soldati guidati da due grandi generali, Badoglio dal fronte eritreo e<br />
Graziani dal fronte somalo, con travolgenti manovre, dopo aver occupato Adua,<br />
Amba Alagi e altri punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il resto del<br />
territorio, sconvolgendo l’esercito etiope. Con questa conquista il nostro re poteva<br />
fregiarsi del titolo di Imperatore d’Etiopia. Io da casa mia seguivo con molta<br />
attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio, in una parete tenevo appesa<br />
una grande carta dell’Abissinia, dove c’erano segnate tutte le località e ad ogni<br />
conquista, vi spillavo una bandierina.<br />
Ho sempre avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato il mio mestiere.<br />
Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine Santagati e Covato e ho avuto<br />
la fortuna di essere assegnato ad un bravo maestro . Questa officina si trovava in<br />
corso Sicilia, quasi di fronte al palazzo Tascone, era autorizzata ed ha vinto la gara di<br />
appalto con le forze armate italiane, per la riparazione di tutti i mezzi fuori uso. Al<br />
principale venivano assegnate dalle autorità 15 macchina da rimettere a nuovo, per lo<br />
più camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano portate al nostro deposito<br />
ed ogni reparto faceva il suo lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi<br />
all’impianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore, cambio e differenziale. Il mio<br />
maestro ed io prendevamo in consegna un motore, che veniva sistematicamente<br />
smontato e pulito, si portavano al comando militare i pezzi fuori uso che venivano
sostituiti con quelli nuovi. Io , con del cartoncino, facevo tutte le guarnizioni<br />
occorrenti e pronte per il montaggio . Porgevo al maestro i pezzi, bulloni dadi , tutti<br />
puliti ed allineati per grandezza e misura , il motore veniva montato e si faceva<br />
rullare nel banco prova. Con il tempo, il maestro ha cominciato a farmi montare<br />
qualche pezzo , controllando tutto, ma dandomi sempre più fiducia . Quando il mezzo<br />
era pronto in tutte le sue parti e rimesso a nuovo, veniva caricato con delle zavorre da<br />
raggiungere la sua portata e passava al controllo e revisione dell’esercito, Passata la<br />
revisione, si consegnavano i mezzi rimessi a nuovo, se ne prendevano altri dal<br />
deposito dell’esercito e si ricominciava da capo .Durante la corsa automobilistica dei<br />
Milioni, abbinata alla Lotteria di tutta Italia, arrivavano a Tripoli, le macchine da<br />
corsa con le loro scuderie, che venivano ospitate in varie officine o autorimesse, nei<br />
giorni antecedenti la corsa. Una di queste officine era quella dove lavoravo io in<br />
corso Sicilia.Per noi quei giorni erano una festa, specialmente per quelli della mia età.<br />
I loro meccanici ci permettevano di curiosare e di toccare le grosse ruote e qualche<br />
volta anche dare una mano a spingere le macchine, a metterle in moto e posteggiarle<br />
nei box, di cui la nostra officina era dotata, mentre fuori, al cancello, la gente si<br />
affollava curiosa, e tanti miei coetanei mi pregavano di farli avvicinare e io mi<br />
sentivo invidiato e pieno di gioia. Poi quando si disputava la corsa, mio fratello ed io<br />
avevamo il permesso dei miei genitori di allontanarci fino al circuito della Mellaha.<br />
Arrivavano i più forti assi internazionali di allora, Achille Varzi, Tazio Nuvolari,<br />
Brilli Peri, Taruffi, Borzacchini, vi erano anche piloti stranieri come Langh ed altri,<br />
che con le loro Mercedes ed Autounion, davano del filo da torcere alle nostre Alfa<br />
Romeo, Maserati, ecc. Allo stadio di Tripoli venivano pure i più famosi ciclisti,<br />
Bartali, Magni, nella pista , attorno al campo da gioco facevano le loro competizioni<br />
di velocità, di americana a coppie e qui, io, attaccato alla rete di protezione , sistemata<br />
tra le tribune e la pista,ho avuto la fortuna di parlare e toccare Bartali, che si era<br />
fermato proprio davanti a me, per aspettare il compagno che faceva il suo turno di<br />
corsa. Che grande emozione! Queste sono continuate assistendo alle gare dei<br />
corridori tripolini, con il trio più in vista degli assi del pedale <strong>Cason</strong>, Berti, Vella.<br />
Tripoli si è distinta anche nel pugilato, con il bravo e forte Santino De Leo, peso<br />
massimo, che aveva il mulino in sciara Macchìna e noi assistendo ai suoi incontri ed<br />
ai suoi poderosi uppercut e pesanti diretti, lo incitavamo gridando “dai sciara<br />
Macchìna”. E’ arrivato a conquistare il titolo di campione europeo. Un altro bravo<br />
campione è stato Vincenzo Anastasi, che conquistò il titolo europeo dei pesi mosca.<br />
Era molto dinamico, sembrava danzasse sul ring ,mentre combatteva e metteva a<br />
segno i suoi veloci diretti e i suoi ripetuti uno-due. Con lui ho avuto più vicinanza,<br />
perché, dopo sposato, sono andato ad abitare in via Raffaello, 31. Questa strada<br />
cominciava da Corso Sicilia e finiva in via Ponchielli. Tra queste due grosse vie, ve<br />
ne erano altre trasversali, come via Bellini, via Verdi, via Vignola, via Canova, in una<br />
di queste vi era lui, Vincenzino, che aveva il panificio dove io ogni mattina compravo<br />
il pane. Era bello rivedersi dopo un suo incontro e discutere e complimentarsi della<br />
sua vittoria sul ring. Anche il nuoto aveva la sua importanza e si concludeva con la<br />
gara regina annuale della traversata del porto, dove si cimentavano i più forti<br />
nuotatori fondisti. Non dimentichiamoci del calcio. A Tripoli vi erano diverse squadre<br />
dilettanti, che facevano furore e si distinguevano , come l’Ittiad, con l’attaccante
Zentuti , bravissimo a realizzare bei gol.<br />
Un avvenimento che merita essere ricordato e al quale ho assistito personalmente è<br />
stato l’arrivo di Mussolini a Tripoli. Era il 18 Marzo 1937. Da qualche settimana<br />
prima del suo arrivo, ogni sera, perché doveva arrivare di sera, si provavano<br />
l’illuminazione, le sfilate dei meharisti, con i loro cammelli, che procedevano a passo<br />
ondeggiante, e, al suono delle trombe, i reparti di cavalleria al galoppo. Io<br />
partecipavo pure per quello che mi competeva, inquadrato nei reparti della gioventù.<br />
Dopo le prove, la grande notte è arrivata, con l’entusiasmo di tanti, mai si era vista<br />
Tripoli così illuminata a giorno, imbandierata e festosa. Il Duce arrivava da Bengasi,<br />
percorrendo la via Balbia, opera grandiosa, che univa la Cirenaica alla Tripolitania,<br />
da poco costruita e che portava il nome del governatore. Arrivato a Tripoli, Mussolini<br />
percorse a cavallo tutto il lungomare Volpi, poi si è immesso in piazza Castello,<br />
dove , sempre a cavallo , ha tenuto un discorso. Ha proseguito per corso Vittorio,<br />
passando davanti la Cattedrale,e ancora fino al palazzo del governatore,anche questo<br />
inondato di luce. Mi sentivo, e sicuramente anche tanti altri, orgoglioso di<br />
appartenere ad un popolo così glorioso. Poi gli avvenimenti sono precipitati, ma<br />
nessuno quella notte avrebbe immaginato come.<br />
Quando gli Italiani erano arrivati a Tripoli, nel lontano 1911, ( tra essi c’era mio<br />
padre),avevano trovato solo deserto ; la loro industriosità rese quel deserto un<br />
giardino. La colonizzazione agricola fu una delle cose più belle creata, poi, nel<br />
periodo fascista. Nacquero dal nulla, nel deserto, popolati dai coloni, interi villaggi,<br />
come Oliveti , Bianchi,Giordani, Breviglieri, Crispi, Garibaldi, Micca, Marconi ed<br />
altri. La mattina del 3 novembre 1938 fu una giornata veramente storica per la Libia.<br />
Più di una decina fra i più grandi piroscafi italiani, tra i quali anche qualche<br />
transatlantico, tutti imbandierati e inalberati con il “gran Pavese”, arrivarono nel<br />
porto di Tripoli, con un carico di ventimila italiani, venuti ad arricchire con il loro<br />
lavoro la “Quarta sponda”. Da quelle navi sbarcarono tutti i ventimila, uomini, donne,<br />
bambini e con un lungo corteo, ordinato, a piedi, dal porto arrivarono fino a piazza<br />
Castello . Era una fiumana di gente, che silenziosa, camminava in mezzo ad ali di<br />
folla plaudente. Assistevo commosso a questo grandioso spettacolo, pensando che<br />
anche la mia famiglia ed io, avevamo contribuito, con il lavoro, a rendere più bella<br />
Tripoli . Dalla piazza Castello, dopo il discorso del governatore e la benedizione del<br />
vescovo Facchinetti, i ventimila partirono alla volta dei loro villaggi, a bordo di<br />
centinaia di automezzi militari. A loro arrivo, ogni famiglia trovò una bella casetta<br />
arredata, la mucca, il pollaio, un pezzo di terreno da coltivare e tutti gli attrezzi<br />
agricoli. Quei villaggi, con il lavoro dei coloni italiani, poi sono diventati centri<br />
abitati, dove gli arabi del luogo hanno visto che anche dalla sabbia, potevano nascere<br />
alberi, ulivi, viti , aranceti .<br />
Nel 1939 l’Europa entrò in guerra, e noi a Tripoli incominciammo a sentire le prime<br />
privazioni di beni, di cui fino a quel momento avevamo beneficiato. Nel pomeriggio<br />
del 10 giugno 1940 il popolo di Tripoli sentì alla radio e nelle piazze il discorso del<br />
Duce, che aveva dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna; anche io ero lì,<br />
illudendomi, come tanti altri che sarebbe stata una passeggiata. Ma la stessa sera,<br />
subimmo il primo bombardamento da aerei francesi, partiti dalla Tunisia. Questo fu il<br />
primo shock, giunto così rapidamente e inaspettato. Ma un altro ne doveva ancora
arrivare, la morte improvvisa di Italo Balbo, che, nel recarsi ad ispezionare le truppe<br />
al confine con l’Egitto, a bordo di un S79, era stato abbattuto dalla nostra stessa<br />
contraerea, che si trovava sulla nave San Giorgio, ancorata nel porto di Tobruk. La<br />
notizia fu accolta con grande sbalordimento, ma anche col dispiacere di aver perso,<br />
così banalmente , per un errore, si disse, di identificazione, un personaggio tanto<br />
rispettato anche dai nemici ed avversari. All’imponente funerale, formato da otto<br />
bare, il 29 giugno 1940, partecipammo tutti, nessuno escluso. Al suo posto fu<br />
nominato il generale Rodolfo Graziani, perché generale dell’esercito e protagonista in<br />
Etiopia, mentre Balbo era stato un triunviro della marcia su Roma. A Tripoli cominciò<br />
la vera guerra, continui bombardamenti di aerei inglesi provenienti da Malta, ci<br />
costringevano a correre dentro i rifugi e nelle campagne fuori città. Noi abitavamo a<br />
Collina verde, distante tre chilometri da Tripoli, e lì,chi dentro casa, chi attendato nel<br />
giardino adiacente, passavamo le notti. Nella notte del 21 Aprile 1941, dopo un’ora di<br />
bombardamenti, abbiamo visto, come d’incanto, tutto illuminato. Gli aerei inglesi<br />
avevano sganciato dei razzi illuminanti, a cui erano agganciati dei piccoli paracadute;<br />
quelle luci erano i segnali dei luoghi da colpire. Mentre noi guardavamo quelle luci ,<br />
si scatenò il finimondo. Per quarantacinque minuti si sentirono passare proiettili, non<br />
più sopra le nostre teste, ma striscianti, perché erano proiettili da 305 sparati dalle<br />
navi della flotta inglese. L’indomani, scendendo in città, trovammo un disastro,<br />
Tripoli era irriconoscibile, ovunque macerie di fabbricati che erano stati distrutti,<br />
senza incontrare la più piccola resistenza da parte nostra. Al porto oltre alla<br />
distruzione di navi, sul piazzale davanti al nostro bar, trovammo un proiettile da 305<br />
inesploso, che aveva centrato in pieno il faro ed era venuto a cadere davanti al bar.<br />
Dopo che i genieri lo resero innocuo, con l’incoscienza della gioventù, mi feci<br />
scattare una foto, con un piede sopra, come se fosse stato preda di guerra. Il rifugio<br />
della Banca d’Italia, invece, era stato centrato in pieno da uno di quei proiettili, che<br />
esplodendo , aveva provocato tanti morti; esso era stato costruito per le bombe aeree,<br />
ma non ha resistito a quelle navali , che provenivano orizzontalmente. La guerra negli<br />
anni 40-41 in Africa settentrionale si svolse aspra da tutti e due i fronti, Graziani<br />
avanzò con le truppe italiane oltre il confine con l’Egitto fino ad occupare Sidi<br />
Barrani e Massa Matruk, ma non andò oltre. I miei due fratelli più grandi erano sui<br />
fronti di combattimento. Gli inglesi e gli italo-tedeschi, comandati dal generale<br />
Rommel, la volpe del deserto, si fronteggiavano, finchè l’esercito inglese,<br />
travolgendo quello tedesco, entrò a Tripoli, era il 23 gennaio 1943. Questa volta, non<br />
ho potuto seguire questa guerra,segnando le vittorie con le bandierine, come avevo<br />
fatto con quella d’Etiopia, sia perché non ci furono vittorie, sia perché l’ho vissuta<br />
sulla mia pelle e c’era poco da stare allegri.<br />
Arrivato a questo punto delle mie narrazioni e dalle date, mi accorgo che anche la mia<br />
gioventù è passata, ma mi restano, intatti, tutti i ricordi. Termino, salutando tutti i<br />
lettori, ma in particolare il caro <strong>Paolo</strong> <strong>Cason</strong>, che con la sua tenacia,continua a tenere<br />
vivo il suo sito e a tenerci uniti, a lui va un indimenticato ricordo e un grazie di cuore<br />
EMILIO PARLATO