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MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...

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vogliono combattere. Ma ciò non basta: anche chi non è preoccupato della<br />

morte per timore <strong>di</strong> un giu<strong>di</strong>zio ultraterreno pensa ad essa con angoscia, e<br />

ciò fa parte del bagaglio comune <strong>di</strong> esperienza psicologica; perciò il filosofo<br />

greco insiste sulla per<strong>di</strong>ta della coscienza quando c’è la morte, dottrina<br />

riecheggiata da Lucrezio nel L.III del De rerum natura: “...noi possiamo<br />

essere certi che colui che più non esiste non può essere turbato da affanni”<br />

(v. 867). Epicuro, quando ci parla <strong>di</strong> “anima”, cioè <strong>di</strong> psyche, intende qualcosa<br />

<strong>di</strong> corporeo, costituito <strong>di</strong> atomi più leggeri, che si lega al corpo, fatto a<br />

sua volta <strong>di</strong> atomi più pesanti, un principio vitale <strong>di</strong>ffuso in tutte le membra,<br />

cosicché con la morte anche l’anima si <strong>di</strong>ssolverà, esattamente come il<br />

corpo, nella <strong>di</strong>sgregazione degli atomi costituenti l’uno e l’altra. Ne deriva la<br />

fine della coscienza, dell’animus o mens che è situato nel petto vicino al<br />

cuore, e che presiede ai processi interiori <strong>di</strong> gioia e dolore. Di qui l’assioma<br />

che non dobbiamo temere la morte perché non l’incontriamo mai: quando lei<br />

c’è non ci siamo noi, e quando ci siamo noi lei non c’è. È raggiunto così il<br />

primo obiettivo del tetrafarmacon: il superamento della paura della morte.<br />

Ora la cosa che stupisce in Lucrezio è l’entusiasmo per la dottrina del<br />

maestro, più volte esaltato come un uomo superiore, anzi come un <strong>di</strong>o, che<br />

ha liberato i viventi dai lacci delle superstizioni e delle angosce, e nello<br />

stesso tempo la presenza <strong>di</strong> scene poetiche piene <strong>di</strong> immagini <strong>di</strong> orrore e <strong>di</strong>sperazione,<br />

come quella della peste <strong>di</strong> Atene e il lungo passo del V libro<br />

sulla “culpa naturae”, culminante nell’immagine del neonato, che, espulso<br />

dal grembo materno, approda alle plaghe della luce emettendo “un lugubre<br />

vagito”, come è giusto per chi dovrà attraversare tante sofferenze, cosicché,<br />

unico tra gli esseri viventi, ha bisogno che la madre con sonagliuzzi e dolci<br />

vezzeggiamenti “il prenda a consolar dell’esser nato”.<br />

Non voglio addentrarmi sulla intima contrad<strong>di</strong>ttorietà <strong>di</strong> questa grande<br />

poesia che alterna a parti robustamente argomentative visioni poetiche<br />

piene <strong>di</strong> bellezza e <strong>di</strong> estasi contemplativa ed altre percorse da una angosciosa<br />

drammaticità. Questo è, infatti, un problema complesso, che investe<br />

una serie <strong>di</strong> questioni: il “pessimismo” <strong>di</strong> Lucrezio, la sua eventuale visionarietà,<br />

la conclusione luttuosa dei libri II, IV e VI 1 della sua opera, per la<br />

1 Nel finale del L.II appare il mondo che crolla su se stesso, nel finale del L.IV c’è una<br />

rappresentazione <strong>di</strong>sturbata della fenomenologia amorosa, e in particolare una satira misogina<br />

così ra<strong>di</strong>cale da aver rafforzato la leggenda della morte <strong>di</strong> Lucrezio per avvelenamento da un<br />

filtro d’amore; nel VI libro troviamo la descrizione della peste <strong>di</strong> Atene.<br />

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