Professionalità docente e competenze relazionali degli insegnanti

Indice
index
Premessa .............................................................................................7
Premise ................................................................................................9
1. Professionalità docente e nuovo principio formativo ............................ 11
The teaching profession and new training principle ............................. 21
2. Le competenze didattiche dei docenti ................................................31
The Didactic Competences of Teachers ..............................................41
3. Le competenze relazionali dei docenti ...............................................49
Relational Competences of Teachers .................................................67
4. Le relazioni tra insegnanti e genitori .................................................83
The Relationship Between Teachers And Parents ................................. 97
5. Competenze riflessive e approccio autobiografico ............................. 109
Reflective Competences and Autobiographical Approach .................... 123
6. Le autobiografie dei Professori ....................................................... 135
Riferimenti bibliografici ....................................................................... 179

Enzo Catarsi
Professionalità docente
e competenze relazionali
degli insegnanti
Riflessioni a partire da un’analisi comparata
nel contesto di un progetto “Leonardo da Vinci”
The Teaching Profession
and the relational Competences
of Teachers
Reflections Starting from a Comparative Survey
Within the “Leonardo da Vinci” Project

Premessa
Uno sguardo alla storia dell’educazione e delle sue istituzioni ci consente di
constatare quanto il mestiere dell’insegnante sia stato da sempre socialmente
sottostimato e compromesso da un uso pedagogicamente distorto che le varie
società hanno fatto della scuola. Gli insegnanti sono sempre stati considerati, e
“trattati” come dei semplici esecutori di un progetto culturale, estraneo ad una
autonoma preoccupazione pedagogica e ridotti quindi a strumento di potere.
In questo contesto, in effetti, la vera funzione della scuola, e perciò degli insegnanti,
è quella di essere “garanti” del sistema politico dominante. Ecco,
quindi, che la preoccupazione principale dell’insegnante si riduce alla trasmissione
di un sapere organizzato secondo logiche adultistiche, seguendo metodi
trasmissivi che non puntano in alcun modo a rendere attivi gli allievi. Di qui la
realizzazione di una scuola priva di autentico interesse per gli alunni e quindi
di fatto largamente inefficace, nella quale gli apprendimenti “stimolati”, proprio
perchè scollegati dagli interessi dei ragazzi, risultano superficiali, facili ad essere
dimenticati e solo molto raramente trasferibili nella vita quotidiana. Come
dire, insomma, che al deprimente ruolo sociale dell’insegnante corrisponde una
situazione di accentuato fallimento dell’azione stessa della scuola, specie quella
dell’obbligo, che avrebbe dovuto, invece, aiutare nel loro processo di formazione
soprattutto coloro che provenivano da ambienti sociali meno avvantaggiati.
Tale situazione è andata progressivamente e sostanzialmente mutando nel corso
dell’ultimo cinquantennio, quando la scuola è andata acquisendo caratteristiche
diverse rispetto al passato. In questo contesto anche la professionalità
docente deve essere concepita in maniera innovativa e sostanziarsi di un complesso
livello di competenze che vengono richiamate in maniera esplicita in
questo volume.
Fra queste appare particolarmente innovativa quella relazionale, che è alla
base di corretti rapporti che gli insegnanti debbono avere con i colleghi, con gli
allievi e con le loro famiglie. Esperienze recenti hanno testimoniato ancora una
volta le difficoltà connesse al lavoro di gruppo fra i docenti, così come insoddisfacenti
appaiono le modalità di relazione con i genitori degli alunni.
Proprio per queste ragioni è stato promosso il progetto di cui presentiamo uno
spaccato con questa pubblicazione, per analizzare le competenze relazioni dei
docenti della scuola secondaria in quattro paesi europei (Irlanda, Italia, Germania,
Polonia). I questionari somministrati agli insegnanti e le autobiografie che
alcuni di essi hanno scritto, hanno offerto materiale prezioso per promuovere
una cultura delle relazioni anche all’interno della scuola secondaria, dove esse
sono state tradizionalmente sottovalutate.
L’intendimento è stato anche quello di promuovere percorsi di riflessività tali
da mettere i docenti in condizione di capire che il loro comportamento è fondamentale
ai fini del successo scolastico degli allievi e più specificamente della
loro riuscita nelle attività scolastiche. Ecco perché è auspicabile la diffusione di
un modello di “insegnante incoraggiante” che deve puntare a sviluppare nell’al-
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lievo autostima, fiducia, sicurezza, interesse sociale, capacità di cooperare e di
sviluppare attività.
Il progetto, nato nell’ ambito del programma europeo Leonardo da Vinci, è
stato finanziato dalla Commissione Europea, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione
sulle relazioni che si instaurano all’interno dell’edificio scolastico e con
l’intendimento di contribuire a migliorare le dinamiche relazionali scolastiche.
L’ obiettivo di fondo – ovviamente ancora da realizzare nel suo complesso - è
stato quello di dare un contributo, nella prospettiva europea, alla costruzione
di una idea forte di ambiente di apprendimento accogliente ed incoraggiante,
in grado di motivare i ragazzi ed in grado di sviluppare l’autostima e il senso
di autoefficacia. Il progetto è stato svolto attraverso una serie di azioni mirate
a sviluppare nei docenti la consapevolezza dell’importanza della dimensione
relazionale e mirate a costruire dei percorsi formativi nuovi, in grado di porre
maggiore attenzione alla dimensione affettiva ed emotiva dei ragazzi.
Efficaci, a tale riguardo, si sono rivelati gli scambi fra i docenti delle diverse
scuole, che hanno così potuto mettere a punto gli strumenti utilizzati per il
lavoro di indagine, i cui risultati, almeno per una parte, vengono pubblicati in
questo volume, dove si presentano e si analizzano i dati frutto della indagine
sulle competenze relazionali degli insegnanti delle scuole partecipanti al progetto,
nonché le autobiografie elaboratela alcuni di essi. Ciò che emerge non
è niente di trascendentale, anche se in particolare quanto contenuto nelle auutobiografie
ci dice che si sono parecchi insegnanti che, pur consapevoli delel
difficoltà relazionali presenti nella scuola, riescano ancora a “pensare positivo”
ed a lavorare per costruire quell’ alleanza educativa con gli studenti e le loro famiglie,
in grado di promuovere un clima accogliente che si rivela determinante
per favorire l’apprendimento e la crescita complessiva degli studenti considerati
come persone e cittadini.

Premise
If we take a look at the history of education and its institutions, we can see how
the teaching profession has always been socially underrated and undermined
by a warped pedagogical meaning which societies have attributed to school.
Teachers have always been considered and “treated” as performers of a cultural
project which lacks pedagogical autonomy and therefore are simply figures of
power.
In this context, indeed the real aim of school and therefore of teachers is to be
“guarantors” of the current political system. The main concern of the teacher
can be summed up as follows: knowledge which follows adult-style logic using
methods which are not at all aimed at making students active learners. Thus we
have a school system which lacks any real interest in the students and which is,
in fact, inefficient. In this system, learning is “stimulated” because it is totally
unconnected with the students’ interests and is superficial, easily forgotten and
very rarely can it be applied to everyday life. All in all, it can be said that on
a parallel to the depressing social role of the teacher, we have an emphasized
failure of what school should offer -especially during compulsory educationwhich
should be the more important period for young people to learn, especially
for those who come from socially disadvantaged environments.
This situation has been continually and greatly changing over the past fifty years
and school has acquired different characteristics from the past. If we bear this
fact in mind, even the teaching profession must be conceived in a new manner
and have a complex level of competences which are discussed in this book.
Among these competences, a particularly innovative one is relational competence
which is at the root of correct relationships that teachers must have with their
colleagues, with their students and parents. Recent experiences have shown
yet again that there are difficulties with teamwork in teachers and the ways of
relating to students’ parents also appears to be unsatisfactory.
Our project was promoted especially for this reason. In our publication we
will outline the project and analyse the relational competences of high school
teachers in four different European countries (Ireland, Italy, Germany,
Poland). The questionnaires which we asked the teachers to complete and the
autobiographies which some of them have written have given precious material
to promote the culture of relations within secondary school, where, up to now
they have been traditionally under considered.
The intention was to promote reflection. The aim of this was to put teachers
in a position to understand that their behaviour is fundamental for students’
school success and more specifically, of their success in school activities. This is
the reason why it is hoped that we can divulge the model of an “encouraging”
teacher who must aim to help students develop self-esteem, trust, security,
social interest, the ability to co-operate and to develop activities.
The project, which arises within the EC Leonardo da Vinci project was funded by
the EU. The objective of the project was to focus on the relationships which are
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created within the school premises and intends to help improve the dynamics
of relationships at school. The main objective- which still has to be completed
to give results- was to contribute, at a European level, to agree to the idea of
creating a welcoming and encouraging learning environment which is able to
motivate students and develop their self-esteem and sense of self-sufficiency.
The project involved actions which were intended to make teachers aware that
the aspect of relationships is important. These actions were also intended to
form new formative paths which could give more space to the affective and
emotional sphere of the students.
As regards the latter, exchanges between the teachers of different schools
proved positive. Thanks to these exchanges they were able to put to good use
the tools used for their survey, the results of which, are, in part, published in
this book. The results on relational competences of the teachers participating
in the project are analysed, as are the autobiographies written by several
of them. The results are by no means transcendental even if what emerges
from the autobiographies shows that many teachers, in spite of the relational
difficulties which they encounter at school, still manage to think “positively” and
work at creating an “educational alliance” with their students and parents. All
in all, this is able to contribute to promoting a welcoming atmosphere which is
a determining factor in favouring learning and growth of the students who are
considered people and citizens.

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Professionalità docente
e nuovo principio formativo
Professionalità docente e relazioni sociali
Uno sguardo alla storia dell’educazione e delle sue istituzioni ci consente di
constatare quanto il mestiere dell’insegnante sia stato da sempre socialmente
sottostimato - e compromesso nelle sue reali funzioni - da un uso pedagogicamente
distorto. Gli insegnanti di ogni ordine e grado, infatti, sono sempre stati
considerati, e “trattati”, come dei semplici esecutori di un progetto culturale,
estraneo ad una autonoma preoccupazione pedagogica e ridotti quindi a strumento
di potere. In questo contesto, in effetti, la vera funzione della scuola, e
perciò degli insegnanti, è ritenuta quella di essere “garanti” della trasmissione
del patrimonio valoriale del blocco sociale dominante. Ecco, quindi, che la preoccupazione
principale dell’insegnante si riduceva alla trasmissione di un sapere
organizzato secondo logiche adultistiche e sulla base di contenuti generalmente
individuati nel patrimonio più tradizionale del sapere. Di qui la realizzazione di
una scuola priva di autentico interesse per gli alunni e quindi di fatto largamente
inefficace, nella quale gli insegnamenti proposti, proprio perchè scollegati
dai reali interessi degli alunni, risultano superficiali, facili ad essere dimenticati
e solo molto raramente trasferibili nella vita quotidiana. Come dire, insomma,
che a fronte del deprimente ruolo sociale dell’insegnante, corrisponde una situazione
di accentuato fallimento dell’azione stessa della scuola, che avrebbe
dovuto, al contrario, favorire il processo di formazione di coloro che provengono
da ambienti sociali culturalmente più deprivati.
È evidente che una tale concezione della professionalità docente non è – oggi
- più proponibile e che la questione del suo rinnovamento e della sua qualificazione
si impone per più motivi, anche alla luce degli scarsi risultati ottenuti dai
ragazzi italiani nelle indagini internazionali tese a valutare le loro competenze.
Al riguardo, peraltro, esistono anche molti equivoci, tanto che coloro che sono
colpevoli dell’attuale situazione - in particolare i “disciplinaristi” che insegnano
nelle facoltà da cui provengono storicamente i docenti dela scuola media e superiore
- pretenderebbero di assumere il ruolo di accusatori. L’acquisizione di una
nuova prospettiva d’ insegnamento, d’altra parte, implica l’interpretazione del
ruolo docente in maniera assai diversa da quella tradizionale di semplice “trasmettitore”
ed “interrogatore”. Questo deve riguardare in particolare la scuola
secondaria, dove – come è stato autorevolmente rilevato - «le discussioni sulla
didattica sono sempre state più limitate, forse perché tuttora agli insegnanti
si richiede soltanto una preparazione culturale – di fatto insufficiente – senza
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alcuna particolare competenza pedagogia o didattica, e permane il pregiudizio
gentiliano che “basta sapere per insegnare”» (Ajello-Pontecorvo, 2001, 22).
Oltre a ciò occorre anche ricordare che la scuola italiana, ancora oggi affetta dal
cancro gentiliano, ha storicamente emarginato emozioni e relazioni e lo stesso
loro significato ai fini dell’apprendimento. La ricerca più recente, al contrario,
anche a livello internazionale (Zembylas, 2007), ha evidenziato lo stretto legame
esistente tra le dimensioni emozionale e cognitivo dello sviluppo ed impone,
pertanto, un ripensamento della organizzazione complessiva della mediazione
didattica e della stessa istituzione scolastica. Molteplici, al riguardo, sono i richiami
e le denunce degli studiosi. Fra questi ci piace ricordare quelli recenti di
Umberto Galimberti (2007) – che certo non può essere tacciato di essere un
pedagogista utopista – il quale ha scritto che l’apprendimento è condizionato
positivamente dal “benestare” dei ragazzi, frutto, in particolare, del clima in cui
vivono ed imparano e dell’autostima che essi riescono a maturare. Anche per
questo, quindi, gli insegnanti dovrebbero preoccuparsi prioritariamente del tipo
di relazione che riescono ad attivare con i loro allievi, superando la concezione
tradizionale dell’insegnamento come trasmissione di sapere. Howard Gardner
(1993) ci ha insegnato che è impossibile istruire un ragazzo se prima non si è
lavorato per favorire la costruzione della sua identità che, ancora durante l’adolescenza,
abbisogna di una costante attenzione. «L’identità, infatti – scrive Umberto
Galimberti (2007, 33) – non si costruisce per il semplice fatto che ci siamo
e che ogni volta che parliamo diciamo “io”. L’identità si costruisce a partire dal
riconoscimento dell’altro. Se il riconoscimento manca, come manca sempre a
chi va male a scuola, l’identità, che è un bisogno assoluto per ognuno di noi, si
costruisce altrove, in tutti quei luoghi, scuola esclusa, dove è possibile ottenere
riconoscimenti». È così, dunque, che per molti il luogo di riconoscimento diventa
la strada, per quello che essa può dare, con facili degenerazioni nel bullismo
e nella violenza.
La scuola, dunque, ha grosse responsabilità nella formazione complessiva delle
nuove generazioni e deve assumersi l’impegno di trattare i ragazzi come persone,
con bisogni che certo vanno oltre la pur giusta esigenza di acquisire cultura,
la cui ridefinizione, peraltro, costituisce un altro tema importante dei nostri
tempi. Solo in questo modo sarà possibile educare dei cittadini e non produrre
dei “sudditi”, della televisione, delle mode, del potente di turno, etc. Ma la scuola
che cosa fa per ottenere questi risultati? «La scuola – risponde causticamente
Galimberti (2007, 34) – svolge programmi ministeriali, perché ritiene che il
suo compito non sia propriamente quello di educare, ma unicamente quello di
istruire, essendo l’educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato
necessario dell’istruzione. Ma le cose non stanno propriamente così. È se mai
l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta. E l’educazione non è
fatta solo di buone maniere, ma è una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti,
della gioia di sé».
La scuola, quindi, non può prescindere anche da questo compito, peraltro connaturato
alla sua “missione”. Al riguardo, peraltro, non possiamo non fare nostro
quanto ancora Howard Gardner sostiene nell’ambito della sua teoria delle

intelligenze multiple, laddove propone anche quella di “intelligenza intrapersonale”,
identificata nella capacità di accedere e riconoscere i propri personali
sentimenti e le proprie emozioni e di capire quanto questi influenzino i propri
comportamenti. «Nella sua forma più primitiva – scrive Gardner (1995, 260) –
l’intelligenza intrapersonale equivale a poco più della capacità di distinguere un
senso di piacere da un senso di doloro e, sulla base di una tale discriminazione,
di impegnarsi di più in una situazione o di ritrarsene. Al suo livello più avanzato,
l’intelligenza intrapersonale consente di scoprire e di esprimere in simboli insiemi
complessi e altamente differenziati di sentimenti. Troviamo questa forma
di intelligenza sviluppata nel romanziere (Proust) che è in grado di scrivere in
modo introspettivo sui sentimenti, nel paziente (o nel terapista) che perviene
a realizzare una conoscenza profonda della propria vita affettiva, nel vecchio
saggio che attinge alla propria ricchezza di esperienze interiori per dare consigli
ai membri della sua comunità».
Occorre quindi che la scuola acquisisca piena consapevolezza che il successo dei
ragazzi deriva – anche e in primo luogo – dal riconoscimento che essi sentono
di avere come persone prima ancora che come discenti e dal clima complessivo
in cui si realizza la relazione tra insegnamento ed apprendimento. Uno degli
studiosi più attento a questi temi ha scritto, al riguardo, in maniera caustica:
«A scuola non pochi soggetti scoprono che la conoscenza e il soggettivo vissuto
esistenziale, la ragione e l’emozione, la mente e il corpo sono, oltre che separati,
gerarchicamente organizzati. Per non pochi soggetti la scuola, piuttosto
che configurarsi contesto relazionale in cui provare quotidianamente il piacere
dell’apprendimento, si ritrae luogo di esperienza e di apprendimento dell’angoscia
e della sofferenza, ambiente in cui imparare è fare pratica del dolore
mentale. In fin dei conti, apprendere è sperimentarsi, è fare esercizio di sé, è
mettere alla prova la propria stima e fiducia, la personale capacità di autodeterminazione
autonomia. Stretto è il rapporto tra stile affettivo e stile cognitivo,
tra variabili affettive e percezione di sé come soggetto adeguato o inadeguato
al compito apprenditivo. Un “buon” apprendimento è inevitabilmente sotteso ad
una “buona” percezione di sé» (Rossi, 2004, 69).
Questa riflessione, puntuale e del tutto condivisibile, ci ingiunge anche di sottolineare
come nella nostra cultura l’apprendimento venga spesso associato alla
“noia” e financo al dolore, scambiati per impegno e spirito di sacrificio, peraltro
necessari per pervenire ad un sostanziale e vero successo formativo. Forse è il
portato – ancora – degli esiti controriformistici che tanto hanno condizionato la
cultura italiana ed in particolare quella pedagogica. Certo è che se due genitori
– che magari erano molto “bravi a scuola – vedono che loro figlio torna dal liceo
fischiettando sono i primi ad insospettirsi per il timore che egli non impari nulla.
Al contrario si tratta di promuovere una scuola “accogliente”, dove il riso abbia
un suo spazio riconosciuto, senza che questo debba necessariamente entrare
in contraddizione con lo sforzo e l’impegno per lo studio. In effetti, se al giorno
d’oggi tutti possono ridere senza essere considerati stolti o irreverenti verso il
potere, è pur vero che all’interno delle istituzioni e degli ambienti di lavoro si
preferisce ridere poco, per non essere tacciati di superficialità e per ribadire
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che le cose si fanno sul serio: nella scuola come negli ospedali, nelle carceri
come nelle fabbriche, è veramente difficile sentire una sana risata che, peraltro
– lo vogliamo ribadire – non sminuisce il significato di un serio e meditato
impegno nello studio e nel lavoro.
Tal limite, peraltro, pare essere proprio non solo degli insegnanti italiani. In una
delle autobiografie, raccolte a livello internazionale per il progetto “Link”, abbiamo
infatti potuto leggere nel testo di un docente irlandese che i suoi colleghi
si imponevano un atteggiamento serioso per il timore di perdere la loro autorevolezza.
Ed al riguardo scrive ironicamente: «Mai un sorriso prima di Natale,
semraba essere il più frequente richiamo di tutti».
Anche nella scuola secondaria, d’altra parte, la situazione è in lento – molto lento
- movimento, anche se non emerge una chiara consapevolezza delle proprie
responsabilità, in particolare in riferimento allo specifico fenomeno del disagio
e dell’abbandono scolastico. La consistenza del medesimo dovrebbe invece indurre
la categoria docente a riflettere sulle proprie azioni professionali e più
complessivamente sulla organizzazione dell’istituzione scolastica, senza pensare
che l’insuccesso scolastico sia il frutto della “naturale” incapacità degli allievi.
«Tanti comportamenti disturbanti e, nello stesso tempo, indicatori di disturbi,
tante cifrate richieste d’aiuto degli allievi – scrive Maria Grazia Contini (1998,
102) – non solo non trovano “accoglienza” (=disponibilità emotiva, capacità
di decifrare e interpretare), ma vengono segnalati come eventi responsabili
dell’emarginazione stessa degli allievi».
I ragazzi avvertono questo tipo di disagio, frutto quasi sempre di relazioni inesistenti
o troppo distaccate, ma generalmente non hanno il coraggio della denuncia,
ritenendo – magari – di essere i soli a provare certi stati d’animo, in virtù di
una propria personale insicurezza. È però vero che quando essi vengono interrogati
al riguardo le loro risposte sono quanto mai indicative, come è avvenuto
nella in una indagine Iard sui giovani. Richiesti di un giudizio sui loro insegnanti
essi non sono certo benevoli. Il maggiore difetto che viene imputato agli insegnanti,
dal 67,3% degli intervistati, è quello di non ascoltare gli studenti e di
non tenere di conto del loro punto di vista. Il dato appare anche più significativo
alla luce del fatto che le altre “manchevolezze” presentano percentuali assai più
basse: influenza politica e ideologica sugli allievi (38%), incompetenza e impreparazione
(39,9%), eccessiva arrendevolezza (24,7%), eccessiva severità
(21,6%) (Gasperoni, 2002, 90).
Successo scolastico e nuovi saperi
La richiesta più insistente dei ragazzi è infatti – sempre – quella di essere
ascoltati. E la capacità di ascolto, costituisce, in effetti, una delle caratteristiche
fondanti di un rapporto educativo democratico e di una professionalità docente
matura e complessa. L’«atteggiamento di ascolto», d’altra parte, ha un significato
complessivo e - come spiega bene Guido Petter (1992, 207) - consiste
nell’«atteggiamento di un insegnante che cerca di decentrarsi negli allievi, di
cogliere attraverso molti possibili indici, di tipo verbale o comportamentale, i

loro bisogni profondi di crescita, così come i loro stati d’animo del momento, i
loro interessi, la loro disponibilità ad accogliere con favore certe sue proposte,
a svolgere con impegno certe attività. È l’atteggiamento di chi pensa che gli
allievi possano sempre dirgli qualcosa che ancora non sapeva, rivelargli aspetti
della loro persona o della loro vita che ancora non conosceva; di chi non è incrollabilmente
sicuro delle proprie opinioni, inaccessibile alle argomentazioni, ai
tentativi che gli allievi compiono di fargli prendere in considerazione certi dati e
di presentargli punti di vista diversi dal suo».
Ecco allora, nel parlare delle competenze didattiche degli insegnanti, la necessità
di affrontare prioritariamente la questione di una nuova professionalità
docente, frutto di una formazione diversa, che li metta in condizione di capire
l’influenza delle emozioni e della comunicazione nel rapporto con gli allievi.
Scrive giustamente Maria Grazia Contini (1998, 102-103): «Uscire dall’analfabetismo
emozionale, riconoscere le emozioni come modalità di conoscenza,
individuare l’influenza che i processi emotivi esercitano sui processi cognitivi e,
soprattutto, quelle che i processi cognitivi esercitano sui processi emozionali,
cogliere le spie di “cattivi pensieri” e risalire ai blocchi e ai nodi emotivi che ne
derivano. È un percorso, quello che si delinea, in grado di dare spazio e ascolto
anche ai messaggi del disagio affinché, esprimendosi, rendano possibile una
“relazione d’aiuto” di tipo pedagogico, tesa cioè a correggere “monologhi interiori”
svalutanti sul piano cognitivo e difensivi sul quello emozionale». Per agire
in questo modo l’insegnante non deve atteggiarsi ad “amico” dei propri allievi
o – tantomeno – pensare di assolvere alla funzione di psicoterapeuta.
L’insegnante deve infatti mostrarsi autorevole e competente nei “propri” saperi
disciplinari e didattici, assumendo sempre e comunque un atteggiamento “confermante”
ed “incoraggiante” nei confronti degli allievi. Allo stesso modo deve
sviluppare una specifica competenza relazionale fondata sulla capacità di assumere
un atteggiamento empatico e di comunicare con gli altri, allievi in primo
luogo. «Competenza comunicativa significa, fra l’altro – scrive ancora Contini
(1998, 103-104) – conoscenza delle proprie modalità comunicative, capacità
di cogliere e decifrare i feedback inviati dagli interlocutori, decentramento dai
propri schemi cognitivi e disponibilità alla divergenza, capacità di decodificare
messaggi opachi od eccentrici e di codificare i propri messaggi utilizzando una
pluralità di linguaggi adeguata alle esigenze e, anche, ai problemi degli interlocutori.
Significa, inoltre, rendersi conto di ciò che si pensa e si sente, nella
consapevolezza che i nostri giudizi e pregiudizi, le nostre emozioni e aspettative
– in negativo o in positivo – sono messaggi che passano e influenzano gli
altri specie se questi ultimi si trovano in una posizione down all’interno di una
relazione con noi, che è di tipo asimmetrico e cioè caratterizzata da disparità di
sapere, di esperienza, di potere istituzionale». Molti abbandoni, in effetti – ce lo
dicono le testimonianze dei giovani – sono il frutto di relazioni “difficili” tra allievi
ed insegnanti, i quali hanno espresso, in maniera più o meno esplicita, atteggiamenti
disconfermanti o di disistima nei confronti di ragazzi successivamente
“dispersi (si?)”. D’altra parte, tanto per non creare equivoci, non possiamo certo
addossare solo agli insegnanti la colpa del fenomeno della dispersione scolasti-
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ca. In effetti è tutta l’organizzazione del sistema scolastico che gentilianamente
tende a selezionare.
Partendo quindi dal presupposto che anche la scuola ha responsabilità dirette
ed in qualche modo è «causa» del fenomeno dell’abbandono, si tratta preliminarmente
di avviare una riflessione critica sulla sua struttura, ancora oggi di
stampo gentiliano e che merita di essere superata con una riforma radicale.
Allo stesso modo occorre riflettere sui caratteri fondanti della professionalità
docente e sulle abilità che la caratterizzano (Cambi, 2003). Essa - almeno a nostro
modo di vedere - si sostanzia di cinque macrocompetenze, che potremmo
definire nella maniera seguente: 1. competenze culturali; 2. competenze tecnico
professionali; 3. competenze metodologiche e didattiche; 4. competenze
relazionali; 5. competenze riflessive.
È evidente che una tale caratterizzazione della professionalità dei docenti non
corrisponde alla situazione esistente. La proposta, peraltro, non intende essere
polemicamente critica nei confronti della attuale categoria degli insegnanti, la
cui formazione, com’è noto, risente ancora degli esiti nefasti dell’«onda lunga»
gentiliana e le cui lacune, pur rendendosi sempre più evidenti, non possono
certo essere primariamente imputate a responsabilità soggettive. Occorre pertanto
lavorare per il loro superamento, magari organizzando esperienze organiche
di formazione in servizio che abbiano nei caratteri della continuità e della
sistematicità i loro tratti distintivi. Al contempo si tratta anche di attivare delle
forme di reclutamento diverse dal passato, andando preliminarmente a definire
quali sono le conoscenze e le competenze che un insegnante deve possedere,
sulla base di un impegno già presente in molti altri paesi, a cominciare dagli
Stati Uniti (Borko-Liston-Whitcomb, 2007; Damon, 2007).
Allo stesso modo pare giusto evidenziare che la proposta caratterizzazione delle
competenze alla base della nuova professionalità docente deve essere intesa
in tutta la sua dinamicità e con la sottolineatura che tutte e cinque debbono
essere presenti in misura equilibrata. Le prime si fondano sulla convinzione
che gli insegnanti debbono essere uomini e donne del loro tempo e dunque
intellettualmente curiosi ed immersi nella vita sociale. Le seconde si basano sul
presupposto che gli insegnanti debbono conoscere profondamente le discipline
che insegnano, oltre ad avere pratica delle didattiche disciplinari ed a possedere
conoscenze e competenze pedagogiche e psicologiche essenziali per svolgere la
professione docente.
Più specificamente appare evidente come le competenze culturali e tecnicoprofessionali
dei docenti rimandino ad una nuova concezione della stessa “cultura”
e – dunque – alla necessità di elaborare un nuovo principio formativo per
la scuola di domani. A tale riguardo potrebbe risultare assai utile la riflessione
di Edgar Morin, che parla di una cultura antropologicamente intesa e afferma a
chiare lettere che la “cultura esiste solo attraverso le culture”. Lo studioso francese
scrive infatti in maniera inequivocabile: «La cultura è costituita dall’insieme
dei saperi, delle abilità, delle regole, delle norme, dei divieti, delle strategie,
delle credenze, delle idee, dei valori, dei miti, che si trasmette di generazione
in generazione; si riproduce in ogni individuo; controlla l’esistenza della società

e mantiene la complessità psicologica e sociale. Non esistono società umane,
arcaiche o moderne, che siano prive di cultura, ma ogni cultura è singolare.
Così si ha sempre la cultura nelle culture, ma la cultura esiste solo attraverso le
culture» (Morin, 2001, 57).
Al contempo, ai fini del nostro scritto, appare evidente l’interesse prioritario di
Morin per la riforma del sapere e per la promozione di una soggettività rinnovata
e dal carattere complesso. In questo quadro la riforma della scuola assume
un ruolo preminente e non è senza significato che recentemente si sia voluto
intitolare Educare gli educatori (Morin, 2005) un volumetto che raccoglie alcuni
scritti ed interviste moriniani. Lo studioso francese, d’altra parte, nella terza
parte della trilogia pedagogica – dopo Relier les connaissances (1999b) e La
tete bien faite (2000) – torna a ribadire con forza l’importanza della riforma
dell’insegnamento e della costruzione di un nuovo sapere.
In questa prospettiva porta un contributo importante al rinnovamento della
stessa scuola italiana, minando alla base il paradigma pedagogico gentiliano.
Più precisamente è chiara la sua sottolineatura dell’importanza della dimensione
metodologica e psicopedagogia dell’insegnamento. Le prime parole de I
sette saperi sono emblematiche: «È sorprendente che l’educazione, che mira a
comunicare conoscenze, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, su ciò che
sono i suoi dispostivi, le sue menomazioni, le sue difficoltà, le sue propensioni
all’errore e all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa
è conoscere» (Morin, 2001, 11). Allo stesso modo, subito dopo, pone la questione
dello studio delle modalità con cui il soggetto acquisisce la conoscenza,
rilevando al proposito che «è necessario introdurre e potenziare nell’insegnamento
lo studio dei caratteri cerebrali, mentali, culturali della conoscenza umana,
dei suoi processi e delle sue modalità delle disposizioni psichiche e culturali
che la inducono a rischiare l’errore o l’illlusione» (ivi).
In questa prospettiva appare essenziale la critica di Morin all’attuale organizzazione
del sapere ed in particolare all’impianto classico dei saperi disciplinari
tradizionali. Proprio per questo scrive che «la supremazia di una conoscenza
frammentata nelle diverse discipline rende spesso incapaci di effettuare il legame
tra le parti e la totalità, e deve far posto a un modo di conoscere capace di
cogliere gli oggetti nei loro contesti, nei loro complessi, nei loro insiemi» (Morin,
2001, 12). Al contempo lo studioso francese vibra un colpo mortale alla storica
disattenzione che anche la cultura pedagogica italiana ha avuto nei confronti del
ruolo delle emozioni e degli affetti nel processo di apprendimento, evidenziando
la complessità della identità umana ed il significato che essa assume al fine
della costruzione di una democrazia realmente partecipata. «L’essere umano –
scrive infatti – è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico.
Questa unità complessa della natura umana è completamente disintegrata
nell’insegnamento, attraverso le discipline. Oggi è impossibile apprendere ciò
che significa essere umano, mentre ciascuno, ovunque sia, dovrebbe prendere
conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia
17

18
dell’identità che ha in comune con tutti gli altri esseri umani» (ivi).
Altro aspetto particolarmente innovativo del pensiero moriniano è la profonda
attenzione per le relazioni e per l’educazione alla comprensione che ne è alla
base. Quello che egli scrive, in effetti, costituisce un giudizio caustico e netto
nei confronti delle modalità quasi esclusivamente trasmissive della scuola italiana
ed occidentale. L’educazione alla comprensione viene così – giustamente
– posta alla base del novo principio formativo. Scrive infatti, con una riflessione
quanto mai puntuale: «La comprensione è il mezzo e il fine della comunicazione
umana, Ora, l’educazione alla comprensione è assente dai nostri insegnamenti.
Il pianeta ha bisogno in tutti in sensi di reciproche comprensioni. Data l’importanza
dell’educazione alla comprensione richiede una riforma delle mentalità.
Questo deve essere il compito per l’educazione del futuro» (Morin, 2001, 14).
Il raggiungimento di un tale obiettivo, infatti, potrà favorire l’acquisizione della
consapevolezza del carattere complesso della soggettività umana, oltre che della
necessità di valorizzare l’autonomia dell’individuo nel rapporto con tutti gli altri
essere umani. «Si ritrova qui – Ribadisce Morin (2001, 97) - la missione propriamente
spirituale dell’educazione: insegnare la comprensione fra gli uomini è
la condizione e la garanzia della solidarietà intellettuale e morale dell’umanità».
Anche per questo lo studioso francese critica l’egocentrismo quale “peccato”
capitale e cancro dei rapporti umani, scrivendo, fra l’altro, causticamente al
riguardo: «Il mondo degli intellettuali, scrittori o accademici, che dovrebbe essere
il più comprensivo, è il più incancrenito sotto l’effetto di un’ipertrofia del sé
nutrita dal bisogno di consacrazione e di gloria» (Morin, 2001, 101).
Un nuovo principio formativo
Il contributo di Edgar Morin appare, quindi, quanto mai utile al processo di costruzione
di un nuovo principio formativo che pareva iniziato nel nostro paese e
nel quale – non a caso – lo studioso francese era stato direttamente coinvolto.
Personalmente sono convinto che la tradizione italiana, fondata sulla cultura
classica, debba essere arricchita dalla cultura scientifica e da quella tecnologica.
Allo stesso modo si tratta di introdurre nella scuola secondaria una chiara
cultura del lavoro, che consentirebbe di cominciare a superare quell’assurda e
nociva dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale che contraddistingue
la cultura italiana da troppo tempo e che è stata eretta ad “assoluto formativo”
da Giovanni Gentile e dai suoi epigoni (più o meno dichiarati). Questo non significa,
in alcun modo, sottovalutare la dimensione culturale della formazione
dei giovani.
In questo contesto, tanto per essere chiari, ritengo che l’apprendimento della
filosofia e delle sue categorie interpretative dovrebbe essere appannaggio di
tutti i ragazzi di tutti i licei, da quello classico a quello tecnologico e professionale,
visto che personalmente sarei per chiamare licei tutti gli indirizzi secondari.
Tutti gli adolescenti, in altri termini, dovrebbero poter confrontarsi con categorie
fondanti l’ esistenza umana, dalla vita alla morte, dalla felicità al dolore,

etc. Ma dovrebbero farlo con un approccio ai testi, eliminando la mercificazione
manualistica che ci ha imposto una cultura filosofica di seconda mano, per di
più propinata in una esclusiva prospettiva storicistica dal presunto valore taumaturgico.
Allo stesso modo va chiarito che la prospettiva – a medio termine - più congeniale
al paese ed al suo sviluppo è quella dell’obbligo scolastico fino ai 18
anni, assolto in una scuola radicalmente diversa dall’attuale e caratterizzata da
un principio formativo e da insegnamenti rinnovati. Questi ultimi, infatti, non
possono più limitarsi a fornire solo una parte della cultura, per di più distaccata
dalle cose del mondo. Al riguardo, infatti, siamo assai d’accordo con Benedetto
Vertecchi (2004, 11) quando rivendica la piena utilizzazione delle valenze
creative della categoria dell’utile. «Si può accettare che le nuove generazioni
– domanda retoricamente il pedagogista romano – non sappiano distinguere
una castagno da un ciliegio o un tiglio da una quercia? Che non si sia capaci
di misurare oggetti e di realizzarli integrando abilità manuale e risorse strumentali?».
Per poi aggiungere: «È paradossale (ma i paradossi richiedono una
spiegazione) che, proprio quando si pone il più forte accento sulla categoria
dell’utile per far spazio alla formazione professionale, si trascurino le valenze
creative dell’utilità, quelle capaci di arricchire il profilo culturale consentendo di
collegare i simboli alle cose».
Il problema di fondo che condiziona il nostro sistema formativo è, in effetti,
quello della separatezza o addirittura contrapposizione tra cultura e lavoro, tra
sapere teorico e sapere pratico. Questo ha legittimato l’esistenza dei due canali,
nati sulla base di una gentiliana concezione classista della scuola e della società,
in base a cui abbiamo avuto una scuola propriamente detta, finalizzata a far
acquisire la vera cultura, disinteressata e destinata alle classi superiori ed un
sistema di formazione professionale, di natura prevalentemente addestrativa
ed ovviamente destinato alle classi subalterne.
Tale impianto, fra l’altro, legittima la selezione scolastica che, oggi, non a caso,
viene definita, più “dolcemente”, dispersione scolastica, ad indicare la responsabilità
prioritaria dei ragazzi che si disperdono, in luogo di quella – vera e
colpevole – dell’istituzione, la scuola secondaria, che li seleziona e li espelle.
Personalmente non credo di poter essere annoverato nelle file della sinistra
radicale ed egualitaristica, essendo notoriamente un riformista e, come si dice
– talvolta con sprezzo – un “migliorista” (definizione che, peraltro, accetto ben
volentieri ripensando al migliorismo deweyano). Ma se vogliamo costruire una
società realmente democratica, dove tutti possano davvero godere dei diritti di
cittadinanza, occorre dare una formazione poliedrica (mi verrebbe da dire “politecnica”)
a tutti quanti, in maniera che anche coloro che saranno “diretti” e non
“dirigenti” abbiano gli strumenti per poter vivere consapevolmente e – magari
– “controllare” i dirigenti.
La prospettiva su cui puntare, quindi, è quella di una riforma complessiva della
scuola, con una scuola di base unitaria di sette anni, seguita da un biennio unitario
e da un successivo triennio orientato anche dalla cultura del lavoro e che
avvicini – seppur in misura differenziata – al mondo delle professioni. L’obiet-
19

20
tivo, pertanto, non può essere la costruzione di un doppio canale a partire dai
quattordici (o anche dai sedici) anni, bensì, almeno nell’immediato, l’elevamento
dell’obbligo scolastico all’interno di un biennio secondario unitario e profondamente
rinnovato rispetto alla situazione attuale.
Al contempo si tratta di lavorare alla definizione di un curricolo comune per il
biennio unitario, contemplando un rapporto dialettico, e di medesima considerazione,
per le discipline comuni e per quelle di indirizzo. Allo stesso modo
deve essere oggetto di attenta valutazione il clima relazionale della scuola, con
la necessaria acquisizione da parte dei docenti di quelle competenze relazionali
che oggi, generalmente, non possiedono. Infine occorre prevedere una reale
partecipazione degli studenti alla vita della scuola, prevedendo contesti di reale
autonomia studentesca, valorizzata dal coinvolgimento degli studenti nella
gestione della scuola. A tale riguardo pare quindi giusto sottolineare l’esigenza
che il nuovo principio formativo sia alimentato anche dalla cultura dei diritti di
cittadinanza, che appaiono essenziali per la formazione di giovani in grado di
vivere consapevolmente ed in maniera “contestualizzata”. Il nuovo principio
formativo, quindi, potrà essere alimentato da un sapere complesso che, superando
l’assolutezza delle discipline tradizionalmente intese, si fonderà sulla
cultura classica, scientifica, tecnologica ed inoltre sulla cultura del lavoro e dei
diritti di cittadinanza. «Apprendere a diventare cittadini» è uno degli impegni
che i giovani debbono poter assolvere in una scuola rinnovata, che anche per
questo potrà dare un contributo significativo alla costruzione di una società realmente
democratica e partecipativa.

1
The teaching profession
and new training principle
The Teaching Profession And Social Relations
A simple glance at the history of education and its institutions permits us to
notice how the teaching profession has always been socially underrated -and its
real functions threatened- by a pedagogically warped use. Teachers of all levels
of schools have always been considered and “treated” simply as executors of
a cultural project, distanced from any form of pedagogical autonomy and thus
are simply tools of power. In this context the real function of school, and as a
result, of the teachers, is to be “guarantors” of the transmission of the dominating
social block. Therefore the main worry of the teacher was to transmit
a knowledge organised according to adult logic on the basis of contents which
were identified in the more traditional patrimony of knowledge. This resulted
in a school which had no authentic interest in the students, and which was, in
fact, quite inefficient. As the teachers who work in this school are not connected
to the real interests of the students, what they teach seems to be superficial,
easily forgotten and hardly ever in contact with reality. It could be said that
alongside the depressing social role of the teacher, there is an emphasis on the
failure of school, which should, on the contrary, favour the training process of
those who come from culturally deprived social backgrounds.
It is obvious that today such a conception of the teaching profession is no
longer acceptable and the issue of revamping it and giving it quality is necessary
for several reasons, even in the light of the poor results obtained by
Italian students in international surveys. However there are also many misunderstandings,
to the point that those who are guilty for the present situation,
i.e. the “disciplinarians” who teach in the faculties in which teachers of junior
secondary and high schools train, would expect to take on the role of accusers.
The acquisition of a new prospective of teaching, on the other hand, implies
interpreting the role of the teacher in a rather different way than that of the
traditional “transmitter” and “questioner”. This fact regards in particular, high
school, where, as has been officially noted, “the discussions on didactics have
always been more limited, perhaps because teachers are still only required to
have an (insufficient) cultural preparation and no particular pedagogic or didactic
competences as the idea that “to know is sufficient to teach” holds (Ajello-
Pontecorvo. 2001,22).
Furthermore it must also be remembered that the Italian school system, which
is still suffering from Gentilian blight, has historically omitted the question of
21

22
relationships and emotions and their influence on learning. The most recent
research, on the contrary, also done on at an international level (Zembylas,
2007) has emphasised the strong connection between emotional and cognitive
dimensions of development, and imposes a rethink of the general organisation
of didactic mediation and of the school institution. There have been many
reminders and reports on behalf of the experts. One of these is Umberto Galimberti
(2007)- who can certainly have no claim to be an idealistic pedagogic,declared
that learning is positively conditioned by the “comfort” of the student,
which, in turn is governed by the climate in which students live and by the
self esteem that they manage to create. It is also for this reason that teachers
should mainly worry about the quality of the relationship they have with their
students, and so go beyond the traditional conception of teaching as a transmission
of knowledge. Howard Gardner (1993) has taught us that it is impossible
to instruct a student if we haven’t worked on trying to build his identity,
which, needs constant attention during adolescence. “Identity, writes Umberto
Galimberti (2007, 33) is not created by the fact that we are present and that
every time we speak, we say “I”. Identity builds up starting from the recognition
of others. If this recognition is lacking, as is usual in those who do badly
at school, identity, which is absolutely necessary to all people, builds in other
places, in all those places, out of school, where a person can find recognition.”
As a result, for many people, the place of recognition becomes the street, and
all that it has to offer, easy degeneration, bullying and violence.
School, therefore, has great responsibility in the general training of the new
generations and must be prepared to treat children as people who have needs
which go beyond the simple need for culture. Only if we bear this in mind, will
we be able to educate citizens and not people dependant on T.V, fashion and
of the star of the moment. But what is school doing to obtain these results?
“School,” answers caustically Galimberti (2007, 34) “follows plans offered by
the Ministry of Education, because it believes its job is not really to educate but
only to instruct as education is, in the false conscience of teachers, a necessary
derivative of instruction. But this is not totally the case. It is instruction which
is possible once education has taken place. And education is not only a case
of good manners but it is a slow acquisition, through recognition, of one’s own
joy.
School, therefore, cannot also deny this task, which is also connected to its
“mission”. In this regard, we cannot disagree with what Howard Gardner believes
regarding his theory of multiple intelligence, in which he also proposes
“interpersonal intelligence”- the capacity to access and recognise our own personal
feelings and emotions and how these influence our behaviour. “In its
most primitive form” writes Gardner (1995, 260) “interpersonal intelligence is
the equivalent of little more than the ability to distinguish between the sense
of pleasure and the sense of pain, and on the basis of such discrimination, to
get involved in a certain situation or to ignore it. At a higher level, interpersonal
intelligence allows us to discover and express, in symbols, complex notions with
greatly different feelings. We can find this form of intelligence in the writing of

the great novelist Proust, who is able to write introspectively regarding feelings,
in the patient (or therapist) who achieves a deep knowledge of his personal affective
life, in the old wise man who relies on the richness of his experiences to
give advice to the members of his community”.
It is therefore imperative that school is perfectly aware that students’ success
also depends mainly on the recognition that they feel they have as people
then as learners and on the atmosphere that is created by the relationship
between teaching and learning. One of the scholars who takes this matter into
most consideration, has written, rather caustically with regard to it “At school
a lot of people realise that knowledge and essential subjective past experiences,
reason, emotion, the mind and the body, are, as well as being separate,
hierarchically organised. For many, school, rather than being a place in which
people can experience the pleasure of learning every day, is depicted as a place
of experience and of learning the anguish and suffering, as a place in which to
learn and practice mental pain. At the end of the day, learning is experimenting,
it is exercising oneself, it is putting to the test one’s own self esteem and
trust, one’s personal ability to be determined and independent. The relationship
between affective and cognitive style, between variable styles and self perception
as an adequate or inadequate learner is close. “Good” learning is inevitably
understood as “good” self-perception” (Rossi, 2004, 69).
This reflection which is exact and agreeable with, also obliges us to emphasise
how, in our culture, learning is often associated with “boredom” and also pain,
and exchanged for commitment and sacrifice, which are necessary to obtain a
substantial and successful learning. It may be yet again influence of the counter-reform
results which have conditioned the Italian culture and in particular
pedagogy. It is certain that two parents who were probably “clever at school”,
on seeing their child coming home from school whistling, are the first to suspect
that he is not learning anything. On the contrary, it is the case of having
a friendly school in which laughter has its own personal space and which does
not necessarily interfere with the effort and dedication to study. Indeed if today
everybody can laugh without being considered silly or irreverent towards power,
it is certainly true to say that within institutions and the workplace we prefer
not to laugh very much for fear of being labelled as superficial. Not laughing
indicates that things are done seriously. In schools, hospitals and prisons it is
rare to hear a hearty laugh, which, we would like to emphasise, does not show
a more flippant attitude or give less importance to work or study.
Such a limit, does not only seem to be an Italian phenomenon. In one of the
autobiographies collected on an international level as part of the “Link” project,
we were able to read in the text of an Irish teacher that his colleagues acted
sullenly for fear of losing their authority. Regarding this point he writes ironically
“Never a smile before Christmas seemed to be the complaint of everybody”.
Even in secondary school, on the other hand the situation is changing albeit
very slowly, even if a clear awareness of one’s own responsibilities does not
show in particular regarding the phenomenon of unease and dropping out of
school. The rate of dropping out should induce teachers to reflect on their per-
23

24
sonal professional actions and more generally, on the organisation of the school
institution without thinking that failure at school is “natural” for some students.
“ Not only do many disturbing behaviours, which, are, at the same time indicators
of problems, numerous requests for help on behalf of the students not find
“a good reception” i.e. emotional openness, ability to understand and interpret,
but they are also noted as the events which are to blame for the marginalisation
of the students”. writes Maris Grazia Contini (1998, 102)
Students feel this type of unease which is almost always the result of distant
or non-existent relationships, but hardly ever report it, believing, perhaps also
owing to their insecurities, that they may be the only ones to feel this way. It
is also true that when they are asked questions regarding this issue, their answers
are inevitably indicative as results from a Iard survey on young people.
When asked for an opinion on their teachers, they are certainly not forgiving.
The main fault they accused teachers of, in 67.3% of students interviewed,
was that of not listening to the students and not taking into consideration their
points of view on a given topic. This detail also seems more significant in the
light of the fact that other “faults” had significantly lower percentages: political
ideologies and influence on the students (38%), incompetence and ill-preparation
of teachers (39.9%), excessive softness (24.7%), over strictness (21.6%)
(Gasperoni, 2003, 90).
The most common and insistent request from the students is always, in fact,
the need to be listened to. And the ability to listen, is, in fact, one of the main
characteristics in a democratic educational relationship and in complex and
mature teaching. The “attitude to listening” on the other hand has a complex
meaning and as Guido Petter explains (1992, 207) consists in the “attitude of
a teacher who tries to decentralise himself in his students, to capture, through
many indexes, which may be behavioural or verbal, their deep needs to grow
as well as their present moods, their willingness to accept the teacher’s proposals
and to carry out certain activities with pleasure. It is the attitude of a
person who thinks that students can always tell him something that he did not
yet know, reveal to him certain aspects of his personality or his life. It is the
attitude of the person who is not yet totally sure of his own opinions, who is
inaccessible to reasoning, to the attempts that students try to make him consider
certain facts and to present him with points of view which are different
from his own.
Hence the urgent need to face the issue of a new teacher figure, which is the result
of a new training and which will allow teachers to understand the influence
of emotions and communication in relationship with students. Maria Grazia Contini
(1998, 102-103) quite rightly writes “ Escaping from emotional ignorance,
recognising emotions as a means of knowledge, identifying the influence which
emotional processes exercise on cognitive processes and, above all, those that
cognitive processes exercise on emotional ones, capture the hints of “negative
thoughts” and go back to the mental blocks and emotional hitches which arise

from them. What is outlined is a path which is able to give space and listening
time to the messages of unease, so that by expressing oneself, a “helping
relationship” of a pedagogical nature aimed at correcting “interior monologues”
which are negative on the cognitive plain and defensive on the emotional one”
To be able to act in this way, the teacher must not act as if he were a “friend” of
his students, neither should he take on the role of psychotherapist.
The teacher must, in fact, show that he is authoritative and competent in his
disciplinary and didactic knowledge, and should always adopt a “confirming” attitude
towards his students. At the same time, he should develop a specific relational
competence based on the ability to be empathic and to communicate with
others, in particular, with the students. “Communicative competence means,
among other things,” continues Contini (1998, 103-104) “knowing exactly how
one communicates, his ability to capture and understand the feedback given
by one’s interlocutors, detachment from one’s own cognitive schemes and a
willingness to accept differences, the ability to decode unclear messages and
to decode one’s messages using a variety of registers according to the needs
and problems of the interlocutors. Furthermore it means understanding our
opinions and being aware that our judgements and prejudices, our emotions
and expectations, whether they be positive or negative are messages which
pass and influence others especially if they are in an inferior position within the
relationship, which is asymmetric and therefore characterised by an imbalance
of knowledge, of experience and institutional power.” Many school dropouts,
indeed- according to what young people say- are the result of difficult relations
between students and teachers, who, in turn, have expressed unfavourable
opinions or criticised students who have “dropped out”. On the other hand,
we mustn’t be misleading, we certainly cannot blame only the teachers for the
phenomenon of school dropouts. It is the whole organisation of the school system
which tends to select in a Gentilian manner.
If we start off from the belief that school is also directly responsible and in some
way, the “cause” of the dropout phenomenon, it is of utmost importance to reflect
critically on its structure, which is today still Gentilian and which needs to
be overcome with a radical renewal. In the same way, it is necessary to reflect
on the basic characteristics of teaching and on the abilities which characterise
it. (Cambi, 2003). Teaching has, in our opinion, five macro-competences which
can be defined in the following way: 1. Cultural Competences; 2. Technicalprofessional
competences; 3. Methodological and didactic competences; 4. Relational
competences; 5. Reflexive competences.
It is evident that such a characterisation of the professionalism of teachers does
not correspond to the existing situation. The proposal, is not intended to be
polemic with respect to the present category of teaching, whose training, as is
known, is still suffering from the ill-omened results of the Gentilian “long wave”
and whose gaps are more and more evident but cannot be principally blamed
on subjective responsibilities. Therefore they must be overcome, perhaps by
organising in service training which has continuity and orderliness as its characteristics.
At the same time different forms of initial training must be adopted.
25

26
The new training should preliminarily define what knowledge and competences
a teacher must have on the basis of a commitment which is already present in
other countries, starting from the Unites States (Borko-Liston-Whitcomb, 2007;
Damon 2007).
In the same way, it seems right to highlight that the characterising proposal of
base competences of the new teaching profession must be understood in all its
dynamicity and it must be emphasised that all five points must be present in
a balanced manner. The first points are based on the conviction that teachers
must be men and women of their day, therefore intellectually curious and with
an active social life. The second points are based on the supposition that teachers
must know their subjects well as well as having experience with disciplinary
didactics and have pedagogical and psychological knowledge and competences
which are essential for the teaching profession.
More specifically it appears evident how cultural and technical-professional
competences of teachers refer to a new concept of the same “culture”- and
therefore to the need for a new training principle for the school of the future.
Regarding this point Edgar Morin’s reflection could prove quite useful. He talks
about a culture which is anthropologically understood and affirms clearly that
“culture exists only through cultures”. The French scholar writes unequivocally
“Culture is made up of the sum of knowledge, abilities, rules, laws, prohibitions,
strategies, beliefs, ideas, values, myths, which are handed down from generation
to generation; it is reproduced in every individual; it controls the existence
of society and maintains psychological and social complexity. There are no human
societies either of archaic or modern nature, which have no culture, but
each culture is singular. So we have culture in cultures, but culture exists only
through cultures” (Morin, 2001, 57).
At the same time, for the purpose of our work, Morin’s main interest seems to
be evident for the reform of knowledge and to promote a new, complex subjectivity.
In this light the school reform takes on a pre-eminent role. It is not
by chance that recently a small collection of written works and interviews has
been called “Educating the Educators” (Morin, 2005). In the third part of his trilogy,
after “Reiler les Connaissances” (1999b) and “La tete bien faite” (2000),
the French scholar keeps emphasising the importance of the reform of teaching
and the construction of a new knowledge.
In this perspective he gives an important contribution to the renewal of the
Italian school system, mining at its base, the Gentilian pedagogical paradigm.
More exactly it is clear the way he underlines the importance of the methodological
and psycho pedagogical dimension of teaching. The first words of
“I Sette Saperi” are meaningful: ”It is surprising that education, which aims
at communicating knowledge, is blind to what human conscience is, what its
devices, difficulties and tendencies towards error and illusion are and has no
intention whatsoever of informing what knowing is” (Morin, 2001,11). In the
same way, immediately afterwards he raises the issue of how the person acquires
knowledge, revealing that “it is necessary to introduce and reinforce the
study of cerebral, mental and cultural characters of human knowledge, of its

processes and of its psychic and cultural inclinations which induce it to risk error
or illusion”
In this perspective, it seems that Morin’s criticism of the present organisation
of knowledge and in particular to the classical system of traditional disciplinary
knowledge. It is for this reason that he writes that “the supremacy of a fragmented
knowledge in various subjects often makes it impossible to make a
connection between the parts and the whole, and must make way for a way of
knowing which can catch the objects in their context, as a whole” (Morin, 2001,
12) At the same time, the French scholar strikes a deathly blow to the historic
inattention which also Italian pedagogy has had with respect to emotions and
affections in the process of learning, thus emphasising the complexity of human
identity and the meaning it takes on in order to create a really involved democracy.
Indeed he writes “Human beings are at the same time physical, biological,
psychic cultural social and historic. This complex unity of human nature is completely
dismantled in teaching with each subject. Today it is impossible to learn
what it means to be human while each one of us, wherever he may find himself,
should be aware and know both the complex structure of his own identity and
the identity which he has in common with all other human beings”.
Another particularly innovative aspect of Morinian thought is the deep attention
given to relationships and to educating to comprehension which is at the base
of this. What he writes, is, in effect a caustic and clean cut opinion towards
the modalities which are almost solely communicable in the Italian and Western
school systems. Educating towards comprehension is, therefore rightly the
base in the new teaching principle. He writes reflecting precisely “Comprehension
is the means and the end of human communication. At present, educating
to comprehension is not present in our teaching. Our world needs reciprocal
comprehension in all senses: Given the importance of educating in comprehension,
a new mentality is needed. This is the task for education of the future”
(Morin, 2001, 14). Reaching such an objective, can, in fact, favour the acquisition
of awareness of the complex character of human subjectivity, as well as
the need to enhance the autonomy of the individual in his relationship with all
other human beings. Morini stresses “It is here that we can find the spiritual
mission of education: teaching comprehension between men is the condition
and guarantee of intellectual and moral solidarity of humankind”. It is also for
this reason that the French scholar criticises egocentricity as a “capital” sin and
blight of personal relations, writing caustically with reference to “the world of
intellectuals, writers or academics which should be the most comprehensive,
is the most critical, under the effect of un hypertrophy which is fostered by the
need for consecration and glory” Morin, 2001, 101).
A new formative principle
Edgar Morin’s contribution therefore appears useful to the process of creat-
27

28
ing a new formative principle which seemed to have taken off in our country
and in which, not by pure chance the French scholar appeared to be directly
involved. Personally I am convinced that Italian tradition which is founded on
classical culture, must be enriched by a scientific and technological culture. In
the same way a clear Work culture needs to be introduced in secondary school.
This culture would permit us to overcome the absurd detrimental dichotomy
between intellectual work and manual work which has been a distinguishing
aspect in the Italian culture for a long time and was created as a “formative
absolute” by Giovanni Gentile and his successors (more or less declared). This
does not mean in any way to underestimate the cultural dimension of training
adolescents.
Let me be clear. In this context, I believe that the study of philosophy and its
interpretative categories should be the prerogative of all students of all High
Schools, classical, technological and professional, seeing as I would be in favour
of calling all secondary schools High Schools. In other words, all adolescents
should be able to compare themselves with ideas which are part of human
existence, from life to death, from happiness to pain etc. But they should
do it with through books and eliminate the manual commercialization which a
second hand philosophical culture has imposed, furthermore it is administered
in an exclusive historicist perspective of assumed thaumaturgical value.
At the same time it must be made clear that the most congenial mid term prospective
to the country and its development is compulsory education until 18
years in a school which is radically different from the present and is characterised
by reviewed formative principles and teachers. The latter, indeed cannot
limit themselves to giving only a part of culture which is detached from the reality
of the world. Regarding this point, we all quite agree with Benedetto Vertecchi
(2004, 11) when he claims the full use of merit of the useful category “Can
we accept that new generations cannot tell the difference between a chestnut
tree from a cherry tree or a linden tree from an oak? That we are not able to
measure objects and make them, integrating manual dexterity with tools” He
asks himself rhetorically. Then he adds “ It is a paradox (but paradoxes need to
be explained that when we put the emphasis on profit to make way for vocational
training, we leave out the creative value of utility, those which can enrich
the cultural profile by permitting us to connect symbols to objects.”
The base problem which conditions our formative system is indeed that of separating
or overlapping of culture and work, between theory and practice. This
has legitimised the existence of two channels, which have originated of a Gentilian
“class” conception of school and of society, on the basis of which we have
had a school appropriately classified as finalised to helping acquire real culture
and destined for the upper classes, and a vocational one which principally trains
for work and is destined for the lower classes.
This system legitimises streaming in education, which today is today known
as dropping out to give it a less harsh name, a term which indicates the priority
responsibility of the students who waver in secondary school which is the

eal guilty party for selecting students and “expelling” them Personally I do not
believe I can be included among the radical and egalitarian left wing as I am
notorious for being a reformist and as is often said with disdain, “an improver”
( a definition which I would gladly accept if I think of Deweyian meliorism) But
if we want to create a society which is really democratic in which everybody can
really benefit from citizen’s rights, everybody must be subjected to polyhedral
training (which I would prefer to call “polytechnic”) so that those who will be
“bossed” and not “bosses” have the tools to live consciously and even “check”
the heads.
The prospective which we must aim at is an overall reform of school with a
single primary school which lasts for seven years, followed by two years of
education with the same subjects for everybody, followed by another three
years which trains also for the culture of work and which will bring closer -even
if in different measures- the world of work. Therefore, the objective cannot be
to create two channels starting at fourteen years old (or even sixteen), but at
least in the near future, the raising of the school leaving age within a single and
revamped secondary school biennium.
At the same time we have to work on a common curriculum for the single biennium
contemplating a dialectic relationship and considering common subjects
and specialized ones In the same manner, the climate of relationship within the
school must be considered and the teachers must acquire the necessary relational
competences which in general, they lack..
Finally we must encourage students to participate in school life and foresee
real contexts of student autonomy which is enhanced by the involvement of
the students in the management of the school. Regarding this point, it seems
right to underline that the new formative principle also includes by the culture
of citizens rights which appear essential for the formation of young people who
can consciously live in a “contextualised” manner. The new formative principle
therefore will be nurtured by a complex knowledge, which will be founded on
classical, scientific, technological cultures as well as the culture of work and
citizen’s rights. “Learning to become citizens” is one of the commitments that
young people must be able to accomplish in a revamped school, which also for
this reason can give a significant contribution to a really democratic society
which participates.
29

2
Le competenze didattiche dei docenti
Curricolo e programmazione
La nuova professionalità docente non può fondarsi però solamente sulle competenze
culturali e disciplinari, considerato che il professionista della formazione
deve essere in grado di utilizzare le competenze didattiche e metodologiche,
oltre che alcune teorie pedagogiche di riferimento. Il lavoro educativo richiede,
infatti, la specificazione di una puntuale intenzionalità educativa (Catarsi,
2005), esplicitata in particolare nell’impegno progettuale, che tende a coniugare,
in maniera dialettica, le ipotesi teoriche e la prassi operativa e che non può
evidentemente prescindere dalla osservazione e dalla riflessione sugli eventi
educativi, essenziali per inverare realmente il carattere “evolutivo” della programmazione
e promuovere una valutazione realmente rispettosa della individualità
dei ragazzi. Ecco perché, in definitiva, approfondire la questione delle
competenze didattiche degli insegnanti significa oggi soffermarsi in particolare
sulle strategie della programmazione e della valutazione, che sono essenziali al
fine della costruzione di una rinnovata professionalità docente.
Affrontare la questione della programmazione e della valutazione pone oggi la
necessità di fare propria la prospettiva curricolare, che purtroppo è stata acquisita
nel nostro paese con colpevole ritardo, osteggiata ed ostacolata dal perdurante
retaggio idealistico e spiritualistico che ha storicamente condizionato la
pedagogia italiana (Cambi, 2002), oltre che, ancora più recentemente, da incomprensibili
azzardi tecnocratici. In Italia, d’altra parte, la ricerca sul curricolo
ha avuto uno sviluppo assai asfittico e comunque limitato alle singole discipline
piuttosto che all’organizzazione complessiva dell’insegnamento. Questo anche
in considerazione della necessità di recuperare una attenzione specialistica per
i problemi dell’apprendimento, sottovalutati durante gli anni Settanta rispetto a
quelli propri del processo di socializzazione. Con gli anni Ottanta abbiamo invece
assistito ad una “riscoperta” dei problemi dell’apprendimento, in virtù di ragioni
socio-culturali e pedagogiche. Le prime sono da ricondurre alle trasformazioni
sociali e del mondo del lavoro che hanno caratterizzato il nostro paese, mentre
le seconde sono invece da individuare nella inadeguatezza dei programmi scolastici,
che viene appunto rilevata verso la metà degli anni Settanta e che porta,
durante un processo lungo e faticoso, a rivedere i documenti programmatici di
tutti e tre i gradi della scuola di base (scuola media 1979; scuola elementare
1985, scuola dell’infanzia 1991).
Tali documenti sono fortunatamente influenzati dalla prospettiva curricolare,
anche se la loro applicazione - in particolare e specialmente nella scuola me-
31

32
dia – non è sempre avvenuta secondo i principi innovatori che sono stati alla
base della loro elaborazione. Troppe volte, infatti, hanno avuto eccessivo peso
chiusure corporative, che non hanno consentito la piena valorizzazione dei
cosiddetti saperi “informali” ed hanno osteggiato la reale apertura della scuola
alla società, resa oggi obbligatoria dalla normativa sull’autonomia scolastica.
Certo è che la questione del curricolo è stata dibattuta a lungo, non sempre
con mente aperta al nuovo. In ogni caso – almeno dal nostro punto di vista
– continuiamo a credere nella validità di una scelta che Clotilde Pontercorvo,
già venticinque anni or sono, ci proponeva e che mantiene immutata tutta la
sua validità, con la necessità, semmai, di prestare una maggiore attenzione al
rapporto con il “territorio”. La proposta di definizione del curricolo, avanzata
dalla studiosa romana, consente infatti di tener di conto dei diversi fattori che
caratterizzano il processo formativo, rendendo concreta, nello specifico, la possibilità
di addivenire alla individuazione di “finalità” formative da porre alla base
dell’impegno di tutte le strutture scolastiche.
Al proposito, anzi, pare utile evidenziare - così come è stato fatto molto chiaramente
dalla stessa studiosa - che «la preferenza per la nozione di curricolo,
rispetto a quella più tradizionale di programma, non è una effimera moda culturale
assunta pedissequamente da altri ambienti educativi: nasce piuttosto
dalla constatazione che ciò che si insegna a scuola (e ciò che gli allievi realmente
imparano) dipende solo in parte dalla lettera dei programmi ufficiali ed
è influenzato da molte altre essenziali variabili, che possono essere individuate
e tenute sotto controllo educativo, e che costituiscono il curricolo e ne determinano
la realizzazione. Il curricolo, come nozione più comprensiva, include ciò
che normalmente si intende come programma - cioè un elemento più o meno
articolato di argomenti di studio relativi a un ambito disciplinare - ma contiene
anche molti altri elementi che ne fanno un insieme interrelato e complesso:
l’individuazione degli obiettivi educativi e didattici; l’articolazione dei metodi e
delle procedure di insegnamento; la selezione dei materiali dei testi, dei sussidi
più adeguati; i dati sulle condizioni di partenza degli allievi relativamente a
conoscenze, atteggiamenti, interesse; l’organizzazione didattica generale e la
dimensione psicosociale dell’istituzione formativa; norme, valori e attese degli
insegnanti rispetto all’insegnamento, alla valutazione, all’innovazione, ecc.;
modalità - interne ed esterne - di verifica dei risultati conseguiti e possibili meccanismi
di feedback».
Oltre a questo la studiosa romana ricorda l’importanza del contesto sociale,
che oggi andrebbe anche meglio definita ed amplificata, alla luce delle trasformazioni
socioculturali dell’ultimo ventennio e dell’acquisita – almeno formalmente
– prospettiva istituzionale e didattica della scuola dell’autonomia
(Maragliano, 2001). Clotilde Pontecorvo continua, infatti, scrivendo: «Su
tutto ciò agisce, anche se in forme non sempre esplicite, il contesto socioculturale
esterno, che esprime una valutazione sociale del ruolo della scuola
in generale o di quel tipo a livello di scuola, e che determina il rapporto con
altri livelli e di scolarità precedenti o successivi, come pure gli sbocchi professionali
(più o meno a lunga scadenza) degli allievi e conseguentemente

la loro destinazione sociale. Questi elementi non costituiscono una sequenza
ordinata in modo lineare: piuttosto, è possibile rilevare tra di essi una trama
di relazioni e di interazioni complesse. Un curricolo non è un “tracciato”, ma
non è nemmeno una successione di momenti, bensì un insieme dinamico di
rapporti tra diversi elementi» (Pontecorvo-Fusé, 1981, 11-12).
Programmazione e «pedagogia degli obiettivi»
Al contrario di quanto sostenuto inizialmente da molti oppositori, la programmazione
consente infatti di prestare attenzione ai reali bisogni dei ragazzi, fornendo
al contempo l’opportunità di dare risposte anche di tipo individualizzato.
La scelta della programmazione, in effetti, poggia su una ricca gamma di
motivazioni, a partire dalla imprescindibile necessità che alla sua elaborazione
si partecipi in maniera collegiale e che ci si accinga a tale impegno prestando
attenzione alle caratteristiche antropologiche e sociali del contesto in cui si opera.
Proprio per questo, almeno dal nostro punto di vista, appare allora preliminarmente
opportuno sottolineare la distinzione tra programmazione educativa
e programmazione didattica che, fra l’altro, è presente nella normativa italiana.
L’art. 4 del DPR 416/1974 assegna infatti al collegio dei docenti il compito di
elaborare «la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare,
nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo Stato, i programmi di insegnamento
alle specifiche esigenze ambientali». Questo impegno consiste nella
redazione di «un progetto annuale collegialmente stipulato dagli insegnanti»
e ha per scopo «la determinazione del quadro degli obiettivi educativi generali
(sociali, affettivi, etici, cognitivi) e delle soluzioni organizzative (strutturali, metodologiche)
che una scuola dell’infanzia vuol perseguire».
La programmazione didattica, di cui ci occuperemo in particolare, consente in
primo luogo di superare l’episodicità e l’occasionalità del lavoro docente rendendo
possibile, inoltre, un reale rendiconto pubblico dei risultati raggiunti.
Quest’ultimo elemento, fra l’altro, assume oggi - in una prospettiva di crescente
autonomia delle singole scuole - una importanza sempre maggiore proprio perché
può consentire quella «trasparenza» che è sempre più richiesta ed auspicata
per ogni intervento pubblico e quindi anche per quello della scuola.
L’acquisizione della pratica programmatoria, d’altra parte, è ancora oggi occasione
di dibattiti e polemiche, talvolta strumentalmente impiantate sul riferimento
ad interpretazioni distorte della programmazione, condizionate da
rigidità e schematismi eccessivi. Ma è evidente che queste non tengono conto
della reale complessità del bambino/ragazzo e sono comunque destinate al
naufragio, proprio perché, fra l’altro, si rifanno ad un modello obsoleto di intervento
formativo, caratteristico di un altro tempo e del peggior tipo di scuola.
La complessità dello sviluppo richiede infatti che gli insegnanti si pongano con
un atteggiamento problematico di fronte ai bambini/ragazzi, in modo da potersi
mettere continuamente in discussione e da caratterizzare il proprio comportamento
con quella flessibilità che è richiesta dalla plasticità evolutiva. È ovvio
33

34
che questo significa anche fare propria una concezione della programmazione
aliena da ogni rigidità e da ogni schematismo.
Sembra perciò fuori luogo - e francamente frutto di una forzatura intellettualistica
- contrapporre la programmazione per obiettivi alle diverse altre modalità
programmatorie, aggiungendo, fra l’altro, che la prima è necessariamente ed
assolutamente rigida ed improntata ad un determinismo che soffoca la creatività
e l’impegno dei bambini/ragazzi. La programmazione infatti non è di per sé
rigida e schematica e comunque non lo deve essere in una scuola innovativa ed
attenta realmente ai bisogni formativi degli alunni.
Poco fondata sembra anche l’altra obiezione secondo cui la programmazione
per obiettivi condurrebbe ad un apprendimento “obbligato”, con una sola soluzione,
ed impedirebbe l’apprendimento come scoperta, frutto dell’impegno
personale dell’allievo. Occorre invece chiarire che l’individuare ed il fissare gli
obiettivi è una operazione fatta ad uso e consumo dell’adulto e si presenta come
particolarmente congeniale per il momento della verifica e della valutazione.
Come ha scritto giustamente Duccio Demetrio (1990, 182) «gli obiettivi, sia in
campo scolastico che extrascolastico, continuano a configurarsi come intenti
dell’educatore definiti in ragione dei cambiamenti che ci si prefigge di veder
realizzati da qualcuno, dopo che egli sia stato “esposto” ad un’esperienza volta
a stimolare le sue diverse “intelligenze”. L’obiettivo è quindi un indicatore di
cambiamento, perché ci segnala, quanto e in che cosa, una persona ha imparato
a fare o a comportarsi; ed è anche un descrittore, perché i risultati attesi e
conseguiti (i cambiamenti) possono essere verbalmente formulati prima che la
didattica relazionale esplicita coinvolga i soggetti. O dopo; quando è necessario
valutarne gli effetti»
L’apprendimento autonomo degli allievi e la loro capacità di “scoperta” inoltre,
non solo non è ostacolata dalla programmazione ma anzi è dalla stessa favorita,
anche se – appare doveroso riconoscerlo - nell’ultimo trentennio si è sviluppata
in Italia anche una cattiva pedagogia per obiettivi, eccessivamente analitica e
fondata sulla vecchia pedagogia costrittiva. Questo spiega anche la reazione
cieca e molto polemica che si è avuta e che nel nostro paese ha però trovato
alimento principale in una secolare tradizione pedagogica che non ha certo valorizzato
l’intenzionalità educativa. Il fatto è che la lunga influenza idealistica
ha impedito finora di acquisire, in maniera convinta e diffusa all’intera scuola
nazionale, la pratica progettuale, di cui sono state date anche interpretazioni
distorte e strumentali.
In particolare gli appunti critici si sono appuntati contro la individuazione degli
obiettivi, ritenuti causa di passività intellettuale e scolasticismo. Al contrario
la pedagogia degli obiettivi, al di là di attentare alla libertà d’insegnamento,
riconosce al docente una reale libertà di scelta. «Infatti – scrive, nel bel mezzo
della polemica, Massimo Baldacci (1990, 8)- è solo in presenza di traguardi didattici
esplicitati che diviene possibile decidere in modo intenzionale e razionale
tra possibili piste metodologiche e percorsi didattici, laddove lavorare lasciando
occulti gli obiettivi priva il docente di autentici criteri di selezione delle strategie
di insegnamento».

Allo stesso modo la pedagogia degli obiettivi, proprio perché implica l’esplicitazione
dell’intenzionalità educativa degli adulti, consente di attivare un atteggiamento
democratico nei confronti dei bambini/ragazzi, dando a tutti le
medesime opportunità educative e mettendo gli insegnanti in grado di adattare
continuamente il proprio intervento alle esigenze infantili e di qualificare sempre
di più il proprio intervento didattico. Gli obiettivi, in effetti, costituiscono
degli «organizzatori» dell’attività scolastica estremamente importanti per diversi
motivi. In primo luogo perché possono facilitare l’individuazione dei contenuti
ritenuti più significativi rispetto a quelli considerati di minore rilevanza. Inoltre
perché gli obiettivi possono consentire di aggregare in maniera unitaria dei
contenuti disicplinari, anche diversi fra loro e che pure presentano medesimi
intenti formativi.
Questo appare oggi ancora più valido, alla luce di quanto sostenuto nel recente
documento Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo
ciclo d’istruzione, pubblicato a Roma, nel settembre 2007, dal Ministero della
Pubblica Istruzione. Esso, infatti, propone una scelta assai significativa quando
caratterizza la proposta formativa per il primo ciclo attraverso tre grandi aree,
quali quelle linguistico-artistico-espressiva, quella storico-geografica e quella
matematico-scientifico-tecnologica. È il segno della volontà di valorizzare la
complessità dei saperi, uscendo da quella asfittica tradizione disciplinaristica
che ha caratterizzato il principio formativo alla base del nostro sistema scolastico
per quasi tutto il secolo scorso. Pertanto non si può non essere d’accordo
con Franca Minerva Pinto (2007, 17-18) – quando scrive che «attraverso l’innovativa
proposta delle aree, in cui è possibile individuare e sperimentare distinzioni
e correlazioni, separazioni e ricomposizioni, sconfinamenti, commistioni
e ibridazioni, appare oggi concretamente praticabile la circolarità e la connessione
multidisciplinare dei saperi, obiettivo specifico della Scuola secondaria di
secondo grado»
La pedagogia degli obiettivi, infine, può consentire una più produttiva finalizzazione
degli insegnamenti rispetto alle finalità della scuola in cui l’insegnante
si trova ad operare. In ogni caso è da sottolineare come questa strategia, così
come, più in generale, quella progettuale, valorizzi appieno l’intenzionalità educativa
del gruppo docente, consentendo di influenzare positivamente – almeno
negli auspici – la crescita individuale degli allievi. Sulla scorta degli sviluppi
della ricerca psicologica e pedagogica dell’ultimo quarantennio comincia infatti
ad essere sempre più presente «la tendenza a spiegare il rapporto tra sviluppo
psicologico e apprendimento dei contenuti del sapere attraverso il ruolo
determinante svolto nella trasmissione dagli elementi dotati di variabilità, in
particolare da quelli strutturali, culturali, storici, sociali, istituzionali. Sono le
forme di variabilità, non gli schemi invarianti, ad essere indicate come le caratteristiche
primarie e più rilevanti, idonee a studiare gli effetti dell’insegnamento
scolastico sull’incremento delle possibilità individuali di apprendimento» (Muzi,
1990,163).
È andato così diffondendosi un interesse sempre più puntuale per l’influenza
che l’apprendimento scolastico dei contenuti culturali esercita sullo sviluppo
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cognitivo individuale. Questo, fra gli altri esiti, ha prodotta una “riscoperta”
della riflessione e delle ricerche di L.S. Vygotskij, lo studioso russo che ha rilevato
l’influenza dei fattori culturali sullo sviluppo, il rapporto tra il pensiero ed
il linguaggio e l’importanza che nello sviluppo vengono ad assumere i contenuti
culturali veicolati dal linguaggio. In questo modo egli sottolinea il rapporto di
interdipendenza e dialetticità esistente tra sviluppo ed apprendimento e - mettendo
in crisi le teorie precedenti, segnatamente quella piagetiana - fornisce
un contributo sostanziale al rinnovamento della ricerca educativa. Egli sostiene
esplicitamente l’erroneità di quelle tesi che partono «dal presupposto dell’indipendenza
del processo di sviluppo dal processo di apprendimento». Ed al
riguardo scrive in maniera molto chiara: «Queste tesi considerano l’apprendimento
come un processo puramente esteriore, in qualche modo parallelo al
processo di sviluppo del bambino, che non partecipa, però, attivamente ad esso
e non riesce a modificarlo; in altri termini, l’apprendimento utilizza i risultati
dello sviluppo anziché precederne il corso e mutarne la direzione. La concezione
anche se estremamente complessa ed interessante di Piaget, che studia lo
sviluppo del pensiero del bambino in modo del tutto indipendente da processi
di apprendimento, è considerato un tipico esempio di queste teorie» (Vygotskij-
Leontjev-Lurija, 1974, 25).
Il convincimento vygotskijano che le attività concettuali del bambino e del
ragazzo siano in diretto rapporto con le sue capacità comunicative porta evidentemente
ad una critica molto netta nei confronti di coloro che sostengono
una indipendenza tra il processo evolutivo e quello dell’apprendimento, fino
ad arrivare ad una ricostruzione polemicamente caricaturale di questa tesi da
parte dello studioso russo: «lo sviluppo deve raggiungere un certo stadio, con
la conseguente maturazione di certe funzioni, prima che la scuola possa far acquistare
al bambino determinate conoscenze ed abitudini»(ivi, p. 26).
Le riflessioni generali fin qui proposte evidenziano, quindi, il nostro consenso
per una programmazione di tipo evolutivo, che fa riferimento ad una strategia
complessa di apprendimento, che implica anche corsi e ricorsi e che si presenta
dunque come una continua costruzione che abbisogna di una periodica
ridefinizione. Una corretta concezione evolutiva della programmazione, infatti,
fa sì che la si intenda come un processo ricorsivo in cui sono contemperati sia
il momento propositivo, proprio degli insegnanti, e quello “casuale”, introdotto
dagli alunni e dalla vita quotidiana che insieme vivono. Il primo consiste nella
individuazione dei contesti di esperienza, degli obiettivi, dei tempi e degli strumenti
da utilizzare, mentre il secondo è dato dagli elementi occasionali e dagli
spunti che vengono proposti dagli alunni e dalla vita sociale quotidiana e che
non possono essere preventivati in anticipo. D’altra parte riteniamo che il casuale
– dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria - debba e possa divenire
“occasione” di apprendimento per la sapiente regia degli insegnanti, il cui ruolo
appare essenziale e determinante.
La giusta sottolineatura della centralità della figura dell’insegnante non significa,
d’altra parte, prevedere alcun elemento di rigidità per la pratica progettaule,
il cui carattere evolutivo può essere efficacemente chiarito con la

metafora del gioco degli scacchi che Bruno Bettelheim utilizza quando parla
del rapporto tra il genitore ed il figlio. Al riguardo è sufficiente sostituire il
termine di genitore con quello di insegnante e quello di figlio con quello di
bambino. Scrive allora il famoso psicoanalista infantile: «per quanto rappresenti
una metafora banale e semplicistica dei rapporti umani, il gioco degli
scacchi torna utile per illustrare come in ogni interazione complessa si possano
programmare in anticipo soltanto poche mosse: ogni mossa infatti deve
tener conto della risposta alla mossa precedente. Perciò è molto importante
valutare ogni volta la situazione nella sua totalità: una prima mossa corretta
può al massimo dare solo un’indicazione di quale dovrà essere la risposta
giusta alla prima contromossa. Il giocatore principiante, che cerca di seguire
i suoi piani senza tener conto delle mosse dell’avversario, va incontro inevitabilmente
alla sconfitta. Altrettanto succederà a quell’“insegnante” che
segue un piano predeterminato, basato su spiegazioni o consigli che altri
gli hanno dato su come trattare il “bambino”. Un insegnante deve adattare
di continuo con grande flessibilità i suoi sistemi alle risposte del bambino,
valutando di continuo la situazione globale via via che essa si evolve. Negli
scacchi è subito chiaro che cercare di seguire i propri piani senza riflettere
molto attentamente su quello che ha in mente l’avversario e su ogni sua
contromossa, è un errore. Lo stesso tipo di riflessione sugli intenti e sulle
reazioni del bambino è decisivo anche per la condotta dell’educatore [....]. Il
bravo giocatore di scacchi sa prevedere in anticipo tutta una serie di possibili
mosse e probabili contromosse, ma solo perché ha imparato a riesaminare
e a rivalutare la situazione complessiva dopo ogni mossa. L’insegnante che
è già capace di fare la stessa cosa con il bambino [.... ] saprà come intervenire
e continuerà a fare il punto della situazione dopo ogni suo intervento e
dopo ogni reazione del bambino, per capire che cosa occorre fare [....] occorre
aiutare gli educatori a intuire da soli che cosa può passare nella mente
del bambino [....] e l’esperienza mi ha insegnato che per arrivare a sviluppare
questo tipo di intuito [....] è di primaria importanza non credere mai
di sapere quali sono le risposte giuste, per quanto ovvie possano sembrare,
prima di aver analizzato attentamente in che cosa ognuna delle due parti ha
contribuito all’evolvere della situazione» (Bettelheim, 1987, 18-19).
Insegnamento e valutazione formativa
L’insegnante che ha consapevolezza della complessità dell’insegnamento avrà
un diverso atteggiamento anche nel momento della valutazione, concepita come
strumento formativo e non unicamente come contesto di certificazione burocratica.
Il momento della valutazione costituisce, d’altra parte, uno degli aspetti
più criticati della scuola tradizionale. Il modo in cui, infatti, venivano classificati
e giudicati gli allievi costituiva il principale strumento per operare quella selezione
che consentiva di limitare fortemente l’accesso alla scuola secondaria. Tale
limitazione veniva giustificata richiamando l’esigenza che a studi impegnativi
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38
potessero accedere soltanto quegli allievi dotati della effettiva capacità di trarne
profitto. In definitiva la selezione, almeno in teoria, si presentava in forma
meritocratica.
La realtà era comunque sostanzialmente diversa, come hanno dimostrato gli
studi e le ricerche sul rapporto tra l’ambiente sociale degli allievi e il loro successo
scolastico. È emerso, infatti, con drammatica evidenza, che quella che
veniva presentata come una selezione operata sulla base del merito era in
realtà una selezione di classe. Infatti gli allievi appartenenti a famiglie di buon
livello culturale ed economico superavano senza difficoltà le prove che la scuola
richiedeva, mentre gli altri si trovavano in condizione di grave svantaggio e
prima o poi finivano con il dover abbandonare gli studi. Questa situazione viene
apertamente denunciata anche nel testo di Don Milani intitolato Lettera a una
professoressa, in cui “Pierino” e “Gianni” rappresentano i due bambini idealtipici
che convivono – con trattamenti assai diversi – nella scuola italiana.
Il diffondersi della consapevolezza del carattere classista della scuola porta così
alla richiesta, sempre più diffusa nel corso degli anni Settanta, di una scuola
formativa e rispondente ai bisogni di una società democratica. Auspicando il
carattere non selettivo della scuola, peraltro, non si intende in alcun modo mettere
in discussione l’importanza e l’opportunità di un controllo sugli apprendimenti
dell’alunno, che deve però essere realizzato per migliorarne le prestazioni
e non tanto per certificare fiscalmente il livello delle competenze.
Emblematica del processo di rinnovamento appare, perciò, la già citata legge
517 del 1977 che, insieme a numerose altre innovazioni, introduce, almeno
della scuola dell’obbligo, quella del superamento dei voti e delle pagelle a favore
del giudizio globale sull’allievo. D’altra parte anche la riflessione pedagogica
contemporanea tende sempre più a riconoscere alla valutazione un carattere di
centralità nel processo di insegnamento-apprendimento. Ciò non solo in forza
dell’esigenza di accertare i livelli e le modalità di apprendimento degli allievi,
ma anche e in primo luogo come elemento insostituibile in grado di consentire
la raccolta e l’analisi di tutte quelle informazioni necessarie all’insegnante per
affrontare con efficacia quel complesso di processi decisionali relativi alla programmazione
ed alla realizzazione dell’intervento didattico.
La valutazione, quindi, da mero strumento di discriminazione sociale e culturale,
per molti aspetti avulso dalla situazione educativa scolastica, è dunque venuta
progressivamente caratterizzandosi come momento integrante ed essenziale
del processo didattico. Non più, in definitiva, un procedimento selettivo dalle
connotazioni burocratiche, bensì un elemento imprenscindibile per la raccolta di
informazioni che consentano l’analisi e il controllo dei processi d’istruzione.
L’uso discriminatorio delle pratiche valutative ha portato talvolta, specialmente
in passato, anche ad un rifiuto della valutazione, basato su motivazioni sia
politiche sia pedagogiche. Questo rigetto, tuttavia, determina una forma più
insidiosa dei fenomeni di discriminazione e di selezione di classe, poiché la
scuola, in questo modo, si priva della possibilità di predisporre gli strumenti
compensativi necessari a stimolare e a consolidare l’acquisizione delle competenze
e delle abilità socialmente rilevanti per tutti, indipendentemente dalle

differenti condizioni d’ingresso nei percorsi formativi. Un ragionamento analogo
vale, quindi, anche per quegli atteggiamenti di “clemenza” che spesso nascondono
superficialità ed accettazione fatalistica dei processi di dequalificazione
che investono la scuola di massa.
Il problema di fondo di una scuola realmente democratica non è, quindi, rifiutare,
o attenuare i momenti valutativi, ma piuttosto rendersi conto dell’insopprimibile
funzione formativa della valutazione, da rivedere però mediante la costruzione
di modelli teorici e di strumenti capaci di contribuire alla realizzazione
di obiettivi di democratizzazione. I processi di valutazione, cioè, vanno saldati
in un intervento didattico che si fondi su un’esplicita definizione degli obiettivi e
su un’altrettanto chiara indicazione delle modalità di svolgimento dei percorsi e
degli interventi di recupero da effettuare.
In questo senso, infatti, la valutazione assume il giusto significato di accertamento
sistematico finalizzato alla messa a punto, alla modulazione e al controllo
delle procedure didattiche, la validità delle quali è misurabile sulla base della
loro efficacia nel condurre i diversi allievi al conseguimento di specifiche competenze
mediante itinerari flessibili e differenziati. Appare quindi indispensabile
l’utilizzazione di strumenti valutativi appropriati, che favoriscano l’accertamento
del livello delle competenze nel contesto di una ridefinizione complessiva del
ruolo che la valutazione riveste nel processo formativo.
Da questo punto di vista è possibile distinguere momenti del processo valutativo
differenziati in relazione ai tempi in cui essa avviene. Si parla perciò
di valutazione iniziale, che costituisce la presa d’atto della situazione su cui
s’innesta l’attività formativa, di valutazione intermedia o formativa, che ha lo
scopo di offrire informazioni tempestive sulle modalità con cui gli allievi sviluppano
il loro processo di apprendimento. Infine si parla di valutazione terminale
o sommativa, che si colloca alla fine di un percorso di apprendimento che assume
caratteristiche specifiche, in quanto offre gli elementi per esprimere una
valutazione complessiva sui livelli di apprendimento raggiunti; determinando
la validità degli obiettivi perseguiti e un’ulteriore analisi dell’idoneità degli itinerari
e delle soluzioni adottate a livello didattico. Essenziale, in questo contesto,
appare la scelta da parte degli insegnanti a proposito della conduzione
collegiale dell’intervento didattico, garantendo, quindi, quel confronto continuo
che è fonte di riqualificazione professionale e che porta ad un miglioramento
continuo della “qualità” della scuola. Ecco, quindi, la necessità di promuovere
con maggior forza il carattere realmente collegiale del Consiglio di classe, che
appare lo strumento prioritario per il rinnovamento delle pratiche didattiche e
per la individualizzazione dei percorsi formativi.
Al fine di sottolineare il carattere processuale – e dunque formativo – della
strategia valutativa, conviene riflettere, infine, sulla distinzione tra verifica e
valutazione. La prima ha infatti il compito di rilevare elementi “oggettivi” e
più precisamente si realizza quando all’allievo vengono proposte prove predeterminate
tali da dimostrare o meno l’acquisizione di precise competenze. La
seconda, al contrario, si riferisce agli aspetti più qualitativi e sociali dell’apprendimento
ed implica un più diretto coinvolgimento della soggettività dell’adulto
39

40
e della sua capacità interpretativa. Entrambe le procedure, d’altra parte, non
possono essere usate in maniera totalmente scissa e debbono semmai integrarsi
vicendevolmente.
La complessità di funzioni riconosciuta alla valutazione comporta, inoltre, l’uso
di strumenti diversificati “aperti” o “chiusi”. Alcuni strumenti di verifica del primo
tipo possono essere individuati nel colloquio, nel riassunto, nel tema. In questa
prospettiva viene, quindi, riscattata la funzione di queste prove “tradizionali”,
inserite con pieno diritto nel contesto dell’ attività didattica.
Le prove di verifica chiuse, infine, definite anche prove oggettive, consentono
di valutare il raggiungimento da parte dei ragazzi di specifici obiettivi proprio
perché molto puntuali e circoscritte. Determinante per stabilire quali strategie
usare e per aderire agli interessi e motivazioni degli allievi, appare in questo
caso l’osservazione sistematica da parte degli insegnanti, che deve perdere il
carattere di occasionalità e divenire strumento essenziale nel percorso di conoscenza
del singolo alunno.
È evidente, quindi, anche in questo senso, l’opportunità di prevedere una programmazione
di tipo evolutivo, che utilizza una strategia complessa di apprendimento
che implica corsi e ricorsi e che si fonda, quindi, sulla convinzione
che la programmazione non è mai compiuta in se stessa ma ha bisogno di un
continuo aggiornamento. In questa maniera, in definitiva, si concorrerà a far
maturare una concezione processuale ed evolutiva della programmazione in
generale e della valutazione in particolare, dando agli insegnanti quella tensione
intellettuale che si presenta quale stimolo e garanzia dell’acquisizione di un
abito mentale scientifico e sperimentale, sempre aperto al nuovo ed in grado di
dare un contributo determinante alla legittimazione pedagogica all’intervento
formativo ed alla produttività del processo scolastico.

2
The Didactic Competences of Teachers
Curriculum and Programming
The new teacher figure cannot base himself only on cultural and disciplinary
competences, considering that the teacher must be able to use methodological
and didactic competences as well as several reference pedagogical theories.
Educational work requires the specification of an exact pedagogical aim (Catarsi,
2005), which is explicitly set out in the planning obligation. This tends to
join dialectically the theoretical hypothesis and operational practice. It cannot
be excluded from the observation and reflection on educational events which
are essential to make real the “evolutive” character of planning and promoting
evaluation which respects the individuality of each student.
This is why, to go further into the issue of didactic competence of teachers we
must reflect in particular on planning strategies and evaluation which are essential
to create a new teacher profession.
To face the issue of planning and evaluation today, it is necessary for the teacher
to make the curricular prospective his own: This curricular prospective unfortunately
was adopted in our country rather late as it was held back by the lasting
idealistic and spiritual legacy which has always characterised Italian pedagogy.
(Cambi, 2002). Its implementation has also been more recently hindered by incomprehensible
technocratic attempts. In Italy, research on the curriculum has
had a suffocating development and it was, however, limited to single subjects
rather than the organisation of teaching as a whole. One of the reasons for this
was to give new-found space to the problems of learning, which were underestimated
in the seventies in favour of the process of socialisation. In the eighties,
we saw a “rediscovery” of the problems of learning in virtue of socio-cultural and
pedagogic reasons. The former are due to social change and the changes in the
world of work in our country, the latter are due to the inadequacies of school programmes,
first noted in the mid-seventies and which has led to review, through
a long and difficult process, of planning in all three stages of school (junior secondary
school 1979; primary school 1985; infant school 1991).
Planning is fortunately influenced by the curricular prospective, even if applying
all the directives-especially in junior secondary school- did not always take
place according to the innovative principles which were at the base of planning.
Corporate closures which did enhance the so-called “informal” knowledge
have often hindered the connection between school and society, a connection
which is obligatory today thanks to the law on the school autonomy. The issue
of the school curriculum has given rise to many debates, but not always point-
41

42
ing towards innovation. In any case, we still believe that a choice which Clotide
Pontecorvo made and proposed around twenty five years ago still holds-to pay
more attention to the relationship between school and “territory”. The Roman
scholar’s proposal of defining the curriculum permits us to keep in mind the different
factors which characterise the formative process, making the possibility of
identifying formative “aims” to propose at the base of commitment in all schools
concrete.
With regards to the latter point, it seems useful to highlight -in the same way
that the scholar has- that “the preference for the notion of curriculum rather than
the more traditional notion of programme, is not an effimerous cultural fashion
adopted slavishly by other educational environments. It arises from the fact that
what we teach at school (and what the students actually learn) depends only in
part by reading official programmes and is influenced by many other variables
which can be identified and kept under educational control. These variables
make up the curriculum and determine putting it into practice. As the curriculum
is understood as a more complete notion, it comprises what we know as the
programme, i.e. an element which may or may not be laid out in great detail,
of topics to study within a disciplinary area. It may also contain many other elements
which make it a complex and interrelated unit. These elements may be:
identifying educational and didactic objectives, setting out teaching methods
and procedures; choice of materials, and aids, starting level of students with
regards to knowledge, attitude, interest; general didactic organisation and the
psycho-social dimension of the formative institution; rules, values and expected
outcome of teachers with reference to teaching, evaluation, innovation, etc.
modalities-internal of results obtained and possible means of feedback.”
As well as the previous factors, Pontecorvo reminds us that the social context,
which today should be more accurately defined, given the socio-cultural changes
of the past twenty years, and in the light of the school autonomy, is important
(Maragliano, 2001). She continues writing “The external socio-cultural aspect
which gives an opinion on the social evaluation of the role of school in general,
or in relation to different types and levels of school or the outside world, job opportunities
(short/long term) and therefore the students’ social standing acts on
this”. These elements do not constitute a linear sequence: rather it is possible to
see between them complex and mixed relations. A curriculum is not an “outline”,
neither is it a succession of moments but a dynamic togetherness of relationships
between different elements” (Pontecorvo-Fusé, 1981, 11-12).
Planning and “pedagogy of objectives”
On the contrary of what most of the people who were against it initially sustained,
planning permits us to pay attention to the real needs of students, while
at the same time it offers the possibility to give personal solutions. The choice
of plan indeed lies on many motivations, starting from the point that careful
planning needs to be agreed upon by all the teachers in the class and that fac-

tors such as anthropological and social needs are also taken into consideration.
It is for this reason that it seems to be opportune to underline the distinction
between educative planning and didactic planning which is present under the
Italian normative. Article 4 of the DPR 416/1974 states that it is the duty of
the board of teachers to define “the planning of the educative action so teaching
programmes are adapted, within State outlines, to contain specific environmental
needs”. This task consists in setting out “an annual project which is
jointly agreed on by the teachers”. Its aim is to determing general educational
objectives (social, affective, ethic and cognitive) and organisational solutions
(structural, methodological) which an infant school wants to follow”. Didactic
planning, which we want to discuss in particular, permits, most importantly, to
overcome the temporariness of teaching and make it possible to publicly show
the results obtained. The latter, in the light of increasing autonomy in individual
schools, is of ever increasing importance because it allows the “transparency”
which is more and more requested and wished for in each public sector, school
included. However planning is still an issue of polemics and debate, often caused
by a distorted interpretation of what planning should be and by excessively rigid
schemes. It is obvious that a rigid scheme does not consider the complexity of
the child and is destined to fail because it is based on an obsolete intervention
from past times and a worse school system. Because of the complexity of child
development, teachers must continuously consider childrens’ problems, put
themselves into discussion and behave in the flexible manner that is needed today.
It is obvious, therefore, that this means that programming must be totally
flexible and free fron any scheme. It seems to be out of place -and frankly fruit
of an intellectualistic force- to overlap planning by objectives to other types of
planning, adding that the former must be rigid and imprinted by a determination
which suffocates the determination of children. Planning is not in itself neither
rigid nor schematic and therefore must not be so in an innovative school which
really cares for the formative needs of its pupils.
The other objection which affirms that planning by objectives leads to “forced”
learning with only one solution, and prevents learning as a form of discovery,
which is fruit of a personal effort on behalf of the pupil has very little sense. It
must be stated that identifying and defining objectives is done specifically for
the benefit of the adult and appears to be ideal for testing and evaluation. As
Duccio Demetrio rightly wrote (1990, 182) “objectives, whether curricular or
extracurricular are the intention of the educator and are defined with regard to
the changes which he wants someone to make, after he personally has been
“exposed” to experiences which were to develop his different “intelligences”. The
objective is therefore an indicator of change because it signals how much and
in what way a person has learnt to do or behave; it is also a descriptor as the
results expected and obtained (changes) can be verbally formulated before the
explicit relational didactics involves the subjects. Or afterwards when it is necessary
to evaluate the effects.”
Autonomous learning on behalf of the pupils and their ability to “discover” is not
only not hindered by planning, indeed it is helped by it, even if it seems neces-
43

44
sary to recognise that in the past thirty years a negative pedagogy which was
founded on the old constrictive pedagogy and based on objectives had developed
in Italy. This explains the reason for the blind and polemic reactions which
resulted and which in our country found fuel in a secular pedacological tradition
which did not certainly enhance educative deliberateness. The fact is that the
longstanding ideals have pevented us from acquiring planning practices, which
have often been given distorted and stereotyped interpretations, in a diffused
and convinced manner throughout the country.
In particular the identification of objectives have been criticised as they were
thought to be the cause of intellectual passivity and scolasticism. On the contrary,
the pedagogy of objectives, does not prevent freedom of teaching but it
gives the teacher a real freedon of choice.” Massimo Baldacci (1990, 8) writes
during the height of these polemics, “Indeed it is only when we have explicit
didactic targets that it is possible to decide rationally and intentionally on the
possible methodological and didactic paths. Leaving out the objectives would
deprive the teacher of having authentic criteria regarding the choice of teaching
strategies”.
In the same way, because the pedagogy of objectives shows the educational
intentions of the adult, it permits us to activate a democratic attitude towards
children/adolescents, giving everybody the same educative opportunities and
putting teachers in the position to continuously adapt their interventions to the
needs of the children and thus target their work.
The objectives, are like “organisers” of school activities and are extremely important
for several reasons. First of all because they can simplify the identification
of which contents can be considered more relevant than others. Furthermore
they are important because they can join disciplinary contents which are
different but have the same formative intentions.
This, today, seems even more valid in the light of what is stated in the recent
document ‘Indications for the Curriculum for Infant and Primary Education’ published
in Rome in Spetember 2007 by the Ministry of Education. This document
proposes a significant choice when it characterises the formative proposal for
primary education through three big areas, i.e. the linguistic-artistic-expressive
area, history and geography, and the mathematical-scientific-technological area.
This is a sign that there is a will to enhance the complexity of knowledge by drifting
away from the asphyctical disciplinarian tradition which has characterised
our school system for most of the past century. Therefore we can no longer
agree with Franca Minerva Pinto (2007, 17-18) when she writes that “Through
the innovative proposal of enstating areas, in which it is possible to identify
and experiment distinctions and correlations, separations, and recompositions,
trespassing, mingling and hybridation, it is possible to put into practice the circularity
and multidisciplinary connection of knowledge, a specific objective of
High School”. The pedagogy of objectives can permit a more productive target of
teaching with regard to the targets of the school which the teacher works in. In
each case we must emphasise how this strategy and more generally the planning
strategy totally enhances the educative intentions of the teaching team, allow-

ing it to positively influence, in theory, the individual growth of the pupils. On the
basis of the development of psychological and pedagogical research in the past
forty years, the “tendency to explain the relationship between psychological development
and the learning of knowledge contents through the detemining role
carried out by structural, cultural, historical social and institutional variables. It
is these variables which are the most important and main characteristics and
enables us to study the effects of school teaching on thr increase of individual
learning possibilities” (Muzi, 1990, 163).
So there is a precise interest for the way learning at school of cultural content
influences individual cognitive development. This, as well as other results, has
led to a “rediscovery” of reflection and research by L.S. Vygotskij, a Russian
scholar who has pointed out the influence of cultural factors on development,
the relationship between language and thought, and the importance that in
development the cultural contents governed by language are adopted. He emphasises
the relationship between interdependence and dialectics which exists
between development and learning and puts into crisis the previous theories,
in particular Piaget’s one, and gives a substantial contribution to the renewal
of educational research. He clearly sustains that the thesis which starts from
“the premise of independence of the process of development from the process
of learning” are wrong. And with reference to this, he writes clearly: “these thesis
consider learning as a completely external process, in some way it is similar
to the process of development of the child, but it doesn’t participate actively in
this development, neither does it modify it. In other words, learning uses the
results of development instead of preceding the course of it and change its direction.
Piaget’s complex but interesting theory which studies the development
of the thought of the child in a totally independent way from learning processes,
is considered a typical example of these theories” (Vygotskij-Leontjev-Lurija,
1974, 25).
The Vygotskijan theory that the conceptual activities of the child are in direct
relationship with his comunicative abilities leads to a clear cut, almost comic
criticism made towards those who believe that there is a difference between the
evolutive process and the learning one. He states “Development must reach a
certain level and certain functions must mature before school can help the child
acquire certain knowledge and habits” (ivi, p.26)
The general reflections which have been covered up to now prove our approval
for an evolutional-style planning which refers to a complex strategy of learning
presented as a continuous construction that involves courses and appeals and
needs periodical rethought. A correct evolutive conception of planning helps us
understand it as a cyclic process in which both of propositional moments from
the teacher and “casual” moments from the children and from everyday life intertwine.
The former means identifying experiences, objectives times and tools
while the latter arises from occasional elements and hints from the child and
from everyday life and cannot be foreseen. On the other hand we believe that
the random -from infant school to high school- can and must become an “occasion”
for the teachers to learn, as their role is essential and determining.
45

46
Stating that the teacher is a central figure does not mean that there are any
other rigid elements in planning. The evolutive character of planning can be
summed up in the metaphor of a game of chess as is cited by Bruno Bettelheim
when he talks about the relationship between parent and offspring.
One has to substitute the term parent with teacher and offspring with child.
The famous psychoanalyst writes: “even if it is a banal and simple metaphor
of human relationships, the game of chess is useful to show how in each step
of interaction, very few moves can be planned. Each move must bear in mind
the previous moves. Therefore it is very important to value each situation
as a whole. A correct first move can only give an indication to what a first
countermove should be. The beginner who tries to follow his moves without
considering those of his opponent will undoubtedly be beaten. The same will
happen to the “teacher” who follows a predetermined plan based on explanations
or advice which others have given him on how to treat a “child”. A
teacher must be flexible and continually adapt his systems to the reactions
of the child and continually consider the global situation as it evolves. In
chess it is immediately clear that to try and follow plans without attentively
reflecting on what the opponent is thinking and on each countermove is a
mistake. The same type of reflection on the intentions and on the reactions of
the child is decisive even for the way the educator should react[….]. A good
chess player can foresee in time a series of possible moves and probabile
countermoves but only because he has learnt to re-examine and reconsider
the whole situation after every move. The teacher who is able to do this with
a child [.... ] will intervene and continue to consider the situation as a whole
after each of his interventions to understand what he has to [....] it is necessary
to help educators to understand on their own what can happen in the
mind of the child [....] and the experience has taught us that to be able to
develop this intuition [.... ] we must never believe that we know the correct
answers even if they may be obvious before analysing carefully in what way
each of the two aspects have contributed to evolving the situation”. (Bettelheim,
1987, 18-19).
Teaching and Formative Evaluation
The teacher who understands how complex teaching is will have a different attitude
to evaluation which is normally understood as a formative tool and not only
as a bureaucratic certification. Evaluation is one of the most criticized aspects of
traditional school. The way pupils were classed and judged was the main tool to
select access to secondary school This limit was justified because it was said that
only able students who were able to reap the benefits could attend. In theory at
least, access seemed to be based on merit.
The reality was, however, quite different as studies and research on the relationship
between social environment of the students and their school success.
Studies have shown that what was presented as a selection based on merit was,

in fact, a class selection. Pupils from families with a good cultural and economic
levels passed the school entry tests without difficulty whereas other pupils found
themselves at a disadvantage and were eventually forced to give up their studies.
This situation is openly reported in the text by Don Milani called “Letter to a
Teacher” in which “Peter” and “John” are the two typical children who live in the
same society but are treated in different ways by the Italian school system.
The spread of the knowledge that a class system exists in school, led, in the seventies,
to the request of a school which was formative and which could answer
the needs of a democratic society. While wishing for the non-selective character
of school we do not in any way intend bring into question the importance of
checking the pupil’s learning which must be done in order to improve performance
and not to physically certify the level of competences.
The law which has already been mentioned, i.e.517 of 1977 is emblematic of
the process of renewal. This law along with several other innovations introduces,
in compulsory education at least, the overcoming of marks and report cards in
favour of a global opinion of the pupil. Even contemporary pedagogic reflection
increasingly tends to give evaluation a central position in the process of
teaching-learning. This is not only because it is necessary to check the levels
and ways of pupil learning but it is more importantly as an important element
which permits teachers to gather the necessary information to be able to decide
on planning and didactic interventions.
Therefore evaluation, which was originally seen as a mere tool for social and
cultural discrimination, has progressively become an integrating and essential
part of the didactic process. It is no longer a selective burocratic process but an
essential element to be able to gather information which allows us to check the
progress of teaching.
The discriminatine use of evaluation practices has caused, in the past a refusal
to accept evaluation, both for political and pedagogical reasons. This refusal,
however determines a more insidious aspect of discrimination and class selection
as school, in this way, deprives itself of the possibility of using other forms
to check the acquisition of competences and socially relevant abilities for everybody,
whatever the entry levels of the pupils. The same goes for those “forgiving”
attitudes which often hide a superficial and fatalistic acceptance in the
process of dequalification which has hit the school of “the masses”.
The main problem in a school which is really democratic, is not to refuse or mitigate
the moments of evaluation but to be aware of the undisputable function it
has, even if it has to be reviewed by means of building theoretic models and using
tools which can give democratic results. The process of evaluation therefore,
must be based on an explicit definition of the objectives to be reached and on
a clear definition of the didactic paths which will be taken to reach these objectives,
as well as remedial strategies.
In this way, indeed, evaluation takes on its correct meaning of systematic check
should refine, define planning and control didactic procedured which are measured
by checking to see if the pupils are able to acquire specific competences by
means of flexible and differentiated paths. It therefore appears necessary to use
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appropriate evaluation tools which can check levels of competence in the context
of a redefinition of the role which evaluation holds in the learning process.
From this point of view it is possible to distinguish different moments of the
evaluation process depending on the time. We can talk about initial evaluaton
which is the starting point for formative work, intermediate or formative evaluation
which gives quick results on how pupils develop their learning process and
finally, we have terminal or summative evaluation which is carried out at the end
of a learning path and has specific characteristics as through it, you can express
a final evaluation on the learning levels obtained. This determines if the objectives,
the learning paths and teaching methods followed were valid. The joint
decision of the teachers on how to intervene appears essential and guarantees
the continuous comparison which helps teachers progress professionally and the
“quality” of the school to improve. This is why it is necessary to further promote
the joint character of the Board of Teaches which apperars to be the priority tool
for the renewal of teaching practices and identifying formative paths.
To be able to highlight the formative character of evaluation strategies, I would
like to pause for a moment on the difference between testing and evaluation.
The former must identify “objective” elements and is set to check if the pupil
has acquired specific competences. The latter, on the contrary, refers to more
qualitative aspects and social aspects of learning and is, to the interpretation of
the adult, more subjective. Both procedures cannot be used in a clear cut manner
and must be applied together.
During the complex function of evaluation, “open” or “closed” methods should
be applied. “Open” tools can be an oral test, a summary or essay writing. Thus
these “traditional” activities can be used freely in the didactic process.
“Closed” or objective tests allow teachers to see whether specific objectives
have been attained by the pupils because they are very precise and concentrated
on a particular point. They are a determining factor in establishing which
strategies to use and how to develop and maintain the pupil’s interest and motivation.
They seem to be the systematic observation of teachers who have to
forget their temporaniety and become an essential tool in the path for getting
to know each pupil.
It is evident even in this sense that wed need to foresee an evolutive type of
planning which uses the complex strategy of learning and implying courses and
appeals. Therefore the convinction that planning is never complete but needs
to be continuously reviewed still holds. In this way, planning is seen as a process
and evolution and gives teachers the intellectual tension as a stimulus and
guarantee of acquisition of a scientific and experimental front which is always
open to new things and can give a determining contribution to the educational
legalisation to formative intervention and to the productivity of the educational
process.

3
Le competenze relazionali dei docenti
“Accoglienza” e apprendimento
La questione della professionalità docente e della sua complessità costituisce,
quindi, uno degli elementi essenziali del rinnovamento e della qualificazione del
sistema scolastico. In questa prospettiva appare evidente l’importanza delle
competenze culturali disciplinari e didattiche, a cui debbono aggiungersi quelle
relazionali e riflessive. Il progetto Link si è incentrato in particolare sulle relazioni
ed al riguardo è stato ideato un questionario specifico per gli insegnanti, a
cui è stato somministrato nei diversi paesi, anche se con risultati – almeno da
un punto di vista quantitativo – assai diversi, visto che possiamo anche ritenere
che i risultati siano condizionati dalla diversa numerosità delle risposte. A fronte,
infatti, dei 167 insegnanti italiani hanno risposto al medesimo questionario
48 docenti tedeschi, 13 polacchi e 28 irlandesi. Oltre a ciò occorre poi rilevare
che, certamente per gli italiani, coloro che hanno risposto non rappresentato
l’universo (cioè a dire la totalità dei docenti attivi nelle scuola partecipati al progetto),
bensì solo una parte e verosimilmente quella migliore e più impegnata
nei processi di miglioramento della scuola. È peraltro vero che il loro numero
non è proprio insignificante e che, dunque, le loro risposte hanno un valore che
mantiene un significativo interesse.
L’analisi dei dati biografici consente subito alcune riflessioni nella prospettiva
comparata. In particolare è subito possibile rilevare come l’Italia presenti
la percentuale più bassa di presenza di insegnanti maschi (32,3% rispetto al
67,7% di donne). In effetti il processo di femminilizzazione dell’insegnamento
data da molti anni e ciò è visibile anche nella scuola secondaria. Appare degno
di rilievo il dato relativo all’Irlanda (35,7% maschi vs 64,3% donne), che non
è molto diverso da quello italiano. Mentre colpisce il dato tedesco, dove gli insegnanti
maschi sono addirittura la maggioranza (62,5% rispetto a 37,5%). La
Polonia prevede quasi una metà: 46,2 maschi vs 64,3 femmine).
1.Sesso/Sex ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Maschi/Male 32,3 62,5 46,2 35,7 39,1
Femmine/Female 67,7 37,5 53,8 64,3 60,9
Allo stesso tempo i dati ci dicono che rispetto all’età anagrafica gli insegnanti
italiani non sono poi troppo più vecchi degli altri colleghi dei paesi partner. Medesimo
rilievo è possibile anche riguardo l’anzianità di servizio. Al proposito è,
semmai, da evidenziare il dato irlandese, che mostra insegnanti più giovani e
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con più anzianità di servizio, ad indicare, appunto, che la carriera inizia in giovane
età.
2.Età anagrafica/Age ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
meno di 25 anni/less than 25 0,0 0,0 0 0,0 0,0
da 25 a 35 anni/25 to 35 7,2 18,8 8 28,6 11,7
da 36 a 45/36 to 45 24,6 14,6 46 17,9 23,0
da 46 a 55/ 46 to 55 54,5 29,2 38 42,9 47,7
da 56 a 60/56 to 60 12,6 29,2 0 7,1 14,5
oltre 60/over 60 0,6 8,3 8 3,6 2,7
4. Anzianità di servizio/Total
years of teaching experience :
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
da 0 a 5 anni/0 to 5 years 12,0 16,7 23,1 28,6 15,2
da 6 a 10 anni/6 to 10 years 7,8 16,7 15,4 7,1 9,8
da 11 a 20 anni/11 to 20 years 28,1 16,7 30,8 7,1 23,8
da 21 a 30 anni/21 a 30 years 40,7 16,7 23,1 42,9 35,5
oltre i 30 anni/over 30 years 11,4 33,3 7,7 14,3 15,6
La prima risposta data alla domanda relativa ai compiti dell’insegnante lascia
intravedere una convinzione diffusa riguardo la centralità dell’insegnamento disciplinare
che è più alto, in percentuali decrescenti, in Irlanda 53,6%, Germania
43,8%, Polonia 38,5% e Italia 34,7%. Ovviamente questa convinzione coglie
un aspetto molto importante della professionalità docente, ma lascia anche
intendere che l’insegnante secondario trova l’elemento fondante della propria
identità nella propria disciplina di insegnamento. In ogni caso le altre risposte
previste e concernenti l’ «educare ai valori fondamentali della convivenza democratica»
appaiono anch’esse significative, mentre viene utilizzata poco la
risposta che sottolinea l’importanza delle «relazioni incoraggianti». A questo
proposito, peraltro, colpisce che gli insegnanti italiani siano quelli che usano
questa risposta nella percentuale più bassa. La priorità delle relazioni è indicata,
infatti, dal 23,1% dei docenti polacchi, dal 14,6 di quelli tedeschi, dal 14,3%
di quelli irlandesi e dal 12% di quelli italiani. Questi ultimi sono invece convinti
della maggiore importanza di «promuovere adeguate motivazioni all’apprendimento»,
mentre tutti quanti gli insegnanti sembrano poco propensi a «promuovere
lo sviluppo di atteggiamenti critici». È vero, d’altra parte, che questo
ultimo termine abbisogna d chiarimenti, in quanto se è stato letto secondo il
senso comune e non nel suo significato pedagogico ha determinato, evidentemente,
questo risultato.

8. Fra i diversi “compiti” dell’insegnante, elencati di
seguito, indicare da 1 a 5 in ordine di priorità/Among
the following tasks rank (1 to 5)the following in terms
of your priority as a teacher:
insegnare le specifiche discipline d’insegnamento/
teaching specific subjects
educare ai valori fondamentali della convivenza
democratica/convey the basic values of human
society
promuovere lo sviluppo di atteggiamenti critici/
promote the development of critical attitudes
Favorire l’apprendimento mediante relazioni
incoraggianti/Favour learning through encouraging
relationships
promuovere adeguate motivazioni
all’apprendimento/promote learning motivation
ITALIA
GERMANIA
POLONIA
IRLANDA
34,7 43,8 38,5 53,6
23,4 37,5 15,4 17,9
7,8 2,1 7,7 3,6
12,0 14,6 23,1 14,3
22,8 2,1 15,4 10,7
Questo alto livello di consapevolezza riguardo l’importanza della comunicazione
tra insegnante e allievo torna anche nelle risposte alla domanda relativa ai
fattori che determinano il successo scolastico. In questo caso, in effetti, tutte le
realtà – eccetto l’Irlanda – vanno ben oltre il terzo delle risposte, con il 40,1%
dell’Italia, il 37,5 della Germania, il 38,5% della Polonia, mentre l’Irlanda è al
30,4%. Colpisce anche il fatto che nessuno dei seppur pochi insegnanti polacchi
pensi che il successo scolastico sia influenzato dalla provenienza familiare.
Evidentemente possono incidere, a questo proposito, motivi legati alla storia
del paese ed al progetto politico che ne ha contrassegnato per tanti anni le
azioni. Allo stesso modo è da segnalare come pochi insegnanti – a parte i polacchi
– siano convinti che il successo scolastico degli studenti derivi anche dalle
competenze disciplinari degli insegnanti. Tale dato può anche essere inteso
come condizionato da un’ottica autoreferenziale, che non mette - comunque
– in discussione l’efficacia dell’intervento del docente. A riprova di ciò è da
evidenziare come oltre 1/3 degli insegnanti che hanno risposto al questionario
pensi che il successo scolastico è frutto in particolare del «grado di capacità
intellettive e della maturità complessiva dell’allievo». Ad indicare, appunto, che
la responsabilità, alla fin fine, è frutto della più o meno brillante “intelligenza”
dello studente.
51

52
9. Secondo Lei quali sono
i fattori che determinano
il rendimento scolastico
di un alunno? (indicarne
due)
il grado di capacità
intellettive e la maturità
complessiva dell’allievo
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
36,5 32,3 30,8 39,3 35,7
la provenienza familiare 6,9 16,7 0,0 16,1 9,4
la qualità e la quantità delle
relazioni tra insegnanti e
genitori
l’efficacia della
comunicazione insegnanteallievo
la competenza disciplinare
dell’insegnante
4,5 3,1 3,8 3,6 4,1
40,1 37,5 38,5 30,4 38,5
12,0 10,4 26,9 10,7 12,3
Interessanti appaiono anche i dati relativi alla domanda sul significato della
valutazione. Emerge così che i docenti polacchi sono molto attenti all’espressione
del giudizio sul “profitto” ed assai meno all’integrazione socio-culturale
degli alunni, che è invece una preoccupazione significativa dei docenti italiani
ed ancora di più di quelli tedeschi. Al contempo colpisce il fatto che i docenti
italiani siano assai più preoccupati degli altri di tenere di conto delle diverse
attitudini degli allievi, al fine di indirizzarli verso lo sviluppo delle medesime.
Allo stesso modo sarebbe molto interessante capire il significato reale attribuito
dai docenti dei diversi paesi all’espressione «mettere in evidenza le differenze
individuali degli alunni». Molto probabilmente qualcuno lo legge “in positivo”, al
fine di valorizzare le potenzialità dei singoli alunni, mentre altri – pare di capire
– lo intendono in una prospettiva comparativa, con l’obiettivo di individuare i
“migliori” ed i “peggiori”.

10. La valutazione nella
scuola deve prevalentemente
(indicare due risposte)/
Assessment in schools should
(tick two answers):
favorire l’integrazione socioculturale
degli alunni/promote
socio-cultural integration of
students
indirizzare gli alunni secondo le
varie attitudini/advise on choices
according to aptitude
esprimere giudizi sul profitto
degli alunni/evaluate students
according to their results
esprimere un giudizio sulla
efficacia della attività didattica
rispetto agli obiettivi scelti/
evaluate the effectiveness of
teaching
mettere in evidenza le differenze
individuali degli alunni/highlight
the individual differences in
students learning approaches
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
23,1 28,1 3,8 16,1 22,3
34,7 28,1 23,1 25,0 31,8
13,5 8,3 38,5 28,6 15,4
23,1 14,6 19,2 17,9 20,7
5,7 20,8 15,4 12,5 9,8
Relativamente alla individuazione dei fattori che determinano la bocciatura in
prima superiore, le rispose sono abbastanza omogenee, ad eccezione dei docenti
polacchi che insistono molto sulla provenienza socio-culturale non adatta
rispetto alla scuola prescelta. Tale dato appare però, in qualche misura, contraddittorio
rispetto al dato precedente sul rendimento scolastico, laddove nessuno
dei docenti polacchi aveva risposto che dipende dalla «provenienza familiare».
Al contempo è da sottolineare come i docenti tedeschi siano convinti in
minima misura (6,3%) del fatto che una delle cause principali sia da ricondurre
alla impreparazione con cui i ragazzi arrivano dalla scuola media, a differenza
di quanto, invece, pensano gli insegnanti degli altri paesi: 32,3% Italia, 30,8
Polonia, 35,7% Irlanda. Ovviamente sono pochi i docenti che pensano che vi
possano essere responsabilità delle modalità di accoglienza della scuola, anche
perché sarebbe stato più opportuno chiarire meglio il significato più complessivo
dell’accoglienza, che sta – evidentemente – non ad indicare il primo o i primi
giorni di scuola, bensì un clima generale accogliente ed empatico
53

54
11. Secondo Lei quali sono
i fattori che determinano il
fenomeno delle bocciature
nella prima classe della scuola
superiore?/What determines
students’ failure at secondary
school level:
i ragazzi arrivano impreparati dalla
scuola media/insufficient preparation
at primary school level
i ragazzi sbagliano nella scelta della
scuola secondaria/wrong choice of
subjects taken
la scuola secondaria non organizza
un’accoglienza adeguata/secondary
school does not organize good
reception initiatives
nella scuola secondaria non esiste
la possibilità di organizzare percorsi
didattici individualizzati/lack of offer
of personalised learning paths
i ragazzi provengono da ambienti
socio-culturalmente non adatti alla
scuola prescelta/students come from
“wrong” background environment
for that school
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
32,3 6,3 30,8 35,7 27,7
38,9 20,8 7,7 3,6 30,1
7,2 12,5 0,0 3,6 7,4
34,1 43,8 15,4 32,1 34,8
3,0 16,7 46,2 25,0 10,2
La sempre più diffusa consapevolezza riguardo il ruolo che le emozioni giocano
sul processo di apprendimento ha contribuito a sottolineare, in effetti, almeno
in una parte degli insegnanti italiani, l’importanza della problematica dell’accoglienza
a scuola, anche se spesso essa è stata banalizzata con il riferimento alle
ansie legate al “primo giorno di scuola”. In realtà – come ha scritto giustamente
Gianfranco Staccioli (1998, 23) - «l’accoglienza è un metodo di lavoro complesso,
è un modo di essere dell’adulto, è una idea chiave nel processo educativo».
La cultura dell’accoglienza implica, infatti, rispetto per gli allievi ed i loro bisogni,
senza che questo debba portare a “derive” spontaneistiche. «Accogliere
non è sudditanza agli eventi casuali – scrive ancora Staccioli (1998, 25) – ma è
piuttosto il riconoscere che la vita reale è anche culturale – o può diventarla – è
riaffermare che “dentro” il quotidiano maturano i diversi campi di esperienza, è
riscoprire che la differenza fra esperienza del bambino ed esperienza “discipli-

nare” è solo una differenza di grado e non una diversità di natura».
La cultura dell’accoglienza, quindi, impone di promuovere un nuovo modo di
vivere a scuola sia da parte dei ragazzi che degli insegnanti. Questo, d’altra
parte, senza voler legittimare una connotazione ludicistica dell’apprendimento
e dell’insegnamento. Studiare ed imparare presuppongono – sempre e comunque
– sacrificio e sforzo, che non debbono però essere equivocati con la noia
o il disagio, sia di tipo fisico che psicologico. Per essere chiari quando parlo di
sacrifico e sforzo non penso alla scuola della verga, ma a quella in cui sia i docenti
che gli allievi sono consapevoli dell’importanza dell’esperienza formativa
che stanno vivendo e si impegnano di conseguenza.
È certo, peraltro, che l’ingresso nella nuova scuola costituisce per il
ragazzo una novità ed un significativo momento di passaggio, che non
necessariamente è negativo e che anzi può risultare stimolante per
i ragazzi se opportunamente gestito. Esso si configura, infatti, come
originale occasione di discontinuità, che non deve essere necessariamente
“demonizzata”, come è stato talvolta fatto in passato, quando si
è enfatizzato il valore – pure indubbio – della continuità, poiché questo
porterebbe a non tenere di conto di taluni passaggi discontinui che pure
caratterizzano il processo evolutivo dell’individuo. «L’idea della continuità
- scrive Cesare Scurati (1994, 53) - non va confusa con quella di unicità»,
così come deve essere sempre più chiaro che le nozioni di unità
e di continuità debbono essere integrate con quelle di discontinuità e di
differenziazione. Nel richiamare, infatti, la validità della prospettiva della
continuità educativa che, se non altro, punta ad alleviare le difficoltà
che i bambini incontrano nel passaggio da una scuola all’altra, appare
però anche corretto ricordare che la novità ed il dover affrontare nuovi
ostacoli non è necessariamente negativo per il bambino. In altri termini
ci preme sottolineare che la valorizzazione della prospettiva della continuità
non può fondarsi sul disconoscimento della funzione essenziale
della discontinuità, visto che lo sviluppo e la formazione sono date anche
dalla imprevedibilità e dalla differenziazione delle esperienze.
Emblematici, al riguardo, appaiono i momenti del passaggio del ragazzo da un
grado scolastico all’altro, che costituiscono senz’altro momenti di discontinuità.
Riteniamo d’altra parte che - se opportunamente gestiti - possano costituire
occasioni di crescita per l’allievo, al quale, in questo caso, si possono avanzare
delle richieste a cui, nelle situazioni precedenti, non era mai stato posto di
fronte. Altrettanto ovvio è che non si deve eccedere nel porgli domande nuove,
mettendo a dura prova la sua capacità di adattamento e trasformazione.
Anche alla luce delle considerazioni precedenti, pertanto, appare chiaro come il
momento dell’ingresso in un nuovo grado scolastico deve essere programmato
con attenzione dal gruppo docente, in modo che si instauri una relazione positiva
tra allievi e figure adulte, anche se è ovvio che le modalità dell’accoglienza
– in particolare quella “iniziale” – non potranno essere le stesse nei differenti
55

56
gradi scolastici. In particolare si deve puntare a far conoscere reciprocamente
gli allievi e gli insegnanti, così come deve essere favorita la familiarizzazione
con il nuovo ambiente, cioè con i nuovi spazi, i nuovi adulti, le regole che vigono
nell’istituzione. Al contempo si deve favorire una prima conoscenza del lavoro
che si deve compiere, con attività che consentano di constatare elementi di
continuità e permettano all’insegnante di conoscere il livello di competenza dei
singoli allievi.
In questi primi momenti dell’esperienza scolastica occorrerà inoltre osservare il
comportamento dell’allievo e la sua interazione con i compagni e gli insegnanti.
Utile sarà anche la conoscenza dei dati relativi alla sua storia personale e familiare
ed alla sua carriera scolastica, oltre agli elementi che scaturiranno dalle
prime attività. Proprio per questo paiono di grande importanza i colloqui individuali
da tenere con i genitori, così come di indubbia rilevanza potrà rivelarsi il
“fascicolo personale” di cui ogni ragazzo dovrebbe essere dotato nel passaggio
da una scuola all’altra e che si presenta come specifico strumento di documentazione
individuale che, integrando i risultati delle diverse verifiche con i dati
emersi dai materiali osservativi e dagli altri strumenti di valutazione, può consentire
di avere presente, con sufficiente fondatezza, un “profilo biografico” di
ogni singolo allievo.
In questa prospettiva, fra l’altro il passaggio di informazioni dovrebbe riguardare
non solo specifici dati relativi al comportamento dei ragazzi ed alle competenze
dagli stessi acquisite, ma concernere anche le informazioni relative
alle scelte metodologiche e didattiche che vi stanno a monte. Il rapporto tra gli
insegnanti dei diversi gradi scolastici dovrebbe pertanto instaurarsi non solo
partendo dalla messa a disposizione dei “profili biografici” dei singoli allievi, ma
fondarsi anche sulla documentazione delle diverse attività ed esperienze che
sono state realizzate. Anche in questo modo, fra l’altro, si contribuirebbe alla
elaborazione di un curricolo unitario, visto che già nelle riunioni iniziali i docenti
dei diversi gradi scolastici dovrebbero cominciare a parlare un medesimo linguaggio
e confrontarsi su aspetti specifici della loro pratica didattica. Questa
modalità di operare, fra l’altro, farebbe risaltare il carattere processuale della
continuità educativa che deve costituire per tutti gli insegnanti una sorta di
“ideale regolativo”, in grado di dare tensione intellettuale e di far partecipare
convintamente all’opera di costruzione di un processo che appare difficoltoso e
lento ma che è imprescindibile ai fini di un reale rinnovamento della scuola.
Accoglienza e peer education
Organizzare l’accoglienza non può significare, come abbiamo detto, preoccuparsi
solo della organizzazione del primo giorno di scuola o del primo periodo di
frequenza dei nuovi alunni. Significa però anche questo e specificamente fare
in modo che i “nuovi” si sentano accolti ed aiutati a familiare con l’ambiente e
le persone che vi vivono. Ecco perché è importante puntare molto sulla coope-

azione fra i ragazzi e valorizzare quella che oggi viene definita la prospettiva
della peer education. Il gruppo dei pari costituisce, infatti, per il bambino e
per l’adolescente, un contesto imprescindibile per la costruzione dell’identità. I
coetanei fungono infatti da agenti di socializzazione e consentono al ragazzo di
mettersi alla prova, trovando comunque degli interlocutori con cui può confrontarsi
alla pari. La consapevolezza della utilità del rapporto fra pari ha indotto
anche all’attivazione di specifici programmi di peer education, che cominciano
ad essere realizzati a partire dagli anni Settanta e sono inizialmente orientati a
migliorare l’apprendimento scolastico dei ragazzi in difficoltà.
Le ricerche compiute al riguardo – ed anche una esperienza da noi coordinata
nelle scuole secondarie empolesi (Catarsi, 2004) - hanno rilevato che tali programmi
sono utili sia per i tutor che per i ragazzi che si avvalgono del sostegno
del compagno. I primi, infatti, hanno modo di aumentare la propria autostima
e la considerazione della scuola. I secondi sono invece rassicurati dal fatto che
le informazioni o talune spiegazioni vengono loro proposte da coetanei, che utilizzano
un vocabolario comprensibile e che non hanno un atteggiamento valutativo.
A tale riguardo, ovviamente, è essenziale la formazione dei tutor da sviluppare
sui temi della comunicazione, della gestione del gruppo, della relazione
di aiuto, di tecniche specifiche che possano sostanziare più produttivamente
l’atteggiamento di ascolto e di aiuto.
È ovvio che gli insegnanti per primi debbono ricordare che anche i tutor sono
loro allievi e che – dunque – non possono essere loro delegate responsabilità
che sono proprie della scuola e del corpo docente. Allo stesso modo l’insegnante
non può pensare di “delegare” al tutor dei compiti che gli sono propri e che egli
deve svolgere in prima persona. Evitati questi rischi, però, il clima dell’intera
classe può trarre indubbio giovamento dall’apporto della peer education, che fra
l’altro costituisce un ottimo strumento per combattere precocemente il fenomeno
del “bullismo”, che richiama i comportamenti violenti e le prepotenze che taluni
ragazzi esercitano nei confronti di altri ragazzi. Il fenomeno è stato oggetto
di numerosi studi nell’ultimo ventennio - recentemente anche in Italia (Fonzi,
1997) - ed è così emerso in tutta la sua pericolosità. Al di là, infatti, dell’atteggiamento
paternalistico di taluni adulti, che si limitano a rilevarne la presenza
storica o che addirittura ne teorizzano la utilità per “formare il carattere”, le
ricerche hanno dimostrato che la situazione di “prepotenza” può avere effetti
molto negativi sulle vittime, che ne soffrono in termini di perdita di autostima
e di sviluppo di sentimenti di depressione. Al contempo è stato rilevato che il
rischio esiste anche per i bulli, in particolare riguardo le aumentate probabilità
di sviluppare condotte devianti ed antisociali.
Ecco allora l’opportunità di attivare interventi che portino i ragazzi a riflettere
sul fenomeno e ad acquisire la capacità e la forza di prendere le distanze dai
bulli e dai loro comportamenti violenti. Come è stato scritto giustamente da Ersilia
Menesini e da Beatrice Benelli «i programmi di supporto tra coetanei intendono
dare una risposta all’esigenza di combattere la violenza e la sopraffazione
e promuovere il rispetto e l’aiuto reciproco. Tali programmi non si sostituiscono
all’azione educativa, di supporto emotivo ed affettivo svolta da genitori ed inse-
57

58
gnanti, ma cercano di favorire una cultura di solidarietà e di aiuto nella comunità
sociale a partire dal gruppo dei pari. Essi si basano sul fatto che spesso i
ragazzi si rivolgono ad altri compagni per chiedere aiuto in momenti di difficoltà,
frustrazione e preoccupazione. Si innestano sulla naturale potenzialità dei
ragazzi stessi di consolare, aiutare e dare supporto ai compagni in difficoltà»
(Menesini, 2000, 117).
Appare quindi utile investire sui pari come “agenti di cambiamento”, facendo
leva su quelle che sono le naturali attitudini prosociali dei ragazzi, sulla loro facilità
di attivare relazioni empatiche e di mettersi dalla parte di chi è in difficoltà
o è semplicemente in una situazione di disagio. Alcune ricerche (Cowie-Sharp,
1996) hanno peraltro dimostrato come i ragazzi possano aiutare realmente i
compagni in difficoltà e come questo loro intervento sia spesso più valido di
quello di un professionista, in particolare quando siano stati preparati intenzionalmente.
«D’altra canto – come hanno scritto giustamente Ersilia Menesini
e Elena Codecasa (2001, 5) – è risaputo che i bambini e soprattutto gli adolescenti
preferiscono di gran lunga parlare dei loro problemi con un compagno o
con un amico piuttosto che con genitori, insegnanti o psicologi».
La comunicazione tra insegnanti e allievi
Il questionario conteneva poi una parte tesa ad indagare il giudizio degli insegnanti
sulla propria formazione iniziale, che risulta essere in generale positivo,
in particolare per quanto riguarda i contenuti delle discipline insegnate. Riguardo
la stessa didattica disciplinare l’atteggiamento cambia invece molto, visto
che la convinzione di avere una preparazione piuttosto buona è solo degli insegnanti
italiani. I tedeschi sono i più critici, visto che il 41,7% si dichiara “poco
preparato” ed il 14,6 addirittura “per niente” preparato. Medesimo discorso vale
anche per la conoscenza dei problemi educativi generali, per i quali dichiarano
di essere poco o per niente preparati gli insegnanti tedeschi ed irlandesi, che
dimostrano di essere i più critici e – forse – anche i più consapevoli. Una maggiore
e più diffusa percezione negativa riguarda invece le “competenze relazionali”,
che oltre i 2/3 ritengono di possedere, superati solo dai docenti polacchi
che pensano di avere competenze relazionali nell’ 84,6% dei casi. Più misurati
e – ripeto – forse più consapevoli si dimostrato al proposito i docenti tedeschi e
irlandesi. In ogni caso per verificare la rispondenza di queste risposte al reale
sarà interessante confrontarle con quelle degli studenti e dei genitori. Molto
probabilmente la percezione della dimensione delle relazioni non è proprio la
stessa fra i diversi attori del processo formativo.

COMPLESSIVO
PER NIENTE/NOT AT
ALL
molto/very ABBASTANZA/QUITE POCO/LITTLE
IRL
PL
DE
ITA
IRL
PL
DE
ITA
IRL
PL
DE
IT
IRL
PL
DE
IT
12. Ritiene adeguata la
sua formazione iniziale in
merito agli elementi indicati
di seguito?/Do you consider
your initial training
adequate for the following
issues
44,3 39,6 61,5 53,6 46,1 39,6 15,4 35,7 7,8 18,8 23,1 7,1 1,8 4,2 0,0 3,6
Contenuti delle materie
insegnate/Subject contents
28,1 39,6 38,5 25,0 52,1 4,2 30,8 42,9 15,6 41,7 30,8 28,6 4,2 14,6 0,0 3,6
Didattica delle materie
insegnate/Specific teaching
strategies
15,0 39,6 53,8 25,0 56,9 6,3 38,5 50,0 20,4 47,9 7,7 21,4 7,8 25,0 0,0 3,6
Didattica generale/General
teaching strategies
20,4 39,6 46,2 0,0 47,9 8,3 23,1 25,0 22,8 43,8 23,1 42,9 9,0 31,3 7,7 32,1
Problemi educativi
generali/Educational
difficulties
24,0 39,6 53,8 17,9 43,7 6,3 30,8 25,0 24,0 39,6 30,8 39,3 8,4 41,7 7,7 17,9
Competenze relazionali/
Relationship with students
59

60
Riguardo alle competenze relazionali esistono differenze piuttosto significative
tra i docenti dei diversi paesi. Emerge infatti che oltre i due terzi degli insegnanti
tedeschi ritengono che esse «siano espressione della personalità dell’individuo»
(68,8%), seguiti dai docenti irlandesi con il 60,7%. Ben altrimenti gli italiani,
che usano tale risposta nel 35,3% dei casi e i polacchi nel 38,5%. Anche a tale
proposito, peraltro, merita fare delle considerazioni, poiché colpisce che così
tanti insegnanti si esprimono secondo i dettami del senso comune, tradendo
una evidente impreparazione psicologica e pedagogica. Gli insegnanti italiani,
peraltro, nel 53,9% dei casi ritengono che essa possa essere sviluppata durante
la formazione iniziale e, quindi, lascia intendere una ben altra consapevolezza.
13.Ritiene che le competenze
relazionali degli insegnanti/Do
you think a teacher’s ability to
relate to students:
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Siano innate/is inborn 6,6 6,3 7,7 32,1 9,4
Vadano sviluppate nel corso della
formazione iniziale/should be
developed during the initial training
course
Siano espressione della personalità
dell’individuo/is expression of the
teachers’ personality
Siano il risultato dell’influenza
dell’ambiente socio-culturale di
appartenenza/is a result of teachers’
cultural background
53,9 25,0 38,5 7,1 42,6
35,3 68,8 38,5 60,7 44,5
4,2 0,0 15,4 0,0 3,5
La contraddittorietà delle riflessioni sulle relazioni emerge con grande chiarezza
nelle risposte ad una domanda “neutra”, dove si chiede se «le modalità relazionali
possano influenzare il livello delle prestazioni dei ragazzi. Gli insegnanti
rispondono, infatti, nella quasi totalità, in maniera affermativa, evidentemente
perché la richiesta è impersonale e non fa riferimento preciso al ruolo docente.
Anche in questo caso, peraltro, esistono differenze significative, visto che le
risposte che definiscono molto importanti le relazioni sono diversificate: 36,5%
Italia, 58,3% Germania, 84,6 Polonia, 60,7% Irlanda. Ovviamente pesa la polisemia
del termine relazione, inteso evidentemente in modo diverso nei diversi
paesi. Gli italiani, in ogni caso, sono quelli più scettici riguardo l’influenza delle
relazioni ai fini del successo scolastico, condizionati come sono dall’importanza
annessa ai saperi disciplinati e da una formazione iniziale che non ha certo dato

loro specifiche competenze trasversali di carattere pedagogico e psicologico.
14. Ritiene che le modalità
relazionali all’interno della
classe possano influenzare
il livello delle prestazioni
dei ragazzi?/Do you believe
that relationship within a
class can influence students’
performances
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Molto/very much 36,5 58,3 84,6 60,7 45,7
Abbastanza/quite 48,5 41,7 15,4 39,3 44,5
Poco/little 13,8 0,0 0,0 0,0 9,0
Per niente/not at all 1,2 0,0 0,0 0,0 0,8
Riguardo il grado di soddisfazione relativamente al rapporto con gli allievi non vi
sono grandi differenze, anche se pure in questo caso è da rilevare che gli unici
insegnanti che riportano esperienze negative sono italiani
15. Nel corso della sua
esperienza personale, la
relazione con gli allievi
si è rivelata/During
your teaching career
your relationship with
students, in general, has
been:
Molto soddisfacente/very
satisfying
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
42,5 41,7 38,5 46,4 42,6
Abbastanza/quite 52,1 58,3 61,5 53,6 53,9
Poco/little 4,2 0,0 0,0 0,0 2,7
Per niente/not at all 1,2 0,0 0,0 0,0 0,8
Allo stesso modo era difficile pensare che qualche insegnante rispondesse in
modo negativo ad una domanda “scontata”, come quella che chiedeva la disponibilità
ad adattare il proprio stile comunicativo alle esigenze del contesto
e dei singoli allievi. Invece questo è avvenuto e colpisce che questo riguardi il
3% dei docenti italiani, il 3,6 di quelli irlandesi ed addirittura il 15,4% di quelli
polacchi.
61

62
16. Quanto ritiene
giusto adattare
i propri stili e le
proprie strategie
comunicative alle
esigenze del contesto
e dei singoli allievi?/
Should one adapt his/
her personal style
and communication
strategies to the
situations and the
needs of the individual
students?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Molto/very much 47,9 64,6 46,2 67,9 53,1
Abbastanza/quite 49,1 35,4 38,5 28,6 43,8
Poco/little 3,0 0,0 15,4 3,6 3,1
Per niente/not at all 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0
Degne di approfondimento appaiono anche e risposte alla domanda con cui si
cerca di capire se l’insegnante parla della sua vita privata con i ragazzi. Forse
il termine “privato” è un po’ forte e forse sarebbe stato meglio utilizzare “familiare”.
In ogni caso non è privo di significato che usino in pochi casi la risposta
spesso, con i docenti tedeschi e polacchi che non lo fanno neanche in un caso.
Quelli che appaiono meno disposti a parlare di sé sono i docenti polacchi, che
nella percentuale del 53,8% rispondono addirittura di non farlo “mai”. Conforta
che almeno il 38,7% risponda qualche volta, convinti come siamo che mostrare
la propria umanità sia un elemento essenziale della professionalità educativa e,
più in generale, di tutte le professioni che fanno della cura uno dei propri tratti
fondanti. Ritengo, infatti, che parlare del proprio comportamento di padre o di
madre, aiuti molto i ragazzi a capire valori importanti quali quelli del rispetto
delle regole, impegno nello studio, coerenza di comportamenti, etc.
17. Nel corso delle lezioni
parla con i propri allievi
della sua vita privata ?/
Do you speak of your
personal life during the
lesson?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
spesso/often 4,2 0,0 0,0 7,1 3,5
qualche volta/sometimes 41,3 37,5 7,7 39,3 38,7
raramente/seldom 42,5 56,3 38,5 39,3 44,5
mai/never 12,0 6,3 53,8 14,3 13,3

Ancora più interessanti appaiono le risposte riguardo l’incidenza del mondo
emozionale dei ragazzi sul loro successo scolastico. Quasi tutti, infatti, sono
convinti che questo corrisponda al vero e – quindi - si capisce poco perché in
precedenza non abbiano colto con maggiore forza l’influenza delle relazioni riguardo
il rendimento scolastico degli alunni. Al riguardo colpisce anche come in
Italia esistano ancora degli insegnanti che possono pensare che le emozioni non
abbiano alcun ruolo nel processo di apprendimento degli alunni. Questa convinzione,
peraltro, è assai più diffusa di quanto non appaia dalle risposte ricevute
che, come abbiamo già scritto, provengono dalla parte migliore della categoria
docente operante presso le scuole coinvolte nel progetto.
18. A suo modo di vedere
il mondo emozionale dei
ragazzi influenza il loro
successo scolastico?/ Do
you think the students’
emotional life influences
their success at school?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Molto/very much 44,9 66,7 84,6 75,0 54,3
Abbastanza/quite 48,5 33,3 15,4 25,0 41,4
Poco/little 6,0 0,0 0,0 0,0 3,9
Per niente/not at all 0,6 0,0 0,0 0,0 0,4
Tale constatazione appare anche più preoccupante alla luce del fatto che – almeno
a livello specialistico - le relazioni, insieme ai saperi ed ai “valori” (Frabboni,
1999), vengono considerate come elemento centrale della esperienza
scolastica. Questo anche alla luce della convinzione, giustamente sempre più
diffusa, che la collegialità costituisce aspetto imprescindibile del lavoro scolastico,
dove il gruppo degli insegnanti deve poter operare in maniera collegiale.
Anche per questo, quindi, si possono avere atteggiamenti di rifiuto del gruppo
di lavoro che possono avere alla base motivazioni di tipo intellettualistico, culturale
e psicologico. Diversi, infatti, sono gli ostacoli che possono condizionare
negativamente il funzionamento di un gruppo. Proprio per questo occorre essere
consapevoli che parecchie dinamiche relazionali sono connesse alla vita
stessa di tale organismo e che la crescita di quest’ultimo non può mai essere
pensata come lineare, senza il superamento delle difficoltà che via via possono
presentarsi.
A tale scopo, perciò, si riveleranno particolarmente utili esperienze di formazione
in servizio che facciano acquisire capacità di “ascolto” e che, in definitiva,
mettano in condizione di lavorare proficuamente con gli altri. A questo proposito
Gioacchino Petracchi (1993, 216) scrive giustamente che «fra i doveri dell’insegnante
vi è preminente quello di accettare e comprendere gli allievi coi quali
63

64
viene in rapporto. Ciò esige autenticità dei comportamenti: autenticità come
espressione sincera di intenti diretti a capire per poter porgere i necessari apporti
educativi. Il rispetto per la personalità dell’allievo non può sostenersi solo
sulla doverosità dell’impegno educativo: questo atteggiamento non dà vitalità
sul piano educativo. Occorre una considerazione positiva sorretta da sincero
calore umano».
La capacità di attivare relazioni gratificanti ed “incoraggianti” con gli allievi appare
quindi essenziale nella definizione dei caratteri della scuola accogliente
e di una rinnovata professionalità docente. Questo alla luce della convinzione
che il comportamento degli insegnanti è essenziale ai fini dello svilupparsi di
personalità equilibrate ed anche della stessa riuscita dei ragazzi nelle attività
scolastiche. «Gli studi sull’agire dell’insegnante - scrivono giustamente a questo
riguardo Herbert Franta e Anna Rita Colasanti (1991, 25) - portano a concludere
che la cura della dimensione relazionale e la strutturazione attenta della
situazione apprenditiva costituiscono importanti fattori proattivi per la riuscita
integrale degli allievi. La considerazione di tali fattori da parte dell’insegnante
presuppone una modalità peculiare di approccio ai discenti, modalità che è nota
come “incoraggiamento”, che è da intendere come un processo di cooperazione
tra insegnanti e allievi che mira a generare in questi ultimi uno stato d’animo
positivo, di coraggio, rispetto alla possibilità di superare le diverse situazioni e
raggiungere gli obiettivi preposti».
In più occasioni è stato infatti sottolineato come l’autostima e la fiducia in se
stessi dei ragazzi sia proattiva ai fini del successo scolastico, anche perché promuove
la loro motivazione allo studio (De Beni, 1999). Ecco quindi che l’insegnante
deve porsi il problema del livello delle conoscenze di una classe o di un
allievo, prima di proporre una qualche prova. Al contempo deve rendere il più
“oggettivo” possibile – e condiviso dagli studenti – il momento della verifica,
in maniera tale che l’allievo possa acquisire consapevolezza dei suoi limiti ed
impegnarsi per superarli. È ovvio che, in questo contesto, l’insegnante si deve
porre anche il problema del “metodo di studio” aiutando i ragazzi a rendere più
produttivo il loro impegno.
L’insegnante incoraggiante deve ovviamente puntare a sviluppare nell’allievo
autostima, fiducia, sicurezza, interesse sociale, capacità di cooperare e di sviluppare
attività. Al contempo egli deve essere orientato da una serie di principi,
il primo dei quali riguarda la necessità di promuovere le attività degli allievi facendo
riferimento alle loro motivazioni interne. Al contempo l’insegnante deve
essere capace di comprendere la realtà specifica del singolo allievo, acquisendo
consapevolezza degli eventuali problemi che possono derivare dalla sua storia
personale oppure dall’ambiente familiare di provenienza. In questo caso, infatti,
gli allievi si sentono considerati e rispettati e più facilmente acquisiranno quella
sicurezza che è imprescindibile per poter ottenere risultati nello studio.
A tale proposito l’insegnante incoraggiante deve però imparare ad ascoltare i
propri allievi, contribuendo a costruire una scuola accogliente, che davvero concorra
a sconfiggere il fenomeno del disagio scolastico. Per fare questo occorre
però che gli insegnanti imparino ad affrontare tale fenomeno «in una scuola –

come scrive Paolo Crepet, (2001, 67) - disposta ad accogliere collettivamente
quel disagio senza delegarlo allo psicologo di turno. Se pretende di educare,
la scuola ha il compito di saper ascoltare. L’ascolto è un problema reale degli
insegnanti».
Ma il principio più significativo che l’insegnante incoraggiante deve avere presente
è a nostro avviso quello del “sottolineare il positivo”, che richiama l’opportunità
di sottolineare gli aspetti positivi delle prestazioni dei bambini, senza
enfatizzare quelli negativi. «L’insegnante che segue tale principio - scrivono ancora
Franta e Colasanti (1991, 27) - preferisce riconoscere gli sforzi e i tentativi
degli allievi nel conseguimento delle mete desiderate, piuttosto che rilevare le
loro manchevolezze o insuccessi. L’apprezzamento dello sforzo e dell’impegno
posti incrementa negli allievi la fiducia circa la possibilità di controllare le situazioni
scolastiche; al contrario l’evidenziazione degli errori produce scoraggiamento».
La competenza relazionale deve inoltre avvantaggiarsi della conoscenza dei
problemi e delle tecniche della comunicazione in situazione scolastica (Cambi,
1996), a cominciare dalle strategie della conferma e del rinforzo sociale, di cui è
stata rilevata l’indubbia utilità. A questo proposito, allora, si tratta di avere presente
che, per quanto riguarda la comunicazione non verbale, l’atteggiamento
di conferma passa attraverso comportamenti non verbali quali sguardi, gesti,
postura del corpo ed il tono della voce. Ad esempio nella scuola dell’infanzia
o elementare dire qualcosa al bambino con tono ironico o minaccioso provoca
infatti il suo disorientamento e finanche il blocco della verbalizzazione. Anche
la posizione del corpo ha evidentemente un suo significato: la vicinanza fisica
rassicura evidentemente il piccolo, che trova inoltre motivo di sicurezza nell’attenzione
che l’adulto gli dimostra, guardandolo direttamente oppure volgendo
spesso verso di lui lo sguardo ove l’attività si svolga nel gruppo. L’annuire ed il
sorridere costituiscono infine due comportamenti non verbali che confermano
e rassicurano l’allievo. Molte ricerche hanno in effetti rilevato che la comunicazione
non verbale assume per i bambini, con il passare dell’età, una importanza
sempre crescente (Selleri, 1994, 164).
Riguardo invece la comunicazione verbale è stato rilevato in numerosi studi la
utilità della descrizione della situazione. Altri atteggiamenti che possono rivelarsi
confermanti possono essere inoltre le richieste di chiarimento di informazioni,
le espressioni di incoraggiamento e le espressioni di interessamento. Allo stesso
modo sono state valorizzate la ripresa ad eco o risposta a specchio e la riesposizione
dei contenuti. Quest’ultima, a seconda delle competenze linguistiche del
bambino, può assumere la forma di espansione (cioè completamento della frase
nella sua riesposizione) o parafrasi (cioè riesposizione del contenuto con altre
parole). Particolarmente utile, comunque, si è rivelata la tecnica, di derivazione
rogersiana, della conferma come ripresa ad eco o a specchio che favorisce la
libera espressione dei soggetti.
La utilizzazione di tale tecnica, detta anche tecnica del “rispecchiamento verbale”,
consente di proporre all’allievo una continua stimolazione, in quanto lo si
pone in condizione di esprimersi continuamente, poiché l’insegnante si limita a
65

66
verbalizzare i suoi comportamenti, a riassumere quanto lui ha detto, dimostrando
attenzione per la sua verbalizzazione e ridandogli continuamente la parola.
Oltre a questo - come ben ha rilevato Lucia Lumbelli (1982, 171) - «fin dalla sua
definizione in generale l’intervento a riflesso assume la fisionomia di manifestazione
di attenzione. Si può dire infatti che esso rappresenta una testimonianza
verbale dell’attenzione di chi ascolta a chi sta parlando, anzi è un intervento che
intende rappresentare soltanto e specificamente tale testimonianza. È un comportamento
verbale che consiste nel riprendere qualche aspetto del discorso
altrui nella forma della constatazione dubitativa, in una forma cioè che esprime
un’ipotesi di comprensione». Questa strategia implica l’accettazione di quanto
l’interlocutore viene esponendo e si fonda sulla necessità di non esprimere valutazioni
di alcun tipo, negative o positive che siano. Anche la presenza delle
seconde, infatti, è un’implicita ammissione della possibile esistenza delle prime
e ciò può inibire il fluire della conversazione.
Si tratta invece di mostrare attenzione continua per l’interlocutore e di dimostrare
comprensione nei confronti del suo discorso, che potrà arricchirsi e svilupparsi
in maniera più articolata, anche in virtù delle domande “incoraggianti”
dell’insegnante e del suo atteggiamento complessivo di conferma. In questo
modo, infatti, l’insegnante può davvero attivare un rapporto “diretto” con l’allievo
ed assumere correttamente un ruolo incoraggiante e di “facilitatore”, che
caratterizza di una nuova eticità la professionalità docente e che è certamente
a fondamento della cultura dell’accoglienza.

3
Relational Competences of Teachers.
“Welcoming” and Learning
The issue of teaching and its complexity is, therefore one of the essential elements
of the reform and of the qualification of the school system. In this
perspective, the cultural disciplinary and didactic competences along with the
relational and reflexive ones seem important. The Link project concentrated in
particular on relationships and with this in mind, a questionnaire specifically for
teachers was created. It was completed by teachers in the various countries and
gave rather different results. We can, however, attribute these results to the
different numbers of questionnaires completed in each country. 167 teachers
completed it in Italy, 48 in Germany, 13 in Poland and 28 in Ireland. Furthermore
we must also bear in mind, that at least in the case of Italy, the results
do not represent all the teachers in the schools participating in the project, but
only a part of the teachers: those that are more interested in improving school.
It is also true to say that the number is not totally insignificant, therefore we
can hold that the results are significant.
The analysis of the biographies immediately permits us to reflect on the comparison
of results. In particular it is immediately possible to notice that Italy has
the lowest percentage of male teachers (32.3% male to 67.7% female). Indeed
the age-old trend of female teachers is also evident in secondary school. It is
also worth mentioning that the Irish situation is similar to the Italian one (35,7%
males to 64,3% females). The German situation is quite striking as there are
more males than females in the teaching profession (62.5% to 37.5%) Poland
has 46.2% of male teachers to 53.8% of female ones.
1.Sex ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
Male 32,3 62,5 46,2 35,7 39,1
Female 67,7 37,5 53,8 64,3 60,9
The data also tells us that as regards age, Italian teachers are not much older
than their project partners. The same can be said for years of service. It is
worth mentioning that the Irish teachers are younger and have more years of
service. This shows that their teaching career starts when they are still young.
67

68
2. Age ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
less than 25 0,0 0,0 0 0,0 0,0
25 to 35 7,2 18,8 8 28,6 11,7
36 to 45 24,6 14,6 46 17,9 23,0
46 to 55 54,5 29,2 38 42,9 47,7
56 to 60 12,6 29,2 0 7,1 14,5
over 60 0,6 8,3 8 3,6 2,7
4. Total years of
teaching experience :
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
0 to 5 years 12,0 16,7 23,1 28,6 15,2
6 to 10 years 7,8 16,7 15,4 7,1 9,8
11 to 20 years 28,1 16,7 30,8 7,1 23,8
21 a 30 years 40,7 16,7 23,1 42,9 35,5
over 30 years 11,4 33,3 7,7 14,3 15,6
The first answer to the question regarding the teacher’s tasks shows us a diffused
belief regarding the importance of teaching the actual subject. This belief
is higher in Ireland 53.6%, Germany 43.8%, Poland 38.5% and Italy 34.7%.
These percentages show a very important aspect of the teaching profession but
also lets us understand that the secondary school teacher finds the main element
of his identity in the subject he teaches. In each case the other answers
expected concerning the “educating to the main values of “human society” also
appear significant whereas the answer which emphasizes the importance of
“encouraging relationships” was not chosen often. As regards this, it is striking
that Italian teachers are those that have chosen this option least. The priority
of relationships was listed as 23.1% by Polish teachers, 14.6% of German
ones, 14.3% of Irish teachers and 12% of Italian ones. The latter are convinced
that “promoting learning motivation” are more important whereas most of the
teachers believed that “promoting the development of critical attitudes” was
not important. It is true to say that this last term needs to be better explained
in that if it was read using common sense and not with a view to its pedagogic
sense, the result could change

8Among the following tasks rank (1 to 5)
the following in terms of your priority as a teacher: ITALY
teaching specific subjects 34,7 43,8 38,5 53,6
convey the basic values of human society 23,4 37,5 15,4 17,9
promote the development of critical attitudes 7,8 2,1 7,7 3,6
favour learning through encouraging relationships 12,0 14,6 23,1 14,3
promote learning motivation 22,8 2,1 15,4 10,7
This high level of awareness regarding the communication between teacher and
pupil can again be noted in the question regarding the factors which determine
school success. In this case teachers from all countries except Ireland believed
it in more than a third of cases- Italy has a score of 40.1% in Italy, 37.5% in
Germany, 38.5% in Poland while Ireland scored 30.4%. It is also noteworthy
that none of the few teachers believed that school success is influenced by family
background. As regards the latter, other factors could be the history of the
country and the political situation which that country has lived. It is also interesting
to note that few teachers apart from the Poles are convinced that school
success also depends on the teachers’ knowledge of the subject taught. This
can also be interpreted as being conditioned by an auto referential view which
does not put into discussion the efficiency of teacher intervention. To prove this
we can state that more than 1/3 of the teachers answered that school success
was due to the “intellectual capacity and general maturity of the pupil”. This
would indicate, that in the end, it is the result of greater or less intelligence in
the student.
GERMANY
POLAND
IRELAND
69

70
9. In your opinion what factors
determine the school results of a
student? (indicate two)
Intellectual capacity and general
maturity of the student
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
36,5 32,3 30,8 39,3 35,7
Family background 6,9 16,7 0,0 16,1 9,4
Quality and quantity of relationships
between teachers and parents
Efficient communication between
teacher &student
Disciplinary competence of the
teacher
4,5 3,1 3,8 3,6 4,1
40,1 37,5 38,5 30,4 38,5
12,0 10,4 26,9 10,7 12,3
The data regarding the question on evaluation also seem interesting. It results
that the Polish teachers are careful regarding the expression on “results” and
less so regarding the socio-cultural integration of the students which instead is
significant for the Italian teachers and even more so for the German ones. At
the same time it is interesting to notice that Italian teachers are more worried
than the others about taking into account the different attitudes of the students
so that they can be developed. In the same way, it would be interesting to understand
the real interpretation of the teachers in the different countries of the
expression “put into evidence the individual differences of the students”. Very
probably some could read it positively so that the potentialities of each student
can be enhanced, whereas we seem to understand that some understand it in
a comparative light with the intent of identifying the “better” and the “worse”
students.
10. Assessment in schools should
(tick two answers):
promote socio-cultural integration of
students
advise on choices according to
aptitude
evaluate students according to their
results
evaluate the effectiveness of
teaching
highlight the individual differences in
students learning approaches
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
23,1 28,1 3,8 16,1 22,3
34,7 28,1 23,1 25,0 31,8
13,5 8,3 38,5 28,6 15,4
23,1 14,6 19,2 17,9 20,7
5,7 20,8 15,4 12,5 9,8

As regards the factors which are to blame for students failing in first year of
High School, most of the people were of the same opinion except for the Poles
who firmly believe that socio-cultural background which was not ideal for the
type of school chosen was responsible. This appears to contradict the previous
data on school results as none of the Polish teachers answered that “family
background” was responsible for school results. At the same time we should
highlight that the German teachers are not very convinced of the fact that one
of the main causes for failure is due to bad preparation at junior secondary
school (6.3%).The teachers from other countries believe differently –32.3%
of Italian teachers, 30.8% of Polish ones and 35.7% of Irish ones believe that
failure is due to bad junior school preparation. Obviously few teachers believe
think that reception activities held by the school are responsible for failure even
because it would have been more opportune to give a more complex definition
to “reception” which is not the first few days of school but to be understood as
a general welcoming and empathic atmosphere.
11. What determines students’
failure at secondary school
level:
insufficient preparation at primary
school level
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
32,3 6,3 30,8 35,7 27,7
wrong choice of subjects taken 38,9 20,8 7,7 3,6 30,1
secondary school does not
organize good reception initiatives
lack of offer of personalised
learning paths
students come from “wrong”
background environment for that
school
7,2 12,5 0,0 3,6 7,4
34,1 43,8 15,4 32,1 34,8
3,0 16,7 46,2 25,0 10,2
The ever spreading awareness that the role that emotions play on learning has
contributed to highlighting in a part of Italian teachers, the problem of reception
at school even if it was often made banal by the reference to “first day”
anxiety. In reality- as Gianfranco Stacciali rightly wrote (1998, 23) “reception
activities is complex work method, it is a way of being adult, it is a key in the
education process” . The culture of reception implies respect for the students
and their needs, without this leading to drifting of spontaneous character. “Reception
is not casual” continues Stacciali (1998, 25), rather it is recognising
that real life is also cultural or can become so, it is reaffirming that “inside”
71

72
daily life many fields of experience develop, it is discovering that the difference
between experience of the child and “disciplinary” experience is only a matter
of difference in grade and not a difference of nature”.
Thanks to the culture of reception, both students and teachers can live in school
in a new fashion compared to the past. We do not, however, by stating this,
wish to say that learning and teaching is only a game. Studying and learning
cost sacrifice and effort which mustn’t be confused with physical and psychological
boredom and unease. To make myself clear, when I talk about sacrifice
and effort, I intend a school in which both students and teachers are aware of
the importance that they are experiencing, as a consequence, make an effort.
It is certain that the passage to the “new” school is a novelty for the child and
is a significant move. This move is not necessarily negative and may also be
stimulating for the students if well-managed. It is configured as an original occasion
of discontinuity which shouldn’t be treated as a “demon” as was done
in the past when the value, albeit doubtful, of continuity was emphasised ,
because it could have omitted to take into consideration certain discontinuous
passages which characterize the evolution of the individual. Cesare Scurati
writes “The idea of continuity must not be confused with that of uniqueness”.
In the same way, it must be made more clear that the notions of unity and
continuity must be integrated with those of discontinuity and differentiation. On
reflection, the validity of educative continuity tries to aid the difficulties which
the child encounters when passing up from one school to the other. It also appears
correct to mention that the novelty and having to face new difficulties is
not necessarily negative for the child. In other words, we would like to highlight
that praising the perspective of continuity cannot be founded on ignoring the
essential function of discontinuity , as development and formation are due also
to the unexpectedness and discrimination of experiences.
The moments of passage from one level of school to the next seem emblematic
as they are considered moments of discontiuity. We believe that if these moments
are well managed, they can be am opportunity for growth of the student
and ask of him, things which he didn’t have to face up to previously. It is also
obvious that we mustn’t ask too much as we risk putting his ability to adapt to
great test.
In the light of the considerations made up to now, it seems clear that the passage
to a new level of school must be carefully planned by the teaching team so
that a good relationship can be created between the students and adults even if
it is obvious that reception, strategies, in particular “initial” reception cannot be
the same in all stages of school. In particular it is important that teachers and
students get to know each other well and students must familiarize themselves
with the school, i.e. with spaces, new adult faces and rules. At the same time,
students must be made familiar with the work they have to do through activities
of continuity which permit the teachers to learn the levels of competence
of the individual students.
During these first moments of school experience the behaviour of the child and
his way of interacting with classmates and teachers must be observed. Collect-

ing information regarding his personal and family background and past school
experience proves useful, as does gathering information regarding the way the
first activities were handled. It is for this reason that individual talks with parents
are important. “Personal files” which each student should have from previous
schools are an invaluable tool as they provide individual information on
the student, and integrate the results of different tests with data gathered and
other means of evaluation to make a “biographical profile” of each student.
The information contained should not only hold information on the behaviour
and the competences obtained but should also house information such as didactic
and methodological choices. The relationship between teachers of different
grades of school should not only come about by consulting “personal profiles”
but also by checking the individual activities and experiences of the child. In
this way we can contribute to a single curriculum seeing as in the first meetings
the teachers of the different school stages should start talking the same language
and compare specific aspects of didactic practices. This way of working
should enhance the aspect of continuity and must constitute for all teachers a
“normative ideal” which gives intellectual tension and makes everybody participate
in a convinced manner to a process which appears long and difficult but is
of utmost importance if we want to “refurbish” school.
Reception and Peer Education
Organising reception activities cannot mean, as has already been said, worrying
about the first day of school or first period for new students. It also means
this, but specifically it means that the “new” students feel welcomed and can
familiarize themselves with the new environment and people. This is why it
is important for students to cooperate and highlight what is today known as
peer education. Peer groups are fundamental for the child and the adolescent
to build their own identity. Peers help socialisation and allow children to put
themselves to the test yet have someone similar to them to talk to and to compare
themselves with. Awareness of the utility of relationships between peers
spurred the introduction of specific programmes of peer education in the seventies
and were originally set up to help children with difficulties learn better.
Research work, including an experience which we carried out in the schools of
the Empoli area –Florence, Tuscany (Catarsi, 2004) has shown that such programmes
are useful both for tutors and for students who turn to their friend
for support. The former have the chance to increase their self-esteem and their
consideration for school, the latter are reassured by the fact that some information
or explanations are given by their classmates who use a similar language
and do not evaluate. It is essential to train tutors to develop communication
techniques, to manage a group, to giving help and specific techniques which
can help acquire positive attitudes to listening and aid. It is obvious that teachers
first must remember that the tutors themselves are their pupils so they
73

74
cannot be given responsibilities which belong to the school and to the teaching
body. At the same time, the teacher cannot “delegate” to the tutor tasks which
are his and which he personally must carry out. If we avoid these risks the
whole class can benefit from peer education, which is also an important tool to
beat the phenomenon of bullying, the violent behaviour and aggression which
some students inflict on others. Many studies on this phenomenon have been
carried out in the past twenty years, recently in Italy too (Fonzi, 1997). In these
studies, the dangers of bullying have emerged. Many adults have a paternalistic
attitude and admit that bullying exists or they may even make theories that it is
useful to form character. However, studies have shown that “high-handedness”
can have negative effects on the victims who suffer as they lose self-esteem
and develop feelings of depression. At the same time, it has been revealed that
the risk also exists for bullies in particular as regards developing deviant and
antisocial behaviour.
So we have the opportunity to put intervene and get children to reflect on the
phenomenon and acquire the strength to distance themselves from bullies and
their violent behaviour. As was rightly written by Ersilia Menesini and Beatrice
Benelli “support programmes between peers intend to answer for the need to
beat violence and oppression and promote respect and reciprocal help. These
programmes are not a substitute for educational actions or the emotional support
of parents and teachers but try to favour solidarity and social help starting
from the peer group. They are based on the fact that children often turn to
other friends to ask for help when they are in trouble, are frustrated or worried.
They hang on to the natural power of the children to console, give help and
support to friends in need”. (Menesini, 2000, 117).
It therefore appears useful to invest on peers as “agents of change” by relying
on the natural social skills of the children, on their ease at forming empathic
relationships and of putting themselves in the shoes of these who are in trouble
or find themselves in a situation of unease. Several researches (Cowie-Sharp,
1996) have also shown how children can really help peers in difficulty and how
this intervention is often more valid than that of a professional, in particular
when they have been specifically prepared. “On the other hand it is known
that children and adolescents prefer by far talking about their problems to a
classmate or friend rather than parents, teachers or psychologists” (Menesini
& Benelli)
Communication between Teachers and Pupils.
The questionnaire contained a part which was to investigate the opinion of the
teachers on their own initial training which, in general, appears to be positive,
in particular as regards the contents of the subjects studied. As regards this,
the attitude changes a lot since the belief of being well prepared only interests
the Italian teachers. The German ones are more critical as 41.7% believe they
are not well prepared and 14.6% not at all prepared. The same goes for the

knowledge of general education problems for which the German teachers and
Irish ones say they are not al all prepared. This could be due to the fact they
are more critical and more aware of the problem. A more widespread negative
perception regards “relational competences”. More than 2/3 of teachers believe
they possess them and they were surpassed only by the Polish teachers,
84.6% of which believe they have “relational competences”. The German and
Irish teachers were more cautious regarding their reply as I repeat, probably
because of an increased awareness in the problem. In each case in order to
check the realness of these answers they must be compared to the students’
and parents’ answers regarding the same question. Probably the dimension of
good relationships will not be the same for all parties involved in the study.
Regarding the relational competences there are significant differences between
the teachers in the different countries. Two thirds of the German teachers believe
that they are “an expression of the personality of the individual” (68.8%)
followed by the Irish teachers at 60.7%. The Italians, marked this reply in
35.5% of cases and the Poles in 38.5%. Regarding this, other considerations
must be made as it is striking that so many teachers express themselves according
to common sense and betray an evident lack of psychological and pedagogical
preparation. However 53.9% of Italian teachers believe that this can be
developed during initial training.
The contradiction regarding reflections on relationships is clear in the answer to
a “neutral question in which we ask if “ways of relating can influence performance
levels in students.”
75

76
WHOLE
VERY QUITE LITTLE NOT AT ALL
12. Do you consider
your initial training
adequate for the
following issues
IRELAND
POLAND
GERMANY
ITALY
IRELAND
POLAND
GERMANY
ITALY
IRELAND
POLAND
GERMANY
ITALY
IRELAND
POLAND
GERMANY
ITALY
Subject contents 44,3 39,6 61,5 53,6 46,1 39,6 15,4 35,7 7,8 18,8 23,1 7,1 1,8 4,2 0,0 3,6
28,1 39,6 38,5 25,0 52,1 4,2 30,8 42,9 15,6 41,7 30,8 28,6 4,2 14,6 0,0 3,6
Specific teaching
strategies
15,0 39,6 53,8 25,0 56,9 6,3 38,5 50,0 20,4 47,9 7,7 21,4 7,8 25,0 0,0 3,6
General teaching
strategies
20,4 39,6 46,2 0,0 47,9 8,3 23,1 25,0 22,8 43,8 23,1 42,9 9,0 31,3 7,7 32,1
Educational
difficulties
24,0 39,6 53,8 17,9 43,7 6,3 30,8 25,0 24,0 39,6 30,8 39,3 8,4 41,7 7,7 17,9
Relationship with
students

Even in this case, there are differences since the answers which mark relationships
as very important are different depending on the country: 36.5% Italy,
58.3% Germany, 84.6% Poland & 60.7% Ireland. The teachers answered, indeed,
in the majority of cases, affirmatively, evidently because the request is
impersonal and makes no reference to the precise role of the teacher. Obviously
the different interpretations of the word relationship is significant and
perceived differently depending on the country.
13. Do you think a teacher’s
ability to relate to students:
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
is inborn 6,6 6,3 7,7 32,1 9,4
should be developed during the initial
training course
is expression of the teachers’
personality
is a result of teachers’ cultural
background
53,9 25,0 38,5 7,1 42,6
35,3 68,8 38,5 60,7 44,5
4,2 0,0 15,4 0,0 3,5
The Italians, in any case are more sceptical regarding the influence of relationships
on school success, conditioned as they are by the importance connected
to knowledge of the subject and by initial training which has certainly not given
them cross competences of psychological and pedagogical character.
14. Do you believe that
relationship within a class can
influence students’ performances
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
very much 36,5 58,3 84,6 60,7 45,7
quite 48,5 41,7 15,4 39,3 44,5
little 13,8 0,0 0,0 0,0 9,0
not at all 1,2 0,0 0,0 0,0 0,8
Regarding the amount of satisfaction connected to the relationship with students
there are no significant differences even if in this case we must report
that the only teachers who have given negative answers are the Italians.
77

78
15. During your teaching
career, your relationship with
students, in general, has been:
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
very satisfying 42,5 41,7 38,5 46,4 42,6
quite 52,1 58,3 61,5 53,6 53,9
little 4,2 0,0 0,0 0,0 2,7
not at all 1,2 0,0 0,0 0,0 0,8
It was also difficult to think that any teacher could answer negatively to an
obvious question such as the one which asked about the willingness to adapt
one’s own style of communication to the requirements of the context and of
each student. This, however happened and strikes 3% of Italian teachers, 3.6%
of Irish ones and an amazing 15.4% of Polish ones.
16. Should one adapt his/
her personal style and
communication strategies
to the situations and the
needs of the individual
students?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
very much 47,9 64,6 46,2 67,9 53,1
quite 49,1 35,4 38,5 28,6 43,8
little 3,0 0,0 15,4 3,6 3,1
not at all 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0
It is worth going deeper into the questions in which we try to understand if the
teacher talks about his private life with students. Maybe the term “private” is
rather strong and it could have been more opportune to use “family”. In each
case it is not meaningless that often is used in few cases- the Germans and the
Poles didn’t use this term at all. Those who seem to be less willing to talk about
themselves are the Polish teachers who, in 53.8% of cases answer “never”. It is
a comfort that at least 38.7% answered “sometimes” which shows that we are
convinced that showing our human side is an essential aspect of our profession.
Moreover, it is an essential aspect in all those professions in which caring is a
key feature. I believe that talking about one’s own way of being a parent helps
many students understand important values such as respecting rules, effort in
studying, coherence in behaviour etc.

17. Do you speak of your
personal life during the
lesson?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
often 4,2 0,0 0,0 7,1 3,5
sometimes 41,3 37,5 7,7 39,3 38,7
seldom 42,5 56,3 38,5 39,3 44,5
never 12,0 6,3 53,8 14,3 13,3
Even more interesting would appear the answers regarding the students’ emotional
sphere and school success. Almost all are convinced that this is true and
we understand with difficulty why they didn’t interpret beforehand the influence
relationships have on school success more strongly. Regarding this fact, it is
interesting to note that there are still teachers who believe that emotions do not
play any role on the learning process of students. This idea is more widespread
than would appear from the answers given, which as we have already written,
come from those teachers who are from the schools involved in the project.
18. Do you think the students’
emotional life influences their
success
at school?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
very much 44,9 66,7 84,6 75,0 54,3
quite 48,5 33,3 15,4 25,0 41,4
little 6,0 0,0 0,0 0,0 3,9
not at all 0,6 0,0 0,0 0,0 0,4
This note is also more worrying in the light of the fact that al least at specialist
level, relationships along with knowledge and values (Frabboni, 1999), are
considered a central element of school experience. This is also in the light of
the belief that, is rightly becoming more widespread, that teamwork is a fundamental
aspect of schoolwork- teachers must be able to work together. Even
for this reason we can see attitudes of refusal of group work which may have
intellectual, psychological or cultural reasons. There are many factors which
can condition negatively the way a group functions. For this reason we must
be aware that many relational dynamics are connected to the life of this group
and that its growth must never be thought of as linear without overcoming the
difficulties which present themselves.
In service training experiences have proved useful as they help acquire “listening”
skills which, all in all, put us in the condition to successfully work with
79

80
others. Regarding this, Gioacchino Petracchi (1993, 216) writes “among the
duties of teachers that of accepting and understanding the students we are in
contact with is one of the most important. This requires authentic behaviour:
authentic as a sincere expression of intentions directed to understanding in
order to be able to give the necessary educational support. The respect for the
personality of the student cannot only be supported by the need educational
commitment: this type of attitude does not give vitality on an educational level.
A positive consideration which is held by sincere human warmth is needed”. The
ability to activate gratifying and “encouraging relations with students appears
to be essential in the definition of the characteristics of a welcoming school and
a new teaching profession. This is in the light of the opinion that behaviour of
teachers is essential to help developing balanced personalities and also to the
success of students in school activities. “Studies on the way the teacher acts”
writes Herbert Franta and Anna Rita Colasanti (1991, 25) “bring us to the conclusion
that a caring relationship and paying careful attention to the learning
situation are important proactive factors for the success as a whole, of the student.
The consideration of these factors on the part of the teacher presupposes
a particular approach to the learners, a mode known as “encouragement” and
is to be understood as a process of cooperation between teachers and pupils
which wants to generate, in the latter, a positive state, of courage, compared to
the possibility of overcoming the different situations and reach the suggested
objectives” .
On several occasions it has been underlined how self-esteem and trust in oneself
is proactive to students’ success at school. This is because it raises motivation
towards studying (De Beni, 1999). Therefore the teacher must ask himself
about the issue of the level of knowledge of a class or a single pupil before
proposing a test. At the same time, he must make testing as “objective” as
possible and agree on them with the students, so that they can become aware
of their limits and try to overcome them. It is obvious that in this context the
teacher must pose the question of “study method” and help the children to
make their efforts more productive.
The encouraging teacher must obviously try to create self esteem, trust, security
social interest, cooperation strategies and develop activities in the student.
At the same time, he must be oriented by a series of principles. The first refers
to the need to promote student activities referring to their internal motivation.
The teacher, at the same time must be able to understand the specific reality of
each student and acquire awareness of the problems that can derive from his
personal history or family background. In this case the students feel considered
and respected and will acquire the security which is all important to be able to
get good study results.
Regarding this point the encouraging teacher must learn to listen to his students,
thus contributing to creating a welcoming school which will really contribute to
beating the phenomenon of school unease. To be able to do this it is necessary
that teachers learn to face such a phenomenon “in a school “ as writes Paolo
Crepet, (2001, 67) “which is willing to collectively welcome that unease without

handing it over to the duty psychologist. If we expect to educate, school has the
task of being able to listen. Listening is a real problem of teachers”.
The more significant principle that the encouraging teacher must keep in mind,
is, in our opinion to “emphasise the positive” which calls for the opportunity to
underline the positive aspects of children’s performance without emphasizing
the negative aspects. “The teacher who follows such a principle write Franta
and Colasanti (1991, 27) prefers to recognize the efforts and the attempts of
the students at trying to reach their targets rather than reveal their weak points
or failures”.
Appreciating the efforts increases the students’ faith that they have school situations
under control; on the contrary highlighting mistakes produced discouragement”.
Relational competence must also boast the knowledge of problems
and techniques of the school situation (Cambi, 1996), starting from confirming
strategies and social reinforcement, which has undoubtedly proved useful.
Therefore we must bear present in non-verbal communication, a confirming
message passes by means of non-verbal language like glances, gestures, position
of the body and tone of voice. For example in infant or primary school
saying something to the child in an ironic or threatening tone can provoke
confusion or speech loss. Even the position of the body has a meaning: physical
closeness evidently reassures the child who also finds security in the attention
the adult gives him, by looking directly at him or at him while he is doing
group activities. Agreeing and smiling are two non-verbal gestures which show
agreement and reassure the pupil. Many studies have revealed that non verbal
communication grows more important for the child as he gets older (Selleri,
1994, 164).
As regards verbal communication, many studies have revealed the value of
describing the situation. Other attitudes which can be confirming can be the
request for further information, expressions of encouragement and expressions
of interest. At the same time echoing or mirroring or repeating what has been
said have been considered invaluable. The latter, depending on the language
skills of the child, can be considered a form of expansion (i.e. completing the
sentence) or paraphrase(i.e. repeating the sentence in other words). The Rogerian
technique of a confirmation given as echoing or mirroring which favours
the free expression of the subjects.
Using this technique, also known as “verbal mirroring” permits us to continually
stimulate the pupil in that he is put in a position to express himself continuously
as the teacher limits himself from talking about his behaviour and summarizing
what he has said, thus showing attention for his verbalization and continuously
letting the child control the discussion. As well as this, as Lucia Lumbelli pointed
out (1982, 171) “ ever since it was defined, the reflex intervention shows a
demonstration of attention. It can be said indeed that it is a verbal testimonial
of the attention of the listener towards the speaker. In fact it is an intervention
which wants to represent only and specifically this. It is a verbal behaviour
which consists in picking up part of another persons discourse in a doubtful
way in a form which expresses the hypothesis of comprehension”. This strategy
81

82
implies acceptance of what the interlocutor says and is founded on the need of
not expressing any type of judgement, be it positive or negative. Even in the
presence of negative opinions, there is an implicit possibility of the existence of
positive opinions and this can inhibit the flow of conversation.
We need to show continuous attention for the interlocutor and show comprehension
towards his discourse which can develop in a more articulate way even
thanks to “encouraging” questions on the part of the teacher and his general
attitude to confirming. In this way the teacher can really activate a “direct” relationship
with the student and take on an encouraging role and be a “facilitator”
which characterises with new ethics the teaching profession and which is
founded on the culture of reception.

4.
Le relazioni tra insegnanti e genitori
Sotto il cielo d’Irlanda
La scuola italiana, come, in generale, quella degli altri paesi europei, non ha
storicamente previsto al suo interno una organizzata presenza dei genitori degli
allievi. Anche per questo il questionario somministrato ai docenti ha previsto
diverse domande tese ad indagare proprio le relazioni tra insegnanti e genitori,
che appaiono diverse nei differenti paesi di appartenenza delle scuole partecipanti
al progetto. In particolare i risultati lasciano emergere con chiarezza un
atteggiamento assai diverso degli insegnanti irlandesi rispetto agli altri. Essi,
infatti, ritengono fondamentale il rapporto tra insegnanti e genitori con una
percentuale del 75%,, mentre la medesima risposta è stata usata dal 21% degli
italiani, dal 6,3% dei tedeschi e dal 30,8% dei polacchi. Allo stesso modo il
molto utile è utilizzato assai meno dell’utile, come si evince chiaramente dalla
tabella pubblicata di seguito. Al contempo non può passare sotto silenzio che
il rapporto in questione viene ritenuto poco utile dal 10,2% dei docenti italiani,
dal 6,3% di quelli tedeschi e dal 7,7% di quelli polacchi, mentre addirittura abbiamo
anche dei docenti che lo definiscono inutile. Emerge quindi, con grande
chiarezza, il carattere autoreferenziale della scuola, che – evidentemente – ritiene
di possedere quel primato educativo che ormai è stato giustamente messo
in discussione dalle ricerche psicologiche e pedagogiche. In particolare si è andata
sempre più evidenziando la veridicità della teoria ecologica dello sviluppo,
secondo quanto sostenuto in particolare da Urie Bronfenbrenner (1979; 1986ab),
in base alla quale è chiaro che lo sviluppo dei ragazzi e lo stesso processo di
apprendimento sono il frutto certamente del patrimonio biologico, ma ancora di
più delle relazioni e dei contesti di esperienza che il bambino e poi il ragazzo fa
in famiglia, nella scuola, nei gruppi amicali, etc.
19. Secondo lei il rapporto
tra insegnanti e genitori è/
In your opinion the parent
–teacher relationship is:
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
inutile/useless 1,2 0,0 7,7 0,0 1,2
poco utile/not really useful 10,2 6,3 7,7 0,0 8,2
utile/useful 43,7 56,3 38,5 17,9 43,0
molto utile/ really useful 23,4 31,3 15,4 7,1 22,7
fondamentale/essential 21,0 6,3 30,8 75,0 24,6
83

84
Più distribuite sono le risposte riguardo il significato di una relazione efficace tra
insegnanti e genitori. Questo è anche frutto di una declinazione delle risposte
tale da prevedere dei significati comunque validi - e seppur in misura diversa –
condivisibili. In ogni caso sembra utile segnalare che i docenti irlandesi sostengono,
in misura considerevole che una relazione efficace tra docenti e genitori
possa avere ripercussioni positive sul rendimento scolastico dei ragazzi. Ed in
effetti alcune ricerche hanno validato questa ipotesi, a cominciare da quelle
di Urie Bronfenbrenner che mostrano come, paradossalmente, pur investendo
meno sul rapporto tra insegnante e allievo ma di più nella relazione tra scuola
e famiglia, si possano ottenere risultati migliori per la crescita del ragazzo. Il
suo sviluppo, infatti, è profondamente influenzato dai caratteri della relazione
fra i vari “sistemi” al cui interno egli si sviluppa. Bronfenbrenner (1979, 327) ha
scritto, appunto, al proposito: «Il potenziale evolutivo legato alla partecipazione
a più situazioni ambientali varierà in proporzione diretta alla facilità e alla quantità
di comunicazione esistente tra le due situazioni in questione. È di importanza
cruciale, a questo proposito, che la famiglia sia inclusa nelle reti di comunicazione
(lo sviluppo del bambino, ad esempio, è facilitato dall’esistenza di canali di
comunicazione aperti in entrambe le direzioni)». Allo stesso modo il medesimo
studioso afferma – utilizzando i dati di diverse ricerche – che i processi stimolati
dalle relazioni tra gli insegnanti ed i genitori sono molto importanti anche ai fini
del successo scolastico dei bambini Bronfenbrenner (1986a/b).
Una più recente ricerca di Huguette Desmet e Jean Pierre Pourtois (1993) – che
abbiamo già avuto modo di ricordare - ha rilevato come la famiglia influenzi in
misura significativa lo sviluppo complessivo del bambino e il suo processo di
integrazione scolastica. Più specificamente è stato rilevato l’influsso derivante
dalla personalità della madre e dai suoi atteggiamenti educativi. La ricerca
mostra comunque come i fattori psico-sociali influiscano a lungo termine sul
percorso scolastico dell’individuo, tanto che la conoscenza approfondita di cinque
variabili psico-sociali, misurate all’età di 5-7 anni, ha consentito di predire
in 7 casi su 10 il percorso scolastico che il soggetto avrebbe poi effettivamente
compiuto.

20. Secondo lei la
costruzione di una
relazione efficace tra
insegnanti e genitori
costituisce/Do you
believe an effective
relationship between
teachers and parents
is:
una strategia necessaria
per migliorare la relazione
tra gli insegnanti e
gli allievi/a necessary
strategy to improve
rapport between teachers
and students
una strategia per
migliorare le possibilità
di apprendimento degli
allievi/ a strategy to
improve students learning
una occasione per
conoscere meglio gli
allievi/a way to know the
students better
uno strumento per
prevenire comportamenti
devianti degli allievi/a
means to prevent
students from straying
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
30,5 12,5 30,8 25,0 26,6
34,1 33,3 15,4 42,9 34,0
24,6 52,1 38,5 10,7 28,9
11,4 2,1 15,4 21,4 10,9
Molto interessanti appaiono anche le risposte alla domanda che cercava di indagare
le ragioni alla base delle difficoltà relazionali esistenti tra genitori ed
insegnanti. Colpisce, in effetti, che i docenti imputino ai genitori una delega
alla scuola della complessiva e generale responsabilità educativa. I dati sono
assai significativi; tale convinzione è infatti propria del 58,7% dei docenti italiani,
del 56,3% di quelli tedeschi, del 46,2% di quelli polacchi e del 57,1% di
quelli irlandesi. Tale posizione – inequivocabile – merita di essere approfondita,
anche perché esplicita una chiara percezione del ruolo docente evidentemente
fondata sulla esclusiva funzione istruttiva, a totale discapito di quella educativa.
È peraltro chiara la responsabilità dei genitori e la loro difficoltà, in molti casi, a
gestire la relazione con i figli ed i conflitti che, specialmente in età adolescenziale,
ne possono nascere. Tanto che invece che di delega sarebbe forse più giusto
parlare di “richiesta di aiuto” dei genitori a delle persone che essi – in generale
- ritengono più preparate anche da un punto di vista educativo. È peraltro al-
85

86
trettanto evidente he la scuola non può pensare di assolvere il proprio impegno
limitandosi al un ruolo di trasmissione culturale, visto che il processo formativo
è caratterizzato anche da una evidente dimensione educativa.
21. Generalmente si
afferma che il rapporto
tra genitori ed insegnanti
è difficoltoso. A suo
modo di vedere perché
esistono tali difficoltà?/
It is a common belief that
the relationship between
parents and teachers is
difficult. Why do you think
such difficulties exist?:
perché i genitori si
preoccupano solo dei risultati
raggiunti dall’allievo nelle
loro materie/because parents
are interested only in their
children’s marks
perché tendono a delegare
ogni responsabilità educativa
alla scuola/ because they
believe only school is
responsible for education
perché sono eccessivamente
invadenti/because parents
are extremely intrusive
perché le esigenze educative
di genitori ed insegnanti sono
molto diverse/because the
educational requirements of
parents and teachers are
very different
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
31,7 16,7 46,2 21,4 28,5
58,7 56,3 46,2 57,1 57,4
1,2 2,1 0,0 0,0 1,2
8,4 25,0 7,7 21,4 12,9
È peraltro vero che i genitori esprimono al riguardo un giudizio altrettanto negativo,
anche se per ragioni opposte. Essi rimproverano ai docenti di parlare solo
dei risultati raggiunti dai ragazzi nelle loro discipline, senza occuparsi in alcun
modo della dimensione educativa. Al contempo parecchi genitori rinfacciano
agli insegnanti di pretendere di parlare solo loro, esigendo un atteggiamento

di esclusivo ascolto. Tale accusa, particolarmente dura, pare però non del tutto
fondata, considerato che gli insegnanti che hanno risposto al questionario sono
convinti – almeno quelli italiani – che, al fine del miglioramento della relazione
con i genitori, sarebbe utile parlare con loro anche di questioni educative. In
effetti affrontare le problematiche educative più significative in appositi incontri
tra genitori ed insegnanti è ritenuto valido dal 35,3% dei docenti italiani, dal
10,4 di quelli tedeschi, dal 15,45 di quelli polacchi e dal 7,1% di quelli irllandesi.
La tipologia organizzativa del colloquio individuale è invece valorizzata di più
dagli irlandesi e dai tedeschi ed assai meno dai polacchi e dagli italiani. Questi
ultimi sono probabilmente condizionati dalla loro esperienza personale del “ricevimento”
che, in effetti, costituisce ormai un “rito” assai discutibile e tutto a
ripensare. Ovviamente non viene disdegnata l’ipotesi di affrontare i problemi
interni alle singole classi, come è giusto e come è sottolineato in particolare dei
tedeschi. Allo stesso modo colpisce favorevolmente che così tanti insegnanti –
eccetto i tedeschi – abbiano sottolineato la validità delle “feste scolastiche”, da
intendere, appunto, come strumenti per coltivare lo spirito di appartenenza e
come momenti per costruire un clima favorevole al confronto ed alla discussione.
22. Che cosa occorre fare
per migliorare il rapporto tra
insegnanti e genitori? What
should be done to improve
the relationship between
teachers and parents?
organizzare incontri comuni di
riflessione sulle problematiche
educative più significative/
organize meetings to discuss
the most significant educational
issues
organizzare colloqui individuali
insegnante-genitore/organize
meetings between teachers and
parents
organizzare feste scolastiche/
organize school events and
parties
organizzare incontri per parlare
dei problemi interni ad ogni
classe/organize class meetings
to discuss specific issues
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
35,3 10,4 15,4 7,1 26,6
19,2 33,3 15,4 42,9 24,2
20,4 2,1 38,5 25,0 18,4
24,6 54,2 30,8 25,0 30,5
87

88
Colpisce anche che così tanti insegnanti dichiarino di avere avuto un numero
insufficiente di incontri con i genitori durante lo scorso anno. Occorre, peraltro,
capire meglio le motivazioni che hanno portato a questo tipo di risposta; in ogni
caso pare trasparire la consapevolezza che occorre avere più tempo a disposizione
per poter avere delle relazioni fruttuose con i genitori
23. Il numero degli incontri
che ha avuto con i genitori
durante lo scorso anno
scolastico è stato/The number
of meetings you had with
parents last year was
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
sufficiente/sufficient 46,1 75,0 30,8 67,9 53,1
insufficiente/insufficient 53,9 25,0 69,2 32,1 46,9
Le relazioni tra la scuola e le famiglie
Le famiglie, peraltro, come emerge anche dalle risposte che hanno dato al
questionario specifico loro somministrato nell’ambito del progetto e di cui viene
dato conto in un altro volume, richiedono alla scuola una maggiore sensibilità
sociale e proprio questa situazione rischia di generare sempre maggiori conflitti
ed è certamente una delle ragioni del crescente malessere della categoria docente.
Gli insegnanti sono, infatti, in generale, restii ad immaginare un rapporto
con le famiglie diverso da quello che solitamente hanno vissuto. Questo anche
in virtù dell’assenza, nel loro curricolo formativo, di esperienze ed apprendimenti
tesi a far loro acquisire competenze di tipo relazionale. In realtà, come è
stato rilevato anche da autorevoli ricerche, la qualità delle relazioni tra la scuola
e la famiglia incide profondamente sul successo scolastico degli allievi e sul livello
delle loro prestazioni (Ravn, 1996).
Le grandi potenzialità insite nelle relazioni tra la scuola e le famiglie comporta
pertanto la necessità di interventi ed iniziative che aiutino i genitori, in particolare
quelli più socialmente e culturalmente svantaggiati, ad acquisire consapevolezza
delle proprie responsabilità educative ed anche dei propri diritti. Tutto
ciò appare anche più importante nella scuola dell’autonomia, quando l’istituzione
scolastica deve avere sempre più chiara l’importanza delle relazioni con tutte
le agenzie formative che – a vario titolo – influenzano il processo formativo
delle nuove generazioni e deve in primo luogo rilanciare la partecipazione dei
genitori, anche per favorire il maturare di quello “spirito di appartenenza” che
può rinvigorire l’identità specifica di ogni singola scuola.
In questo contesto appare preliminarmente imprescindibile ripensare le modalità
di relazione tra gli insegnanti ed i genitori, in maniera da favorire una
maggiore individualizzazione del rapporto. In questo modo, infatti, potrebbero

essere acquisite molte utili informazioni sul ragazzo, che dovrebbero essere
socializzate fra tutti gli insegnanti se esistesse un reale lavoro di gruppo. Per
tale ragione si tratta di ripensare profondamente le caratteristiche del cosiddetto
“ricevimento”, che rischia di presentarsi sempre più come un rito formale
ed inconcludente. Certamente anche la modalità del colloquio individuale – che
sembra di poter suggerire e appare la più incisiva – necessita di alcune garanzie
e cautele. Come scrive giustamente Guido Petter (1998, 174) «non dovrebbe,
anzitutto, trattarsi di un rapporto squilibrato, come succede fra chi ha potere e
chi non ne ha, fra chi può parlare e chi deve solo ascoltare, fra chi può decidere
e chi deve solo conoscere le decisioni prese; dovrebbe invece essere paritario,
fondato sulla convinzione che, in sostanza, l’obiettivo è comune (fare in modo
che il bambino o il ragazzo viva in modo soddisfacente, e con risultati positivi,
la sue esperienza scolastica), e che per conseguire questo obiettivo è importante
che ognuno dei due svolga la sua parte, ma anche che ognuno la svolga
in accordo con l’altro».
Una seconda modalità di rapporto tra insegnanti e genitori che può rivelarsi
utile è quella degli incontri di gruppo. Questo può avvenire, ovviamente, solo
in pochissimi casi. Certamente è imprescindibile che un incontro di questo tipo
avvenga all’inizio di un percorso, quando è necessario che gli insegnanti presentino
se stessi - ed il progetto formativo che intendono realizzare - ai genitori.
È evidente che in questo caso anche le modalità di presentazione possono avere
un significato, visto che le stesse possono rassicurare oppure anche creare nuove
preoccupazioni nei genitori. Allo stesso modo tutti i genitori possono essere
riuniti per discutere problematiche inerenti la vita di una classe oppure possono
essere invitati a partecipare ad assemblee di scuola, organizzate per discutere,
magari alla presenza di qualche esperto, di questioni educative che sono proprie
un po’ di tutti i genitori e della stessa scuola. Ciò comporta, evidentemente,
una diversa consapevolezza da parte degli insegnanti, a cui, peraltro, deve
essere riconosciuto uno stipendio assai più elevato, che ripaghi un impegno
orario maggiore ed un calendario di lavoro più lungo che appare imprescindibile
per una reale qualificazione dell’intervento formativo della scuola. Quest’ultima,
pertanto, anche per queste ragioni, non può più rinviare una riflessione che
orienti nuove modalità di relazione con le famiglie.
La prospettiva cui tendere, allora, non può che essere quella del partenariato
(Bouchard-Talbot-Pelchat-Boudreault, 1998; Bouchard-Kalubi, 2001)anche se
pare corretto ribadire che la situazione del rapporto tra genitori ed operatori
non è la stessa nei diversi gradi del sistema formativo italiano e degli altri paesi
oggetto dell’indagine. Nel nido e nella scuola dell’infanzia, infatti, sono quasi
sempre attive relazioni molto proficue e di carattere individualizzato, mentre
negli altri gradi scolastici il rapporto ha caratteristiche più tradizionali. È peraltro
vero che questo quadro è proprio di tutto il sistema scolastico europeo, laddove
i genitori possono intervenire sugli aspetti gestionali ed organizzativi, ma non
possono in nessun modo interagire sulle questioni relative al progetto educativo
della scuola.
Anche nella realtà europea, peraltro, così come ancora con maggiore eviden-
89

90
za in Italia, il rapporto varia a seconda dei gradi scolastici e dello stesso ceto
sociale di provenienza dei genitori. Quelli che fra questi ultimi sviluppano un
atteggiamento di iniziale partenariato provengono generalmente dai ceti sociali
più “elevati” e costituiscono una netta minoranza. I genitori meno “acculturati”
adottano invece, più facilmente, un atteggiamento di delega, anche perché non
si sentono preparati ad affrontare un rapporto di collaborazione con gli insegnanti.
Significativa, d’altra parte, a questo riguardo è la conclusione cui giunge
uno studio dell’Ocde, nel cui rapporto finale viene affermato che «l’instaurarsi di
un partenariato tra i genitori di ogni ceto sociale e categoria e la scuola frequentata
dai loro figli, è perfettamente possibile, ma ancora relativamente raro» e
che la relazione tra scuola e famiglia rimane «fragile e tormentata» (OCDE,
1997, 66).
La pratica del partenariato risulta, in effetti, assai poco messa in atto, in primo
luogo per l’autoreferenzialità della scuola, ma anche perché non si è mai
discusso a fondo quali potrebbero essere i campi di possibile collaborazione. In
particolare è necessari individuare con precisione le questioni di cui i genitori
possono occuparsi nella scuola, in maniera da evitare equivoci, ma anche in
modo da non fornire alibi ai molti insegnanti che non sono inclini alla cooperazione.
Questo perché – come scrive giustamente Cleopatre Montandon (2001,
290) - «è importante domandarsi a cosa serva parlare di partenariato se le
condizioni che assicurano la partecipazione di tutti non sono garantite» (Montandon,
2001, 290).
La percezione del lavoro docente
Una parte del questionario era dedicato alla problematica dell’aggiornamento
professionale, con una prima domanda tesa a verificare la partecipazione ad
una qualche iniziativa durante lo scorso anno. A tale proposito si evidenziano
le differenze assai vistose tra le diverse realtà nazionali, frutto – evidentemente
– dei differenti contratti di lavoro. Mentre, in effetti, in Germania la totalità dei
docenti dichiara di avere preso parte ad un corso di aggiornamento, questo è
vero per l’ 82,1% degli irlandesi, il 34,5% dei polacchi ed il 31,7% degli italiani.
Riguardo questi ultimi il dato è sconfortante, se pensiamo che questi sono
i docenti migliori e più motivati. Il fatto è che in Italia l’aggiornamento professionale
è frutto di una scelta volontaria e dunque, in una situazione di disagio
generalizzato, non si può certo attendersi di più.
La differenza emerge anche in maniera più vistosa se ci si riferisce ai dati dell’ultimo
triennio. In questo caso emerge la drammaticità della situazione italiana,
nella quale l’aggiornamento professionale si presenta come episodico, anche
perché – evidentemente – delegato alla scelta volontaria del singolo docente.

24. Lei ha partecipato a
corsi di aggiornamento
nell’ultimo anno?(solo
docenti di ruolo)/Did
you take part in service
courses during the
previous school year?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
si/Yes 31,7 100,0 34,5 82,1 50,2
no/no 53,9 0,0 10,3 17,9 37,6
25. A quanti corsi di
aggiornamento ha
partecipato nell’ultimo
triennio? /How many in
service courses have you
taken part in during the
past three years?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
1 48,5 2,1 23,1 14,3 34,8
2 25,7 4,2 15,4 17,9 20,3
3 19,2 12,5 7,7 25,0 18,0
4 o più/4 or more 6,6 60,4 53,8 42,9 23,0
Interessante appare anche l’ultima parte del questionario, laddove si va a cercare
di capire il grado di soddisfazione dei docenti per il proprio lavoro. Il dato
più diretto, frutto della domanda Lei è soddisfatto del suo lavoro, non è di facile
lettura, anche se una parte consistente di coloro che rispondono dichiarano di
essere molto soddisfatti, con la percentuale più alta fra i docenti polacchi che
dalle risposte precedenti non parevano essere entusiasti della propria esperienza.
In ogni caso è vero che la maggior parte sceglie il meno impegnativo abbastanza,
ad indicare, appunto, che il livello di soddisfazione non è elevatissimo
29. Lei è soddisfatto del suo
lavoro?/Are you satisfied
with your job?
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
Molto/very much 26,3 41,7 53,8 25,0 30,5
Abbastanza/quite 63,5 58,3 46,2 64,3 61,7
Poco/little 9,6 0,0 0,0 7,1 7,0
Per niente/not at all 0,6 0,0 0,0 3,6 0,8
91

92
Singolare – anche se comprensibile - è anche che la maggior parte dei docenti
sostenga che la fonte di maggiore soddisfazione è da ritrovare nel rapporto con
gli studenti, Al contempo molti optano per la passione e per la creatività come
elementi di soddisfazione, mentre colpisce il fatto che solo gli italiani siano convinti
che l’insegnamento consenta una formazione continua. Questo aspetto, in
effetti, merita di essere discusso con i docenti tedeschi, polacchi ed irlandesi
per capire davvero se essi ritengono che le sfide poste dalla ricerca scientifica e
dalla innovazione didattica non costituiscano elementi che danno una tensione
intellettuale positiva e stimolano, pertanto, ad un continuo impegno intellettuale.
30. Quali aspetti del suo lavoro
le piacciono di più? (possibili
3 risposte)/Which aspects of
your job do you like best? (tick
up to three)
Il rapporto con gli studenti/
interaction with students
La passione per l’insegnamento/
passion for teaching
La creatività che si può mettere/
creativity in teaching
Il rapporto con i colleghi/
interaction with colleagues
La possibilità di una formazione
continua/the opportunity of a
constant education
Altri motivi (specificare)/other
reasons
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
31,7 39,7 24,1 31,0 32,7
23,5 14,7 37,9 19,0 22,1
24,9 20,7 31,0 14,3 23,2
3,8 19,8 0,0 13,1 7,6
16,2 2,6 3,4 0,0 11,2
0,2 2,6 3,4 2,4 1,1
Colpiscono anche i motivi di insoddisfazione che vengono indicati dagli insegnanti,
i quali segnalano, in primo luogo, un “eccesso” di burocrazia, che però
è lieve per gli insegnanti polacchi. Da segnalare è anche il fatto che la risposta
«guadagno troppo poco» è, in generale, la seconda risposta utilizzata, anche
se a tale risultato concorre il fatto che nessuno degli insegnanti tedeschi l’ha
utilizzata. Significativo è anche il “lamento” riguardo la scarsa considerazione
sociale, che pare essere un cruccio maggiore per i tedeschi (18,3%), seguiti da

irlandesi (17,9%), italiani (15,5%) ed infine, ben distanziati, i polacchi (9,5%).
Uno dei motivi di scarsa soddisfazione è anche individuato nella scarsa partecipazione
dei ragazzi, mentre non vi pare essere rammarico per quella – anche
minore – dei genitori.
31. Quali sono i motivi
di insoddisfazione del
suo lavoro? (possibili 3
risposte)/Which are the
reasons for dissatisfaction?
(tick up to three)
Eccesso di burocrazia/excess of
bureaucracy
Guadagno troppo poco/ low
salary
Mancanza o inadeguatezza
delle strutture/lack or
inadequacy of structures
Difficoltà organizzative/
Difficulties in organization
Scarsa considerazione finale/
little appreciation
Problemi con i colleghi/
problems with colleagues
Scarso interesse da parte
dei ragazzi/little interest and
motivation in students
Scarsa partecipazione dei
genitori/little participation of
parents
ITALIA GERMANIA POLONIA IRLANDA TOTALE
17,6 31,2 4,8 15,5 19,2
22,2 0,0 33,3 7,1 16,9
13,4 20,2 9,5 10,7 14,2
8,5 9,2 0,0 7,1 8,1
15,5 18,3 9,5 17,9 16,0
2,3 1,8 4,8 2,4 2,4
14,5 11,9 19,0 11,9 14,0
4,6 2,8 0,0 2,4 3,8
Altri motivi/ other reasons 1,4 4,6 9,5 3,6 2,6
Non so/don’t know 0,5 0,0 9,5 1,2 0,9
Degne di riflessione, infine, le risposte all’ultima domanda, con cui si chiedeva
se – potendolo fare – “sceglierebbe ancora questo lavoro. Le risposte sono, in
generale, abbastanza confortanti, anche se non lasciano spazio ad un eccessivo
ottimismo. Quelli meno rammaricati, tutto sommato, appaiono gli italiani che
tornerebbero a fare di nuovo il mestiere di insegnante nel 73,7% dei casi, seguiti
dai tedesci per il 68,8%, i polacchi 53,6% ed infine gli irlandesi 53,6%, i
93

94
quali presentano anche la percentuale più alta di risposta negativa, visto che il
25% fra loro dichiara che non sceglierebbe più di fare l’insegnante.
Il dato deve, evidentemente, far riflettere, anche per capire meglio le ragioni
che sono alla base di tale diffusa amarezza, che in Italia pare essere anche più
diffusa che altrove. Il fatto è che la scuola italiana, in particolare in questo periodo
storico, è condizionata da più di una contraddizione. Da una parte, infatti,
viene riconosciuta l’importanza dell’istruzione ai fini dell’emancipazione - sia
economica che culturale - della persona. Dall’altra la stessa diffusione delle istituzioni
scolastiche porta ad un aumento ingente del numero degli insegnanti,
fra le cause maggiori, nell’ultimo ventennio, dello scadimento dei lori stipendi e
del loro stesso riconoscimento sociale. Gli stessi docenti, d’altra parte, in particolare
quelli secondari, aumentano il loro grado di isolamento di pari passo al
livello di frustrazione e finiscono per chiudersi al rapporto con le famiglie. Jean
Pierre Pourtois (1997, 56) scrive al proposito, con una considerazione che vale
almeno per il contesto europeo: «Gli insegnanti sono particolarmente preoccupati
nel difendere i confini tra il ruolo educativo dei genitori e il loro: si sentono
inquieti per l’eventuale ingerenza dei genitori nel loro lavoro e rivendicano la
salvaguardia del loro status di professionisti. Considerano i genitori come dei
dilettanti e non accettano volentieri che i genitori chiedano conto di quanto
viene fatto a scuola. Perciò pongono in atto strategie difensive che mirano a
delimitare il territorio della loro competenza».
La categoria degli insegnanti italiani, d’altra parte, esprime un evidente disagio e
sembra soffrire di una sindrome vagamente persecutoria da parte della società,
verso cui si sente in credito di riconoscimenti sia di tipo economico che sociale.
Tale fenomeno appare assai preoccupante, in quanto mostra di condizionare
negativamente il rapporto tra insegnanti e allievi e famiglie e, più in generale,
tutte le relazioni sociali, interne ed esterne alla istituzione scolastica. I docenti,
in effetti, anche per le ragioni appena ricordate, hanno in generale maturato (in
maniera più o meno latente) una scarsa autostima che, inevitabilmente, produce
– troppo spesso - atteggiamenti di supponenza e comportamenti aggressivi.
È peraltro vero che, al proposito, è sempre opportuno distinguere, in quanto
gli insegnanti della scuola dell’infanzia ed elementare hanno, in massima parte,
modalità comportamentali assai diverse da quelli della scuola media inferiore
e superiore ed anche all’interno di questi ultimi non si possono fare generalizzazioni
assolute. In ogni caso è evidente un alto livello di disagio, frutto di una
molteplicità di cause.
È indubbia, in effetti, la presenza fra gli insegnanti di quella che i sociologi
definiscono la sindrome dello “squilibrio di status”, che sta ad indicare le incongruenze
che caratterizzano certe particolari categorie sociali. Nel caso specifico
degli insegnanti risalta con tutta evidenza l’incongruenza tra l’elevato livello
culturale – che li pone a livello delle élites - e lo scarso riconoscimento economico,
che li pone al livello di ceti sociali con collocazione assai più bassa nella
gerarchia sociale. In questa dimensione – scrive Alessandro Cavalli (2000, 77)
– si vedono “superati” da ampi strati di ceto medio impiegatizio (prendiamo,
ad esempio, i bancari) il cui lavoro è, non solo nell’ottica degli insegnanti, assai

meno qualificato. La nozione di “privazione relativa” si adatta molto bene alla
posizione sociale degli insegnanti: essi fanno parte della élite, ma non riescono
a confrontarsi con essa sul piano economico, anzi, su questo piano si trovano a
competere con gruppi sociali a loro non omogenei sul piano culturale».
Oltre a questo sembra essere venuta meno, almeno in parecchi casi, la gratificazione
che derivava dal lavoro didattico e dalla relazione con i ragazzi. Certamente
questo discorso – ancora – vale in particolare per la scuola media, ma
anche nella scuola elementare cominciano ad intravedersi situazioni di disagio
psicologico da parte di insegnanti che, sempre più insistentemente, si rammaricano
della indisciplina degli allievi e della scarsa “presenza” educativa delle
famiglie. Anche a questo proposito si presenta particolarmente acuta un’ altra
riflessione di Alessandro Cavalli (2000, 78), il quale scrive: «Insegnare a una
massa di studenti per i quali il sapere non è necessariamente un valore, che
sono sui banchi di scuola senza sapere bene perché, richiede competenze professionali
di cui un tempo non c’era bisogno. Insegnare a ragazzi poco motivati
è molto più difficile ed è spesso assai frustrante, perché si stenta a vedere i
risultati e perché i destinatari, gli allievi e le loro famiglie non sono in grado di
riconoscere e apprezzare l’impegno dell’insegnante»
La condizione italiana, peraltro, non pare essere diversa da quella di altri paesi
europei, come mostrano ricerche realizzate in alcune realtà dell’Inghilterra
(Bastiani, 1987), della Spagna (Machargo Salvador, 2001), e della Svizzera
(Montandon, 1992). Altre ricerche di Daniel Gayet (1999a/b) mostrano come
la medesima situazione esista anche in Francia, laddove la relazione tra insegnanti
e genitori è diversificata nei differenti gradi scolastici e si mostra assai
differenziata tra i diversi ceti sociali. Viene così confermato che è improprio parlare
genericamente di “genitori”, in quanto anche l’esercizio della genitorialità e
la percezione del ruolo della scuola sono condizionati dall’appartenenza al ceto
sociale. Nello specifico i genitori appartenenti ai ceti più agiati e generalmente
anche più acculturati – definiti “elitari” da Daniel Gayet (2004, 307) - si reputano
superiori, riguardo l’aspetto educativo, agli insegnanti, considerati alla
stregua di “fornitori di servizi”. Al contempo i genitori provenienti da ambienti
culturalmente svantaggiati – denominati “fatalisti” – si vivono in una condizione
di subalternità nei confronti dei docenti, ai quali è riconosciuta una sorta di
“infallibilità” professionale”, sia dal punto di vista della trasmissione culturale
che dell’educazione in senso lato. È evidente che entrambe queste posizioni
contrastano quella prospettiva di partenariato, di cui abbiamo parlato, che è
essenziale per favorire il successo scolastico del bambino e sono alla base dei
molti “malintesi” che caratterizzano il rapporto tra insegnanti e genitori. Come
scrive causticamente Gayet (2004, 310): «se i genitori ignorano che tipo di allievo
è loro figlio e gli insegnanti a loro volta non conoscono che sorta di figlio
è il loro allievo» finisce davvero che il bambino finisce per essere il solo e reale
“malinteso” di tutta questa storia.
Le difficili relazioni tra insegnanti e genitori sono peraltro un dato assai evidente
anche in Italia, come emerge anche da ricerche realizzate da chi scrive
(Catarsi, 2001 e 2004), i cui risultati mostrano l’insofferenza dei docenti, i quali
95

96
affermano che lo scambio e la discussione con i genitori non sono possibili
poiché questi ultimi tendono ad impadronirsi delle situazioni ed a volerle gestire
direttamente, anche per quanto riguarda gli aspetti didattici. Gli insegnanti
cercano quindi, in generale, di non lasciarsi coinvolgere in una relazione con i
genitori, con l’argomento di essere dei professionisti. E questo appare tanto più
contraddittorio in un periodo storico in cui anche i medici tendono sempre più
ad essere trasparenti ed a coinvolgere i loro pazienti nelle loro cure, rendendoli
consapevoli del loro male e delle motivazioni della terapia. A questo proposito
ha scritto Cleopatre Montandon (1992, 196) con un riferimento alla situazione
svizzera, che vale però anche per quella italiana e forse anche per quelle delle
altre scuole coinvolte nel progetto: «Per numerosi insegnanti lo stabilire dei
rapporti con i genitori è considerato ancora come qualcosa di facoltativo, una
sorta di favore che si accorda ai genitori; non è considerato parte integrante del
loro impegno professionale. Esiste dunque una contraddizione fra il desiderio
degli insegnanti di essere considerati come dei professionisti ed il fatto che essi
non sono poi disponibili ad assumersi le responsabilità corrispondenti».

Under the Irish Sky
4.
The Relationship Between
Teachers And Parents
The Italian school system, like that of other European countries has not foreseen
an organised presence of students’ parents. It is for this reason that the
questionnaires completed by the teachers contained several questions to try
and find out the relationships between teachers and parents. These relationships
seem to be different depending on the country and type of schools taking
part in the project. We can see a clear difference in attitudes on the part
of the Irish teachers 75% of which believe that contacts between parents and
teachers are fundamental. Only 21%of Italians, 6.3% o Germans and 30.8%
of Polish teachers thought in the same manner. The option “very useful” was
used a lot less than “useful” as can be seen from the table below. It must also
be mentioned that contacts between parents and teachers was thought to be “
rather useless” by 10.2% of Italian teachers, 6.3% of German ones and 7.7%
of Polish ones. Some even believed it to be “useless”. Therefore it emerges
that the auto referential aspect of school which believes it has the first prize for
education has been put in question by psychological and pedagogical research.
In particular, the theory of Urie Bronfenbrenner (1979; 1986a-b) sustains the
ecological theory of development. He believes that child development is to be
attributed to hereditary factors, but the environment in which the child lives
and the relationships he forms with the people at school, friends etc prove to
be more important.
19. In your opinion
the parent –teacher
relationship is:
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
useless 1,2 0,0 7,7 0,0 1,2
not really useful 10,2 6,3 7,7 0,0 8,2
useful 43,7 56,3 38,5 17,9 43,0
really useful 23,4 31,3 15,4 7,1 22,7
essential 21,0 6,3 30,8 75,0 24,6
The answers to the question of a significant relationship between teachers and
97

98
parents is more interesting. This is also the result of a declination of the answers
so that valid results can be foreseen and agreed upon even if in a different
measure. The Irish sustain quite strongly that an efficient relationship
between teachers ad parents can have positive results on the school performance
of students. Several studies have also confirmed this hypothesis including
the ones carried out by Urie Bronfenbrenner which show that paradoxically,
if we invest less on the relationship between teacher and pupil and more between
school and family, the results for the growth of the child are greater. His
development is deeply influenced by the character of the relationship between
the various “systems” in which he finds himself and develops. Bronfenbrenner
(1979, 327) wrote, regarding this issue, “the evolutionary potential tied
to participation in various environmental situations varies in proportion to the
ease and amount of communication which exists between the two situations in
question. It is of crucial importance that the family is included in the network of
communication (the development of the child is made easier when the channels
of communication are open in both directions)”. At the same time, the same
study affirms, using different research results, that the processes stimulated by
relations between teachers and parents are very important for the school success
in children. Bronfenbrenner (1986a/b).
A more recent study by Huguette and Jean Pierre Pourtois (1993) which we
would like to remind readers of, revealed that the influence of the family is
significant to the development of the child as a whole and of his process of integration
at school. More specifically, the influence deriving from the personality
of the mother and of her educative methods is significant. The study shows
however, that psycho-social factors influence in the long term the school paths
the child. The knowledge of five psycho-social variables measured at the age
of 5-7 enabled them to foresee in 7 out of 10 cases the type of school path the
child would have followed.
20. Do you believe an
effective relationship
between teachers and
parents is:
a necessary strategy to improve
rapport between teachers and
students
a strategy to improve students
learning
a way to know the students
better
a means to prevent students
from straying
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
30,5 12,5 30,8 25,0 26,6
34,1 33,3 15,4 42,9 34,0
24,6 52,1 38,5 10,7 28,9
11,4 2,1 15,4 21,4 10,9

The answers to the question which tried to investigate the reasons at the base
of relationship difficulties between parents and teachers is interesting. It is indeed
striking that the parents generally delegate the school for the educative
process. The data is significant; 58.7% of Italian teachers believe in this, as
do 56.3% of Germans, 46.2% of Poles and 57.1% of Irish. This unequivocal
position merits further research because it shows the role of the teacher as an
instructor and not as educator. The responsibility of parents and the difficulties
they encounter in managing their relationship with children and the conflicts
that can arise especially in adolescence, is clear. Rather than “delegate” perhaps
the term “request for help” from the parents to the people they believed to
be more prepared than them would be more apt. It is also evident that school
cannot absolve its duty by limiting its work to the “transmission of culture”
since the formative process is characterised by an educative dimension.
21. It is a common belief that
the relationship between parents
and teachers is difficult. Why do
you think such difficulties exist?:
because parents are interested only
in their children’s marks
because they believe only school is
responsible for education
because parents are extremely
intrusive
because the educational
requirements of parents and
teachers are very different
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
31,7 16,7 46,2 21,4 28,5
58,7 56,3 46,2 57,1 57,4
1,2 2,1 0,0 0,0 1,2
8,4 25,0 7,7 21,4 12,9
It is also true that parents express a negative opinion even for opposite reasons.
They scold teachers for talking solely about results obtained in their subject
without taking into consideration the educative dimension. At the same
time parents accuse teachers of only talking about themselves therefore asking
only to be listened to. This accusation which is quite strong but has no real
foundation considering that the teachers in the survey, in any case the Italian
ones believed that in order to improve relations with parents, it would be useful
to talk with them about educative issues. Indeed confronting the more important
educative problems with parents during meetings was seen as valid by
35.3% of Italian teachers, 10.4% of German ones , 15.45% of Polish ones and
7.1% of Irish ones. Individual meetings with parents is seen as more important
by the Irish and the Germans and much less by the Italians and Poles. The Italians
probably are conditioned by their existing one to one meeting with parents
99

100
which has become a disputable “ritual” and needs to be reviewed. Obviously
the hypothesis of discussing individual problems within the class is not to be
refused as it is believed to be a correct method, particularly by the Germans.
In the same way, we should stress that most teachers, except the Germans
believed that “school parties” were important. This is to be understood as a
means of developing a spirit of belonging and as a moment to help build a valid
atmosphere for comparison and discussion.
22. What should be done to
improve the relationship between
teachers and parents?
organize meetings to discuss the most
significant educational issues
organize meetings between teachers
and parents
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
35,3 10,4 15,4 7,1 26,6
19,2 33,3 15,4 42,9 24,2
organize school events and parties 20,4 2,1 38,5 25,0 18,4
organize class meetings to discuss
specific issues
24,6 54,2 30,8 25,0 30,5
It is also striking that many teachers state they have had too few meetings
with parents during the past year. We must also understand the reasons for this
reply. In all cases it seems to appear that teachers believe they require more
time to be able to have positive relationships with parents.
23. The number of meetings you
had with parents last year was
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
sufficient 46,1 75,0 30,8 67,9 53,1
insufficient 53,9 25,0 69,2 32,1 46,9
Relationships between School and Families.
According to the results of the questionnaires given to the families regarding the
same question (which we will talk about in another book) it appeared that they
ask the schools to be more socially sensitive. This risks generating more conflicts
and is certainly one of the reasons of the increasing ill-being of teachers.

Teachers are, indeed hesitant to imagine a relationship which is different from
the one they are used to. This may also be due to the lack of training regarding
relational competences. In reality, as it was revealed by dependable studies,
the quality of relationships between schools and families influences deeply the
school success of the students and of their performance. (Ravn, 1996).
The great potential given to relationships between school and families also requires
initiatives and activities which help parents, in particular those who are
at a disadvantage socially and culturally to acquire awareness of their educational
responsibilities and their rights. All this appears even more important in
the era of school autonomy in which the relationship between schools and training
agencies must be even more clear, as these training agencies can, to some
extent influence the formative process of new generations and must, revive
the participation of parents, albeit to favour the “spirit of belonging” which can
reinvigorate the specific identity of each school.
In this context it seems important to rethink the means of relating between
teachers and parents so that the relationship is more personal. In this way, a lot
of information could be gathered about the child which should be shared among
his teachers if real group work exists. For this reason the characteristics of the
so called “Ricevimento” (parent-teacher meetings) must be rethought, as it
risks becoming increasingly a formal occasion without any outcomes. Certainly
the modalities of the one to one talk with parents, which seems to be the most
incisive form, needs guarantees and care. As Guido Petter (1998, 174) writes
“it should not be, firstly, an unbalanced relationship as happens between those
who have power and those who haven’t, between those who can talk and those
that must only listen, between those who can decide and those who must only
know the decisions taken. The meeting should be equally balanced, founded on
the belief that the objective is common (so that the child lives his school experience
in a satisfactory way, and with good results). To be able to accomplish
this, it is important that each party plays his part but he must also play it in
accordance with the other party”.
A second useful modality in establishing relationships between teachers and
parents is group meetings. This can happen obviously only in few cases. It is
certainly important to have this type of meeting at the beginning of a formative
path when teachers must introduce themselves and their formative projects
to the parents. It is evident that the introduction can have a meaning as the
teachers can either reassure or create new worries in the parents. In the same
way, all parents can get together to discuss problems with a class or they can
be invited to school meetings to discuss, perhaps in the presence of a specialist,
educational issues which are common to all parents of the same school. This
means a different awareness on the part of teachers, who, incidentally, must
receive a higher wage which can cover the increase in time worked and a longer
working calendar which seems essential to really qualify the formative intervention
of the school. The latter cannot for these reasons, not put off reflection
which leads towards new methods of relating to families.
The only prospective possible is that of a partnership (Bouchard-Talbot-Pelchat-
101

102
Boudreault, 1998; Bouchard-Kalubi, 2001) even if it seems correct to emphasise
that the situation of relationship between parents and school is not the
same in all stages of school either in Italy or in the other countries of the study.
At nursery school and infant school the relationships are always fruitful and individual
whereas in the other stages of school, the relationship has more traditional
characteristics. It is also true to say this is the case in all European school
systems where parents can intervene on the management aspect but cannot
act on the educative project
Even in other European realities, but with more emphasis in Italy, the relationship
varies according to the stage of school and social standards of the parents.
Those who develop of partnership generally come from “higher” social classes
and are a minority. The less “cultural” parents adopt the attitude of delegates
also because they do not feel prepared to face a relationship of collaboration
with teachers. The conclusion of a recent OCDE study is significant and affirms:
“creating a partnership between parents of each social group and category
and the school attended by their children is perfectly possible but is still rare”
and the relationship between school and family is still “fragile and tormented”
(OCDE, 1997, 66). The practice of partnership is indeed not put into act very
often, firstly due to the self-referentiality of the school but also because it has
never been discussed where it is possible to collaborate. In particular, it is
necessary to identify precisely the issues which the parents can deal with in
the school so that misunderstandings are avoided but also so as not to give
teachers who are hesitant towards co-operation an alibi. This is because as
Cleopatre Montandon (2001, 290) writes :” it is important to ask oneself what
is the use of speaking about partnership if the conditions assure that not all will
participate” (Montandon, 2001, 290).
The Perception of Teaching
A part of the questionnaire was dedicated to the issue of further training and the
first question was aimed at finding out if teachers had participated in training
courses in the previous year. Teachers from the different countries answered
in different ways- probably as a result of their different work contracts. While
almost all the German teachers and 82.1% of the Irish ones had taken part in
fresher courses, 34.5% of Polish teachers and 31.7% of Italians had done so.
Regarding the latter, this is quite disturbing since the teachers taking part in
our survey are among the best and most motivated The fact is that in Italy,
refresher courses are voluntary and therefore in a situation of general unease,
one cannot expect more.
The difference emerges also more visibly if we look at the data for the last
three years. In this case it emerges that the Italian situation is rather dramatic;
refresher courses are sporadic events because they are not obligatory and it is
the teacher’s choice to attend them.

24. Did you take part in
service courses during the
previous school year?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
Yes 31,7 100,0 34,5 82,1 50,2
no 53,9 0,0 10,3 17,9 37,6
25. How many in service
courses have you taken
part in during the past
three years?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
1 48,5 2,1 23,1 14,3 34,8
2 25,7 4,2 15,4 17,9 20,3
3 19,2 12,5 7,7 25,0 18,0
4 or more 6,6 60,4 53,8 42,9 23,0
The final part of the questionnaire is also interesting. There we try to find out
how satisfied teachers are with their work. The more direct data, regarding
the question “Are you satisfied with your job” is not easy to interpret even if a
consistant part of those who answered state they are highly satisfied. The highest
percentage was “scored by the Polish teachers which is surprising as they
didn’t seem so interested in their experience from the previous questions. In
any case, it is true that the majority chose “quite” which indicates that the level
of satisfaction is not very high.
29. Are you satisfied with your
job?
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
Molto/very much 26,3 41,7 53,8 25,0 30,5
Abbastanza/quite 63,5 58,3 46,2 64,3 61,7
Poco/little 9,6 0,0 0,0 7,1 7,0
Per niente/not at all 0,6 0,0 0,0 3,6 0,8
It is peculiar, even if understandable, that most of the teachers sustain that
the reason for their job satisfaction is setting up positive relationships with students.
Many opt for the passion and creativity as elements of satisfaction while
it is striking that only the Italians should be convinced that teaching permits
continuous training. This point needs to be discussed with the German, Polish
and Irish colleagues to find out if they really believe that the challenges set by
scientific research and didactic innovation are not elements which give positive
103

104
intellectual tension, therefore stimulate a continuous intellectual commitment.
30. Which aspects of your
job do you like best? (tick
up to three)
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
interaction with students 31,7 39,7 24,1 31,0 32,7
passion for teaching 23,5 14,7 37,9 19,0 22,1
creativity in teaching 24,9 20,7 31,0 14,3 23,2
interaction with colleagues 3,8 19,8 0,0 13,1 7,6
the opportunity of a constant
education
16,2 2,6 3,4 0,0 11,2
other reasons 0,2 2,6 3,4 2,4 1,1
The reasons for dissatisfaction which the teachers have listed are interesting.
First of all there is an “excess” of bureaucracy which the Polish teachers do not
feel. The answer “ Low salary” in general was the second most marked answer,
even if it is interesting to note that none of the German teachers marked it.
The “lament” regarding little appreciation is interesting and it seems to be
most felt by the Germans (18,3%), then the Irish(17,9%), followed by the
Italians(15,5%) and far behind, the Poles(9,5%). One of the reasons for poor
satisfaction was the low participation of students whereas nobody felt for the
choice of low participation of parents.
31. Which are the reasons for
dissatisfaction? (tick up to
three)
excess of bureaucracy
low salary
lack or inadequacy of structures
difficulties in organization
little appreciation
problems with colleagues
little interest and motivation in
students
little participation of parents
other reasons
don’t know
ITALY GERMANY POLAND IRELAND TOTAL
17,6 31,2 4,8 15,5 19,2
22,2 0,0 33,3 7,1 16,9
13,4 20,2 9,5 10,7 14,2
8,5 9,2 0,0 7,1 8,1
15,5 18,3 9,5 17,9 16,0
2,3 1,8 4,8 2,4 2,4
14,5 11,9 19,0 11,9 14,0
4,6 2,8 0,0 2,4 3,8
1,4 4,6 9,5 3,6 2,6
0,5 0,0 9,5 1,2 0,9

A cause for reflection is the answers to the last question which asked if they
would choose to do this job again. The answers are in general quite comforting
even if not excessively optimistic. The least sorry teachers seem the Italians
who would choose this job again in 73.7% of cases, followed by the Germans
73.7% of cases the Poles in 53.6% of cases and the Irish in 53.6% of cases.
The Irish also gave the highest negative answers as 25% would not choose
teaching again.
This data must lead us to reflect so that we can understand the reasons for this
widespread bitterness which seems more common in Italy than elsewhere, The
fact is that Italian school in this particular period is conditioned by a particular
contradiction . On one hand the importance of education as a means for economical
and cultural emancipation is promoted. On the other hand the increase
in schools has led to a greater number of teachers being employed, therefore
a fall in wages and social standing. These teachers, in particular, secondary
school teachers become more isolated as they become more frustrated and end
up by not being open to relationships with families. Jean Pierre Pourtois (1997,
56) writes regarding this “teachers are worried about defining borders between
the parents educative role and theirs: they feel restless for parents’ intrusion in
their work and lay claim to their status as professionals. They consider parents
as amateurs and do not accept that parents ask about what is done in school
Therefore they put several defensive strategies to mark out the territory of their
competences” The category of Italian teachers show evident unease and seem
vaguely persecuted by society towards which they feel to be in credit economically
and socially. This phenomenon appears quite worrying as it negatively
conditions the relationship between teachers and students and families and
more in general on all social relationships whether they be in or out of school.
Teachers have matured (in a more or less latent way) poor self esteem which all
too often produces attitudes of haughtiness or aggressive behaviour. It is also
true that it is opportune to distinguish that teachers from infant and primary
school have a different behaviour from those of junior secondary school and
high school and even in these cased, we cannot generalise. In every case there
is a high level of unease which is caused by many factors.
What sociologists define as the syndrome of “status unbalance” is undoubtedly
present in teachers today. “Status unbalance” is the incongruence which characterise
certain social categories. In the specific case of teachers we can see
the high levels of culture which puts them at the same level of the élites and the
low economic recognition which puts them with a lower social class. In this dimension
writes Alessandro Cavalli (2000, 77), they see themselves “overtaken”
by many of the middle class workers (e.g. bankers) whose work is, not only in
the eyes of the teacher, less qualified. The notion of “relative deprivation” easily
fits the profession of teaching: they are part of an élite group but cannot compare
on an economic front. indeed economically they find themselves competing
with social groups who are different from them on a cultural level”.
The gratification deriving from didactics and relationships with the students also
seems to be lacking in many cases. This also holds for junior secondary school.
105

106
Even in primary schools situations of psychological unease are beginning to be
seen. Teachers are increasingly complaining about how undisciplined their pupils
are and by the rare “presence” of families in their upbringing. A reflection
by Alessandro Cavalli (2000, 78), who writes “ Teaching a mass of students
for whom knowledge is not necessarily a value, a mass of students who are
unaware that they are seated at school desks needs professional competences
which were not needed before. Teaching students who are not motivated is
much more difficult and more frustrating because results are more rarely seen
and because the students and their families are unable to recognise and appreciate
the efforts of the teacher”.
The Italian situation does not seem to be different from other European countries
as studies in England (Bastiani, 1987), Spain (Machargo Salvador, 2001)
and Switzerland (Montandon, 1992) have shown. Other studies by Daniel Gayet
(1999a/b) show how the same situation exists in France where the relationship
between parents and teachers is different depending on the different stages of
school and within different social groups. Therefore it is confirmed that it would
be improper to generalise when talking about “parents” in that parenting and
the perception of the role school plays also depends on social standing. Specifically
the parents who belong to higher classes and are generally more culturally
developed defined as “élite” by Daniel Gayet (2004, 307) believe they are
superior regarding the educational factor, teachers who are merely the people
who offer a service. At the same time, the teachers who come from socially
disadvantaged backgrounds , the “fatalists” live in a sub alternative condition
to teachers who they see as being “infallible” with regard to cultural transmission
and education broadly speaking. It is evident that both these positions
contrast the prospective of partnership which we have talked about and which
is essential to favour school success in the child and are at the base of many
misunderstandings which characterise the relationship between teachers and
parents. As Gayet (2004, 310) caustically writes: if parents fail to understand
the type of student their child is and the teacher is ignorant of the type of son
their pupil is, it will really end up that the child is the only and real “misunderstood
person” of the whole issue.
The difficult relationships between teachers and parents are quite an evident
fact in Italy As emerges from studies conducted (Catarsi, 2001 e 2004), the
results of which show intolerance on the part of the teachers who affirm that
the exchange and conversation with parents are impossible because parents
tend to want to be at the top of the situation and tend to want to take charge
even of didactic matters. The teachers therefore try not to get involved in a
relationship with parents with the excuse that they are professionals. This appears
today quite contradictory in a period in which even doctors try to be clear
towards their patients and try to involve them in their illness and treatment of
it. Cleopatre Montandon (1992, 196) wrote, with reference to the Swiss situation
which is also true of the Italian situation and possibly also for the other
schools in the project, “for several teachers, establishing relationships with parents
is considered optional a sort of favour which we agree to with parents: it is

not considered an integral part of their work. There is a contradiction therefore
between the desire of teachers to be considered as professionals and the fact
that they are not willing to take on their responsibilities”.
107

108

Formazione e riflessività
5.
Competenze riflessive
e approccio autobiografico
Le competenze relazionali, unitamente a quelle culturali, tecnico-professionali e
metodologico-didattiche sono dunque alla base di una professionalità docente
rinnovata e matura, alimentata inoltre da quella che ci piace definire competenza
riflessiva. Quest’ultima dovrebbe essere coltivata anche durante processo di
formazione iniziale ed in servizio dei docenti, vista la necessità per i professionisti
dell’educazione di contestualizzare, sempre e comunque, il proprio impegno
professionale. Una professionalità educativa di qualità, in effetti, deve essere
il frutto anche di una puntuale contestualizzazione, considerato che essa si
costruisce in rapporto alle realtà istituzionali ed alle scelte politiche che influenzano
l’agire educativo. Quest’ultimo e la sua “qualità è infatti il frutto di precise
scelte progettuali dell’autorità tecnica e politica, anche se poi è profondamente
condizionato anche dalle pressioni e dalle pratiche dei professionisti. Questo
impone un impegno per la formazione di professionalità attive e responsabili,
legate alla comunità locale ed in grado di entrare correttamente in relazione con
la “comunità di pratiche” di riferimento (Fabbri, 2007).
La costruzione sociale della conoscenza, visto che essa si crea in contesti fattuali
specifici, impone infatti ai professionisti – e nel nostro caso ai docenti - di
acquisire consapevolezza delle norme e delle tradizioni culturali dell’ambiente in
cui si svolge la loro azione educativa. In altri termini si pone la questione della
cultura “politica” - etimologicamente intesa - dei professionisti dell’educazione,
che sono da considerare anche come “professionisti dell’azione sociale” e agenti
di trasformazione e crescita delle comunità locali. Questo fa sì che – come scrive
Maura Striano (2001, 156) – «i percorsi formativi destinati ai professionisti
(ed in particolare ai professionisti dell’educazione) dovrebbero essere indirizzati
non tanto e non solo ad acquisire specifiche conoscenze e competenze che li
qualifichino in senso tecnico-strumentale, ma a sviluppare e praticare forme
di razionalità pratica ed emancipativa […] che consentono la realizzazione di
azioni non tanto e non solo efficaci, ma fondate su una reale consapevolezza
dei presupposti (culturali, personali, sociali, politici) da cui tali azioni derivano,
delle implicazioni che le connotano, delle conseguenze che prefigurano».
Anche per queste ragioni nel processo di formazione iniziale dei docenti assume
un ruolo primario l’esperienza di tirocinio, che sta chiaramente ad indicare la
necessità di formare una professionalità che coniughi insieme “sapere” teorico
e “saper fare” pratico. Il tirocinio sostanzia, appunto, la scelta di favorire una
109

110
continua integrazione dialettica tra la “teoria” e la pratica”, senza che una delle
due assuma un valore maggiore rispetto all’altra.
In questo contesto sia l’università, dove dovrebbe svolgersi la formazione iniziale
dei docenti, che il sistema scolastico, si vedono assegnate nuove responsabilità.
La prima, infatti, deve impegnarsi a conoscere più da vicino la realtà
scolastica, al fine di comprenderla ed anche di metterla in discussione. Il secondo,
al contrario, deve rendere trasparente il proprio Progetto dell’ Offerta Formativa,
in maniera tale che il tirocinante possa essere orientato nella sua scelta
e nella futura esperienza e – eventualmente – essere anche messo in grado di
poter sviluppare una propria personale riflessione critica.
Anche per questa ragione il tirocinio dovrebbe essere svolto nella parte terminale
del percorso formativo, con un’articolazione che non confligga con gli insegnamenti
di tipo più accademico. Questo evidenzia con ancora maggiore forza
il legame che deve esistere tra i “corsi accademici” e l’esperienza concreta del
tirocinio oltre che dei laboratori.
L’università deve quindi garantire allo studente l’acquisizione di competenze
teoriche di carattere metacognitivo, che lo mettano in condizione di non restare
prigioniero di una connotazione routinaria che il lavoro nella scuola può
anche assumere. Per questo gli insegnamenti “teorici” debbono basarsi sull’approfondimento
teorico e storico delle problematiche educative, oltre che degli
strumenti metodologici e contenutistici relativi alle diverse aree culturali, in
maniera che risulti chiaro al giovane in formazione il nesso esistente tra teoria e
pratica. È evidente, peraltro, il carattere “professionalizzante” del corso di studi
e specificamente del tirocinio, che mira, d’altra parte, a far acquisire una professionalità
matura e critica, proprio perché fondata sulla capacità di riflettere
criticamente sull’esperienza concreta.
A tale obiettivo, d’altra parte, deve mirare anche la formazione in servizio, altrimenti
definita anche “aggiornamento”, seppure i due termini – e le relative
“pratiche” - non siano proprio dei sinonimi. In ogni caso appare utile precisare
che uno degli obiettivi più importanti del processo di aggiornamento deve essere
quello di rispondere ai bisogni diversificati dei diversi docenti, in maniera da favorire
l’attivazione di gruppi di lavoro che si caratterizzino per il forte spirito collegiale
e di collaborazione. Anche per questo, quindi, l’aggiornamento non può
essere concepito come mera occasione per trasmettere delle nuove tecniche.
Aggiornare un gruppo professionale, infatti, non può significare fargli acquisire
unicamente delle nuove competenze di tipo tecnico. Significa invece contribuire
ad attivare anche una mentalità critico-problematica circa il proprio ruolo professionale
ed il ruolo stesso del servizio in cui si opera, in maniera da promuovere
continuamente la sua qualificazione ed il suo rinnovamento. Questo risultato può
essere ottenuto in special modo per mezzo della continuità dell’aggiornamento,
che non può essere realizzato in maniera episodica se davvero vuol ottenere dei
risultati.
Infatti non ci si aggiorna una volta per tutte, perché le innovazioni si succedono
nei giorni. Se si pensa l’ aggiornamento in termini di innovazione (che è poi la
forma concreta in cui esso deve manifestarsi, in metro ad i suoi esiti, nei con-

fronti dei ragazzi), ci si rende subito conto di questo suo carattere di continuità
e di legame con la quotidianità della scuola. Tale caratterizzazione, peraltro, è
la sola che può garantire che l’ aggiornamento abbia realmente effetto sugli
studenti. In altri termini, il risultato di un buon aggiornamento non è semplicemente
un docente soddisfatto, ma un insegnante capace di trasformare la
propria soddisfazione in comportamenti che favoriscono lo sviluppo complessivo
dei ragazzi.
Questa ultima questione, fra l’altro, comincia in questi anni ad avere una sempre
maggiore attenzione, ponendosi con forza il problema della produttività dei “lavoratori
pubblici” e fra questi anche dei docenti. Più specificamente si pone con
maggiore forza il problema della promozione e della verifica della qualità nella
scuola e della valutazione degli stessi docenti.
Al contempo l’aggiornamento deve fornire agli insegnanti gli strumenti necessari
per conoscere ed interpretare la complessità delle diverse realtà in cui essi
si trovano ad operare. Allo steso modo l’aggiornamento deve consentire ai docenti
di qualificare costantemente la loro professionalità, arricchendola di una
riflessione costante che, fondata sulla continua interazione fra sapere teorico
e sapere pratico, li metta in condizione di dare risposte significative ai bisogni
formativi dei ragazzi.
L’acquisizione della pratica riflessiva è garanzia, quindi, non solo di qualità
dell’insegnamento e costruzione di sapere, ma anche di un più reale riconoscimento
della professionalità docente (Perrenoud, 2001). La crescente complessità
dei contesti formativi, inoltre, ha posto nuove sfide agli insegnanti, rendendo
sempre più evidente l’esigenza di problematizzare costantemente la loro azione
professionale ed i riferimenti teorici che facilitano una migliore e più nitida esplicitazione
dell’intenzionalità educativa. La riflessività viene, quindi, sempre più
percepita come una caratteristica fondante della professionalità docente, visto
che essa – come scrive Giustamente Maura Striano (2006, 37) - «si configura
come uno dei segmenti di un processo circolare in cui il professionista riesce a
“guardare all’indietro”, attivando processi di ricostruzione delle strategie apprenditive
e cognitive esercitate nelle esperienze e nelle pratiche agite».
Esperienza personale e riflessività del soggetto
La riflessività, in effetti, consente al soggetto, nei diversi contesti, di elaborare
teoria a partire dalla propria esperienza. In questo caso, infatti, possiamo parlare
di costruzione della conoscenza e di elaborazione della teoria a partire da
un processo di concettualizzazione del reale, indagato ed osservato in maniera
consapevole. Il comportamento di tutte le persone, in effetti, è ispirato a teorie,
più o meno implicite, che debbono appunto essere portate a livello di piena
consapevolezza. Tale acquisizione è certamente favorita dalla conversazione con
se stessi e con gli altri e proprio per questo si rivela particolarmente opportuna
l’esperienza che il soggetto può fare nel gruppo, dove il confronto interattivo
stimola anche l’impegno introspettivo.
111

112
In particolare appare utile utilizzare la strategia del piccolo gruppo, dove gli
insegnanti possono raccontare le loro esperienze e confrontarsi fra loro. Tale
impegno conversazionale, peraltro, non è fine a sé stesso, ma si alimenta di
una continua mediazione tra sapere teorico e sapere professionale, di cui sono
portatori gli insegnanti. Anche per questo, all’interno dei percorsi di aggiornamento,
potrà rivelarsi molto utile la via della “narrazione riflessiva”, che più
facilmente – anche a partire da un argomento – consente di coniugare un approccio
teorico con l‘ esperienza personale di uno o più partecipanti al gruppo.
Tale modalità necessita di un conduttore che si vive come “facilitatore della
comunicazione” e che riesce davvero a vivere la sua professionalità al servizio
della crescita dei docenti. A tale riguardo si riveleranno utili simulazioni, giochi
di ruolo, racconti di eventi “critici”, video e filmati, in grado di promuovere la
discussione, che si arricchirà, peraltro, in particolare, della narrazione di esperienze
concrete che, opportunamente riflettute, faciliteranno l’acquisizione di
una consapevolezza critica da parte degli insegnanti e promuoveranno la costruzione
di un sapere collettivo.
Competenza riflessiva e approccio atubiografico
Il contesto del “gruppo di lavoro”, fra l’altro, può essere molto utile per l’affinarsi
della competenza “riflessiva”, che deve mettere in grado l’insegnante di
vivere consapevolmente il proprio impegno professionale e di arricchirlo continuamente.
Le diverse competenze indicate in precedenza (culturali, tecnicoprofessionali,
metodologiche, relazionali) sono infatti essenziali; ma non possiamo
dimenticare che i professionisti dell’educazione devono continuamente
confrontarsi con situazioni problematiche e devono essere capaci di “categorizzare”
l’esperienza, mentre imparano dalla medesima e concorrono alla costruzione
di nuovi saperi.
In tale contesto è quindi opportuno che possano avvalersi di una forma di razionalità
euristico-riflessiva, a suo tempo identificata da Dewey e successivamente
interpretata da Donald Schon come fondamentale per una “epistemologia della
pratica professionale”. «Questa forma di razionalità (la quale assume articolazioni
varie e complesse in rapporto ai diversi corsi di azione in cui i professionisti
sono implicati) – scrive Maura (2001, 154) – rappresenta un elemento essenziale
e costitutivo dell’ agire educativo in quanto dimensione insieme teoricoprassica
in cui si indaga l’esperienza e si costruisce nuova conoscenza funzionale
ad una adeguata interpretazione e gestione».
L’acquisizione della competenza riflessiva, quindi, è certamente favorita dall’approccio
autobiografico, che costituisce un importante percorso di formazione
individuale alimentato dalla valorizzazione della storia personale del soggetto.
«In questo approccio – aggiunge Laura Formenti (2001, 106-107), con considerazioni
rivolte ai genitori ma che valgono anche per la categoria degli insegnanti–
conoscenza e cura di sé vanno insieme, come strumenti di formazione

dell’adulto, di riflessione sull’esperienza, di ri-comprensione della stessa entro
un linguaggio e una cornice che non sono dati a priori, ma vengono scelti. La
biografia educativa di un soggetto adulto è la storia delle sue relazioni (anche
familiari) e delle strategie apprese per far fronte ai compiti vitali, oltre che per
dare senso alle inevitabili crisi. Ognuno di noi è portatore di un patrimonio
d’esperienza che può diventare risorsa per il cambiamento».
Il sapere del soggetto si alimenta, indubbiamente, della sua storia personale e
della sua esperienza vissuta in questo caso da un punto di vista professionale.
Per questo un approccio autobiografico appare quanto mai convincente, poiché
esso consente di recuperare in memoria i vari momenti della propria esistenza
professionale, con gli errori compiuti ed i successi ottenuti. Questo tipo di
impegno si fonda, inevitabilmente, sulla competenza riflessiva, che può essere
sviluppata esercitandola e che serve non solo per recuperare criticamente il
passato, ma anche per riflettere sul presente e preparare il futuro
Questo appare tanto più importante alla luce della convinzione, sempre più diffusa,
relativa all’importanza di imparare dall’esperienza, con la sottolineatura
che l’apprendimento dalla medesima non costituisce un automatismo valido
per tutte le persone. Il “fare una esperienza”, anche di tipo professionale, non
si traduce automaticamente in nuove conoscenze e nuove forme di sapere,
assicurate, invece, da una esperienza deweyanamente riflettuta. «Apprendere
dall’esperienza – scrive Loretta Fabbri (2004, 24) con considerazioni che valgono
anche per gli insegnanti – comporta l’attivazione di processi di elaborazione,
l’apertura di prospettive di analisi, di presa di parola che consentano al soggetto
di pensare se stesso, i suoi modi di essere, i suoi stili cognitivi e relazionali e di
imparare a leggere e decodificare le situazioni in cui è di volta involta coinvolto.
Apprendere si configura come possibilità di trasformare agiti routinari e impulsivi
attraverso l’attivazione di un pensiero che, sospendendo l’agire, permette
di pensare l’azione in anticipo, immaginandola da più punti di vista».
La costruzione autobiografica, in effetti, può essere molto valida per aiutare le
persone a riflettere criticamente sulla propria esperienza ed a valorizzare la medesima,
superando anche momenti di scoramento che talvolta possono determinarsi
in una professione difficile come quella docente. In questo caso, infatti,
assistiamo ad una valorizzazione reale dell’esperienza, considerata contesto
prioritario di apprendimento e di costruzione di sapere. «La fortuna recente della
idea pedagogica di narrazione – scrive Demetrio (2005, 28) – si deve, oltre
che a un riconfermato motivo fatto proprio dalla educazione attiva e attivistica,
tanto dal pragmatismo quanto dalla fenomenologia, agli approdi raggiunti dalle
scienze della mente e del linguaggio. Queste ripropongono il ruolo insostituibile
dell’apprendimento dall’esperienza, il che per il lessico pedagogico significa
assecondare, favorire, allestire tutto quanto permetta al soggetto di imparare
immergendosi nelle situazioni, ad un livello scolasticistico basso o quasi assente».
In questa prospettiva risalta la potenzialità formativa dell’autobiografia, in particolare
per lo sviluppo e l’affinamento di quella che ci piace definire la competenza
riflessiva. In questo modo, infatti, le docenti hanno la possibilità di riflettere
113

114
criticamente sulla propria storia personale, individuando limiti e segni positivi e
recuperando, anche in questo modo, nuovo entusiasmo e voglia di fare.
Allo steso modo l’impegno autobiografico consente di recuperare un patrimonio
culturale che appare essenziale poter utilizzare in questo particolare momento
di “ricambio generazionale”. Le giovani generazioni di docenti, infatti, potranno
meglio avvantaggiarsi del patrimonio di conoscenze elaborato dai colleghi più
“anziani” e partire da questo per costruire nuovo sapere professionale e migliorare
ancora di più la realtà della scuola. Per affinare e qualificare la propria
identità la categoria dei docenti ha bisogno di fare tesoro del suo passato e del
patrimonio di conoscenze costruito in questi trenta anni, per poter fronteggiare
e vincere le nuove sfide professionali che il tempo presente ci pone.
Le autobiografie dei docenti
Anche per questo, quindi, nell’ambito del progetto Leonardo dedicato alle competenze
relazionali dei docenti della scuola secondaria, abbiamo ritenuto opportuno
promuovere la riflessione autobiografica di alcuni di loro. I prodotti,
riportati integralmente nell’appendice pubblicata nel capitolo successivo, sono
quanto mai interessanti e denotano problemi comuni nelle scuole dei quattro
paesi che hanno dato vita al progetto (Irlanda, Italia, Germania, Polonia).
Emergono infatti alcuni tatti comuni, come la provenienza sociale medio-bassa
dei docenti, le cui famiglie sono esse stesse formate da insegnanti o comunque
da impiegati se non da operai.
A partire dalla prima autobiografia irlandese, infatti, è interessante notare come
molti docenti provengano da famiglie di “scuola”, i cui componenti erano a loro
volta insegnanti. Emblematica è la situazione di un docente irlandese, il quale
parla addirittura – con tipico humour anglosassone – di un suo desiderio «genetico»
di fare l’insegnante, come lo erano stati sua madre, suo fratello, sua
sorella, suo nipote e diversi cugini. Come molti altri anche questo insegnante
irlandese comincia la sua carriera in una scuola privata femminile (un convento),
dove però la situazione sociale è molto buona e dove «ricchezza e privilegio
abbondano». Ma informa poi di avere lavorato in una scuola della periferia cittadina,
a contatto con il mondo reale, dove ci sono ragazzi di tutti i ceti sociali,
compresi i diversamente abili. E di avere, quindi, vissuto in una scuola a contatto
con il mondo della quotidianità.
Questa autobiografia è veramente interessante, in quanto questo docente è
riuscito davvero a realizzare un lavoro introspettivo attraverso la sua storia
personale. Ci ricorda così che cominciando a lavorare riteneva che per ottenere
il rispetto degli allievi non si dovesse dare loro confidenza e bisognasse essere
sempre seri. «Never smile until Christmas» era il motto di riferimento degli insegnanti
della prima scuola dove aveva lavorato. Fortunatamente incontra un
collega che gli fa capire l’importanza di conoscere i propri allievi e di intrattenere
con loro un rapporto meno distante.
Il clima diverso – di vero e proprio “cameratismo” - che è riuscito a creare – gli

è valso il ruolo – previsto in Irlanda di “Assistente principale”, che è una sorta
di coordinatore di classe, cui competono numerose resposabilità, a cominciare
dall’ascolto che è dovuto agli studenti e che costituisce aspetto assai significativo
dell’esperienza irlandese. Al riguardo è da sottolineare che i risultati sono
positivi anche in virtù di scelte organizzative che appaiono particolarmente azzeccate.
L’Assistente principale, infatti, segue il medesimo gruppo di ragazzi dal
primo al sesto anno; in questo modo, come risulta evidente, ha modo di conoscerli,
di interagire più volte con i loro genitori e di concorrere – dunque – alla
promozione di un clima positivo ed accogliente. La scuola irlandese, in effetti,
appare la più attenta alla dimensione comunicativa dell’educaione e tiene a presentarsi
programmmaticamente come una scuola della comunità.
Questo clima emerge anche dall’autobiografia di un’altra docente irlandese,
la quale mostra uno humour tipicamente anglosassone quando ricorda la sua
esperienza di studentessa e dice che a 16 anni ha studiato Amleto «ritenuto
utile come un Bikini in Alaska», tanto che in quello stesso anno abbandona la
scuola. Questa insegnante svolge, quindi, nei successivi cinque anni, lavori di
diverso tipo, che la mettono a contatto con la vita reale e la inducono a frequentare
di nuovo l’università per laurearsi e per intraprendere la professione
di docente. Allo stesso modo questa insegnante insiste molto sulla importanza
della motivazione per poter dare il meglio di se stessi nell’insegnamento. È
chiaramente una insegnante che “pensa positivo” e che dice di trovarsi molto
bene nella sua scuola di Dublino, dove «io domando e ricevo aiuto quando ne
ho bisogno» e dove le buone relazioni tra insegnanti e studenti fanno sì che si
possa lavorare bene anche fuori dall’aula.
Un insegnante tedesco rileva invece che per caratterizzare positivamente le
relazioni con gli allievi, fin dai primi giorni di scuola, è opportuno «conoscere
il prima possibile i nomi degli studenti dei nuovi gruppi, in maniera da poterli
indirizzare secondo i personali livelli di sviluppo». Allo stesso modo è consapevole
dell’importanza delle relazioni con i genitori, anche se il suo compiacimento
maggiore deriva dall’aver verificato il rinnovamento che ha caratterizzato la didattica
delle discipline. In particolare questo insegnante esprime la propria soddisfazione
per le nuove competenze relative alla comunicazione che sono state
acquisite dai docenti e nello specifico, per quanto lo riguarda personalmente, le
competenze comunicative necessarie all’insegnamento della lingua inglese.
Un altro docente tedesco ci fornisce invece l’occasione per capire che le difficoltà
di relazione con i genitori sono presenti anche in Germania, dove – come
egli scrive – uno dei problemi più sentiti è quello dell’integrazione dei ragazzi
immigrati. Nello specifico questo insegnante rileva che il 30% degli studenti
con cui lavora è proveniente da un paese straniero e che, in generale, i genitori
capiscono poco la lingua tedesca, con i conseguenti problemi di comunicazione
che si creano. Questo docente tedesco si lamenta, inoltre, del fatto che le idee
pedagogiche sono state soppiantate dalle categorie di efficienza e di profitto.
Infine afferma che – almeno a suo dire – la partecipazione dei genitori sarebbe
orientata ad aggredire gli insegnanti, al fine di ottenere giudizi benevoli per i
115

116
propri figli. Il risultato è che sono frequenti aggressioni fra studenti e talvolta
discussioni molto accese fra genitori ed insegnanti ed anche fra questi ultimi,
con collegi dei docenti caratterizzati da profonde divisioni al loro interno.
Ovviamente le riflessioni contenute in queste autobiografie non possono essere
generalizzate. Tuttavia esse possono essere assai utili per conoscere spaccati
particolari relative alla vita delle scuole che hanno partecipato al progetto. Significativo
è quanto scrive una insegnante polacca, la quale afferma che il suo
modello è impersonato da Regina Orzechowska, la dirigente della sua scuola
che, in effetti, si muove con sobrietà e dolcezza, testimoniando di un impegno
dirigenziale vissuto con grande consapevolezza dell’importanza delle relazioni.
Le considerazioni di questa insegnante polacca sono senza dubbio influenzate
dal tipo di scuola – una sorta di politecnico - in cui lavora, formando delle
estetiste. Alto, in effetti, è il suo livello di consapevolezza riguardo l’importanza
che, agli occhi dei genitori, assume l’attenzione della scuola per gli sbocchi occupazionali,
così come molto apprezzato dalle famiglie è il rapporto della scuola
con parecchi saloni di bellezza, dove le ragazze potrebbero trovare collocazione
professionale. A proposito del rapporto con i genitori è anche da segnalare
che questa insegnante si fa promotrice di incontri con le famiglie in occasioni
particolari quali il Natale, la festa della Mamma, la festa della Donna, etc. che
concorrono a creare un clima migliore e relazioni più ravvicinate tra i genitori e
gli insegnanti, ma anche tra questi ultimi e gli stessi studenti.
Un altro insegnante polacco inizia ironicamente la sua autobiografia scrivendo
di essere «nato in una educatissima famiglia di ceto medio», specificando al
proposito: «questa è una semplificazione in quanto durante il periodo comunista
noi vivevamo ufficialmente in una società senza classi». Questo docente
mostra anhe una evidente capacità di analisi critica riguardo la propria formazione
professionale, definita inadeguata e caratterizzata da una attenzione
tanto eccessiva per la teoria quanto scarsa per la pratica professionale. Tanto
da concludere di avere iniziato a lavorare «da solo con me stesso» ed «imparando
dai miei stessi errori». Anche per tale ragione questo insegnante prova
una evidente ansia nei suoi primi anni di insegnamento, peraltro espressione di
una gran serietà, visto che ricorda di avere preparato giornalmente le lezioni in
maniera da sentirsi sempre all’altezza della situazione.
Riguardo le relazioni questo insegnante si riferisce sia a quelle con i colleghi
che a quelle con i genitori. Ricordando la sua espereinza nella scuola secondaria
rileva che i colleghi erano in genere assai più anziani di lui ed aveva quindi
con loro un rapporto piuttosto freddo. Riguardo i genitori si rammarica invece
de fatto che essi si limitino a delegare alla scuola il compito di educare, tanto
che – come lui scrive - «il mio ruolo principale nel promuovere la relazione con i
genitori è stato quello di convincerli che anche loro sono responsabili dell’ educazione
dei loro figli».
Le conclusioni cui giunge questo docente polacco sono piuttosto nette, in quanto
sostiene che una vera e prorpia relazione tra insegnanti e genitori non esiste.
Anche se poi afferma di essere restato anche lui sorpreso del fatto che in più occasioni
molti genitori hanno preso parte alle riunioni indette dalla scuola. Anche

questa riflessione, peraltro, testimonia di un disagio relazionale che è presente
nella scuola polacca, così come in quelle italiana e tedesca, mentre differente
pare essere la realtà irlandese dove il rapporto tra insegnanti e genitori sembra
essere assai migliore.
Nella scuola italiana si trovano situazioni assai differenziate, alcune impensabili,
come quella di una insegnante precaria di un istituto professionale che ha frequentato
brillantemente un dottorato di ricerca, lavorando anche in altri paesi
e che, dopo aver frequentato la Ssis, si trova oggi al suo primo incarico di insegnamento,
vissuto con entusiasmo e senza quelle frustrazioni che sono proprie,
generalmente, di coloro che avrebbero preferito restare a lavorare nell’università
e che, non avendolo potuto fare, vivono l’insegnamento come una sorta di
“declassamento”
È interessante ribadire come la provenienza sociale degli insegnanti dei quattro
paesi partecipanti al progetto sia in generale modesta, al massimo di un ceto
medio impiegatizio. In molti casi le famiglie di provenienza sono esse stesse
formate da insegnanti. In ogni caso si può rilevare come, ancora negli anni
Settanta, i desideri di molti giovani si scontrino con le ristrettezze economiche
della propria famiglia. Come accade ad una insegnante che ci ricorda come lei
desiderasse frequentare il Liceo artistico e come questo le fosse stato negato
dai suoi genitori, non in grado di mantenerla a Firenze.
Proprio per tale diniego questa ragazza frequenta l’ Istituto magistrale, dove ha
la fortuna di incontrare un professore molto speciale, che segna positivamente
la sua stessa vita professionale futura. Merita quindi di riprendere le sue parole:
«Gli anni dell’Istituto Magistrale sono stati importanti. Prima di tutto, ho avuto
la fortuna di essere parte di un gruppo classe coeso e solidale, con il quale ho
costruito legami affettivi molto importanti, e poi ho conosciuto una persona
meravigliosa che ha cambiato la mia vita, il mio professore di Latino e Storia
di Terza, un giovane al primo anno di insegnamento ma destinato a diventare
uno dei nostri maggiori intellettuali: Antonio Tabucchi. Nel panorama della
mia scuola, popolata di insegnanti mediocri, probabilmente frustrati, incapaci di
sviluppare con noi ragazzi un qualunque tipo di legame affettivo e costruttivo,
gente che intendeva il proprio ruolo come un semplice travaso di informazioni e
regole e che partiva sempre dal presupposto che noi studenti fossimo bestiole
da domare e punire, il professor Tabucchi era un alieno: riusciva ad ascoltarci,
si informava della nostra vita e dei nostri sogni; riusciva a coinvolgerci e farci
ridere, riusciva a farci amare lo studio, valorizzando le nostre attitudini, facendoci
sentire capaci.
Come le mie compagne, io ero entusiasta. Il professore era l’unico ad incoraggiare
le mie letture ed a spingermi verso il mondo, a me quasi sconosciuto,
della cultura, del teatro e dell’arte. Mi ha trasmesso l’entusiasmo, l’apertura
verso gli altri, mi ha insegnato a mettere in discussione e a capire i legami tra le
cose, le connessioni tra la mia vita e il mondo esterno. Le mie letture, con la sua
guida, sono diventate meno casuali e il mio amore per i libri e la parola scritta
ha cominciato ad apparirmi come una potenzialità. Questo entusiasmo mi ha
portato alla Facoltà di Lettere, ma ancora non pensavo alla professione futura.
117

118
Certamente, se, allora come ora, penso ad un modello, penso al Professore e
spesso, nella mia attuale professione, mi sforzo di essere per i miei allievi anche
solo un lontano riflesso di quello che lui è stato per me».
L’approccio autobiografico che avevamo proposto ha stimolato anche altre insegnanti
italiane. Al riguardo occorre certo rilevare che coloro che hanno scritto la
loro autobiografia rappresentano la parte migliore del corpo docente, più sensibile
all’innovazione didattica e più impegnata anche sul fronte della qualificazione
delle relazioni con gli studenti e le loro famiglie. Ciò nondimeno le riflessioni
che propongono sono particolarmente interessanti, anche perché fanno capire
come si possa “liberarsi” dalle esperienze negative vissute da studenti ed interpretare
il ruolo di docente in maniera diversa dai modelli avuti in gioventù. È
il caso di una insegnante di matematica di un Istituto tecnico che racconta un
episodio illuminante ed assai rappresentativo dell’interpretazione del ruolo da
parte di diversi insegnanti (del passato?).
Dopo aver raccontato un fatto capitatole con una suora prestata all’insegnamento
un altro ricordo doloroso riguarda l’esperienza della scuola media. Scrive
infatti al proposito: «Il secondo episodio che voglio raccontare è avvenuto all’inizio
della prima media. Ripenso ancora con piacere al cambiamento di scuola:
tanti nuovi compagni , tanti nuovi amici e tanti nuovi insegnanti, ciascuno per
una materia diversa ,invece della mia cara vecchia maestra elementare che era
stata, fino a quel momento, il mio unico riferimento culturale. Contenta e desiderosa
non solo di ampliare le mie conoscenze ma anche di ottenere risultati
eccellenti, cercai subito di organizzarmi lo studio nel modo migliore adattandolo
alla nuova realtà scolastica e alle richieste che mi pervenivano dai miei professori.
Iniziarono le verifiche e con esse le prime soddisfazioni fino al momento
in cui la professoressa di italiano riportò, corretto, il primo tema: valutazione
cinque! Era il primo voto negativo che ottenevo da quando avevo cominciato
la scuola, ma non è stato questo a segnare i cinque anni successivi della mia
vita scolastica, quanto la motivazione con la quale questo voto mi era stato assegnato.
Il giudizio che accompagnava il voto più o meno recitava così: “Tema
privo di errori ortografici, corretto nella sintassi e ricco nel lessico ma prolisso”,
troppo lungo insomma per i gusti di quella professoressa, alla quale i temi piacevano
“concisi”, come lei stessa diceva, e che si permise anche di stabilire a
priori la lunghezza delle mie composizioni. Infatti decise, da quel momento in
poi, che ogni mio tema non avrebbe dovuto superare la lunghezza di una colonna
e mezzo, altrimenti non me lo avrebbe corretto, e per evitarmi questo, ogni
volta che c’era compito in classe mi si avvicinava e con la penna rossa tracciava
a metà della seconda colonna del foglio protocollo una riga rossa che stabiliva la
fine della mia composizione e, aggiungo io, dei miei pensieri. Che incubo quella
riga rossa sul foglio, che fatica concentrarsi per sintetizzare nel numero minore
di parole possibile le mie riflessioni e le mie opinioni quando invece fiumi di
idee vorticavano nella mia mente in attesa di prendere forma nella scrittura! Mi
sentivo di avere tante cose dentro da dire ma di non essere più libera di poterlo
fare come volevo e questo mi generò un grande disagio interiore al quale seguì
la convinzione che, in fondo, quelle idee non erano poi così interessanti, mentre

era importante per me prendere buoni voti e quindi era necessario ubbidire al
limite posto dalla riga rossa».
Molte spesso queste situazioni vissute nell’età adolescenziale “incattiviscono”
taluni che poi faranno il medesimo mestiere di insegnante. Fortunatamente nel
nostro caso non è assolutamente così. Questa docente che, fra l’altro, insegna
matematica, afferma di essere andata in cattedra per la prima volta, 22 anni or
sono, con grande consapevolezza dei suoi limiti didattici, ma con la convizione
del suo ruolo “promozionale”. Scrive infatti: «tuttavia una cosa mi fu chiara da
subito: non avrei mai dovuto fare a loro quello che tanto aveva fatto soffrire me
e cioè farli sentire inadeguati davanti a situazioni più difficili di altre. Seguendo
questa linea di condotta ho cercato di strutturare da subito la mia didattica in
modo da valorizzare negli alunni le loro naturali inclinazioni, senza mai colpevolizzarli
o sminuirli nelle situazioni di insuccesso».
È evidente che un approccio di questo genere facilita molto le relazioni con gli
studenti, senza che ciò significhi legittimare situazioni di lassismo pedagogico.
Al contrario continuiamo a credere che tutte le persone per dare il meglio di se
stesse devono poter vivere in un clima disteso ed incoraggiante. La scuola in
primo luogo, se vuol ottenere dei risultati duraturi nella formazione dei giovani,
deve essere accogliente e mettere gi studenti in condizione di potersi misurare
con nuovi traguardi senza sentirsi inadeguati e senza perdere quel livello di autostima
che è essenziale per crescere.
Questa insegnante di matematica mostra di averlo capito, dandoci conto del
fatto che a tali risultati è giunta sulla base della formazione acquisita durante
gli anni postlaurea, continuando a frequentare l’università, ma anche dopo, nei
frequenti corsi di aggiornamento, pagati di tasca propria, con cui è riuscita a
superare quelle lacune didattiche che sono proprie della formazione iniziale dei
docenti italiani. E ci regala, infine, una pagina di grande significato pedagogico,
che dovrebbe orientare il cammino professionale di ogni insegnante, proprio
perché espressione di una persona che si è “ritrovata”, come molte altre, a
lavorare nella scuola secondaria, ma lo ha fatto con una tensione intellettuale
positiva che le ha consentito di scoprire i lati migliori della professione.
Questa insegnante conclude infatti la sua autobiografia con queste parole:
«L’esperienza di quegli anni di formazione è oro nella mia carriera professionale
e costituisce la base sulla quale costruisco oggi qualsiasi relazione personale.
Raggiunta la consapevolezza di come un comportamento assertivo, congruente
ed empatico sia importante nel consolidare ogni relazione, di come le barriere
comunicative che talvolta anche inconsapevolmente alziamo, blocchino qualunque
via alla comunicazione, ogni giorno che entro in classe cerco di favorire lo
scambio emotivo nel gruppo, provo ad ascoltare i messaggi verbali e non che i
ragazzi mi inviano e non manco, se se ne presenta l’opportunità , di parlare di
me e comunicare anche le mie emozioni di insegnante di fronte a situazioni che
possono essere difficili e talvolta frustranti per tutti. Nonostante sia stata per
me una professione di ripiego, la percezione che ho di me come insegnante è
positiva, mi sento di svolgere questo ruolo con tanta energia ed entusiasmo e,
senza trascurare le enormi difficoltà che sempre più i ragazzi incontrano nell’ap-
119

120
prendimento della materia che insegno e sulle quali occorre fare certamente una
riflessione che vada in direzione di un rinnovamento sul piano didattico, penso
comunque di riuscire a costruire con loro una relazione profonda ed importante
che perdura oltre la fine del loro corso di studi. Il ritrovarli adulti laureati, professionisti
affermati, che si fermano per strada a salutarmi o mi chiamano per
telefono per condividere con me alcuni bei momenti della loro nuova vita, fa
acquistare il giusto senso al mio lavoro poco riconosciuto e mal pagato, mi fa
capire che sono stata un riferimento adulto importante nella loro adolescenza e
mi dà la forza di andare avanti ogni anno nella ricerca di strade sempre nuove e
sempre più difficili da percorrere per essere al passo con i tempi, sempre pronta
ad accogliere i nuovi arrivati».
In ultimo ci soffermiamo su una autobiografia emblematica, che merita di essere
letta integralmente e di cui riportiamo solo il passo finale, rimandando alla
lettura in appendice. Il titolo stesso - «Guarda il cielo come è azzurro: autobiografia
di un’ottimista» - testimonia della grande maturità personale e della
evidente consapevolezza professionale della sua autrice. Il testo, fra l’altro, ci
consente di ripercorrere una storia esistenziale che è rappresentativa di quella
che ha caratterizzato l’accesso all’insegnamento della stragrande maggioranza
degli insegnanti italiani. La pochezza gestionale dei governanti italiani ha infatti
causato il perdurante fenomeno del precariato, che ha condizionato negativamente
la vita di molti giovani, alcuni dei quali si sono anche “persi”, in taluni
casi con grande nocumento per la nostra scuola. In questo caso, fortunatamente,
l’autrice tiene duro e, pur con grandi sacrifici, riesce ad entrare in ruolo ed a
svolgere – “pensando positivo” – il proprio mestiere di insegnante in un Istituto
tecnico di Pontedera, dove i ragazzi, certo, pongono sempre più problemi e non
sono facili da “gestire”, didatticamente parlando.
Ma è appunto la evidente competenza riflessiva di questa insegnante che la
aiuta a contestualizzarsi ed a cogliere le differenze con altri contesti formativi di
pari grado, dove l’approccio di molti colleghi appare fuori dal tempo e dallo spazio.
Questa insegnante, peraltro, non nasconde le difficoltà reali che la relazione
con i ragazzi comporta. Nonostante tutto continua a credere nell’importanza
dell’ascolto e nella necessaria caratterizzazione collegiale del lavoro docente,
che solo riflettendo sul proprio operato può continuamente migliorarsi e rispondere
realmente ai bisogni formativi delle nuove generazioni. Ed è appunto con
un ultimo richiamo al “pensare positivo” che vogliamo terminare, riportando
l’ultima parte di questa autobiografia, che richiama la “filosofia” educativa alla
base di questo lavoro e dell’intero progetto. Questa insegnante “incoraggiante”
conclude infatti: «I ragazzi sono sempre più problematici, demotivati, sono molto
più soli di un tempo; tanti colleghi sono sempre più stanchi, spesso frustrati
da un insegnamento che, talvolta, dà poche soddisfazioni. La mia scuola non è
certo un luogo dove tutto scorre tranquillamente, è una scuola in cui spesso ci si
deve mettere in gioco, in cui ci si misura con se stessi e con difficili realtà quasi
ogni giorno, è una scuola che definirei “vera”, impegnativa, dove, però, tutto ciò
che avviene riesco ancora a viverlo come arricchimento, come completamento.
É per me una scuola “altra”, unica, ben diversa da quelle scuole come i licei

dove si trovano ancora allievi modello (mia figlia frequenta il liceo classico e lì è
ancora così) e dove sembra che il tempo si sia fermato o almeno si crede che sia
così. I miei allievi sono indocili, vanno seguiti, controllati, “circuiti” in ogni modo
perché per molti di loro la scuola è veramente l’occasione della loro vita, forse
per alcuni, davvero l’unica. Formarsi seguendo corsi è sì importante ed utile,
ma ritengo che sia fondamentale per un insegnante mettersi in gioco, imparare
ad ascoltare i ragazzi e cercare continuamente di capire, di sperimentare nuove
strategie, nuovi percorsi possibilmente cercando di condividere con i colleghi i
propri dubbi e le proprie incertezze per tentare insieme di trovare soluzioni utili
davvero ai nostri ragazzi.
L’altra mattina sono entrata nella mia seconda, una classe difficile dove ci sono
ragazzi poco motivati, strafottenti e confusionari… Mi sono arrabbiata ed allora,
stanca di ripetere sempre le stesse cose, ho minacciato che l’anno prossimo li
avrei lasciati, avrei cambiato classe. I ragazzi vedendomi molto arrabbiata si
sono zittiti, lentamente mi si è avvicinato Cristian, un ragazzo bulgaro, che ha
balbettato: “io non la lascio, io vengo con lei”. Ed allora ho pensato: il cielo è
proprio azzurro!».
121

122

5.
Reflective Competences
and Autobiographical Approach
Formation and Reflexivity
Relational, cultural, techno-professional and methodological-didactical competences
are all at the base of a revamped and mature professionalism of the
teacher. To all of the above competences, we have to add what we like to call
reflexive competence. The latter should be exploited also during initial and inservice
training as the education professionals need to continuously contextualize
their professional commitment. A high quality educative professionalism
indeed must also be fruit of a precise contextualisation, considering that it
originates in relation to the institutional realities and the political choices which
influence the educative action. This, and its “quality” is fruit of precise planning
choices from technical and political heads even if it is conditioned by the
pressures and the practices of the professionals. All this requires in turn an effort
to train active and responsible tied to the local community and which can
enter correctly in relationship with referential “community of practices” (Fabbri,
2007).
Since the social construction of knowledge is formed in factual specific contexts,
it imposes the professionals-in our case the teachers- to acquire awareness of
laws and cultural traditions of the environment in which they carry out their
tasks. In other words the issue of “political” culture in the etymological sense
of the word is put into question, by the educational professionals which are also
to be considered as “professionals of social action” and agents of transformation
and growth of the local community. As a result Maura Striano (2001, 156)
reports “formative paths for professionals (in particular those in education)
should not solely be aimed at acquiring specific knowledge and competences
which qualify them in a theoretical-instrumental sense but to develop and put
into practice forms of practical and emancipating rationality[…] which permit
actions that are not only efficient but founded on a real awareness of the
essential requirements (cultural, personal, social, political) from which these
actions derive, on implications which imply them of the consequences which
foreshadow”.
It is also for these reasons that teaching practice in the initial training of teachers
is important. This proves the need to train for a profession which joins
theoretical “knowledge” and practical “know-how”. Teaching practice substantiates
the choice of a continuous and balanced integration between “theory” and
“practice”.
123

124
In this context both university where initial teacher training should take place
and the school system take on new responsibilities. The former must learn
more about the reality of school so that it can understand and question it if necessary.
The latter, on the contrary, should make the choices it offers very clear
so that the trainee practice teacher can be guided in his future choice and also
be put in the position to develop a personal critical reflection.
It is also for this reason that teaching practice should take part in the final part
of a training course, and it should be set out that it does not enter into conflict
with more academic instruction. This emphasizes even more the tie which must
exist between “academic courses” and the solid experience of teacher training
in addition to workshops.
Therefore university must guarantee the student the acquisition of theoretical
competences of metacognitive nature which put him in the condition of not becoming
a prisoner of routine which can be a threat when working in schools.
It is for this reason that “theoretical” teaching must be based on the theoretical
and historical elaboration of educative problems as well as methodology and
subject matter regarding the different cultural areas, so that the young trainee
understands the connection between theory and practice. The “professionalizing”
character of a study course and of teaching practice is therefore evident
and it aims at helping to acquire a mature and critical professionalism exactly
because it is founded on the capacity of a critical reflection of a concrete experience.
In service training or “refresher courses” should also contribute to this aim,
even if the two terms and the relative “practices” are not exactly synonyms. In
each case it seems useful to state that one of the most important objectives of
the refreshing process must be to answer to the different needs of the teachers,
so that work groups characterized by a strong collective and collaborative spirit
can be set up. It is also for this reason that further training cannot be conceived
as a mere occasion to transmit new techniques.
Indeed bringing up to date a professional group cannot only mean making them
acquire new technical-style competences. Instead it means contributing to activating
a mentality of a critical-problematic nature regarding one’s professional
role and the role of the service in which one works, so that he can continually
upgrade his qualifications and be continuously revamped. This result can be
obtained especially through continuous refresher courses and nor sporadically
if results must be obtained.
Indeed bringing up to date is not a singular event as innovations are forever
taking place. If we think of updating in terms of innovation (which is the concrete
way of describing it regarding the finalities in the eyes of the students)
we can immediately understand its character of continuity and of ties with daily
school life. This characterization is the only one that can guarantee that teacher
updating has any real effect on the students. In other words, the result of a
good refresher course is not only a satisfied teacher but a teacher who is capable
of transforming his satisfaction in behaviour which favours the development
as a whole of the student.

This last issue has recently gained more attention, due to the focus given to the
problem of productivity of public workers, which teachers are a part of. More
specifically, the question arises of promotion and the check for the validity of
the quality of school and the assessment of the teachers themselves.
At the same time, updating should give the teachers the necessary tools to
know and interpret the complexity of the different realities in which they work.
It should also allow the teachers to constantly qualify their professionalism and
enrich it with a constant reflection which is founded on a constant interaction
between theoretical and practical knowledge which can put them in the position
of giving significant answers to the formative needs of adolescents.
The acquisition of reflexivity is a guarantee not only of the quality of teaching
and the creation of knowledge, but also of a more real recognition of the teaching
profession. (Perrenoud, 2001). The rising complexity of formative contexts
has also given teachers new challenges, making the need to constantly make
their professional action and the theoretical references which facilitate a better
and clearer explanation of educative intention more problematic. Reflexivity
is therefore seen more and more as a founding characteristic of the teaching
profession, since it, as Maura Striano writes (2006, 37) “is configured as one of
those segments of a circular process in which the professional can “look back”
by activating processes of reconstruction of learning and cognitive strategies
exercised in the experiences and practices carried out”.
Personal Reflection and Reflexivity of the Subject
Reflexivity indeed permits the subject, in different contexts, to elaborate theory
starting from his experience. In this case we can talk about creating knowledge
and elaboration of theory starting from a process of conceptualisation of what
is real, searched and observed in an aware manner. The behaviour of all people
indeed is inspired by theories which are more or less implicit and which people
must be aware of. The acquisition of this awareness is certainly favoured by
single reflection and conversating with others. For this reason the experience
that the subject can have in a group where interactive comparison stimulates
introspection is useful.
In particular it seems useful to use the strategy of the small group, in which
teachers can retell their experiences and compare ideas. This conversation
technique is not a means to an end but it is a continuous mediation between
theoretical knowledge and professional knowledge which teachers are bringers
of. For this reason in refresher courses the “reflective narration” can be useful
as it easily permits the members of the group to combine a theoretical approach
with personal experience.
This method needs a conductor which we live as “facilitators of communication”
and who really manages to live his professionalism at the service of the
growth of teachers. Regarding this, simulations, role play, retelling of “critical”
events, videos and films which help stimulate discussion prove useful. The
125

126
discussion will become richer, thanks in particular to the narration of concrete
experiences, which if correctly reflected upon, will facilitate the acquisition of a
critical awareness on the part of the teachers and will promote the creation of
a collective knowledge.
Reflective Competence and Autobiographic Approach
The context of the “work group” can be useful to refine the “reflective” competence,
which must put the teacher in the condition of being aware of how he
must commit to his profession and to continuously enrich it. The different competences
indicated previously (cultural, technical-professional, methodological,
relational) are indeed essential: but we cannot forget that the professionals of
education must continuously compare troublesome situations and be able to
put their experience into “categories” while learning from it and so build new
knowledge.
In this context, it is necessary for them to be able to make use of a heuristicreflective
rationality which was identified by Dewey and later interpreted by
Donald Schon as fundamental for an “epistemology of professional practice”
“This form of rationality (which takes on several and complex expressions in
relationship to the different courses of action in which professionals are implicated)
writes Maura (2001, 54) represents an essential and constitutional element
of educational action, as it is a theoretical-practical dimension in which
we investigate experience and build new functional knowledge to an adequate
interpretation and management.”
The acquisition of a reflective competence therefore, is certainly favoured by
the autobiographical approach, which is an important path in individual formation
and is nurtured by the enhancement of personal histories of the subject
“in this approach” adds Laura Formenti (2001, 106-107) with considerations
for parents but which could also be valid for teachers, “knowledge and care of
oneself go together as training tools for adults, of reflection on experience, of
new insight within a language and a frame which are not given out beforehand
but are chosen. The educational biography of an adult is the history of his relationships
(even in the family) and of the strategies learnt to face vital tasks as
well as giving inevitable crisis sense. Each of us is the carrier of a patrimony of
experiences which can be a resource for change.”
The knowledge of the person is nurtured undoubtedly by his own history
and of his experience from a professional point of view. For this reason a biographical
approach appears rather convincing as it permits him to dig out
of his memory the various moments of his personal professional existence,
the errors made and successes obtained. This type of commitment is inevitably
founded on reflective competence which can be developed by putting
it into practice and which is useful not only to bring back the past from a
critical point of view, but also to reflect on the present and prepare the future.

This seems to be more important in the light of the more widespread belief
relating to the importance of learning from experience highlighting that learning
from experience is not a valid automatism for everybody. “Having an experience”,
even of a professional nature is not automatically transformed into
new knowledge and new forms of knowledge, which are instead assured by an
experience reflected in the Deweyian manner. Loretta Fabbri (2004, 24) writes
“Learning from experience with considerations which are valid also for teachers,
involves activating processes of elaboration, opening of research prospectives,
taking a turn to speak, which permit the subject to think his ways of being, his
cognitive and relational styles and to learn to read and decode situations which
he gets involved in. Learning can be seen as a possibility to transform impulsive
and routine happenings through the activation if a thought, which suspends
present action and permits to think of the action beforehand, imagining it from
different points of view”.
The autobiographical construction indeed can be a valid tool to help people to
reflect critically on one’s own experience and enhance it, overcoming moments
of discouragement which can sometimes happen in a difficult profession like
teaching. In this case we can notice a real enhancement of experience, which
is considered a priority in learning and the building of knowledge. “The recent
fortune of the pedagogical idea of narration” writes Demetrio (2005, 28) is due
to both a reconfirmed motive made one’s own of active and activist education,
pragmatism and phenomenology to the targets reached by the science of the
mind and language. These repropose the irreplaceable role of learning from experience,
which in pedagogical language means support, favour, rearrange all
that permits the subject to learn by throwing himself into situations at a school
level which is low or almost absent”.
In this perspective the formative potential of autobiographies, in particular for
the development and the refinement of what we like to call reflective competence.
In this way the teachers can critically reflect on their personal history
identifying limits and positive signals and gaining, in this way, newfound enthusiasm.
In the same way the autobiographical commitment permits us to regain a cultural
patrimony which appears essential in this moment of “generation renewal”.
The young generations of teachers indeed can take advantage from the
knowledge of “older” colleagues and use this as their starting point to build a
new professional knowledge and further improve school reality. To refine and
qualify their identity, the category of teachers needs to make a treasure of its
past and of the patrimony of knowledge gathered in the past thirty years to be
able to face and win new professional challenges which the present day offers.
Teachers’ Autobiographies
For this reason within the Leonardo Project dedicated to relational competences
of teachers in secondary schools, we have thought it opportune to promote
127

128
autobiographical reflection of some of them. The products which have been
published in full in the following chapter are very interesting and show common
problems in the schools of the four countries taking part in the project (Ireland,
Italy, Germany and Poland. Several common factors emerge like the mid-low
social position of the teachers, whose families were made up of teachers or
clerks, or even factory workers.
Starting from the first Irish autobiography it is interesting to note how many
teachers come from “school” families whose members were once teachers. The
situation of one Irish teacher is emblematic. He speaks with typical Anglo-
Saxon humour of a “genetic” desire to become a teacher as his mother, brother,
sister, nephew and several cousins had been. Just like many others, this Irish
teacher started his career in a private all-girls’ school (a convent) in which the
social situation is quite high and where “richness and privilege are abundant”.
He then refers to having taught in a school in the suburbs in contact with the
real world, in which there are students from all social circles including disabled
children, therefore to have worked in a school which was in contact with the
everyday world.
This autobiography is really interesting, in that the teacher really managed to
create introspective work through his personal history. He recalls in this way
that when he started working, he believed that to get the students’ respect he
shouldn’t take liberties, and always be serious. “Never smile until Christmas”
was the motto of the teachers in his first school. Luckily he met a colleague who
helped him understand the importance of knowing his students and of keeping
a less distant relationship with them.
The different climate, of real comradeship which he managed to create, gave
him the role which exists in Ireland of “Assistant Head” which is a sort of coordinator
of classes. The “Assistant Head” has many responsibilities starting from
listening which all students have a right to and is a significant aspect in Irish
schools. Regarding this point, we must emphasize that the results are positive
also in virtue of the fact that correct organizational choices were made. The Assistant
Head indeed follows the same group of students from first year through
to the sixth; in this way him, as seems to be evident, he has the possibility of
getting to know them, of interacting with their parents and of helping to contribute
to a positive and welcoming climate. The Irish school indeed seems to
be the one which takes the communicative dimension of education most seriously
and tends to present itself as a school which is part of the community.
This climate can also be seen in the autobiography of another Irish teacher who
shows the Anglo-Saxon humour when she recalls her experiences as a student.
She tells us that when she was 16 she studied “Hamlet” “which was as useful
as a bikini in Alaska”. That year she dropped out of school. In the following five
years, she went to work and was in contact with real life, after which she went
back to university to get a degree and go on to teaching. At the same time this
teacher insists strongly on the importance of motivation to give the best of oneself
in teaching. It is clear she is a teacher who “thinks positively” and she says

that she loves her job in her school in Ireland in which “I ask for and receive
help when I need it” and in which healthy relationships between teachers and
students contribute to working well even out of class.
A German teacher points out that in order to characterise positively his relationship
with students from the first days of school, it is opportune to “learn the
names of the students in the new groups as soon as possible, so that you can
direct them according to their personal levels of development”. He is aware of
the importance of relationships with parents even if his principle satisfaction
derives from the renewal that has taken place in teaching the subject. In particular,
this teacher expresses his satisfaction for the new relational competences
in communication which have been acquired by teachers and specifically, as
regards him personally, the communicative competences which are necessary
to teach English.
Another German teacher gives us the opportunity to understand that difficulties
with relationships with parents also exist in Germany where, as he writes, one
of the most felt problems is that of the integration of immigrants. Specifically
this teacher points out that 30% of the students he works with come from a
foreign country and, in general the parents don’t understand German very well,
therefore problems regarding communication arise. This teacher also complains
about the fact that pedagogical ideas have been supplanted by efficiency
and merit. He also states that the participation of parents is rather to “attack”
teachers with the aim of getting better results for their children. The result
is that there are many cases of aggression between students and sometimes
heated arguments between parents and teachers and also between teachers
and teachers’ meetings with deep rifts among the components.
Obviously the reflections contained in these autobiographies cannot be generalised.
All the same, they can be quite useful to know particular cross-sections
regarding the schools which took part in the project. What a Polish teacher
wrote was significant. She affirms that her model is impersonated by Queen
Orzechowska, the Head of the school who moves with sobriety and sweetness,
and is a testimonial of her commitment to management while being aware of
the importance of relationships.
The considerations of this Polish teacher are, no doubt, influenced by the type
of school-a sort of polytechnic where beauticians are trained. She is fully aware
of the importance the school has in the eyes regarding future job opportunities.
In the same way, the parents appreciate the fact that the school has
contacts with many beauty salons which could employ the girls in the future.
Regarding the relationship with parents it should also be noted that this teacher
is responsible for parent-teacher contacts and organises events for occasions
like Christmas, Mother’s Day etc. This helps create a better climate and closer
relationships between parents and teachers but also among the teachers and
students themselves.
Another Polish teacher starts ironically by saying he was “born in an educated
middle class family” then specifying “this is a simplification of things because
during the Communist period we live officially in a society without class”. This
129

130
teacher also shows an evident capacity for critical analysis regarding his own
training. This he believes is inadequate and characterised by lots of attention
given to theory and scarce attention for the practical aspect. He concludes by
saying that he started working “alone with me “and “learning from my mistakes”.
Even for this reason this teacher feels anxious about his initial teaching
years which is also a sign of great seriousness. He also remembers preparing
his lessons from day to day to feel that he was up to the situation.
Regarding relationships, this teacher talks about both those with colleagues and
those with parents. If he remembers his experience in High School, he recalls
that the teachers were much older than him and therefore had a distant relationship
with them. Regarding parents he is sorry that they hand over the task
of educating. In fact he says, “My duty in promoting good relationships with the
parents was to convince them that they too, are responsible for their children’s
education”. He draws clear conclusions. He sustains that a real relationship
between teachers and parents doesn’t exist. Then he goes on to affirm that he
was surprised to see parents asking part in meetings held by the school. Even
this reflection shows an unease in relationships which is present in the Polish
school, as is the Italian school and the German one. The Irish reality seems different
as it seems that relationships between teachers and parents are better.
In the Italian school system we can find different types of experiences. Some
are unthinkable like the experience of a temporary teacher in a vocational
school which she attended brilliantly after her doctorate. She had also worked
in other countries and had attended SSIS. Today she is in her first job and lives
it with enthusiasm and without any frustrations which we often find in teachers
who would have preferred to work in University, and see teaching as a sort
of “declassing”. It is interesting to emphasise how the social background of
the teachers in the four participating countries is in general, modest, at most
middle- class clerks. In many cases the people in the families are also in the
teaching profession. In each case we can see that in the seventies, many young
people rebelled against the economic restrictions of their families. This is the
case of one teacher who told us she wanted to go to High School to specialise in
Art and that this school was refused to her by her parents as they were unable
to sustain her upkeep in Florence. It is because of this refusal that she decided
to go to Liceo Magistrale where she met a very special teacher who positively
marks her future life. To use her words “The years at Istituto Magistrale were
important. First of all I was lucky to be part of a solid and closely knit class and
I made special friends and lasting ties in it, then I met a wonderful teacher who
changed my life, my Latin and History teacher, a young man in the first year of
his job, but destined to become one of the most important Italian intellectuals:
Antonio Tabucchi.
and a half columns, or she wouldn’t have corrected them. To avoid this every
time we had a test she would come to me with her red pen and mark a line
where she believed the end of my essay (and may I add, my thoughts) should
be. What a nightmare that red line on the paper was. What an effort to write
briefly my thoughts while hoards of ideas were going through my head! I felt as

if I had lots of things to say inside but not be free to express them as I wished.
This caused lots of internal unease which made me end up thinking that my
ideas were not worth putting on to paper, while for me getting good marks was
important so it was necessary to obey the limits posed by that red line”
Very often these situations from adolescence cause those who want to follow
the teaching profession “bitter”. Fortunately in this case it was not so. This
teacher teaches maths and admits teaching for the first time 22 years ago; she
knows her limits yet is convinced of her role as “promoter”. She writes “however
one thing was clear I should never do to them what made me suffer i.e.
make them feel inadequate when faced with difficult situations. Following this
line of conduct, I tried to structure immediately my teaching in a way as to give
value to the students’ natural inclinations, without ever blaming them or make
them feel little in the face of a failure”.
It is evident that an approach of this type makes relationships with students
easier without permitting situations of pedagogic softness. On the contrary we
continue to believe that all the people must live in an encouraging and relaxed
climate to give their best. If School wants to obtain lasting results in the training
of adolescents, it must be welcoming and put students in the position of
measuring themselves with new targets without feeling inadequate and without
losing that level of self-esteem which is essential for growth.
This maths teacher proves she has understood this, as she tells us that these
results have been obtained thanks to post graduate training, both at university
and by participating in fresher courses, and paying for them out of her own
pocket. In this way, she was able to overcome gaps which are part of the initial
training of teachers in Italy. She also gives us a page of great pedagogic meaning
which should guide the professional path of every teacher because it is the
expression of a person who has “happened to find herself” working in a secondary
school, but she made this choice with a positive intellectual tension which
has let her discover the best aspects of the teaching profession.
She concludes her autobiography by saying “the experience in those training
years is gold in my professional career and is the base upon which I build any
personal relationship. Being aware that an assertive, balanced and empathic
behaviour is important to consolidate every relationship, of how communication
barriers which are often raised somehow block communication, every day I go
into class I try to favour emotional exchange within the group, I try to listen
verbal and non-verbal messages which students send out and I never hesitate
if the situation presents itself, to talk about my emotions as a teacher when
faced with difficult and frustrating situations for everybody. Although this was
my second choice of job, the view I have of myself as a teacher is positive. I
feel I can do my job with lots of energy and enthusiasm and without ignoring
the great difficulties that an ever increasing number of students have when
studying the subject I teach. The subject needs to be reviewed and changes
made in teaching it. I believe I can build a deep relationship with my students
which are long lasting –until the end of their studies. Seeing them again as
young graduates or famous professionals who stop me in the street to say hello
131

132
or to tell me about their lives gives my under-paid and ill-considered profession
a sense. I understand that I have been an n important adult reference in their
adolescence and this gives me the strength to go on every year looking for new
and more difficult paths to follow to keep up with times and to be prepared to
welcome new faces”
Finally let us pause on an emblematic autobiography which merits reading in
full. We will cite the last part and refer to the bibliography for the rest. The title
itself “Look at how blue the sky is: autobiography of an optimist” shows great
personal maturity and professional awareness of the writer. The text permits
us to follow a history of existence which is represented in what she has characterised
the front door to teaching for the greatest majority of teachers. The
superficial management of Italian governors has caused the long lasting phenomenon
of temporary teaching. This has conditioned negatively the lives of
many young people some of which have also got lost in some cases with great
damage to our school. In this case the writer holds tight and with lots of sacrifices,
manages to get a permanent job and carry out her profession “thinking
positively” in a Technical school in Pontedera where students cause more problems
and are not easy to manage, didactically speaking.
But it is her evident reflexive competence which helps her to contextualise and
capture the differences in other formative contexts of the same level in which
the approach of the teachers seems to be out of time and space. This teacher
does not hide the real difficulties. In spite of this she continues to believe in the
importance of listening and the need to make the teaching profession collective.
Only by reflecting on one’s work can he improve and really answer the formative
needs of the new generations. It is with this last reference to “thinking positively”
that we want to conclude reporting the final part of this autobiography
which refers to the educational “philosophy” which is at the base of this work
and of the whole project. This “encouraging” teacher concludes: “Adolescents
are more and more troublesome, they lack motivation and are lonelier than
in the past; many colleagues are more tired and frustrated by teaching which
sometimes gives little satisfaction. My school is certainly not a school where
everything runs smoothly it is a school where we often put ourselves at stake,
in which we face difficulties almost every day; it is a school I would define “real”,
taxing but in which I can live everything that happens as a form of enrichment,
as a form of completion. It is for me a “different” school, unique, very different
from the High Schools in which we still find model students (my daughter studies
at the Classical High school and there this is still the case) and where time
has stood still or at least, this is what we would like to believe. My students are
by no means tame, they have to be cared for, checked up on, “surrounded” in
every way as for them school is the only opportunity they have in life. Maybe
for some, the only real chance. Training through courses is of course important
and useful but I believe that it is important for a teacher to put himself into play,
to learn to listen to the adolescents and to try to understand, to try out new
strategies, new possible paths trying to share with colleagues their doubts and
uncertainties to try to find solutions which are useful for our students.

The other morning I walked into my second year class, a class which is really
difficult, where there are scarcely motivated students, impertinent students
and students which cause disruption… I got angry and tired of repeating the
same things, I threatened that the following year I would no longer be taking
that class. On seeing me very angry the students fell silent, slowly Christian, a
Bulgarian boy came up to me and stuttered:” I’m not going to leave you, I’m
coming with you” And I thought: The sky is really blue.
133

134

6.
Le autobiografie dei Professori
Autobiografia Irlanda 1
I am an Irish language teacher of 26 years experience in a Dublin second level
school. Not a native of the capital city I moved here upon my marriage in 1981.
I grew up in Derry City in Northern Ireland during the turbulent years of the
“Troubles” despite which I received a very solid but traditional primary, secondary
and university education.
At the age of ten I sat the infamous “Eleven Plus” examination and from the
age of eleven to eighteen I attended a Catholic Convent Grammar School. Success
in my “O” and “A” Levels allowed me to proceed to university. Four years
later I was conferred with an honours degree in Irish and Education.
I come from a middle class family of teachers- my mother, brother, sister,niece,
uncle and several cousins are all in the teaching profession. My grandfather
was one of only a few boys to have been awarded the “King’s Scholarship” in
1915 which gave him a teacher training place in St. Patrick’s College of Education,
Dublin. However, due to unforeseen family circumstances he had to
forego his place in college which was a source of enormous regret and disappointment
during the rest of his 95 years. From their earliest years my grandfather
instilled in his children and grandchildren the desire to be educated and
to educate others. I suppose this desire must be genetic as my own daughter is
now training to be a teacher in the very same St. Patrick’s College.
My first teaching position was at a private all-girls’ convent school where wealth
and privilege abounded. I had the opportunity to remain on at this very refined
and polished establishment but I gambled and left the city centre for the Dublin
suburbs. I often wonder what would have become of me or what sort of teacher
I might have turned out to be had I chosen otherwise. I now realise how little
I knew about the real world before I started work in a Community School in the
outskirts of the city. I have given much of my heart and energy to the same
school for the last 25 years. However the staff and especially the thousands
of children who have passed through our doors have given me a depth of experience,
wisdom, joy and camaraderie which I would be hard pushed to find
elsewhere. The students in our school come from every kind of socio-economic
background-from the very wealthy to the under- privileged. Our intake also
includes a very wide ability span- from those with special needs to the high
135

136
achieving academics. A community school in the truest sense of the word.
Like many other young teachers, the early years of my career were spent preoccupied
with carving out a reputation for good exam results and also in perfecting
good classroom discipline .One of my earliest mistakes was to remain
distant from the students in the hope that this might generate some sort of
magical respect and cooperation which in turn was supposed to create a classroom
atmosphere conducive to learning! “Never smile until Christmas” seemed
to be the most frequent advice of all. It wasn’t too long before a colleague who
patiently listened to my woes said to me “Why don’t you get to know the kids?”
He often puzzled me by referring to the most difficult students as “fantastic”
or “amazing”. I am very glad to say that I took my colleague’s advice and ever
since I have endeavoured to get to know the children I teach. I have to say that
the return from this small effort has been cooperation, respect , a willingness
to learn and a genuine atmosphere of camaraderie in the classroom, in the corridors,
on school outings or even at the shops out of school hours. It saddens
me to hear teachers say that their workload does not allow them to talk to their
students or that to do so might not be appropriate-for all sorts of reasons. A few
friendly words at the classroom door or in passing throughout the school only
takes a few moments but the dividend is long-lasting. It gives me great satisfaction
to inquire about the students’ well-being or that of their families and
it reassures them that I care for them. When students call greetings to me or
wave to me in my car I consider this a compliment and a mark of their respect
for me .However I had to earn this respect in the first place but it wasn’t hard
work. I regret that this very basic teaching strategy never formed part of my
teacher training.
Teaching my own subject (Irish) has been a positive experience as I enjoy
speaking the language and derive great satisfaction from seeing my students
share my enthusiasm and make solid progress in their studies. I have attended
numerous in-service courses over the years and have tried to keep abreast of
new methods and ideas. Such courses are a very important aspect of my professional
development. It is my view that education is a work in progress and
should respond to the needs of the children in a changing world. In- service
training enables teachers to up-skill and refresh their approach to teaching. My
current interest is the use of computer technology in the classroom and mindmapping
as a study aid. Through in-service, trial and error, swapping ideas with
colleagues and the experience of many years in the classroom I have developed
many successful teaching methods and strategies.
Subject planning is a very important element of my job although like many
other teachers I do not look forward to the annual task of planning lessons for
every day of the school year and for every class that I teach. However, structured
planning ensures that the teacher runs a tight ship and that nothing is
left to chance. It is my own feeling that thorough planning ensures a good
focus on the syllabus and keeps one’s educational goals firmly in mind . In-

service training on planning and Whole School Evaluation from the Inspectorate
were particularly useful in prompting me to re-assess the design and depth of
my subject plans. My planning design includes work topics for two and three
week blocks for the whole school year. I include resource details for these lessons,
the number of class periods needed to teach these topics, the purpose of
the lessons and the method of assessment used to monitor daily and overall
progress. These plans contain a lot of detail but they are of immense value in
keeping me on track throughout the year. If I need to adapt my plans during
the year I have no hesitation in doing so as I believe that a plan only works if
it serves the needs of the students.
The post of responsibility that I hold in our school is that of Year Head. This post
was formerly known as an “A” Post but in recent years it has been re-named
Assistant Principal. This is a very big post as it involves almost complete responsibility
for every aspect of the students’ education, subject options, entrance
testing, class placement, reviews, wellbeing, pastoral care, discipline,
liaison with parents, parents’ meetings, reporting, records, ceremonies and
graduation. My role is clearly a very comprehensive one but above all I make
myself available to the students in my care so that they always feel there is
someone there to guide, support and help them with their problems. In our
system the Year Head follows the same group of students from first to sixth
year and consequently we get to know the students, their families, parents and
their problems extremely well.
I believe our school is unique in that it nurtures the pastoral well-being of the
child from the outset. We have a very strong anti-bullying policy and in-service
on anti-bullying is on-going at the moment with a “Kool School” programme
about to commence in the near future. After the class teacher our ladder of
referral system includes tutor, year head, chaplain, career guidance counsellor,
Deputy Principal and Principal. We also have a very enthusiastic Students’
Council, Prefect system, Head-boy and Head- Girl all of whom are charged with
(among other things) looking out for the well-being of the students. There is
a very friendly caring atmosphere in our school which is frequently remarked
upon by visitors to the school. Children are encouraged to consult their teachers
if they encounter problems in their learning. They are secure in the knowledge
that the staff are friendly and approachable if they have a problem. Liaison with
parents is a big priority and the dividend from this is that parents support
the school fairly well and turn out in considerable numbers for parent-teacher
meetings , ceremonies and graduation, etc. The school has a Parents’ Association
which has assisted with fund raising, information evenings, Open Night
and Graduation. There is also liaison between the Parents’ Association and the
parent representatives on the Board of Management. Parents in general have
a very good relationship with teachers in the school. It is our practice to keep
in regular contact with parents and a dedicated section in the school journal
facilitates this. We also telephone and/or meet parents if we have reason to be
137

138
concerned about any aspect of the students’ welfare or progress. We also welcome
parents if they wish to make an appointment to come into the school to
discuss issues of concern to them. This open door policy ensures a real partnership
between all parties involved in the education of the students. Consequently
our students have a real sense of parental involvement in their education.
The school experienced an extraordinary out-pouring of grief, support and
friendship following the cancer - related death of a student two years ago. Expert
advice on grief and bereavement was sought and a Critical Incident Police
was drawn up. The level of whole- school involvement in the pastoral care of
the students at this vulnerable time was admirable. The student themselves
channelled their grief in a very positive, creative and uplifting way by building
a Memorial Garden to all the deceased members of the school community.
This has since inspired the creation of two more gardens in the school with
maximum student involvement. It is our practice to encourage ownership of
projects, events and enterprise in the students and the return from this approach
in the students is a mature attitude, a sense of pride and achievement
in their work, increased cooperation and loyalty to the school .
Since I started to teach twenty six years ago I have no doubt that the children
I teach nowadays are far more sophisticated, assertive, confident, financially
and sexually aware than the children I taught at the beginning of my career.
Today’s students live in a very different world. Many are routinely exposed to
danger, crime, domestic strife, peer pressure to drink and take drugs and very
many of them have more disposable income than their teachers-thanks to the
Celtic Tiger economy in Ireland. I know that my generation was not exposed to
the same level of pressure or stress as today’s teenagers and considering the
kind of world that they live in I think I think teenagers today manage extremely
well. They have certainly had to grow up a lot quicker than my generation and
are constantly at the mercy of the advertising media, television and the internet.
It is true that teenagers today are different but that is because they come
from a very different world.
I have been most influenced in my teaching career by my school principal.
This principal is an advocate of positive behaviour management which I try to
follow in my daily work. I believe that the simple clear boundaries outlined in
the Code of Discipline along with praise, reward and mutual respect go a long
way towards creating the safe, happy and co-operative environment which our
school is so well known for.
The school has many state of the art facilities including science laboratories,
engineering, technology, and construction workshops, an IT centre, a recording
studio, gymnasium and many more. Our principal works very hard every year to
secure grants for various improvements and repairs and of course we would like
much more money to buy equipment and improve other facilities in the school.

Parents nowadays shop around for schools for their children. The prospects for
our school look very good if we maintain the happy environment I described
above. The difficulty with our system is that a school’s intake is not guaranteed
from year to year. There are a number of secondary schools in our area - all
of which seek their intake from the same pool of students. We have observed
time and time again that parents come back to us after visiting many other
schools because they are reassured by the caring ethos of our school. Our commitment
to providing every student with a well rounded education and also
to cater for their moral, spiritual and emotional needs continues to be a great
selling point. However every year we must work hard to maintain and indeed
improve our intake. We particularly need to attract more girls as at present
they constitute only about one third of the student population. However, our
school maintains a very high academic standard and is successful to a national
level in many sporting and debating competitions. We continue to nurture links
with schools around the world-Spain, Denmark, Norway, Russia, Poland and
Latvia, for example and send students on exchange programmes to Germany
and France. We offer a very wide curriculum to all ability levels and also an
adult education programme which ensures that our school remains a growing,
changing and vibrant place.
139

140
Autobiografie Irlanda 2
I am a Dublin girl born and bred and sometimes it still amazes me that I am an
educator responsible for the well-being, for the opening of young minds and ultimately
for the future of my students. I attended a quirky- I think that’s what you
would call it- nursery school. It wasn’t state run rather two old ladies from the
local community had two classrooms in their house, they lived upstairs. I started
there when I was two and stayed until I was ten. My most vivid memory is crying
at the door because I did not want to go home. At the age of ten the necessity to
move to a national school raised its head. Oh my! The trauma of an Irish class-
I’d never studied it before- and the fear of those big drafty corridors.
I have to say that I didn’t enjoy my time in the national or secondary school
system here in Ireland. I had never learnt to keep my mouth shut and accept
the didactic teachers as the font of all knowledge. This led to many confrontations
the impetus of which I didn’t really understand- I couldn’t wait to get out of
school. At 16 studying “Hamlet” felt as necessary to me as bikini in Alaska. I left
school at 16 to work. I was very bright and incredibly academic but looking back
I don’t think that the national or secondary school system suited me. I felt stifled
by the mundane routines; I couldn’t understand why they wanted us to dress
like some weird character in a throwback to a boarding school in Jane Eyre, and
with a social activist as a father the propensity for non-acceptance of anyone as
the font of all knowledge on anything was inherent.
I held a plethora of wonderfully mundane jobs! I was the supervisor of a fast food
restaurant, I worked in a hospital, I worked in a homeless shelter, I worked in
a betting office and I always felt somewhere that I could do better than this. At
the age of 21 I returned to education and embarked on an academic career that
would take me into the career I’m in now. I attended a community school and
loved the open friendly atmosphere and the sense of responsibility I had for my
own education. I succeeded in my leaving certificate and continued to university
level to study the subject I most favoured- English.
Oh my! University! What I would have missed out on had I not attended. What a
mind-opening experience. I studied English literature and philosophy and thrived
on the fact that in university my opinions counted. I graduated with a first class
honours degree. I remember thinking about what I wanted to do after I graduated
and I did consider teaching and community work but I was hooked and I
wanted time to explore the subject that I loved as much as I did, and still do
some more.
The head of the educational disadvantage unit at my university vociferously encouraged
me to apply to do my Masters in English Literature with Queens University.
If I am to be honest the thought terrified me, you would never think it if
you met me now but then I had so little faith in my own capabilities. A lot of it
stemmed from the area that I was from and the accent that I had, flat Dublin,

and not Masters bound! I applied anyway because I decided it would be best to
take a chance and see what happened.
I will never forget when I got the acceptance letter from Queens University I
thought my heart would burst- with terror! The first thing I told myself I needed
to do was get elocution lessons—I am one of those Dubliners who say “yeah I
got de turty tree bus!” Everyone at Queens would know that I wasn’t supposed
to be there, to speak, to sound and to be where I was from was not conducive to
an academic career. After much assurance that people in Northern Ireland would
just hear a southern accent I packed my bags and off I went.
My experience at Queens allowed me to accept myself and my accent and my
place and to realise that I am highly academic, I can grasp difficult concepts, I
can write a thesis in a month (went travelling to Europe for six months and forgot
to do it, best decision I ever made, education is more than a couple of hundred
words on a page or an X minus Y = Z!). I succeeded in my Masters and was accepted
onto a PhD programme, I however realised that whilst I am academic I
am far too sociable an individual to spend my time with my head buried in theories
for the time it would take to attain an PhD! I am polemic, opinionated and
argumentative. Ill tell you how it is and you can try to convince me otherwise,
you may even succeed, but I will never be able to accept the viewpoint of one
over another simply because that is the particular theory that is in vogue at the
moment.
I took a year out and eventually came to the conclusion that maybe secondary
school teacher was for me. I realised that I quite liked teenagers and could generally
establish a rapport with them, I understood kids who felt disenchanted.
Again I applied to Queens and attended for interview but this time I was very,
very sure about my capabilities I knew I would be a fantastic teacher. I was accepted
onto the teacher-training course in 2005.
The workload was intense. It operated in blocks, 12 weeks university, six weeks
full-time school based practice etc. I now realise how lucky I was. The time at
university was spent preparing us for our teaching practice, we were taught active
methodology in teaching, we were taught how to teach, we were taught of
the imperativeness of asking for help if you needed it and accepting help if it was
offered. Fundamentally I believe that the PGCE taught me about the necessity
for teacher accountability and the belief that a teacher is always in training, you
never graduate, you become more competent with time but you must always be
open to learn!
I was very worried about my teaching practice, and actually cried after the first
class I taught. I laugh to myself now as I think about the fact that I also cried
after my last class with the very difficult mixed ability group I was working with.
I would miss them. From my very first teaching placement into my present post
I am learning.
141

142
My ideas on teaching haven’t really changed at all. Of course I will adapt my lessons
and change my subject matter but the idea behind education is something
that I hope will remain constant throughout my career. Teaching, education is
about the students, all of them, every single one, even the one who sits right
down the back and challenges you with every fibre of his being. Teaching is about
motivation; of course our examinations are important but more important than
that is the need to keep our students engaged. When I say engaged, I don’t
mean engaged with the words on the page in front of them, I mean engaged with
life, with their relationship with you, with their relationship with the class and
their relationships with the world. We as teachers have an inherent responsibility
to ensure that our students do not become disenchanted, that our students will
ultimately believe that they can achieve no matter what their level, that their
ideas and hopes and aspirations are as valid as ours.
Didactic teaching is an anathema to me. Teaching is discovery. Teaching is dialogue,
teaching is modelling the behaviour we expect from our young people,
teaching is allowing our students to be human, teaching is allowing ourselves
to be human. Teaching is making a mistake and owning it, it is about not being
afraid to be personally involved with our students, it is not being afraid of taking
an active interest in their lives. I have found over time that standing at the top
of a room expecting respect because “I am all knowing” is nonsensical. I have a
relationship with every single student in my care, some are better than others
but I really care about all of my pupils and I aspire for them to do well.
In my present school I have found that by allowing my students the freedom to
govern certain areas of their own education they have flourished, as people. Is
that not what we are about, personal growth, enabling socially aware, free thinking
individuals. A small example of this is the drama society that was established
last year. It has flourished, it is completely student run, I offer guidance when
asked. My students are scripting, staging, directing, acting, producing and promoting
their very own collective original piece. How wonderful are they! The best
feeling in the world for me in my whole career was sitting in a room with 20 kids
on my lunch break- the kids stretch across the school from weak ability, to very
able, junior to senior. They were arguing about what the main character would
say, specifically they were arguing about the words he would use, what language
would be acceptable for this character in this case. That is education!
I have a fantastic relationship with other staff members. My personality wouldn’t
allow for anything else. I ask and receive help when it is requested. The staff
are friendly and open and I’ve made some friends at the school that I will keep
forever. I love the friendly and open relationships that both staff and students
have and the possibility to undertake work outside of the classroom. My time at
PSN has been very happy.

Autobiografie Germania 1
I have been in teaching since teacher training in 1978-1979 and have been at
Gladenbach Europaschule since February 1983.
I was born into a local family in Weidenhausen, part of the municipality of Gladenbach
nowadays, which was half farming village, half industrialised place back
in 1953, and thus I grew up on a small farmstead, part of the cow farmer social
layer in Weidenhausen. My father earned some money – little it was – working
for the village administration as towncryer and doing other menial jobs. The
family of seven with my three younger sisters and my grandma on my fathers
side had what was just minimum living space in the small half-timbered farmhouse
and basically lived on what farming gave us as so many others in those
days did. There were the potatoes that had to be picked, there was home-made
bread, there were the two pigs with one to be sold and the other one to be
slaughtered for meat and sausage and there was the vegetable, mostly grown
in the veg garden on the farmstead. We were not just the village poor, most of
the refugees from the German territories in East and South-East Europe were
not better off in those years after World War II, but we had to struggle.
Nevertheless I belonged to the first generation of kids that went to the newly
established local nursery school run by the Protestant church – it still is today
– when I grew three. Afterwards four wonderful years in the local school in a
class of 33 (those were the years with a birth rate that we dream of today), and
here I obviously excelled in a way that had my “Volksschul” mistress, who not
untypically was a bachellor and a dedicated teacher already in her fifties, more
than ask my parents to give me the chance to go to the secondary school in
Gladenbach. They struggled and gave me the chance and after another three
years it was me that urged my father to let me go to grammar school which
was a hard job for my parents as they had to pay not for school fees, but for
the railway ticket to Herborn where the school was. And so I changed school
for the second time being the only one from those 33 in the class at my former
local school to attend grammar school. My father took some pride in his succesful
oldest and many other locals wondered what the hell that boy did in
grammar school when just the children of the town docctors, the parish priest
and the local entrepreneurs had the chance to do so. Anyway, I just continued
to be the best in class for all the time in school to come and even managed to
become the best graduate of the Abitur year 1971 at Johanneum Gymnasium
in Herborn. And it is the years in “upper sixth” that I remember best of all the
years in school and at university when I think back, with us delighting in the
hour on the train to school and another hour back in the afternoon, although
the train left at 6.15 hours in the morning and we were not back home before
quarter to three.
And there I was at eighteen and a half, which is quite young for a German
143

144
school leaver, actually I had always been one of the youngest in my year forms,
not knowing what to do with this premium decree that entitled me not just to
go to university but to do everything including medicine and dentistry which
already were the things sought after most dearly in those years. And although
our and my personal political stance was leftist and more left I – it was 1971 in
West Germany and all the intellectuals had to think left – I made up my mind
to become a dentist. So I enrolled in dentistry at Philipps Univerity in Marburg
which would remain my alma mater for all my studies just to recognise during
the first months at university that I did not want to become super rich and even
more that I actually did not like to work inside people’s mouth for the rest of my
days, and – that I was not apt for the manual skills the business wants.
So there I was, stranded with something I did not really feel comfortable with,
and I decided to become a teacher. Did I feel any pedagogical calling? I am not
sure, but I was certain that history and politics plus any “main” subject were
what I wanted to teach, not just because those were subjects that were fashionable
with the leftb but because I had always taken a strng interest in both, and
with Willy Brand, the popular first social democrat as chancellor, trying to find
and go new ways with the Soviets I decided that it had to be Russian, which I
had not done in school, but which out of a sudden and because of changing political
circumstances seemed to have a realistic chance of becoming an alternative
as second foreign language next to Latin and French. And so I studied Russian,
History and Russian to become a grammar school teacher, finished in minimum
time with premium grades, just to realise that it was Russian that was to become
a burden for me in finding a place for teacher training (which I eventually after
half a year spent as “assistant professor” of Russian lingustics and literature at
Marburg university did find at my former school in Herborn) and a permanent
job in teaching. I had got married in 1975, had become father to a son and was
still waiting for a job. Whilst I was stillwaiting, and making money for my young
family teaching German to the adult sons of Turkish and Kurdish migrant workers
(a job made terrible by political tensions in Turkey and horrible tensions between
the two groups in the classroom) I studied and finished English as a forth subject
for school which at the end of the day gave me the chance of a permanent job in
teaching in summer 1981. But it was not a post at a traditional grammar school
that I was offered. Instaed I found myself in the grammar school department of
a professional school (one of the newly shaped “Berufliche Gymnasien) where
it was almost all English I had to teach which gave me the opportunity to really
practise the language after I had finished English at university in minimum time
without staying in an English speaking country at all. After a year and a half
there was the chance to change school and so I came to Gladenbach comprehensive
whicch in those days was not yet an Euroschule. But here from the very
beginning in February 1993 I could do loads of English language exchanges –to
West Kirby in England first and later, from 1993 onwards, to Dublin, then with
Stockholm and New Delhi, which enriched my day-to day work as an English
teacher tremendously.And once we had begun to become Europaschule I helped

to establish our bilingual grammmar school department where from year seven
onwards I have been doing History and Politics and Economics in English (for
years 11 to 13 only Politics and Economics).
After all this “storytelling” I will now go through your “guidelines” more systematically
and try to answer your questions one after the other.
1) Moods, feelings …. And worries about my teaching experience
From the very beginning of my teaching career back in teacher training I
have felt that in particular in the English language classroom it is a great plus
if you teach vividly, if you interpret the teacher’s role as that of an actor as
well. This is of course even more important if you do literature which to me
is an essential element of teaching English from the base level upwards and
I have always tried to do so. The feedback from students/groups and parents
has been basically positive and has strongly affirmed me in the attitude described
above. On the other hand I have often had to recognise that at least
in the foreign language classroom this might not work with less abled groups
who need a different and stricter approach and hand of the teacher. So here
were and are two conflicting principles but luckily the first one has worked
out with most of the grammar school groups I had to do.
2) Development of teaching methods etc. and classroom planning
As said above almost 30 years of teaching practice have convinced me that
in the foreign language classroom and in the humanities – perhaps – as well
a teacher can consider himself lucky if he has the natural gift of conveying
whatever he has to teach in a vivid, playful and relaxed manner with more
than just one laugh inbetween. There definitely is the other kind of pedagogue
who needs to work more systematically i.e. in a more “scientific way”
if this is what qualifies him more. And this definitely is something you can
“learn”, learn about teaching skills and develop them to be a perfect and
good teacher in the end as well. I know of some math teachers at all the
schools I have worked at who to me seemed to be stiff, if not boring, but
nevertheless generations of students called them their best ever maths or
science teachers who managed to transport their subject and science to the
students properly and in a way their “clients” got it.
But here I need to say that all kinds of lessons and teaching want a careful
planning, from the very individual planning of the school year or term down
to reflecting and planning every single lesson which of course is something
that develops with time. You should always (!) know where you want your
group if not every single student to be after every single lesson, you should
of course try to stick to a prefabricated didactical plan either in your mind or
if necessary in a written form. And here you should mind that revising things
in the beginning of a lesson is of fundamental importance for any successful
teaching process, in my experience it is often much more important than the
disputable amount of homework.
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146
3) Training courses…
do mean a lot to me. I have always over almost 30 years in teaching tried
to learn and do new things, to read newly published literature etc. The
teacher who once stops being curious and open for the new dimensions
of his subject or his subjects will notice very swiftly that he not only loses
contact materially but – which is worse – to his students and the parents
behind them. On the other hand I have come about quite a few “pegagogical
reforms” or even “revolutions” in my career that at the end of the day
turned out to be what I had thought they were from the very beginning –
ridiculous and forgettable and vanishing into Shakespearean mist after just
one or two years.
4) Relations with students
Of greatest importance for any teacher who wants to work successfully.
Lose the day-to day contact to your students and not only will you get into
trouble in the long run but you will simply not get the stuff alomng to the
students. Very important in my view: to know the names of the students in
new groups as fast as possible so that you can address your students really
on the individual level.
5) Relations with colleagues
If you want to do your best in trhe classroom you need to have good relations
to the people at your workplace, to your colleagues including the
heads., otherwise you will lack that inner peace you need to work really
good.
6) Relations with parents
Important and of growing importance in our days because the young generation
of parents tend to interfere more because they are aware of the fact
that it is school education that matters for their kids in a globalising world.
Nevertheless I do have thought that for me as a grammar school teacher
with kids from 13 years onwards the best relation to parents is the one
when I see them just twice a year at the parents day in school
7) Clear changes noticed since…
Definitely yes and not just because educational politics in Germany and in
our state of Hesse particularily is a constant up and down, and it is more
than just a faint feeling that school and school politics work in a circular
way – there is no real advance and everything returns – and not on a higher
level necessarily. But teaching English and modern languages has seen and
undergone a revolution since my days as student and as a young teacher.
Communicative skills, speaking etc. have luckily taken over and replaced a
kind of foreign language classroom that up to the 197os was too much like
teaching Latin or classical Greek.

Autobiografie Germania 2
My family lived in a small rural community and I was brought up among 8
adults, a sister and a step sister all living together under one roof and working
in the same house. Sounds like a prison, but wasn’t.
Looking back I would judge my youth as happy, our social background as lower
middle class. But although living together with my parents I didn’t see much of
them for they had to run a small business and so our grandparents took their
place and it was them who brought us up.
A happy childhood with a lot of outdoor activities, no nursery school which our
village didn’t provide anyway, followed by typical German school career with an
awful lot of commuting ending up in straight passed average A-levels with little
less than 18 years.
As a contentious objector I had to work for 18 month in a hospital for mentally
sick people, an experience which nowadays surely helps me surviving …
I started my academic career 1976 studying Theology at Marburg University to
become a vicar, later I wanted to specialize and work for the church as a school
priest.
During two internships I made the sad experience how future colleges had been
butchered by their students and decided on a second subject to be hopefully
taken more seriously than with teaching religious education only. My first choice
fell on English literature which I started in 1979.
In 1984 I left university with a Master degree in Theology and Staatsexamen
in English and Religion and at the side a degree in History of Arts, for I always
have little side orders when I go out.
These degrees proved to be worth not a lot for driving lorries and other jobbies
for the next 2 years. Although having finished with quite decent exams there
had been no jobs available – as easy as that.
Teaching at evening schools and working for private schools had been an extra
income which helped me surviving in those days until I had the idea, rather an
idée fix, to start my own school.
To cut a long story short, I succeeded and within a little more than a year I
employed 27 Grammar School teachers who had been in the same messy situation
like me before, had a private secretary ( blonde and feminine) and was
still expanding and really ( oh boy) made some money.
Why I passed on all this to a friend and joined public teaching will always remain
a mystery in my life and although I condemned this decision every time I
had little intermezzos with stubborn heads, I never regretted the final decision
(but sometimes I had to think twice).
The enthusiasm of my more younger and vulnerable years surely faded meanwhile,
but possibly had been replaced by professionalism.
Of course time changes and we change with the time but in my opinion it is
mainly the relation with students and relation with parents that have changed
most dramatically during the last years. To give an example: I’m a class teacher
147

148
and I have more than 30% of students with a migration background, parents
who hardly understand when talking to them, but who are demanding a very
tight and formal education of their kids.
By long pedagogic ideas have been sacrificed to be replaced by efficiency and
profit. Parent’s participation in education is not worth being called so any more;
it is rather a working against teachers in order to gain the biggest profit possible.
And the children have learnt to play the same game as well. Recognition
for pedagogic work of any kind, even of politics is as rare as a curse of the pope
(although I would understand for he is German).
The result is a hidden, sometimes even open aggression amongst students,
students and teachers and teachers and parents, not to forget about teachers
and teachers.
Being asked about future prospects : The only help can be radical changes
which could possibly help. And they have to come via politics and they have to
define the profession of a teacher anew.
Still, where is the positive of what we are nourishing daily? I think it is the kids
and their vulnerability.

Autobiografie Polonia 1
Izabela Kaczmarek-Kos
Autobiography
I come from a family of well-educated people, who cultivated tradition form
generation to generation. My parents paid particular attention to their and their
children’s education. The house was full of books and antiques.
I started my education in 1966 in a primary school which I completed in 1974.
From 1974 to 1978 I attended a high school. The next stage was a beauty
therapy course in 1982 and 1983. From 1995 to 1997 I went to the Postsecondary
Vocation School ‘Oswiata’ and I graduated from there with a professional
title of a beauty therapist. From 1998 to 1999 I attended a training course for
vocational subjects teachers. In 2000 I started my studies at the University
of Pedagogy TWP in Warsaw and in 2003 I graduated from it with BA in pedagogy
– vocational counselling. I spent the years 2003 and 2004 studying at the
pedagogy training for teachers of general subjects. Meanwhile I continued my
university education and received an MA in pedagogy – labour pedagogy. From
2005 to 2007 I studied at the postgraduate studies of University of Silesia –
psychological creation of behaviour disorders among children and teenagers.
In 2006 I started the MA studies – intensive psychology at SWPS University in
Warsaw. Now I am in my second year.
When I finished my postsecondary school I had already had some experience
of working as a beauty therapist. My teacher told me that I managed well at
school and I should try to teach others. I followed her advice and I started
teaching beauty therapy laboratory in extramural classes, which were very demanding
– the students had already been beauty therapists, had already run
beauty salons for a few years, but they didn’t have their professional title. I
did well, though I was afraid of their assessment as I still lacked confidence. I
had less cosmetics and implements. I often felt guilty that my students hadn’t
learnt a particular skill. I though I had made mistakes in my teaching. Later I
found out that there were different kinds of students. Some came to school to
acquire skills, but others were there only to get the diploma or because studying
entitled them to a special pension (in Poland you receive a pension if you
study and your parent is dead until the age of 26). I understood why it was
so difficult to teach anybody anything. I am a vocational subject teacher, so
during my classes I explain, demonstrate, show a video and ask to repeat the
actions, treatments, procedures. I base my teaching on my knowledge, which
I constantly enrich and experience I gained during my work in a beauty salon.
I attend beaty therapy conferences, seminars and training courses. I cooperate
with other schools and universities exchanging information and tips that help
me in my work. But my students are most important. I try to reach them and
establish relationships which help in the teaching process. I always prepare and
149

150
plan my classes with all the available materials. Now it takes me less time then
it used to. I like attending training courses even if they are boring – I always try
to extract useful knowledge from them.
I observe other teachers, their teaching methods, what materials they prepare
for their students. I realise what upset me during their classes, what was
criticised by others and I try to avoid it during my classes. My relations with
students are very good. I think it is due to mainly the fact that I like teaching
and young people. I have a lot of teacher colleagues in various schools and I
maintain good relations with them even if I don’t work at that particular school
any more. I often meet them at conferences, training courses or exams. I teach
mainly adults, so my contacts with parents are limited, but I sometimes ask
them to come to school as there is a problem and I need their help in solving it.
Sometimes I invite mothers to a beauty therapy treatment and then we have a
chance to talk. I have received a few phone calls with parents expressing their
gratitude for the help that I gave to the student, showed them the right direction
or just expressed my interest in their problems. My graduates often call for
help in making decisions, visit me with their children, send postcards. I know
where they work or study further (quite often thanks to my persuasion) and
then I know that my work is really valuable. I have noticed substantial changes
in my work since the beginning of my carrer – self-confidence and professional
approach
The model and example for me to follow is my head teacher Regina Orzechowska,
who encouraged me to make a few important decisions in my life. I can honestly
say that I am a professional teacher and I possess substantial knowledge
on beauty therapy, vocational caunselling, labour pedagogy, psychological aid,
psychological therapy.
The main problem in schools and universities now is the low number of students,
which is partly caused by the demographic low and leads to labour problems
among teachers.
I would really like to complete my second studies, psychology and help people
like I already do it in various places.
My relationships with the Postsecondary School students’ parents.
During my career of a vocational teacher I have had quite frequent contact with
the parents (mainly mothers). I have always tried to invite them (through my
students) to the events and celebrations organised by the school e.g. Christmas
Eve, Mother’s Day, Women’s Day of just for a beauty treatment. It has produced
various response, but usually positive. Not all the parents would turn up. The
students have told me their parents are too busy to come, they live and work
abroad to earn the money for the family. My students have had to become
mature quite quickly, as they not only looked after themselves but also after

their younger siblings or grandparents. This situation has made them all look
and behave very maturely but they have had a lot of problems, which they not
always can cope with and they sometimes can’t adjust to real adult life.
Quite often the parents visit the school to make sure that they have chosen
the right school. They ask about the opportunities of further education in this
profession. Then we together discuss the matter, think about the future. Some
parents look at the beauty treatment labs, talk to the other teachers, ask about
the employment opportunities after the completion of the studies. Our school
has contacts with beauty salons, where our graduates can be employed and our
students can do their on-the-job training.
There were a few cases when we had students with health or emotional problems
who enrolled in our school and they did not inform us of their problems,
which could seriously interfere with performing the job of a beauty therapist in
the future. Then the contact with the parents was especially important. There
were parents who wanted to cooperate and help and there were parents who
thought that it was only the school’s problem and they wouldn’t be involved and
quite often important decisions were to be made and a new school for such a
student to be found.
I always try my best to help these people and I have had quite of few of them
during my teaching career. I always talk and cooperate with the students’ parents,
which has brought very good results so far. All these students graduated
from our school, I know that some of them continue their education, others
work and are fine. I consider it to be a great success of our school, its management
and teachers. I saw those students make progress, become mature and
able to fulfil certain roles. They managed to succeed because there was somebody
who helped, supported them and gave then a chance
Now, when I look back and think about them, I know that what I do makes
sense. All that is needed is time, lots of patience, work and more work as well
as faith that what you do makes sense. I’m very proud of Basia, Ola, Karolina,
Żaneta and others who overcame their weaknesses thanks to their determination
and help form the other people. I am also pleased that they keep in touch
with their teacher and school (I still receive information from Karolina’s grandmother
about her granddaughter’s plans, a lot of holiday cards). I think that
this relationship with the students resulted from my being open to their problems,
the mutual trust and hard work supported by their parents activities.
Izabela Kaczmarek-Kos
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AUTOBIOGRAFIE POLONIA 2
Autobiography
Name: Michal Witkowski
Subject taught: English language
Teaching experience: 12 years
Country: Poland
I was born in a well educated middle-class (this is a simplification as during
the communist times officially we lived in a classless society) family. My father
was an engineer with a university degree working for the local steelworks. My
mother worked for a university as an administration worker. She gave up university
studies when she got married. My grandparents also represented the
well-educated-middle class of the pre-war Poland.
My education started in a kindergarten, but as I had some health problems I
attended it only for one year. At the age of six I joined a pre-school class and
at the age of seven I became one of the primary school pupils. Teaching there
was quite traditional. The teacher presented the material, the pupils had to
memorise it and their knowledge was checked orally or in written tests. My
primary school lasted for 8 years and then I passed the entry examination to
one of the local secondary schools. But things changed because my father got a
contract with a Zimbabwean steel company and I moved to Africa for the next
three years where I attended Kwe Kwe High School. Most of the students and
teachers were Africans and the school was organised in an old British colonial
style. The discipline was very strict but the level of teaching was much lower
than in Poland. There was a system of streaming and without any effort I was
able to remain in the best class. I passed O-level exams (English, Maths, Technical
Drawing, History, Science). At the same time I had to continue my Polish
education – it was done in an extramural system. At the age of 18 I came back
to Poland and joined the last year of the Polish secondary school – liceum. I
passed my final exams (Polish, English, History). Unfortunately, I didn’t have
any definite plans about my future career – that’s the fault of the general education
system. I took the entry examination to the university – the department
of political science. I though about journalism as a possible career as that department
specialised in this area. After one year I knew that I wouldn’t make a
good journalist, but I continued my studies. During the fourth year of my studies
I also started studying at the department of the English language. I graduated
from both departments with marks above the average.
The reasons for choosing the teaching career are a bit complex. I had never
thought of becoming a teacher before starting my second studies. As a student
of the English department I could easily earn some extra money by giving private
lessons, so I did it and I found out that I could do it and my students were
satisfied with my work. In the third year of my English studies I had to choose

my speciality and I chose teaching (but about 70% of all the students chose
the same).
I got my first ‘real’ job as a teacher in 1995 when I was in my fourth year of
my English studies. I taught English to a postsecondary class of IT specialists at
Szkola Policealna Oswiata (I still work for this school). I had already had some
methodology instruction at university, but the first thing that struck me was that
it was completely inadequate. I was taught a lot of theory with no practice.
So I was on my own and I had to work out my own methods and learn on my
own mistakes.
Later I have also taught in private language schools and public secondary
schools. I have had a lot of in-company language training courses. In order
to provide myself with adequate income I have had to teach in two or three
institutions. Very low salaries in public schools force teachers to combine a few
jobs.
During the first years of my teaching career I was apprehensive of my knowledge
of the subject rather than teaching methodology. That’s probably because
throughout all my career I have mainly taught adults and young adults and I
started teaching higher level (e.g. CAE) quite early, so the students demanded
expert knowledge from me rather than sophisticated methods of maintaining
classroom discipline. But thanks to my secondary school experience I also
gained confidence in that area.
From the very beginning I tried to implement the communicative method of
teaching a foreign language where possible. I can say that I have evolved two
teaching methods. The first one relies on my knowledge of the subject and the
communicative method and I apply it to students who are motivated and eager
to learn. The other one is targeted at students who have problems with learning,
are less gifted or not motivated. Here I focus on building some relations
with students, I find out about their personal goals, needs, desires, interests. I
also let them learn something about me. And the relationships that are created
are then used to motivate students and encourage them to learn the subject.
Classroom planning has been a part of my job from the beginning. I always prepare
my lessons the day before. Even if it is a routine lesson that I have done
an infinite number of times and I have all the materials already made – I think
about the students I am going to teach and I adjust the routine procedures so
that they meet the students’ need and achieve the planned goal.
As far as training courses are concerned, I have a negative attitude towards
them. Most of the training sessions I have attended were a waste of time.
Their limited relevance to classroom practice and a theoretical approach usually
failed to improve any of my skills. In most cases the organisers of such training
153

154
courses focused on keeping their students amused and providing them with entertainment.
I have gained quite a lot through peer-to-peer exchange of ideas
and experiences and self-study.
My relationships with colleagues usually depend on the type of school I am
teaching in. In public secondary schools, where most of the staff are above the
age of 55 and they envy the fact that I earn more then them as I am working for
a few institutions at the same time, the relationships are rather cold. I schools
that employ people like me, I usually got on quite well with my colleagues, we
cooperate and share a lot of knowledge best teaching practice.
Relationships with parents have been limited as I teach mainly adults. But
teaching in public secondary schools I have gained some experience. A considerable
number of parents think that the school should develop all aspects of a
young person’s mind and their role is limited. Any failures and problems that
arise are attributed to the school and teachers. My main role in building the
relationships with parents is to convince them that they are also responsible
for their children’s education. One good example – the student of a secondary
school was misbehaving and it was almost impossible to control him during the
lesson – when I contacted his father I was accused of incompetence as I wasn’t
able to control his son – so he denied any responsibility for what his son was
doing during my lesson.
Surprisingly, most of the parents participate in parent-teacher meetings but I
think they treat it as an inconvenient duty. This due to the fact that the rapport
between parents and teachers doesn’t exist. Teachers (including myself) contact
parents only in case of some negative situations involving their children.
Even during the regular meetings usually only problems are discussed and this
intensifies the negative aspect of parent-teacher relationships.
Parents usually recognise teachers’ knowledge of the subject but they quite
often don’t approve of their teaching methods and they are sometimes right to
do it as the teacher education and training does not provide with the essential
variety of teaching tools.
I have never had anybody who would be a professional model for me. There is
a system of guiding younger teachers by more experienced ones but it is not
very effective. Senior teachers do not have the motivation (also financial) to
look after their younger colleagues.
As far as the future is concerned, I hope that my interest and commitment
to e-learning will provide me with some opportunities and extend my career
prospects. My greatest professional fear – I’m 37 years old, I’m not getting any
younger and nobody needs old foreign language teachers.

Autobiografie Italia Fascetti 1
I was born in a middle class family in the 50ies and I grew up at my grandparents’
till my brother was born . We then moved to our own new home. My
mother has always worked at home as haute couture tailor( only after I got
married she went to work as employee at the local city hall).My father was a
state employee. I didn’t attend the nursery school since there was no need of
it, but ,later on, I’ve always attended the school with joy and success. I studied
at the teachers’ training college because I liked to teach and to stay with
students , then I got my degree in Italian at the University of Florence. When
I was young I loved to sing. I sang as an amateur till the age of 20 ,then ,
since my family didn’t allow me to go to Milan for a sing test at a very famous
record company, I decided to give it up. I must admit that I do not regret that
choice and I have very nice memories of that time. Now I have my own family:
a husband who let me travel around the world (because of his job) and a
son I adore. I started my profession as a teacher at an elementary school still
when I was at the University. I taught in different kinds of elementary schools
ever since 1973 and I ‘ve always met nice pupils and a friendly environment.
After my degree (1976) I sat for my state examination and began to teach at
a Lyceum as a temporary teacher. In 1987 I started teaching Geography as a
regular teacher and taught in Technical and Vocational schools. Only in 1998
I could teach Italian as a regular teacher first in a Technical school , after in a
Vocational school where I work now. I could work in Pisa, in Leghorn, Caserta
finding many differences according to the type of school but mostly according
to the geographic surroundings where they were located. I didn’t have much
experience and all I got to know it was reached from experience .Nevertheless ,
my colleagues ‘cooperation and the help of many extra courses have helped me
a lot. The most useful updating in my profession has always been carried out
by colleagues or by all those who had concrete teaching experience and not for
sure that made by very famous professors in a subject, having no idea of what
a classroom is, ignoring what students were like, and their world too. Therefore
I can say that it is only by direct , concrete experience that a teacher can learn
and update her/his profession. I my opinion , both didactic and methodology
have changed all through the years adapting themselves to the school changes
,unfortunately to the detriment of the students’ preparation and knowledge of
contents. I ’ve always been in very good terms with my students, based on
reciprocal correctness and respect. I am in good relation with many of my ex
students as well and I meet them sometimes on different occasions. I must
admit that the students have changed a lot since the beginning of my career
up to now; both under the aspect of human relationships and their attitude and
will of studying. Nowadays they are less fond, they do not tend to open up their
hearts. Unfortunately , today their only goal is the saying:”all and at once” and
“ the least you do, the better”. Also families are absent and they are coming
around at school or are inquiring about their children less and less. A reason
for that is for sure the fact that nowadays both parents work and also the
155

156
presence of many extended families doesn’t ameliorate the comunication level
among families. Furthermore, in comparison to years ago, today parents tend
to justify their kids and to disparage the figure of teachers. That is why I often
feel” lonely” today and it’s getting more and more difficult to work in the school
world: a lot of work, few satisfactions, less than ever the economic ones. On
the other hand , the relationships with colleagues have always been excellent,
in fact lately new friendships are born which go beyond the school environment
and new occasion to spend time together are created. Definitely, these latest
years I ‘ve spent in a very problematic vocational high school (where I still am
today),I have acquired bigger professional competences so that I could face
any kind of school and students. That’s a real “updating”.

Autobiografie Italia Fascetti 2
Autobiografia
Sono nata negli anni ‘70 da una famiglia medio borghese in una cittadina del
sud, con un’educazione improntata ai valori cristiani e rispetto degli altri. Ho
frequentato sia la scuola dell’infanzia che la scuola primaria in una scuola privata
con regole molto rigide. Ho iniziato la scuola primaria a cinque anni e mezzo
e l’ho conclusa , ahimè, in quattro anni, poiché ho fatto quarta e quinta nello
stesso anno. Ho continuato il ciclo di studi nel Conservatorio, dove la mattina si
svolgevano le lezioni regolari della scuola media inferiore, mentre il pomeriggio
si seguivano le lezioni di musica e solfeggio. Lo strumento da me suonato era
il violino con pianoforte complementare che poi ho abbandonato all’inizio delle
scuole superiori, poiché non dotata di grande talento. Ho iniziato a frequentare
le scuole superiori all’età di dodici anni, scegliendo come percorso il liceo scientifico,
grazie alla mia passione per la matematica, l’elettronica e l’informatica,
che negli anni ‘80 cominciava a prendere piega. Malgrado fossi ritenuta un po’
troppo avanti con gli studi rispetto all’età e nonostante un po’ di diffidenza degli
insegnanti, ho conseguito il diploma in maniera soddisfacente all’età di diciassette
anni.
Mi sono iscritta all’Università al corso di laurea di Ingegneria Informatica orientamento
Telecomunicazioni, dapprima nella mia città e successivamente a Siena
dove ho conseguito la laurea in Ingegneria delle Telecomunicazioni con una
tesi su alcune applicazioni radar, campo alquanto affascinante. Grazie al lavoro
svolto in tesi, ho avuto la possibilità di continuare il lavoro di ricerca nel campo
radar, grazie ad una borsa di studio di dottorato finanziata dall’università
di Pisa. Durante questa attività ho avuto modo di girare il mondo e di vedere
pubblicate parte del mio lavoro di ricerca in Italia e all’estero(Canada). Durante
gli anni di Dottorato, svolti a Pisa , quindi con un ulteriore trasferimento di città,
ho avuto la possibilità a livello professionale di arricchire la mia cultura scientifica,
pur perdendo possibilità di lavori più stabili. Ma l’occasione di finire il ciclo
di studi con il titolo di Dottorato è stata imperdibile e nessun lavoro al mondo
mi avrebbe potuto dare tale soddisfazione. A fine ciclo ho continuato a lavorare
nell’università da esterna con contratti finanzianti da una grossa azienda,
leader nel campo radar, ma non trovando mai sbocchi professionali all’interno
di essa, anche perché in attesa del mio bambino. Alla nascita del bambino, pur
senza lavoro, ho continuato a cercare la mia nuova strada che mi consentisse di
unire la mia passione per lo studio e la cultura alla passione per il mio bimbo. Su
suggerimento di mia madre (insegnante) , ho presentato la domanda alla Siss e
sono stata ammessa al I anno per la classe di concorso di elettronica e ho iniziato
come tirocinante questa nuova avventura. Disagio, imbarazzo e confusione:
queste le sensazioni della mia prima lezione. Piano piano le sensazioni negative
hanno lasciato il posto ad emozioni positive: il ritrovare una generazione con cui
inevitabilmente avevo perso i contatti, il mio nuovo ruolo nel sapere, nel saper
essere e nel saper fare.
Quest’anno ho partecipato alla mie prime nomine, prendendo l’incarico annua-
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158
le presso un Istituto Professionale, e con un po’ di fortuna, lo stesso in cui ho
effettuato il tirocinio dei miei due anni di Siss. Studio, programmo, progetto e
insegno, trovando piacere ed anche difficoltà.
Retoricamente, non è facile insegnare, le generazioni cambiano, insieme agli
ideali, si svuotano e si riempiono di nuovi passioni, cui tu che rimani fisso devi
saperti adeguare, fletterti per assumere un ruolo che non sia mai in ritardo con
i tempi, per non commettere l’errore di non saper insegnare anche a vivere.

Autobiografie Italia Fascetti 3
Riflessioni Salvatore Roas su anni 8 di precariato a Siena e 22 anni di ruolo a
Pisa.
Riflessioni di un insegnate di elettronica all’interno dell’istituto IPSIA FASCETTI
di Pisa .
Quando sono entrato al “Fascetti“ le cose erano molto diverse da come sono
oggi: le nostre materie, l’elettronica e le sue applicazioni erano in uno stato
stazionario e quasi di abbandono; gli unici componenti fondamentali erano le
valvole; le applicazioni industriali erano abbastanza limitate, anche se difficili; il
“regolo” era lo strumento principe; gli studenti erano poco numerosi; il nostro
insegnamento era più rigoroso e severo e i docenti erano ancora abbastanza
“considerati” anche al di fuori della scuola. Subito dopo, con una accelerazione
via via crescente, le cose cominciarono a cambiare e ad evolversi in modo tale
da poter essere seguite solo con impegno e difficoltà. Anche se il “68” era giunto
con qualche anno di ritardo, il suo effetto non si fece molto sentire nell’insegnamento
tecnico.
La “rivoluzione elettronica” e l’espandersi rapidissimo delle applicazioni e delle
ditte che le utilizzavano e che assumevano i nostri studenti appena maturi
accrebbe per molti anni la domanda di diplomati e con essa, assieme alla consapevolezza
dell’utilità del nostro lavoro, il nostro desiderio di aggiornarci e di
fare “cose nuove”.
È in questo periodo, negli anni ‘80 e ‘90, che il “Fascetti” si è fatto la fama, che
rimane tutt’ora, di ottima scuola per trovare lavoro. Le cause furono diverse:
una dirigenza didattica aperta, anche se quasi mai accompagnata da una visione
lungimirante da parte della Amministrazione; l’insegnamento aggiornato
e un corpo di insegnanti preparati e motivati che, nelle materie di specializzazione,
aveva raggiunto una situazione di notevole stabilità, continuità, sinergia
e amicizia, senza quei cambiamenti annuali che si avevano, e si hanno tuttora,
nelle altre scuole (forse anche, io credo, perché allora le “chiamate” non erano
per graduatorie e punteggi, ma personali).
Occorre anche ricordare che tutti gli insegnanti tecnici avevano presente che lo
scopo fondamentale del loro operare era quello di preparare dei TECNICI , cioè
dei giovani già intellettualmente e tecnicamente pronti ad affrontare subito il
mondo del lavoro.
Se l’espandersi sempre maggiore delle applicazioni dell’elettronica in tutti i settori
fu il “motore primo” che diede l’avvio al periodo che io considero la “maturità”
nella vita del “FASCETTI”, lo stesso fenomeno, che continuava in modo sempre
più rapido, insieme ai nuovi programmi e alle nuove direttive ministeriali, ha
dato inizio al periodo “incerto” degli anni ‘90, in cui gli insegnanti si sono trovati
davanti a due opposti condizionamenti.
Da una parte l’incertezza su quali parti dell’elettronica e dell’informatica scarta-
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re e quali fare argomento di studio, la richiesta da parte del mondo esterno di
una maggiore specializzazione e il desiderio di molti studenti di proseguire gli
studi per raggiungerla.
Dall’altra un cambiamento degli orari e dei programmi che limitano fortemente
il raggiungimento, per la maggioranza degli studenti, di questa stessa preparazione
tecnica. Si è posta allora a molti di noi la domanda se i nostri insegnamenti
devono portare ad una preparazione immediatamente spendibile o ad
una preparazione generale comprendente solo alcuni argomenti di base nelle
materie tecniche con l’implicita consapevolezza che la specializzazione richiesta
verrà dopo il diploma.
In questo caso i nostri studenti non dovranno più essere dei “tecnici”, con la
preparazione inizialmente pensata per un professionista che esce da un Istituto
“ Professionale “, ma dovranno essere preparati per affrontare anche altri studi
rispetto a quelli da noi presentati.
Questi dubbi, ai quali spesso negli ultimi anni abbiamo cercato di rispondere,
anche se non sempre in modo coerente e diretto, si riflettono a tutt’oggi nelle
diverse scelte degli argomenti e delle esercitazioni e nella severità o meno che
si hanno nei diversi insegnamenti. lo credo che questa sarà la strada inevitabile,
anche se temo che sarà ardua da percorrere per quelli di noi che si sono
formati, e sono cresciuti come insegnanti, avendo una visione del tutto diversa
del loro compito nel nostro Istituto.
Mi auguro che in mezzo a queste incertezze, che si accompagnano a quelle,
anch’esse molto grandi, che riserva la futura riforma, la nostra scuola riesca a
trovare un nuovo obiettivo e quindi possa avere in futuro una seconda “maturità”,
senza decadere in una anonima “vecchiaia”.

AUTOBIOGRAFIE ITALIA ITI MARCONI 1
Donatella Piccini
I have never chosen to be a teacher: my job is the consequence of my studies
which I started because of my love of literature and history.
My relationship with school hasn’t always been easy. I spent my childhood and
adolescence in a small country village where I attended both primary and secondary
school.
When I started primary school I was the only one who was able to read and
I was the daughter of two clerks while my classmates’ parents were farmers.
Since the very first day teachers petted me and held me up as an example but
this did not make me feel happy: on the one hand I wanted to be a diligent pupil
while on the other hand I was anxious about my performance and the tension
alienated my schoolmates who regarded me as an alien.
Reading and drawing were my great passions and solaces which added dreams
and far-fetched stories to my life.
I can’t evaluate my teachers’ skills, the only things I remember are that they
used to get angry with the other children and that I was not relaxed because I
had to live up to both my teachers and parents’ expectations so I felt uncomfortable
and anxious.
When I attended junior high school I shifted my attitude to school: I understood
that giving my mind to morning lessons would allow me not to study in the afternoon
therefore I could spend more time making friends with children of the
same age, often with the most unconventional guys. I was not the first in the
class anymore, I was one of those “ who don’t study and should work much
harder”. This drove my dad mad and I smarted from his scoldings but I didn’t
change my behaviour.
At junior high school I had both good and bad teachers: I remember an Italian
teacher that was always able to catch my attention and a teacher of Maths
and natural sciences who used to insult us whenever we were not able to solve
complicated mental calculations in a short time. Despite the teachers I liked
Sciences a lot while I was paralysed by Maths of which I appreciated the force
of logic but I couldn’t escape the strict rules. At the same time I continued to
be fond of books (all of them, including the schoolbook of maths) and drawing
which perhaps was my real passion.
My decision to attend secondary school was mainly due to my will to leave my
village and its oppressive rules: it was 1969 and high school was in town.
Choosing the type of school was simple: the only school I would have liked to
attend ( also suggested by my teachers) was in Florence but it was too far away
and too expensive for my family.
My mother thought that a teacher-training school might be a good choice since
being a teacher, in her opinion, was the only respectable and suitable job for a
woman.
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The idea that my mother didn’t have big plans for me contributed to make me
feel a nonentity.
So far my father had urged me to improve my education but at that moment
he didn’t accept the fact I was growing up and let my mother decide as she
deemed right. My wishes were not taken into consideration but since I wanted
to study I accepted to attend a school I was not interested in, without thinking
about the possibilities of work it might offer: it was not a concern at that time.
The years I spent at secondary school have been very important. First of all my
schoolmates and I were cohesive and in agreement and strong bonds of friendship
united us for years. There I also met a wonderful person who changed my
life: Mr. Antonio Tabucchi, a teacher of Latin and History. He was teaching for
the first time but he was destined to be one of Italian best known intellectuals.
Mr Tabucchi was as an alien in our school where most teachers were mediocre,
probably frustrated, unable to develop strong bonds with their students; they
believed their duty was simply pouring information and rules and regarded students
as “animals” to tame and punish. On the contrary Mr Tabucchi listened
to us, got information about our lives and dreams, he was able to interest and
make us laugh and love our studies, he succeeded in enhancing our capabilities,
making us feel gifted. My schoolmates and I were enthusiastic about him.
He was the only one who exhorted me to read and who introduced me to the
almost unknown fields of culture theatre and art.
He passed on his enthusiasm and openmindedness to me .He taught me to
dispute ideas and to see connections between things, my life and the outside
world. My choice of books to read became less casual and I started to feel my
love of reading and books might be a potentiality. Such enthusiasm led me to
study arts at university although I had no idea about my job to come.
Mr Tabucchi remains my standard teacher and as a teacher I am making an effort
to emulate him and be at least a fainter standard than him.
My first teaching experience started in October 1979, at primary school; I was
writing my long degree thesis and needed to earn some money. It was not a
nice experience. I found it difficult to relate to children and above all I didn’t like
a job consisting (it seemed to me) in keeping still someone who wanted to run
and play. Therefore I realized that teaching children was not the right job for
me and after graduation I started to teach at secondary school, though I was
still uncertain about what I wanted to be.
Anyway the years I spent at primary school were educational to me: I plunged
into pedagogy, didactics and psychology of the years of growth, all subjects and
knowledge I did not have the opportunity to get at university.
The first three years of teaching at secondary school were also educational and
of great satisfaction since my students were workers of an evening class. They
were often older than me and highly motivated, willing to improve their education
as a means to redeem.
Their enthusiasm and our friendly relationship supported my job. Lessons finished
at 11 p.m. and after the bell rang I often went to the cinema or had dinner

with my students. That was easy because we were adults and about the same
age but I realized how an empathic rapport was important and a ground for
learning and cultural growth.
When I started to teach teenagers the age difference between me and them
increased and my role had to be different too: I was their teacher and an adult
and I had different responsibilities.
However, I have always tried to have good rapports and seek dialogue with my
students, by talking about myself and being a good listener.
Every year the age difference between me and my students increases and new
problems arise that need new approaches and strategies and we can’t disregard
the assumption that growing up has never been and will never be easy. Any
good educationalist should remember this and in order to be successful and efficient
he/she should try to understand his/her pupils’ world , to respect their
attitudes and allow them their own time to grow up.
When I started teaching adolescents I understood I was able to do this job.
Even if I had never chosen to be a teacher, I realized that my often successful
effort in establishing genuine relationships with people was also a good strategy
as a teacher.
I have also attended in-service training courses to become a good teacher. Of
course I have not completed my path yet, since I always need to keep myself up
to date and to bring everything we know ,or suppose to know, into question.
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164
AUTOBIOGRAFIA
Donatella Piccini
Non ho mai deciso di fare l’insegnante: sono arrivata a questo lavoro come
conseguenza dei miei studi, scelti solo per l’amore che ho sempre provato per
la letteratura e per la storia.
Il mio rapporto con la scuola non è stato sempre facile. Ho vissuto l’infanzia e
l’adolescenza, e quindi tutto il periodo della scuola di base e delle superiori, in
un piccolo paese rurale.
Quando ho iniziato a frequentare la scuola elementare io, figlia di impiegati,
sapevo già leggere, al contrario dei miei compagni di classe, figli di contadini.
Fin dal primo giorno sono stata additata come esempio e vezzeggiata dalle
maestre, ma questa situazione non mi rendeva affatto felice: la stessa tensione
che mi spingeva ad essere diligente mi creava angoscia, una sorta di ansia da
prestazione, e mi allontanava dai miei compagni di classe che mi vedevano
come un’ aliena. Le uniche grandi passioni e consolazioni di quegli anni di scuola
erano la lettura e il disegno che riempivano la mia vita di sogni e mondi fantastici.
Non riesco a valutare quanto fossero bravi i miei maestri, mi ricordo che si arrabbiavano
spesso con gli altri ragazzi, ma neanche io ero serena perché dovevo
sempre essere all’altezza delle aspettative dei miei genitori e degli stessi insegnanti
ed ero insicura e ansiosa.
Alla scuola media ho reagito. L’adolescenza mi ha spinto a ribellarmi : ho imparato
che se seguivo con attenzione le lezioni, potevo evitare di studiare a
casa il pomeriggio e ho dedicato questo tempo a farmi amici i miei coetanei,
spesso i più alternativi. Non ero più la prima della classe: ora prima c’erano i
‘secchioni’, poi quelli come me, quelli che ‘potrebbero fare molto di più, ma che
non studiano ’ . La cosa faceva imbestialire mio padre ma le sue sgridate, pur
facendomi soffrire, non erano sufficienti a farmi cambiare atteggiamento. Alla
scuola media ho avuto dei bravi insegnanti e degli insegnanti pessimi: ricordo
una insegnante di lettere che catturava sempre la mia attenzione e una, terribile,
di matematica e scienze che ci offendeva pesantemente tutte le volte (
quasi sempre) che non eravamo in grado di risolvere immediatamente iperbolici
calcoli orali. Nonostante lei, mi piacevano molto le scienze mentre mi paralizzava
la matematica, della quale avvertivo la forza logica ma che mi spaventava
per l’impossibilità di sfuggire alle regole.
Continuava, fortissimo, il mio amore per i libri, anche quelli di scuola, anche quelli
di matematica, e per il disegno, che era, forse, la mia passione più grande.
Alla fine della scuola media la decisione di continuare a studiare era, però, soprattutto
sostenuta dalla necessità di allontanarmi dal paese e dalle sue regole
sempre più soffocanti. Le scuole superiori erano in città ed era il1969!
La scelta dell’indirizzo di studio è stata semplice: l’unica scuola che avrei voluto
fare ( e che anche i miei insegnanti mi consigliavano) era il Liceo Artistico ma,

per farmelo frequentare, i miei avrebbero dovuto mantenermi a Firenze: troppo
lontano da casa e troppo costoso. E’ stata mia madre a scegliere l’Istituto Magistrale
perché piaceva a lei: fare la maestra le sembrava l’unica possibilità di
lavoro dignitosa e consona ad una donna. Il fatto che mia madre non avesse
grandi progetti per me contribuiva a farmi sentire mediocre. Mio padre, che fino
a quel momento aveva spinto la mia crescita culturale, non accettava di vedermi
crescere e lasciò a mia madre ogni decisione. I miei desideri, invece, non
vennero considerati ed io, pur di studiare, accettai di iscrivermi ad una scuola
per la quale non avevo interesse, con una prospettiva lavorativa a cui non pensavo,
tanto mi pareva lontana.
Gli anni dell’Istituto Magistrale sono stati importanti. Prima di tutto, ho avuto
la fortuna di essere parte di un gruppo classe coeso e solidale, con il quale ho
costruito legami affettivi molto importanti, e poi ho conosciuto una persona
meravigliosa che ha cambiato la mia vita, il mio professore di Latino e Storia di
Terza, un giovane al primo anno di insegnamento ma destinato a diventare uno
dei nostri maggiori intellettuali: Antonio Tabucchi.
Nel panorama della mia scuola, popolata di insegnanti mediocri, probabilmente
frustrati, incapaci di sviluppare con noi ragazzi un qualunque tipo di legame
affettivo e costruttivo, gente che intendeva il proprio ruolo come un semplice
travaso di informazioni e regole e che partiva sempre dal presupposto che noi
studenti fossimo bestiole da domare e punire, il professor Tabucchi era un alieno:
riusciva ad ascoltarci, si informava della nostra vita e dei nostri sogni;
riusciva a coinvolgerci e farci ridere, riusciva a farci amare lo studio, valorizzando
le nostre attitudini, facendoci sentire capaci.
Come le mie compagne, io ero entusiasta. Il professore era l’unico ad incoraggiare
le mie letture ed a spingermi verso il mondo, a me quasi sconosciuto,
della cultura, del teatro e dell’arte. Mi ha trasmesso l’entusiasmo, l’apertura
verso gli altri, mi ha insegnato a mettere in discussione e a capire i legami tra
le cose, le connessioni tra la mia vita e il mondo esterno. Le mie letture, con
la sua guida, sono diventate meno casuali e il mio amore per i libri e la parola
scritta ha cominciato ad apparirmi come una potenzialità.
Questo entusiasmo mi ha portato alla Facoltà di Lettere, ma ancora non pensavo
alla professione futura. Certamente, se, allora come ora, penso ad un
modello, penso al Professore e spesso, nella mia attuale professione, mi sforzo
di essere per i miei allievi anche solo un lontano riflesso di quello che lui è stato
per me.
La mia prima esperienza di insegnamento è avvenuta nella scuola elementare,
quando, finiti gli esami universitari, ho cominciato a preparare una lunga tesi di
ricerca e avevo bisogno e voglia di guadagnare: era l’ottobre del 1979. Non è
stata una bella esperienza: non sapevo rapportarmi ai bambini, ma soprattutto
non riuscivo a farmi piacere un lavoro che mi sembrava consistesse nel tener
ferme per ore delle creature che avevano voglia di correre e giocare . Ho capito
che il mestiere di insegnante dell’infanzia non era adatto a me e, una volta
laureata, ho cominciato subito a lavorare alle scuole medie superiori, ma ero
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ancora indecisa su quello che avrei voluto fare come professione per la vita.
I pochi anni del lavoro alle elementari, comunque, mi hanno insegnato molto:
ho approfondito le mie scarse conoscenze di pedagogia, ho studiato didattica
e psicologia dell’età evolutiva, ho costruito, insomma, quell’ indispensabile
bagaglio di strumenti professionali che né la scuola né l’università mi avevano
dato.
I primi tre anni di lavoro alla scuola media superiore sono stati altrettanto
costruttivi, e anche ricchissimi di soddisfazioni, perché ho avuto la fortuna di
insegnare in un corso serale statale per lavoratori. I miei allievi erano spesso
più grandi di me ed erano sorretti da una motivazione incrollabile, fatta spesso
di voglia di riscatto e di crescita personale. Il mio lavoro era sostenuto da
questo loro entusiasmo e dalla facilità di relazione che caratterizzava i nostri
rapporti. Le lezioni terminavano alle undici di sera e spesso, dopo il suono della
campanella, andavo al cinema o a cena con i miei allievi: certamente era tutto
semplice, perché eravamo adulti e coetanei, ma ho capito quanto il rapporto
empatico fosse importante, anche come base del processo di apprendimento e
di crescita culturale.
Quando ho iniziato a lavorare con gli adolescenti, la differenza di età tra me e
i ragazzi è aumentata ed il mio ruolo è certamente cambiato: io ero l’adulto e
l’insegnante, avevo responsabilità diverse. Tuttavia ho sempre cercato di lasciare
aperta la via della comunicazione personale, mettendomi in gioco, parlando
di me e mostrandomi pronta ad ascoltare. La differenza di età tra noi insegnanti
e i nostri studenti aumenta ogni anno e, ogni anno, arrivano a scuola, dal mondo
esterno, problemi nuovi che implicano nuovi approcci e strategie. Io credo,
però, che il punto di partenza di ogni rapporto educativo non possa prescindere
da una constatazione fondamentale: crescere non è e non sarà mai facile. Se
un educatore parte da questo presupposto e rispetta i propri allievi, i loro tempi
e le loro attitudini, se si sforza di capire il mondo dei propri ragazzi, possiede, a
mio parere, il segreto dell’efficacia della propria azione educativa.
Quando ho iniziato a lavorare con gli adolescenti ho capito che potevo fare
questo lavoro. Ho capito che il mio percorso aveva un senso e che, se anche non
avevo mai scelto di fare l’insegnante, avevo comunque sempre cercato, spesso
con successo, di avere rapporti umani autentici e che questa ricerca personale
poteva essere anche un’ottima strategia per costruire il mio lavoro.
Ho anche iniziato un mio percorso di formazione professionale, frequentando
corsi di aggiornamento per diventare una insegnante valida ed efficace. Questo
percorso continua ancora, perché certamente, in questo lavoro più che in altri,
le buone intenzioni non bastano ed è necessario continuare ad aggiornarsi ed
essere disposti sempre a mettere in discussione tutto quello che sappiamo o
crediamo di sapere.

Manrica Caponi
I was born into a lower middle class family whose cultural background was
poor: my mother is a housewife and my father, who is now retired, was a steelworker
in the period of union demonstrations aiming at achieving more human
working conditions.
Since I was a child I have had many ambitions in the field of education and my
parents encouraged my studies and my curiosity, my fondness for reading and
broadening my knowledge of subjects, notably the scientific ones, because they
aimed at getting social redemption through me and my degree, even at the cost
of many privations.
So my secret dream was born: I wanted to be an astronaut!
My whole life at school was a positive experience due to both my easiness for
relationships with people which allowed me to have friends among my classmates
and my curiosity about new things. However, some events have been
fundamental in my life as a student and…… as a teacher.
Indeed the astronaut has become a teacher flying freely in the emptiness of the
Italian school rather than in the cosmos!
The above mentioned events took place at different moments of my life and
they have a common denominator: the behaviour of a teacher that resulted in
making me feel quite inadequate.
The first episode goes back to when I was nine; it didn’t happen at school but
at Sunday school where they prepared children for their First Communion. The
teacher was a sourpuss and bewhiskered nun who taught us Sacraments and the
Holy Scriptures and who was also in charge with the Church choir of children.
I have never been gifted for singing but I was part of the group and I liked singing
even if I was out of tune. I rehearsed with enthusiasm and thoroughness and
the nun never suggested me how to improve my performance until the day of
my debut. Before our first performance we were assigned positions in the ranks.
When my turn came the nun told me I had to stay in the last row together with
the tallest children and pretend to be singing, that meant opening and closing
my mouth without emitting any sound in order not to compromise the performance.
I still remember my deep sorrow and inferiority complex to the other
children and the grudge I bore the nun. At that moment I think I hated her and
even now this memory can’t leave me unmoved.
The second episode goes back to the first year of junior high school. I still have
a pleasant recollection of the new school: my only and dear teacher of primary
school was replaced by lots of teachers, one for each different subject and I also
had new schoolmates and friends.
I was so pleased and eager to widen my knowledge and get good results that I
soon tried to adjust my studying method in order to comply with the requests
from my teachers.
The results of my first assessment tests were satisfactory but one day the Italian
teacher handed the first essay back to me and the result was poor! It was the
first time I had got a low mark.
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The motivation for the result was going to leave the mark: “there are no spelling
or syntax mistakes, the vocabulary is rich but the essay is lengthy” that
meant it was too long in my teacher’s opinion. She liked brief essays and from
then onwards she decided the length of my writings shouldn’t be more than
one and a half column of a foolscap sheet. Any time we had a class test she
came to my desk and drew a halfway red line on the second column, that, to
me also marked the end of my thoughts. That red line was a real nightmare for
me: I had to make a great effort to summarize my opinions and reflections in
the lowest possible number of words when a flood of ideas urging words came
to my mind.
I realized I had plenty to say but I was not free to express myself and that
caused me a feeling of uncomfortableness soon followed by the belief that
those ideas were probably not so important and that getting good marks had to
be a priority so it was necessary to respect the red line limit.
The red line conditioned my essays both at junior high school and during the
first two years of Liceo, even if my new teacher had different ideas and encouraged
me to let myself go while writing. I feel that compulsory conciseness
exhausted my creativeness in my early teens and only much later I was able to
recover my own way of writing.
Only five years later I was able to regain possession of that part of myself that
had been inhibited until then: I was facing with a free composition and I dared
give free rein to my imagination and cross the boundaries of reality in order to
write a wonderful love story.
Since that day my memories of Liceo and teachers have been good and I am
glad I have learnt a lot as regards both culture and relationships.
When the time came to choose a Faculty I opted for Maths without any doubt.
Indeed I had reconsidered my dream of being an astronaut mostly due to its
few openings for work. I was more interested in the applications of a subject
that I deem, to quote Galileo,” the universal language of the book of nature”.
After a research thesis I got my degree and I had the opportunity to work at the
Maths Dept. of the University of Pisa for some years to carry on my research
and in the hope I might be employed there.During these years I had my first
teaching experience, with temporary teaching jobs that helped me to supplement
my low university income.
Teaching was not my aim. While waiting for an internal competition I also took
into consideration the possibility of working for a private business somewhere
in Italy and went for some job interviews. Since I received no interesting offer
I started to do some temporary teaching jobs at school.
The memory of my very first day on the other side of the barricade is so vivid
today that I can hardly believe it goes back to 22 years ago. I remember I was
completely untrained to teach children: my studies aimed at developing deep
knowledge of subjects but I had no didactic skills nor I was able to relate to students.
However, one thing was soon evident to me: I should have never made
them feel inadequate to anything in order to avoid the sufferings I had had.
By proposing this aim to myself I have always tried to bring out the natural

inclinations of my students without blaming or running them down when unsuccessful.
Later on teaching became my main job and research only a free time activity
(it was not a choice since life events sometimes decide for us) and it was also a
difficult moment of my life from an emotional point of view: therefore I realized
I needed the tools that aided me to improve my relationships with students and
colleagues.
So I spent much time and money to attend vocational training courses that allowed
me to both gain self-esteem again and develop my relationships and abilities
in dealing with a group, thus helping me to became an effective teacher.
My training courses were valuable with regard to my career and represent the
foundations for any relationship I have with people.
Now I am aware that an assertive, appropriate and empathetic attitude is the
basis for each rapport and that communication barriers that we sometimes involuntarily
raise can block communication at all. Any time I am with a class I
favour emotional exchange and try to understand verbal and non-verbal messages
students send me and when I have the opportunity I don’t hesitate to
speak about myself and to express my feelings about difficult or frustrating
situations.
Even though teaching has been a makeshift job for me, I have a positive feeling
about myself as a teacher due to the energy and enthusiasm I spend in it; I am
also conscious that students have hundreds of problems in learning Maths and
we should reflect upon this in order to revise teaching methods, nonetheless I
think I am able to build up a deep and important relationship with my students
which can last even after the end of their course of studies.
When my former students who are now graduated or established professionals
stop and talk to me or phone me to share some of their best moments of their
life I feel my unappreciated and poorly paid job has a sense. I am also proud
I have been an important benchmark in their adolescence and this drives me
to search newer and even more difficult routes to move with the times and to
welcome newcomers.
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AUTOBIOGRAFIA
Manrica Caponi
Sono nata in una famiglia di livello socio-culturale basso, mia madre ha trascorso
la sua vita facendo la casalinga, mio padre facendo l’operaio metalmeccanico
negli anni degli scioperi a oltranza e delle lotte sindacali per la conquista di
condizioni lavorative più umane . Sin da bambina ho avuto grandi ambizioni sul
piano dello studio stimolata dai miei genitori che volevano realizzare attraverso
di me, seppur con enormi sacrifici economici, il loro riscatto sociale e cioè una
figlia laureata, e che hanno sempre assecondato la mia curiosità di sapere, di
leggere e di approfondire soprattutto in campo scientifico. Nasce così Il mio
sogno nel cassetto: fare l’astronauta!
La mia esperienza scolastica è stata sicuramente positiva nel corso di tutti gli
anni di studio, grazie anche alla mia naturale inclinazione ai rapporti umani che
mi ha facilitato nel costruirmi amicizie con i compagni di scuola e alla mia voglia
di conoscere e scoprire sempre cose nuove, tuttavia alcuni episodi hanno
segnato la mia vita di studente e… di insegnante.
Infatti, la bambina astronauta si è ritrovata, da adulta, a muoversi agile e libera,
anziché nel vuoto cosmico, nel vuoto della scuola italiana! I fatti a cui mi
riferisco sono accaduti in momenti molto diversi della mia vita, ma hanno un
denominatore comune: il comportamento di un insegnante che in tutti e due i
casi ha avuto come risultato quello di farmi sentire totalmente inadeguata.
Il primo episodio a cui mi riferisco mi è accaduto circa all’età di 9 anni e non in
ambito strettamente scolastico, ma durante il corso di catechismo preparatorio
alla prima Comunione. La mia maestra di catechismo era una suora arcigna e
barbuta che,oltre a insegnarci le sacre scritture ed i sacramenti, era responsabile
del coro dei bambini durante la messa. Non ho mai mostrato particolare
predisposizione per il canto ma, essendo parte del gruppo dei bambini, mi
piaceva cantare con loro nonostante fossi stonata. Ho partecipato a tutte le
prove con grande entusiasmo e diligenza, e non ho mai avuto dalla suora alcun
suggerimento per migliorare le mie prestazioni canore fino al momento del
debutto in chiesa. Il pomeriggio precedente la nostra prima uscita pubblica la
maestra impartì ad ognuno di noi gli ultimi ordini sulle posizioni da tenere nelle
varie file del coro, quando fu il mio turno mi si avvicinò e mi disse che io sarei
dovuta stare in ultima fila con i bambini più alti, ma che avrei dovuto solo far
finta di cantare, muovendo la bocca senza articolare suono per non rovinare
l’esibizione. Ricordo come adesso il dolore che provai, il senso infinito di inferiorità
nei confronti degli altri bambini ed il rancore profondo nei confronti della
suora. Penso di averla odiata in quel momento e ancora adesso non so essere
indifferente al ricordo.
Il secondo episodio che voglio raccontare è avvenuto all’inizio della prima media.
Ripenso ancora con piacere al cambiamento di scuola: tanti nuovi compagni
, tanti nuovi amici e tanti nuovi insegnanti, ciascuno per una materia

diversa ,invece della mia cara vecchia maestra elementare che era stata, fino
a quel momento, il mio unico riferimento culturale. Contenta e desiderosa non
solo di ampliare le mie conoscenze ma anche di ottenere risultati eccellenti,
cercai subito di organizzarmi lo studio nel modo migliore adattandolo alla
nuova realtà scolastica e alle richieste che mi pervenivano dai miei professori.
Iniziarono le verifiche e con esse le prime soddisfazioni fino al momento in cui
la professoressa di italiano riportò, corretto, il primo tema: valutazione cinque!
Era il primo voto negativo che ottenevo da quando avevo cominciato la scuola,
ma non è stato questo a segnare i cinque anni successivi della mia vita scolastica,
quanto la motivazione con la quale questo voto mi era stato assegnato.
Il giudizio che accompagnava il voto più o meno recitava così :”Tema privo di
errori ortografici, corretto nella sintassi e ricco nel lessico ma prolisso”, troppo
lungo insomma per i gusti di quella professoressa, alla quale i temi piacevano
“concisi” , come lei stessa diceva, e che si permise anche di stabilire a priori
la lunghezza delle mie composizioni. Infatti decise, da quel momento in poi,
che ogni mio tema non avrebbe dovuto superare la lunghezza di una colonna e
mezzo, altrimenti non me lo avrebbe corretto, e per evitarmi questo, ogni volta
che c’era compito in classe mi si avvicinava e con la penna rossa tracciava a
metà della seconda colonna del foglio protocollo una riga rossa che stabiliva la
fine della mia composizione e, aggiungo io, dei miei pensieri. Che incubo quella
riga rossa sul foglio, che fatica concentrarsi per sintetizzare nel numero minore
di parole possibile le mie riflessioni e le mie opinioni quando invece fiumi di
idee vorticavano nella mia mente in attesa di prendere forma nella scrittura! Mi
sentivo di avere tante cose dentro da dire ma di non essere più libera di poterlo
fare come volevo e questo mi generò un grande disagio interiore al quale seguì
la convinzione che, in fondo, quelle idee non erano poi così interessanti, mentre
era importante per me prendere buoni voti e quindi era necessario ubbidire al
limite posto dalla riga rossa.
Quella linea rossa ha condizionato i miei compiti di italiano, non solo durante
i tre anni delle scuole medie, ma anche i primi due anni di liceo, nonostante il
mio nuovo insegnante avesse idee radicalmente diverse e mi sollecitasse continuamente
a lasciarmi andare nello scrivere. La sensazione che ho è che questa
ricerca forzata di sintesi che mi è stata imposta abbia consumato le migliori
energie creative della mia prima adolescenza e che comunque troppo tardi mi
sia riappropriata del modo vero di esprimermi. Fortunatamente ce l’ho fatta a
riprendermi quella parte di me che era stata inibita senza alcun diritto, un giorno
di cinque anni dopo: davanti ad un tema libero assegnatomi per casa, ho
trovato il coraggio di lasciar andare la fantasia e la penna attraverso i confini del
reale per comporre una bellissima storia d’amore.
Da quel giorno in poi conservo solo buoni ricordi del Liceo e dei miei insegnanti
che tante cose mi hanno trasmesso e non solo sul piano culturale ma anche e
soprattutto sul piano umano.
Arrivò poi il momento di scegliere la facoltà universitaria e mi orientai decisamente
sul corso di Matematica. Negli anni, il mio sogno di bambina di fare
l’astronauta si era ridimensionato, soprattutto pensando più concretamente al
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lavoro futuro, mi sentivo attratta dagli aspetti più applicativi della disciplina,
che considero , come disse Galileo, il linguaggio universale con il quale è scritto
il libro della natura. Conseguita la laurea con una tesi di ricerca operativa, ebbi
l’opportunità di rimanere per qualche anno al dipartimento di Matematica per
proseguire il lavoro di ricerca iniziato per la tesi, nella speranza che qualche
porta nel mondo accademico mi si potesse aprire.
E’ proprio durante questi anni che ebbi le prime esperienze in campo didattico,
le mie prime supplenze nella scuola per arrotondare il magro stipendio universitario.
Insegnare non era certo il lavoro che volevo fare: in attesa di qualche
concorso all’università avevo preso anche in considerazione l’idea alternativa
di andare a lavorare in una azienda privata in giro per l’Italia, per cui feci vari
colloqui, ma una proposta lavorativa seria tardava a venire, così accettai questi
incarichi temporanei nella scuola.
Il ricordo del primo giorno in classe dall’altra parte della barricata è così vivo
nella mia memoria da stentare io stessa a credere che siano passati ben 22 anni
da allora. Trovandomi per la prima volta davanti ai ragazzi mi sentivo assolutamente
impreparata a farlo, tanti anni di studio mi avevano permesso di farmi
conoscere profondamente la materia ma non avevo sviluppato alcuno strumento
didattico per insegnare né alcuna abilità a rapportarmi con loro; tuttavia una
cosa mi fu chiara da subito: non avrei mai dovuto fare a loro quello che tanto
aveva fatto soffrire me e cioè farli sentire inadeguati davanti a situazioni più
difficili di altre. Seguendo questa linea di condotta ho cercato di strutturare da
subito la mia didattica in modo da valorizzare negli alunni le loro naturali inclinazioni,
senza mai colpevolizzarli o sminuirli nelle situazioni di insuccesso.
Quando l’insegnamento è divenuta la mia professione principale e la ricerca
accademica è stata relegata nel tempo libero, non per scelta ma perché nella
vita talvolta gli eventi scelgono per noi, trovandomi anche in un momento di
difficoltà emotiva personale, ho sentito forte il bisogno di dotarmi di strumenti
che mi permettessero di gestire in modo più consapevole il rapporto con gli altri
e quindi anche con la classe ed i colleghi. Ho investito sia denaro che energie
per frequentare dei corsi di formazione che prima mi hanno permesso di riappropriarmi
della mia autostima, facendomi stare meglio con me stessa e con gli
altri e successivamente di sviluppare meglio le mie capacità relazioni , comunicative,
di ascolto e di gestione di un gruppo, con l’obiettivo di poter divenire un
“insegnante efficace “.
L’esperienza di quegli anni di formazione è oro nella mia carriera professionale
e costituisce la base sulla quale costruisco oggi qualsiasi relazione personale.
Raggiunta la consapevolezza di come un comportamento assertivo, congruente
ed empatico sia importante nel consolidare ogni relazione, di come le barriere
comunicative che talvolta anche inconsapevolmente alziamo, blocchino qualunque
via alla comunicazione, ogni giorno che entro in classe cerco di favorire lo
scambio emotivo nel gruppo, provo ad ascoltare i messaggi verbali e non che
i ragazzi mi inviano e non manco, se se ne presenta l’opportunità , di parlare
di me e comunicare anche le mie emozioni di insegnante di fronte a situazioni
che possono essere difficili e talvolta frustranti per tutti. Nonostante sia stata

per me una professione di ripiego, la percezione che ho di me come insegnante
è positiva, mi sento di svolgere questo ruolo con tanta energia ed entusiasmo
e, senza trascurare le enormi difficoltà che sempre più i ragazzi incontrano
nell’apprendimento della materia che insegno e sulle quali occorre fare certamente
una riflessione che vada in direzione di un rinnovamento sul piano didattico,
penso comunque di riuscire a costruire con loro una relazione profonda
ed importante che perdura oltre la fine del loro corso di studi. Il ritrovarli adulti
laureati, professionisti affermati , che si fermano per strada a salutarmi o mi
chiamano per telefono per condividere con me alcuni bei momenti della loro
nuova vita, fa acquistare il giusto senso al mio lavoro poco riconosciuto e mal
pagato, mi fa capire che sono stata un riferimento adulto importante nella loro
adolescenza e mi dà la forza di andare avanti ogni anno nella ricerca di strade
sempre nuove e sempre più difficili da percorrere per essere al passo con i tempi
, sempre pronta ad accogliere i nuovi arrivati.
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Mariella Marinari
Look how blue the sky is. Autobiography of an optimist. This might be the title
of my first novel, of my first collection of poems and, why not, of my autobiography.
I might also entitle my life like that, even if it has not always been happy
,but simply because I am an optimistic person and always think positive.
Since I was a child I have always been optimistic even when I was in the third
year of primary school and my teacher beat me because I had allowed a classmate
to copy a maths exercise from mine (she was unable to do it and she was
crying!). I believe that was the first time I had earnestly thought about becoming
a teacher, not a cruel and authoritative one as my teacher was but sympathetic
and sweet. I would have been a benchmark to my students, a person
they would highly estimate and love, a person my teacher had never been.
My student life was characterized by strict teachers who only obliged pupils to
learn by discipline and authoritativeness. However the method was not quite
bad because I have learned a lot from my teachers, despite their behaviour.
I was a clever and studious girl but I might have worked even harder and got
better results if I had sometimes been rewarded with a word, a gesture or more
attention instead of a good mark.
Nevertheless I have had a splendid family that has always been understanding
and close to me; they have also been an important benchmark to me since any
of them was always helpful to anyone else.
Since I was a student at primary school I have had a bosom friend whom I have
lived in total harmony with, sharing studies, until the first open competition for
teachers, and life with her. We have grown up together and when we studied
we heard each other’s lesson, we did homework together; she was very good at
maths while I was very good at French so we helped one another.
Studying together is not common anymore even if , in my opinion, it is very
important and useful mostly to shy and insecure students.
I might mention many other people but no teachers who have been important
for my growth and my life as a student. In the 1970s, while I was attending secondary
school, a Liceo specializing in scientific studies, something changed.
My interests were not stimulated by any teacher but they slowly came out: at
that time cultural and political interests were inseparable so they developed
contemporaneously: I took part in discussion groups, I attended film clubs, I
went to the theatre… So I discovered a new and fascinating world, where we
talked about and debated anything, we racked our brains in order to understand,
to tell about ourselves, our doubts and hopes, as well as our dreams
which, as we realized, were not only individual’s but common to everyone: this
gave us the strength (or the illusion) to believe that we were able to change
the world.
I remember student committee meetings where students stated their political
ideas, shouted, got excited and sometimes came to blows, in short they were
fighting for their ideals: all of them wished to do and to create something. I
have never lived in such a lively atmosphere anymore in my life.

At the end of Liceo my friend and I decided to attend the Faculty of Arts at the
University of Pisa. The years I spent at university were the most fabulous in
my life as regards education. At last I met some teachers who made me fall in
love with literature, philology, history and know realities and thoughts which
had been unknown to me until then. In particular I remember the lessons by
Professor Guarnieri, the crowds of students who attended his lessons and the
dead silence since his very first words: we were fascinated by what he said and
his way of speaking. I remember his unpublished correspondence with Montale
and Gadda which he read and exhibited with the same sacredness as one might
show a relic and I also remember how entranced we were as if we were witnessing
a “miracle” and conscious it was a unique and unrepeatable “ritual”.
I fell in “love” with him due to what he represented for my training and knowledge;
after a few hours of Professor Guarnieri’s lessons I knew who the tutor
of my thesis would be.
Other “loves” studded my university studies: professors and also writers became
my idols for four wonderful years.
My thesis crowned my studies: it was a monographic one, about Enrico Cavacchioli,
both a playwright of the theatre of the Grotesque and a futurist poet,
whose birthday was the same as mine. It was love at once! Professor Guarnieri’s
assistant lecturer who was my tutor too, was so enthusiastic about my
work that he was able to have it published on the prestigious Rivista di Drammaturgia
edited by R. Jacobbi.
The recollection of the hot afternoon of 4 th June 1980 will be fixed in my memory
forever: Professor Blasucci’s bell ringing in the great hall of the Faculty of
Arts and calling me to be appointed MA with a first class degree, in the presence
of 11 professors among whom there were some of the most important ones of
the Faculty. The emotion is still vivid.
The degree also marked the end of my student life: from then on I should have
faced up to other studies, other people, the world of work….
Two days after my graduation ceremony I filled in the form to enter the pass-list
for supply teaching.
Then I got used to marks, trade union, local education superintendency and
wearing bureaucracy.
When I was at University I never thought of all this, I only fed my mind and
heart while now I had to concentrate on work and gaining independence.
My first appointment was at the Nursing College in Pontedera. My mother read
on the newspaper that they were looking for Italian and History teachers for
professional retraining of nurses. Indeed some of them only had compulsory
school-leaving certificate and only after attending a proper course were able to
enter the nursing college run by the local health unit. So I applied for that position
and I was engaged. The experience was great. Teaching motivated adults
is really gratifying: my students understood and were interested in learning
everything.
Some students were older than me so I was sometimes frightened, anyway it
was a very peculiar didactic and human experience.
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Later on I won some public competitions for teachers in the province of Pisa but
unfortunately they were announced for no positions. However I was a qualified
teacher so I was allowed to do temporary teaching jobs in state schools. I have
not a good memory of my first experience as a teacher: I was at junior secondary
school, classes were large and above all very lively. I was used to attentive
and interested nurses while those pupils were poorly educated; they shouted
and came to blows. I felt I was more a babysitter than a teacher.
At that time I could be appointed even for a few days so I had many other experiences
and they were not positive.
My beloved recollection is the temporary teaching at junior secondary school
in Pomarance. My students had many problems with basic skills but they put
all they’d got into studying. I cooperated with some colleagues and at last we
were able to put on the play “Prezzemolina”; the students were very good and
it was a great success. They rarely came to school in the afternoon but the
performance was at about 5 p.m. in order to allow parents to come and see the
play. Many students lived in isolated cottages far from their classmates; one of
them once told me he was unable to study because he had to loo after a flock
of sheep. On the last school day we organized a party that was open to some
parents and teachers and students gave me a beautiful fountain pen that I still
keep with love.
Being a substitute made me feel a nonentity indeed in some schools, mainly the
largest ones, colleagues didn’t even glance at me but fortunately there were
students and they absorbed all my energy.
The year after my marriage I was a supply teacher at Larderello which is very
far from Pontedera but the real problem was not the distance but the road: the
last part of it climbed the hills dotted with many cooling towers which emitted
the condensate of fumaroles and when it was bitterly cold the road was frozen
hard and driving was difficult. The school caretaker sometimes phoned and told
me to mind some bends or parts of the road.
She probably prevented me from having bad road accidents in that period. The
memory of that school year is particularly cheerful because at its end I realized
I was pregnant. Next September I was a temporary teacher for a few days.
Later on I was assigned supply teaching for a year in Volterra but I worked only
for a short time because I got maternity leave and I fully devoted myself to that
happy event.
After the birth of my daughter I worked as a supply teacher at junior high
school again. Meanwhile new public competitions were announced and after
long reflection I decided to apply for secondary school teaching in Milan, for the
province of Brescia. A few months later I knew I could take the orals and after
long and strenuous study I won the competition and I became a permanent
teacher.
Moving to Brescia was the most difficult decision in my life since it meant to
leave my daughter, my husband and my life but it was impossible to do otherwise.
Therefore I became a commuter for one year, first by train, then by car,
on my own.

I thought of my daughter and my loved ones….I really suffered a lot; despite
all that I tried to put the greatest effort in my work. Even though I was in the
north of Italy teaching methods were not so advanced as I imagined: in regard
to methodologies, in particular, there was much to be done so I cooperated with
colleagues who had been employed at the same time as me in order to foster
new ways and new approaches and I also joined a lot of in-service training
courses.
After my trial period luckily I was transferred to the School of Fine Arts in Volterra
and even if the school was far from Pontedera I was very glad to come
back to my family and start my old life again. The following years passed quite
peacefully. I attended other refresher and in-service training courses and even
five specialization courses at the Faculty of Teaching Sciences in Florence, during
which I went into the emotional aspects of empathetic relationship with
students thoroughly.
I have been dealing with teaching methods for many years, I have taken part
into many projects and published lots of articles about these activities. One of
the most significant training experiences has been the creation of the “Costellazioni”
group which has taken up much of my time and also allowed me to
meet new colleagues and share particular problems such as dropping out of
school.
I have been teaching at I.T.I.S. “Marconi” in Pontedera for 11 years now, I
have had lots of students and colleagues and I have met many headmasters.
Nowadays school is very different from the one I worked in at the beginning
of my career: students, parents, society and also me have changed but I still
have much enthusiasm even though teaching is a very demanding job today.
Students are more and more problematic and demotivated and also more alone
than before. Many colleagues are more and more tired, often frustrated by a job
which sometimes is not very satisfying.
My school is not a place where things are easy: we have to test ourselves and
cope with different situations almost everyday, it is a very demanding school
that I might call “true”, but it is also one where I can see everything happens
as enriching and enhancing.
This school is unique, a quite different school from other schools like a Liceo
where we can still find exemplary students (my daughter is attending a Liceo
specializing in classical studies and her school is like that) and where time
seems to have stopped or we believe that.
My students are unruly, they have to be followed and looked after, “taken in” in
many ways because for many of them school is the occasion of their life, probably
the only one.
Of course attending training courses is important and useful but I believe for a
teacher it is much more important to be able to lend one ear to students and
try to understand them, to experiment new strategies and approaches and possibly
to share doubts and uncertainties with colleagues in order to find working
solutions to help students.
Some days ago I entered my second class, a difficult one where boys are poorly
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motivated, impudent and noisy. I got angry and since I was tired of telling them
the same things over and over, I threatened them to choose another class next
year. When they saw I was very angry they shut up. After a while Cristian, a
Bulgarian boy; came up to me and mumbled: “ I’m not going to leave you, I’ll
follow you.” Then I thought: the sky is really blue .
My life as a teacher is going on with ups and downs but I am aware that if staying
with students were not enthusiastic anymore that would mean the end of
my task but obviously I hope it will never happen!

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