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quad. n. 98ù - Consiglio Superiore della Magistratura

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A questo punto ci si potrebbe chiedere se un risultato prodotto da una prova indiziaria sia<br />

sostanzialmente soddisfacente e tale da consentire la formazione del convincimento del giudice a<br />

decidere in conformità.<br />

La risposta al riguardo non può che essere positiva.<br />

L’universo processuale è un universo dove domina il principio non <strong>della</strong> assolutezza ma di una<br />

relatività data dai rapporti che si instaurano tra gli elementi probatori che i soggetti processuali sono<br />

in grado (e la difesa limitatamente a quelli rispetto ai quali ha interesse) di offrire alla dialettica<br />

processuale, e dei quali è prevista e poi riconosciuta l’ammissibilità e la utilizzabilità.<br />

A questo proposito merita di ricordare il PERELMAN (op. cit., p. 55) che nelle sue<br />

considerazione sul ragionamento giudiziario rileva che “la prima idea che viene in mente a un<br />

profano di diritto è quella di accostare l’azione del giudice, che deve formarsi un convincimento<br />

circa la realtà materiale dei fatti da cui dipende la sorte di un processo, a quella di uno storico o di<br />

un investigatore che si sforzi di ricostruire il passato per come esso è stato. Proprio per ciò è<br />

importante insistere sulle differenze esistenti tra il ragionamento del giudice, sottoposto a regole di<br />

procedura civile o penale, e il ragionamento del ricercatore che ha unicamente preoccupazioni di<br />

ordine scientifico quanto alla determinazione <strong>della</strong> verità oggettiva”.<br />

Il processo è uno spaccato del mondo fenomenologico che consente una conoscibilità del<br />

medesimo limitata a quella parte che riesce a rendersi visibile mentre altra parte, che pure avrebbe<br />

rilievo se fosse conosciuta, può rimanere ignota.<br />

La consapevolezza del legislatore al riguardo risulta di tutta evidenza nella previsione <strong>della</strong><br />

revisione delle sentenze di condanna: l’art. 630 lett. c) c.p.p. è esemplare : “se dopo la condanna<br />

sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che<br />

il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631”, la revisione può essere richiesta.<br />

Ancora di grande significato è l’art. 637, 3° comma c.p.p. nel vietare che il proscioglimento in sede<br />

di revisione possa avvenire sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente<br />

giudizio.<br />

Non solo, quindi, possono rimanere ignoti fatti di rilievo in sede processuale, ma fatti<br />

conosciuti possono essere oggetto di valutazione diversa senza distinzione alcuna tra prova diretta e<br />

prova indiretta. È questo un aspetto del processo di grande rilievo in quanto dice che appartengono<br />

alla sua fisiologia elementi che lo relativizzano in parti essenziali, quali la acquisizione e la<br />

valutazione delle prove, e che concorrono a formare il libero convincimento del giudice, e proprio<br />

perché il giudice si muove su di un tale terreno si richiede debba dar conto nella motivazione dei<br />

suoi provvedimenti dei risultati acquisiti, dei criteri adottati e indicare le prove poste a base <strong>della</strong><br />

decisione e la enunciazione delle ragioni per le quali non abbia ritenuto attendibili le prove<br />

contrarie. E questo relativismo permea tutti i gradi del giudizio: la decisione del giudice<br />

dell’impugnazione nessuna certezza aggiunge sotto questo aspetto: la decisione che definisce il<br />

giudizio ha la certezza che le deriva dal non poter essere a sua volta impugnata.<br />

In questo contesto la idoneità <strong>della</strong> prova indiziaria a offrire risultati probatori del tutto<br />

soddisfacenti, se rigorosamente valutati, appare evidente e mi sembra quanto mai pertinente a<br />

confermarlo il richiamo del PATTI (op. cit., p. 153) alla esperienza tedesca dove perfino negli<br />

scritti più recenti si ricorda la risposta offerta dal Reichsgericht 14 gennaio 1885: “Data la<br />

limitatezza <strong>della</strong> conoscenza umana, nessuno (neanche nel caso di diretta percezione di un<br />

fenomeno) può pervenire all’assoluta certezza circa l’esistenza di una fattispecie. Sono sempre<br />

ipotizzabili astratte possibilità di non esistenza. Chi è cosciente dei limiti <strong>della</strong> conoscenza umana<br />

non ammetterà mai di essere talmente convinto dell’esistenza di un certo accadimento da escludere<br />

assolutamente un errore. Per questo motivo nella vita pratica il più alto grado di verosimiglianza,<br />

che si consegue con la migliore applicazione possibile dei mezzi di conoscenza esistenti, vale come<br />

verità, e la coscienza di chi ha svolto questo processo conoscitivo circa l’esistenza di un’alta<br />

verosimiglianza vale come convincimento <strong>della</strong> verità”.

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