MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...

MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ... MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...

liceo.orazio.it
from liceo.orazio.it More from this publisher
05.06.2013 Views

leggi divine e alle norme della pietà umana. Le pie usanze che fino ad allora avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità degli arredi necessari, causata dal gran numero dei morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito dopo. L.II, § 53 Anche in campi diversi l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina. Si scatenarono dilagando impulsi prima lungamente repressi, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da sempre che ora, in un battere di ciglia, si ritrovava ricca di inattese eredità. Considerando ormai la vita e il danaro come beni di passaggio, bramavano piaceri e godimenti che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare in anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo nel mezzo del cammino. L’immediato piacere ed ogni espediente atto ad appagarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun freno di pietà divina o umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano più da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre nessuno concepiva il serio timore di arrivare vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante; e prima che s’abbattesse, era umano cercare di godere qualche po’ la vita” (traduzione di Ezio Savino). Le annotazioni di ordine psicologico fatte dallo storico greco a proposito di questo disordine collettivo diverranno un topos che ritornerà negli autori successivi: da Boccaccio (Proemio del Decameron) a Defoe (La peste di Londra) a Manzoni (I Promessi Sposi) a Camus (La Peste); ma, ai fini di un discorso interdisciplinare, a me interessa l’analoga rappresentazione proposta da Lucrezio nel De rerum natura con la livida scena dei parenti delle vittime che si disputano sanguinosamente, con aggressività ferina, un posto e uno spazio sulla pira su cui bruciare i cadaveri straziati. “Intanto nei campi i pastori, i bifolchi, i mandriani, i robusti aratori si ammalavano; ammucchiati in fondo a capanne sul fieno nella miseria e nel male giacevano. Si potevan vedere i gravi corpi degli uomini riversi sui fanciulli sfiniti e i figli sui padri e su le madri morire. E molti venivano in lacrime alla città pensando chissà mai di salvarsi – 144 –

aumentando il contagio: si mettevano dappertutto, gremivan le case, e la morte accumulava a cataste quanti più ne vedeva riuniti. Corpi assetati si rotolavano per le strade e vicino alle fontane morivano giunti appena su la freschezza dell’acqua. Molti errando coperti di cenci cadevano su liquido sterco stecchiti e chiazzati di ulcere. Miseria, pena, urgenza improvvisa spingevano a compiere gesti nefandi: alcuni con grandi clamori ponevan su roghi composti da altri le spoglie dei cari e vi appressavan le faci spesso lottando in risse cruente a difesa del morto; intorno ai sepolcri sorgevano aspre contese, e poi, sfiniti dal pianto, venivano via, e molti, oppressi d’affanno, s’abbattevan sul letto. Nessuno poteva trovarsi che non assalisse in quel tempo e morbo e morte e lutto” (L.VI De rerum natura, vv. 1246-1285 - Traduzione di Enzio Cetrangolo) Rispetto alla fonte greca questo quadro della peste di Atene viene amplificato ed arricchito di particolari che accentuano il pathos e il realismo della descrizione: è il caso dello “sterco liquido” su cui piombano i corpi stecchiti e piagati di ulcere, del pianto e dello sfinimento spirituale che rovescia sul letto i superstiti, mentre il riferimento a vere e proprie contese sanguinose, che si accendono con urla e faci intorno alle pire, contribuisce a sottolineare i comportamenti egoistici di collettività disgregate, per le quali nessuna legge umana e divina ha ormai valore. Si chiude con questo crescendo desolato, con un verso ricco di liquide e di allitterazioni, rallentato dalle congiunzioni neque... nec... nec (nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus / nec mors nec luctus temptaret tempore tali) il poema concepito da Lucrezio proprio per combattere a Roma la stessa battaglia che Epicuro aveva condotta nel mondo ellenistico in difesa dell’uomo: una battaglia per sottrarlo alla paura degli dei, al timore della morte, al timore dell’oltretomba, al timore del prossimo. Dedicando il suo poema all’aristocratico Memmio, infatti, Lucrezio si rivolgeva alla classe dirigente nel momento delle guerre civili per invitarla alla pratica del “lathe biosas”, alla ricerca del piacere catastematico, e al vincolo della filia (amicizia) disinteressata, capace di superare ad un tempo la grettezza del clientelismo romano, a cui si riducevano troppo spesso i – 145 –

leggi <strong>di</strong>vine e alle norme della pietà umana. Le pie usanze che fino ad allora<br />

avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno<br />

seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità<br />

degli arre<strong>di</strong> necessari, causata dal gran numero dei morti che avevano già avuto<br />

in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per<br />

altri e vi appiccavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno,<br />

mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi<br />

subito dopo.<br />

L.II, § 53 Anche in campi <strong>di</strong>versi l’epidemia travolse in più punti gli argini della<br />

legalità fino allora vigente nella vita citta<strong>di</strong>na. Si scatenarono <strong>di</strong>lagando impulsi<br />

prima lungamente repressi, alla vista <strong>di</strong> mutamenti <strong>di</strong> fortuna inaspettati e fulminei:<br />

decessi improvvisi <strong>di</strong> persone facoltose, gente povera da sempre che ora,<br />

in un battere <strong>di</strong> ciglia, si ritrovava ricca <strong>di</strong> inattese ere<strong>di</strong>tà. Considerando ormai<br />

la vita e il danaro come beni <strong>di</strong> passaggio, bramavano piaceri e go<strong>di</strong>menti che<br />

s’esaurissero in fretta, in sod<strong>di</strong>sfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare<br />

dallo zelo <strong>di</strong> impegnare in anticipo energie in qualche impresa ritenuta<br />

degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo nel mezzo del cammino.<br />

L’imme<strong>di</strong>ato piacere ed ogni espe<strong>di</strong>ente atto ad appagarlo costituivano gli unici<br />

beni considerati onesti e utili. Nessun freno <strong>di</strong> pietà <strong>di</strong>vina o umana regola:<br />

rispetto e sacrilegio non si <strong>di</strong>stinguevano più da parte <strong>di</strong> chi assisteva al quoti<strong>di</strong>ano<br />

spettacolo <strong>di</strong> una morte che colpiva senza <strong>di</strong>stinzione, ciecamente. Inoltre<br />

nessuno concepiva il serio timore <strong>di</strong> arrivare vivo a rendere conto alla giustizia<br />

dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante;<br />

e prima che s’abbattesse, era umano cercare <strong>di</strong> godere qualche po’ la vita”<br />

(traduzione <strong>di</strong> Ezio Savino).<br />

Le annotazioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne psicologico fatte dallo storico greco a proposito<br />

<strong>di</strong> questo <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne collettivo <strong>di</strong>verranno un topos che ritornerà negli<br />

autori successivi: da Boccaccio (Proemio del Decameron) a Defoe (La peste<br />

<strong>di</strong> Londra) a Manzoni (I Promessi Sposi) a Camus (La Peste); ma, ai fini<br />

<strong>di</strong> un <strong>di</strong>scorso inter<strong>di</strong>sciplinare, a me interessa l’analoga rappresentazione<br />

proposta da Lucrezio nel De rerum natura con la livida scena dei parenti<br />

delle vittime che si <strong>di</strong>sputano sanguinosamente, con aggressività ferina, un<br />

posto e uno spazio sulla pira su cui bruciare i cadaveri straziati.<br />

“Intanto nei campi i pastori, i bifolchi,<br />

i mandriani, i robusti aratori si ammalavano;<br />

ammucchiati in fondo a capanne sul fieno<br />

nella miseria e nel male giacevano.<br />

Si potevan vedere i gravi corpi degli uomini<br />

riversi sui fanciulli sfiniti e i figli sui padri<br />

e su le madri morire.<br />

E molti venivano in lacrime alla città<br />

pensando chissà mai <strong>di</strong> salvarsi<br />

– 144 –

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!