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Grande è perciò la distanza dei Sepolcri dalla produzione sepolcrale inglese tardo-settecentesca, nella quale era prevalso un gusto sentimentale, espresso talora in forme meditative e malinconiche. È il caso della Elegia sopra un cimitero campestre di Thomas Gray che avvolge nella luce del crepuscolo la visione di tombe modeste, nelle quali sono racchiuse le ceneri di uomini ignorati dalla storia; e queste virtù sconosciute il poeta intende rievocare e celebrare. Collocandosi al punto più alto del processo storico della rivoluzione inglese, questa elegia precorre – ed insieme influenza – una concezione democratica del ruolo del poeta che sarà propria di Wordsworth, di Tolstoi e di George Eliot: “I rintocchi della campana salutano il giorno che muore, l’armento si disperde muggendo per i pascoli, il contadino volge i passi affaticati verso casa, e lascia il mondo alle tenebre e a me. Forse in questo luogo abbandonato giace Qualche cuore una volta ardente di fuoco celeste, mani che avrebbero potuto impugnare lo scettro del comando, o destare l’estasi con la lira vibrante di vita. Ma il Sapere non volse mai ai loro occhi Il suo grande volume ricco delle spoglie del tempo. Il freddo della povertà represse il loro nobile ardore E ne gelò in fondo all’anima le vocazioni” (traduzione di D. Caminita - vv. 1/5 e 45/54). A nessuno sfugge l’ideologia democratica che ispira questi versi. Foscolo invece, dopo una fase giacobina, coincisa con la discesa dell’armata francese in Italia e la proclamazione della Repubblica Veneta, in seguito alla delusione indotta dal tradimento di Napoleone (trattato di Campoformio, 1798), ripudia l’ideologia egualitaria e democratica, e si volge all’esaltazione dei “forti”, cioè di un’élite intellettuale e spirituale che opera bene sulla terra, pratica la virtù, ama il bello ideale e la poesia, vive con la passione di Ortis, prefigurandosi una patria per la cui libertà lottare e morire: questa tipologia umana – non nobile di nascita ma di cuore e di animo – è l’unica che “lasci eredità di affetti” e che dunque abbia diritto al culto delle tombe. Questo forte individualismo meritocratico – che lega la memoria dei superstiti alla grandezza e alle passioni del morto – sarebbe pur esso in linea con il pensiero borghese se non si esprimesse in Foscolo in forme elitarie, e quindi aristocratiche, ispirate all’estetica winckelmanniana della “nobile semplicità e quieta grandezza”: forme che il poeta raccoglie nei Sepolcri dalla tradizione romanza e classica, riecheggiando Petrarca, Lucrezio, – 154 –
Omero, Orazio e Pindaro, ad esempio nella densità concettuale delle transizioni, e nella preziosità sublime del lessico. I frequenti latinismi, i riferimenti mitologici, gli iperbati, le metonimie, le audaci inversioni, le costruzioni alla greca, i valori simbolici delle onomatopee, tutto rimanda al gusto del neoclassicismo romantico di cui la lirica foscoliana è, con quella di Keats e di Hölderlin, l’estrema e più nobile espressione. Vengono dunque a collocarsi su un piano di profonda affinità la tela neoclassica di David che esalta in termini politici e di serena compostezza la morte del tribuno Marat, eroe della rivoluzione francese, e la celebrazione foscoliana dei grandi italiani, le cui “urne”, racchiuse in Santa Croce, potranno affidare “ai forti” – alle generazioni che verranno – il compito di “trarne gli auspici”: attraverso la mitologia degli uomini grandi in tutti i campi dello scibile, da Galileo a Machiavelli, da Michelangelo ad Alfieri, da Dante a Petrarca si radicherà nelle future generazioni l’idea di nazione, e prenderà vita il risorgimento di un popolo che allora, nel 1806, anno di composizione dei Sepolcri, era ancora “un volgo disperso che nome non ha”. Conformemente a questa ideologia laica e mondana, ne I Sepolcri la condanna del sentimento barocco della morte risalta con evidenza nei versi destinati ai culti medievali. “Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi fean pavimento; né agl’incensi avvolto de’ cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò; né le città fur meste d’effigiati scheletri: le madri balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono nude le braccia su l’amato capo del lor caro lattante onde nol desti il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi dal santuario” (vv. 104-114). È un passo di gusto lugubre in cui il virtuosismo stilistico del poeta ha funzione polemica: ne sono indizio quei particolari della “venal prece”, del “gemer lungo”, “del lezzo dei cadaveri” mescolato al profumo degli incensi, e la paura delle madri “esterrefatte”, che si destano in preda agli incubi e proteggono con gesto drammatico i loro nati dalla vista degli scheletri effigiati nelle sculture delle città. A questa condanna della tradizione cristiana, che utilizzava in senso terroristico il discorso sulla morte e sull’aldilà, si contrappone, subito dopo, la rievocazione del culto antico: il colloquio con il caro – 155 –
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alla greca, i valori simbolici delle onomatopee, tutto rimanda al gusto<br />
del neoclassicismo romantico <strong>di</strong> cui la lirica foscoliana è, con quella <strong>di</strong><br />
Keats e <strong>di</strong> Hölderlin, l’estrema e più nobile espressione. Vengono dunque a<br />
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esalta in termini politici e <strong>di</strong> serena compostezza la morte del tribuno<br />
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attraverso la mitologia degli uomini gran<strong>di</strong> in tutti i campi dello scibile, da<br />
Galileo a Machiavelli, da Michelangelo ad Alfieri, da Dante a Petrarca si ra<strong>di</strong>cherà<br />
nelle future generazioni l’idea <strong>di</strong> nazione, e prenderà vita il risorgimento<br />
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era ancora “un volgo <strong>di</strong>sperso che nome non ha”.<br />
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condanna del sentimento barocco della morte risalta con evidenza nei versi<br />
destinati ai culti me<strong>di</strong>evali.<br />
“Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi<br />
fean pavimento; né agl’incensi avvolto<br />
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti<br />
contaminò; né le città fur meste<br />
d’effigiati scheletri: le madri<br />
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono<br />
nude le braccia su l’amato capo<br />
del lor caro lattante onde nol desti<br />
il gemer lungo <strong>di</strong> persona morta<br />
chiedente la venal prece agli ere<strong>di</strong><br />
dal santuario” (vv. 104-114).<br />
È un passo <strong>di</strong> gusto lugubre in cui il virtuosismo stilistico del poeta ha<br />
funzione polemica: ne sono in<strong>di</strong>zio quei particolari della “venal prece”, del<br />
“gemer lungo”, “del lezzo dei cadaveri” mescolato al profumo degli incensi,<br />
e la paura delle madri “esterrefatte”, che si destano in preda agli incubi e proteggono<br />
con gesto drammatico i loro nati dalla vista degli scheletri effigiati<br />
nelle sculture delle città. A questa condanna della tra<strong>di</strong>zione cristiana, che<br />
utilizzava in senso terroristico il <strong>di</strong>scorso sulla morte e sull’al<strong>di</strong>là, si contrappone,<br />
subito dopo, la rievocazione del culto antico: il colloquio con il caro<br />
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