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Approfondimento C – Educare i nuovi italiani: Cuore e Pinocchio - Sei

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<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong><br />

<strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong><br />

e <strong>Pinocchio</strong><br />

Un nuovo genere letterario<br />

La narrativa per ragazzi è un tipo di letteratura caratteristico dell’Età moderna. Anzi, in<br />

Italia, non se ne trova praticamente traccia fino agli anni Ottanta del XIX secolo, allorché<br />

furono pubblicati Le avventure di <strong>Pinocchio</strong> di Carlo Collodi (1881) e <strong>Cuore</strong> di Edmondo<br />

De Amicis (1886). Rispetto alla tradizione romanzesca precedente, questi due scrittori<br />

operarono una specie di rivoluzione letteraria; infatti se pensiamo, ad esempio, ai<br />

Promessi sposi, l’opera di Manzoni ci colpisce proprio per la pressoché totale assenza dell’infanzia,<br />

che lo scrittore lombardo dimentica completamente quando costruisce il gruppo<br />

dei suoi personaggi più significativi.<br />

Manzoni si sforzò di operare secondo i criteri e le indicazioni programmatiche che erano<br />

nati nell’ambiente romantico milanese degli anni della Restaurazione: in altre parole, si propose<br />

di elaborare una letteratura veramente nazionale e popolare. Eppure, trascura del tutto<br />

i bambini come potenziale bacino di utenza da cui trarre i suoi famosi venticinque lettori,<br />

dando per scontato che la letteratura si rivolgesse solo ed esclusivamente agli adulti.<br />

Al contrario, sia Collodi che De Amicis indirizzarono i loro romanzi proprio a un pubblico<br />

di bambini; nel medesimo tempo, introdussero come protagonisti delle loro opere<br />

figure in cui i destinatari privilegiati dei libri potessero identificarsi, creando quell’inedito<br />

«apporto di identità anagrafica tra personaggi e lettori»<br />

che rappresentò «il fulcro decisivo per le fortune<br />

del nuovo genere letterario» (V. Spinazzola).<br />

La narrativa di cui Collodi e De Amicis furono gli indiscussi<br />

pionieri si caricò fin dall’inizio di precise valenze<br />

educative e, quindi, ideologiche. Essi non si ponevano<br />

per nulla in concorrenza con la scuola pubblica;<br />

semmai, nella creazione di un nuovo tipo di italiano,<br />

tutto da costruire, si proposero di integrare gli sforzi<br />

dell’istituzione scolastica, rendendosi conto del fatto<br />

che il messaggio trasmesso dagli insegnanti nell’ordinario<br />

percorso didattico, e con gli strumenti allora a<br />

disposizione (sussidiario, libro di lettura), poteva risultare<br />

assai poco incisivo. Se proprio vogliamo individuare<br />

un soggetto educativo alternativo, che gli autori di <strong>Cuore</strong><br />

e di <strong>Pinocchio</strong> tentarono di contrastare, questo fu la<br />

Chiesa cattolica: essa, infatti, a fine Ottocento era ancora<br />

su posizioni intransigenti, criticava severamente il<br />

nuovo Stato unitario e dunque era percepita dagli eredi<br />

del Risorgimento come una pericolosa rivale nella costruzione<br />

della Nazione e nell’elaborazione dei valori su<br />

cui fondarla.<br />

Sul piano didattico, il compito che Collodi e De Amicis<br />

si assunsero fu inedito e difficilissimo: si trattava infatti<br />

di coniugare piacevolezza della narrazione (e,<br />

in primo luogo, capacità di coinvolgere e appassionare<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

CULTURA,<br />

CIVILTÀ<br />

E RELIGIOSITÀ<br />

Edmondo De Amicis.<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

1<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

2<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

Messaggio politico<br />

moderato<br />

Riferimento<br />

storiografico<br />

1<br />

pag. 11<br />

Eccezionale<br />

successo editoriale<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

alla lettura un pubblico potenzialmente refrattario) e incisività del messaggio pedagogico<br />

proposto. Forse, il compito fu a entrambi facilitato dal fatto di essere giornalisti, cioè scrittori<br />

abituati da tempo a dialogare con un pubblico vasto e variegato; certo, si trattava ancora<br />

di un pubblico di adulti, ma che non era più formato solamente da un ristretto gruppo<br />

di specialisti o di professionisti delle lettere: come i potenziali piccoli lettori dei <strong>nuovi</strong><br />

romanzi, anch’esso andava conquistato con abili strategie accattivanti o con tecniche narrative<br />

idonee a catturare e mantenere elevata la soglia dell’attenzione.<br />

Quanto al messaggio, esso può essere sintetizzato nel modo seguente: l’Italia è un paese<br />

giovane e povero, ma la nuova generazione (quella dei lettori dei testi in questione) può<br />

migliorarlo e rafforzarlo. Si trattava ovviamente di un discorso moderato, che solo marginalmente<br />

chiedeva radicali cambiamenti sociali e politici; per quanto la miseria dei ceti<br />

più umili fosse affrontata di petto e per nulla mascherata o nascosta, l’accento cadeva sempre<br />

sul contributo che ogni singolo cittadino poteva offrire, sulla coscienza e l’onestà<br />

dell’individuo, sulla sua laboriosità, sulla determinazione che ciascuno doveva mettere nel<br />

portare a compimento gli impegni assunti. L’Italia <strong>–</strong> si diceva, in sintesi <strong>–</strong> non aveva tanto<br />

bisogno di una classe dirigente meno conservatrice, meno attaccata ai propri interessi<br />

(e a quelli dei gruppi dirigenti) e più disponibile a riforme capaci di incidere nella distribuzione<br />

della ricchezza: prima di tutto <strong>–</strong> questo il nocciolo del messaggio, esclusivamente<br />

centrato sull’atteggiamento morale da assumere <strong>–</strong> il nuovo Stato uscito dal Risorgimento<br />

aveva bisogno di bravi <strong>italiani</strong>. A questo livello (etico ma, in fondo, anche politico),<br />

pur avendo preso le distanze dall’istituzione ecclesiastica e dalle sue posizioni antirisorgimentali,<br />

sia Collodi che De Amicis potevano entrare in piena sintonia con il messaggio<br />

morale della Chiesa: pertanto, con il passar del tempo, sia <strong>Pinocchio</strong> che <strong>Cuore</strong> persero<br />

l’originaria connotazione di testi laici, che li caratterizzava all’inizio, e quindi entrarono<br />

senza problemi anche nelle case delle famiglie cattoliche, divenendo davvero i libri<br />

<strong>italiani</strong> per antonomasia. Fino agli anni Sessanta del XX secolo, si può dire che tutti i bambini<br />

d’Italia siano stati educati con quei volumi, dei quali sarebbe davvero difficile sopravvalutare<br />

la diffusione e l’influenza pedagogica.<br />

Le avventure di <strong>Pinocchio</strong><br />

Carlo Collodi è lo pseudonimo di Carlo Lorenzini, che visse tra il 1826 e il 1890 e scelse<br />

quel nome d’arte in memoria del paese natale della famiglia materna. Con il titolo Storia<br />

di un burattino, la sua opera più celebre fu pubblicata a partire dal 7 luglio 1881 (lo<br />

stesso anno in cui uscì I Malavoglia, di Giovanni Verga); in un primo tempo, il racconto<br />

apparve a puntate sulle pagine di un supplemento destinato all’infanzia (denominato<br />

Giornale per i bambini), che usciva una volta la settimana, la domenica, come allegato del<br />

quotidiano fiorentino Il Fanfulla. Due anni dopo, nel febbraio 1883 (un mese dopo la<br />

conclusione della pubblicazione sulla rivista), le varie parti furono subito raccolte in un<br />

volume, che ricevette il titolo definitivo: Le avventure di <strong>Pinocchio</strong>. Questa prima edizione<br />

fu impreziosita dalla presenza di numerose illustrazioni predisposte da Enrico Mazzanti;<br />

nel 1886 (lo stesso anno in cui uscì <strong>Cuore</strong>) fu curata una seconda edizione. Per i parametri<br />

dell’epoca, il successo editoriale dell’opera fu enorme: in appena quattro anni, <strong>Pinocchio</strong><br />

fu ristampato per altre tre volte (1887, 1888, 1890).<br />

È possibile che, in un primo tempo, Collodi non avesse precise intenzioni pedagogiche,<br />

ma più semplicemente si fosse esercitato in una bambinata (l’espressione è sua) finalizzata<br />

a divertire i giovani lettori della rivista per cui scriveva. La straordinaria capacità<br />

di inventare situazioni comiche o grottesche fu senza dubbio uno dei più importanti<br />

punti di forza del libro; a questo dobbiamo poi aggiungere l’atteggiamento decisamente<br />

ambiguo del narratore, che apparentemente sta dalla parte del protagonista, anche quando<br />

si mostra monello, discolo o briccone.<br />

Il ruolo di pedagogo e di ammonitore, che ricorda al burattino i suoi doveri o il comportamento<br />

socialmente accettabile, non è mai assunto dalla voce che conduce la narrazione<br />

(prendendo spunto ed esempio dall’oralità: altro elemento che rende il testo par-


ticolarmente coinvolgente). Ad ammonire, esortare, rimproverare<br />

<strong>Pinocchio</strong> sono sempre alcuni personaggi esplicitamente deputati<br />

a farlo, primi fra tutti il Grillo parlante e la Fata dai capelli turchini.<br />

Sul pubblico dei lettori-ascoltatori (<strong>Pinocchio</strong>, infatti, è per<br />

eccellenza il libro che un genitore può leggere a voce alta quando<br />

racconta una favola ai propri figli) il testo otteneva uno straordinario<br />

effetto: mentre il narratore portava avanti il suo avvincente racconto,<br />

e mentre la sua apparente complicità permetteva al bambino di immedesimarsi<br />

nel protagonista, condividendone errori e difetti, ma<br />

anche pregi e paure, i personaggi di contorno obbligavano a una<br />

severa riflessione sia sui comportamenti di <strong>Pinocchio</strong>, sia sulle<br />

conseguenze pericolosissime del suo agire sconsiderato o socialmente<br />

problematico.<br />

Nel complesso, <strong>Pinocchio</strong> è un libro duro e, per certi versi spietato,<br />

nell’insegnamento che trasmette. Per chi sbaglia, non c’è compassione<br />

alcuna; a seconda dei casi, possono solo arrivare la severissima<br />

punizione del ribelle (chi ha trasgredito le regole sociali si<br />

è trasformato automaticamente in vinto, umiliato e sconfitto da forze<br />

più potenti di lui), oppure la beffa e il riso da parte di chi osserva<br />

l’ingenuo che, dopo essersi lasciato ingannare, è scioccamente caduto nella trappola tesagli<br />

da qualcuno più furbo di lui.<br />

Il presupposto di base che anima l’intera opera è quello secondo cui la vita è crudele; il<br />

mondo in cui si trova improvvisamente gettato il burattino parlante pullula di furfanti e<br />

di imbroglioni, pronti a colpire e a sfruttare le debolezze altrui. E se la coppia più celebre<br />

di ingannatori (il Gatto e la Volpe) in realtà propone truffe di infimo e squallido livello,<br />

che solo uno sciocco (un citrullo, direbbe Collodi) non riesce a riconoscere immediatamente,<br />

ben più subdolo e spietato appare il viscido Omino di burro, che con la sua<br />

carrozza accompagna i ragazzi svogliati al Paese dei balocchi, favorisce la loro trasformazione<br />

in somari e li vende al miglior offerente, senza alcun rimorso di coscienza (dal momento<br />

che, in fondo, la colpa è loro).<br />

Un messaggio duro, ma in fondo ottimista<br />

Nell’insieme del romanzo, la figura che svolge il ruolo determinante nell’itinerario di formazione<br />

del protagonista è la Fata dai capelli turchini. Anche se viene chiamata «buonissima»,<br />

e in effetti non si stanca di andare a recuperare <strong>Pinocchio</strong> nelle situazioni più disperate<br />

per dargli sempre un’ulteriore opportunità di redenzione, in realtà spesso si mostra severissima,<br />

al limite della crudeltà. Mentre non esita a traumatizzare <strong>Pinocchio</strong> facendogli<br />

credere di essere morta per i dispiaceri che egli le ha dato (secondo una formula molto<br />

in voga nella pedagogia di fine Ottocento-inizio Novecento), di solito non interviene<br />

se non al termine delle disavventure del burattino: questi deve arrivare sull’orlo dell’abisso<br />

e quasi cadervi dentro, prima dell’intervento di salvezza della Fata.<br />

Il messaggio di Collodi, in questo caso, riguarda anche i genitori, oltre che i figli: se ai<br />

bambini (con un pizzico di terrorismo pedagogico) si lascia intendere che i genitori potrebbero<br />

arrivare troppo tardi, cosicché spetta a loro stessi evitare gli errori più gravi e potenzialmente<br />

fatali (Lucignolo muore somaro, stremato e sfinito «dagli stenti e dal troppo lavoro»),<br />

agli adulti si dice senza mezzi termini che nell’educazione non c’è spazio per l’indulgenza.<br />

In negativo, il modello offerto è quello di Geppetto, figura simpatica e amabile,<br />

ma assolutamente deleteria nel suo modo troppo debole e affettuoso di trattare il proprio<br />

figliuolo.<br />

Il difetto più grave di <strong>Pinocchio</strong> è la leggerezza, l’illusione che la vita sia semplice e<br />

lieve; così, all’impegno scolastico o lavorativo, il burattino preferirebbe il facile e perpetuo<br />

divertimento, incarnato dalla banda (che <strong>Pinocchio</strong> segue, invece di comportarsi da<br />

bravo scolaro: «Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

G. Galizzi,<br />

Il gatto, la volpe e<br />

<strong>Pinocchio</strong> all’osteria,<br />

illustrazione del 1880.<br />

Geppetto:<br />

un modello negativo<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

3<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

4<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

Un mondo di fame<br />

Coraggio<br />

e “buon cuore”<br />

Violante Placido<br />

interpreta la Fata<br />

turchina nella fiction<br />

televisiva <strong>Pinocchio</strong><br />

(2009), diretta da<br />

Alberto Sironi.<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

sempre tempo») e, a maggior ragione, dall’ambiguo Paese dei balocchi, l’equivalente infantile<br />

del canto delle sirene, tanto suadente quanto micidiale per chi cade nella sua rete.<br />

Il mondo in cui vive <strong>Pinocchio</strong> è un mondo di fame, come quello della realtà delle campagne<br />

italiane di fine Ottocento. Il cibo è una vera ossessione per il burattino (e per<br />

i suoi occasionali compagni di avventura); tuttavia, pensare di sopravvivere con attività<br />

disoneste sarebbe l’errore più grave che un ragazzo possa compiere: a fronte dell’impunità<br />

del misterioso Omino di burro, tutte le altre azioni illegali sono punite in modo durissimo<br />

e violento. Come degli errori si pagano tutte le conseguenze (e al danno si aggiunge<br />

la beffa, perché tutti ridono della persona in difficoltà: la compassione, infatti, è una merce<br />

davvero rara nel mondo in cui vive <strong>Pinocchio</strong>), come si dà per scontato che una persona<br />

finisca nei guai sempre e solo per propria colpa <strong>–</strong> su questo punto, il messaggio di<br />

Collodi coincide al cento per cento con il rigido pensiero di Renzo, alla fine dei Promessi<br />

sposi <strong>–</strong> così è sicuro che la pena colpirà senza dubbio lo sciocco che ha sfidato la<br />

legge, mentre questa non conoscerà attenuanti di sorta.<br />

Eppure, <strong>Pinocchio</strong> colpisce pure per l’ottimismo di fondo che pervade e attraversa da un<br />

capo all’altro l’intera narrazione. Si dà infatti per scontato che il bambino, se da un lato<br />

può prendere una cattiva strada che lo porterà sulla via del vizio e della perdizione, dall’altro<br />

è carico di potenzialità positive. Del protagonista, ad esempio, si mette sempre in<br />

luce lo straordinario «buon cuore», che lo spinge a straordinari gesti di eroismo e di generosità:<br />

all’inizio del romanzo, ad esempio, è disposto a sacrificare se stesso pur di salvar<br />

la vita all’amico Arlecchino, che il burattinaio Mangiafuoco sta per gettare nel fuoco;<br />

verso la fine del racconto, a maggior ragione, dimostra di possedere un coraggio e un’energia<br />

eccezionali, quando si tratta di salvare Geppetto dal Pescecane e dalle onde del mare.<br />

Finalmente, quando a questa eccezionale bontà d’animo <strong>Pinocchio</strong> assocerà la consapevolezza<br />

della necessità di lavorare duramente (per mantenere se stesso e Geppetto, ormai<br />

anziano) la formazione di <strong>Pinocchio</strong> può dirsi completata e può avvenire la sua metamorfosi<br />

in essere umano.<br />

Come nei romanzi di Verga, anche nel racconto di Collodi non c’è redenzione per i poveri,<br />

e il Paese dei balocchi (promessa da cui solo gli stolti possono essere illusi) appare una<br />

rozza caricatura del socialismo. Eppure, la brama di meglio del burattino (o, per lo meno,<br />

la pancia piena) può essere soddisfatta dal duro lavoro e dal rispetto della legge, che portano<br />

dignità e serenità a chi li sceglie come propri criteri etici di riferimento.<br />

Il destino dei giovani (persino quello dei più poveri) non è per nulla segnato, e in questo<br />

Collodi si distingue nettamente dalla narrativa naturalistica, dalla concezione di Lombroso<br />

e da qualsiasi concezione deterministica, molto in voga in un’epoca in cui positivismo<br />

e darwinismo insistevano<br />

sul ruolo decisivo del<br />

corredo ereditario degli individui.<br />

Tuttavia (anche se la<br />

Fata dai capelli azzurri possiede<br />

qualche caratteristica simile<br />

alla Madonna della devozione<br />

popolare) nella dura<br />

realtà concreta i bambini<br />

devono sapere fin dall’inizio<br />

che potranno contare solo<br />

sulle proprie forze.<br />

Se non altro, onestà e laboriosità<br />

sono convenienti: c’è<br />

sempre una notevole dose<br />

di utilitarismo pratico nel<br />

discorso pedagogico collodiano,<br />

che si mostra del<br />

tutto laico anche sotto questo<br />

profilo.


<strong>Pinocchio</strong> diventa un bravo ragazzo<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

DOCUMENTI<br />

Nell’ultimo capitolo del romanzo, <strong>Pinocchio</strong> mette la testa a posto e diventa un bravo ragazzo, in<br />

tutti i sensi. Innanzi tutto, mette definitivamente da parte la leggerezza che lo ha caratterizzato per gran<br />

parte del racconto e inizia a lavorare sodo: dunque, il suo percorso di formazione si è concluso e ha avuto<br />

buon esito. Di conseguenza, mentre Lucignolo va incontro a un tragico destino, la Fata perdona il burattino<br />

e lo trasforma in bambino vero. In realtà, divenuto essere umano, <strong>Pinocchio</strong> non è affatto un bambino:<br />

è un adulto che ha imparato ad assumersi tutte le sue responsabilità. La scena seguente si svolge<br />

sulla spiaggia, dopo che Geppetto e <strong>Pinocchio</strong> sono riusciti a fuggire dalla pancia del Pescecane.<br />

Non avevano ancora fatto cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada due<br />

brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina. Erano il Gatto e la Volpe, ma non<br />

si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco,<br />

aveva finito coll’accecare davvero; e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una<br />

parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è: quella triste ladracchiola, caduta nella più<br />

squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda<br />

a un merciaio ambulante che la comprò per farsene uno scacciamosche.<br />

«O <strong>Pinocchio</strong>» gridò la Volpe con voce di piagnisteo, «fai un po’ di carità a questi<br />

due poveri infermi».<br />

«Infermi!» ripeté il Gatto.<br />

«Addio, mascherine!» rispose il burattino. «Mi avete ingannato una volta, e ora non<br />

mi ripigliate più».<br />

«Credilo, <strong>Pinocchio</strong>, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!».<br />

«Davvero!» ripeté il Gatto.<br />

«Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: “I quattrini rubati<br />

non fanno mai frutto”. Addio, mascherine!».<br />

«Abbi compassione di noi!».<br />

«Di noi!».<br />

«Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: “La farina del diavolo va<br />

tutta in crusca”».<br />

«Non ci abbandonare!».<br />

«…are!» ripeté il Gatto.<br />

«Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: “Chi ruba il mantello al suo<br />

prossimo, per il solito muore senza camicia”».<br />

E così dicendo, <strong>Pinocchio</strong> e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro<br />

strada; finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola in mezzo ai campi una bella<br />

capanna tutta di paglia e col tetto coperto d’embrici [tegole, n.d.r.] e di mattoni. «Quella capanna<br />

dev’essere abitata da qualcuno» disse <strong>Pinocchio</strong>. «Andiamo là e bussiamo». Difatti<br />

andarono, e bussarono alla porta. [Ad accoglierli è il Grillo parlante]<br />

[…] Preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi<br />

domandò al Grillo parlante: «Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il<br />

mio povero Babbo?».<br />

«Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio che tiene le mucche. Vai da lui e<br />

troverai il latte che cerchi». <strong>Pinocchio</strong> andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio; ma l’ortolano<br />

gli disse:<br />

«Quanto ne vuoi del latte?».<br />

«Ne voglio un bicchiere pieno».<br />

«Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo».<br />

«Non ho nemmeno un centesimo» rispose <strong>Pinocchio</strong> tutto mortificato e dolente.<br />

«Male, burattino mio» replicò l’ortolano. «Se tu non hai nemmeno un centesimo, io<br />

non ho nemmeno un dito di latte».<br />

«Pazienza!» disse <strong>Pinocchio</strong> e fece l’atto di andarsene.<br />

«Aspetta un po’» disse Giangio. «Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi<br />

adattarti a girare il bindolo?».<br />

«Che cos’è il bindolo?».<br />

«Gli è quell’ordigno di legno che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna, per annaffiare<br />

gli ortaggi».<br />

«Mi proverò».<br />

«Dunque, tirami su cento secchie d’acqua, e io ti regalerò in compenso un bicchiere<br />

di latte».<br />

«Sta bene». <br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

5<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

6<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

DOCUMENTI<br />

Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo.<br />

<strong>Pinocchio</strong> si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era<br />

tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.<br />

«Finora questa fatica di girare il bindolo» disse l’ortolano, «l’ho fatta fare al mio ciuchino; ma<br />

oggi quel povero animale è in fin di vita».<br />

«Mi menate [mi conducete, n.d.r.] a vederlo?» disse <strong>Pinocchio</strong>.<br />

«Volentieri».<br />

Appena che <strong>Pinocchio</strong> fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso su la paglia,<br />

rifinito [sfinito, stremato, n.d.r.] dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l’ebbe guardato<br />

fisso fisso, disse dentro di sé turbandosi: «Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisionomia<br />

nuova!». E chinatosi fino a lui gli domandò in dialetto asinino: «Chi sei?». A questa<br />

domanda, il ciuchino aprì gli occhi moribondi e rispose balbettando nel medesimo dialetto:<br />

«Sono Lu…ci…gno…lo». E dopo richiuse gli occhi e spirò.<br />

«Oh, povero Lucignolo!» disse <strong>Pinocchio</strong> a mezza voce; e presa una manciata di<br />

paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso. […] Prese il suo bicchiere di latte<br />

quasi caldo e se ne tornò alla capanna. E da quel giorno in poi continuò più di cinque mesi<br />

a levarsi ogni mattina prima dell’alba, per andare a girare il bindolo e guadagnare così quel<br />

bicchiere di latte che faceva tanto bene alla salute cagionosa [cagionevole, soggetta a ricadute,<br />

a causa della debolezza del malato, n.d.r.] del suo babbo. Né si contentò di questo:<br />

perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco; e<br />

coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere.<br />

Fra le altre cose, costruì da se stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il<br />

suo babbo alle belle giornate e per fargli prendere una boccata d’aria.<br />

Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel<br />

vicino paese per pochi centesimi un grosso libro al quale mancavano il frontespizio e l’indice,<br />

e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato<br />

a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina<br />

ripiena di sugo di more e di ciliegie.<br />

C. Collodi, <strong>Pinocchio</strong>, Milano, Salani, 2009, pp. 237-243<br />

Quale ruolo assumono i proverbi citati, nel momento in cui sono pronunciati da <strong>Pinocchio</strong>?<br />

Quali aspetti del personaggio denotano?<br />

Quali atteggiamenti denotano che <strong>Pinocchio</strong> è maturato e ha completato il suo percorso<br />

formativo? Individua ed evidenzia nel testo le espressioni che ti paiono più significative.<br />

Spiega l’espressione terrorismo pedagogico, strumento che <strong>–</strong> secondo alcuni critici <strong>–</strong> Collodi<br />

utilizza ampiamente al fine di rendere più incisivo il proprio messaggio educativo.<br />

Il primo best seller<br />

italiano<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

Il progetto culturale di Edmondo De Amicis<br />

Pare che l’idea di scrivere <strong>Cuore</strong> sia maturata nella mente di Edmondo De Amicis (1846-<br />

1908) nell’anno 1878. La genesi del romanzo, tuttavia, fu abbastanza lunga e tormentata,<br />

visto che il libro venne infine pubblicato solo nel 1886 dalla casa editrice Treves. A fine<br />

Ottocento, questo editore era uno dei più importanti e rinomati di tutto il Paese; ebrei,<br />

laici e particolarmente sensibili ai cambiamenti della società moderna, i due fratelli Emilio<br />

e Giuseppe Treves si proponevano di rinnovare la cultura italiana, che ai loro occhi<br />

peccava di arretratezza e di eccessiva subordinazione ai dettami della Chiesa cattolica.<br />

I Treves accolsero con entusiasmo la proposta di De Amicis, sia perché intuirono che<br />

poteva diventare un ottimo affare sotto il profilo commerciale (<strong>Cuore</strong>, in effetti, fu il primo<br />

vero best seller italiano), sia perché andava nella direzione culturale da loro auspicata,<br />

cioè proponeva un modello educativo nuovo, idoneo all’Italia unita post-risorgimentale,<br />

coi suoi valori laici, a un tempo nazionali e liberali.<br />

Forse, Vittorio Spinazzola esagera nel definire <strong>Cuore</strong> «una sorta di Kulturkampf», di lotta<br />

frontale rivolta contro la Chiesa cattolica (condotta dall’autore in nome della civiltà)<br />

analoga al duro contrasto politico e culturale che caratterizzò il mondo tedesco negli anni


Settanta dell’Ottocento. Nell’opera di De Amicis gli accenti<br />

esplicitamente anticlericali sono del tutto assenti e la polemica<br />

scopertamente anti-ecclesiastica praticamente nulla;<br />

tuttavia è proprio questo, forse, il suo connotato più rivoluzionario:<br />

in uno scenario storico italiano in cui l’autorità<br />

sacerdotale era ancora potentissima e onnipresente (soprattutto<br />

nelle campagne), ma nello stesso tempo aveva chiesto<br />

ai cattolici di restare estranei rispetto alla nuova società<br />

post-unitaria (verso cui il papa aveva espresso un atteggiamento<br />

di condanna dura e apparentemente inappellabile),<br />

De Amicis scelse di lasciar fuori la Chiesa dal suo progetto<br />

educativo, di ignorarla, di costruire i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong><br />

senza di lei.<br />

<strong>Cuore</strong> è strutturato in forma di diario, che si dipana dal 7<br />

ottobre 1881 al 10 luglio 1882. Dunque, la finzione narrativa<br />

che regge l’intero racconto è quella secondo cui un<br />

alunno (Enrico Bottini) avrebbe registrato su un quaderno<br />

i piccoli e grandi eventi verificatisi all’interno di una classe<br />

di terza elementare di una scuola torinese, nell’arco<br />

di un anno scolastico. Il primo dato scandaloso emerge<br />

proprio a questo livello: infatti, mentre viene dato notevole<br />

rilievo ad alcune date simboliche (il 17 gennaio, quarto<br />

anniversario della morte di Vittorio Emanuele II; il 3 giugno,<br />

giorno della morte di Garibaldi), non viene menzionata<br />

alcuna festività religiosa (neppure Natale e Pasqua).<br />

L’unico accenno che viene compiuto a una ricorrenza importante per la Chiesa riguarda<br />

il 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti: anche per il mondo laico,<br />

però, questa data poteva avere una sua importanza, sia pure di segno diverso rispetto<br />

al taglio che i cattolici davano alla memoria dei propri cari defunti. Per ragioni analoghe<br />

si incontra un riferimento al carnevale, ma questo è del tutto privo di seguito: com’è<br />

noto, infatti, il tempo dello scherzo e della licenza precede quello della penitenza e del digiuno,<br />

la Quaresima, di cui invece in <strong>Cuore</strong> non c’è traccia alcuna.<br />

In questo disegno coerente di vasto respiro, le annotazioni diaristiche ordinarie sono poi<br />

interrotte da nove racconti mensili, che vengono presentati come narrazioni effettuate in<br />

classe dal maestro. Nella finzione di De Amicis, l’insegnante dapprima cattura l’interesse<br />

dei bambini con la tecnica della narrazione orale, e poi in un secondo tempo distribuisce<br />

ai propri alunni un testo scritto: se la viva voce serve a suscitare emozioni, la possibilità<br />

di rileggere le parole favorisce la riflessione e l’interiorizzazione del messaggio morale<br />

presente nel testo, mentre tutto l’insieme (presentato come «il racconto d’un atto<br />

bello e vero, compiuto da un ragazzo») permetteva l’immedesimazione dello studente nel<br />

protagonista.<br />

La scuola microcosmo e la classe<br />

come metafora della nazione<br />

Il sottotitolo del romanzo è lungo, ma degno d’essere citato per intero: Storia d’un anno<br />

scolastico, scritto da un alunno di 3ª, d’una scuola municipale d’Italia. Si noti che, a fronte<br />

di una presenza sovrabbondante di articoli indeterminativi (un / una) non se ne trova<br />

neppure uno determinativo (del tipo il / lo). Attraverso questo elementare accorgimento<br />

linguistico, De Amicis esprime il suo proposito, finalizzato non a raccontare una vicenda<br />

romanzesca, bensì a esporre un preciso modello di società e di nazione.<br />

Per capire la strategia letteraria e culturale di De Amicis, può essere utile partire da un confronto<br />

con I promessi sposi. Nel racconto manzoniano, infatti, si racconta la vicenda di Renzo<br />

e Lucia, che per quanto abbia vari paralleli nella Lombardia del <strong>Sei</strong>cento (si pensi alle<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

Copertina della prima<br />

edizione tedesca di<br />

<strong>Cuore</strong>, 1894.<br />

I racconti mensili<br />

Situazioni tipiche<br />

ed esemplari<br />

Riferimento<br />

storiografico 2<br />

pag. 13<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

7<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

8<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

Gli alunni sono<br />

dei tipi<br />

Rifiuto<br />

della rabbia<br />

e dell’arroganza<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

numerose grida che l’autore ha consultato, in tema di matrimoni contrastati dai nobili e<br />

impediti dai bravi) è comunque unica e irripetibile, a causa delle specifiche caratteristiche<br />

(positive o negative) dei vari personaggi che entrano in azione. De Amicis, al contrario,<br />

non vuole dipingere la situazione particolare di questa o quella struttura scolastica, bensì<br />

una situazione tipica ed esemplare; obiettivo dell’autore è di ritrarre l’Italia (o, per lo<br />

meno, l’Italia settentrionale, delle grandi città in espansione), presentare un quadro in cui<br />

tutti possano riconoscersi e lanciare un messaggio universalmente valido, utile a tutti i veri<br />

<strong>italiani</strong> che vogliano partecipare alla crescita del nuovo Stato unitario. Per molti versi, gli<br />

alunni sono dei tipi, più che dei soggetti individualmente caratterizzati, mentre il maestro<br />

è un ideale, una figura che incarna il ruolo educativo che l’autore assegna alla scuola<br />

pubblica e, più in generale, allo Stato.<br />

L’intero impianto della narrazione è costruito su due coppie contrapposte: la prima<br />

comprende due figure negative, la seconda due personaggi esemplari, che devono rimanere<br />

impressi nella mente (e, ancor più, nell’animo) del giovane lettore. La coppia che risulta<br />

odiosa e profondamente antipatica è formata da Franti e Nobis; si tratta di due soggetti<br />

molto diversi tra loro: uno, infatti, è povero e carico di rancore verso la società,<br />

mentre l’altro è un signore altero e sprezzante, fiero del proprio rango. Sia pure per motivi<br />

opposti, entrambi, nel racconto, si auto-escludono dalla classe e si trasformano in estranei,<br />

rispetto a quella piccola comunità che, in realtà, sia pure in miniatura, rappresenta<br />

l’intera nazione italiana. Franti è visceralmente malvagio, un teppista meritevole solo di<br />

punizione, del tutto incapace di offrire alcun contributo alla costruzione del gruppo-classe<br />

e, più in generale, alla comunità scolastica; assai più di Collodi, De Amicis pare<br />

influenzato, nella creazione di questo personaggio negativo, dalle teorie di Cesare Lombroso<br />

sul delinquente nato, geneticamente tale e, pertanto, incorreggibile. Franti incarna<br />

anche una certa immagine che la borghesia europea si era costruita, a proprio uso e consumo,<br />

delle classi subalterne: quando non accettavano passivamente il loro destino e cercavano<br />

di ribellarsi, venivano paragonate a furie devastatrici, ad animali impazziti e pericolosi,<br />

che (sia pur a malincuore) bisognava abbattere per la sicurezza generale.<br />

De Amicis condivide questa impostazione (e Franti, infatti, sarà espulso dalla scuola); tuttavia,<br />

il suo giudizio è durissimo anche nei confronti di Nobis, che rifiuta il principio liberale<br />

dell’uguaglianza civile, a<br />

sua volta basato sull’idea illuminista<br />

secondo cui esistono dei precisi diritti<br />

dell’uomo, di cui nessuno può<br />

essere privato. Ai fini della creazione<br />

della nuova Italia, l’arrogante<br />

mentalità da antico regime di Nobis<br />

è inutile, proprio com’è dannosa<br />

la rabbia rivoluzionaria, capace<br />

solo di distruggere, e non di<br />

costruire. «Vi compiango. Siete un<br />

ragazzo senza cuore», dice infine il<br />

maestro a Nobis, dopo aver constatato<br />

la sua incapacità di redimersi:<br />

un’incorreggibilità apparentemente<br />

diversa, ma in realtà<br />

identica (e semplicemente rovesciata,<br />

speculare, quanto a classe sociale)<br />

rispetto a quella di Franti.<br />

Illustrazione tratta dal libro <strong>Cuore</strong> di<br />

Edmondo De Amicis, 1886.


I protagonisti di <strong>Cuore</strong><br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

DOCUMENTI<br />

Riportiamo alcuni passi dai quali emerge con chiarezza il messaggio morale di De Amicis. Il suo<br />

libro presenta infatti alcuni tipi, sostanzialmente fissi. Il giovane lettore doveva provare istintivo orrore<br />

per alcuni soggetti negativi (Franti e Nobis), e immedesimarsi in quelli positivi (Derossi, Precossi,<br />

Garrone).<br />

La madre di Franti (28 gennaio, sabato)<br />

Entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati,<br />

tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che era stato sospeso dalla scuola per otto<br />

giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti<br />

al Direttore, giungendo le mani, e supplicando: <strong>–</strong> Oh signor Direttore, mi faccia la grazia,<br />

riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma<br />

Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so più come<br />

fare! Mi raccomando con tutta l’anima mia! <strong>–</strong> Il Direttore cercò di condurla fuori; ma essa<br />

resistette, sempre pregando e piangendo. <strong>–</strong> Oh! Se sapesse le pene che m’ha dato questo<br />

figliuolo, avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non<br />

vivrò più un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui; ma vorrei vederlo cambiato prima di<br />

morire perché… <strong>–</strong> e diede in uno scoppio di pianto, <strong>–</strong> è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei<br />

disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia<br />

in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna! <strong>–</strong> E si coperse il viso con le mani,<br />

singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’<br />

pensando, poi disse: <strong>–</strong> Franti, va’ al tuo posto. <strong>–</strong> […] Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo<br />

al silenzio della classe e gli disse con un accento da far tremare: <strong>–</strong> Franti, tu uccidi tua madre!<br />

<strong>–</strong> Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise.<br />

Superbia (11 febbraio, sabato)<br />

Carlo Nobis si pulisce la manica con affettazione quando Precossi [un bambino buonissimo,<br />

ma povero, figlio di un fabbro alcolizzato, n.d.r.] lo tocca, passando! Costui è la superbia<br />

incarnata perché suo padre è un riccone. Ma anche il padre di Derossi è ricco! Egli<br />

vorrebbe avere un banco per sé solo, ha paura che tutti lo insudicino, guarda tutti dall’alto<br />

in basso, ha sempre un sorriso sprezzante sulle labbra: guai a urtargli un piede quando s’esce<br />

in fila a due a due! Per un nulla butta in viso una parola ingiuriosa o minaccia di far venire<br />

alla scuola suo padre. E sì che suo padre gli ha dato la sua brava polpetta [gli ha dato<br />

una dura lezione, lo ha rimproverato severamente, n.d.r.] quando trattò di straccione il figliuolo<br />

del carbonaio! Io non ho mai visto una muffa compagna! Nessuno gli parla, nessuno<br />

gli dice addio [nell’Ottocento, era l’equivalente del nostro Ciao!, nelle formule di congedo,<br />

n.d.r.] quando s’esce, non c’è un cane che gli suggerisce quando non sa la lezione. E lui<br />

non può patir nessuno, e finge di disprezzar sopra tutti Derossi, perché è il primo, e Garrone<br />

perché tutti gli voglion bene. Ma Derossi non lo guarda neppure quant’è lungo, e Garrone,<br />

quando gli riportarono che Nobis sparlava di lui, rispose: <strong>–</strong> Ha una superbia così stupida<br />

che non merita nemmeno i miei scapaccioni. <strong>–</strong> Coretti pure, un giorno ch’egli sorrideva<br />

del suo berretto di pel di gatto [pelliccia tipica dei poveri, n.d.r.], gli disse: <strong>–</strong> Va un poco da<br />

Derossi a imparare a far il signore! <strong>–</strong> Ieri si lamentò col maestro perché il calabrese gli toccò<br />

una gamba col piede. <strong>–</strong> Il maestro domandò al calabrese: <strong>–</strong> L’hai fatto apposta? <strong>–</strong> No, signore,<br />

<strong>–</strong> rispose franco. E il maestro: <strong>–</strong> Siete troppo permaloso, Nobis. <strong>–</strong> E Nobis, con quella<br />

sua aria: <strong>–</strong> Lo dirò a mio padre. <strong>–</strong> Allora il maestro andò in collera: Vostro padre vi darà torto,<br />

come fece altre volte. E poi non c’è che il maestro, in iscuola, che giudichi e punisca. <strong>–</strong> Poi<br />

soggiunse con dolcezza: <strong>–</strong> Andiamo, Nobis, cambiate modi, siate buono e cortese coi vostri<br />

compagni. Vedete, ci sono dei figliuoli d’operai e di signori, dei ricchi e dei poveri, e tutti<br />

si voglion bene, si trattan da fratelli, come sono. Perché non fate anche voi come gli altri?<br />

Vi costerebbe così poco farvi benvolere da tutti, e sareste tanto più contento voi pure!... Ebbene,<br />

non avete nulla da rispondermi? <strong>–</strong> Nobis, ch’era stato a sentire col suo solito sorriso<br />

sprezzante, rispose freddamente: <strong>–</strong> No, signore. <strong>–</strong> Sedete, gli disse il maestro. <strong>–</strong> Vi compiango.<br />

Siete un ragazzo senza cuore. <strong>–</strong><br />

E. De Amicis, <strong>Cuore</strong>, Milano, Mondadori, 2007, pp. 98-99 e 105-106<br />

Che cosa hanno in comune Nobis e Derossi?<br />

Che cosa hanno in comune Franti e Nobis?<br />

Spiega l’esclamazione: «Va un poco da Derossi a imparare a far il signore!».<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

9<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

10<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

Un leader nato<br />

Il nuovo<br />

garibaldino<br />

La metafora<br />

del corpo umano<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

La creazione di una comunità organica<br />

Anche i ragazzi della seconda coppia che anima la narrazione <strong>–</strong> quella di segno diametralmente<br />

opposto, sotto il profilo dei valori da imparare, dato che entrambe le figure sono<br />

positive e degne di ammirazione/imitazione <strong>–</strong> occupano posizioni opposte sulla scala sociale.<br />

Derossi infatti proviene dal mondo borghese (come per altro Enrico, cui De Amicis<br />

ha delegato la funzione di narratore); figlio di un ricco negoziante, è uno studente dotato<br />

di intelligenza acutissima, ma anche di un carattere aperto e collaborativo. In un classico<br />

racconto satirico di ambientazione scolastica, il primo della classe avrebbe potuto essere<br />

raffigurato come piccolo e occhialuto, come un secchione che compensa (grazie all’impegno<br />

nello studio) le carenze del proprio fisico e che trova negli ottimi voti quella<br />

gratificazione che la vita gli nega in tutti gli altri ambiti; al limite, avrebbe potuto apparire<br />

odioso, per la sua incapacità di relazionarsi con i compagni meno intelligenti e meno<br />

studiosi, costretti a copiare o a ricorrere ai suoi suggerimenti, per raggiungere una stentata<br />

sufficienza.<br />

Niente di tutto questo, in <strong>Cuore</strong>: Derossi è un leader nato, di cui è impossibile non subire<br />

il fascino; è una specie di eroe, e come tale è anche fisicamente bello, secondo i canoni<br />

estetici che il neoclassicismo aveva recuperato dal mondo greco e che la retorica nazionalista,<br />

in Germania come in Italia, aveva proiettato sul volontario, disposto a rischiare<br />

la sua giovane esistenza, in modo affatto disinteressato, per la libertà e l’indipendenza<br />

della patria. In altre parole, Derossi rappresenta, per così dire, una nuova generazione di<br />

garibaldini, chiamati a combattere per l’Italia come i Mille o i Cacciatori delle Alpi; nell’immediato,<br />

il Regno è unito, i confini sono sicuri e lo straniero è stato espulso da (quasi)<br />

tutto il territorio nazionale. Eppure, c’è da combattere una guerra ancora più impegnativa,<br />

la battaglia che deve trasformare l’Italia in un Paese moderno, capace di stare<br />

alla pari con gli altri Stati d’Europa. Mai come in questo momento <strong>–</strong> lascia intendere<br />

De Amicis <strong>–</strong> la patria ha bisogno di eroi, di individui che si dedichino anima e corpo alla<br />

sua crescita e al suo sviluppo.<br />

L’Italia, tuttavia, necessita del contributo di tutti, e tutti possono fare la propria parte.<br />

Per De Amicis, la nazione è come un grande corpo umano, che è sano e si sviluppa in modo<br />

armonico solo quando i diversi organi collaborano e funzionano in maniera coordinata,<br />

ciascuno svolgendo il compito per cui sono stati creati. E come il piede o lo stomaco non<br />

sono meno importanti del cervello, così (se sta al suo posto e non si lascia trascinare da<br />

velleitari sogni di rivoluzione) in quello speciale organismo che è la nazione, la classe operaia<br />

deve essere guardata con estremo rispetto e trattata con la dignità che merita il lavoro<br />

manuale.<br />

Ecco il motivo per cui De Amicis ci presenta Garrone, ragazzo di modeste condizioni<br />

sociali, ma animato da uno straordinario altruismo. Gli episodi che vedono come protagonisti<br />

Garrone e Derossi sono dei veri e propri exempla: nella loro diversità, i due ragazzi<br />

sono dei veri santi laici, i modelli in cui tutti gli <strong>italiani</strong> (borghesi o proletari, poco<br />

importa) devono specchiarsi, per imparare il comportamento esemplare che la società e<br />

la nazione chiedono loro.<br />

A differenza di Collodi (che gioca sul doppio registro del riso e della riflessione), De Amicis<br />

scelse lucidamente e consapevolmente di far leva sul sentimento, nel suo appassionato<br />

sforzo pedagogico rivolto a un’intera nazione. «Ah, la vedranno i fabbricanti<br />

di libri scolastici come si parla ai ragazzi poveri e come si spreme il pianto dai cuori di dieci<br />

anni», scrisse l’autore nel febbraio 1886, in una lettera inviata all’editore Treves. Leggendo<br />

<strong>Pinocchio</strong> si ride e si impara, riflettendo sulle avventure che capitano al burattino,<br />

fanciullo dal «cuore buono», ma ancora leggero e immaturo. <strong>Cuore</strong> vuole strappare le lacrime,<br />

sia nelle sezioni che sono presentate come diario di Enrico, sia <strong>–</strong> a maggior ragione<br />

<strong>–</strong> nei racconti mensili narrati dal maestro ai suoi alunni (diverse generazioni di ragazzi<br />

<strong>italiani</strong> piansero, fino agli anni Sessanta del XX secolo, leggendo La piccola vedetta lombarda<br />

o Dagli Appennini alle Ande).<br />

Il lutto e la morte non sono per nulla assenti, sia nelle narrazioni presentate dall’insegnante,<br />

sia nella vita ordinaria della classe. Anzi, il lutto maggiore capita proprio al buonissimo


Garrone, che perde la madre:<br />

ma i ragazzi si stringono intorno<br />

al compagno colpito dalla<br />

disgrazia e, quindi, paradossalmente<br />

(per quanto vissuta senza<br />

alcun conforto di tipo religioso)<br />

persino l’evento negativo<br />

contribuisce a unire il gruppo<br />

dei giovani scolari. Così la<br />

classe di <strong>Cuore</strong>, ancora una<br />

volta, si rivela come microcosmo,<br />

come una metafora della nazione,<br />

della Patria che, mediante<br />

il culto dei caduti, rafforza<br />

i legami comunitari tra i propri<br />

membri.<br />

Riferimenti storiografici<br />

1<br />

Il carattere di <strong>Pinocchio</strong><br />

<strong>Pinocchio</strong> è un romanzo di formazione: il protagonista, infatti, alla fine della vicenda è completamente<br />

diverso da quello che era all’inizio. Anzi, in questo caso, la metamorfosi è talmente radicale che<br />

il burattino di legno diventa un essere umano in carne e ossa. Fuor di metafora, ciò vuol dire che il bambino<br />

<strong>–</strong> chiusa l’ultima pagina del racconto <strong>–</strong> ha imparato una lezione educativa capace di farlo diventare<br />

un uomo per bene, laborioso e rispettoso delle regole sociali.<br />

<strong>Pinocchio</strong>, dal punto di vista del carattere, rappresenta il tipo ideale ed eterno del monello,<br />

vera ossessione della pedagogia toscana del tempo (mentre, significativamente, non<br />

ha quasi equivalenti, ad esempio, nel libro <strong>Cuore</strong>, dove Franti, tristo e cattivo, recita il ruolo<br />

senza possibile redenzione del lombrosiano delinquente nato). Del monello la caratteristica<br />

dominante è la leggerezza, non la cattiveria, e una serie di altri attributi, che hanno a che<br />

fare fondamentalmente con la leggerezza. Cos’è la leggerezza? La leggerezza è, in sostanza,<br />

l’incapacità di calcolare la portata e la conseguenza delle proprie azioni: dunque, la tendenza<br />

ad accondiscendere senza riflessione agli impulsi profondi del proprio desiderio. […]<br />

Quella di <strong>Pinocchio</strong>, dunque, non è una vera e propria cattiveria: è l’istinto poco controllato<br />

o del tutto incontrollato di seguire il proprio piacere, anche praticando in grande stile<br />

il ben noto meccanismo della procrastinazione dei doveri:<br />

«Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo<br />

<strong>–</strong> disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata» (XI).<br />

«<strong>Pinocchio</strong> esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio<br />

Geppetto e gli avvenimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col fare come fanno tutti i ragazzi<br />

senza un fil di giudizio e senza cuore; finì, cioè, col dare una scrollatina di capo e disse<br />

alla Volpe e al Gatto: <strong>–</strong> Andiamo pure: io vengo con voi» (XVIII).<br />

Il meccanismo delle funzioni, estremamente ripetitivo, viene tuttavia utilizzato in maniera<br />

sapiente da Collodi, che sa utilizzare anche utili forme di rovesciamento, come nell’episodio<br />

della tentazione di Lucignolo a <strong>Pinocchio</strong>: «[<strong>Pinocchio</strong>:] E se poi la fata mi grida? <strong>–</strong> Lasciala<br />

gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà <strong>–</strong> disse quella birba di Lucignolo»<br />

(XXX); e subito dopo: «[<strong>Pinocchio</strong>:] Sarei quasi capace di aspettare. <strong>–</strong> [Lucignolo:] E la fata?<br />

<strong>–</strong> Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà» (XXX).<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

Illustrazione tratta<br />

dal libro <strong>Cuore</strong>,<br />

in una edizione<br />

di fine Ottocento.<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

11<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

12<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

Locandina del film<br />

<strong>Pinocchio</strong> di Walt<br />

Disney (1940).<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

Gli altri difetti o colpe o debolezze di <strong>Pinocchio</strong><br />

derivano essenzialmente dall’esigenza<br />

di assicurare a questo impulso fondamentale<br />

del suo desiderio un sistema di<br />

difesa. Perciò è bugiardo (qualche volta,<br />

però, anche del tutto gratuitamente, come<br />

quando nega alla Fata di avere ancora le<br />

quattro monete in tasca: o perché mai lo fa,<br />

se il suo massimo desiderio, testimoniato persino<br />

dal supremo sacrificio del giorno prima,<br />

è quello, estremamente generoso, di portarle<br />

al suo babbo?; XVII). È testardo e ostinato nell’errore:<br />

«[L’ombra del Grillo-parlante:] Dài<br />

retta a me, ritorna indietro. <strong>–</strong> E io invece voglio<br />

andare avanti. <strong>–</strong> L’ora è tarda!... <strong>–</strong> Voglio<br />

andare avanti. <strong>–</strong> La nottata è scura… <strong>–</strong> Voglio<br />

andare avanti. <strong>–</strong> La strada è pericolosa… <strong>–</strong><br />

Voglio andare avanti» (XIII). […] È estremamente<br />

credulone: si lascia infinocchiare due<br />

volte dalla Volpe e dal Gatto (XII-XIII e XVIII-XIX),<br />

sostanzialmente perché nel suo cervellino i<br />

sogni di grandezza e di ricchezza si sviluppano<br />

impetuosamente, senza incontrare gli<br />

ostacoli della ragione.<br />

Ci sono però aspetti del carattere di <strong>Pinocchio</strong>,<br />

che non si esauriscono in questo<br />

elenco negativo. […] Il versante positivo della<br />

caparbietà è l’ostinazione, il versante positivo<br />

dell’ostinazione è il coraggio, il versante positivo<br />

della prepotenza è una risoluta attitudine<br />

a difendersi dalla prepotenza altrui. È il caso<br />

della strenua resistenza opposta agli assassini<br />

nei capitoli XIV e XV; è il caso della lotta ingaggiata<br />

con i compagni di scuola per farsi rispettare,<br />

che non è baruffa, non è rissa, è sacrosanta difesa della propria dignità personale:<br />

calci e pugni, se sono dati per una giusta causa, non sono riprovevoli; una causa giusta non<br />

può essere difesa passivamente («Fatto sta che dopo il calcio e quella gomitata, <strong>Pinocchio</strong><br />

acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi della scuola: e tutti gli facevano mille<br />

carezze e tutti gli volevano un ben dell’anima» (XXVI). […]<br />

<strong>Pinocchio</strong> è nato tanto monello, sventato, prepotente, leggero, quanto buono. Per esempio,<br />

quando si leva a difendere l’amico Arlecchino anche a rischio della propria vita (XI); e soprattutto<br />

quando la minaccia degli assassini di prendersela con il suo babbo lo spinge irriflessivamente<br />

ad aprire quella bocca che fino a quel momento aveva tenuta chiusa in maniera<br />

tanto ostinata: «No, no, no, il mio povero babbo no! <strong>–</strong> gridò <strong>Pinocchio</strong> con accento disperato:<br />

ma nel gridare così, gli zecchini gli sonarono in bocca» (XIV). […] L’impresa di redimere il discolo<br />

non è impossibile, perché esiste questa condizione positiva, anch’essa congenita come<br />

quella negativa. Ad un certo punto, la Fata la teorizza molto limpidamente e ne fa l’asse del<br />

suo programma di rieducazione: «[…] La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi<br />

il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male,<br />

c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada.<br />

Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma…» (XXV).<br />

Uno che come lui era «leggiero» e insieme aveva il «cuore buono», ma che la «leggerezza»<br />

avrebbe alla fine perduto, era ’Ntoni di padron ’Ntoni, la cui ombra sventurata sembra aggirarsi<br />

inquieta intorno alle avventure del nostro burattino. «’Ntoni era accanto al capezzale<br />

e piangeva come un ragazzo, ché il cuore lo aveva buono, quel giovane»; «’Ntoni si mise a<br />

piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l’aveva buono come<br />

il pane…». Le coincidenze sono impressionanti. Ed è vero che la storia di <strong>Pinocchio</strong> e quella<br />

di ’Ntoni si assomigliano: ambedue sono fanciulli impulsivi e irragionevoli, che un sogno di<br />

ricchezza e di benessere tende a traviare (uno si salva, l’altro no). D’altro canto, Collodi<br />

avrebbe avuto tutto il tempo di leggere I Malavoglia, apparsi nel febbraio 1881, quando si<br />

mise a scrivere il capitolo XXV delle Avventure, che uscì sul numero del Giornale per i bambini<br />

dell’11 maggio 1882. Nonostante la tentazione presente nella scoperta di ogni analogia<br />

come questa, è preferibile pensare, più che ad una citazione testuale, ad una coincidenza


antropologica profonda: la storia del povero che si perde per un eccesso di ambizioni doveva<br />

essere inscritta nel destino sociale dell’Italia post-unitaria, e il motivo del «cuore<br />

buono», inteso come l’ultimo argine all’esplodere di una irrefrenabile irrazionalità nazionale,<br />

percorre da cima a fondo la nostra cultura del tempo. È chiaro che questo è un filo che arriva<br />

fino a De Amicis, il cui libro <strong>–</strong> per arricchire il cumulo delle prodigiose coincidenze <strong>–</strong> si<br />

immagina dall’autore svolto durante l’anno scolastico di una terza elementare torinese fra<br />

l’ottobre 1881 e il luglio 1882, esattamente gli stessi mesi in cui <strong>Pinocchio</strong> galoppava senza<br />

posa tra campagne e mari toscani.<br />

A. Asor Rosa, «Le Avventure di <strong>Pinocchio</strong>. Storia di un burattino di Carlo Collodi»,<br />

in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. 13 L’età contemporanea. Le opere 1870-1900,<br />

Torino, Einaudi, 2007, pp. 461-466<br />

Che differenza c’è tra leggerezza e cattiveria?<br />

Spiega l’espressione: procrastinazione dei doveri.<br />

Quali somiglianze si incontrano tra la figura di <strong>Pinocchio</strong> e quella di ’Ntoni, personaggio del<br />

romanzo verghiano I Malavoglia?<br />

2<br />

Il progetto politico e pedagogico<br />

di Edmondo De Amicis<br />

Per ammissione dell’autore stesso, <strong>Cuore</strong> è un libro che vuole far piangere. Tuttavia, il messaggio<br />

che trasmette non è per nulla pessimistico o disperato. Al contrario, il romanzo è un vero appello all’attivismo,<br />

un’appassionata esortazione rivolta alle giovani generazioni affinché partecipino in maniera<br />

consapevole alla costruzione del nuovo Stato post-unitario.<br />

Libro ad alta tensione utopica, <strong>Cuore</strong> propone in forma catechistica un nuovo credo laico,<br />

elaborato in nome di quei settori della classe dirigente post-unitaria più disposti ad assumersi<br />

il ruolo di degni eredi delle idealità risorgimentali. Emblematica in proposito appare allora<br />

l’ambientazione dell’opera a Torino, non più capitale di stato ma presentata da De Amicis<br />

come la vera capitale morale della nazione. Lo scrittore intende rilanciare i valori che<br />

avevano ispirato la borghesia patriottica nelle lotte per l’indipendenza e l’unità d’Italia: raggiunto<br />

l’obiettivo, costituitasi in ceto di governo, questa classe deve ritrovare lo slancio entusiastico<br />

necessario per guidare le giovani generazioni alla conquista di un felice futuro. […]<br />

Ma la sua apertura d’orizzonti non comporta l’adesione alle parole d’ordine dello scientismo<br />

positivista; e non appare orientata sulla realizzazione di riforme razionalmente programmate<br />

per sanare le grandi piaghe sociali del Paese, quali venivano messe a nudo dalle inchieste<br />

parlamentari sulla questione meridionale e la questione agraria. Né tanto meno De Amicis<br />

mostra di acconsentire a prospettive di mutamento radicale delle strutture produttive: del<br />

resto, come avrebbe potuto farlo in un libro parascolastico?<br />

La sua formazione umanistica induce invece l’autore di <strong>Cuore</strong> a fare leva sulle istanze<br />

non della razionalità ma del sentimento, come le più adatte per stabilire un’intesa larga con<br />

la giovane generazione, considerata quasi alla stregua del settore di opinione pubblica meno<br />

addottrinato, più inesperto. Ma non si trattava solo di esaltare le pulsioni altruistiche, nella<br />

loro generosità disinteressata: occorreva anche mostrare come dall’esercizio delle virtù morali<br />

e civili derivasse un rafforzamento dell’io, nel suo slancio di autoaffermazione vitale. Ecco<br />

allora la mobilitazione degli affetti in chiave attivistica; e la compassione riabilitata laicamente<br />

come agente propulsivo d’un volontarismo fondato sulla fiducia energica in se stessi. Un simile<br />

paradigma concettuale era quanto di più lontano si potesse pensare dai canoni del naturalismo<br />

e del verismo. A venirne rifiutati erano sia l’impersonalità della rappresentazione,<br />

sia l’asprezza contristata del linguaggio, sia il proposito di turbare e scandalizzare la cattiva<br />

coscienza conformista rinfacciandogli i guasti provocati dal prevalere dei meccanismi mentali<br />

di un gretto utilitarismo economicista. De Amicis condivide questo scopo, ma preferisce<br />

rifarsi all’emotività romantica, nella sua tendenza a intensificare il pathos delle situazioni più<br />

strazianti. […]<br />

<strong>Cuore</strong> appare come una sorta di frutto postumo del romanticismo risorgimentale, [...].<br />

Dall’orchestrazione degli affetti primari deve scaturire l’invito a oltrepassare gli egocentrismi<br />

personalistici, i particolarismi di ceto o di casta per far prevalere ciò che unisce, non ciò che<br />

divide gli uni dagli altri i cittadini della nuova Italia. In questo senso la questione sociale appare<br />

non ignorata, no, ma trasposta in termini di questione civile: da risolvere con un rico-<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

13<br />

<strong>Educare</strong> i <strong>nuovi</strong> <strong>italiani</strong>: <strong>Cuore</strong> e <strong>Pinocchio</strong>


APPROFONDIMENTO C<br />

UNITÀ 8<br />

14<br />

POLITICA E SOCIETÀ TRA OTTOCENTO E NOVECENTO<br />

La visita a una scuola<br />

di campagna italiana,<br />

fotografia della fine<br />

dell’Ottocento.<br />

F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012<br />

noscimento di pari dignità a tutti i figli<br />

della nazione. […] L’orizzonte ideale<br />

della liberaldemocrazia appare dunque<br />

concretato e arricchito assegnando allo<br />

stato il compito di universalizzare un’istruzione<br />

scolastica moralmente uguagliatrice:<br />

siamo tutti fratelli non in quanto<br />

figli dello stesso Dio, che ci attende nelle<br />

chiese a lui dedicate, ma in quanto<br />

membri della medesima comunità statale,<br />

che ci alleva nelle sue provvide istituzioni<br />

educative. <strong>Cuore</strong> esprime un<br />

senso dello stato che lo contraddistingue<br />

e isola molto nel panorama della<br />

letteratura coeva, per ragazzi o per<br />

adulti. De Amicis apologizza [celebra,<br />

difende in modo appassionato, n.d.r.]<br />

impavidamente l’onnipresenza efficiente<br />

dell’amministrazione pubblica in tutti i settori degli apparati scolastici: sia pur sempre a livello<br />

di istruzione di base, senza riferimenti a quella superiore.<br />

A venir suggerita è una concezione organicistica della collettività nazionale, o forse potremmo<br />

dire nazional-popolare, fondata su ordinamenti acconsentiti da tutti perché posti al<br />

servizio degli interessi generali. Certo, non può non sussistere un discrimine tra governanti<br />

e governati: ma per De Amicis l’esercizio del potere comporta solo una nobile assunzione<br />

di responsabilità da parte dei primi verso i secondi. La vita civile appare quindi come un perfetto<br />

pendant [corrispondente simmetrico, n.d.r.] di quella militare: l’esercito ha una struttura<br />

gerarchica che distingue i ruoli di chi comanda e chi obbedisce, ma sottopone tutti allo<br />

stesso codice disciplinare. Analogamente, la società borghese non solo prevede ma si regge<br />

sui rapporti di dipendenza tra ricchi e poveri, padroni e servitori: però li sublima [li trascende,<br />

li relativizza, n.d.r.] nell’osservanza comune delle regole di contribuzione al miglioramento del<br />

regime di civiltà.<br />

Questo sistema concettuale viene calato negli apologhi narrativi di <strong>Cuore</strong> come un insieme<br />

di articoli di fede, non rivelati trascendentalmente ma egualmente forti d’una loro evidenza<br />

assiomatica [indiscutibile, perché evidente per tutti, n.d.r]. Solo così lo scrittore ritiene<br />

che lo stato potrà aureolare la propria immagine di un’autorevolezza suggestiva non inferiore<br />

a quella dell’istituzione ecclesiastica; e la letteratura edificante del laicismo sarà in grado<br />

di emulare l’efficacia di quella religiosa, ripetendone la tecnica di martellare all’infinito i propri<br />

precetti senza analizzarli né discuterli mai. La sfida era quanto mai impegnativa. Si trattava<br />

di appellarsi non agli uomini ma ai ragazzi di buona volontà per addestrarli alle virtù civiche,<br />

senza prometter loro ricompense oltremondane. Lo scrittore però evita di contraddire<br />

frontalmente la metafisica e, per la penna della madre di Enrico, acconsente alla fiducia in<br />

«una bontà suprema e una pietà infinita» che autorizzi la «celeste speranza» d’un ricongiungimento<br />

delle anime dopo la morte, per godere in eterno del loro affetto reciproco. Non<br />

solo, ma il maestro ricorre alla parola di Mazzini per confortare l’orfano Garrone e dirgli: «La<br />

morte non esiste, non è nulla. Non si può nemmeno comprendere. La vita è vita, e segue<br />

la legge della vita: il progresso. Tu avevi ieri una madre in terra: oggi hai un angelo altrove.<br />

Tutto ciò che è bene sopravvive, cresciuto di potenza, alla vita terrena. Quindi anche l’amore<br />

di tua madre. Essa t’ama ora più che mai. E tu sei responsabile delle tue azioni a Lei più di<br />

prima. Dipende da te, dalle opere tue d’incontrarla, di rivederla in un’altra esistenza».<br />

Ma ciò che conta, in questo vago teismo, è l’asserzione energetica che «Bisogna vincere<br />

il dolore», in «quello che il dolore ha di meno santo, di meno purificatore; quello che,<br />

invece di migliorare l’anima, la indebolisce e l’abbassa». Il dolore dunque, la morte, come<br />

occasione di prova per galvanizzare la volontà etica stringendo, non allentando i rapporti coi<br />

propri simili. Nessuno spazio al solipsismo [isolamento individualistico, n.d.r.] contemplativo;<br />

il sentimentalismo di <strong>Cuore</strong> non smentisce mai la carica attivistica del suo ottimismo sociale.<br />

V. Spinazzola, Pinoccio & C. La grande narrativa italiana per ragazzi, Milano, Il Saggiatore, 1997,<br />

pp. 128-131<br />

Spiega l’espressione: invito a oltrepassare gli egocentrismi personalistici, i particolarismi<br />

di ceto o di casta.<br />

Spiega l’espressione: concezione organicistica della collettività nazionale.

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