quad. n. 98ù - Consiglio Superiore della Magistratura
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È qui da osservare che la aggettivazione che deve connotare l’indizio perché il medesimo possa<br />
costituire elemento di quel processo inferenziale che porta dal fatto noto a quello non noto proprio<br />
del thema probandum, trova giustificazione nella particolare struttura dell’indizio, di un fatto cioè<br />
che per non essere direttamente rappresentativo del fatto da provare e, quindi, di per sé, sul piano<br />
fenomenologico, neutro, ripete la sua valenza probatoria dalla sua, indichiamola per ora, idoneità a<br />
porsi in quella relazione con il thema probandum che sola può derivargli dal possesso dei requisiti<br />
che l’art. 192, 2° comma prescrive debba avere, mentre una tale esigenza non sussiste per la prova<br />
c.d. diretta che, a differenza dell’indizio, una tale idoneità possiede di per sé, a prescindere dal<br />
rilievo probatorio che in concreto potrà esserle poi attribuito, per cui è evidente come la sua<br />
valutazione richieda soltanto che il giudice dia conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei<br />
criteri adottati, principio generale questo che investe ogni tipo di prova ma che con riferimento alla<br />
struttura di quella indiziaria deve specificarsi con la aggettivazione prevista dalla norma che, d’altra<br />
parte, è propria anche delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. le quali al pari<br />
degli indizi consentono di risalire da un fatto noto a un fatto ignorato, e dove la gravità, la<br />
precisione e la concordanza sono condizione <strong>della</strong> loro ammissibilità: il giudice non deve<br />
ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti, e si ricordi che nella economia <strong>della</strong> prova<br />
le presunzioni nel processo civile hanno un rilievo notevolmente inferiore rispetto a quello proprio<br />
degli indizi nel processo penale.<br />
La sua connotazione essenziale l’indizio, come chiaramente risulta dal suo etimo, la ripete dalla<br />
sua funzionalità a fornire indicazioni rispetto al thema probandum oggetto del processo.<br />
E qui mi piace richiamare il BELLAVISTA laddove nella voce “Indizi” nella Enciclopedia del<br />
diritto (Varese, 1988, pag. 224) ricorda come “nel diritto romano il termine indicium valeva<br />
propriamente per denunzia, almeno originariamente; nella terminologia tecnico-giuridica<br />
romanistica, quella che è la moderna accezione di indizio si rendeva con le voci argumentum o<br />
signum. La successiva fortuna del termine indizio... si giustifica con la spiegazione etimologica del<br />
NICOLINI, il quale rifacendosi a un passo oraziano (indiciis monstrare recentibus abdita rerum),<br />
argomenta che mostrare da segni recentemente osservati il segreto nascosto delle cose, è come<br />
svelarli, dirli. E da dico discenderebbero indico, index, indicium. L’accezione comune del termine<br />
non si discosta di troppo da quella giuridica, che definisce l’indizio come una circostanza certa dalla<br />
quale si può trarre, per induzione logica, una conclusione circa la sussistenza o la insussistenza di<br />
un fatto da provarsi”.<br />
Mutuando una terminologia propria <strong>della</strong> semiotica può dirsi che l’indizio è un segno che la<br />
tecnica di indagine adopera perché dotato di una capacità connotativa tale da individuare il fatto<br />
proprio del thema probandum che altrimenti rimarrebbe ignorato.<br />
L’indizio-segno è strumento quindi di conoscenza per l’aspetto significante che esprime rispetto<br />
a un significato che disvela. E tanto più valida sarà la acquisizione di conoscenza quanto più<br />
rigoroso il processo che conduce ad essa e proprio con riferimento a tale processo di abduzione il<br />
legislatore ha prescritto che gli indizi debbano avere determinati requisiti, quali quelli indicati nel 2°<br />
comma dell’art. 192 c.p.p. che hanno il compito di prevenire il rischio di “falsificazioni” cui il<br />
processo potrebbe dar luogo nel senso di fuorviare l’indagine.<br />
In un certo senso tali requisiti svolgono la stessa funzione svolta in negativo dai “falsificatori<br />
potenziali” <strong>della</strong> teoria falsificazionista dell’epistemologo Karl POPPER secondo il quale se si<br />
vuole che un determinato metodo scientifico possa essere controllato dall’esperienza è necessario<br />
conoscere i fattori che potrebbero falsificarlo: una teoria sarà quindi valida quanto più resisterà alle<br />
prove di falsificazionalità cui è esposta o può essere sottoposta. Tali fattori di rischio ne<br />
corroboreranno la scientificità nella misura in cui sono evitati.