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apporti interpersonali, e l’individualismo solitario, implicito nel distacco dalla vita politica e sociale. Sappiamo che nel secondo secolo si era arrivati a un provvedimento di espulsione nei confronti di due filosofi epicurei, Alceo e Filisco, che volevano diffondere la loro dottrina a Roma; ma nel I secolo questa filosofia ebbe successo presso la classe dirigente sia tra i populares che tra gli optimates: epicureo fu Attico che rinunciò al cursus honorum in nome della cultura; un personaggio di rango consolare, Calpurnio Pisone Cesonino, si presentava come protettore di filosofi epicurei; nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara; un altro cenacolo sorgeva a Napoli, dove sotto la guida di Sirone studiarono giovani di diversa estrazione sociale, fra i quali i discendenti di varie famiglie nobili e i futuri poeti Virgilio e Orazio; anche Cesare, che entrò tardi nella lotta politica, aderì alla ricerca dell’atarassia e lo fece anche il futuro cesaricida Cassio. Lo stesso Cicerone appare allarmato dal potenziale eversivo di questa dottrina rispetto ai valori tradizionali del mos maiorum, il che equivale ad ammettere una larga penetrazione sociale dell’epicureismo, sia nelle sue versioni popolareggianti, mediate dalla cattiva prosa di Amafinio e Cazio, di semplice perseguimento dell’edonismo e dei piaceri spiccioli, sia nella sua pratica più severa e nobile (Tusculanae, IV, 7). È bene perciò ricordare il punto centrale della filosofia epicurea riguardo al tema della morte. “La morte non è nulla per noi, perché ciò che si è dissolto non ha più sensibilità; e ciò che non ha sensibilità non è nulla per noi” Con questo aforisma Epicuro cerca di fondare la tesi della perdita totale della coscienza con la morte, poiché tutta la sua dottrina tende alla pacificazione dell’anima umana. Pertanto egli rifiuta innanzitutto le credenze che concepiscono l’anima come immortale e prevedono un sistema di premi e castighi eterni commisurati ai comportamenti tenuti dagli uomini durante la vita terrena; credenze che dovevano essere molto diffuse a Roma nel I secolo a.C., se si pensa alla pratica dei riti misterici e alla filosofia di Platone che conclude la sua Repubblica con il mito di Er relativo al destino ultraterreno dei morti e ai premi e castighi che ad essi saranno assegnati per la condotta tenuta sulla terra: dottrina di cui avvertiamo un’eco suggestiva nel finale del De re publica di Cicerone, meglio noto come Somnium Scipionis. Anche la dottrina della metempsicosi, oltre a quella della sopravvivenza dell’anima dopo la morte e della sua preesistenza, apre in Platone prospettive escatologiche, quelle che prima Epicuro e poi il suo entusiasta discepolo Lucrezio – 146 –
vogliono combattere. Ma ciò non basta: anche chi non è preoccupato della morte per timore di un giudizio ultraterreno pensa ad essa con angoscia, e ciò fa parte del bagaglio comune di esperienza psicologica; perciò il filosofo greco insiste sulla perdita della coscienza quando c’è la morte, dottrina riecheggiata da Lucrezio nel L.III del De rerum natura: “...noi possiamo essere certi che colui che più non esiste non può essere turbato da affanni” (v. 867). Epicuro, quando ci parla di “anima”, cioè di psyche, intende qualcosa di corporeo, costituito di atomi più leggeri, che si lega al corpo, fatto a sua volta di atomi più pesanti, un principio vitale diffuso in tutte le membra, cosicché con la morte anche l’anima si dissolverà, esattamente come il corpo, nella disgregazione degli atomi costituenti l’uno e l’altra. Ne deriva la fine della coscienza, dell’animus o mens che è situato nel petto vicino al cuore, e che presiede ai processi interiori di gioia e dolore. Di qui l’assioma che non dobbiamo temere la morte perché non l’incontriamo mai: quando lei c’è non ci siamo noi, e quando ci siamo noi lei non c’è. È raggiunto così il primo obiettivo del tetrafarmacon: il superamento della paura della morte. Ora la cosa che stupisce in Lucrezio è l’entusiasmo per la dottrina del maestro, più volte esaltato come un uomo superiore, anzi come un dio, che ha liberato i viventi dai lacci delle superstizioni e delle angosce, e nello stesso tempo la presenza di scene poetiche piene di immagini di orrore e disperazione, come quella della peste di Atene e il lungo passo del V libro sulla “culpa naturae”, culminante nell’immagine del neonato, che, espulso dal grembo materno, approda alle plaghe della luce emettendo “un lugubre vagito”, come è giusto per chi dovrà attraversare tante sofferenze, cosicché, unico tra gli esseri viventi, ha bisogno che la madre con sonagliuzzi e dolci vezzeggiamenti “il prenda a consolar dell’esser nato”. Non voglio addentrarmi sulla intima contraddittorietà di questa grande poesia che alterna a parti robustamente argomentative visioni poetiche piene di bellezza e di estasi contemplativa ed altre percorse da una angosciosa drammaticità. Questo è, infatti, un problema complesso, che investe una serie di questioni: il “pessimismo” di Lucrezio, la sua eventuale visionarietà, la conclusione luttuosa dei libri II, IV e VI 1 della sua opera, per la 1 Nel finale del L.II appare il mondo che crolla su se stesso, nel finale del L.IV c’è una rappresentazione disturbata della fenomenologia amorosa, e in particolare una satira misogina così radicale da aver rafforzato la leggenda della morte di Lucrezio per avvelenamento da un filtro d’amore; nel VI libro troviamo la descrizione della peste di Atene. – 147 –
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apporti interpersonali, e l’in<strong>di</strong>vidualismo solitario, implicito nel <strong>di</strong>stacco<br />
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a un provve<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> espulsione nei confronti <strong>di</strong> due filosofi epicurei,<br />
Alceo e Filisco, che volevano <strong>di</strong>ffondere la loro dottrina a Roma; ma nel<br />
I secolo questa filosofia ebbe successo presso la classe <strong>di</strong>rigente sia tra i<br />
populares che tra gli optimates: epicureo fu Attico che rinunciò al cursus<br />
honorum in nome della cultura; un personaggio <strong>di</strong> rango consolare, Calpurnio<br />
Pisone Cesonino, si presentava come protettore <strong>di</strong> filosofi epicurei;<br />
nella sua villa <strong>di</strong> Ercolano teneva lezione Filodemo <strong>di</strong> Gadara; un altro<br />
cenacolo sorgeva a Napoli, dove sotto la guida <strong>di</strong> Sirone stu<strong>di</strong>arono giovani<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>versa estrazione sociale, fra i quali i <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> varie famiglie nobili<br />
e i futuri poeti Virgilio e <strong>Orazio</strong>; anche Cesare, che entrò tar<strong>di</strong> nella lotta<br />
politica, aderì alla ricerca dell’atarassia e lo fece anche il futuro cesaricida<br />
Cassio. Lo stesso Cicerone appare allarmato dal potenziale eversivo <strong>di</strong><br />
questa dottrina rispetto ai valori tra<strong>di</strong>zionali del mos maiorum, il che equivale<br />
ad ammettere una larga penetrazione sociale dell’epicureismo, sia nelle<br />
sue versioni popolareggianti, me<strong>di</strong>ate dalla cattiva prosa <strong>di</strong> Amafinio e<br />
Cazio, <strong>di</strong> semplice perseguimento dell’edonismo e dei piaceri spiccioli, sia<br />
nella sua pratica più severa e nobile (Tusculanae, IV, 7).<br />
È bene perciò ricordare il punto centrale della filosofia epicurea riguardo<br />
al tema della morte.<br />
“La morte non è nulla per noi, perché ciò che si è <strong>di</strong>ssolto non ha più sensibilità; e<br />
ciò che non ha sensibilità non è nulla per noi”<br />
Con questo aforisma Epicuro cerca <strong>di</strong> fondare la tesi della per<strong>di</strong>ta totale<br />
della coscienza con la morte, poiché tutta la sua dottrina tende alla pacificazione<br />
dell’anima umana. Pertanto egli rifiuta innanzitutto le credenze che<br />
concepiscono l’anima come immortale e prevedono un sistema <strong>di</strong> premi e<br />
castighi eterni commisurati ai comportamenti tenuti dagli uomini durante la<br />
vita terrena; credenze che dovevano essere molto <strong>di</strong>ffuse a Roma nel I secolo<br />
a.C., se si pensa alla pratica dei riti misterici e alla filosofia <strong>di</strong> Platone che<br />
conclude la sua Repubblica con il mito <strong>di</strong> Er relativo al destino ultraterreno<br />
dei morti e ai premi e castighi che ad essi saranno assegnati per la condotta<br />
tenuta sulla terra: dottrina <strong>di</strong> cui avvertiamo un’eco suggestiva nel finale del<br />
De re publica <strong>di</strong> Cicerone, meglio noto come Somnium Scipionis. Anche la<br />
dottrina della metempsicosi, oltre a quella della sopravvivenza dell’anima<br />
dopo la morte e della sua preesistenza, apre in Platone prospettive escatologiche,<br />
quelle che prima Epicuro e poi il suo entusiasta <strong>di</strong>scepolo Lucrezio<br />
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