MISCELLANEA 2004 2005.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...
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v. 7: amara: Dante ricorre qui ad una metafora tratta dall’ambito del gusto,<br />
al fine <strong>di</strong> rendere con maggiore densità la realtà sensibile che ha vissuto<br />
ed in cui intende attrarre il lettore; spesso il Poeta si avvarrà <strong>di</strong> tale possibilità<br />
espressiva, specialmente quando sarà assolutamente necessario<br />
il coinvolgimento totale <strong>di</strong> chi legge (è il caso, ad esempio, <strong>di</strong> Pd. XVII,<br />
117, “a molti fia sapor <strong>di</strong> forte agrume”, dove stringe l’urgenza <strong>di</strong> riba<strong>di</strong>re<br />
l’impegno dell’intellettuale anche <strong>di</strong> fronte al pericolo <strong>di</strong> “perder<br />
vita”, in ogni senso). Per dovere <strong>di</strong> cronaca, si segnala l’ipotesi, ormai<br />
datata, secondo cui “amara” non sia riferibile a “selva” bensì a “paura”.<br />
morte: solo un pensiero estremo può concludere degnamente l’escalation<br />
emotiva aperta dall’“ah” <strong>di</strong> v. 4; e certamente niente è più amaro della<br />
morte, specialmente quando quella fisica evoca all’immaginazione una<br />
morte ben più temibile, la dannazione indotta dal peccato, che è morte<br />
spirituale. Colonna sonora <strong>di</strong> questa prima, sal<strong>di</strong>ssima sequenza è il<br />
sistema fonematico, nella stu<strong>di</strong>ata prevalenza dei suoni aspri (tn, r, rt).<br />
v. 8: ma: come spesso in Dante, anche stavolta l’avversativa viene rivestita<br />
<strong>di</strong> un valore enfatico che va ben oltre la semplice retorica: qui si<br />
adombra un accenno <strong>di</strong> salvezza “ch’era follia sperar” in una situazione<br />
apparentemente chiusa e <strong>di</strong>sperante. Si fa strada, insomma, una Presenza<br />
che ad inizio canto sembrava inimmaginabile: Dio, che nel momento<br />
più arduo, nonostante ci si senta sconsolatamente soli, manifesta<br />
il Suo esserci che restituisce l’uomo a se stesso, alla propria capacità<br />
<strong>di</strong> agire e reagire (donde lo sciamare <strong>di</strong> “io”, prima mai osati, dei vv. 8,<br />
9, 10).<br />
ben: si è molto congetturato sulla realtà del “ben” che Dante trovò nella<br />
selva: i più hanno pensato all’incontro con Virgilio, che porta alla conoscenza<br />
del male (Inferno), al ravve<strong>di</strong>mento (Purgatorio) e quin<strong>di</strong> alla<br />
salvezza (Para<strong>di</strong>so); Di Salvo ritiene invece non trattarsi <strong>di</strong> persona o<br />
evento, bensì del proposito, nato nel cuore del Poeta, <strong>di</strong> liberarsi dal<br />
peccato. Credo più plausibile quest’ultima ipotesi, che raffigura in<br />
Dante la svolta coscienziale già in<strong>di</strong>viduata dal “ma” del nostro verso e<br />
che anticipa enigmaticamente ma con certezza <strong>di</strong> positività l’esito <strong>di</strong><br />
quella che è, ricor<strong>di</strong>amolo, una “comedìa”.<br />
v. 9: altre cose: il significato dell’espressione è, evidentemente, strettamente<br />
collegato a quello <strong>di</strong> “ben”: chi preferisce per questo l’interpretazione<br />
“materiale” deve necessariamente vedere nelle “altre cose” le tre<br />
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