MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...
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v. 107: per cui morì...: come si evince dalla lettura del De Monarchia, che approfondisce le problematiche politiche nell’orizzonte di una prospettiva universalistica, Dante sente con forte urgenza il problema dell’unità d’Italia, che in lui si identifica con quella dell’Impero, unica garanzia di pace e stabilità. Per questo motivo riunisce, in una sintesi che amalgama vinti e vincitori, colonizzatori ed autoctoni, tutti i protagonisti dell’epos romano, quasi fossero gli attori che, calato il sipario, escono in scena presentandosi al pubblico. Ma Dante non crede che la “commedia” sia giunta all’ultimo atto. Quell’impero che costò tanto sangue e tanti sacrifici è ancor oggi una realtà possibile ed attuabile: anzi è doveroso, per il cristiano, battersi per ristabilirlo, in quanto esso rappresenta la manifestazione della volontà divina, che ha orientato tutta la storia del mondo in questo senso e che non può essere disattesa. Tanto più che, per realizzarlo, due popoli tanto lontani hanno fuso il loro sangue e le proprie tradizioni, in nome di un progetto pensato ab aeterno, quindi sacro e provvidenziale. Interessante sottolineare la parte di prima attrice che Dante ha assegnato a Camilla, la prima a presentarsi al lettore-spettatore: si tratta solo di calcoli prosodici, o di rima, oppure il Poeta vuole suggerirci un suo pensiero, un suo convincimento? Personalmente, seguendo la logica dantesca e, soprattutto, percependo qui il forte tentativo di persuadere il lettore, anche attraverso il coinvolgimento emotivo, della necessità dell’impero allora, ora e sempre, credo che il discorso del Poeta si possa tradurre press’a poco in questo modo: se la donna, tradizionalmente non partecipe della vita politica e bellica dei popoli, è potuta morire per l’impero, evidentemente questo reca impresso in sé il segno destinale della volontà divina. Una donna antica che muore per un ideale: uno sprone per l’uomo moderno a proseguire la sua opera, fidando nel sostegno di Colui che l’ha voluta. v. 109: Questi...: con la consueta efficacia realistica, Dante ci mostra qui un’immagine largamente utilizzata nella pittura del periodo: si tratta del motivo della caccia infernale, deterrente medioevale al peccato. Per quanto riguarda il gallicismo “villa”, credo che Dante non voglia qui porla come un’espressione generica, ma conferirle il suo proprio senso di “città”: proprio in essa, come più volte ricordato, risiedeva, per lui, il nucleo peccaminoso dei suoi tempi. – 136 –
v. 111: invidia prima: il significato dell’espressione dipende dalla funzione grammaticale di “prima”: se la si considera avverbio, allora Dante ha voluto riferirsi alla primigeneità del peccato dell’invidia, antico quanto l’uomo; se al contrario, come mi sembra più plausibile, “prima” è usato dal Poeta come aggettivo, l’immagine che ne scaturisce è quella dell’invidia in persona, Lucifero, che, volendo assurgere alla potenza di Dio, incarna la prima terribile esemplificazione di quel peccato così rovinoso per l’umanità. A sostegno di tali ipotesi intervengono un passo biblico (tra cui Sap. 2,24: “Invidia autem diaboli mors introivit in orbem terrarum”) e la consuetudine metonimica medioevale di indicare una persona con la sua caratteristica principale (Dio è chiamato “primo amore” in Inf. III, 6). v. 112: Ond’io...: Dante non perde occasione per chiarire il carattere Virgilio, ma soprattutto il suo ruolo di accompagnatore razionale che si propone non solo come indicatore di un iter, ma anche nelle vesti di guida operativa, pronta a spiegare ed a risolvere dubbi e problemi del Poeta: in questo senso va letta l’espressione “penso e discerno” che, lungi dal costituire un’endiadi, indica proprio questa duplice specificità funzionale di Virgilio. Infatti segue la promessa “e io sarò tua guida”, che rassicura Dante sulla competenza e sulla fattività del maestro. Per quanto riguarda “me’”, si tratta di un’apocope. vv. 114 segg.: e trarrotti...: Dante affida a Virgilio il compito poetico della protasi, lasciandogli esporre il piano dell’opera; tuttavia dietro, o meglio accanto a questa scelta che potremo definire “metaletteraria” (parafrasando il concetto di metateatro) si colloca un preciso percorso teologico tratto di peso dal testo tomistico. Il viaggio nei tre regni, infatti, non è altro che il pellegrinaggio dell’anima attraverso le varie fasi della sua vita spirituale, ognuna necessaria al raggiungimento del “ben dell’intelletto” (Dio): l’esperienza visiva del peccato ed il turbamento che questo provoca (inferno); la determinazione ad uscire dallo stato peccaminoso attraverso la sofferenza e la riflessione sull’essenza della virtù (purgatorio); la contemplazione di Dio, essenza pura della beatitudine, realizzazione della massima aspirazione di ogni cristiano (paradiso). Da notare la grafia “etterno”, trascrizione medioevale del latino ecternus. A proposito dell’eternità dell’inferno (infatti è solo questo il “loco etterno” cui accenna Virgilio), mi sembra di ravvisare in questa – 137 –
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v. 107: per cui morì...: come si evince dalla lettura del De Monarchia,<br />
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prospettiva universalistica, Dante sente con forte urgenza il problema<br />
dell’unità d’Italia, che in lui si identifica con quella dell’Impero,<br />
unica garanzia <strong>di</strong> pace e stabilità. Per questo motivo riunisce, in<br />
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tutti i protagonisti dell’epos romano, quasi fossero gli attori che, calato<br />
il sipario, escono in scena presentandosi al pubblico. Ma Dante<br />
non crede che la “comme<strong>di</strong>a” sia giunta all’ultimo atto. Quell’impero<br />
che costò tanto sangue e tanti sacrifici è ancor oggi una realtà possibile<br />
ed attuabile: anzi è doveroso, per il cristiano, battersi per ristabilirlo,<br />
in quanto esso rappresenta la manifestazione della volontà<br />
<strong>di</strong>vina, che ha orientato tutta la storia del mondo in questo senso e<br />
che non può essere <strong>di</strong>sattesa. Tanto più che, per realizzarlo, due<br />
popoli tanto lontani hanno fuso il loro sangue e le proprie tra<strong>di</strong>zioni,<br />
in nome <strong>di</strong> un progetto pensato ab aeterno, quin<strong>di</strong> sacro e provvidenziale.<br />
Interessante sottolineare la parte <strong>di</strong> prima attrice che Dante ha assegnato<br />
a Camilla, la prima a presentarsi al lettore-spettatore: si tratta solo <strong>di</strong><br />
calcoli proso<strong>di</strong>ci, o <strong>di</strong> rima, oppure il Poeta vuole suggerirci un suo<br />
pensiero, un suo convincimento? Personalmente, seguendo la logica<br />
dantesca e, soprattutto, percependo qui il forte tentativo <strong>di</strong> persuadere il<br />
lettore, anche attraverso il coinvolgimento emotivo, della necessità dell’impero<br />
allora, ora e sempre, credo che il <strong>di</strong>scorso del Poeta si possa<br />
tradurre press’a poco in questo modo: se la donna, tra<strong>di</strong>zionalmente non<br />
partecipe della vita politica e bellica dei popoli, è potuta morire per<br />
l’impero, evidentemente questo reca impresso in sé il segno destinale<br />
della volontà <strong>di</strong>vina. Una donna antica che muore per un ideale: uno<br />
sprone per l’uomo moderno a proseguire la sua opera, fidando nel<br />
sostegno <strong>di</strong> Colui che l’ha voluta.<br />
v. 109: Questi...: con la consueta efficacia realistica, Dante ci mostra qui<br />
un’immagine largamente utilizzata nella pittura del periodo: si tratta del<br />
motivo della caccia infernale, deterrente me<strong>di</strong>oevale al peccato. Per<br />
quanto riguarda il gallicismo “villa”, credo che Dante non voglia qui<br />
porla come un’espressione generica, ma conferirle il suo proprio senso<br />
<strong>di</strong> “città”: proprio in essa, come più volte ricordato, risiedeva, per lui,<br />
il nucleo peccaminoso dei suoi tempi.<br />
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