Migrazioni e formazione delle società moderne - Scienze ...
Migrazioni e formazione delle società moderne - Scienze ...
Migrazioni e formazione delle società moderne - Scienze ...
You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
<strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong><br />
<strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Introduzione<br />
Marco Breschi e Alessio Fornasin<br />
Innanzitutto una definizione di emigrazione. Non tutti gli studiosi del fenomeno,<br />
infatti, attribuiscono al termine sempre lo stesso significato. Pertanto è opportuno<br />
specificare come la parola verrà usata in questo lavoro.<br />
Il significato che adotteremo per “emigrazione” sarà molto esteso. Nella definizione<br />
faremo rientrare molti di quei movimenti di donne e di uomini che potrebbero<br />
essere compresi nel concetto, anch’esso molto generale, di mobilità. Intenderemo<br />
perciò come emigrazione non solo i flussi definitivi o di lungo periodo, ma pure<br />
quelli di breve durata, come gli spostamenti stagionali di manodopera, i pellegrinaggi,<br />
i trasferimenti per motivi di studio, cioè tutti quei movimenti che, seppur limitati<br />
nel tempo, presuppongono una base di arrivo nei luoghi di immigrazione: una abitazione,<br />
un rifugio, un recapito. In analogia a quanto fatto con la variabile temporale,<br />
considereremo migrazioni anche gli spostamenti che, indipendentemente dalla<br />
distanza percorsa, indicano una “ricontestualizzazione sociale” dell’emigrante, come<br />
i trasferimenti dalla campagna alla città, da un villaggio a un altro, da comune a<br />
comune.<br />
Una definizione così estesa del fenomeno pone, però, diversi problemi di carattere<br />
interpretativo.<br />
Per costruire una mappa che definisca sinteticamente il sistema <strong>delle</strong> migrazioni<br />
mondiali è sufficiente conoscere la percentuale di residenti in un determinato stato<br />
che siano nati al di fuori dei suoi confini. La Figura I.1 è stata costruita seguendo<br />
questo criterio. Essa offre due tipi di informazioni. La prima riguarda il numero<br />
assoluto di immigrati viventi, in un dato istante, in ogni singolo paese. La seconda<br />
concerne la percentuale degli immigrati sul totale della popolazione residente.<br />
Marco Breschi, professore di Demografia all’Università di Udine, si è occupato di problemi metodologici<br />
per lo studio <strong>delle</strong> popolazioni in età moderna e contemporanea, come pure della ricostruzione dell’andamento<br />
demografico in Italia. Tra i suoi lavori: La popolazione della Toscana dal 1640 al 1940, Firenze<br />
1990, e, in collaborazione con G. De Santis, Il metodo dei figli propri in demografia storica, Bologna<br />
1995.<br />
Alessio Fornasin, assegnista in Demografia all’Università di Udine, si è occupato di diversi aspetti economici<br />
e sociali del Friuli in età moderna e contemporanea. Tra i suoi lavori: L’emigrazione dalla Carnia in<br />
età moderna, Verona 1998 e La Patria del Friuli in età moderna. Saggi di Storia economica, Udine 2000.<br />
41
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
L’immagine proposta è molto efficace e indica immediatamente, attraverso la<br />
diversa superficie <strong>delle</strong> entità politiche riportate in mappa, quale sia oggi (più precisamente<br />
al 1989) la consistenza su scala mondiale dei flussi migratori; mostra<br />
poi l’impatto dell’immigrazione dal punto di vista demografico mettendo in rilievo,<br />
mediante l’utilizzo di colorazioni diverse, la forza di attrazione <strong>delle</strong> singole<br />
aree del globo terrestre. Risultano chiare le tendenze migratorie a livello mondiale,<br />
e cioè come i flussi si indirizzino prevalentemente verso i paesi più sviluppati.<br />
Quello che la mappa non ci dice è che la maggior parte dei 100 milioni di emigranti<br />
internazionali che si calcola vi siano nel pianeta provengono dai paesi del Terzo<br />
Mondo.<br />
Da un certo punto di vista, una successione per scansioni temporali di immagini<br />
come la Figura I.1, emendata <strong>delle</strong> assenze “eccellenti” 1 , permetterebbe di ricostruire<br />
una storia <strong>delle</strong> migrazioni mondiali. Tuttavia, questo modo di procedere<br />
sarebbe molto parziale. La rappresentazione proposta, infatti, oltre a assumere<br />
come punto di vista quello dei paesi di destinazione, avalla l’impressione che l’emigrazione<br />
sia un fenomeno che si trasformi molto lentamente. È il difetto di tutte le<br />
fotografie. Esse mal si prestano a descrivere una realtà in movimento, perché ne<br />
restituiscono una immagine nel contempo “vera”, in quanto incontestabile, ma<br />
“falsa”, in quanto non direttamente percepibile. Questa raffigurazione, quindi, è<br />
tanto meno approssimata alla realtà quanto maggiore è la velocità e la variabilità<br />
dei mutamenti che deve descrivere. Nei periodi in cui gli eventi si susseguono e si<br />
accavallano con grande velocità le “fotografie” potrebbero evidenziare anche a<br />
distanza di pochi anni, <strong>delle</strong> situazioni completamente diverse.<br />
C’è poi un altro problema. Le statistiche sull’emigrazione, anche quelle più recenti,<br />
sono abbastanza chiare per quanto riguarda i movimenti tra uno stato e l’altro.<br />
Molto meno sui movimenti all’interno di uno stesso paese.<br />
Questa de<strong>formazione</strong>, derivante spesso dalla stessa documentazione di base, se<br />
da una parte amplifica la mobilità di quelle aree contraddistinte da una fitta ragnatela<br />
di confini - l’Europa, anche in prospettiva storica, si connota come un continente<br />
molto mobile -, dall’altra fa sembrare povere di flussi migratori vastissime<br />
aree prive di delimitazioni politiche. Quanto detto è valido per il passato (si pensi,<br />
ad esempio, alle nostre conoscenze pressoché nulle sugli spostamenti umani nell’America<br />
precolombiana o nell’Africa subsahariana fino al termine del secolo scorso),<br />
ma anche per periodi molto più recenti, basti considerare la mobilità interna<br />
alla Cina o alla Russia, due dei più vasti e popolati stati della Terra. Alcune <strong>delle</strong><br />
problematiche che abbiamo richiamato rappresentano dei seri ostacoli per una<br />
quantificazione dell’emigrazione in chiave storica.<br />
1 Tra le altre, si notano le assenze particolarmente evidenti di Cina e Urss.<br />
42
Figura I.1 - La popolazione migrante nel 1989<br />
Fonte: United Nations, st/esa/ser. n. 27 - Add. 1, 1989<br />
43
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
A tal fine, sulla base della definizione che ne abbiamo dato e per i limiti imposti<br />
dalla qualità e quantità dei dati disponibili, ci è sembrato opportuno ricorrere a<br />
una classificazione dell’emigrazione che, pur risolvendo solo una minima parte di<br />
questi problemi, ha perlomeno il merito di circoscriverli e tenerli separati. Nelle<br />
pagine che seguono, il fenomeno viene distinto in tre parti.<br />
Emigrazioni e modelli<br />
Un modello esplicativo soddisfacente per interpretare l’emigrazione come un unico<br />
fenomeno ancora non esiste. Esistono invece <strong>delle</strong> classificazioni che si basano<br />
ognuna su presupposti di tipo diverso. La maggioranza di esse è di tipo funzionale,<br />
le migrazioni, cioè, sono distinte in politiche, religiose, di lavoro, ecc. Altre sono<br />
binarie e pongono, quindi, una sola discriminante che divide il fenomeno in due<br />
grandi categorie, contrassegnandole, ad esempio, come volontarie o involontarie,<br />
oppure come interne o internazionali, e così via. Qualunque sia il criterio adottato<br />
nel classificare le emigrazioni, il difficile è proprio coglierne il tratto unificante, che<br />
non sia quello meramente definitorio.<br />
Pertanto, consci <strong>delle</strong> problematiche insite all’interno di questo schema, non intendiamo<br />
suggerire un unico modello per spiegare l’emigrazione, ma proporne alcuni<br />
- tra i tanti possibili - così come si sono venuti storicamente determinando. Cercheremo<br />
quindi di porre in rilievo, in forma estremamente concisa, i motivi principali<br />
che generarono alcune specifiche emigrazioni e l’aspetto che effettivamente esse<br />
assunsero.<br />
Nella prima viene considerata l’emigrazione di tipo intercontinentale, sicuramente<br />
la meglio conosciuta; nella seconda quella intracontinentale e intrastatale,<br />
comprensiva dell’emigrazione circolare; nella terza l’emigrazione verso le aree<br />
urbane.<br />
1. Le migrazioni intercontinentali dal 1492 al 1942<br />
1.1 L’età moderna<br />
Indipendentemente dal loro impatto demografico, dalla scoperta dell’America<br />
in poi non vi è dubbio che le migrazioni più studiate, oltre che meglio “leggibili”,<br />
sono quelle intercontinentali. Ovviamente non si può attribuire alla scoperta del<br />
Nuovo Mondo la nascita <strong>delle</strong> migrazioni a lungo raggio, tuttavia questo evento<br />
segnò una svolta epocale dal punto di vista degli spostamenti umani.<br />
Alcuni dei principali flussi migratori internazionali degli ultimi secoli sono ben<br />
sintetizzati nella Figura 1.1. L’immagine rende immediatamente visibile il ruolo<br />
importante del continente americano nel catalizzare la parte più consistente di<br />
queste correnti.<br />
44
Figura 1.1 - Le principali correnti migratorie mondiali dal XVI al XIX secolo<br />
Fonte: Shepherd [1964, 177]<br />
45
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
L’impresa colombiana, come oramai è accertato, non segnò il primo contatto<br />
europeo con le Americhe. Altri, forse numerosi, avvennero in epoche precedenti a<br />
opera dei vichinghi, ma non è escluso che vi fossero stati casuali contatti in tempi<br />
ancora più antichi. Queste azioni però non costituirono una vera e propria scoperta,<br />
ma <strong>delle</strong> relazioni sporadiche.<br />
Con la scoperta “ufficiale” del 1492 e con i viaggi di esplorazione che interessarono<br />
tutti gli angoli del globo, l’uomo cominciò finalmente a concepire il mondo<br />
nella sua interezza. Certo il processo di conoscenza fu lungo e graduale, nondimeno<br />
l’idea della Terra come entità definita ed esplorabile cominciava solo allora ad<br />
assurgere a modello consapevole.<br />
L’inizio dell’azione degli europei si manifestò innanzitutto per opera dei conquistadores.<br />
Nello spazio di tempo relativamente breve di un secolo, spagnoli e<br />
portoghesi presero possesso di immense regioni dell’America meridionale e centrale.<br />
Tali spettacolari progressi dal punto di vista territoriale non furono però<br />
accompagnati da altrettanto notevoli flussi migratori. Le sbalorditive imprese di<br />
Cortés e Pizarro vennero compiute grazie alla disciplina e all’organizzazione dei<br />
soldati europei e all’utilizzo <strong>delle</strong> armi da fuoco, ma i protagonisti della conquista<br />
furono poche centinaia.<br />
L’effettiva penetrazione umana nel continente si attuò, seppure in maniera<br />
costante, molto più lentamente, attraverso un processo secolare di metabolizzazione.<br />
Naturalmente, gli arrivi non seguirono un andamento lineare e i calcoli relativi<br />
al numero di immigrati sono spesso frutto di operazioni indiziarie. Si tenterà qui<br />
di riepilogare l’entità di questi flussi per ampie scansioni temporali.<br />
Nel XVI secolo, secondo stime accolte da più studiosi, gli spagnoli che emigrarono<br />
nell’America del Sud furono circa 243.000, con una media di 2.600 persone all’anno.<br />
Nella prima metà del secolo successivo, grazie anche a una migliorata capacità<br />
di trasporto <strong>delle</strong> navi, in soli 50 anni gli arrivi assommarono a 195.000 persone.<br />
La media annuale è qui salita a 3.600 individui [Mörner 1985]. Nel secolo XVIII si<br />
ritiene che gli immigrati in queste stesse regioni fossero solo 53.000, poco più di<br />
500 all’anno [Sánchez-Albornoz 1997, 31]. Dal punto di vista contabile si registra<br />
quindi una contrazione dei flussi. Il mutato rapporto di forze - politico ed economico<br />
- tra le potenze europee si riverberava in questo modo sulla consistenza dell’emigrazione.<br />
Anche in Brasile, durante il periodo coloniale, il numero degli europei ad entrare<br />
nel paese fu relativamente contenuto [Marcílio 1997]. La maggior parte erano<br />
portoghesi, ma alcuni coloni provenivano anche da altri stati. A metà Cinquecento<br />
gli immigrati non erano più di 3 o 4.000, nel 1570 circa 20.000, 10 anni dopo pressappoco<br />
30.000. In questo numero sono però considerati anche i discendenti dei<br />
coloni, i quali, nel frattempo, avevano cominciato a moltiplicarsi. Alla fine del XVII<br />
secolo, nel paese i bianchi erano circa 100.000, la maggior parte dei quali dediti<br />
allo sfruttamento <strong>delle</strong> risorse agricole. Solo in questo periodo, con la scoperta<br />
<strong>delle</strong> miniere d’oro di Minas Gerais, vi fu la prima immigrazione di massa. Oltre<br />
alle correnti interne, che da varie parti del continente concentrarono buona parte<br />
della popolazione nella zona mineraria, vi si trasferì anche un gran numero di lusitani.<br />
Si calcola che, durante il Settecento, un numero di individui oscillante dai 300<br />
ai 500.000 lasciasse il Portogallo, che contava mediamente due milioni di abitanti,<br />
46
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
per emigrare in Brasile, costringendo addirittura la corona a prendere <strong>delle</strong> severe<br />
misure per contenerne il flusso. Se queste cifre sono attendibili è possibile che, nel<br />
periodo considerato, il contributo del Portogallo alle emigrazioni internazionali<br />
fosse, in relazione alla sua popolazione, il più importante d’Europa. I portoghesi<br />
provenivano da tutte le regioni della madrepatria, da tutte le categorie professionali<br />
e classi sociali.<br />
Se, per quanto riguarda l’America meridionale, la colonizzazione era realtà fin<br />
dal Cinquecento, altro discorso vale per l’America settentrionale, dove il primo<br />
insediamento britannico permanente risale solo al 1607. Seppur con tempi e<br />
modalità poco affini e in un contesto molto diverso, anche gli stanziamenti inglesi<br />
e poi francesi in questi territori, analogamente a quelli spagnoli e portoghesi, si<br />
distinsero per il fatto di essere completamente separati dal contesto sociale preesistente.<br />
Nei secoli dell’età moderna, nel Nuovo Continente, non vi fu alcuna compenetrazione<br />
tra razze e culture, ma contrapposizione.<br />
La conquista del territorio e il popolamento da parte dei nuovi arrivati avvennero<br />
molto più lentamente che nel Sud. Nel 1620, nell’area degli attuali Stati Uniti si<br />
contavano solamente 2.300 coloni. Nella nuova Francia, alla metà del Seicento, gli<br />
abitanti erano appena mezzo migliaio. Tuttavia, seppur molto gradualmente,<br />
anche nell’America settentrionale si verificarono tra il XVII e il XVIII secolo degli<br />
importanti trasferimenti di uomini.<br />
L’emigrazione come colonizzazione: i francesi in Canada<br />
Nel corso dell’età moderna, l’emigrazione dei coloni francesi verso le Americhe fu<br />
piuttosto limitata. Essa, infatti, fu molto meno consistente rispetto a quelle iberica<br />
e britannica, anche se venne incentivata periodicamente dallo stato.<br />
In alcuni periodi, come ad esempio all’epoca di Colbert, la colonizzazione veniva<br />
incoraggiata per consolidare la presenza francese sugli immensi territori che<br />
appartenevano alla corona. I sistemi attuati per perseguire questo obiettivo furono<br />
diversi, come quello di concedere dei passaggi gratuiti sulle navi o effettuare generose<br />
donazioni di terra. Agevolazioni particolari erano offerte ai veterani dell’esercito,<br />
mentre la propaganda governativa esaltava la ricchezza <strong>delle</strong> colonie. Accanto<br />
a questi sistemi, ne vigevano altri meno indolori. Ad esempio, per “rifornire” di<br />
donne le colonie, venivano portate forzatamente nel Nuovo Continente <strong>delle</strong> ragazze<br />
orfane. Inoltre, molto spesso, vi venivano deportati vagabondi e piccoli criminali.<br />
Nonostante tutto, la pressione dello stato, anche se esercitata solo rapsodicamente,<br />
non ottenne gli effetti sperati e i flussi non decollarono mai. I possedimenti francesi<br />
oltreoceano rimasero poco densamente abitati per lo scarso apporto di coloni dalla<br />
madrepatria. Coloro però che vi si erano stabiliti si moltiplicarono a un ritmo eccezionalmente<br />
alto. In poco tempo la popolazione, seppur esigua dal punto di vista<br />
assoluto, crebbe notevolmente. La secolare tendenza all’aumento del numero di<br />
abitanti della colonia si deve, quindi, principalmente agli alti tassi di fecondità.<br />
47
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Intorno al 1700, gli immigrati europei e africani negli Stati Uniti erano 250.000,<br />
mentre nell’attuale regione canadese solo 20.000, ma tra essi vi erano molti discendenti<br />
<strong>delle</strong> prime correnti migratorie. A questa data, la maggior parte della popolazione<br />
libera dell’America del Nord era composta da lavoratori poveri dell’Inghilterra<br />
e dell’Olanda. Essi non provenivano dagli strati più infimi della popolazione, ma<br />
erano contadini, artigiani, commercianti. Molti di questi erano giunti in America<br />
in qualità di “servi a contratto”, persone cioè che per far fronte all’alto costo del<br />
viaggio transoceanico si vincolavano per quattro anni o più a prestare servizio<br />
presso un padrone. Nella sola regione del Chesapeake dal 1630 al 1700 ne approdarono<br />
circa 100.000.<br />
La causa di tali lenti progressi nel popolare queste terre viene attribuita al fatto<br />
che qui l’avanzata degli europei non era sorretta da una volontà espressa dagli stati<br />
di origine dei coloni, ma le differenze tra le due Americhe non si fermavano qui.<br />
Mentre al Sud l’emigrazione era essenzialmente motivata dai progetti di conquista<br />
e colonizzazione, al Nord, una parte non secondaria <strong>delle</strong> sue diverse componenti<br />
si connotava per i suoi contenuti ideali e religiosi. Il New England, in particolare,<br />
venne considerato a lungo una terra dove era possibile costruire una nuova<br />
<strong>società</strong>. Così prima vi approdarono i padri pellegrini, poi i puritani, poi molti altri<br />
perseguitati per questioni di culto da tutta Europa. Nel corso del tempo questa<br />
caratteristica non andò perduta. Nacquero nuove correnti, alcune <strong>delle</strong> quali si<br />
esaurirono in un breve lasso di tempo. Giunsero gruppi di ugonotti fuggiti dalla<br />
Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes, gruppi di scozzesi presbiteriani che<br />
provenivano dall’Ulster e così via. Qui, come sottolinea Bernard Bailyn [1985, trad.<br />
it. 1987, 44], gli immigrati “non erano arrivati in un’unica ondata massiccia, né<br />
sotto una direzione centralizzata e neppure in un intervallo limitato di anni. Giunsero<br />
invece - e nel corso del secolo continuarono ad arrivare - in modo discontinuo e<br />
nelle più svariate circostanze. L’immigrazione e la colonizzazione furono organizzate<br />
da singoli individui o da compagnie private e la storia del processo di insediamento<br />
non è fatta di un unico episodio decisivo, ma di svariate singole avventure”.<br />
Con l’ingresso nel XVIII secolo la popolazione cominciò a crescere molto rapidamente,<br />
ma non furono tanto le migrazioni a sostenere questa crescita - anche se ve<br />
ne furono alcune di una certa intensità -, quanto gli alti tassi di natalità che si registrarono<br />
in alcuni territori. Tuttavia, nonostante la crescita naturale della popolazione<br />
e il permanere <strong>delle</strong> correnti migratorie, al momento della Dichiarazione di<br />
Indipendenza, i territori colonizzati erano solo una parte relativamente piccola<br />
rispetto agli immensi spazi che ancora rimanevano da esplorare.<br />
Complessivamente, per l’America settentrionale le cifre relative agli arrivi sono<br />
assai più incerte che per quella meridionale, e sono perlopiù frutto di congetture.<br />
Possiamo ipotizzare, comunque, che dalla sola Inghilterra fino al 1800 giungessero<br />
nel Nuovo Mondo oltre 1 milione di coloni, ai quali bisogna sommare i contributi<br />
non secondari di irlandesi, scozzesi e tedeschi, il cui numero complessivo è forse<br />
valutabile in 500.000 individui. Molto inferiore l’emigrazione dalla Francia, stimata<br />
in poche decine di migliaia di coloni sparsi tra Canada e Antille.<br />
In generale, sulla base di questi numeri, possiamo affermare che la conquista<br />
del Nuovo Mondo da parte, soprattutto, di spagnoli, portoghesi, olandesi, inglesi e<br />
francesi non comportò spostamenti di grandi masse di uomini. Però, l’immigrazio-<br />
48
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
ne dai paesi dell’Europa atlantica, che abbiamo fin qui trattato, fu solo una parte<br />
minoritaria dei flussi che interessarono il Nuovo Continente. La parte più consistente,<br />
infatti, era data dalle correnti provenienti dall’Africa.<br />
In seguito allo sfruttamento <strong>delle</strong> enormi ricchezze americane, le economie dell’area<br />
atlantica si andavano sempre più integrando in un singolo sistema dominato<br />
dalle emergenti forze del mercato. Una <strong>delle</strong> conseguenze del mutato quadro<br />
economico internazionale fu il formarsi del commercio triangolare che coinvolgeva<br />
i continenti che si affacciavano sull’oceano. Nell’ambito dei nuovi circuiti, il<br />
ruolo dell’Africa era quello di rifornire alle economie in forte crescita <strong>delle</strong> colonie<br />
gli schiavi di cui avevano bisogno. L’Europa, grazie alla supremazia economica e<br />
militare, era riuscita a volgere a proprio vantaggio la situazione e, anche grazie allo<br />
sfruttamento dell’Africa, ad alimentare il proprio sviluppo interno [Inikori 1992].<br />
Gli esiti di questo processo sul piano <strong>delle</strong> migrazioni umane furono macroscopici.<br />
L’Africa subsahariana, dal secolo XVI alla metà del XIX, introdusse nel sistema<br />
milioni di lavoratori coatti. Nel corso di tutto questo periodo i deportati provenivano<br />
principalmente dall’area occidentale e centrale: Senegambia, Sierra Leone,<br />
Benin, Congo. Essi dapprima furono impiegati nelle piantagioni <strong>delle</strong> isole caraibiche,<br />
poi, via via in quelle di tutta l’America. I flussi della manodopera schiava si<br />
articolarono nel corso degli anni seguendo lo sviluppo della produzione agricola<br />
nei diversi territori e sulla base della domanda di beni di consumo che si era strutturata<br />
sul continente europeo.<br />
Le cifre disponibili, pur non essendo sicure, sono maggiormente attendibili<br />
rispetto a quelle relative ai coloni europei. Secondo le stime molto prudenti di Philip<br />
Curtin [1969], nei territori spagnoli approdarono circa 75.000 schiavi durante il<br />
XVI secolo, mentre in Brasile ne giunsero 50.000. In totale, nel Cinquecento, si calcola<br />
che arrivarono in America poco meno di 250.000 africani. Nel secolo successivo<br />
il numero degli schiavi importati fu prossimo a 1.500.000. Nel corso del Settecento<br />
ne giunsero più di cinque milioni. Infine, dalla chiusura del secolo alla definitiva<br />
messa al bando della tratta, ne arrivarono quasi tre milioni. Come si può<br />
constatare, il volume <strong>delle</strong> importazioni fu, fin quasi alla fine del periodo, in<br />
costante crescita, sia perché i neri sempre più spesso venivano impiegati per rimpiazzare<br />
gli indios, sia per lo sviluppo della coltivazione di canna da zucchero e<br />
tabacco.<br />
Come vedremo anche in altri casi, l’emigrazione poteva servire a sostituire una<br />
forza lavoro non più disponibile. Il tracollo demografico <strong>delle</strong> popolazioni autoctone<br />
finì infatti per alimentare sempre maggiori importazioni di manodopera<br />
coatta. È interessante osservare che nella nuova Spagna le importazioni di schiavi<br />
ebbero andamento opposto all’evoluzione dell’immigrazione europea. Mentre<br />
questa, come abbiamo visto, calò, quella dall’Africa aumentò. Gli ingressi furono<br />
particolarmente imponenti in Brasile, dove, nel corso del Seicento, quelli degli<br />
schiavi costituirono oltre il 40% del totale, e più del il 30% nel secolo successivo.<br />
Tirando le somme, in questo paese entrarono in tre secoli circa 2.500.000 di neri,<br />
destinati a salire a oltre tre milioni se consideriamo anche la prima metà dell’Ottocento.<br />
Anche per questi flussi, analogamente a quanto era accaduto per le migrazioni<br />
volontarie, l’America settentrionale fu in ritardo rispetto a quella del Sud. Il primo<br />
49
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
carico di schiavi, infatti, vi giunse solo nel 1674. Dopo questa data, gli arrivi si<br />
intensificarono costantemente, in quanto la domanda di questo tipo di manodopera<br />
si fece più forte con il calare degli ingressi dei servi a contratto.<br />
Naturalmente, per quanto riguarda il traffico di schiavi, un aspetto contabile<br />
dalle implicazioni drammatiche fu che il numero degli sbarchi era di gran lungo<br />
inferiore a quello degli imbarchi. Questo tragico “sbilancio” non mancò di avere,<br />
nel lungo periodo, i suoi effetti sul popolamento dell’Africa subsahariana.<br />
Come abbiamo visto, il continente americano divenne, in un lasso di tempo<br />
relativamente breve, la meta di gran lunga più importante <strong>delle</strong> migrazioni a lungo<br />
raggio di tutta l’età moderna, primato che le sarà conteso solo molto più tardi<br />
proprio dall’Europa. Le correnti che vi facevano capo non furono però, su scala<br />
mondiale, le uniche.<br />
Un altro flusso migratorio decisamente molto consistente, ma sul quale non<br />
sappiamo molto, fu quello della tratta degli schiavi africani in Asia. Si trattava di<br />
flussi che avevano origini molto più antiche rispetto a quelli atlantici. Le aree di<br />
provenienza erano quelle della costa orientale, mentre gli sbocchi erano prevalentemente<br />
la penisola araba, l’India, l’Indonesia. In età moderna queste correnti si<br />
indirizzavano anche verso le città coloniali europee [Harris 1992]. È probabile che<br />
nel complesso questi movimenti abbiano coinvolto diversi milioni di individui<br />
[Segal 1993, 14].<br />
Nel medesimo lasso di tempo si crearono numerose correnti migratorie, in<br />
genere di scarsa consistenza numerica, ma che fecero arrivare gli europei un po’<br />
ovunque nel mondo. Tanto in Africa che in Asia, però, i coloni si limitarono a insediarsi<br />
su <strong>delle</strong> isole, lungo le coste, o nelle città-scalo strategicamente disposte<br />
sulle rotte più frequentate. I portoghesi a Goa e Macao, gli inglesi a Bombay e<br />
Madras, gli olandesi a Città del Capo. Si calcola che questi flussi, nel loro complesso,<br />
abbiano interessato solo alcune centinaia di migliaia di individui.<br />
Infine, nella seconda metà del Settecento, gli europei cominciarono anche la<br />
colonizzazione dell’Australia. Specie all’inizio, anche in questa circostanza, le correnti<br />
migratorie furono assolutamente secondarie, proprio per il loro carattere<br />
coercitivo. Nell’area dove ora sorge Sidney, gli inglesi impiantarono un penitenziario<br />
e il primo contingente di 700 prigionieri vi venne fatto sbarcare nel 1788. Da<br />
questa data fino al 1830 giunsero sul continente 60.000 deportati. Il loro numero<br />
complessivo raggiungerà le 160.000 unità.<br />
Dopo aver riassunto alcune <strong>delle</strong> principali correnti migratorie intercontinentali,<br />
possiamo tentare, a questo punto, di calcolarne il volume complessivo. Purtroppo,<br />
come spesso accade riferendosi a epoche pre-statistiche, i calcoli sono<br />
quanto mai incerti. Tuttavia, tenendo come base le cifre che abbiamo via via esposto,<br />
l’emigrazione complessiva dall’Europa al Nuovo Mondo, nell’arco di tempo<br />
che va dal 1500 al 1800, può essere stimata in circa tre milioni di individui. Cifra<br />
che molti autori riterrebbero eccessiva. Per quanto attiene al traffico di schiavi<br />
verso il solo continente americano, relativamente allo stesso periodo, giungiamo a<br />
una cifra di circa sette milioni di deportati. Come si può vedere, non c’è dubbio che<br />
il contributo di gran lunga maggiore alle migrazioni mondiali venne dato in questi<br />
secoli dai popoli africani.<br />
Possiamo anche calcolare l’impatto <strong>delle</strong> migrazioni transoceaniche sulle popo-<br />
50
lazioni dei continenti di partenza. Sulla base <strong>delle</strong> cifre proposte da Massimo Livi-<br />
Bacci [1998a, 44], nei tre secoli dell’età moderna, le popolazioni medie di Europa<br />
(senza i territori dell’ex Unione Sovietica) e Africa erano grosso modo equivalenti. I<br />
due continenti, in questo periodo, mediamente, avevano circa 100 milioni di abitanti<br />
ciascuno. Ogni anno, quindi, lasciarono la terra di origine rispettivamente<br />
0,10 e 0,23 persone su 1.000 abitanti.<br />
Se equamente distribuite nello spazio queste partenze sarebbero state, dal<br />
punto di vista demografico, praticamente impercettibili. Ma non fu proprio così.<br />
In Europa, i paesi tributari furono principalmente le isole britanniche e la penisola<br />
iberica. Qui i flussi interessarono una quota degli abitanti che, a seconda dei casi,<br />
oscillava dall’1 all’1,5 per mille all’anno, un numero non trascurabile per popolazioni<br />
dalle deboli potenzialità di crescita come quelle di antico regime [Livi-Bacci<br />
1998b, 167], ma comunque non sufficiente a fermarne la crescita. Anche per quanto<br />
riguarda il continente nero l’emorragia di uomini si concentrò in una sola parte<br />
di esso, cioè nell’Africa subsahariana, ma gli esiti sul popolamento furono assai<br />
diversi. Mentre, per quanto riguarda l’Europa, i coloni provenivano in gran parte<br />
da paesi abitati densamente, e addirittura, se consideriamo l’Inghilterra del Settecento,<br />
anche in forte crescita, l’opposto si verificò per l’Africa. Infatti, gli schiavi,<br />
oltre a essere per gran parte di sesso maschile e nel periodo di maggior potenziale<br />
riproduttivo, provenivano tutti dalla sua parte meno popolata. Come se non<br />
bastasse, a questo flusso già gravoso bisogna sommare quello diretto verso l’India e<br />
i paesi arabi.<br />
Possiamo concludere, quindi, che mentre l’emigrazione europea ebbe un impatto<br />
decisamente secondario sulla popolazione del continente di partenza, quella<br />
africana ne condizionò per secoli l’assetto demografico. Le conseguenze di questi<br />
processi si possono riscontrare nell’andamento divergente <strong>delle</strong> popolazioni dei<br />
due continenti 2 (Tab. 1.1).<br />
Tabella 1.1 - Popolazione di Europa (esclusi i paesi dell’ex Unione Sovietica) e Africa<br />
dal 1500 al 1800 (in milioni)<br />
Anno Europa Africa<br />
1500 67 87<br />
1600 89 113<br />
1700 95 107<br />
1750 111 104<br />
1800 146 102<br />
Fonte: Livi-Bacci [1998a, 44]<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
2 Il calo della popolazione africana non deve essere attribuito al solo traffico degli schiavi, che ne fu<br />
sicuramente la causa principale, ma anche al ristagno <strong>delle</strong> popolazioni arabe.<br />
51
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
1.2 La grande emigrazione<br />
Verso la metà del XIX secolo si aprì una nuova stagione nella storia dell’emigrazione<br />
tra Europa e Americhe. Nel giro di pochi decenni un numero fino ad allora<br />
mai visto di persone lasciò il Vecchio Continente per i paesi dell’Atlantico occidentale.<br />
Il processo non aveva precedenti dal punto di vista quantitativo, e la definizione<br />
di “grande emigrazione” richiama direttamente questa sua caratteristica.<br />
Le ragioni del decollo sono molteplici e articolate. Esse vanno ricercate sia sul<br />
piano strettamente demografico, in quanto il fenomeno si collocò negli anni in cui<br />
molti paesi europei affrontavano la loro transizione demografica, con il conseguente<br />
forte incremento della popolazione; sia sul piano economico, dal momento<br />
che questo processo non può essere disgiunto dalla rivoluzione industriale inglese<br />
e dalle sue successive diramazioni continentali; sia dal punto di vista tecnico, poiché<br />
in questi stessi anni il forte balzo in avanti nella tecnologia dei trasporti, nella<br />
fattispecie della navigazione, aveva reso possibile il rapido spostamento di un<br />
numero sempre maggiore di uomini; sia da altri elementi ancora, che riguardavano<br />
la storia e le vicende politiche interne dei diversi stati coinvolti. Inoltre, a partire<br />
dalla metà dell’Ottocento, l’economia degli Stati Uniti aveva conosciuto, in tutti<br />
i settori, una crescita senza precedenti. Questa forte espansione era avvenuta in<br />
concomitanza alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, come le ferrovie,<br />
e alla potente crescita urbana. In un contesto di forte sviluppo, la manodopera di<br />
provenienza europea aveva trovato opportunità di lavoro e trattamento salariale<br />
che in patria erano irraggiungibili. Gli emigranti, a seconda dell’area di provenienza,<br />
<strong>delle</strong> competenze specifiche e <strong>delle</strong> opportunità che si presentarono loro, si<br />
impiegarono in agricoltura, nell’industria, nell’edilizia.<br />
Il paese che diede il via a questo nuovo grande esodo fu l’Irlanda. La tradizione<br />
migratoria dell’isola era molto antica, e i flussi in uscita si erano sempre orientati<br />
verso l’America settentrionale. Queste correnti coinvolgevano annualmente, agli<br />
inizi dell’Ottocento, alcune migliaia di individui, che divennero, negli anni Trenta<br />
del secolo XIX, decine di migliaia. Per quasi tre lustri l’emigrazione si assestò su<br />
questi livelli. Non si trattava di cosa di poco conto per un territorio che nel 1821<br />
contava 7.200.000 di abitanti e 8.500.000 nel 1845.<br />
Come talvolta accade, un evento non prevedibile impresse una svolta decisiva<br />
alla storia di un intero paese. Questa volta si trattò di quella triste circostanza nota<br />
come la “grande carestia” [Ò Gràda 1989]. Il bilancio alimentare della popolazione<br />
irlandese dipendeva in larga parte dal consumo di patate. Il suolo e il clima dell’isola,<br />
infatti, sono particolarmente adatti alla coltivazione di questo tubero. Ma una<br />
malattia ne provocò, a partire dal 1846, il crollo della produzione. Come diretta<br />
conseguenza, nello stesso anno, solo verso Stati Uniti e Canada, si diressero quasi<br />
80.000 irlandesi, mentre molti altri emigrarono in Gran Bretagna o nei paesi del<br />
continente. Ma il primato di quell’anno non sarebbe passato alla storia. Negli anni<br />
successivi gli irlandesi che lasciarono l’isola furono costantemente al di sopra <strong>delle</strong><br />
100.000 unità. Essi si dirigevano ormai sempre più frequentemente verso gli Usa,<br />
che oramai erano diventati di gran lunga la meta più frequentata d’oltreoceano.<br />
L’anno che segnò il culmine dell’emigrazione fu il 1851, quando le partenze sfiorarono<br />
le 250.000 unità: una cifra pari alla popolazione di Dublino. Solo nel 1855 il<br />
52
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
numero di emigranti nel Nuovo Continente scese sotto le 100.000 persone, cifra<br />
destinata a calare ancora nei decenni successivi. Nel 1881, lasciati definitivamente<br />
alle spalle gli anni più drammatici dell’esodo, l’Irlanda contava solo 5.200.000 di<br />
abitanti. Nella storia della grande emigrazione, nessun paese pagò, dal punto di<br />
vista demografico, un prezzo così alto.<br />
L’emigrazione congiunturale: l’Irlanda e la grande carestia<br />
Nel corso dell’Ottocento, l’economia dell’Irlanda si basava essenzialmente sull’agricoltura<br />
e l’allevamento. La cerealicoltura, in particolare, aveva conosciuto un notevole<br />
incremento nel periodo <strong>delle</strong> guerre napoleoniche e in quello immediatamente<br />
successivo contraddistinto dal protezionismo in agricoltura esemplificato dalle<br />
Corn-Laws. La produzione dei grani era destinata principalmente al mercato, mentre<br />
per l’autoconsumo contadino aveva preso sempre più piede la coltivazione<br />
della patata, che aveva trovato nella terra d’Irlanda un suolo ideale per la sua produzione.<br />
All’inizio degli anni Quaranta un terzo di tutta la terra coltivata dell’isola<br />
era a patate, percentuale che non era riscontrabile in nessun altro paese europeo.<br />
Se da una parte il tubero garantiva <strong>delle</strong> rese che non erano avvicinabili da nessun<br />
cereale, d’altro canto era assai delicato e non poteva essere conservato tanto a<br />
lungo. Non si potevano così creare <strong>delle</strong> riserve per far fronte a eventuali cattivi<br />
raccolti. Poi, rispetto al valore, la patata era molto pesante, quindi poco vantaggiosa<br />
da trasportare. Questa sua peculiarità aveva scoraggiato la creazione di mercati<br />
regionali, e quindi, in estrema istanza, mancava nel paese quella forma di assicurazione<br />
che essi rappresentavano in caso di cattive annate su scala locale.<br />
Pertanto, quando, a causa della ruggine della patata, si susseguirono una serie di<br />
raccolti disastrosi, che determinarono la più grave carestia della storia del paese, si<br />
verificò una imponente fuga dalle campagne. Anche se questo fenomeno si innescava<br />
su una realtà che era già portata all’emigrazione, esso fu determinante nel<br />
provocare, nel giro di pochi anni, una gigantesca emorragia di abitanti dall’isola.<br />
La nuova atmosfera di panico che si era venuta a creare nell’occasione aveva dato<br />
all'emigrazione della “grande carestia” un suo carattere distintivo. Prima di questo<br />
evento, infatti, non si erano mai visti tanti emigranti e così poveri.<br />
La lunga fase di depressione demografica affrontata dall’Irlanda dalla metà dell’Ottocento<br />
in poi riflette l’emergenza venutasi a creare nel paese in conseguenza di<br />
questo tragico evento. Finita la fase più drammatica della carestia, l’emigrazione<br />
non cessò, ma si protrasse, seppur con ritmi decrescenti, per tutto il secolo e oltre.<br />
Il contributo degli irlandesi all’immigrazione statunitense, seppure in questi<br />
anni fosse il più importante, non fu l’unico. Procedendo in senso cronologico vi si<br />
sovrappose, e venne addirittura a prevalere dal 1854 in poi, l’immigrazione dei<br />
tedeschi. In quell’anno ben 215.000 emigranti provenienti in larga parte da Württemberg,<br />
Baden, Assia e Palatinato approdarono sulla riva occidentale dell’Atlantico.<br />
Anche in questo caso, seppur meno drammatico, l’impatto demografico sui<br />
paesi di partenza fu notevole. In ordine di importanza, il terzo contingente di emi-<br />
53
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
granti della prima grande ondata fu conferito da Inghilterra e Scozia. Dal 1846 al<br />
1860 dalla Gran Bretagna giunsero negli Stati Uniti poco più di 600.000 persone,<br />
contro quasi 1.300.000 di tedeschi e 1.500.000 di irlandesi.<br />
Con la Guerra di Secessione si chiuse la prima fase della grande emigrazione. A<br />
ragione della netta preminenza degli Stati Uniti rispetto a tutte le altre mete, la<br />
forza di assorbimento di questo paese imprimerà il proprio tratto caratteristico al<br />
fenomeno preso nel suo insieme. La cosa è particolarmente evidente proprio nel<br />
periodo fin qui considerato quando, su scala globale, sia i paesi di emigrazione che<br />
quelli di immigrazione erano poco numerosi (Fig. 1.2).<br />
Alla fine della Guerra Civile, i flussi ripresero con la stessa intensità di prima. Si<br />
registrò però qualche cambiamento. Immigrazione inglese e irlandese continuavano<br />
a essere di grande rilevanza: la prima, annoverando quasi un milione di espatri<br />
per gli Usa distribuiti nell’arco di una quindicina d’anni, fu questa volta maggiore<br />
della seconda, che ne contò “appena” 700.000. Ma la guida dell’esodo era ora assunta<br />
decisamente dai paesi tedeschi, con oltre 1.200.000 di partenze verso la medesima<br />
destinazione. Inoltre, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, si assiste<br />
alla crescita dell’emigrazione scandinava. Questa seconda ondata terminò con gli<br />
anni 1876-78. In questo periodo, l’emigrazione transoceanica cominciava ad assumere<br />
un aspetto composito. Non si videro i picchi straordinari che nell’ondata precedente<br />
erano stati raggiunti da singoli paesi, ma contingenti importanti di emigranti<br />
erano conferiti da un numero crescente di stati diversi (Fig. 1.3).<br />
Figura 1.2 - L’immigrazione negli Stati Uniti dal 1843 al 1861<br />
Fonte: Us Department of Commerce [1975, 105-109]<br />
54<br />
500.000<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
0<br />
Mondo<br />
Gran Bretagna<br />
Irlanda<br />
Germania<br />
1843 1844 1845 1846 1847 1848 1849 1850 1851 1852 1853 1854 1855 1856 1857 1858 1859 1860 1861
Figura 1.3 - L’immigrazione negli Stati Uniti dal 1862 al 1878<br />
500.000<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
0<br />
Mondo<br />
Mondo<br />
Gran Bretagna<br />
Irlanda<br />
Germania<br />
Germania<br />
1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 1869 1870 1871 1872 1873 1874 1875 1876 1877 1878<br />
Fonte: Us Department of Commerce [1975, 105-109]<br />
Figura 1.4 - L’immigrazione negli Stati Uniti dal 1877 al 1897<br />
1.300.000<br />
1.200.000<br />
1.100.000<br />
1.000.000<br />
900.000<br />
800.000<br />
700.000<br />
600.000<br />
500.000<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
0<br />
Mondo<br />
Gran Bretagna<br />
Irlanda Germania<br />
Germania<br />
Germania Italia<br />
Italia<br />
1877 1878 1879 1880 1881 1882 1883 1884 1885 1886 1887 1888 1889 1890 1891 1892 1893 1894 1895 1896 1897<br />
Fonte: Us Department of Commerce [1975, 105-109]<br />
numero di emigranti<br />
55
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Figura 1.5 - L’immigrazione negli Stati Uniti dal 1898 al 1918<br />
0<br />
1898 1899 1900 1901 1902 1903 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 1918<br />
Fonte: Us Department of Commerce [1975, 105-109]<br />
La terza ondata migratoria del secolo prese avvio nel 1880 e si esaurì nel 1897-<br />
98, in concomitanza con la guerra ispano-americana. Nel corso degli anni Ottanta,<br />
i flussi più imponenti, con circa due milioni di sbarchi, riguardarono sempre gli<br />
emigranti tedeschi. Scandinavia, Irlanda e Gran Bretagna fornirono altri importanti<br />
contingenti di emigranti, all’incirca un milione di unità ciascuna. Le tre migrazioni<br />
attraversavano in questo periodo fasi diverse <strong>delle</strong> loro singole storie, la<br />
prima era continuazione di flussi recenti, la seconda aveva imboccato la strada di<br />
un lungo declino, la terza, al contrario, proseguiva la sua continua tendenza all’aumento.<br />
Negli anni Novanta, tutte queste migrazioni cominciarono a esaurirsi lentamente,<br />
ma contemporaneamente cominciano a emergere flussi nuovi. Si trattava<br />
dei primi contingenti che provenivano da quei paesi che avrebbero improntato l’emigrazione<br />
negli Stati Uniti negli anni seguenti, e cioè Italia, Austria-Ungheria e<br />
Russia (Fig. 1.4).<br />
Negli anni Ottanta, oltre al formarsi di nuovi flussi che si dirigevano verso l’America<br />
settentrionale, si assistette all’affermazione sulla scena internazionale di<br />
nuovi paesi di immigrazione. Si trattava degli stati dell’America latina e, in particolare,<br />
di Argentina e Brasile. Fino ad allora l’emigrazione europea in questi stati non<br />
era stata del tutto sconosciuta, ma nemmeno quantitativamente significativa [Vangelista<br />
1997]. Solo negli ultimi decenni del secolo si stabilirono tra questi paesi e<br />
l’Europa meridionale <strong>delle</strong> imponenti correnti migratorie. L’Italia diede un contributo<br />
notevole nel sostenere questi traffici, tanto che la penisola divenne in questo<br />
torno di anni la più grande sorgente di emigranti internazionali del mondo. Il successivo<br />
esodo intercontinentale si protrasse fino allo scoppio del primo conflitto<br />
56<br />
1.300.000<br />
1.200.000<br />
1.100.000<br />
1.000.000<br />
900.000<br />
800.000<br />
700.000<br />
600.000<br />
500.000<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
Mondo<br />
Austria-Ungheria<br />
Gran Austria-Ungheria Bretagna<br />
Irlanda Russia<br />
Russia<br />
Germania Italia<br />
Italia<br />
numero di emigranti
mondiale. Negli Stati Uniti, i flussi guida di questa migrazione furono quelli dei<br />
paesi emergenti dell’ondata precedente, e cioè Italia, Russia e Impero Austroungarico,<br />
altre correnti, ma meno significative, pervenivano dalle aree “tradizionali” dell’Europa<br />
centro-settentrionale 3 . Queste, oltretutto, vedevano scemare costantemente,<br />
in termini assoluti, il loro contributo al fenomeno (Fig. 1.5).<br />
In concomitanza con questi progressi, l’andamento dell’emigrazione mondiale,<br />
anche se rimase sempre al traino del ritmo imposto dagli Stati Uniti, fu condizionato<br />
in misura maggiore dalle capacità di assorbimento dei paesi dell’America<br />
Latina, ma anche di Canada, Australia e Nuova Zelanda.<br />
Dopo gli Usa, il paese verso il quale si indirizzavano maggiormente gli emigranti<br />
era l’Argentina. Nel paese sudamericano il gran numero di ingressi era sostenuto<br />
in primo luogo dalle forti correnti provenienti dall’Italia, poi da quelle che arrivavano<br />
dalla Spagna. Gli arrivi degli iberici finirono con sopravanzare quelli degli italiani<br />
solo nel 1908 e poi, di nuovo, continuativamente, dal 1910 al 1921 (Fig. 1.6).<br />
Figura 1.6 - L’immigrazione in Argentina dal 1857 al 1918<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
Mondo<br />
Italia Gran ItaliaBretagna<br />
Spagna Irlanda Spagna<br />
Fonte: Ferenczi [1970, 543-546]<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
numero di emigranti<br />
0<br />
1857 1862 1867 1872 1877 1882 1887 1892 1897 1902 1907 1912 1917<br />
3 Unica notabile eccezione quella dei flussi britannici che contribuivano ancora in maniera molto<br />
significativa all’emigrazione mondiale. Alla crescita del numero di coloro che si dirigevano negli<br />
Stati Uniti andava, infatti, sommato il grande slancio che si registrò nei primi anni del Novecento<br />
verso il Canada. Il paese nordamericano divenne in questo periodo la principale destinazione degli<br />
emigranti inglesi, subito seguito dall’Australia.<br />
57
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Un’altra importante meta dell’emigrazione transoceanica era il Brasile. Qui,<br />
contrariamente all’altro grande stato sudamericano, il fenomeno fu complessivamente<br />
meno rilevante nei primi anni del Novecento che negli ultimi dell’Ottocento,<br />
anche se raggiunse il suo culmine alla vigilia della prima guerra mondiale.<br />
Nella ex colonia portoghese, infatti, il grande balzo in avanti dell’immigrazione si<br />
era registrato subito dopo l’abolizione della schiavitù avvenuta nel 1888 e in concomitanza<br />
con la grande espansione della coltura del caffè. L’apertura di un nuovo<br />
e promettente mercato del lavoro aveva richiamato grandi masse di uomini in particolare<br />
dall’Europa meridionale, ma questa forza d’attrazione dopo qualche anno<br />
aveva già perso molta della sua energia.<br />
Scomponendo l’immigrazione nei suoi elementi principali, si può vedere che i<br />
flussi verso il Brasile si fecero meno intensi per l’affievolirsi dell’immigrazione italiana,<br />
per tornare poi a crescere con l’incremento di quella portoghese. Questa da<br />
sola, però, non raggiunse mai i vertici che nel secolo precedente erano stati toccati<br />
dall’altra (Fig. 1.7).<br />
Come detto, il primo conflitto mondiale segnò una contrazione dei flussi su<br />
scala planetaria, ma l’interruzione, seppur momentanea, può essere ritenuta un<br />
vero e proprio spartiacque nella storia dell’emigrazione transoceanica. Fino ad<br />
allora, infatti, l’esaurimento <strong>delle</strong> ondate migratorie aveva coinciso con depressioni<br />
che si erano rivelate via via crescenti nel tempo, con la Grande Guerra, invece, si<br />
toccò un minimo pari quasi ai livelli che avevano preceduto l’esodo di massa dal<br />
Vecchio Continente.<br />
Figura 1.7 - L’immigrazione in Brasile dal 1857 al 1918<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
Fonte: Ferenczi [1970, 549-550]<br />
58<br />
Mondo<br />
Mondo<br />
Gran ItaliaBretagna<br />
Italia<br />
Irlanda Portogallo<br />
Portogallo<br />
numero di emigranti<br />
0<br />
1857 1862 1867 1872 1877 1882 1887 1892 1897 1902 1907 1912 1917
Figura 1.8 - La grande emigrazione nei principali paesi di immigrazione dal 1835-1918<br />
2.100.000<br />
2.000.000<br />
1.900.000<br />
1.800.000<br />
1.700.000<br />
1.600.000<br />
1.500.000<br />
1.400.000<br />
1.300.000<br />
1.200.000<br />
1.100.000<br />
1.000.000<br />
900.000<br />
800.000<br />
700.000<br />
600.000<br />
500.000<br />
400.000<br />
300.000<br />
200.000<br />
100.000<br />
Somma<br />
Usa<br />
Canada<br />
Argentina<br />
Brasile<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
numero di emigranti<br />
0<br />
1835 1840 1845 1850 1855 1860 1865 1870 1875 1880 1885 1890 1895 1900 1905 1910 1915<br />
Fonte: Us Department of Commerce [1975, 105-109]; Ferenczi [1970, 360-361, 543-546, 549-550]<br />
Alla fine del lungo e sanguinoso conflitto l’emigrazione riprese, ma senza lo<br />
“smalto” degli anni passati. In questo periodo, inoltre, il fenomeno ebbe sempre<br />
più carattere composito. Infine, la crisi economica degli anni Trenta, assieme a una<br />
serie di provvedimenti legislativi restrittivi adottati dai paesi di arrivo, fece crollare<br />
il volume dei flussi in entrata. Ben prima dello scoppio della seconda guerra<br />
mondiale, la grande emigrazione poteva dirsi conclusa (Fig. 1.8).<br />
L’esodo di milioni di europei verso le Americhe, avvenuto tra la fine dell’Ottocento<br />
e i primi decenni del Novecento, fu talmente impressionante che spesso si<br />
ha la tendenza a considerarlo separatamente da tutti gli altri fenomeni per certi<br />
versi simili - seppur quantitativamente molto meno rilevanti - che si verificarono<br />
su scala globale. Accanto alla grande emigrazione dobbiamo però considerare una<br />
serie di altri movimenti umani che interessarono tutto il mondo, a cominciare dall’Australia.<br />
Alla metà dell’Ottocento, quell’immenso paese contava poco più di 400.000 abitanti.<br />
Fino ad allora, l’attività prevalente dei coloni era stata l’agricoltura. Però, la<br />
scoperta di ricchi filoni auriferi, avvenuta in quello stesso torno di tempo, attrasse<br />
in pochi anni più di 500.000 immigrati; sicché, nel 1860, la popolazione aveva già<br />
superato il milione di unità. Nel solo stato di Victoria, tra 1851 e 1855, il numero<br />
degli abitanti era salito da 70.000 a oltre 300.000, grazie a flussi provenienti da<br />
tutto il mondo.<br />
Anche la Nuova Zelanda fu, si può dire, un prodotto della grande emigrazione,<br />
in quanto la sua colonizzazione iniziò solamente nel 1840. Analogamente all’Australia<br />
il territorio si prestò da subito allo sfruttamento agricolo e soprattutto zoo-<br />
59
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
tecnico. Anche qui, però, si scoprirono a metà secolo dei ricchi filoni auriferi che<br />
furono il motore per il rapido decollo della sua popolazione. Il numero degli abitanti<br />
che nel 1851 ammontava a sole 27.000 unità toccò le 256.000 nel 1871 4 .<br />
Oltre ai flussi che abbiamo fin qui considerato, e che interessarono solamente le<br />
popolazioni europee, nell’ambito della grande migrazione possiamo includere<br />
anche il coolierismo, cioè la diaspora dei lavoratori asiatici in tutto il mondo [Potts<br />
1988]. Questo fenomeno, molto sinteticamente, era una mistura tra lavoro forzato<br />
da una parte, e lavoro a libero salario dall’altra, ma, specialmente nella prima fase, le<br />
somiglianze tra schiavi e coolies erano notevoli. Non a caso queste correnti erano<br />
nate e si erano intensificate in seguito all’abolizione della schiavitù come istituzione<br />
legale.<br />
I principali paesi fornitori di coolies erano l’India e la Cina. I lavoratori indiani si<br />
impiegarono prevalentemente in territori asiatici, come a Burma, a Ceylon, nella<br />
Malesia Britannica, ma diverse decine di migliaia si diressero in Africa orientale e<br />
meridionale, o nelle isole Fiji; alcuni flussi si spinsero fino alle isole dei Caraibi,<br />
dove i migranti venivano impiegati nelle piantagioni tropicali. Anche i coolies cinesi<br />
si diressero in gran parte nei territori asiatici vicini, ma molti si indirizzarono<br />
negli Stati Uniti, in Australia e Nuova Zelanda, a Cuba e nelle Hawaii.<br />
Il fenomeno, per la varietà <strong>delle</strong> destinazioni, interessò quasi tutto il pianeta,<br />
ma dal punto di vista quantitativo rimase abbondantemente al di sotto dei flussi<br />
europei. L’esportazione di lavoratori asiatici in molte <strong>delle</strong> <strong>società</strong> coloniali servì<br />
da una parte a sostituire la forza lavoro nera, e creò dall’altra una competizione<br />
con i lavoratori liberi, spingendo al ribasso il livello dei salari. In alcuni stati, come<br />
ad esempio in Australia, l’immigrazione dei lavoratori asiatici fu particolarmente<br />
importante. La forte crescita di questo paese si innescò, infatti, solo dopo la prima<br />
metà dell’Ottocento quando oramai la schiavitù era stata abolita e il suo sviluppo<br />
economico necessitava comunque di forza lavoro a basso costo.<br />
Al termine di questa rapida e incompleta rassegna ci possiamo ora chiedere<br />
quanto fu “grande” la grande emigrazione e in cosa differì da quelle che l’avevano<br />
preceduta.<br />
Anche in questo caso, seppur in presenza di una gran messe di cifre, sulle quali<br />
solo parzialmente si è dato conto nelle pagine che precedono, offrire una risposta<br />
sul piano quantitativo non è facile 5 . Ogni paese di destinazione si è premurato di<br />
predisporre <strong>delle</strong> statistiche, esse però prendono avvio in anni diversi e non sempre<br />
sono compilate con criteri uniformi. Tuttavia è possibile offrire alcuni risultati<br />
che sono qualche cosa di più che dei semplici ordini di grandezza (Tab. 1.2).<br />
4 Va sottolineato però che anche in questi paesi, come nelle Americhe, la colonizzazione, che fu in<br />
gran parte europea, ebbe tra i suoi effetti quello di provocare la quasi totale estinzione <strong>delle</strong> popolazioni<br />
indigene.<br />
5 Ne è testimonianza il gran numero di stime, a volte grandemente divergenti, che esistono del fenomeno.<br />
Noi, per ovviare a tutta una serie di problematiche ci siamo affidati al testo di Imre Ferenczi,<br />
nel quale sono collezionate le statistiche ufficiali di quasi tutti gli stati del mondo. In questo prezioso<br />
volume sono raccolte le cifre relative sia ai paesi di partenza che a quelli di arrivo.<br />
60
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Tabella 1.2 - Immigrazione in America e Oceania per paese di ultima residenza o<br />
nazionalità, 1821-1924 (in migliaia)<br />
Canada<br />
Usa<br />
Svezia 36 1.131 6 17 1.190<br />
Norvegia 27 806 833<br />
Danimarca 16 319 6 2 1 5 349<br />
Regno Unito 3.146 8.501 5 64 22 42 1.788 436 14.005<br />
Germania 220 5.643 2 101 175 23 39 6.202<br />
Austria e Ungheria 207 4.120 92 88 3 10 4.521<br />
Francia 29 557 19 227 33 31 25 921<br />
Russia 109 3.322 1 169 109 1 10 3.722<br />
Portogallo 222 1 38 1.159 4 1.423<br />
Spagna 3 164 590 1.780 546 154 2 3.240<br />
Italia 139 4.561 3 2.603 1.441 143 27 8.917<br />
Altri paesi europei 281 1.988 4 101 51 25 26 2.478<br />
Cina 43 368 28 1 24 75 540<br />
India 5 9 148 5 167<br />
Giappone 22 271 33 5 15 347<br />
Altri paesi asiatici 14 233 1 16 72 7 13 355<br />
Totali 4.301 32.213 811 5.194 3.736 461 2.058 436 49.211<br />
Nel periodo considerato, i cambiamenti dei confini tra i diversi stati furono molto numerosi. Le<br />
somme, pertanto, non sono effettuate su aggregati territoriali uniformi. Esse, quindi, devono essere<br />
prese come indicative.<br />
Fonte: Ferenczi [1970, 261-273]<br />
La Tabella 1.2 disegna un quadro, suddiviso per paesi di partenza e di destinazione,<br />
nel quale è possibile cogliere la portata del fenomeno migratorio in termini<br />
assoluti. Pur con le dovute cautele, derivanti dal fatto che l’emigrazione registrata è<br />
al lordo dei rientri e che i criteri di raccolta dei dati adottati dai diversi stati furono<br />
piuttosto eterogenei 6 , possiamo affermare che nel corso di circa un secolo furono<br />
ben 50 milioni gli europei che lasciarono il continente. Quasi il 70% di questi espatri<br />
ebbe come meta gli Stati Uniti.<br />
Anche proporre una graduatoria degli stati interessati dal fenomeno non ci pare<br />
operazione priva di qualche interesse. Il Regno Unito, compresa quindi l’Irlanda,<br />
figura largamente in testa in questa speciale classifica. Segue l’Italia, lo stato che in<br />
6 Purtroppo le statistiche relative ai rientri sono relative solo ad alcuni paesi.<br />
Cuba<br />
Argentina<br />
Brasile<br />
Altri paesi latinoamericani<br />
Australia<br />
Nuova Zelanda<br />
Totali<br />
61
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
termini assoluti più contribuì alla emigrazione verso l’America Latina. Al terzo<br />
posto si colloca la Germania i cui flussi si diressero pressoché esclusivamente verso<br />
gli Stati Uniti. Poi, via via, Russia, Austria-Ungheria, Spagna. Tra gli altri stati europei<br />
ci sembra interessante segnalare il ruolo della Francia, paese che, solitamente,<br />
negli studi sulla storia della grande migrazione viene menzionato per il solo motivo<br />
che ne fu estraneo. Con quasi un milione di espatri l’influenza dei flussi ultramontani<br />
non ci sembra, nel quadro <strong>delle</strong> migrazioni intercontinentali, marginale.<br />
Per quanto riguarda i paesi extraeuropei, notiamo l’assenza di flussi paragonabili<br />
a quelli generati dal Vecchio Continente. Bisogna comunque dire che nella Tabella<br />
1.2 non ha trovato posto l’Africa, da dove, almeno fino alla metà dell’Ottocento,<br />
le correnti non furono secondarie, ma <strong>delle</strong> quali abbiamo dato conto in parte<br />
nelle pagine dedicate alla tratta degli schiavi. Quando si esaurì l’impulso alla mobilità<br />
verso l’esterno derivante da questo fenomeno, non ci fu sostituzione. Dall’Africa<br />
nera si produssero nuovi flussi intercontinentali di una certa entità, questa<br />
volta volontari, solo in tempi molto più recenti.<br />
La grande emigrazione rappresentò una straordinaria tras<strong>formazione</strong> del fenomeno<br />
migratorio, ma alcune sue caratteristiche rimasero comunque stabili. Non<br />
cambiarono le motivazioni a livello individuale che spingevano gli uomini a emigrare,<br />
anche se il contesto entro cui queste maturavano era mutato profondamente.<br />
Non cambiarono i meccanismi fondamentali della trasmissione <strong>delle</strong> informazioni,<br />
che si erano strutturati, tramite un processo culturale secolare, grazie ai legami<br />
parentali e vicinali, anche se nuove tecnologie nelle comunicazioni permettevano<br />
ora dei contatti più rapidi e diretti. La grande emigrazione, infine, come le<br />
correnti intercontinentali che l’avevano preceduta, non perse il carattere eminentemente<br />
congiunturale 7 , anche se, come vedremo in seguito, finì per assomigliare<br />
un po’ di più ad altre emigrazioni.<br />
Grazie all’aumentata efficienza dei trasporti via mare, infatti, generata dall’applicazione<br />
dell’energia del vapore prima e del motore a scoppio poi, coloro che<br />
partivano potevano fare ritorno in patria molto più spesso di quanto era accaduto<br />
nel passato. L’aumentata frequenza dei ritorni generò un tipo di emigrazione del<br />
tutto nuova, seppure limitata numericamente. Nacquero cioè dei flussi di manodopera<br />
stagionale che collegavano le due rive opposte dell’Atlantico. Dal punto di<br />
vista funzionale queste emigrazioni erano del tutto simili a quelle, molto importanti,<br />
che si erano sviluppate nel corso dell’Ottocento entro il continente europeo.<br />
Certo, i cambiamenti furono più evidenti <strong>delle</strong> permanenze. Se consideriamo<br />
essere di 400 milioni di individui la popolazione media dell’Europa nel periodo<br />
1850-1930, inclusi i paesi dell’ex Unione Sovietica, e di 45 milioni circa il totale di<br />
emigranti che dal Vecchio Continente si diressero verso le Americhe, dobbiamo<br />
concludere che ogni anno, in media, lasciavano le loro case 1,4 abitanti su 1.000.<br />
Rispetto all’età moderna, l’emigrazione transoceanica coinvolse una proporzione<br />
7 Essa, infatti, rimase sempre soggetta a profonde e repentine mutazioni, sia dal punto di vista quantitativo,<br />
specialmente negli ultimi due secoli, sia dal punto di vista dei paesi di partenza e di approdo.<br />
62
decisamente maggiore di persone. Essa, tuttavia, intaccò appena il tasso di incremento<br />
naturale europeo, che mediamente si aggirò attorno al 10 per mille.<br />
Ma la tras<strong>formazione</strong> non fu solo quantitativa. Il XIX secolo, per usare le parole<br />
di Sarah Collinson [1994, 81] “segnò gli inizi di un nuovo modello nei flussi migratori<br />
internazionali. Mentre i flussi transcontinentali erano stati in precedenza<br />
caratterizzati da un movimento proveniente dalle aree più sviluppate d’Europa e<br />
diretto verso le regioni sottosviluppate del Nuovo Mondo e <strong>delle</strong> colonie, il nuovo<br />
modello che stava emergendo era dominato da movimenti in uscita da aree meno<br />
sviluppate”. Così, se fino alla metà dell’Ottocento fu l’Africa il continente a contribuire<br />
maggiormente ai flussi migratori internazionali e, più in generale, erano<br />
state le migrazioni coatte quelle decisamente più importanti sul piano quantitativo,<br />
con l’Ottocento si assistette a un duplice ribaltamento di prospettiva: emigrazioni<br />
europee ed emigrazioni volontarie divennero la spina dorsale dei nuovi flussi<br />
di popolazione nel mondo, e tali rimasero fino alla metà del Novecento.<br />
2. Le migrazioni interne<br />
2.1 L’età moderna<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Adottando come prospettiva di indagine la scala molto grande che ci ha accompagnati<br />
nel corso del capitolo precedente, abbiamo raccontato una storia dell’emigrazione<br />
che risulta essere perfettamente in linea con quello che fino a qualche<br />
anno fa era, almeno per l’Europa, il paradigma storiografico prevalente. E cioè che,<br />
a una fase storica contrassegnata da flussi migratori intensi e continui da una<br />
parte all’altra del globo - quella del presente e del passato recenti - si contrappone<br />
un mondo - quello preindustriale - contraddistinto, invece, da una scarsa mobilità.<br />
Le uniche eccezioni, quelle date dalle correnti che dal Vecchio Continente si sono<br />
riversate principalmente verso le Americhe, sembrano confermare la regola. Infatti,<br />
come abbiamo visto, questa emorragia di uomini, dal punto di vista dei paesi di<br />
partenza, fu in larga parte impercettibile e, tranne che in alcuni casi circoscritti,<br />
determinò <strong>delle</strong> conseguenze assolutamente secondarie sul piano demografico.<br />
Negli ultimi anni, la visione di quella lunga fase storica che va dal Rinascimento<br />
all’Illuminismo come caratterizzata da una limitata mobilità, che anche la prima<br />
parte di questo lavoro sembra avallare, si è scontrata con l’evidenza empirica. Oggi,<br />
l’idea che abbiamo di questa parte del passato è quella di una realtà in estremo<br />
movimento, connotata da innumerevoli e composite correnti migratorie. Il passaggio<br />
dall’una all’altra di queste prospettive, a prima vista antitetiche, si è realizzato<br />
con il cambio di scala dell’indagine.<br />
Affrontando il problema al suo livello più basso, quello della comunità, ci rendiamo<br />
conto immediatamente <strong>delle</strong> dimensioni veramente macroscopiche del<br />
fenomeno. Gli studi condotti a cominciare dagli anni Cinquanta hanno messo in<br />
luce, infatti, per tutte le realtà europee, intensi flussi migratori tra villaggio e villaggio<br />
e tra regione e regione.<br />
La parte probabilmente più consistente di questi spostamenti era legata alla<br />
cosiddetta mobilità matrimoniale. Dovunque si siano effettuati i calcoli relativi<br />
63
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
all’endogamia geografica, è risultato che il contributo di sposi, uomini o donne,<br />
provenienti da comunità diverse rispetto a quella dove veniva celebrato il matrimonio,<br />
non si limitava a essere di poche unità percentuali, ma superava non di<br />
rado il 20% o addirittura il 30% dei casi riferiti all’uno o all’altro sesso.<br />
Così, abbandonando l’ottica globale e addentrandosi in singoli aggregati territoriali,<br />
ci rendiamo conto non solo che nei secoli dell’età moderna vi era una forte<br />
emigrazione interna, ma che questa forma di mobilità era anche la più diffusa. Si<br />
veda, ad esempio, il caso illustrato dalla Tabella 2.1, che espone una stima di quante<br />
persone erano state coinvolte, almeno una volta nella loro vita, in un cambio di<br />
residenza da un luogo all’altro nelle regioni dell’Inghilterra centrale e meridionale.<br />
La presentazione <strong>delle</strong> cifre è già di per sé eloquente.<br />
Tabella 2.1 - Incidenza dell’emigrazione nell’Inghilterra centro-meridionale, 1660-1730<br />
Maschi<br />
Femmine<br />
Fonte: Moch [1992, 30]<br />
% % % % %<br />
rurale 31,3 69,0 45,7 15,2 8,1<br />
urbana 42,7 55,3 31,5 19,5 4,3<br />
totale 36,5 63,2 38,5 17,4 7,2<br />
rurale 23,7 76,3 55,3 16,0 5,0<br />
urbana 42,2 57,9 37,5 17,8 2,6<br />
totale 32,9 67,1 46,4 16,9 2,6<br />
Per analizzare le migrazioni interne non dobbiamo cambiare radicalmente la<br />
nostra prospettiva d’indagine. Non sempre, infatti, si possono fare <strong>delle</strong> distinzioni<br />
nette con le migrazioni internazionali, anche se queste differenze, ovviamente,<br />
esistono, e non solo per il raggio più limitato degli spostamenti.<br />
Le comunanze tra questi flussi interni e alcuni di quelli transoceanici erano in<br />
alcuni casi notevoli, anche se quantitativamente i percorsi più brevi erano seguiti<br />
da un numero maggiore di individui. Nella stessa Europa ci furono, infatti, massicci<br />
spostamenti, incentivati spesso dalle autorità politiche, per la colonizzazione di<br />
territori poco popolati. Tra questi furono particolarmente consistenti quelli diretti<br />
verso la Prussia orientale durante il regno di Federico II 8 e quelli verso la Russia<br />
della zarina Caterina II. Del resto, incentivi per venire in possesso di una abitazione,<br />
esenzioni fiscali, agevolazioni per ottenere la cittadinanza erano sempre stati<br />
64<br />
Stazionari<br />
(o tra città<br />
e campagna)<br />
Totale<br />
emigranti<br />
Movimenti<br />
entro la<br />
contea<br />
8 300.000 coloni circa che provenivano dai paesi tedeschi occidentali.<br />
Movimenti<br />
fuori dalla<br />
contea<br />
Movimenti<br />
non<br />
specificati
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
adottati in tutte le città per colmare i vuoti lasciati dalle non infrequenti epidemie.<br />
Non c’è che dire, anche nel Vecchio Continente, quando gli uomini erano pochi, gli<br />
stranieri erano i benvenuti.<br />
Nell’ambito <strong>delle</strong> migrazioni interne, dal punto di vista quantitativo, furono<br />
significativi anche gli spostamenti causati dagli eventi bellici. Qui i movimenti<br />
erano duplici: quelli degli eserciti e quelli <strong>delle</strong> popolazioni in fuga. Non si trattava<br />
di poca cosa. Le campagne militari, specie con l’introduzione <strong>delle</strong> innovazioni nel<br />
campo dell’organizzazione degli eserciti, potevano durare a lungo, mentre l’applicazione<br />
del principio per cui “la guerra alimenta la guerra”, sviluppato nel corso<br />
della Guerra dei Trent’anni, oltre a un numero rilevante di vittime tra la popolazione<br />
civile, provocava anche movimenti non secondari di profughi.<br />
Emigrazione per espulsione: la diaspora degli ebrei<br />
Nella storia degli ebrei, il 1492 non rappresenta la data della scoperta dell’America,<br />
ma l’anno in cui venne decretata la loro espulsione dai territori <strong>delle</strong> corone di Castiglia<br />
e Aragona. Anche se non si trattava del primo episodio di questo tipo nella stessa<br />
penisola iberica, esso fu sicuramente quello di dimensioni maggiori, e che segnò una<br />
cesura importante nella storia di questo popolo.<br />
Questa espulsione si caratterizzò, oltre che per contenuti religiosi, anche per i suoi<br />
connotati etnici, in quanto oggetto dell’espulsione furono anche i conversos, gli ebrei<br />
cioè che avevano abbracciato la religione cattolica. Gli esiliati dalla Spagna prima e<br />
dal Portogallo poi si dispersero in molte regioni del Mediterraneo, lungo l’asse che<br />
univa la penisola iberica all’Impero Turco. Nacquero così nuove correnti di traffico<br />
commerciale gestite da ebrei e anche nuove comunità.<br />
In età moderna, un’altra area da cui si originarono intensi flussi in uscita di ebrei fu<br />
la Germania. Qui però non ci fu una espulsione generale, anche per l’estrema frammentarietà<br />
politica del territorio, ma una lunga sequela di bandi, a volte solo temporanei,<br />
circoscritti a singole città o territori. Queste espulsioni si infittirono particolarmente<br />
negli stati guadagnati alla riforma. Contrariamente a quanto accadde nella<br />
penisola iberica, gli ebrei tedeschi non conobbero una diaspora caratterizzata in<br />
senso etnico. Tuttavia, se in certi stati, e in certi periodi, la presenza ebraica era vista<br />
come inquinante della morale cristiana, dei buoni costumi o, addirittura, della razza,<br />
in altri paesi, e in determinati momenti, era tollerata e, perfino, incentivata. Gli esempi<br />
di questo tipo riguardano il più <strong>delle</strong> volte <strong>delle</strong> realtà fortemente dinamiche dal<br />
punto di vista sia demografico che economico, come Amsterdam nel corso del Seicento<br />
o Trieste a cavallo tra Sette e Ottocento. In queste città, il ruolo degli ebrei come<br />
operatori commerciali e finanziari fu allo stesso tempo motore di sviluppo economico<br />
e fattore di attrazione per altri correligionari.<br />
65
Figura 2.1 - Percorsi <strong>delle</strong> migrazioni Hakkas durante il tardo periodo Ming<br />
Fonte: Leong [1997, 58]<br />
66
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Un altro importante fattore che alimentava la circolazione umana erano le espulsioni<br />
<strong>delle</strong> minoranze religiose. Tra queste interessarono un numero notevole di persone<br />
la cacciata dei circa 310.000 moriscos dalla Spagna, l’espulsione dei 150.000 ugonotti<br />
francesi, l’allontanamento degli anabattisti olandesi, per tacere poi dell’infinito<br />
numero di persecuzioni che costrinsero centinaia di migliaia di ebrei ad abbandonare<br />
le loro patrie, dalla fine della reconquista in Spagna ai pogrom dell’Europa orientale.<br />
La caratteristica comune a tutti questi movimenti, indipendentemente dal loro raggio<br />
di azione, e alle migrazioni transoceaniche era la durata, generalmente limitata<br />
nel tempo.<br />
Riducendo la distanza geografica tra aree di partenza e regioni di approdo, non è<br />
difficile individuare considerevoli flussi di uomini anche nei continenti extraeuropei,<br />
dove, in assenza di correnti intercontinentali di qualche rilevanza, si può constatare<br />
che dal punto di vista quantitativo essi furono decisamente superiori a quelli<br />
di lungo raggio. Secondo studi recenti, la Cina, ad esempio, durante tutta l’età moderna,<br />
era contrassegnata da una forte mobilità interna (per certi versi simile ai processi<br />
di colonizzazione attuati dagli europei negli altri continenti) che vedeva l’espandersi<br />
e il contrarsi <strong>delle</strong> aree di influenza di popolazioni intere. Tra le tante possibili<br />
vicende si possono citare quelle degli Hakkas [Leong 1997] e le diverse fasi<br />
della loro secolare emigrazione verso il Lingnan e il Golfo del Tonkino (Fig. 2.1).<br />
Tuttavia, l’area del globo che sembra essere stata, nei secoli dell’età moderna, la<br />
più ricca di emigrazioni interne è l’Africa subsahariana. Purtroppo gli studi sulla<br />
mobilità in questo territorio non sono numerosi e quei pochi si devono basare su<br />
fonti tramandate oralmente. Per questo motivo siamo decisamente poco informati<br />
anche sul loro aspetto quantitativo. Quello che è certo, comunque, è che mentre<br />
l’Europa, seppur a uno sguardo superficiale, può sembrare immobile, l’Africa sicuramente<br />
no, tanto che le migrazioni interne sono uno dei tratti distintivi della sua<br />
storia. Questa caratteristica è perfettamente in linea con il basso livello di popolamento<br />
dell’Africa nera e con le tecniche agricole relativamente primitive che vi<br />
venivano praticate [Vansina 1992]. I coltivatori africani, infatti, lavoravano suoli<br />
tropicali o subtropicali in maniera estensiva. Essi si muovevano pressoché di continuo,<br />
in quanto, anno dopo anno, ponevano a coltura nuovi terreni e abbandonavano<br />
progressivamente quelli già troppo sfruttati. Ne derivava una mobilità dei contadini<br />
molto maggiore che in Europa o Asia, dove, rinnovando la fertilità della stessa<br />
porzione di terreno, si praticava un’agricoltura di tipo intensivo. La stessa cosa<br />
dicasi per la pastorizia, benché le tecniche adottate in Africa fossero maggiormente<br />
comparabili con quelle dell’Asia centrale e della transumanza in Europa.<br />
Anche nell’America del Sud, per diretta conseguenza della colonizzazione, si produsse<br />
una serie di movimenti migratori interni, che coinvolsero, oltre ai nuovi<br />
venuti, anche le popolazioni autoctone. Il tratto caratteristico di questi spostamenti<br />
è dato, in particolare nei primi anni, dalla deportazione <strong>delle</strong> popolazioni indie<br />
dai territori nativi a quelli più intensamente sfruttati dagli europei. Ad esempio, è<br />
stato stimato che, tra il 1527 e il 1536, ben 448.000 schiavi siano stati imbarcati nel<br />
Nicaragua per essere condotti in Perù a lavorare nelle miniere [Sánchez-Albornoz<br />
1997]. Altri flussi analoghi interessarono lo Yucatàn e l’Honduras, da dove gli indios<br />
vennero portati a Cuba per essere impiegati nelle piantagioni. Più tardi, anche nell’America<br />
del Nord si assistette a grandi spostamenti coatti di manodopera.<br />
67
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Qui, però, gli schiavi erano africani, tuttavia coloro che vi giungevano non provenivano<br />
direttamente da oltreoceano, ma erano fatti giungere, ad esempio nel Settecento,<br />
dalle Barbados o da altre aree <strong>delle</strong> Indie occidentali.<br />
Nel Nuovo Continente, oltre a queste grandi emigrazioni interne di schiavi, c’erano<br />
quelle dei lavoratori liberi. Al Sud, oltre alla lenta colonizzazione di tipo agricolo,<br />
assistiamo ai flussi violenti, ma anche poco dilatati nel tempo, che interessarono<br />
i siti minerari d’argento e d’oro, dove folle di minatori improvvisati, di affaristi,<br />
di mercanti, di speculatori senza scrupoli vi si precipitarono attratti dal miraggio<br />
di una facile ricchezza. Al Nord, seppur a velocità ridotta, si protrassero per<br />
tutto il periodo gli spostamenti interni lungo l’interno e le coste.<br />
Quelle che abbiamo descritto fin qui furono correnti tendenzialmente definitive.<br />
Ma non era questo tipo di mobilità a contrassegnare i movimenti interni dell’età<br />
preindustriale, almeno in Europa.<br />
Il tipo di emigrazione più caratteristico del periodo era la cosiddetta emigrazione<br />
circolare, cioè quel tipo di spostamento perlopiù stagionale di lavoratori che, in relazione<br />
all’attività esercitata, si assentavano ogni anno da casa per un determinato<br />
periodo di tempo. Questa particolare mobilità presupponeva sempre il ritorno dell’emigrante<br />
alla famiglia che, invece, continuava a risiedere nella località di origine.<br />
In una età in cui la maggior parte <strong>delle</strong> attività produttive erano legate alla terra,<br />
in cui i costi di trasporto erano molto elevati e i tempi di trasferimento di uomini e<br />
merci erano lunghi e incerti, la vita <strong>delle</strong> comunità era strettamente vincolata<br />
all’andamento <strong>delle</strong> stagioni in misura molto maggiore di quanto non succeda<br />
oggi: i ritmi di spostamento dei lavoratori quindi, dovevano essere compatibili<br />
con la stagionalità della produzione.<br />
Le tipologie di questi movimenti erano numerose. Una forma di emigrazione circolare<br />
molto comune era quella legata ai lavori agricoli. Un tipico caso era quello<br />
degli Hollandsgänger, lavoratori che, periodicamente, si spostavano dalla Westfalia<br />
nei Paesi Bassi per falciare il fieno o per il raccolto del frumento [Lucassen 1984].<br />
Altra fonte di mobilità era l’allevamento transumante; in questo caso erano i pastori<br />
che, solitari o in gruppi, seguivano le greggi o le mandrie che periodicamente si<br />
spostavano dai pascoli invernali a quelli estivi e viceversa. L’esempio più famoso è<br />
sicuramente quello della potente corporazione dei pastori spagnoli, la mesta.<br />
Un terzo tipo molto diffuso di emigrazione circolare era dato dai lavoratori dell’edilizia,<br />
la cui attività si concentrava nei mesi estivi. Un’altra forma ancora di<br />
mobilità circolare era quella dei garzoni che, ad esempio nel caso della Francia,<br />
seguivano una sorta di apprendistato vagante, in cui fasi separate del mestiere si<br />
imparavano in diverse località; anche in questo caso, a seconda dei luoghi di provenienza<br />
e dei mestieri, i giovani apprendisti seguivano percorsi particolari che potevano<br />
tenere i fanciulli lontani da casa anche per lunghi periodi.<br />
L’ultimo caso di cui faremo cenno era quello dei merciai ambulanti, figure di<br />
lavoratori itineranti che nel complesso detenevano una fetta importante del commercio<br />
al minuto nelle <strong>società</strong> preindustriali [Fontaine 1993]. In tutta Europa decine<br />
di migliaia di uomini erano impegnati in queste attività, quasi sempre esercitate<br />
al di fuori del luogo di residenza. Si trattava di rivenditori di una gamma veramente<br />
impressionante di prodotti che comprendeva libri e oggetti di legno, spezie<br />
e medicinali, stoffe e monili.<br />
68
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Le migrazioni circolari si caratterizzavano, oltre che per la specializzazione dei<br />
mestieri, anche perché interessavano segmenti diversi della popolazione. Alcune -<br />
la grande maggioranza - erano solo maschili, altre solo femminili, tipica quella<br />
<strong>delle</strong> balie da latte. Alcune - come quella dei merciai ambulanti - potevano coinvolgere<br />
gli emigranti per tutta la durata della loro vita attiva, che così veniva scandita<br />
per decenni dal ritmo stagionale <strong>delle</strong> partenze e dei rientri; altre, invece, si concentravano<br />
solo in una fase della loro esistenza. Quest’ultimo era il caso, per esempio,<br />
degli Schwabenkinder, fanciulli che ogni anno, d’estate, partivano dal Voralberg<br />
alla volta della Svevia, dove si impiegavano come guardiani <strong>delle</strong> mandrie nei<br />
pascoli in quota [Spiss 1993].<br />
Molto spesso l’area di partenza di questi lavoratori era la montagna, una “fabbrica<br />
di uomini”, per usare una nota espressione di Braudel [1949, trad. it. 1976, 39].<br />
Grazie alla vasta gamma di mestieri e professioni, legati spesso ai settori secondario<br />
e terziario, in cui si erano specializzati diversi territori montani, tali aree riuscivano<br />
così a raggiungere livelli di popolamento anche di molto superiori a quelle<br />
che erano le possibilità fisiche del territorio.<br />
Per la loro caratteristica strutturale, le migrazioni circolari sono estremamente<br />
difficili da quantificare, tuttavia è certo che, anche in età moderna, coinvolgessero<br />
un numero molto consistente di individui. L’unico censimento complessivo che<br />
possediamo per l’Europa è una inchiesta realizzata dai funzionari napoleonici nel<br />
1811. Jan Lucassen [1984], che ha collazionato tutti i dati disponibili, ha stimato<br />
che a questa data, nella parte del continente sotto controllo francese, gli emigranti<br />
temporanei fossero circa 300.000 (Fig. 2.2).<br />
Secondo Carlo Corsini [1969, 108] possiamo essere certi che, retrocedendo nel<br />
tempo, questa cifra debba essere ritoccata anche in maniera consistente verso<br />
l’alto 9 . Infatti, l’indagine venne effettuata in un momento in cui l’emigrazione di<br />
tipo tradizionale era in piena fase discendente, anche a causa <strong>delle</strong> stesse guerre<br />
napoleoniche e, inoltre, numerosi territori di emigrazione non erano stati ricompresi<br />
nell’area oggetto dell’inchiesta. Ciononostante il dato è molto significativo.<br />
Esso, infatti, è superiore a quello del totale degli emigranti europei in America in<br />
tutto il XVI secolo. Però, mentre questi movimenti furono <strong>delle</strong> semplici partenze<br />
senza ritorno, l’emigrazione circolare presupponeva almeno due viaggi ogni anno<br />
su un percorso lungo decine o centinaia di chilometri.<br />
Questo modello di mobilità temporanea non era proprio soltanto dell’Europa,<br />
anche se, per quanto riguarda gli altri continenti, l’emigrazione circolare poteva<br />
strutturarsi in forme diverse. In Africa occidentale, ad esempio, oltre all’allevamento<br />
transumante, di cui abbiamo già fatto cenno, nel corso dell’età moderna, nacque<br />
una emigrazione circolare molto speciale, basata sulla razzia. Annualmente, i guerrieri<br />
di alcune <strong>società</strong> tribali organizzavano <strong>delle</strong> vere e proprie spedizioni militari<br />
9 Si pensi solo che nella seconda metà del Seicento, secondo un computo dell’epoca, da una sola provincia<br />
della Repubblica di Venezia, risultavano assenti oltre 1.600 individui, su un totale di circa<br />
27.000 abitanti. Quasi tutti erano impiegati in attività correlate all’emigrazione stagionale. Ogni<br />
anno, quindi, da poco più di un centinaio di piccoli villaggi montani si produceva un flusso di manodopera<br />
pari a un quarto di tutta l’emigrazione europea verso le Americhe.<br />
69
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
contro le popolazioni vicine [Cordell, Gregory e Piché 1996]. Il bottino era umano.<br />
Si trattava degli schiavi che sarebbero stati impiegati nelle piantagioni americane.<br />
Anche nel continente asiatico l’emigrazione circolare non era sconosciuta, le<br />
attività connesse riguardavano spesso l’allevamento, ma non mancavano movimenti,<br />
come vedremo meglio più avanti, molto simili a quelli europei.<br />
Figura 2.2 - Il sistema dell’emigrazione temporanea nell’Europa occidentale verso<br />
il 1800<br />
Fonte: Lucassen [1984, trad. ing. 1987, 106]<br />
70
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
In chiusura di paragrafo possiamo accennare ad alcune conclusioni. Le migrazioni<br />
interne, quando si trattava di flussi definitivi, avevano le stesse caratteristiche<br />
di quelle intercontinentali. Esse erano spesso collegate a una particolare congiuntura<br />
e in genere erano abbastanza circoscritte nel tempo. Le migrazioni circolari,<br />
invece, si prolungavano maggiormente. I flussi, infatti, non si esaurivano fino<br />
a che persisteva la specifica domanda di lavoro che li generava. In presenza di un<br />
sistema in cui le innovazioni tecnologiche procedevano a ritmo piuttosto lento e<br />
dove c’erano meno spiragli istituzionali per praticare una sorta di concorrenza,<br />
anche il mercato del lavoro era piuttosto stabile. Non mancarono, naturalmente,<br />
nel corso di tutto questo tempo, cambiamenti anche consistenti, riferibili a singole<br />
aree o a singole località, ma nel suo complesso il fenomeno si dimostrò molto<br />
più stabile, nelle sue caratteristiche fondamentali, <strong>delle</strong> altre migrazioni.<br />
2.2 Le migrazioni interne e la grande emigrazione<br />
Gli anni della grande emigrazione furono anche gli anni della tras<strong>formazione</strong><br />
<strong>delle</strong> migrazioni interne. Anzi, le stesse forze economiche e sociali che alimentarono<br />
i flussi transoceanici avevano cominciato ad agire proprio su scala più piccola,<br />
modificando profondamente le correnti a medio e breve raggio. Si verificarono<br />
cambiamenti strutturali nel modo di emigrare, di viaggiare, di lavorare 10 .<br />
Possiamo iniziare a parlare di queste novità laddove esse si manifestarono più<br />
precocemente, quindi in Inghilterra, la patria della rivoluzione industriale. La<br />
straordinaria velocità rispetto al passato, con cui, a partire dalla seconda metà del<br />
Settecento, il nuovo clima economico modificava continuamente antichi equilibri,<br />
provocò una impressionante serie di spostamenti interni al paese, che determinarono<br />
una redistribuzione della popolazione e una sua concentrazione in aree a più<br />
intenso tasso di sviluppo. Un po’ più tardi, anche nel continente si crearono nuovi<br />
flussi, generati dagli squilibri regionali indotti dall’industrializzazione, ma anche<br />
dalle trasformazioni in agricoltura.<br />
Come rispetto all’emigrazione oltreoceano, anche nel caso <strong>delle</strong> migrazioni<br />
interne uno stimolo molto forte venne dato dal miglioramento <strong>delle</strong> comunicazioni,<br />
quindi dalla maggiore velocità e dai costi inferiori degli spostamenti. Ai trasporti<br />
via mare, nelle tratte intracontinentali, si aggiunsero ora quelli via ferrovia.<br />
Ciascuno stato, in relazione alle proprie vicende politiche, a seconda del proprio<br />
itinerario verso l’industrializzazione e della tempistica con cui questa si attuò,<br />
diede vita, anche nelle successive trasformazioni dell’emigrazione, a dei percorsi<br />
originali. In alcuni paesi, come la Germania, le migrazioni interne si sovrapposero<br />
a quelle intercontinentali e le scalzarono. Dopo il 1880, nell’Impero degli Hohenzollern,<br />
l’emorragia di uomini dai Länder occidentali cessò, mentre, allo stesso<br />
10 Bisogna anche dire che permanevano migrazioni “vecchie” come, ad esempio, quelle determinate<br />
dalle persecuzioni religiose. Si pensi alle centinaia di migliaia di ebrei che furono costretti a lasciare<br />
i paesi dell’Europa orientale tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.<br />
71
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
tempo, i medesimi territori cominciarono ad attrarre molti emigranti dalla parte<br />
orientale dello stato. Oltre alle migrazioni interne, a cominciare dagli anni attorno<br />
al 1900, la Germania divenne un paese di immigrazione netta. Già nel 1914 erano<br />
presenti nel Reich oltre un milione di stranieri. In altri stati, i flussi continentali si<br />
sommarono a quelli transoceanici, come nel caso dell’Italia, il paese che, in questi<br />
anni, diede il contributo maggiore all’emigrazione interna all’Europa. Per quanto<br />
riguarda la penisola le correnti verso altre destinazioni europee furono ancora<br />
maggiori di quelli già impressionanti diretti verso le Americhe.<br />
72<br />
L’emigrazione come mestiere: il colportage<br />
Durante l’Ancien régime, molte aree montane d’Europa riuscirono per secoli a<br />
mantenere una netta sproporzione tra il numero di abitanti e le effettive capacità<br />
del suolo di dar loro di che sostentarsi. In queste aree, però, non era l’agricoltura a<br />
garantire livelli anche alti di vita a una popolazione troppo numerosa.<br />
In molte aree alpine del Delfinato, del Tirolo, del Friuli, si erano sviluppate <strong>delle</strong><br />
attività di tipo commerciale grazie alle quali venivano garantite alla maggior<br />
parte <strong>delle</strong> famiglie valligiane entrate sufficienti per gli acquisti dei grani in pianura,<br />
per integrare i raccolti agricoli, per perpetuare le loro attività.<br />
Anno dopo anno, seguendo il ritmo <strong>delle</strong> stagioni, migliaia di venditori ambulanti -<br />
chiamati colporteurs, se i loro mercati di sbocco erano francesi, o cramars se tedeschi<br />
- lasciavano le Alpi per andare a vendere libri, medicinali, stoffe e quant’altro<br />
nelle pianure e vi facevano ritorno al termine della stagione dei traffici, solitamente<br />
all’inizio dell’estate, per ricongiungersi alle rispettive famiglie, e per dare il loro<br />
apporto nei lavori agricoli.<br />
Nel corso dell’età moderna, si vennero strutturando solide e articolate organizzazioni<br />
commerciali, che avevano le loro basi sulle montagne ma i mercati di sbocco<br />
nelle città e nelle campagne. Nelle comunità di origine si fondavano i rapporti di<br />
subordinazione - sociale ed economica - che legavano i mercanti ambulanti ai loro<br />
padroni; nei centri urbani si stabilivano magazzini depositi e negozi dove si concentravano<br />
le merci e si gestiva l’attività commerciale; nelle campagne, infine, i<br />
merciai, vagando da casa in casa e da villaggio a villaggio, portando le loro mercanzie<br />
a spalla, in bisacce o scatole di legno, piazzavano le merci direttamente ai<br />
consumatori. Essenziale per le economie di molte zone alpine, il commercio stagionale<br />
si configurava anche come elemento regolatore della demografia montana.<br />
L’assenza prolungata degli uomini per molti mesi all’anno esercitava, infatti, un<br />
effetto depressivo sui livelli di fecondità, ed era un freno all’eccessivo sviluppo<br />
demografico dei villaggi.<br />
Nel corso dell’Ottocento, questo tipo di commercio conobbe ovunque una forte contrazione,<br />
e in qualche caso sparì del tutto. I fattori che ne decretarono la fine furono<br />
numerosi. Tra essi ebbero un ruolo particolarmente importante l’evoluzione dei<br />
consumi e la rivoluzione dei trasporti. L’economia di vaste zone montane venne<br />
completamente sconvolta, e dalle ceneri di questa migrazione “tradizionale”, nacquero<br />
nuovi modelli migratori più adeguati ad affrontare la mutata situazione<br />
dell’economia internazionale.
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Ancora diverso il caso della Russia. Qui le emigrazioni interne, considerati gli<br />
spazi immensi a disposizione, erano assimilabili ai processi di colonizzazione<br />
attuati oltre oceano. In questo paese, inoltre, la costruzione della ferrovia che collegava<br />
Mosca a Vladivostok segnò una svolta importante per i trasporti in tutta l’area.<br />
La costruzione di questa grande via di comunicazione avvenne ricalcando l’andamento<br />
di flussi già predeterminati, ma non vi è dubbio che, grazie a essa, i percorsi<br />
tradizionali subirono un impulso straordinario. La nuova opera, infatti, facilitò<br />
enormemente lo spostamento di grandi masse di uomini da un lato all’altro<br />
del suo sterminato territorio.<br />
Gli zingari: la migrazione come stile di vita?<br />
Le parole zingaro e nomade vengono usate generalmente come sinonimi. Per<br />
estensione si attribuiscono loro anche i significati di girovago e vagabondo. Tuttavia,<br />
l’idea dell’esistenza di un popolo migrante che ne deriva è in gran parte frutto<br />
di arbitrarie impressioni.<br />
Risalendo indietro nel tempo, nei paesi dell’Europa occidentale, la definizione “zingaro”<br />
era riservata agli stranieri che praticavano un mestiere itinerante e viaggiavano<br />
con le famiglie. Non si trattava necessariamente di una definizione dispregiativa.<br />
Durante l’Ottocento e parte del Novecento, lo zingaro non era considerato un<br />
povero o un parassita tout court. “Zingaro” era una etichetta priva di ogni connotazione<br />
etnica. Solo nel tempo la definizione venne estesa a tutti i tipi di gruppi itineranti,<br />
che si supponeva che discendessero dagli “zingari” originari.<br />
L’evoluzione del significato di questa parola non ha però alterato l’origine funzionale<br />
dell’emigrazione, che è ascrivibile, per certi versi, alla categoria <strong>delle</strong> emigrazioni<br />
circolari. Essa infatti conservava la sua specializzazione in mestieri, la sua<br />
natura temporanea, e spesso stagionale, anche se non presupponeva il periodico<br />
ritorno a una “fissa dimora”.<br />
Nell’Ottocento, le risultanze di un censimento effettuato in Ungheria al fine di<br />
misurare e contenere il fenomeno del nomadismo, attestarono che la maggioranza<br />
<strong>delle</strong> persone che si esprimevano nell’idioma “zingaro” si definivano ungheresi o<br />
valacchi, allo stesso tempo la gran parte di quanti si nominavano zingari svolgevano<br />
<strong>delle</strong> attività sedentarie. Insomma, dove gli zingari erano numerosi, la nozione<br />
di popolo di vaganti non esisteva neppure.<br />
Anche i paesi extraeuropei non rimasero estranei a questo intensificarsi dei flussi<br />
a media distanza, anzi, in alcune aree raggiunsero dimensioni ancora più impressionanti.<br />
In questo contesto acquistarono impulso particolare le migrazioni dalle<br />
isole del Giappone alla Cina, o ancora, dalle province settentrionali di questo<br />
immenso paese verso la Manciuria [Gottschang 1987]. Questa corrente migratoria<br />
in particolare, che si esplicò specialmente tra il 1890 e la seconda guerra mondiale,<br />
fu uno dei maggiori movimenti di popolazione della prima parte del Novecento.<br />
Con un flusso medio annuale di 500.000 persone e un totale netto di popolazione<br />
trasferita di 8 milioni di individui, questo esodo fu altrettanto imponente quanto<br />
73
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
l’emigrazione italiana nelle Americhe e, negli anni in cui fu più intensa, rivaleggiò<br />
con le correnti più violente dell’immigrazione europea negli Stati Uniti.<br />
Rimanendo nei paesi asiatici, abbiamo già parlato dell’emigrazione dei coolies.<br />
Questa forma di mobilità si dispiegò a livello mondiale, tuttavia, come abbiamo già<br />
fatto cenno, gran parte dei trasferimenti si attuarono entro un raggio più contenuto.<br />
Le destinazioni degli emigranti cinesi e indiani erano Burma, la Malesia, le Indie<br />
orientali olandesi, il Siam, l’Indocina francese, le Filippine. È stato stimato che, mentre<br />
in Europa infuriava la Grande Guerra, la popolazione cinese fuori dai confini<br />
dello stato fosse di 2.500.000 di persone, mentre, per quanto concerne l’India, dei sei<br />
milioni di emigranti netti che si contavano tra gli anni Trenta dell’Ottocento e del<br />
Novecento la maggior parte si era trasferita in altri paesi asiatici [Latham 1986, 11].<br />
Nuove emigrazioni interne si svilupparono anche nel continente americano,<br />
avviato oramai verso la totale colonizzazione. Le prime fasi della grande migrazione<br />
coincisero con la grande epopea della conquista del West. Non a caso questo<br />
processo poté dirsi concluso quando una linea ferroviaria giunse finalmente a collegare<br />
oceano Atlantico e oceano Pacifico. Nuovi flussi si verificarono anche in<br />
Oceania, dove assistiamo a spostamenti massicci dall’Australia alla Nuova Zelanda.<br />
Nel continente africano, addirittura, ridottisi e poi scomparsi del tutto i movimenti<br />
correlati alla tratta degli schiavi, la tradizionale emigrazione interna riprese<br />
anche quantitativamente il sopravvento.<br />
Le modificazioni dell’emigrazione internazionale imposte dal nuovo contesto<br />
economico mondiale furono, come abbiamo visto, notevoli, ma, almeno in Europa,<br />
uno dei cambiamenti più importanti che si verificò in questo periodo fu la tras<strong>formazione</strong><br />
e l’impressionante dilatazione dell’emigrazione circolare.<br />
Nel corso dell’età moderna, una <strong>delle</strong> maggiori spinte ai flussi stagionali di<br />
manodopera era costituita dalla ciclicità dei lavori nelle campagne. Le innovazioni<br />
introdotte in agricoltura, in particolare la crescente meccanizzazione, rendevano<br />
oramai superflue queste correnti. Ma, mentre l’emigrazione periodica dei braccianti<br />
agricoli stava scemando, si verificò lo straordinario boom <strong>delle</strong> costruzioni<br />
pubbliche, in particolare quelle ferroviarie, e lo spettacolare incremento dell’edilizia.<br />
La nuova domanda di lavoro, indotta dal mutato quadro dei sistemi di produzione,<br />
costituì la principale spinta all’espatrio di milioni di lavoratori ulteriormente<br />
facilitata dal miglioramento dei mezzi di trasporto che consentivano spostamenti<br />
più rapidi. Ma processi analoghi, perlomeno sul versante dell’emigrazione,<br />
si verificarono in altri continenti. Si pensi, per esempio, ai milioni di coolies indiani<br />
e cinesi che si impiegavano negli altri paesi asiatici, la cui emigrazione era in larga<br />
parte di tipo temporaneo e stagionale. In Africa, infine, nel corso dell’Ottocento,<br />
l’emigrazione circolare venne regolamentata per essere funzionale al sistema<br />
imposto dai paesi coloniali e per liberare le imprese europee dai costi di riproduzione<br />
della forza lavoro e del suo mantenimento nei periodi di inattività. Qui, i percorsi<br />
della mobilità tradizionale si collegavano con la migrazione moderna.<br />
Anche queste emigrazioni, in maniera ancora più netta - almeno in ambito europeo<br />
- rispetto a quelle transoceaniche, si arrestarono bruscamente con lo scoppio<br />
della prima guerra mondiale, ma ripresero, seppur con meno energia dopo la fine<br />
del conflitto. Pochi anni dopo, però, si ridussero nuovamente, in analogia a quanto<br />
stava accadendo in molti paesi del mondo.<br />
74
3. Verso la città<br />
3.1 L’età moderna<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Nel corso dell’età moderna, il bilancio demografico <strong>delle</strong> città europee era costantemente<br />
negativo. In ambito urbano, infatti, la fecondità non si discostava<br />
sostanzialmente da quella <strong>delle</strong> campagne, mentre la mortalità era molto più elevata.<br />
Ciò era dovuto al fatto che le già pessime condizioni igienico-sanitarie in cui<br />
versavano le <strong>società</strong> pre-industriali erano peggiori entro le cinta murarie che all’esterno,<br />
sia per la maggior facilità con cui le frequenti epidemie si diffondevano in<br />
ambienti densamente popolati, sia per la mancanza di sistemi fognari e di efficienti<br />
sistemi per l’eliminazione dei rifiuti.<br />
Mentre l’alta mortalità depauperava le città dei loro abitanti, numerosi fattori<br />
di attrazione ne facevano giungere di nuovi dal contado o da altre regioni. Per la<br />
crescita urbana, o anche solo per mantenere costanti i livelli di popolamento, e in<br />
ultima istanza per l’esistenza stessa di queste concentrazioni umane, il ruolo dell’emigrazione<br />
era essenziale. Più una città era grande maggiore doveva essere il suo<br />
bacino demografico, quindi, più rilevanti erano questi flussi.<br />
In alcune metropoli, inoltre, l’immigrazione non servì solo a rimpiazzare i vuoti<br />
causati dall’alta mortalità, ma si rivelò un vero e proprio volano per la crescita<br />
demografica. Il caso di Londra è particolarmente significativo. Secondo quanto<br />
sostenuto da Paul Bairoch [1985, 268], tra Seicento e Settecento la città assorbì l’80%<br />
della crescita naturale dell’Inghilterra. Il saldo migratorio netto fu in questo periodo<br />
di 900.000 unità, un flusso paragonabile a quello transoceanico. Tra i due estremi<br />
temporali la popolazione della capitale inglese era passata da 190.000 a 550.000 abitanti.<br />
Forse non in maniera così eclatante, ma anche altre capitali ottennero performances<br />
di questo tipo. Si veda l’irruente crescita urbanistica e demografica di<br />
Madrid dopo che vi si era trasferita la corte imperiale, o di Parigi, il cui peso demografico,<br />
nell’età dell’assolutismo, diventava sempre più grande rispetto al resto<br />
della Francia, o, ancora, di Amsterdam, che tra 1550 e 1700 era passata da 30.000 a<br />
200.000 abitanti.<br />
I motivi per cui si poteva decidere di trasferirsi in città erano diversi. Ad esempio<br />
i poveri <strong>delle</strong> campagne, in particolare nei non rari periodi di carestia, vi venivano<br />
calamitati dalla migliore organizzazione assistenziale di cui erano dotati gli<br />
ambienti urbani 11 . Città religiose o amministrative, grazie alle loro funzioni specifiche,<br />
disponevano di motivi di richiamo supplementari. Un altro esempio di fattore<br />
di attrazione è dato dalla presenza di una università, che faceva giungere numerosi<br />
studenti sia da aree vicine, sia da altri luoghi, in quella che è stata definita la<br />
peregrinatio academica. Tuttavia, la maggior fonte di immigrazione era data dal<br />
11 Poiché in queste occasioni a giungere in città erano molto spesso le persone più povere, erano gli<br />
stessi immigrati ad alimentare gli alti livelli di mortalità.<br />
75
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
ruolo economico che le città assolvevano, e in particolare dalla loro struttura produttiva.<br />
Esse, per le molteplici opportunità di lavoro che offrivano, attraevano<br />
maestranze di qualsiasi tipo, da quelle più specializzate, sottratte spesso ad altri<br />
centri urbani, a quelle meno qualificate, il cui bacino di utenza era, di regola, limitato<br />
perlopiù alle loro più immediate zone di influenza.<br />
Braudel offre una immagine efficace di questi flussi riferendosi ad alcune città<br />
capitale. Il grande storico francese scriveva che “La simbiosi consueta, ben solida, è<br />
fra una regione povera, fornitrice di emigranti regolari, e una città attiva: il Friuli<br />
rispetto a Venezia, cui i ‘furlani’ forniscono uomini di fatica e servitori… Ma ogni<br />
grande città avrà i suoi dieci, cento punti di reclutamento. Anche a Parigi, alla fine<br />
del Settecento gli uomini di fatica erano tutti stranieri o, meglio, venivano dalle<br />
campagne circostanti, o dai monti” [Braudel 1979a, trad. it. 1982, 386].<br />
Oltre a emigrazioni di sostituzione o congiunturali, le città calamitavano anche<br />
molti flussi di tipo temporaneo, perlopiù stagionale, che interessavano i lavoratori<br />
impiegati periodicamente in alcuni settori produttivi. Queste correnti non sono<br />
altro che la versione urbana dell’emigrazione circolare a medio raggio che abbiamo<br />
osservato in precedenza, e che abbiamo riferito solamente ad alcune attività<br />
lavorative come l’agricoltura o il colportage. Anche il sistema economico cittadino,<br />
infatti, si basava per gran parte su attività commerciali o artigianali regolate<br />
anch’esse da un calendario tradizionale modellato sul ritmo <strong>delle</strong> stagioni. Così, i<br />
lavoratori edili vi si trasferivano nella stagione calda, mentre quelli impiegati nel<br />
settore tessile - espressione generica con cui si deve intendere una serie sorprendentemente<br />
vasta di attività diverse - tendenzialmente nella stagione fredda.<br />
Forse non con dinamiche identiche, ma certo dovunque, le città svolgevano<br />
ruoli simili. Dappertutto vi erano città commerciali, poste sulle principali vie di<br />
comunicazione, città fortezza, città religiose, città amministrative. Tutte, indipendentemente<br />
dal loro ruolo primario, svolgevano un’importante funzione economica,<br />
anche se solo come centro di consumo e quindi, in ogni caso, centro di scambi.<br />
Naturalmente non sempre è facile trovare dei paralleli in tutto il mondo. Nell’interno<br />
semiinesplorato di Africa o America settentrionale, che rimasero per buona<br />
parte dell’età moderna le aree più arretrate del pianeta, veri e propri centri urbani<br />
non esistevano. In Asia il concetto stesso di città sembra allontanarsi radicalmente,<br />
dal punto di vista semantico, dalla sua visione europea [Chaudhuri 1990, 340].<br />
Anche se nelle più disparate regioni del globo, le diverse culture, sedimentandosi<br />
nel corso dei secoli, avevano dato vita a complessi urbani molto differenziati sia<br />
per l’aspetto <strong>delle</strong> case e dei palazzi, sia per la loro distribuzione funzionale, ovunque<br />
però la situazione igienico-sanitaria era pessima. Le città europee e quelle dei<br />
continenti “europeizzati”, che furono le prime a munirsi di un sistema fognario di<br />
tipo moderno, cominciarono a dotarsi di queste infrastrutture solo negli anni centrali<br />
dell’Ottocento. Prima di queste realizzazioni, e anche per le scarse e ingannevoli<br />
conoscenze in campo medico, il regime demografico urbano non doveva cambiare<br />
di molto, in ogni parte del mondo. Non meraviglia, quindi, che ovunque volgiamo<br />
il nostro sguardo, osserviamo <strong>delle</strong> migrazioni simili a quelle che abbiamo<br />
già notato parlando dell’Europa.<br />
Tanto per fare alcuni esempi, <strong>delle</strong> ricerche incentrate sulle città della Cina, nei<br />
periodi Ming e Qing (1368-1911), indicano l’esistenza, nel lungo periodo, di una<br />
76
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
costante tendenza all’inurbamento di abitanti <strong>delle</strong> campagne [Liu 1990]. Secondo<br />
Nicholas Tarling [1992, 472], nel Sud-Est asiatico, area che tra Cinquecento e Seicento<br />
era fortemente urbanizzata, le grandi città commerciali dipendevano dai<br />
capricci dei traffici internazionali, e le loro popolazioni aumentavano e diminuivano<br />
concordemente a essi 12 .<br />
Per quanto riguarda le correnti centripete, analogamente a quanto avveniva in<br />
Europa, esse non si manifestavano sotto forma di una costante urbanizzazione di<br />
abitanti della campagna, ma anche come flussi di lavoratori sintonizzati con la<br />
periodicità dei ritmi economici. La stagionalità dei monsoni, ad esempio, riempiva<br />
e svuotava alternativamente le città del Sud-Est asiatico di marinai e mercanti che<br />
si aggiungevano - o sottraevano - alla popolazione residente per sei mesi all’anno,<br />
mentre le fiere e i mercati, con cadenza assai più fitta, facevano affluire moltitudini<br />
di persone dalle zone adiacenti alle singole città. La capitale vietnamita Thang-long<br />
(Hanoi), in particolare, attirava così tanta gente al primo e quindicesimo giorno di<br />
ogni mese lunare, da indurre alcuni a stimarla come la più popolata città del<br />
mondo [Tarling 1992, 472]. A Surat, durante la stagione dei commerci che andava<br />
da gennaio a marzo, la città era talmente piena che era difficile trovare alloggio<br />
[Chaudhuri 1990, 371].<br />
Ma anche nell’America meridionale, che si stava lentamente colonizzando per<br />
opera degli europei, cominciava a delinearsi una forma urbana simile a quella del<br />
Vecchio Continente. Nascevano grandi città, frutto di potenti flussi migratori.<br />
Abbiamo già fatto cenno a Minas Gerais, ma il caso più eclatante è sicuramente<br />
quello di Potosì. In questa località, praticamente deserta prima della conquista<br />
spagnola, nel 1557, 12 anni dopo la scoperta dell’argento, vi si contavano 12.000<br />
abitanti; nel 1572 la popolazione era salita a 120.000 unità, e nel 1610, momento in<br />
cui aveva già imboccato la strada del declino, a 160.000. Questi livelli di popolamento<br />
poterono essere raggiunti solo grazie alle migrazioni interne.<br />
È interessante osservare che nell’America del Sud gli spagnoli attuarono una ristrutturazione<br />
del territorio, trasformando il tessuto urbano preesistente e conformandolo<br />
alle loro esigenze. Oltre alla valorizzazione dei siti minerari e <strong>delle</strong><br />
vie di trasporto dei metalli preziosi, presidiati appunto con <strong>delle</strong> città, i centri<br />
principali vennero creati lungo la linea costiera. Per gli immigrati, quindi, oltre a<br />
essere il punto di approdo dopo il lungo viaggio transoceanico, la città rimaneva<br />
anche in seguito il principale punto di riferimento. Non di rado, quanti dovevano<br />
risiedere forzatamente in campagna, per lo svolgimento <strong>delle</strong> attività legate all’agricoltura,<br />
usavano tenere una abitazione nel centro più vicino per risiedervi solo<br />
per parte dell’anno. Anche in questo contesto, adattati a esigenze particolari, si<br />
creavano perciò dei flussi periodici tanto in entrata che in uscita, regolati dal<br />
calendario agricolo. Possiamo usare ancora una volta le parole di Fernand Braudel<br />
12 Oltre che per motivi economici le popolazioni di questi centri erano caratterizzate da drammatici<br />
sbalzi anche per questioni politiche, ma in generale, tanto il loro rapido sviluppo quanto l’altrettanto<br />
repentina decadenza dipendevano, in larga misura, dai flussi migratori.<br />
77
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
[1979a, trad. it. 1982, 397] per sintetizzare, in termini generali, l’insieme di questi<br />
processi: “A seconda del momento, la città agisce su spazi variabili in proporzione<br />
alla sua grandezza: eccola traboccante e poi vuotata, di volta in volta, dal ritmo<br />
della sua esistenza”.<br />
3.2 Le città e la grande migrazione<br />
L’Ottocento è il secolo della urbanizzazione. In questo periodo assistiamo, infatti,<br />
a cominciare dal continente europeo, al decollo <strong>delle</strong> popolazioni urbane rispetto a<br />
quelle rurali. I dati disponibili sono molto eloquenti. La popolazione rurale francese,<br />
per esempio, calò continuamente dal 1846 al 1911, passando da 26.800.000 a<br />
22.100.000 abitanti. La sola Parigi assorbì il 36,6% dello sviluppo urbano dal 1851 al<br />
1911 [Poussou 1989, 89]. La parte preponderante di questa crescita era dovuta<br />
all’immigrazione dalle campagne. Analogamente alla Francia simili dinamiche<br />
sono osservabili in tutta Europa (Tab. 3.1).<br />
Ai flussi stagionali e temporanei, incarnati dalla migrazione circolare, che<br />
cominciarono a perdere importanza prima in termini relativi, poi anche in termini<br />
assoluti, vennero progressivamente sostituendosi <strong>delle</strong> correnti di sola entrata.<br />
L’insieme di questi spostamenti a senso unico prende il nome di “esodo rurale” 13 .<br />
Bisogna comunque dire che, in ambito urbano, i movimenti circolari avevano<br />
cominciato a perdere, ancora prima della grande migrazione, alcuni dei caratteri<br />
che avevano nel passato, perché cambiò, prima ancora dei sistemi produttivi, il<br />
modo di intendere il lavoro. Il riflesso più forte di questo mutato atteggiamento fu<br />
l’abolizione, avvenuta in tutta Europa tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento,<br />
<strong>delle</strong> corporazioni.<br />
Il trasferimento massiccio di popolazione dalla campagna alla città, cioè dall’agricoltura<br />
e dall’industria rurale alle industrie cittadine e al mercato urbano del lavoro<br />
di massa, riflette dei cambiamenti fondamentali nella dislocazione <strong>delle</strong> attività economiche<br />
che a loro volta furono centrali per la rapida urbanizzazione. Quindi, questo<br />
decollo demografico è imputabile anch’esso, almeno all’inizio, al processo di<br />
industrializzazione che, procedendo dall’Inghilterra, conquistò, nel corso dell’Ottocento,<br />
sempre nuove aree tanto in Europa che in America. Questo fenomeno è diventato<br />
gradualmente una realtà sempre più importante nel contesto complessivo <strong>delle</strong><br />
migrazioni, anche se la sua portata, in molte aree del globo, non è più in rapporto<br />
diretto con il ritmo di crescita <strong>delle</strong> attività specificamente urbane.<br />
13 È certo vero che un altro motivo del forte sviluppo demografico <strong>delle</strong> aree urbane è imputabile<br />
alla flessione della mortalità, quindi, da un certo punto di vista, il ruolo dell’emigrazione nello sviluppo<br />
cittadino declinò nel periodo del trionfo dell’urbanizzazione. Tuttavia, l’importanza della<br />
componente migratoria rimase fondamentale. È anche interessante osservare che, nel medesimo<br />
periodo, nacquero nuovi flussi stagionali e temporanei, destinati a un grande avvenire, quelli cioè<br />
che si dirigevano verso le nuove città balneari. Nel 1881 Nizza attirava, grazie a un collegamento<br />
ferroviario, più di 300.000 visitatori all’anno, ai quali vanno sommati anche quelli di un nuovo<br />
tipo di manodopera.<br />
78
Tabella 3.1 - Evoluzione della popolazione urbana (in milioni) e del tasso<br />
di urbanizzazione dell’Europa (senza la Russia),1700-1950<br />
Popolazione urbana Tasso di urbanizzazione<br />
Anno Popolazione milioni variazione popolazione variazione<br />
totale annuale % totale % annuale<br />
1700 102 12,6 - 12,3 -<br />
1750 120 14,7 0,3 12,2 0,0<br />
1800 154 18,6 0,5 12,1 0,0<br />
1850 203 38,3 1,5 18,9 0,9<br />
1880 243 71,4 2,1 29,3 1,5<br />
1900 285 108,3 2,1 37,9 1,3<br />
1910 312 127,1 1,6 40,8 0,7<br />
1930 333 159,7 1,1 47,9 0,8<br />
1950 367 186,0 0,8 50,7 0,3<br />
Fonte: Bairoch [1985, 282]<br />
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Ci furono poi anche dei progressi in agricoltura, che permettevano a un numero<br />
sempre minore di uomini di coltivare la medesima superficie di terreno e di produrre<br />
al contempo un numero crescente di derrate alimentari. Nel corso del secolo,<br />
insomma, oltre alla fine del “freno malthusiano”, che poneva nel limite <strong>delle</strong><br />
risorse le possibilità di sviluppo della popolazione, assistiamo anche alla recisione<br />
dei legami che tenevano vincolata alla terra la maggior parte della popolazione<br />
attiva.<br />
Nell’era della grande emigrazione, dal punto di vista demografico, non cambiarono<br />
solo i rapporti tra le città e le loro zone d’influenza, ma si crearono ex novo <strong>delle</strong><br />
relazioni tra sviluppo urbano ed emigrazione transoceanica [Baines 1995]. È possibile<br />
ipotizzare, infatti, che parte della pressione all’emigrazione che si generava<br />
nelle campagne sovrappopolate venisse assorbita dalle città. Lo sviluppo <strong>delle</strong> aree<br />
urbane europee, infatti, creò opportunità economiche nel Vecchio Continente e<br />
potenzialmente una destinazione alternativa per quanti abbandonavano le campagne.<br />
Poi, se la crescita urbana si rivelava inadeguata ad assorbire tutta la manodopera,<br />
allora, coloro che rimanevano esclusi decidevano di emigrare oltreoceano.<br />
Gli alti quozienti di emigrazione dall’Irlanda, per esempio, sono forse da collegarsi<br />
con il tasso di urbanizzazione relativamente contenuto di questo paese, mentre,<br />
come abbiamo visto, il marcato declino dell’emigrazione dalla Germania dopo il<br />
1880 è da attribuirsi alla rapida urbanizzazione della Sassonia e della Ruhr.<br />
Il ruolo <strong>delle</strong> città non si esauriva però qui. In particolare, in questo torno di<br />
anni, assistiamo, su entrambe le sponde dell’Atlantico, al rapido sviluppo demografico<br />
<strong>delle</strong> città portuali. Non si trattò di una novità assoluta. Nei primi secoli<br />
dell’età moderna, per esempio, ci fu la forte crescita di Siviglia, porto dove dovevano<br />
concentrarsi tutti i traffici spagnoli da e per il Nuovo Mondo. Abbiamo visto<br />
anche come, sulla sponda opposta dell’oceano, la colonizzazione si fosse riverbera-<br />
79
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
ta sulla nuova struttura urbana dell’America Latina, incentrata ora sulle comunità<br />
costiere. Gli sviluppi dei secoli passati non derivavano però in maniera così forte<br />
dall’emigrazione come sarebbe accaduto in seguito.<br />
Nel corso dell’Ottocento, infatti, la crescita demografica <strong>delle</strong> città portuali fu<br />
particolarmente accentuata. I porti erano diventati i collettori di enormi flussi<br />
umani. In Europa, dalle loro banchine partivano moltitudini di emigranti che provenivano<br />
dall’entroterra, oppure da paesi lontani. Nei paesi di arrivo, costituivano<br />
la strozzatura da dove, necessariamente, tutti gli immigrati dovevano transitare. Le<br />
grandi concentrazioni che così si crearono avevano generato opportunità di lavoro<br />
e sviluppo. Insomma, i centri portuali divennero essi stessi meta di emigrazione.<br />
Genova, Napoli e Palermo in Italia, Trieste in Austria-Ungheria, Amburgo e Brema<br />
in Germania, Le Havre e Marsiglia in Francia, Liverpool in Inghilterra sono altrettanti<br />
esempi di città europee in rapida crescita urbanistica e demografica proprio<br />
negli anni in cui i loro entroterra subivano il maggior salasso demografico della<br />
storia. Dall’altra parte del mare New York, Buenos Aires, Montevideo conobbero<br />
una crescita notevolissima, ma il processo si può estendere a tutti i continenti e a<br />
tutti gli oceani. Nel 1920 la maggior parte <strong>delle</strong> città più grandi del mondo erano<br />
anche degli scali passeggeri, gli stessi scali da cui milioni di emigranti erano partiti<br />
o sbarcati negli ultimi 50 anni (Fig. 3.1).<br />
Per concludere, nelle pagine precedenti abbiamo visto come sia impossibile<br />
pensare all’emigrazione senza pensare alla città. Grazie alla loro influenza come<br />
centri politici, culturali, religiosi ed economici, i centri urbani hanno sempre rappresentato<br />
un nucleo di attrazione demografica per le rispettive aree di influenza.<br />
Non solo questa capacità si è mantenuta inalterata per tutto l’arco cronologico che<br />
abbiamo considerato, ma si è ulteriormente arricchita. Insomma, se dovessimo<br />
riassumere il ruolo <strong>delle</strong> città nel contesto della storia dell’emigrazione non<br />
potremmo che convenire con la definizione data loro da Leslie Page Moch [1992, 8]<br />
che è quello di long term gainer dei flussi migratori.<br />
Conclusioni<br />
Come abbiamo visto, la storia dell’uomo è sempre stata contraddistinta da una<br />
forte mobilità. Negli ultimi cinque secoli, in misura più o meno marcata, non c’è<br />
stata area del mondo dove una qualificata minoranza o, addirittura, la maggioranza<br />
assoluta degli uomini e <strong>delle</strong> donne non siano stati degli emigranti per almeno<br />
una volta nel corso della loro vita. Questa propensione a muoversi non ha però<br />
mantenuto in tutto questo tempo le medesime caratteristiche. Troppi i cambiamenti<br />
sopravvenuti in mezzo millennio perché le emigrazioni non ne venissero a<br />
loro volta condizionate.<br />
Abbiamo cercato di mettere in evidenza come la storia <strong>delle</strong> migrazioni mondiali<br />
abbia conosciuto a partire dalla metà del XIX secolo una profonda tras<strong>formazione</strong>,<br />
che interessò pressoché contemporaneamente il fenomeno in tutte le forme<br />
in cui lo abbiamo classificato. Questa metamorfosi fu la conseguenza di un insieme<br />
di rapidi sviluppi sociali, economici, culturali e tecnici che, per la prima volta,<br />
coinvolsero, seppur in misura diversa, tutti i paesi del mondo.<br />
80
Figura 3.1 - Dislocazione geografica <strong>delle</strong> più grandi città del mondo, 1920<br />
Fonte: United Nations [1969, 40]<br />
81
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Il passaggio tra emigrazione tradizionale e nuova emigrazione fu sicuramente<br />
qualche cosa di rivoluzionario, anche se alcuni aspetti del “prima” rimangono ancora<br />
leggibili nel “dopo”.<br />
Nei secoli dell’età moderna i flussi più notevoli erano sicuramente quelli a raggio<br />
più breve, molto spesso tra città e campagna, mentre, mano a mano che i percorsi<br />
si facevano più lunghi o più difficili, il numero di persone che si muovevano o<br />
che cambiavano domicilio tendeva a ridursi drasticamente. L’emigrazione intercontinentale<br />
fu, tutto sommato, poca cosa. La frequenza dei viaggi e la cadenza<br />
degli spostamenti erano tanto più serrate quanto più vicini erano il luogo di partenza<br />
e quello di destinazione, pertanto, maggiore era l’estensione del viaggio,<br />
meno probabile il ritorno. Inoltre, il raggio dell’emigrazione era inversamente proporzionale<br />
alla sua “strutturalità”. Quindi se una emigrazione era a lungo raggio<br />
aveva la tendenza a essere di breve durata, se a corto raggio, l’opposto.<br />
Dalla metà del XIX secolo, invece, grazie alla navigazione a vapore e alla costruzione<br />
<strong>delle</strong> strade ferrate, aumentò notevolmente la distanza media di percorrenza<br />
e, in concomitanza alla grande emigrazione, anche i tragitti più lunghi divennero<br />
frequentati da un numero di uomini finalmente paragonabile a quelli dell’emigrazione<br />
circolare e dei nuovi flussi a media distanza. Per alcuni anni e per alcuni paesi<br />
- come l’Irlanda a metà Ottocento e l’Italia a cavallo tra Otto e Novecento - addirittura<br />
li superarono. Il miglioramento <strong>delle</strong> comunicazioni non solo rese possibile l’ampliamento<br />
del raggio degli spostamenti e della quantità degli emigranti, ma<br />
aumentò la velocità e la sicurezza dei movimenti, e contemporaneamente ne diminuì<br />
il costo.<br />
Mentre la navigazione a vapore rese possibile la traduzione di centinaia e poi<br />
migliaia di persone per ogni singolo viaggio da una parte all’altra dell’oceano in<br />
poche settimane, le ferrovie velocizzarono gli spostamenti terrestri. Le ferrovie, in<br />
particolare, permisero di effettuare, a un numero sempre maggiore di individui,<br />
nell’arco di una stessa giornata, un viaggio di andata e ritorno entro uno spazio di<br />
alcune decine di chilometri. L’aumentata frequenza degli spostamenti, resa ora<br />
possibile, generò una tras<strong>formazione</strong> non solo quantitativa dell’emigrazione, ma<br />
anche qualitativa. Mentre nei secoli dell’età moderna e prima, quando gli spostamenti<br />
non potevano essere realizzati in tempi brevi, il ritmo principale della vita<br />
urbana era scandito dall’alternarsi <strong>delle</strong> stagioni, avanzando con gli anni, le città si<br />
riempivano e si svuotavano di persone in tempi sempre più brevi, fino a raggiungere,<br />
appunto, una scansione quotidiana. Addentrandoci nel Novecento la città ha<br />
continuato a comportarsi come un polmone, ma la frequenza dei movimenti è<br />
diventata molto più rapida. L’emigrazione circolare è scomparsa per lasciare il<br />
posto a degli spostamenti che, evidentemente, migratori più non sono.<br />
Ma la sola introduzione di nuove tecnologie nel campo dei trasporti non fu fattore<br />
sufficiente a cambiare l’emigrazione. Un contributo altrettanto rilevante<br />
venne dato dai mezzi che permisero una sempre più veloce trasmissione <strong>delle</strong><br />
informazioni tra emigrante e famiglia o tra emigrante e comunità, come la posta, il<br />
telegrafo, e, in tempi assai più recenti, il telefono. Infatti, l’emigrazione come fenomeno<br />
collettivo, quella almeno di tipo volontario, è frutto dell’interagire di una<br />
serie di scelte individuali. Queste scelte, ieri come oggi, venivano effettuate non<br />
solo sulla base di risposte elementari a esigenze economiche - i cosiddetti fattori di<br />
82
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
attrazione e di repulsione -, ma tenendo conto di una serie molto complessa di<br />
ragioni che riguardano il singolo individuo 14 . Tra queste, il ruolo della trasmissione<br />
<strong>delle</strong> informazioni assume rilievo centrale per cogliere il divenire storico dell’emigrazione.<br />
Infatti, se con l’introduzione di mezzi di comunicazione sempre più rapidi<br />
ed economici diventava più agevole contattare la famiglia, i parenti, gli amici, la<br />
distanza fisica rappresentava sempre meno un motivo sufficiente a recidere i rapporti<br />
con la propria terra e la propria comunità. Così, mentre il raggio <strong>delle</strong> emigrazioni<br />
temporanee si estendeva a tutto il mondo, il processo di sradicamento da<br />
una realtà all’altra cominciava a prolungarsi. Contemporaneamente giungeva sempre<br />
più tardi il momento in cui l’emigrante diventava, definitivamente, un immigrato.<br />
14 Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai alla medesima sollecitazione, poniamo una grave crisi<br />
economica, la strada dell’espatrio non sia percorsa, oggi come nel passato, che da una minoranza<br />
della popolazione interessata.<br />
83
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Bibliografia<br />
AA.VV.<br />
1994 Les migrations internes et medium-distance en Europe 1500-1900, Santiago de Compostela,<br />
I Conférence européenne de la Commission internationale de démographie historique.<br />
Bailyn, B. e Wood, G.S.<br />
1985 The Great Republic. A History of the American People, Lexington (Massachussettes), Heat<br />
and Company, trad. it. Le origini degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1987.<br />
Baines, D.<br />
1995 Emigration from Europe 1815-1930, Cambridge, Cambridge University Press.<br />
Bairoch, P.<br />
1985 De Jéricho à Mexico. Villes et économie dans l’histoire, Paris, Gallimard.<br />
Braudel, F.<br />
1949 La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Colin, trad it.<br />
Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976.<br />
1979a Civilisation materielle, économie et capitalisme, XV-XVIII siècle, 1, Les structures du quotidien:<br />
le possible et l’impossible, Paris, Colin, trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo<br />
(secoli XV-XVIII), I, Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi, 1982.<br />
1979b Civilisation materielle, économie et capitalisme, XV-XVIII siècle, 2, Les jeux de l’échange,<br />
Paris, Colin, trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), II, I giochi<br />
dello scambio, Torino, Einaudi, 1982.<br />
Cavaciocchi, S. (a cura di)<br />
1994 Le migrazioni in Europa secc. XIII-XVIII, Firenze, Le Monnier.<br />
Châtelain, A.<br />
1976 Les migrants temporaires en France de 1800 à 1914. Histoire économique et sociale des<br />
migrants temporaires des campagnes françaises du XIXe au début du XXe siècle, Villeneuve,<br />
Publications de l’Université de Lille III.<br />
Chaudhuri, K.N.<br />
1990 Asia before Europe. Economy and Civilisation of the Indian Ocean from the Rise of Islam<br />
since 1750, Cambridge, New York (New York), Cambridge University Press.<br />
Cohen, R. (a cura di)<br />
1995 The Cambridge Survey of World Migration, Cambridge, New York (New York), Cambridge<br />
University Press.<br />
Collinson, S.<br />
1994 Europe and International Migration, London, New York (New York), Pinter Publishers for<br />
the Royal Institute of International Affairs, trad. it. Le migrazioni internazionali e l’Europa,<br />
Bologna, Il Mulino, 1994.<br />
Cordell, D.D., Gregory, J.W. e Piché, V.<br />
1996 Hoe & Wage. A Social History of a Circular Migration System in West Africa, Boulder (Colorado),<br />
Oxford, Westview Press.<br />
Corsini, C.<br />
1969 Le migrazioni stagionali di lavoratori nei Dipartimenti italiani del periodo napoleonico<br />
(1810-1812), in Saggi di demografia storica, Firenze, Dipartimento Statistico-Matematico,<br />
Università di Firenze.<br />
Curtin, P.D.<br />
1969 The Atlantic Slave Trade: a Census, Madison, University of Wisconsin Press.<br />
Emmer, P.C. (a cura di)<br />
1986 Colonialism and Migration; Indetured Labour Before and After Slavery, Dordrecht, Boston,<br />
Lancaster, Martinus Nijhoff Publishers.<br />
84
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Emmer, P.C. e Mörner, M. (a cura di)<br />
1992 European Expansion and Migration: Essays on the Intercontinental Migration from Africa,<br />
Asia, and Europe, New York, Oxford, Berg.<br />
Ferenczi, I.<br />
1970 International Migrations, I, Statistics, New York (New York), Arno Press and The New York<br />
Times.<br />
Fontaine, L.<br />
1993 Histoire du colportage en Europe XV e-XIX e siècle, Paris, Albin Michel.<br />
Franzina, E.<br />
1995 Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America, 1492-1942, Milano, Mondadori.<br />
Glazier, I.A. e De Rosa, L. (a cura di)<br />
1986 Migration across Time and Nations: Population Mobility in Historical Contexts, New York<br />
(New York), London, Holmes and Meier.<br />
Gottschang, T.R.<br />
1987 Economic Change, Disasters, and Migration: the Historical Case of Manchuria, in “Economic<br />
Development and Cultural Change”, Chicago, University of Chicago Press.<br />
Gungwu, W. (a cura di)<br />
1997 Global History and Migrations, Boulder (Colorado), Oxford, Westview Press.<br />
Harris, J.R.<br />
1992 The African Diaspora in the Old and the New Worlds, in B.A. Ogot (a cura di), General<br />
History of Africa, V, Africa from the Sixteenth to the Eighteenth Century, London, Berkeley<br />
(California), Paris, Heinemann, University of California Press, Unesco.<br />
Inikori, J.E.<br />
1992 Africa in World History: the Export Slave Trade from Africa and the Emergence of the<br />
Atlantic Economic Order, in B.A. Ogot (a cura di) , General History of Africa, V, Africa from<br />
the Sixteenth to the Eighteenth Century, London, Berkeley (California), Paris, Heinemann,<br />
University of California Press, Unesco.<br />
Latham, A.J.H.<br />
1986 Southeast Asia: A preliminary Survey, 1800-1914, in I. Glazier e L. De Rosa (a cura di),<br />
Migration across Time and Nations: Population Mobility in Historical Contexts, New<br />
York, London, Holmes and Meier.<br />
Lawton, R. e Lee, R. (a cura di)<br />
1989 Urban Population Development in Western Europe from the Late-Eighteenth to the Early-<br />
Twentieth Century, Liverpool, Liverpool University Press.<br />
Leong, S T.<br />
1997 Migration and Ethnicity in Chinese History. Hakkas, Pengmin, and the Neighbors, Stanford<br />
(California), Stanford University Press.<br />
Levi, G.<br />
1993 Appunti sulle migrazioni, in “Bollettino di demografia storica”, Firenze, Società italiana di<br />
demografia storica.<br />
Liu, T.<br />
1990 Demographic Aspects of Urbanization in the Lower Yangzi Region of China, c. 1500-1900,<br />
in A. van der Woude, A. Hayami e J. de Vries (a cura di), Urbanization in History. A Process<br />
of Dynamic Interactions, Oxford, Clarendon Press.<br />
Livi-Bacci, M.<br />
1998a Storia minima della popolazione del mondo, Bologna, Il Mulino.<br />
1998b La popolazione nella storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza.<br />
85
MIGRAZIONI. SCENARI PER IL XXI SECOLO<br />
Lucassen, J.<br />
1984 Naar de Kusten van de Noordzee. Trekarbeid in Europees perspektief, 1600-1900, Gouda,<br />
Lucassen, trad. ing. Migrant Labour in Europe 1600-1900. The Drift to the North Sea, London,<br />
Croom Helm 1987.<br />
Lucassen, J. e Lucassen, L. (a cura di)<br />
1999 Migration, Migration History, History. Old Paradigms and New Perspectives, Bern, New<br />
York, Peter Lang.<br />
Marcílio, M.L.<br />
1997 The Population of Colonial Brazil, in L. Bethell (a cura di),The Cambridge History of Latin<br />
America, II, Colonial Latin America, Cambridge, Cambridge University Press.<br />
Moch, L.P.<br />
1992 Moving Europeans. Migration in Western Europe since 1650, Bloomington, Indianapolis<br />
(Indiana), Indiana University Press.<br />
Mörner, M.<br />
1985 Adventures and Proletarians. The Story of Migrants in Latin America, Pittsburg, University<br />
of Pittsburg.<br />
Morse, R.M.<br />
1997 The Urban Development of Colonial Spanish America, in L. Bethell (a cura di), The Cambridge<br />
History of Latin America, II, Colonial Latin America, Cambridge, Cambridge University<br />
Press.<br />
Ò Gràda, C.<br />
1989 The Great Irish Famine, London, Macmillan, 1989.<br />
Potts, L.<br />
1988 Weltmarkt für Arbeitskraft. Von der Kolonisation Amerikas bis zu den Migrationen der<br />
Gegenwart, Hamburg, Junius, trad. ing. The World Labour Market: a History of Migration,<br />
London, Atlantic Highlands (New Jersey), Zed Books, 1990.<br />
Poussou, J.-P.<br />
1989 The Population Increase of French Towns between 1750 and 1914, and its Demographic<br />
Consequences, in R. Lawton e R. Lee (a cura di), Urban Population Development in<br />
Western Europe from the Late-Eighteenth to the Early-Twentieth Century, Liverpool,<br />
Liverpool University Press.<br />
Raison, J.-P.<br />
1980 Migrazione, in Enciclopedia, IX, Torino, Einaudi.<br />
Reininghaus, W. (a cura di)<br />
1993 Wanderhandel in Europa, Dortmund, Gesellschaft für Westfälische Wirtschaftsgeschichte.<br />
Rosental, P.-A.<br />
1999 Les sentiers invisibles: espaces, familles et migrations dans la France du 19e siècle, Paris,<br />
Ecole des hautes études en sciences sociales.<br />
Rosoli, G.<br />
1987 Emigrazioni europee e popolo brasiliano, Roma, Centro Studi Emigrazione.<br />
Sánchez-Albornoz, N.<br />
1997 The Population of Colonial spanish America, in L. Bethell (a cura di), The Cambridge<br />
History of Latin America, II, Colonial Latin America, Cambridge, Cambridge University<br />
Press.<br />
Sassen, S.<br />
1996 Migranten, Siedler, Flüchtlinge. Von der Massenauswanderung zur Festung Europa,<br />
Frankfurt am Main, Fischer Taschenbuch Verlag, trad. it. Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione<br />
di massa alla fortezza Europa, Milano, Feltrinelli, 1999.<br />
86
M. BRESCHI, A. FORNASIN - <strong>Migrazioni</strong> e <strong>formazione</strong> <strong>delle</strong> <strong>società</strong> <strong>moderne</strong><br />
Segal, A.<br />
1993 An Atlas of International Migration, London, Hans Zell Publishers.<br />
Shepherd, W.<br />
1964 Historical Atlas, New York, Barnes and Noble.<br />
Siddle, D.J. (a cura di)<br />
2000 Migration, Mobility and Modernization, Liverpool, Liverpool University Press.<br />
Sori, E.<br />
1979 L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino.<br />
Spiss, R.<br />
1993 Saisonwanderer, Schwabenkinder und Landfahrer. Die gute alte Zeit im Stanzertal, Innsbruck,<br />
Wagner.<br />
Tarling, N. (a cura di)<br />
1992 The Cambridge History of Southeast Asia, I, From Early Times to c. 1800, Cambridge, New<br />
York (New York), Cambridge University Press.<br />
Tilly, C.<br />
1978 Migration in Modern European History, in W.H. McNeill e R.S. Adams (a cura di), Human<br />
Migration. Pattern and Policies, Indianapolis (Indiana), Indiana University Press.<br />
Tonizzi, E.M.<br />
1999 Le grandi correnti migratorie del ‘900, Torino, Paravia.<br />
United Nations<br />
1969 Growth of the World’s Urban and Rural Population, 1920-2000, New York (New York), Onu.<br />
US Department of Commerce<br />
1975 Historical Statistics of the United States. Colonial Times to 1970, Part I, Washington, Boureau<br />
of Census.<br />
van der Woude, A., Hayami, A. e de Vries, J. (a cura di)<br />
1990 Urbanization in History. A Process of Dynamic Interactions, Oxford, Clarendon Press.<br />
Vangelista, C.<br />
1997 Dal vecchio al nuovo continente. L’immigrazione in America Latina, Torino, Paravia.<br />
Vansina, J.<br />
1992 Population Movements and Emergence of New Socio-Political Forms in Africa, in B.A. Ogot<br />
(a cura di), General History of Africa, V, Africa from the Sixteenth to the Eighteenth Century,<br />
London, Berkeley (California), Paris, Heinemann, University of California Press, Unesco.<br />
87