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MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...

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quella che legge “grida” nel senso <strong>di</strong> “invoca”. Ma perché i dannati<br />

dovrebbero invocare l’irrevocabile sentenza finale, quella che non lascia<br />

loro scampo e che, inoltre, inasprisce le loro sofferenze a causa<br />

della presenza del corpo? Se si leggono i vv. 109-111 del c. VI ci si<br />

rende conto del dramma estremo <strong>di</strong> queste anime, che possono aspirare<br />

(ed è umanamente legittimo che lo facciano) solo a tale misera<br />

perfezione, laddove per “perfezione” non si intende certo il ricongiungimento<br />

della creatura al Creatore, ma semplicemente la ricomposizione<br />

dell’unità originaria anima-corpo. Tuttavia rimane ancora una<br />

possibile lettura, legata ad un’interpretazione, per <strong>di</strong>r così, apocalittica,<br />

<strong>di</strong> “seconda morte”: tale espressione appare infatti nel testo <strong>di</strong><br />

Giovanni (Ap. 20,6 e 15), che parla <strong>di</strong> un totale annullamento dei malvagi<br />

in uno stagno <strong>di</strong> fuoco, dopo il giu<strong>di</strong>zio universale. Se ammettiamo<br />

tale ipotesi, dobbiamo comunque tenere ben presente il fatto che<br />

Dante, che parla <strong>di</strong> un Inferno eterno e <strong>di</strong> pene inestinguibili, qui sta<br />

riportando nient’altro che una <strong>di</strong>sperata illusione dei dannati: poiché il<br />

giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Dio è irreversibile (è il “magno volume / u’ non si muta<br />

mai bianco né bruno” <strong>di</strong> Pd. XV, 50-51) ad essi non resta che aggrapparsi<br />

all’attesa <strong>di</strong> un improbabile annichilimento <strong>di</strong> sé, che li precipiti<br />

in un eterno oblio.<br />

v. 118-119: e vederai...: come nei versi precedenti Dante ha evidenziato con<br />

poche sapienti linee quelli che sono gli aspetti principali dell’Inferno, e<br />

cioè l’irreversibilità e l’eternità della dannazione, così in questi caratterizza<br />

rapidamente la realtà del Purgatorio, che consiste nella speranza<br />

della salita al cielo e nella <strong>di</strong>sponibilità a sottoporsi alle pene più dure<br />

al fine <strong>di</strong> conseguire la libertà dal peccato: con felice sintesi Virgilio<br />

racchiude tutte queste in quella simbolica del “foco”, precisamente<br />

riservata ai lussuriosi della settima cornice, ma adattissima a descrivere<br />

l’azione purificatrice delle penitenze purgatoriali. En passant, nota<br />

l’epentesi in “vederai”.<br />

v. 120: quando che sia: nel mondo della dannazione non c’è “quando”,<br />

perché essa è eterna; il purgatorio, invece, vive <strong>di</strong> attesa, <strong>di</strong> un “quando<br />

che sia” che <strong>di</strong>pende dalla volontà <strong>di</strong> Dio ma anche dall’impegno purificatorio<br />

delle anime. Sembra <strong>di</strong> sentire nella voce <strong>di</strong> Virgilio una vibrazione<br />

<strong>di</strong> pianto sommesso, il rimpianto dell’irrevocabilità della sua<br />

lontananza da Dio, in un’attesa eterna ed eternamente inesau<strong>di</strong>ta.<br />

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