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Volume 2 - MAC Francesco Bartoli

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F R A N C E S C O<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A RT E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

secondo volume 1979 - 1986


Dall’astratto io me ne vo volando adesso,<br />

in foglie e fiori, verso lo sconfinato<br />

e il soprannaturale.<br />

Osvaldo Licini


Questa pubblicazione è stata possibile grazie al concreto sostegno<br />

del Comune di Mantova, della Provincia di Mantova<br />

e della Fondazione Banca Agricola Mantovana.<br />

Un particolare ringraziamento è dovuto a Palazzo Te, alla Casa del Mantegna<br />

e alla Camera di Commercio che hanno permesso<br />

l’utilizzazione di alcune immagini di opere delle loro collezioni.<br />

Si ringrazia inoltre, per la disponibilità, l’Archivio Sartori<br />

che ha reso possibile reperire alcuni “scritti”<br />

che qui vengono pubblicati.<br />

Per la loro competenza e disponibilità un grande apprezzamento è rivolto a<br />

Claudio Antoniazzi, Annarosa Enzi Baratta, Pierluigi <strong>Bartoli</strong>, Sonia Costantini, Susanna Sassi<br />

e a Gianluigi Arcari per il prezioso supporto.<br />

Artefice fondamentale di questo lavoro, Ester Mantovani <strong>Bartoli</strong>,<br />

con grande competenza e affetto, ha ricostruito, passo passo,<br />

il lavoro di <strong>Francesco</strong>.<br />

La disponibilità degli artisti e dei famigliari ha contribuito alla ricchezza delle informazioni<br />

contenute in questo lavoro. Un ringraziamento particolare è rivolto a Franco Bassignani,<br />

Edoardo Bassoli, Carla Bernardelli, Claudio Bondioli Bettinelli, Anna Bolognesi, Carlo Bonfà,<br />

Ferdinando Capisani, Adriano Castelli, Sonia Costantini, <strong>Francesco</strong> Dalmaschio,<br />

Gabriella Facciotto, Italo Lanfredini, Ernesto Lojero, Gianni Madella, Augusto Morari,<br />

Luigi Mutti, Giorgio Nenci, Teresa Noto, Roberto Pedrazzoli, Concetto Pozzati,<br />

Maria Rosa Schirolli, Sergio Sermidi, Gianluigi Troletti, Valentino Vago.<br />

Un ringraziamento particolare è rivolto a Giorgio Fasol per aver messo a disposizione<br />

le immagini delle opere di Rodolfo Aricò, a Gianfranco Ferlisi per il testo<br />

“L’Area Mantovana: primo approccio ad un’ipotesi di attivazione”.<br />

Ad Enrica Zacchi un grazie per la fattiva collaborazione.<br />

Progetto grafico e coordinamento editoriale<br />

Eristeo Banali<br />

Stampa<br />

Publi Paolini, Mantova


FRANCESCO<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A RT E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

a cura di<br />

Eristeo Banali<br />

2° volume<br />

1979-1986


Per una lettura delle arti: gli scritti<br />

Eristeo Banali<br />

Da Gino Gorza a Giuliano Giuman<br />

(dal primo volume: Presentazione)<br />

[...] Nel Settantanove, alla Casa del Mantegna, il mondo incantato di Giosetta Fioroni, la fiaba, la dimensione fantastica sono argomenti<br />

di affascinamento: i Teatrini come case e teche, sarcofaghi e stanze, ipogei della memoria, presenze senza tempo, capaci d’incantare<br />

e sorprendere, dormienti, quasi fossero sulla soglia del nascere e, situate nella lontananza, macchinassero un incanto, nascondessero<br />

un segreto; o come se, al contrario, fossero state recise da una falsa vita e tesaurizzate in uno scrigno protettivo, in una<br />

stanza – ripostiglio.<br />

All’inizio degli anni Ottanta, con un articolo sulla Gazzetta di Mantova, ritorna su Giulio Perina e alla sua “Pittura en plain air”; scrive di<br />

Gianni Del Bue e della sua distrazione… dalla terra, dal suolo, dalla linea dell’orizzonte … dalla superficie e, in occasione della mostra<br />

di Defendi Semeghini, a Palazzo Ducale a Mantova nella primavera dell’Ottantuno, pubblica “Dai sogni alla scena metropolitana”.<br />

Per Giordano Di Capi, in occasione della mostra antologica a Palazzo Te, nell’ottobre Ottantadue, scrive un saggio dal titolo Ai confini<br />

dell’astratto, che risulterà fondamentale per la conoscenza del lavoro dell’artista. Nell’Ottantuno, su Arte centro, sul lavoro di Carlo Cioni<br />

ancora un saggio dal titolo La forma dell’invisibile. Nell’Ottantacinque, per la mostra di Palazzo Vecchio a Firenze, approfondisce ulteriormente<br />

lo studio dell’opera di Carlo Cioni nel testo dal titolo Racconto sul nero. Per Osvaldo Licini scrive: Pittura come ornamento e<br />

irrealtà, La natura la iena e l’equilibrista e Il personaggio liciano: un invito al silenzio. Nell’Ottanta, con Presagi della scena, scritto per<br />

la mostra alla Casa del Mantegna, ritorna su Rodolfo Aricò, e le sue architetture armoniche e con Irrealtà del naturale, ritorna sull’opera<br />

di Giuseppe Facciotto, in occasione della mostra di Palazzo Te. In questo periodo, per Renzo Schirolli scrive tre interventi: Materie<br />

e cerniere per la mostra alla Galleria d’Arte Contemporanea di Suzzara, Risanare l’ombra per la mostra Renzo Schirolli negli anni<br />

cinquanta alla Galleria Einaudi a Mantova e un breve testo, dedicato a artificio e ascolto del naturale scritto per la mostra Arte contemporanea<br />

in Palazzo Ducale a Mantova, nell’ ottobre Ottantanove.<br />

Sul lavoro di Ferruccio Bolognesi scrive due saggi: Un sistema magico, testo contenuto in Vestire i sogni, rassegna di bozzetti e di costumi<br />

teatrali, Centro di Documentazione Arti Contemporanee, quaderno 1, aprile1982, uscito in occasione della mostra Simulazione<br />

d’ombre, fili lamiera pittura teatro tenutasi alla Casa del Mantegna nell’Ottantacinque; mentre il secondo, senza titolo, viene redatto<br />

appositamente per la mostra Simulazione d’ombre.<br />

Scrive di Valentino Vago Ritmiche dell’ascesa in occasione della mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano; Svolte e ritorni<br />

per la mostra Giovanni Bernardelli opere 1935-1982 a Suzzara nell’Ottantatre, e a Ferrara l’anno successivo; Sulla soglia delle figure<br />

per la mostra di Sonia Costantini alla Galleria “Einaudi”; Ad occhi chiusi, Sculture di Enzo Nenci in un articolo comparso sulla Gazzetta<br />

di Mantova.<br />

Nell’Ottantatre alla Casa del Mantegna, viene presentato il libro Dopo il tutto di Concetto Pozzati, relatore con <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> l’amico<br />

Gino Baratta. La conversazione che ne nasce diventa l’argomento di uno scritto sul parlare e il fare di Pozzati. Sempre per Pozzati<br />

nell’Ottantotto scrive A che punto siamo con i fiori per la mostra tenutasi alla Galleria Il chiodo, a Mantova, e poi L’angelo, la model-<br />

375


la dove la domanda emblematica Ma il gioco non è cieco? diventa consonanza irrinunciabile al viaggiare verso orizzonti ineluttabili,<br />

dimensioni che contemplano i suoi Tempi di piacere residuo. Dell’Ottantaquattro è il saggio Kandinskij tra apocalisse e astrazione,<br />

pubblicato da Umberto Artioli in Il ritmo e la voce.<br />

In questi anni per la Gazzetta di Mantova scrive Sensazione di uno scultore chiarista in occasione della mostra alla Galleria Arcari di<br />

Mantova; per la mostra Disegno mantovano del ‘900 scrive del [...] disegno, quasi mai posto al servizio della scultura [...], di Aurelio<br />

Nordera e pubblica sul catalogo Nudo seduto; per Carlo Bondioli Bettinelli scrive Echi riflessi e per Ernesto Treccani, Il volto rinato,<br />

pubblicato nel catalogo della mostra La fiaba di Narciso allestita alla Casa del Mantegna nel 1987. Scrive un articolo sulla Gazzetta di<br />

Mantova dal titolo Dall’immagine alla luce: la ricerca di Sergio Sermidi. Di Gianni Madella registra un mutamento di rotta del flusso<br />

di energie, orientando la sua ricerca verso …lo spazio comune di oggi della vita di relazione, dei percorsi della civiltà tecnologica, dell’assembramento<br />

urbano.<br />

Per Vasco Bendini, in occasione della mostra Sette stanze – un giardino tenutasi alla Casa del Mantegna, scrive Nel silenzio della scienza,<br />

dove s’addentra nelle stazioni bendiniane indicandole come ragioni tematiche del suo lavoro: il sentimento come storia, la formalità<br />

organica del mondo, lo storicismo interrogante, il vedere altro e più a fondo; nell’Ottantasei, in Venti disegni erotici<br />

(1956-1984), con una dichiarazione di poetica, Gianluigi Arcari Editore, pubblica Paesaggi con Baubo.<br />

In occasione della mostra Pino Castagna 1964-1985 tenutasi a Palazzo Te nell’ottobre dell’Ottantacinque scrive un saggio leggendo<br />

l’attenzione dello scultore quando è …rivolta a scandire i dinamismi delle materie lavorate, quel che in termini scenici potremmo<br />

chiamare gestualità e fors’anche recitazione, e l’altra intesa a sondare le potenze intime dell’universo naturale, le forze latenti sotto<br />

la pelle dei corpi e nelle masse, nella pietra e nel metallo, per estrarne emergenze, personaggi appunto (e ancor meglio “persone”,<br />

forme che risuonano, per-sonant), cariche di un’aura incantata e inattesa. [...]<br />

(N.d.r. Molte immagini poste a corredo dei testi sono state “prese” dalle pubblicazioni seguite direttamente da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>. Nel compilare le didascalie non sempre<br />

è stato possibile reperire tutti i dati tecnici e dare qualità alle riproduzioni).<br />

376


“... per via di racconti e nuove funzioni<br />

vien fuori un mondo immaginario<br />

teso fra le soglie del tempo,<br />

fluido ed espansivo<br />

come lo scorrere degli istanti ...”<br />

F. <strong>Bartoli</strong>, da “Di piombo e di cera” (pag. 498)


1979<br />

Da Gino Gorza<br />

a La fatica della pittura<br />

Figure e calchi<br />

Gino Gorza<br />

Disegni come bruciature<br />

Carlo Bondioli Bettinelli<br />

Marionetta, cuore<br />

Giosetta Fioroni<br />

Il disegno e la scena<br />

Raffigurare per indizi<br />

Lucia Tampellini<br />

La fatica della pittura


Figure e calchi<br />

Gino Gorza (1)<br />

L’anamorfo è palesemente l’elemento costitutivo, dominante addirittura<br />

benché talora sotterraneo, di un lungo itinerario di pitture<br />

ed oggetti. Non però l’anamorfo forgiato per l’inganno, consenziente<br />

- trasgressivo verso la tradizione prospettica, bensì<br />

una figura che riemerge, un oggetto che staziona nel flusso del<br />

G. Gorza, Gabbiano, 1966, tecnica mista su legno, cm 41x75.<br />

380<br />

visibile. Un calco dell’invisibile, forma della forza. Come la materia<br />

primigenia non conosce prospettive e neppure allegorie. È<br />

éternelle femme, matermateria-matrice, spietata e arrendevole,<br />

vergine e madre, alternativamente.<br />

Anamorfosi, e cioè trasformazione, riformazione, rinascita.<br />

Ritorno della figura, ma anche sua macinazione nell’infinita molteplicità<br />

dell’uno.<br />

Emergenza della forza nella circolarità delle effigi.<br />

L’itinerario, questo itinerario, si suppone iscritto nella storia<br />

dell’‘anima’ (lontanissima, antichissima psyché), vale a dire<br />

nella fatica del respiro, del pneuma. Ànemos / soffio, vento cosmico.<br />

Faticosamente l’anima si lavora nella geometria del dissimile,<br />

seguendo la grammatica d’una manifestazione che non si chiude,<br />

in perpetuo accadimento, processuale. Geometria della performance,<br />

del comportamento d’una forma ardente. Grammatica<br />

oscura e deviante, che accoppia gli opposti, l’ombra e la luce,<br />

anzi è luce-buio, oscurità luminosa, notte che non tollera l’amministrazione<br />

del giorno.<br />

Non è monumentale, benché suggerisca alte tensioni per vibrazioni<br />

minime e sottili increspature. Per battiti e gotici trasalimenti.<br />

Si consideri il momento inaugurale, la prima bagnante. Di che<br />

cosa parla quella tela-preludio? Ha configurazione germinale<br />

d’uovo, ma medita una rotazione. E sta di spalle, ripiegata sulla<br />

propria crescita. In più bagnante, creatura legata all’acqua, ad un<br />

rito lustrale. Si alimenta dunque di analogie e, per dir meglio,<br />

vive nelle simultaneità. Non è il battesimo un atto di illuminazione,<br />

il momento di risalita verso la luce? La materia animata è<br />

scintilla che si sprigiona, esce dal buio. Ha a che fare col fuoco.<br />

La fatica dell’anima equivale al lavoro del corpo, questo “semovente”,<br />

dice Gorza. Le sue fatalità sono la manifestazione e l’annientamento.<br />

E tuttavia “corpo” è parola troppo greve poiché, in<br />

definitiva, non si tratta tanto di una avventura delle icone quanto<br />

del lavoro e del respiro che le produce, d’una certa modalità<br />

ed energetica di produzione che non ha nome ed ha tutti i nomi.<br />

Difatti il je grammaticale è pronuncia improbabile dove agisce<br />

una morfologia della genesi che sta agli antipodi del principio di<br />

determinazione. Ed ancor più importa che questo processo sia la<br />

pittura stessa, una forza senza nome, una tecnica, se così la si<br />

vuol chiamare (ma meglio sarebbe dire dettato), che attraversa


G. Gorza, Bivalve, 1969<br />

smalto su legno, 2 elementi, cm 40x45 cadauno.<br />

la mano, il pittore, e lo rende strumento “cieco e puro”, cosa tra<br />

le cose, come voleva Rilke.<br />

A conferma, rileggo la pagina conclusiva di Terza persona. Vi<br />

trovo enunciato il doppio movimento del decifratore di enigmi,<br />

dell’ermeneuta infinito, protagonista d’una peripezia circolare.<br />

Qui la duplice attitudine della pittura che interroga - descrive e<br />

cancella viene affidata all’etimo di un verbo: bandire.<br />

Accanto alla radice tedesca della parola (da cui il senso di segnalare<br />

e comunicare, mettere in mostra!), interviene la complicazione<br />

d’un contagio francese: sicché il “manifestare” è anche un “allontanare”,<br />

un “rivelare” di nuovo il senza-patria: “La voce bandire<br />

è appropriata ad una retorica del quadro; divulga ed esilia. Che si<br />

murasse la pittura in un’ombra definitiva non riguarda il culto dei<br />

morti più che i riti della pittura. L’accecamento di un’immagine<br />

istruita e pubblicata rimemora il senso di un atto consumato”.<br />

Ora, quel che mi colpisce in questa “comunicazione”, è lo scorrimento<br />

della luminosità nella notte della materia, il rinascere ansioso<br />

della forma nei cicli d’una manifestazione incessante. Corpi<br />

emergono nella salienza dei tempi e dei moti ed escono da un<br />

vuoto ogni volta increato, da una platitude apparentemente immobile<br />

che è la prodigiosa potenza dello zero. Così la vita, l’anima,<br />

imprime sigilli nell’indifferenziato.<br />

Rigorosi dettati ritmici, non riconducibili alla grammatica della<br />

norma ma a quella, certamente, dei paragrammatismi, presiedono<br />

all’articolazione del soffio e danno vita ad una pasigrafia intensiva<br />

e geroglifica: scrittura un tempo (all’epoca delle Impron-<br />

381<br />

te) molto materica ed ora aerea ed umbratile, non per questo<br />

però astratta. L’invisibile si dona, sia pure angolosamente, all’universo<br />

dei sensi e, fisicizzandosi, appare tuttavia imprendibile.<br />

La retorica dell’immutabile viene piegata a dire, non dico il contrario,<br />

ma un diverso. Si veda il caso delle cerniere, delle articolazioni<br />

verticali dei bivalvi o della dormiente: la simmetria enuncia<br />

lo scorrimento. Non asse rigido sul quale riposa una frontalità<br />

ieratica, ma pernio piuttosto e inclinazione che rovescia e ruota<br />

la figura. Così la ripiegata dormiente è anche, virtualmente, colei<br />

che veglia, che agisce nel tempo. È figura di geometra; misura<br />

certo con lavoro difficile e stremato - porzioni di spazio e di vita,<br />

è un luogo in un universo senza luogo. Segnala numeri e cifre.<br />

Ma di che cosa è manifestazione la dormiente? E con lei, che<br />

cosa dicono tutte le altre figure? Quale “gramma” vi è impresso<br />

e vi si calca? Penso ad una scheggia del cerchio, alla fiamma. Ma<br />

è difficile disegnarne la configurazione, poiché - anagrammaticamente<br />

- si dissemina, disperdendo le sue tensioni costitutive.<br />

Il fatto è che appare sulla soglia, fra visibile e invisibile, in stratificazioni<br />

di memorie proiettate nel futuro. Ed è ermetica: nel<br />

senso che invia messaggi e consegna didascalie.<br />

Gramma del soffio nella configurazione dell’ala, della pinna,<br />

della freccia, ed infine - in raggrumato colore - del fuoco: oro che<br />

brucia, non oro che riposa.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Gino Gorza. Per analogia”, tenutasi<br />

presso la Galleria d’Arte “Marin”, piazza Carignano 2, Torino, maggio 1979.


Disegni come bruciature<br />

Carlo Bondioli Bettinelli (1)<br />

Il rigore e la purezza del segno, la castigatezza delle forme rappresentano<br />

le qualità sicure e da sempre riconosciute all’opera grafica<br />

di Carlo Bondioli. Si tratta di risultati così evidenti da suggerire<br />

subito la definizione di uno stile aristocratico e forse, in chi<br />

guarda, il rischio di una formula. Davanti ai suoi fogli così calcinati<br />

di bianchi si finisce per dimenticare i contenuti che hanno dato origine<br />

al disegno, quei dati emotivi ed ancora impuri da cui la mano<br />

è partita per tracciare l’architettura di una visione. Tutto, si direbbe,<br />

parla a sfavore dell’improvvisazione e della spontaneità; soprattutto<br />

contro la sensuosità del naturale. Eppure Bondioli è artista<br />

di paesaggi e di figure, resta attaccato al ‘motivo’ realistico, alla<br />

verità dei soggetti, come dimostra la serie dei Venti disegni di Bocenago,<br />

esposti alla Bottega d’arte di Gianluigi Arcari: disegni, questi,<br />

tanto più sorprendenti a confronto delle prove più note, dal<br />

momento che sono proprio delle improvvisazioni, degli appunti<br />

tracciati nel vivo di una situazione visiva, in plen-air: un gioco sottile<br />

dentro la mobilità dell’estemporaneo, una rara concessione, per<br />

un disegnatore-incisore della sua natura, al piacere dell’abbozzo,<br />

dell’accensione improvvisa. Tuttavia, nonostante questo piacere e<br />

questo gioco, non viene meno l’equilibrio dello stile, con i suoi effetti<br />

di assottigliamento e di rarefazione del tema. I contenuti appaiono<br />

ancora una volta scavalcati nella purezza dei segni. Perché<br />

mai? Quale relazione si è istituita fra l’artista e il paesaggio? Che<br />

cosa accade nel tragitto dall’oggetto allo sguardo al foglio perché<br />

vada perduta la carne delle cose e resti in piedi soltanto una impalcatura,<br />

in certo modo lo schema luminoso degli oggetti?<br />

Questi disegni aiutano, più di altri forse (ma andrebbe vista anche<br />

un’altra serie di improvvisazioni, ispirate al paesaggio inglese),<br />

a tentare una risposta poiché danno il primo momento<br />

della registrazione grafica del reale, quando ancora non sono intervenute<br />

le operazioni di aggiustamento (per lo più di ordine ‘armonico’),<br />

le calibrature del rifacimento in laboratorio, i calcoli sui<br />

neri e sui bianchi che caratterizzano invece l’incisione, la deliberata<br />

artificiosità e malizia dell’acquaforte.<br />

Ora, questi disegni dell’estate ’78 a Bocenago, introducono, mi<br />

sembra, nel luogo di una scommessa. Scommessa e sfida lanciata<br />

alla mutevolezza del visibile, al deperire e fluire delle forme nel<br />

quotidiano. Quasi un contro-impressionismo esercitato sul campo<br />

dell’amico-nemico: la natura. C’è in Bondioli una resistenza for-<br />

382<br />

tissima al commercio disattento delle cose, una resistenza che si<br />

vela, anzi si maschera, dietro l’abito della discrezione; ed è piuttosto<br />

ostilità a pubblicare, a far circolare i segni nella palude dei<br />

consumi, nella opacità della corruzione visiva. Una ostilità che, più<br />

intimamente, diventa scontro con l’effimera e ostinata ricerca di<br />

durate e di permanenze nel cuore dei fenomeni. Ecco, sta qui probabilmente<br />

una delle ragioni per cui il disegnatore si sottrae, in<br />

moltissime occasioni, alla seduzione del colore, a quella sgargianza<br />

cromatica che è manifestazione dell’inessenziale e ‘apparenza’,<br />

rifrazione ed eco di una energia primaria, la luce, che va ritrovata<br />

più in profondità, là dove non sussistono le variabili di superficie<br />

e lo spettro è totalmente bianco.<br />

Così lo sguardo lavora sul motivo per togliere delle quantità e far<br />

emergere delle essenze. O, per dire più esattamente, le quantità<br />

e le configurazioni oggettive (i paesaggi, le figure, eccetera) vengono<br />

mantenute soltanto come appoggi per rendere visibile un<br />

valore altrimenti imprendibile. Si lavora sui vuoti piuttosto che sui<br />

pieni. È d’altronde significativo che i paesaggi si iscrivano nelle regioni<br />

del silenzio: mai una figura in movimento, un contrassegno<br />

aneddotico, come se l’occhio, spalancato su tempi lunghissimi, lasciasse<br />

perdere le emergenze e i rumori del caso.<br />

Fa parte del gioco dell’improvvisazione aver mantenuto una geografia<br />

riconoscibile, un certo sapore di cose, montagne ed erbe,<br />

ma come filtrati da una pratica di volatilizzazione. La grafìa è difatti<br />

essenziale, continua ad esserlo, perché insegue degli itinerari<br />

luminosi: brucia letteralmente i volumi, scava contorni e superfici,<br />

in una scansione mordente, inverosimile, di scuri e di chiari. I corpi<br />

sono plaghe d’ombra, sagome stilettate, oggetti quasi fossili per<br />

la secchezza incisiva della scrittura. Ed è la bruciatura, non il<br />

reale, ad imporre in ultima analisi la sua morfologia: tant’è vero<br />

che in certi casi l’immagine tende a smarginare, ad uscire di centro,<br />

a disporsi irregolarmente, come fa appunto una macchia luminosa<br />

per eccesso di sovraesposizione. Dove sono i pesi, se, ad<br />

esempio, i primi piani tendono a svanire? Se la linea di terra partecipa<br />

essa stessa al dilagare senza confini della bruciatura? Perciò<br />

si ha l’esito di una dilatazione massima nella quantità più piccola,<br />

della tensione nel minimo.<br />

A riprova tentiamo un esercizio: proviamo ad isolare un particolare<br />

e lo immaginiamo più grande. Mentalmente tiene: i bianchi e i neri<br />

restano ancora calcinanti, bruciano il foglio. I paesaggi sono tensioni.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 10 novembre 1979.


Marionetta, cuore<br />

Giosetta Fioroni (1)<br />

Teatrini come case e teche, sarcofaghi e stanze, ipogei della memoria.<br />

L’edificio scenico di Giosetta Fioroni assume le dimensioni<br />

ridotte del quadro, è palcoscenico chiuso, sbarrato da una<br />

quarta parete di cristallo, invisibile ma ostile, trasparente e inaccessibile<br />

tranne che allo sguardo. Vi trova posto l’evento magico<br />

della seduzione; un evento che ha in più la rapidità del lampo.<br />

Ricordo il fascio di luce spiovente sul grande uccello impagliato,<br />

lama diagonale nello spazio: dove quasi si congela, mantenendo<br />

un’inclinazione minerale e fissata, come se il cronometro dell’esistenza<br />

non avesse ormai senso, o per dir meglio valesse soltanto<br />

il tempo assoluto dell’epifania: e questo esigesse la cattura<br />

della rivelazione.<br />

383<br />

Simultaneità dei frammenti. Le associazioni si annodano per incastro,<br />

seguendo l’imperativo sintetico della condensazione e<br />

della metafora. Il teatro è una casa, e la casa una stanza, un interno,<br />

un ripostiglio, una busta. Un’architettura del dentro. Le<br />

analogie fioriscono l’una nel corpo dell’altra, si moltiplicano ma<br />

respingono il percorso rettilineo dell’azione, l’idea di sequenza. È<br />

la scena della morte resa manifesta di colpo, un dove ultralucido<br />

in cui non serve la scansione consecutiva della peripezia teatrale,<br />

poiché basta un segno per far apparire un quadro e materializzare<br />

fulmineamente un fantasma. Il ‘miracolo scenografico’<br />

balza dal germe luminoso della figura, pari a quello suscitato<br />

dalla magia del nome, con Madama Pace. Così il teatrino, tanto<br />

estraneo alle ragioni dello scorrimento lineare, si sottrae alle<br />

leggi del dramma, al conflitto agito in presenza e al movimento,<br />

nonché alla chiusa definitiva dell’agnizione. Non potendo<br />

G. Fioroni, Palmizio immaginario, 1979, acquarello, cm 24x18. G. Fioroni, I 3 Regni, 1979, acquarello, cm 24x18.


sciogliere le forze in gioco, finisce anche per allontanare la conquista<br />

piena dell’origine. Né principio né fine, ma l’ipertensione<br />

della magia.<br />

V’è accumulo intanto nella coppa del teatrino. Sono paesaggi miniaturizzati,<br />

attrezzerie di proporzioni ridottissime, oggetti minimi<br />

per bambole e marionette. Arredi microscopici. Chi aspetta<br />

personaggi umani trova invece delle piccole cose, dei resti, e talora<br />

profili di cose, anzi un vocabolario di immagini e un alfabeto<br />

di figure, poiché di cose concrete e palpabili poi non si tratta,<br />

ma di segni, di elementi funzionali alla grammatica del teatro, di<br />

questo teatro sospeso, e alla vita del giocattolo; così come più<br />

tardi, nelle carte di magìa, altri segni, magari prelevati dall’universo<br />

della natura, confluiscono irresistibilmente nel mondo<br />

della fiaba. Sempre in ogni caso si tratta di inneschi del sortilegio.<br />

Ora queste parvenze non sono né morte né vive, ma in certo<br />

G. Fioroni, Il cavallo alato, 1979, acquarello, cm 24x18.<br />

384<br />

G. Fioroni, Biancaneve, 1969, smalti e olio su tela, cm 100x100.<br />

senso vite ‘arrestate’, e dormienti, quasi fossero sulla soglia del<br />

nascere e, situate nella lontananza, macchinassero un incanto,<br />

nascondessero un segreto; o come se, al contrario, fossero state<br />

recise da una falsa vita e tesaurizzate in uno scrigno protettivo,<br />

in una stanza-ripostiglio. Cadute le proporzioni ed eluse le distanze<br />

consuete, scompaiono anche i pesi, sicché restano solo i<br />

fiati e i respiri delle cose, apparenze che acquistano spesso la<br />

frusciante liquidità d’un rigo di colore o si assottigliano nell’andamento<br />

di un profilo. Trasmutazione di soffi in geroglifici: un cavallo<br />

alato, la silhouette d’un albero. I profili servono a catturare:<br />

ospitano anime e trasportano “spiriti di campagna”. Il teatrino<br />

stesso è il primo e il più grande di questi profili e perimetri: un<br />

contorno di contorni.<br />

Tutta l’attrezzeria è convocata sul fondale della scena. Ma dov’è<br />

la Marionetta? Se il marionettista è una energia ex - machina ed<br />

anzi il funzionamento stesso della visione (una spia dietro la<br />

quinta e un accumulatore di ricordi), della marionetta sembra<br />

non esservi traccia, salvo che nei documenti biografici e in sbiadite<br />

fotografie, ossia nelle carte cifrate e discretamente ambigue<br />

che vengono sapientemente disseminate intorno all’opera: la


Strega di Biancaneve con la Sorellastra di Cenerentola, oppure il<br />

manichino surrealista alla galleria Cordier.<br />

Forse la Marionetta vive davvero sul filo del ricordo e andrà cercata,<br />

se il filo non si spezza, nell’ordine delle grafie e dei contorni,<br />

fra le essenze dei profili. Maghe e fattucchiere amano<br />

corde e codinzoli: “...la marionetta strega Baba-Maliarda vestita<br />

di cenci di relitti della Mamma dimenava lo strascico sollevato<br />

dal filo urlando ’Raperonzolo, Raperonzolo, metti fuori il tuo CO-<br />

DINZOLO’ ”. Tuttavia sono troppi i fili nel coro dei pupazzi e nella<br />

folla dei personaggi della fiaba quando si cerca l’unico profilo<br />

d’una creatura principe e complice dell’artista: la traccia di qualcuno<br />

o qualcosa che fa credere d’essere assente e punta su un<br />

inedito travestimento, su una nuova clownerie.<br />

La marionetta era giocattolo e statuetta, un tempo; pietra e<br />

terra. Kaspar un contadino e Pierrot uno spirito del suolo, un fluido<br />

inquieto e mercuriale, traghettatore d’anime. Appare certa la<br />

sua consuetudine con le salme e i dormienti. Era la vita nascosta<br />

che attendeva di rinascere. Ma s’è verificata una eclisse nel Moderno.<br />

Dopo l’identificazione kleistiana della marionetta con il libero<br />

fluire della forza di vita, lo Spirito astratto se n’è impadronito,<br />

trasferendola nella scena cinetico-visiva di Craig, nello<br />

splendore d’un cielo oltreumano. Da spirito della terra e del sangue<br />

è divenuta pura essenza celeste. Si apre il tempo dell’esilio<br />

ed Arp piange la morte di Kaspar. La statuetta è andata in frantumi,<br />

come la bambola e il giocattolo, spossessata della sua<br />

anima. C’è, però, chi va a riprendersela e la riporta nella regione<br />

della vita, nel centro misterioso dove ferve la genesi della<br />

creazione. Klee monta il teatrino degli “spiriti elettrici” e Schlemmer,<br />

nel comporre l’album del Figurales Kabinett, disegna con un<br />

tratto sicuro un cuore sulla corazza del danzatore, sotto l’otto rovesciato,<br />

simbolo della corrente cosmica. Il cuore, dicono i testi<br />

egizi, era la sola parte del corpo che si lasciava intatta nella cavità<br />

della mummia, al suo posto, per testimoniare contro la<br />

morte.<br />

E Giosetta? Ecco l’indagatrice degli interni e la custode di poupées<br />

attizzare il fuoco del cuore, non più di legno duro ma di materia<br />

ardente. Ha aperto il costume della marionetta e vi ha colto<br />

lo spirito della terra, dimenticando l’involucro meccanico. Col<br />

tòpos della fiamma inaugura nel ’57 una serie di quadri e nel<br />

’60 imprime un cuore rosso di smalto sulla prima pagina dell’<br />

385<br />

“Observateur”: una sagoma e un territorio. Un segno essenziale<br />

che deriva da rinuncia e dal potere di metamorfosi, da voluta dimenticanza<br />

e da fantasia di spostamento. Al posto della marionetta<br />

sta infatti un cuore o il grande “pennuto” (se ne parla nella<br />

lettera alla “cara K.”, del novembre 1972).<br />

È vero: i cuori tornano a recitare negli anni Sessanta (Twombly,<br />

Novelli, Jim Dine, Oldenburg...), ma quelli di Giosetta sono diversi.<br />

Non hanno nulla di stereotipato e di popolare poiché appartengono<br />

all’orizzonte dell’interieur e discendono dalla mitografia<br />

dei teatrini. Rispetto a Novelli, col quale pure intrattengono<br />

sensibili affinità di segno e di scrittura ( a chi era dedicato<br />

l’augurio “Buon viaggio ragazza mia” del paese delle meraviglie<br />

del ’65?), ignorano i traumi della mescalina e i riti ossessivi degli<br />

stregoni Guarani; e neppure si lasciano corrodere da tensioni autodistruttive<br />

o trasudano bianchi acidi d’insonnia. Se alla fine<br />

quello di Novelli sarà un cuore scoppiato e se la sua esplosione<br />

innescherà proiettili di fiori e di aquiloni sulle tele della lotta e<br />

dello scacco ( i quadri del Sessantotto ), da quest’altra parte v’è<br />

il demone della conservazione ed il cuore è una coppa che trattiene<br />

tesori, un organo ‘discenditivo’.<br />

Il cuore è in prima istanza naturalmente l’amore. Come il ramoscello<br />

secco di Stendhal disceso nella miniera di Salisburgo per<br />

illuminarsi di cristalli, il ‘cuore’ di Giosetta allunga le radici nel<br />

suolo, per confondersi nella terra e diventare materia. “De<br />

L’Amour: le (cœur) d’Alexandrine Petit 1807 - vie d’Henry Brulard”<br />

, leggiamo su una tavola. E da qui viene la recitazione visiva<br />

sui quadri, quell’aggraziata offerta dei sentimenti e primo<br />

grado manifesto dell’emozione che la mano deposita sulla superficie<br />

come una pellicola di garza.<br />

Ma il cuore è, nella logica della metamorfosi, anche la forma dell’apparire<br />

e del trasformare. La formatività in atto della magia<br />

evocativa. Che cosa dicono le istruzioni? Che la scintilla del meraviglioso<br />

si accende al comparire delle “fate in forma di CUORE”<br />

nel buio dell’indicibile. Il cuore è la forma che lascia trasparire e,<br />

per un attimo, rivela. Filtro che inghiotte e rigenera. Ed allora si<br />

dilata fino ad ospitare altre presenze-apparenze, assorbendole<br />

nel suo perimetro. “Si moltiplica sempre” perchè ha la forza d’attrazione<br />

e il suo mettere in luce è irresistibile. Qualche volta compie<br />

l’esercizio funambolico di ospitare perfino se stesso: un cuore<br />

sulla scena del cuore, contemporaneamente perimetro ed attore.


G. Fioroni, Invenzione del filtro d’amore, 1979, acquarello, cm 24x18 (copertina).<br />

386


G. Fioroni, Il ripostiglio proibito, 1979<br />

acquarello, cm 24x18.<br />

È un cuore che riflette la propria natura, si raddoppia in uno specchio<br />

più grande, sullo schermo-palcoscenico della pittura.<br />

Vien fuori in quel momento il piacere raffinato di esporsi a sé e<br />

agli altri, per godere della propria bravura.<br />

Scatta la vertigine esibitiva della finzione, il narcisismo dell’atto-<br />

387<br />

re, dell’antico ypocritès e del clown.<br />

Ecco, il cuore si mostra: mai aussi je suis peintre!<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Fiaba di magìa. Opere 1962-<br />

1972”, Casa del Mantegna, Mantova e Galleria civica di Suzzara (Mantova),<br />

novembre-dicembre 1979.


Il disegno e la scena (1)<br />

A differenza del design industriale, il bozzetto di scena non ammette<br />

l’idea di serie e di ripetizione. Partecipa esso stesso della<br />

natura effimera dell’oggetto cui allude, di uno spazio minacciato<br />

dal tempo e di una realtà che muore con la chiusura della rappresentazione.<br />

Aiuta a ricordare un evento irripetibile o contiene<br />

il progetto d’una invenzione: in questo doppio senso è un luogo<br />

denso di pensieri, una virtualità. Interrogarsi sul rapporto disegno-spettacolo<br />

vuol dire indagare sostanzialmente la natura<br />

delle immagini e degli oggetti concreti nell’hic et nunc della<br />

scena, poiché dal disegno (coreografico, registico, scenografico,<br />

architettonico, ecc.), prende vita lo spazio in cui gli attori si muovono,<br />

recitano e delineano figure col proprio corpo.<br />

Ciò che vien da dire allora, in primo luogo, è che l’immagine teatrale<br />

contemporanea ha perduto docilità e trasparenza. Essa è un<br />

dato conflittuale, un oggetto visivo col quale ci si scontra. Un<br />

ostacolo attivo. Ma qui occorre precisare. Poiché la legge del<br />

conflitto costituisce da sempre uno dei cardini dell’evento teatrale.<br />

Difatti, senza l’intervento di una controforza che ponga in<br />

scacco il flusso dell’azione, si avrebbe la proliferazione infinita<br />

del racconto o il tempo assoluto della lirica, ma non la speciale<br />

Il disegno per la scena, Quadratura del Bibiena.<br />

388<br />

tensione del tempo teatrale, fatto di soste, inceppamenti, rilanci<br />

e culminazioni. Ora quel che caratterizza il pensiero scenico attuale,<br />

nel campo dell’immagine, non è certo la scoperta, ma il<br />

sovrapotenziamento della categoria, ormai non più privilegio<br />

della parola drammaturgica, ma principio costruttivo dell’edificio<br />

plastico o pittorico della rappresentazione, degli attrezzi, dei praticabili,<br />

dei fondali, degli elementi di raccordo fra palcoscenico e<br />

sala, e così via. Difatti una caratteristica saliente della scena contemporanea<br />

è costituita dalla presenza di oggetti simili a personaggi,<br />

dotati di una grande forza d’urto, spesso antagonistici nei<br />

confronti dell’attore e del pubblico. Mentre, in passato, il cubo<br />

scenico era un involucro illustrativo entro cui ambientare segni<br />

teatrali di portata superiore, essendo al servizio della parola e<br />

della musica cui la cultura attribuiva un’altissima funzione spirituale,<br />

ora lo spazio non si limita ad ospitare i tradizionali detentori<br />

della peripezia drammatica, ma genera esso stesso dei conflitti.<br />

Immagini e oggetti, o quel che si suole definire “atmosfera<br />

scenica”, si caricano di forze e di antiforze. Che operi in accordo<br />

o in frizione con l’attore, lo spazio comunque si anima e<br />

talora produce, come nelle esperienze cinetico-visive, il tempo e<br />

il movimento. Tale ruolo è soprattutto visibile nella particolare visione<br />

assegnata all’oggetto.<br />

Attraverso l’oggetto-personaggio e la sua “rivolta”, si disegna la<br />

chiusura dei modelli razionalistici del pensiero nati con l’Umanesimo<br />

e s’incrina la dottrina antropomorfica del mondo. Da qui<br />

viene l’esigenza di un mutato rapporto con la vita: un rapporto<br />

in cui riaffiora l’interrogazione sul senso delle cose. Per di più<br />

l’immagine sfugge alla determinazione, non si lascia catturare in<br />

una formula otticamente conclusa: vive, si trasforma, negandosi<br />

al dominio del disegno razionalistico che pretende di amministrare<br />

anche il linguaggio dell’arte.<br />

Un esempio evidente della genesi figurativa di molta scena contemporanea<br />

può essere indicato nella ricerca di Mario Ricci, i cui<br />

esordi si collocano al di fuori della pratica attoriale, in quel nucleo<br />

problematico che, dall’inglese Craig, al quale risale la prima<br />

sistematica formulazione di teatro astratto, fino all’atlante dei<br />

movimenti della danza proposto da Schlemmer, è andato tematizzandosi<br />

nel motivo della marionettizzazione dell’attore. Prima<br />

ancora di far posto alla marionetta, Ricci si occupa anzi di spostamenti<br />

semplici e, mettendo in scena brevissimi spettacoli di


forme astratte (con sculture e oggetti tridimensionali, quindi con<br />

un massimo di spersonalizzazione), analizza gli elementi primari<br />

del movimento, i dati nucleari del linguaggio teatrale. L’uso<br />

dell’automatismo e dell’oggetto meccanizzato porta più tardi in<br />

gioco, con un decisivo arricchimento delle ipotesi di lavoro, il<br />

tema del caso, dell’effrazione della regola, dell’imprevisto. Il che<br />

avviene, per altro, grazie ad una significativa convergenza di interessi<br />

con gli artisti di “Grammatica”, Novelli e Perilli. Di lì a<br />

poco, il regista approda al problema dell’attore, del corpo vivente<br />

sulla scena, tema ormai classico dopo Schlemmer, Moholy-<br />

Nagy e Vera Idelson che, alla fine degli anni Trenta, aveva riassunto<br />

la questione nei termini seguenti: “Gordon Craig e Maeterlinck<br />

- i portatori del teatro simbolista - presagendo la marionetta<br />

non ne compresero il valore reale e caddero nell’errore di<br />

questo movimento: statuerismo”, idolatria della fissità scultorea<br />

e dell’inorganico. “Nel teatro moderno - aggiungeva, ed è questo<br />

il problema di Ricci - possiamo gestire simultaneamente i<br />

due dinamismi: l’umano e il meccanico, quello dell’attore uomo<br />

e quello della marionetta, creando su due e più piani, sia simultaneamente<br />

sia per sovrapposizione, una specie di contrappunto<br />

dinamico-plastico e ritmico”.<br />

Dato il carattere sacro della statua, della marionetta “divina”, un<br />

simile confronto fra Umano e Immobile contribuì a rilanciare<br />

suggestivamente un’idea di teatro tragico che pareva estinta<br />

nell’universo laico della modernità: tragico perché escludeva, nei<br />

modi peculiari dell’immaginazione figurativa, la soluzione rassicurante<br />

del dramma, essendo le polarità opposte dell’umano e<br />

del cosmico interagenti, in perpetua conflittualità.<br />

L’automatico e l’oggettuale dunque, come energia di scontro; e,<br />

oltre a ciò, l’analisi dell’immagine e del movimento quale premessa<br />

alla rigenerazione del teatro. È questo, di Ricci e dell’intera<br />

“scuola romana”, un momento di scambio fra le due figurazioni,<br />

della pittura e del teatro fra i più intensi del secondo dopoguerra.<br />

Basterà ricordare, sul versante del disegno, gli esercizi di<br />

Perilli, Novelli e Scialoja (le sequenze ritmiche, il tempo del segno<br />

sulla superficie), e per quanto concerne la teatralità, la ripresa da<br />

parte di un Carella delle anticipazioni di un Prampolini o di un<br />

Balla: l’idea dell’attore-spazio, la drammatizzazione della luce.<br />

La tentazione ‘figurativa’ ha determinato però, a lungo andare,<br />

almeno in un certo giro di esperienze, una sorta di dittatura dello<br />

389<br />

sguardo, un otticismo eccessivo, benché non si possa negare che<br />

proprio dalle arti visive sia venuto un apporto rilevante per la<br />

nuova scena. Si è cercata perciò una maggiore fisicizzazione,<br />

esplorando inedite modalità spaziali, coinvolgenti e polisensoriali,<br />

in cui lo spettatore si trovasse immerso pur restando consapevole<br />

in ogni momento della finzione scenica. È quel che accade,<br />

per esempio, con Quartucci, la cui ambizione è stata, ed è,<br />

quella di creare una spazialità espansa, in costante proliferazione:<br />

luogo di immersione sensoriale e insieme di straniamento,<br />

di viva partecipazione al gioco costruttivo dell’azione, ma di rifiuto<br />

altrettanto vigile ad identificarsi coi personaggi.<br />

Di importanza capitale la presenza dell’oggetto anche nel lavoro<br />

teatrale di Carmelo Bene e di Luca Ronconi, ben difficilmente<br />

iscrivibili nell’area dell’Immagine, ed anzi duramente polemici<br />

nei confronti di certi gruppi sperimentali.<br />

Bene si circonda di figure, di una attrezzeria sgargiante e ricchissima,<br />

irrealizzante e artificiale. È il ciarpame, il magazzino delle<br />

Spettacolo nella sala del teatro del Buontalenti al Palazzo degli Uffizi di Firenze.


Orlando Furioso, testo di Edoardo Sanguineti e Luca Ronconi, 1968 (foto Signon).<br />

390


suppellettili del grande attore, l’archivio del teatro. Con questo<br />

repertorio scenico, da fantomatica sartorìa barocca e liberty , instaura<br />

un gioco linguistico, fatto di citazioni, aggressivo. L’autore<br />

vi si trova impigliato, impedito, avviluppato, ma anche travestito,<br />

superdecorato, specchiato. L’oggetto muto, cangiante e insieme<br />

ottuso, è costretto a seguire il dettato della recitazione; viene<br />

Baruchello, Cinq ans apres, inchiostro nero su carta e plexiglas (3 livelli), cm 40x40x3.<br />

391<br />

agitato, mosso, spostato fino a diventare una potenziata materializzazione<br />

della voce e del gesto, d’una parola fisicizzata e<br />

comportamentale, che prolifera da se stessa, sulle proprie tracce<br />

materiche, si riproduce per autocitazione. Ma a differenza di<br />

altri registi, Bene, convoca paragrafi e frammenti figurali, non<br />

cita globalmente il reperto visivo; e quando cita, subito trasfor-


ma, rende irriconoscibile, rifà. Che si tratti di un motivo simbolista<br />

di Beardsley o di un elemento cubofuturista, questo viene<br />

sottoposto a rigenerazione, in certo modo tramutato e fatto rivivere<br />

nella realtà autonoma dell’opera teatrale. Dalla cultura dell’archivio<br />

alla cultura viva, o, se si vuole, da una cultura divenuta<br />

abitudinaria e ottusa esistenza, datità congelata, all’artificio:<br />

una poetica, questa della riscrittura, intorno alla quale si è imperniato<br />

l’intervento scenico di Marotta in alcune opere di Bene,<br />

per esempio in “Nostra Signora”.<br />

Perciò si può dire che la scenografia beniana, è, all’inizio, cosa<br />

morta, suppellettile opaca, membrana impediente, mentre si<br />

anima poi e rinasce, come materia della scrittura scenica, resistente<br />

da lavorare, ma infine travolta dal corpo e dalla recitazione<br />

dell’attore. L’oggetto e l’immagine, dunque, come materia di<br />

lavoro, non come pretesto edonistico, godimento ottico, puro e<br />

semplice plaisir. Dal già fatto, dal preesistente, prende avvìo<br />

anche la strutturazione oggettuale di Ronconi. Soltanto che il<br />

ready-made è chiaramente riconoscibile, mantiene la sua identità,<br />

e per di più un’identità ad altissimo grado, come nel Riccardo<br />

III, poiché si tratta di scultura di un’opera che rivive intatta<br />

anche dopo la rappresentazione.<br />

Potrebbe parere estraneità ed invece è integrazione, poiché, per<br />

Ronconi, anche la scenografia è personaggio, architettura recitante<br />

ed infine tessera attiva di una grande macchina spettacolare.<br />

E non a caso, proprio ad uno scultore di “macchine”, di edifici<br />

e percorsi spaziali, si è rivolto nell’allestimento delle opere di<br />

Shakespeare e Giordano Bruno: Mario Ceroli; e di nuovo a scultori<br />

per le messinscene di Kleist, Eschilo, Seneca e Sternheim:<br />

Job e Arnaldo Pomodoro.<br />

Il momento forse più radicale di un simile atteggiamento cade,<br />

data l’irriducibile qualità stilistica dell’oggetto, nel lavoro in comune<br />

con Ceroli, che ha rimontato e ambientato per l’Enrico III le<br />

sue precedenti invenzioni: la gabbia a tre parallelepipedi concentrici,<br />

la sfilata delle sagome lignee della Cina, la sfera pacioliana.<br />

Se le sculture di Ceroli sono già di per sé delle citazioni (e rinvii<br />

alla storia delle immagini), l’inserimento plastico per Ronconi<br />

serve a costituire l’universo in cui ospitare il dramma, da far interagire<br />

col testo, nel lavoro d’incastro fra sistemi situati in parallelo,<br />

in consonanza/dissonanza: soprattutto architettura percorribile,<br />

serie di praticabili, attrezzi per il movimento.<br />

392<br />

Sussiste poi tutto un versante del lavoro teatrale, lontano anch’esso<br />

dal teatro dell’immagine, i cui legami con la pittura e il<br />

disegno si svolgono in modo più interno, filtrati e tradotti nel<br />

linguaggio specifico del volto, del gesto e delle positure degli<br />

attori: e qui i riferimenti si moltiplicano, andando da Magritte a<br />

Duchamp a Bacon, dalla figurazione orientale a quella manieristica<br />

e barocca. Per esempio in Michele Perriera, per il cui teatro,<br />

certo non casualmente, sono stati rintracciati echi e suggestioni<br />

di Füssli, Rosso Fiorentino, Burri, coniugati secondo una<br />

complessa partitura di rinvii archetipi e ironìa.<br />

Di fronte al teatro la pittura: a sua volta anch’essa rifà lo spettacolo,<br />

riflette sui miti e sulla magìa spettacolare. È una lunga tradizione<br />

del moderno: comincia con Manet, Degas, Seurat, e prosegue<br />

ininterrottamente. Dentro la cornice il boccascena, il teatro<br />

nel teatro: rito multiplo in cui figure e meccanismi spettacolari<br />

si prestano ad una analisi della finzione. Esibizione del cerimoniale<br />

borghese dello spettatore, come nell’affiche di Brunetta<br />

sulla ‘prima’ alla Scala. E soprattutto, sul versante d’una strenua<br />

ricerca formale, i ‘teatrini’ di Melotti e di Fontana, di Baruchello<br />

o di Baj.<br />

(1) Scritto contenuto in “Disegno italiano. Forma, progetto e produzione”,<br />

edizioni Redoff, Milano 1979.


Raffigurare per indizi<br />

Lucia Tampellini (1)<br />

È più reale una cosa o la sua rappresentazione? La foglia vera o<br />

l’immagine riprodotta? Per Lucia Tampellini non lo sono né l’una<br />

né l’altra, poiché entrambe vengono accolte a pari titolo nell’universo<br />

della finzione. C’è piuttosto un doppio livello della<br />

menzogna: quello risaputo ed inerte dell’oggetto chiuso in se<br />

stesso, che ha fatto corpo con l’abitudine, tanto da coagularsi intorno<br />

ad un senso; e quello inventivo della immaginazione che<br />

rifiuta di oggettualizzarsi. Si vela anzi e scorre dietro le effigi,<br />

sotto i simulacri.<br />

Dove la cosa si spezza, lì stanno le risorse dell’immagine.<br />

L’invenzione assomiglia a una busta e a un diaframma: una soglia<br />

che dà sul luogo delle sorprese, un limite di per sé meraviglioso<br />

poiché rende enigmatico ciò che promette e rinchiude.<br />

Dietro il velo la cosa scompare per riacquistare lo statuto dell’oscuro<br />

e del doppio.<br />

Le materie e i frammenti oggettuali appuntati sulle superfici o custoditi<br />

sul fondo delle teche non sono più gli stessi, cessano di appartenere<br />

alla realtà da cui provengono. Diventano segni, forme<br />

ed elementi di scrittura. E all’interno della scrittura entrano in<br />

gioco delle latenze, dei sensi dimenticati o possibili, delle virtualità.<br />

Le forme inoltre restano sospese, le frasi pronunciate e subito<br />

interrotte. Nel tempo e nello spazio aurorale dell’immagine<br />

nulla ha modo di appesantirsi nel tutto tondo della presenza, nell’esaurimento<br />

di una pronuncia. Se intravedo una figura, è in realtà<br />

il suo volto velato a lasciarsi cogliere, qualcosa che non è ciò<br />

che sembra. Parrebbe un corpo ed è invece un riflesso.<br />

Osservo un collage, un ricalco da Piero: una folla di figure, armi,<br />

uomini, cavalli. Ma quali figure? Trovo soltanto contorni, margini<br />

e profili. La sostanza, la carne dei personaggi è come svanita,<br />

scomparsa. Al suo posto affiorano tanti tasselli colorati; segnali e<br />

indizi. Chiamano qualcosa che è stato o sta per nascere? Non so<br />

dirlo, ma credo sia importante l’attesa, non la risposta. Per di più<br />

si tratta di indizi racchiusi in una sorta di involucro, di segnali sottilmente<br />

disposti lungo una sequenza di superfici senza peso. Difatti<br />

anche l’involucro è privo di rilievo: un puro contorno che fa<br />

pensare ad una stanza senza muri, ad un edificio trasparente,<br />

come se lo sguardo abitasse lo spazio aereo.<br />

393<br />

In un altro collage viene proposta “la battaglia” di un pittore che<br />

odiava gli oggetti e delirava per piani spaziali. Marcel Schwob lo<br />

ricorda scrivendo che “nessuno capiva i suoi quadri. Non si vedeva<br />

che un intreccio di curve. Non si scorgevano più né la terra,<br />

né le piante, né gli animali, né gli uomini”. Prismatizzava, segmentava<br />

ogni cosa. Ed anche nel collage si procede per via di<br />

tagli, così da avere una parte e non tutta la battaglia. Il frammento<br />

è poi piegato, strappato in qualche punto, costretto a seguire<br />

delle linee di sviluppo che non sono fredde analisi, ma<br />

reinterpretano e rilanciano la composizione. Linee di frattura, ferite<br />

nel corpo del quadro. Tutt’attorno gira una catena di luoghi<br />

immaginari e corrono metodicamente dei riquadri. Si aggiunge<br />

qualcosa che non c’era e al tempo stesso si riconosce il modello,<br />

la catena costruita intuitivamente restituisce l’ossessione più<br />

acuta di Uccello, l’icona-fantasma riassuntiva del suo delirio: la figura<br />

del “mazzocchio”. Ed è un bella sorpresa.<br />

Questo corpo smaterializzato, diamantino, emergente per via di<br />

riflessi e di rispecchiamenti parla in favore dello svanimento<br />

delle forme, del loro morire e rinascere, ripresentarsi senza fine.<br />

Valgono dunque la figura memoria e la figura presentimento,<br />

come stazioni da cui ricominciare.<br />

Che cosa in realtà ricomincia? Che cosa sta in sospensione se<br />

non una tensione al racconto?<br />

Su un altro foglio è disegnato un petalo di rosa, un poco accartocciato,<br />

sfiorito. Una spoglia. Eppure non designa il termine<br />

estremo di un tragitto. È vero anzi il contrario: è lo spunto sul<br />

quale si aprono figurazioni: non uno, ma una serie di racconti.<br />

Quel petalo catalizza pagine ed oggetti, che vi si raccolgono circolarmente<br />

o si ammucchiano di lato. Tanti fogli di diario, con<br />

suggestioni di storie: a destra “Chateau d’Antibes”, “Abbaye de<br />

Senanque”, ”Paris”, ”Avignon”, e così via.<br />

La superficie funziona come un campo d’attrazione per immagini<br />

in attesa e il petalo di rosa ne è la forza inaugurale, il magnete.<br />

Lucia mi ha lasciato un appunto sotto la rubrica Del ritrovarsi:<br />

“dietro le immagini / l’ombra dell’immagine / la funzione / ho<br />

ancora il racconto / il costruito / la trama / la traccia / il supporto<br />

/ il silenzio.”<br />

(1) Scritto in occasione della mostra collettiva “Arcipelago”, tenutasi<br />

presso la Galleria Civica, Modena, 26 gennaio-24 febbraio 1979.


La fatica della pittura (1)<br />

“Mi consacrerò ormai esclusivamente al teatro / come lo concepisco<br />

io / un teatro di sangue” 1 , scrive Artaud nel febbraio del<br />

‘48. Ed anche: “vedrete il mio corpo attuale / volare in pezzi /<br />

e ricomporsi / sotto diecimila aspetti / notori / un corpo<br />

nuovo” 2 .<br />

Il teatro e nient’altro.<br />

Quell’ormai e quell’esclusivamente, così estremi, dialogano per<br />

l’ultima volta con una pratica sacrificale, la pittura, sulle cui ragioni<br />

l’Autore non intende più soffermarsi; vi dialogano, ma per<br />

respingerla lontano, con i suoi effetti mortali, con le sue procedure<br />

volte a sanare la natura. Non l’uomo.<br />

Perché mortali? E perché fatalmente insufficienti nei confronti<br />

del corpo proprio?<br />

Occorre fare un salto indietro, di almeno un anno.<br />

Tutto il 1947 è infatti ricco per Artaud di “ragioni pittoriche”: senz’altro<br />

uno dei più intensi da questo punto di vista, anche in rapporto<br />

all’epoca giovanile e alla successiva fase metafisica, a cui<br />

pure risalgono l’idea del quadro come prefigurazione della scena<br />

“ardente” e la nozione, non meno decisiva, di “teatro muto”.<br />

È di quell’anno la stesura del Van Gogh - Le suicidé de la société,<br />

il mirabile testo composto dopo la scoperta (folgorante) dell’opera<br />

vangoghiana all’Orangerie: un testo di difficile classificazione,<br />

simultaneamente saggio, invettiva, racconto, lettera, dialogo,<br />

meditazione sulla “poesia” e poesia in atto. Teoria della<br />

creazione e processo creativo al tempo stesso. Leggendolo si ha<br />

l’impressione di immergerci in una colata scritturale. Contemporaneamente,<br />

però, questa fluenzialità della parola scritta (che ha<br />

ben poco da spartire, tuttavia, con la normalità della pagina),<br />

questa irruenza della parola risulta sottoposta ad un ferreo martellamento,<br />

ad un lavoro di compressione compositiva, di concentrazione<br />

del segno. È lavorata e nient’affatto abbandonata a<br />

se stessa, fatta defluire scompostamente. C’è anzi, all’interno del<br />

Suicidé – e qui anticipo un’osservazione che sarà tanto più evidente<br />

nell’interpretazione tematica – un movimento di andata e<br />

ritorno, un respiro a registro duplice, ora largo ora contratto, ora<br />

lento ora fulmineo: una sorta di musicale dissonanza e di scontro/incontro<br />

di opposti.<br />

Si tratta inoltre d’una parola d’istigazione, nel senso che spinge<br />

394<br />

ad andare oltre il linguaggio, al di là della parola piena, sia perché<br />

culmina in formazioni neofasiche, in inediti grumi di parole,<br />

in glossolalie, sia perché rinvia ad altro da sé, mentre denuncia<br />

la propria miseria descrittiva ed interpella le ragioni della vita,<br />

della realtà “vera”. E proprio in una simile tensione all’eccedenza,<br />

che è, per la lingua, un andare attraverso e insieme fuori di<br />

sé, un esplodere e un mettersi da parte, si situa una pratica antifantasma<br />

del segno.<br />

“Non ci sono fantasmi nei quadri di Van Gogh, né visioni né allucinazioni”<br />

3 . Lo stesso può ripetersi per la parola artaudiana, così<br />

intrisa di materie corporee: suono, rumore, ritmica respiratoria,<br />

giacché, proprio restando dentro lo statuto della lingua, accogliendo<br />

e modellando il codice in articolazioni essenziali, si illumina<br />

l’oscurità installatasi tra i segni e le cose.<br />

Di mezzo c’è infatti la mediazione della viva voce, della phoné,<br />

d’una parola articolata e pensata attraverso la recitazione. Paule<br />

Thévenin ne è buona testimone. Fu lei a trascrivere sotto dettatura<br />

un testo che veniva facendosi, o meglio ri-facendosi sulla<br />

traccia di appunti e di note composte febbrilmente da Artaud nei<br />

giorni successivi alla apertura della mostra. Sicché la parola fu<br />

prima manoscritta, poi detta ed infine riscritta, dattilografata e<br />

stampata, ricorretta in ogni caso, sempre, da una “redazione vocale”,<br />

come sottolinea la Thévenin che ha ricomposto con cura<br />

infinita le varie fasi della crescita testuale nell’edizione critica del<br />

Dossier4 .<br />

Artaud, si potrebbe dire parafrasandolo, parla-scrive “corto”, sta<br />

addosso alle cose, così come Van Gogh peint court: “dipinge<br />

corto, convulso, serrato, addossato: semplifica, infine tratteggia,<br />

e organizza la sua melodia. [...] / E tuttavia non è vero! / Non<br />

tratteggia, non organizza, non ha gamma. Dipinge corto ma la<br />

sua efficacia è lunga. La pennellata più che infinita. Il disegno<br />

corre all’infinito sotto la sua rotazione sempre più precipitosa” 5 .<br />

Il peindre court è dunque questo restare dentro la soglia del<br />

testo, del procedimento pittorico, per oltrepassarlo, scuoterlo a<br />

tal punto da moltiplicarne la potenza. Col Suicidé, occorre ripetere,<br />

non si esce da una trama testuale, ma questa trama viene<br />

sottoposta al registro paragrammaticale della irregolarità. Voglio<br />

dire che la grammatica vi è continuamente convocata e al<br />

tempo stesso oltrepassata. Anzi, per essere più precisi, la grammaticalità<br />

convive fianco a fianco col paragrammatismo, ne è la


piattaforma e il luogo di nascita. Quando le invenzioni glossolaliche<br />

esplodono, mettono a fuoco tutto un materiale linguistico,<br />

fonetico e semantico, che l’Autore è andato adunando, a strati<br />

sempre più densi, nel processo dell’invenzione. Nella glossolalia<br />

viene così a convergere un fascio di tensioni che si agitano negli<br />

antefatti discorsivi6 e si diramano poi nelle riprese e nelle calcolatissime<br />

aggiunte dei post-scripta. Post-scripta di post-scripta.<br />

Agisce inoltre, a molti livelli, un processo ininterrotto di fissionalità,<br />

di ribaltamento. Nomi, concetti, figure, immagini si spaccano<br />

in due. C’è un divaricarsi dei segni in polarità opposte, cui bisogna<br />

prestare attenzione.<br />

Il rovesciamento degli estremi riguarda tutta una serie di luoghi<br />

tematici. Per restare nel Van Gogh, basterà considerare le situazioni-limite<br />

connesse ai topoi ossessivi di “natura”, “pittura”,<br />

“uomo”, “vita”, “realtà”. L’opposizione vita vera / vita falsa è<br />

una di queste tipiche dicotomie. Da un lato, lo si registra più<br />

Antonin Artaud, Le Totem 53, 1945, matita e gessi colorati, cm 63x48.<br />

395<br />

volte, sta la decadenza, la debolezza, l’impietramento di pratiche<br />

e valori.<br />

C’è stato d’inerzia e di fissità. Dall’altro quei medesimi universi,<br />

della natura e dell’arte, si schiudono, in profondità, alla fatica<br />

della rigenerazione. Riaccendere i Princìpi appare possibile solo a<br />

patto di uno smantellamento, dentro un paesaggio di rovine e di<br />

corpi svuotati. La maschera, la falsa effigie, è muro da abbattere<br />

e, insieme, materia da strizzare per aprire un varco alla scintilla<br />

che vi sta imprigionata. Anche la lingua.<br />

“Tutta la scrittura è porcheria”, suona la notissima sentenza del<br />

primo Artaud. Ma di questa porcheria può darsi un uso compiaciuto,<br />

estetizzante, maligno (è l’accusa rivolta all’Autore di Jabberwochy:<br />

“un profittatore che ha voluto pascersi intellettualmente,<br />

lui, già ben pasciuto d’un pasto ben abbondante, pascersi<br />

del dolore altrui”), un uso che non ha nulla da spartire con la<br />

‘fame’, la creazione dal basso, dalle scorie e col fuoco, d’una lingua<br />

nuova, che è frutto di fatica e di orrore. “Si può inventare la<br />

propria lingua – cito da una lettera del ‘45 – e far parlare la lingua<br />

pura con un senso extragrammaticale, ma bisogna che questo<br />

senso sia valido in sé, cioè provenga da orrore, – orrore questa<br />

vecchia serva di fatica, questo senso di gogna sotterrato che<br />

fa venir fuori i versi dalla propria malattia: l’essere, e non sopporta<br />

che lo si dimentichi7 .<br />

La stesura del Van Gogh, tenuto conto dei suoi scarti e della<br />

struttura finalmente adottata, poggia sul doppio movimento<br />

della frantumazione e del coagulo. Le proporzioni si accavallano,<br />

dialogano quasi e si incalzano, in capitoli e paragrafi. Poi, di<br />

colpo, la materia verbale (vocale) si inerpica in costruzioni vertiginose,<br />

in figure intensive di pura consistenza vibratoria e transrazionale.<br />

Restare perciò dentro il testo vorrà dire mantenersi dentro la ‘fucina’<br />

di Artaud, esattamente come lui stesso rigettava la leggenda,<br />

il mito di Van Gogh, per essere a contatto, in presa diretta,<br />

con l’opera scritta e pittorica dell’artista olandese, con le sue<br />

lettere e i suoi quadri. In lui, certo, la distanza è annullata anche<br />

da una spiritata volontà di identificazione, di scambio, che è una<br />

costante delle sue pagine sugli ‘illuminati’ (da Paolo Uccello, a<br />

Nerval a Poe). Ma accanto ad un simile ed interamente fantastico<br />

addossamento mentale, agisce la coscienza di una necessaria<br />

traversata testuale, poiché la traccia dell’esperienza vango-


ghiana è consegnata al linguaggio specifico della pittura. Non<br />

solo: proprio questo linguaggio l’ha resa possibile.<br />

Se poi la presenza dell’immagine segna la debolezza d’un codice<br />

fatalmente condannato alla rappresentazione, la forza di Van<br />

Gogh, la singolarità del suo gesto, sono consistiti appunto nell’aver<br />

afferrato il ‘motivo’, la figura, e nel metterli a morte, nello<br />

svuotarli.<br />

È dunque di un attraversamento che bisogna parlare, non di un<br />

accostamento per metafora e per somiglianza. Con insistenza<br />

davvero estrema, nel corso delle stesure provvisorie e della redazione<br />

definitiva, Artaud sottolinea8 questo attraversare e andare<br />

oltre, questo superamento per implosione: “[...] Van Gogh<br />

finirà davvero col risultare il più intensamente pittore di tutti i<br />

pittori, il solo a non aver voluto oltrepassare la pittura come<br />

mezzo specifico dell’opera e rigorosa cornice dei suoi mezzi. / È<br />

il solo, d’altra parte, assolutamente l’unico che ha oltrepassato la<br />

pittura, l’atto inerte del rappresentare la natura, per far zampillare,<br />

in questa rappresentazione esclusiva di essa, una forza vorticosa,<br />

un elemento strappato alla viva carne”.<br />

Artaud chiede quindi al lettore di stare vicino ai resti, alle tracce,<br />

ai documenti. Ha ragione J. Derrida a voler salvaguardare la “proprietà”<br />

della traccia, la solidarietà fra l’ergon, l’opera, e l’energeia,<br />

l’azione, la forza che produce9 . La prossimità forma-vita. È<br />

questa, d’altronde, un’antica persuasione di Artaud, più volte ribadita<br />

anche a proposito della pittura, per Piero di Cosimo e<br />

Mantegna, non meno che per Masson o Balthus10 . Una scrittura,<br />

un testo (benché un simile termine sia ai suoi occhi così compromesso),<br />

un dipinto si iscrivono nel teatro della creazione,<br />

della metamorfosi infinita dell’essere, allorché “la forma è ancora<br />

ardente perché prossima all’essenza che le ha dato origine” 11 .<br />

Se raffreddata, la traccia si oggettiva nelle figure dell’Inerte e<br />

della Menzogna.<br />

Restare nel testo assume allora quest’altro significato: gettarsi<br />

nella genesi, dentro il suo movimento insurrezionale. Sicché l’architettura<br />

del discorso vive per le tensioni che le consentono di<br />

mantenersi nel calor bianco di una accensione prolungata. La<br />

struttura del paragrafo e del capitolo è dinamica: si apre, si chiude,<br />

torna ad aprirsi. Lo scrivere, voglio dire, è un gesto e un’azione,<br />

una sorta di action writing. Si lacera e lascia trasparire, decostruendosi,<br />

un senza fondo di energia. La ‘rappresentazione’,<br />

396<br />

il suo velo e la sua finzione, vengono sì gettati nell’abisso, ma<br />

perché parlino di una potenza che li eccede.<br />

La pittura vangoghiana, così come la interpreta Artaud, ricorre all’immagine,<br />

intesse il velo della forma e si addentra nei segreti<br />

dell’armonìa. Subito dopo, però, scatena un evento di segno contrario,<br />

così violento che il quadro, prima colmo di figure e stipato<br />

di segni, si svuota di senso. Ecco come prosegue e finisce il<br />

brano appena citato sul “dipingere corto”: il disegno “non ha<br />

senso né melodia. La sua musica ha lasciato la tela, la sua pittura<br />

ha svuotato il quadro per penetrare nella vita” 12 .<br />

Al primo tempo segnato dall’accumulo compositivo segue dunque<br />

il momento, senza armonìa piuttosto che disarmonico, del<br />

silenzio, della attesa di vita. Non solo la pittura si è trasferita altrove,<br />

ma ha anche sacrificato la tela, facendone il luogo della<br />

concellazione.<br />

Una messa a morte dell’opera? Una pittura che annienta la pittura<br />

e si scontra col proprio statuto rappresentativo? Che cos’è<br />

dunque la pittura?<br />

Anche qui la nozione si sdoppia. Non soltanto perché Artaud separa<br />

una pittura vera da una falsa, decaduta e inerte: distinzione<br />

per altro ossessivamente ribadita fin dall’epoca giovanile nell’aprirsi<br />

delle dicotomie fra linearismo e magìa, sentimento medievale<br />

del tragico e gelo cartesiano di neoclassici e cubisti13 ; o,<br />

negli anni della maturità, fra cultura messicana e Occidente. Il<br />

fatto è invece che lo sdoppiamento opera nel cuore stesso dell’azione<br />

pittorica segnandola di una opposizione irriducibile.<br />

“Qual è la tecnica del pittore?”, si chiede Artaud. Alla domanda<br />

fa seguire due risposte simultanee, tra loro paratatticamente<br />

congiunte, benché latrici di polarità estreme ed opposte. Ciò che<br />

le riunisce è una sorta di ottica coagulante in forza della quale i<br />

contrari vengono fusi e rilanciati uno contro l’altro. Per un verso<br />

quella tecnica si identifica col moto della materia allo stato puro,<br />

con la physis scatenata. Egli dice: “La natura”. Per un altro verso<br />

c’è la precipitazione dell’oggetto nelle pratiche di dominio della<br />

materia. “La gamma colorata del pittore – prosegue immediatamente<br />

– i suoi pennelli, il disegno, la ricerca di certi effetti” 14 .<br />

Avrà modo poi, l’Autore, di tornare più volte sulla caratterizzazione<br />

del mestiere, elencando mezzi e convenzioni della pittura,<br />

il suo statuto insuperabile (intendo la fatalità della figura e della<br />

significazione), e tutti gli elementi d’una compiuta professionali-


tà che appare tanto più autentica quanto più Van Gogh seppe<br />

conservare la semplicità originaria del dipingere, il suo articolarsi<br />

in segni ‘primi’ tenendosi lontano sia dall’eclettismo che dalle<br />

pronunce metaforiche e mitologizzanti, ‘alte’, di artisti a lui contemporanei<br />

(“non ha nulla d’impressionista, di simbolista, di romantico,<br />

di preraffaellita”) 15 . Tornerà a passare in rassegna gli<br />

strumenti di questo operaio della pittura (Car ce maître est un<br />

terrible ouvrier) 16 : tavolozza, pennelli, tela, tubi di colore, eccetera,<br />

e quando citerà un autoritratto, lo ricorderà accanto al cavalletto<br />

negli anni di Parigi; e spiegherà poi con quanta ostinazione<br />

Van Gogh si portasse a dipingere sul motivo per introdurvisi<br />

materialmente, seppellendosi nella matrice della terra. Nelle<br />

mani di Van Gogh gli strumenti si trasformano in mezzi di trasvalutazione.<br />

La tecnica è sì natura, ma natura potenziata e materia<br />

dominata.<br />

Tra natura e pittore il rapporto assume carattere agonale, violento.<br />

La pittura è guerra, polemos. Eccita gli elementi e le immagini<br />

che trova. Il pennello non deposita sulla tela i tratti delle<br />

apparenze, non accarezza né riscrive. Il suo movimento è piuttosto<br />

quello d’una macina: è martello, punteruolo, mazza, maglio.<br />

Un’arma, anziché uno strumento servile.<br />

“I suoi colori sono di piombo fuso, di calce viva frullata e frustata,<br />

lavorata con la spatola, martellata, bulinata, ferita con lo stiletto,<br />

il tagliacarne, il bisturi” 17 . Artaud elenca i colori, ne segna i<br />

registri, le armonìe e i contrasti, in pagine che tendono a riprodurne,<br />

per empatia, il ritmo convulsivo e il ‘suono’, ciò che a lui<br />

sembra il tratto vitale dominante del grande stile: il tropo della<br />

ripetizione ritmica, il ritorno d’una cromìa su se stessa, su un<br />

fondo di orchestrazione. L’enunciazione non serve a descrivere<br />

ma a creare un flusso e un martellamento. Si veda ad esempio<br />

questa ‘frase’ (poi espunta) sul tono aureo: “[...] Veronese, giallo<br />

oro, giallo oro, giallo oro, giallo oro, giacinto dei crepuscoli provenzali,<br />

poi giallo oro, verde erba, verde smeraldo, blu di Prussia,<br />

blu cobalto, sempre la stessa gamma ostinata ritorna...” 18 .<br />

A parte la valenza mitica, accesa e simbolica, dell’oro e del giallo<br />

(le cromìe giocano sempre un ruolo decisivo), conviene osservare<br />

il significato alternativamente forte e debole assegnato<br />

a termini come “natura”, “oggetto”, “cosa”, cui si lega anche<br />

l’oscillazione semantica della parola “motivo”.<br />

Il passaggio dal visivo al musicale, con l’eclissi dell’esteriorità ot-<br />

397<br />

tica e dell’effigie, segna in genere l’ascesa dal debole al forte,<br />

nonché il trasvalutarsi dell’immagine in una sinestesia di tono<br />

mistico. Quando motivo sta ad indicare l’argomento, l’oggetto<br />

puramente visivo della rappresentazione, tutta una costellazione<br />

di elementi negativi lo accompagna. È inerzia, freddezza, petrosità,<br />

vita mancata. Rappresenta l’esistente da riplasmare. È, oltre<br />

a ciò, il momento separato, l’universo in cui si è spento il senso<br />

della comunione e della simpatia cosmica.<br />

Motivo nell’accezione del senso comune: ciò che si vede. Per<br />

metamorfosarlo in sostanza musicale, occorre prenderne possesso,<br />

annullare la distanza tra cosa e pittore. Ecco dunque il “povero”,<br />

il “puro” Van Gogh portarsi ‘dentro’ il motivo, cancellare la<br />

separatezza di soggetto-oggetto. Doppiamente illuminato (dal<br />

suo sapere di solitario e da una corona di fuoco: nello spostamento<br />

simbolico d’un episodio biografico), lo vediamo esercitare<br />

la ‘logica’ della fusione che è d’una figura che porta la ‘salute’:<br />

“[...] non è certo delirante passeggiare di notte con un cappello<br />

illuminato da dodici candele per dipingere sul motivo un<br />

paesaggio” 19 .<br />

Qui irrompe il momento dell’orchestrazione pittorica. Il colore si<br />

fa musica, suono e ritmo. “Che cos’è infine il motivo? Se non<br />

qualcosa come un’ombra ferrea del mottetto d’una antica musica<br />

indicibile, come il leitmotiv d’un tema disperato del suo soggetto?”<br />

20 .<br />

Il “motivo” musicalmente potenziato, divenuto canto primordiale,<br />

Leitmotiv, vince l’opaca gravità della materia bruta: la disfa in<br />

vibrazioni. Il grande Stile, la forma tragica. Il “motivo” si metamorfosa<br />

così nell’architettura stessa del ‘dramma’ pittorico, nella<br />

sua intima struttura compositiva. Non ha forse osservato anche<br />

Nietzsche che “si è artisti al prezzo di sentire come contenuto,<br />

come la cosa stessa quel che i non-artisti chiamano forma”? e<br />

che, in tal modo, si finisce per appartenere “a un mondo rovesciato:<br />

giacché ormai il contenuto diventa per qualcuno qualcosa<br />

di puramente formale compresa la nostra vita” 21 .<br />

Il pensiero artaudiano si muove esplicitamente nel campo della<br />

tradizione sapienziale, di una esperienza ‘illuminata’ dei segni e<br />

delle parole di una cultura organica che intende la relazione fra<br />

corpi come trasmissione sensibile di forme animate, mediante<br />

una ritmica di flussi d’energia e non per via di concetti. Non solo<br />

Artaud fa defluire la pittura nella musica, compenetrando suono


e luce, esplosione vocale e arsura luminosa, ma trasferisce l’intera<br />

pratica del dipingere nel mare d’una liquidità vorticosa e<br />

inesauribile, nel magma di flussi e pulsioni. E tuttavia flussi non<br />

abbandonati a se stessi, bensì ardui e “bulinati”, anzi respiri e<br />

fiati che lavorano.<br />

L’acqua della pittura22 : così si esprime Artaud. Di fronte alla natura,<br />

all’inerte, la pittura scioglie e rifonde, corrode e torna a far<br />

coagulare. È corrente e soffio sprigionati dal corpo che si sacrifica<br />

in una materialistica unio mystica con le cose.<br />

Povero, santo, puro e illuminato: questi ed altri ancora (vergine,<br />

martirizzato, extralucido, organista, eccetera23 ) sono gli appellativi<br />

di Van Gogh, il solitario che si dona: nuovo Dioniso cui sono<br />

ignote le macchinazioni del sesso, della penuria e del peccato,<br />

della produzione e dell’accumulo: ignote perché pratica una saggezza<br />

sconosciuta. Il pittore celebra, con l’offerta del proprio soffio<br />

(un soffio che è però crudele, martellante un respiro che sfigura,<br />

un acido corrosivo), le nozze mistiche con la natura e fa del<br />

proprio corpo uno strumento di nascita, il campo d’un rito.<br />

Benché siano nominati in più punti, gli autoritratti di Van Gogh<br />

non danno luogo, nel Suicidé, ad un commento altrettanto ossessivo<br />

quanto, ad esempio, il Campo di grano. Per di più, quando<br />

ci si imbatte in un riferimento preciso (je pense à celui avec<br />

un chapeau mou), veniamo rinviati all’epoca parigina del pittore<br />

piuttosto che alle tele di Arles. Anche gli accenni all’ultima<br />

epoca (la mano bruciata e fasciata, l’orecchio amputato e bendato,<br />

la “figura rossa di sangue”, l’occhio visionario) sono proposti<br />

nel contesto della martirizzazione. Il suicida è anche, sempre,<br />

un suicidato. Tutto il discorso insomma viene piegato a parlare di<br />

un “eroe” 24 che annuncia la rinascita, a descrivere il destino di un<br />

profeta, già alle soglie della scena ardente. Van Gogh è l’ignaro<br />

che sa, ma al quale si impedisce di agire per sé.<br />

La congiura familiare e psichiatrica gli vieta di pensare. Lo costringe<br />

dentro i confini della tela e del motivo. Che cosa fa il dottor<br />

Gachet, il medico che avrebbe dovuto curarlo? Nient’altro che<br />

impedirgli di vivere, di star solo. Gachet non trova di meglio,<br />

quando il ‘malato’ potrebbe agire nel fervido isolamento del suo<br />

corpo, che separarlo da sé, ordinargli di uscire, di farsi derubare:<br />

“invece di raccomandargli riposo e solitudine, lo mandava a dipingere<br />

sul motivo un giorno in cui sapeva bene che Van Gogh<br />

avrebbe fatto meglio a coricarsi” 25 .<br />

398<br />

L’iconografia degli autoritratti, calata nella storia della follia e<br />

della vampirizzazione, è dunque funzionale, nel Suicidé, al tema<br />

dell’eroe suicida (to) della (dalla) società, ad uno Zarathustra assassinato,<br />

spinto a cadere. Non a caso il tratto più penetrante del<br />

suo volto di “macellaio”, la “pupilla”, lo sguardo, non trova altro<br />

riscontro per Artaud che nell’occhio di Nietzsche: occhio surriscaldato,<br />

“avvitato”, “capace di svestire l’anima” 26 , ma condannato<br />

anche al furto dell’Altro, prigioniero d’una macchinazione.<br />

Questa tematica del corpo proprio, sulla cui spogliazione insiste<br />

così intensamente la riflessione artaudiana, non viene però abbandonata.<br />

Rifluisce in un altro testo composto durante l’estate:<br />

uno scritto anch’esso relativo alla pittura, all’arte figurativa, ai disegni<br />

questa volta di Artaud, ai ritratti ed agli autoritratti esposti<br />

alla Galleria Loeb nel mese di luglio. Ha un titolo pregnante (Le<br />

visage humain) e si apparenta, per l’eccitazione compositiva, al<br />

Suicidé, del quale si potrebbe considerare con buoni motivi un<br />

capitolo parallelo, un prolungamento o una digressione conclusiva27<br />

. Allo stesso modo finiscono per far parte di questo stesso<br />

Dossier le lettere a Breton del febbraio-aprile 1947, interi passi<br />

delle quali nient’altro sono che rifacimenti e stesure provvisorie,<br />

estravaganti, del Van Gogh; o, se si vuole, varianti e stralci28 lanciati<br />

nella polemica suscitata dalla rassegna Le surréalisme en<br />

1947, per la quale Artaud era stato invitato a redigere un testo,<br />

ma da cui si era dissociato protestando violentemente contro il<br />

progetto settario e snobisticamente esoterico del gruppo. Così a<br />

lui pareva. Stese per l’occasione una nota, che si rifiutò poi di<br />

consegnare, sulla febbre terrestre e “uterina” dei surrealisti a lui<br />

congeniale, aggiungendovi un breve commentario sui propri disegni<br />

di “analfabeta”; e lì finiva per lanciare un ponte verso Masson,<br />

Dalì, Picasso, Chagall, eccetera, argomentando sul mito del<br />

ritorno, sulla rinascita del totem sepolto29 .<br />

Ora, date le implicazioni personali nell’esercizio disegnativo e la<br />

particolare configurazione della mostra, la tematica del corpo si<br />

consegna interamente al tópos del volto: “Il viso umano / è una<br />

forza vuota, un / campo di morte” 30 . Sono i primi versi, l’incipit<br />

della lunga poesia destinata alla recitazione, sostanziata da vigorosi<br />

elementi mimici e gestuali. Artaud parla di sé, del suo lavoro<br />

per rifare il corpo, un corpo che deve essere abbattuto, fatto<br />

morire. Qui il pittore di Arles torna prepotentemente in scena ed<br />

è il Van Gogh degli autoritratti.


Scomparsa l’effigie della natura sotto la specie paesistica, si accampa<br />

la forza di vita custodita nel viso-ipogeo. “Il viso umano<br />

/ porta difatti una specie / di morte perpetua / [...] / sta proprio<br />

al pittore / salvarlo / restituendogli i suoi ritratti” 31 .<br />

Dietro i lineamenti “troppo umani” sta sepolto un segreto che va<br />

portato alla luce: l’anima, il suo “dente osseo” 32 . L’imperativo artaudiano,<br />

già pronunciato in una lettera memorabile (anch’essa<br />

mai spedita) a Pablo Picasso, trova in Van Gogh una figura esemplare,<br />

un esploratore degli abissi ed un pittore che fa vibrare<br />

“l’albero interno” e traccia disegni simili a “colpi di sonda o / di<br />

raspa dati / in tutti i sensi / del caso, della possibi / lità, della<br />

sorte, o del / destino” 33 .<br />

L’extralucido è finalmente còlto in un atteggiamento chiave:<br />

nella solitudine dello scavo, illuminato dalla febbre, prossimo all’enigma<br />

e vicino a scioglierlo. Mai il volto era apparso così puro:<br />

lui soltanto, l’uomo di Arles, “ha saputo trarre da una testa /<br />

Antonin Artaud, Le thèatre de la cruauté, 1946, matita e gessi, cm 64,5x49,4.<br />

399<br />

umana un ritratto / che sia il / fumo esplosivo del / battito d’un<br />

cuore / scoppiato. / Il suo” 34 . Tanta appartenenza a sé viene invece<br />

esclusa, almeno in parte, dal Suicidé, dove la strategia agonale<br />

della pittura urta contro i no dell’esistenza ed obbliga l’ouvrier<br />

a dissolversi in altri corpi, a dare il proprio soffio.<br />

Le visage humain è così un testo ‘ponte’ fra il saggio sulla pittura<br />

e gli ultimi atti della poetica teatrale.<br />

Resta intatta però, nel Suicidé, la meccanica della fatica, il processo<br />

della seconda morte e della seconda nascita: seconde perchè<br />

il Demiurgo, nella mitografia gnostica dell’Autore, ha già,<br />

una volta, espropriato l’uomo del morire e del nascere. Rimane<br />

ugualmente integra la volontà di contagio. In un certo senso,<br />

anzi la dimensione sacrificale attribuita alla vita vangoghiana<br />

rende effetti ancor più potenti, essendo l’energia sottratta al lavoro<br />

autocreativo e divenendo il corpo proprio oggetto di un divieto<br />

e luogo di una impossibilità.<br />

Si è appena visto, a proposito del “motivo”, che il termine compare<br />

in duplice articolazione e che, ad un certo punto, il senso<br />

comune del vocabolo, costretto com’è ad ospitare un valore intensivo,<br />

si ribalta in qualcos’altro, venendo ad indicare la vita sepolta,<br />

il rimosso, dando luogo infine ad una serie di equivalenze<br />

sulla tastiera del dizionario cosmogonico: luce e musica, ‘al di là’<br />

dell’esistenza, cembalo, timpano cosmico, articolazione prima,<br />

parola prima delle parole. Si è anche osservato tuttavia che una<br />

simile latitudine di significati è conquistata attraversando, a<br />

“colpi di sonda” 35 , l’opacità del senso comune, abbattendo il<br />

muro delle effigi. Vi si arriva fendendo la ‘rappresentazione’: e<br />

ciò Artaud chiama realismo radicale, outracier, “rappresentazione<br />

esclusiva” 36 , che è altra cosa, anzi il contrario preciso della pittura<br />

“pura” e “lineare”, designata con l’espressione antitragica di<br />

“rappresentazione inerte”.<br />

A metà esatta del Suicidé questa convinzione viene sostenuta<br />

con l’autorità della parola vangoghiana. Tre frammenti delle lettere<br />

a Théo interrompono la scrittura dell’Autore, vengono a spaziarla<br />

e ad installarvisi. “Descrivere un quadro di Van Gogh, a che<br />

scopo!” 37 . Se altre volte Artaud coniuga e fonde la parola dell’altro<br />

con la sua, amplificandola nel giro dei sinonimi e del commento<br />

(come accade nella pagina in cui compare il tema dell’adunamento<br />

della materia, dell’entasser des corps, che è<br />

espressione prelevata dal lessico del pittore), ora è convocata in


primo piano la parola stessa del peintre-écrivain, la “forza personale”<br />

del suo pugno. Premono, in tal senso, la volontà di concretezza<br />

e una tensione non meno strenua, da parte dell’interprete,<br />

di cogliere il nocciolo della poetica di Van Gogh per farla<br />

coagulare intorno ai motivi cardinali del teatro. Che cosa vengono<br />

a dire infatti i tre frammenti scelti da Artaud38 ? Nel primo si<br />

erge una tematica ben nota: quella dello scontro, della lotta pittura-natura,<br />

della realtà che è pietra e muraglia da abbattere. La<br />

pratica del disegnare è formulata come un andare oltre la soglia<br />

dell’immagine, come “l’azione di aprirsi un passaggio attraverso<br />

un muro di ferro invisibile”, a colpi di lima. Poi, nelle successive<br />

citazioni, l’accento cade sulla dissonanza e sul coagulo, vale a<br />

dire sulle tensioni estreme che si incrociano nel luogo della genesi<br />

creativa. Da un lato il Caffè di notte (“un luogo dove ci si<br />

può rovinare, diventare folli, commettere delitti”, “qualcosa<br />

come la potenza tenebrosa di uno scannatoio”), e dall’altro il<br />

Giardino di Daubigny: un interno e un esterno. “Caffè” e “giardino”<br />

visualizzano l’esplodere e il ricomporsi delle forze, l’atmosfera<br />

di “pallido zolfo”, la “fornace infernale”, l’area della macinazione,<br />

la nigredo, e, sull’altro polo, lo stato aureo della natura<br />

piena e rifatta, le “immense distese di grano dopo la pioggia”. Il<br />

collage è montato con cura: Artaud ravvisa nella “fornace” vangoghiana<br />

il prestigioso antecedente di una scena, la sua, che altrove<br />

aveva raffigurato con le immagini della piazza pubblica,<br />

della Morgue, del ventre, della sala anatomica; e un simile precedente<br />

si impone ben più radicalmente del bretoniano tavolo<br />

d’anatomia, diventato, nell’accezione accolta dai surrealisti ortodossi,<br />

il luogo d’un incontro d’amore: un topos addirittura platonico39<br />

.<br />

Dopo aver disegnato la parabola del corpo vampirizzato, sullo<br />

sfondo d’una cannibalesca magia comunitaria, ed essersi soffermato<br />

sulla lettura di alcune tele, Artaud scandisce le ragioni della<br />

sua interpretazione. Autorità e reticenze accompagnano, a questo<br />

punto, la riapertura del discorso: l’autorità dell’epistolario a<br />

Théo e il ribaltamento che la parola, la sua, è in ogni caso impotente<br />

a dire. “Non descriverò dunque un quadro di Van Gogh<br />

dopo Van Gogh, ma dirò perché Van Gogh è pittore” 40 .<br />

Se la pittura è pulsionalità, scatenamento di “correnti”, frangersi<br />

di soffi (ed Artaud ha avuto modo di ripeterlo nelle pagine<br />

precedenti), come lavorano questi flussi? La pittura è corrosione<br />

400<br />

e bruciatura. Onda, respiro, mare, sangue sono fra i termini più<br />

frequentemente convocati, insieme a martellamento, suono,<br />

fulminato, vulcano, per designare le trame dei segni e dei tragitti<br />

cromatici. Più avanti una glossolalia esploderà, proiettando<br />

in primo piano la figura sacrificale dell’”operaio” e mettendo a<br />

fuoco – in schegge di materia sillabica – la “purezza” e la”verità”<br />

del martirizzato: “Senza letteratura, ho visto la figura di Van<br />

Gogh, rossa di sangue nello scoppiettio dei suoi paesaggi, venirmi<br />

incontro, // kohan / taver / tensur / purtan” 41 .<br />

Artaud parla dunque di corpi frantumati, di architetture abbattute,<br />

decentrate. L’azione dello strizzare qualifica un simile scatenamento.<br />

Tutta la materia viene raccolta, fatta ribollire, strangolata,<br />

liberata dalle impurità. Ma, contemporaneamente, accanto<br />

al lavorìo eccentrico, si mette in moto una ben diversa tensione.<br />

Ecco il primo movimento: Van Gogh “ha adunato la natura, l’ha<br />

fatta come traspirare e sudare: ha fatto sprizzare in fasci sulla tela,<br />

in mucchi quasi monumentali di colori, il secolare macinamento<br />

d’elementi, la spaventosa pressione elementare d’apostrofi, di<br />

striature, di virgole di barre di cui non si può credere che, dopo di<br />

lui, gli aspetti naturali non siano costituiti”.<br />

Ed ora il secondo movimento: “E di quanti sgomitamenti repressi,<br />

urti oculari presi sul vivo, cigliazioni afferrate nel motivo, le<br />

correnti luminose delle forze che lavorano la realtà [sottolineatura<br />

nostra] hanno dovuto rovesciare lo sbarramento prima d’essere<br />

infine compresse, e in certo modo issate sulla tela, e accettate?”<br />

42 .<br />

La fluidità del solve non sta senza il coagula, lo sprofondare<br />

senza la riemersione alla chiarezza. E se è vero che Artaud concepisce<br />

l’ergersi delle “correnti” dentro la trama (anche) di convinzioni<br />

mitiche ed alchemiche, quest’alchimia così poco esoterica<br />

e settaria negli ultimi anni agisce nell’incastro dei contrari,<br />

in un chiasmo della fatica.<br />

Prosegue in questa cornice la lettura ‘terrestre’ delle opere di<br />

Van Gogh: terrestre perché è la materia (la “terra” in primo<br />

luogo, i paesaggi, gli oggetti, le cose prese dalla quotidianità) ad<br />

issarsi sulla tela. È la terra come principio: il ‘femminile’, il basso.<br />

In questo senso l’Autore parla di un mito che viene dalla realtà<br />

“più terra-a-terra” della vita43 , di forza mitica estratta dalle cose,<br />

da non confondere col mito inteso come invenzione spiritualistica<br />

e simbolo. Che è poi ciò che separa Van Gogh dall’uomo dei


Tropici, Gauguin, secondo Artaud44 . La terra-anima è il totem che<br />

ritorna, l’eternelle femme45 , già al centro della sua interpretazione<br />

della picassiana Donna che piange e di Guernica.<br />

È un prezioso appunto, salvato da Paule Thévenin, quello che,<br />

quasi in epigrammatico promemoria, lascia trasparire l’intenzione<br />

artaudiana di leggere i disegni di Van Gogh come se fossero<br />

dei totem:<br />

Van Gogh<br />

dessins totems<br />

où je raconte foudre46 .<br />

Per Guernica aveva scritto: “Sento il tam tam di pietra d’esseri di<br />

Picasso. Non vi risale forse la sfinge, la donna che ci animò?” 47 .<br />

Quali le opere capitali di Van Gogh e come si situano in una simile<br />

prospettiva? Benché abbia presente tutto il lavoro degli anni<br />

estremi ed in ispecie del triennio 1888-1890, da Arles ad Auvers,<br />

l’interprete prolunga l’attenzione quasi unicamente su due tele: la<br />

Camera da letto e il Campo di grano con volo di corvi. Le altre (ad<br />

esempio Les Alyscamps, la Notte stellata, e così via) suggeriscono<br />

annotazioni folgoranti, rapidissime e precipitate infine nella<br />

vertigine del commento generale.<br />

Anche qui c’è da supporre un calcolo preciso, come documenta<br />

con chiarezza il confronto delle stesure. Nella redazione definitiva<br />

(ed è un caso, non l’unico), scompare del tutto la lunga nota<br />

dedicata al Caffè di Arles (l’esterno, di notte), che era reinvenzione<br />

applicata minutamente ai dettagli del quadro, una nota<br />

per di più molto tecnica, teatralmente registica, tant’è che da<br />

quel passo veniva a Van Gogh l’appellativo di metteur en<br />

scène48 !<br />

La Chambre à coucher viene introdotta per la prima volta, come<br />

se la frase componesse un preludio, nella pagina forse più composita<br />

ed iconograficamente multipla del libro. Tre quadri insieme,<br />

fatti dissolvere, confusi l’uno nell’altro. Lo sguardo di Artaud<br />

è certo passato e ripassato sulle immagini della Stanza e dei Canali<br />

di Arles, fondendole in una sola continuità visiva. Si tratta di<br />

un intervento mentale che incrocia e sovrappone le immagini<br />

per via di interne associazioni cromatiche: dal verde veronese<br />

del letto all’azzurro umido d’una barca, alla liquidità di una riva.<br />

Qui la Chambre è data attraverso una fortissima sineddoche,<br />

riassunta in un oggetto-emblema, in una nota che costituisce il<br />

nucleo da cui vien fatto irradiare tutto il senso del quadro.<br />

401<br />

Questa nota timbrica è il cuscino, la macchia colorata al centro<br />

della stanza: “questo piumino rosa-gambero che Van Gogh fa<br />

così dolcemente spumeggiare in un punto preciso del letto” 49 .<br />

Non solo oggetto magico: è ancor più un grumo-colore, un ‘soffio’<br />

lavorato e filtrato. Da dove viene? Non ha astanza percettiva,<br />

bensì tutta mentale e psichica. Emerge dal fondo, scrive Artaud,<br />

da uno scavo. È un colore in risalita dalle profondità del cervello<br />

del pittore: qualcosa come una emanazione materiale delle<br />

sue facoltà visionarie, di quell’occhio interno che è produttore di<br />

“vera realtà”. Trasferito sul piano del linguaggio visivo quel<br />

grumo costituisce una sorta di “immagine prima delle immagini”,<br />

se così si può dire, una condensazione di energia pari a quella<br />

operata, con materiali vocali, nelle glossolalie: un modo d’essere,<br />

in pittura, della lingua “nuova e inaudita”.<br />

In ogni caso non si tratta di un emblema edenico, felice. Tutta la<br />

fatica del pittore è stata necessaria per trarlo fuori e modellarlo.<br />

Dietro la sua finale lucentezza, come si legge più avanti, c’è lo<br />

“scrupolo chirurgico” del vecchio artista, una operazione di<br />

“oscura alchimia” 50 . Ora la interpretazione si distende ampiamente<br />

sui motivi figurali e disegna una topografia di lavoro: la<br />

stanza raffigura il Grand Oeuvre; così la tela ospita la macchinazione<br />

salvifica d’una metamorfosi tuttavia mortale. È la scena<br />

della rappresentazione, ma di quale ‘rappresentazione’!<br />

Se, fino ad ora, una serie di luoghi tematici prelevati dalla pittura<br />

si adunava a fianco del teatro della crudeltà, alla sua configurazione<br />

circolare, in questo momento del testo la Chambre à<br />

coucher richiama ed assorbe i motivi del carcere e dello scannatoio,<br />

ma li assume e li rilancia in una dimensione tutta particolare:<br />

quella d’una santità semplice, à la bonne franquette, popolaresca.<br />

Sì certo: tanta pulizia lascia lontano le scorie, i depositi<br />

malati. Ma questa ‘semplicità’ ha anche la nettezza e la secchezza<br />

d’uno strumento da taglio, il profumo d’un filtro a lungo<br />

fermentato. L’atmosfera sembra serena. Soltanto è da aggiungere<br />

che tanta tranquillità è apparente: la conclusione d’un lavoro,<br />

un riposo provvisorio; o, se si vuole, il momento in cui si prepara<br />

un’esplosione. È l’altra faccia del forsennato Van Gogh.<br />

Il bianco del muro, ad esempio, potrebbe parlare in nome del<br />

candore e della ingenuità. Ma non è così, almeno qui. Questo<br />

bianco è colore di calcinazione. È bianco d’ossario, di pietra meteorica,<br />

di macina. “Ci sono delle levità d’un bianco gessoso più


terribili degli antichi supplizi” 51 . Vi balena lo splendore del totem,<br />

che è sinonimo, nell’Artaud ultimo, del “corpo in folgore”, del<br />

Mômo.<br />

La collazione delle varianti suggerisce riscontri curiosi. Mentre<br />

nei primi appunti dominano le gamme tenere ed intermediarie<br />

(i rosa, i verdi, gli azzurri), i gialli “di mandorla”, nella scrittura<br />

definitiva il registro cromatico appare assai più netto ed essenziale:<br />

due colori soltanto. Il raffronto dimostra che Artaud è passato<br />

da una prima idea di accordi tenui, effettivamente più vicini<br />

al tessuto coloristico del quadro, ad una sorta di scarnificazione.<br />

Ha isolato il rosso e il bianco. Per esaltarli. Li ha assimilati alla<br />

vetrosità brillante, diamantina, all’arsura della droga. Infine troviamo<br />

vernici, perle, lacche: “Occulta perfino la sua camera da<br />

letto, così adorabilmente contadina [...]. Rustico anche il colore<br />

del vecchio cuscino, d’un rosso d’ostrica, di riccio, di gambero:<br />

quel colore rossastro del Sud, d’un rosso di pepe bruciato, [...]<br />

vernice indescrivibile.<br />

Col suo muro di perle chiare, su cui è appeso un panno di tela ruvida<br />

come un vecchio feticcio contadino, inaccessibile ma consolante,<br />

questa camera fa pensare al Grand Oeuvre” 52 .<br />

Su tutt’altro polo si dispone invece il commento al Campo di<br />

grano: il polo del travaglio più intenso, del fervore e dell’assassinamento.<br />

Doppio soffocamento per altro: dall’alto e dal basso. Van<br />

Gogh vi lavora come se gettasse fuori tutti i suoi fiati, la sua malattia,<br />

tutti i microbi del suo corpo di appestato.<br />

Al posto del bianco e del rosso, un’emulsione violacea, vinosa;<br />

ed il nero. Le cromìe sono cariche di valenze alchemiche. Così<br />

anche le figure: innanzitutto i corvi, portatori di nigredo, trituranti<br />

e mortiferi. Che altro sono poi questi corvi? La nerezza luttuosa,<br />

peccaminosa ed escrementizia rinvia all’Altro, al grande Avvelenatore.<br />

Sono dunque il male, la malattia, il prodotto dello Spirito.<br />

Laddove l’Altro opera per insinuazione, penetrando nei corpi<br />

e devitalizzandoli, per Artaud, al contrario, il corpo esplode, fa<br />

essudare la sporcizia; e la trasforma in materia corrosiva. La febbre<br />

della malattia è fervore ed acquista perciò statuto attivistico<br />

e centrifugo: non solo è espulsa ma serve, viene costretta a lavorare.<br />

La morte, da immobile, si dinamizza, fa risuonare il leitmotiv,<br />

“batte colpi di cembalo”.<br />

Lusso, festino, vino acido, nardo, aceto guasto: le immagini della<br />

dissoluzione si accumulano convulsivamente nel paesaggio. La<br />

402<br />

terra sanguina, ‘si lamenta’ sotto i colpi. Mater-materia, di<br />

nuovo. Ma innegabilmente c’è di più: assomiglia alla “biancheria<br />

sporca” 53 , fluttua e dilaga, straripa a fiotti sotto una linea di<br />

orizzonte sempre più bassa, stringente. Il cielo scompare, lasciando<br />

in primo piano una massa terremotata di zolle e di<br />

grano, mosso dal vento. Scatta ora una nuova equivalenza: terramare.<br />

Ma il mare vero è la pittura. Il paesaggio si liquefa perché<br />

contagiato dai colori, dalla pittura-emulsione, dal soffio.<br />

Così il nemico della pittura ‘lineare’, della pittura che resta pittura<br />

e niente altro, precipita la techne nella fluttuazione del solvecoagula,<br />

di un flusso e riflusso miticamente iscritto sullo spartito<br />

nuziale della putrefactio. Che è, fuor di metafora, l’architettura<br />

stilistica (chiasmatica) di un sublime portato verso i registri<br />

della irregolarità e del paragrammatismo.<br />

La pittura è questa fluenzialità precipitata nelle forme, un fascio<br />

di correnti ‘laboriose’ che traggono fuori il diamante. Come a dire<br />

che i tesori non stanno nei sovramondi, al di sopra o al di sotto<br />

della materia. Non è vero che la vita ‘vera’ sia chissà dove. Lo si<br />

può credere finché sussiste il dualismo forma/forza, conscio/inconscio.<br />

In una concezione materialistica della pittura tutto ciò<br />

non ha più senso. Che è quanto Artaud immaginosamente dice<br />

nel prodigioso apologo dell’ultimo post-scriptum, dissolvendo<br />

Parigi con la forza della pittura, della ‘visione’, e facendo apparire<br />

la pietra levigata del lapis: “[...] l’atmosfera dell’aria e delle<br />

strade divenne quasi liquida gelatinosa, instabile, [...] la luce<br />

delle stelle e della volta del cielo disparve. [...] Ma non cadde,<br />

forse, una delle sere di cui parlo, nel boulevard della Madelaine,<br />

all’incrocio con rue des Mathurins, un’enorme pietra bianca<br />

come venuta da una recente eruzione del vulcano Popocatepetl?”<br />

54 .<br />

Il Messico, la cultura organica, i totem, Van Gogh.<br />

* Questo intervento (tratto da “Il Verri”, 13-16 [1979], è stato pronunciato il<br />

1° novembre 1978 ai “Colloqui Internazionali” di Padula. Titolo della manifestazione:<br />

Teatro, spazio, ambiente. È stato poi ripubblicato in “Europe”<br />

(1984) con il titolo Le travail de la peinture.<br />

1. Lettera a Paule Thévenin, in A. Artaud, Oeuvres Complètes (OC), vol. XIII,<br />

Paris, 1974.<br />

2. Ibidem, p. 118.<br />

3. A. Artaud, Van Gogh – Le suicidé de la societé (d’ora in poi abbreviato in<br />

VG), in OC, vol. XIII, p. 43.<br />

4. Dossier de Van Gogh – Le suicidé de la società (da qui in avanti DVG), in<br />

OC, vol. XIII, pp. 149ss.


5. DVG, pp. 210-11.<br />

6. Negli antefatti vengono assorbiti, come si vedrà, anche frammenti di scrittura<br />

e pensieri dell’epistolario vangoghiano. L’opera del pittore (insistiamo:<br />

non soltanto quella figurativa) diventa materia da riplasmare, da gettare nel<br />

crogiuolo d’una rinnovata creazione. Deriva da qui un ulteriore significato<br />

dell’identificazione di Artaud con Van Gogh. Questa attitudine è stata colta e<br />

sottolineata con insistenza, relativamente ai dipinti, da G.A. Goldschmidt (Un<br />

cauchemar génésique, “Obliques”, 10-11, s.d., p. 162): “Pour Artaud l’oeuvre<br />

de van Gogh est à son tour une ‘forme germinale’, pour employer la belle<br />

expression d’Etienne Gilson, une forme germinale comparable à celles qu’ont<br />

été les ‘motifs’ pour Van Gogh valent comme incitation fondamentale, vues<br />

per le poète, elles deviennent virtuelles, nécessités intérieures comprimées<br />

vers l’éclatement poétique”. Da segnalare anche, sul medesimo numero di<br />

“Obliques”, il saggio di J. Sojcher, Le jugement et la Répétition.<br />

7. A. Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di R. J. Maxwell<br />

– C. Rugafiori, Milano 1966, p. 167.<br />

8. VG, p. 47.<br />

9. J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Torino 1971, p.<br />

247.<br />

10. Specialmente negli scritti ‘messicani’, Messages révolutionnaires, in OC,<br />

vol. VIII.<br />

11. A. Artaud, La jeune peinture française et la tradition (1936), in OC, vol.<br />

VIII, p. 250.<br />

12. DVG, p. 211.<br />

13. I dubbi sul cubismo e il rigetto delle costanti classicistiche della cultura<br />

occidentale fanno tutt’uno, in Artaud, con la critica negativa del razionalismo,<br />

rinascimentale e postrinascimentale, di cui l’arte francese gli appare costituire<br />

una esemplare manifestazione. Così gli interessano, di quest’arte, le eccezioni<br />

e non la regola: eccezioni significativamente spostate verso la tradizione<br />

nordica e tedesca in particolare. A Delacroix, ad esempio, vien dato l’appellativo<br />

di “genio della razza” proprio perché è, fra tutti i pittori del suo<br />

tempo, il meno francese nell’essenza. Non altrimenti Courbet conta per i segreti<br />

“fosfori” della pittura, per i “bitumi”, gli impasti “bruti” e “frenetici” del<br />

colore, di una brutalità stravolta che trova termini di paragone con le oscure<br />

cromie di Cranach. Il peccato maggiore del cubismo ed in specie del manierismo<br />

che ne è derivato, vien fatto consistere nel divorzio dai sensi e dai<br />

“nervi”, nell’adozione d’una geometria che ammette “sensazioni di natura<br />

puramente intellettuale” (Les valeurs picturales et le Louvre [1921], in OC,<br />

vol. II, pp. 234-35). Una caduta di tensione, da cui neppure Picasso è, per Artaud,<br />

esente in certi anni. Ma se il furore picassiano delle primitive tele cubiste<br />

s’è come appannato nei dipinti della stagione successiva (un tempo<br />

“una forza prodigiosa di vita crepitava nelle loro linee dense, una realtà sconosciuta<br />

e profonda, in cui l’anima intera si ritrovava”, mentre, ora, “Picasso<br />

non ci evoca che il passato. La sua pittura è un residuo, una ‘decantazione’<br />

della pittura”. Exposition Picasso [1924], in OC, vol. II, pp. 264-65); più tardi,<br />

nel 1946, il drammaturgo torna a vedere in Picasso un grande modello dell’arte<br />

“genesica”. Specialissimo infine il giudizio su Braque: un pittore che<br />

non si impegna nella creazione d’un “mondo nuovo”, ma di alta qualità analitica<br />

e dalla freddezza esemplare. A lui va il merito di aver mostrato che<br />

l’universo, così com’è, è una creazione sbagliata: azzerata la pittura “ha saputo<br />

sorprendere la meccanica interna del cosmo già fatto, anziché produrne<br />

un altro”. Un pittore senza passione, senza dramma, eppure lucidissimo.<br />

(A. Artaud, Lettre à Georges Braque, in OC, vol. XIV, t. I, pp. 157-59).<br />

14. DVG, p. 210.<br />

15. Ibidem.<br />

16. Ibidem, p. 212.<br />

17. Ibidem.<br />

18. Ibidem, p. 213.<br />

19. VG, p. 18.<br />

20. Ibidem, pp. 43-44.<br />

403<br />

21. F. Nietzsche, La volontà di potenza, p. 818; cfr. F. Masini, Lo scriba del<br />

caos, Bologna 1978, p. 252.<br />

22. VG, p. 59.<br />

23. Ibidem, pp. 16, 18, 38, 38, 49, 59, ecc.; DVG, passim.<br />

24. Cfr. P. Thévenin, Entendre/Voir/Lire, “Tel Quel”, 39-40.<br />

25. VG, p. 62.<br />

26. Ibidem, p. 59.<br />

27. Catalogo Portraits et Dessins, 4-20 (luglio 1947), Galerie Pierre Loeb,<br />

Paris.<br />

28. A. Artaud, Lettres à André Breton, “L’éphémère”, 8 (1968), pp. 3-51.<br />

29. A. Artaud, Une note sur la peinture surrealiste en géneral – Des commentaires<br />

des mes dessins, “Tel Quel”, 15, pp. 75-78. Nel DVG, p. 169, un<br />

passo, poi sacrificato nella redazione finale, è interamente dedicato al tema<br />

del totem: “Totem discriminatif de la puissance. / Perdu sur un sol d’argile<br />

lilacé noir, avec transudation d’épiderme couleur rouge labial, punctuations<br />

très rates d’or ou d’argent, et par-dessus tout toujours la teinte charbonneuse<br />

des bas-fonds, terrains perdus, jamais visités après, non sûrement avant<br />

le déluge. / Totem de protestation contre…”.<br />

30. A. Artaud, Le visage hamain, in Catalogo Portraits et Dessins…<br />

31. Ibidem.<br />

32. A. Artaud, Lettre à Pablo Picasso, in OC, vol. XI, p. 175.<br />

33. Artaud, Le visage humain…<br />

34. Ibidem.<br />

35. Ibidem.<br />

36. DVG, p. 210 e VG, p. 46.<br />

37. VG, p. 39.<br />

38. Si tratta di brani estrapolati dall’epistolario a Théo. Tre lettere: la prima<br />

senza data (ma 1882-83), la seconda dell’8-X-1888, la terza del 23-VII-1890.<br />

39. Cfr. L. Gabellone, L’oggetto surrealista, Torino 1977, pp. 37ss.<br />

40. VG, p. 42.<br />

41. Ibidem, p. 49.<br />

42. Ibidem, p. 43.<br />

43. Ibidem, p. 29.<br />

44. Ibidem, pp. 29-30; DVG, p. 175.<br />

45. Artaud, Lettre à Pablo Picasso…<br />

46. OC, vol. XIV, II, p. 239. Già in nota al VG, in OC, vol. XIII, p. 365.<br />

47. Artaud, Lettre à Pablo Picasso…<br />

48. DVG, pp. 209-10.<br />

49. VG, p. 39.<br />

50. Ibidem, p. 34.<br />

51. Ibidem, p. 46.<br />

52. Ibidem, pp. 45-46.<br />

53. Ibidem, p. 27.<br />

54. Ibidem, pp. 63-64.<br />

(1) ll saggio è tratto da “Figure della melanconia e dell’ardore. Saggi di<br />

ermeneutica teatrale”, Labirinti 34, Dipartimento di Scienze Filologiche<br />

e Storiche, Università degli Studi di Trento, ottobre 1998, pp. 107-128.


1980<br />

Da Gianni Del Bue<br />

ad Arte temporale e arte<br />

spaziale. Pittura<br />

Distrazione (nota)<br />

Gianni Del Bue<br />

Natura e memoria<br />

Giulio Perina<br />

“Angelo Giuseppe Facciotto. Scritture<br />

(1943-1945)”<br />

Irrealtà del naturale<br />

Giuseppe Facciotto<br />

Racconti per trasparenza<br />

Cristina Kanz<br />

Pittura come ornamento e irrealtà<br />

Osvaldo Licini<br />

La natura, la iena e l’equilibrista<br />

Osvaldo Licini<br />

Raccontare per frammenti. Fotopoesie<br />

di Fulvio Milani<br />

Presagi della scena<br />

Rodolfo Aricò<br />

Arte temporale e arte spaziale<br />

Pittura


Distrazione (nota)<br />

Gianni Del Bue (1)<br />

Di Del Bue è magistrale, per me, la distrazione. Distrazione per<br />

molte cose e in special modo per ciò da cui non ci si dovrebbe<br />

distrarre, e cioè dalla terra, dal suolo, dalla linea dell’orizzonte; e,<br />

trattandosi di un pittore, dalla superficie. Senonchè, come spesso<br />

succede, il distratto sogna quel che non vede. Di più: è convinto<br />

di saperla lunga sui suoi inciampi. Anzi, proprio lì, in mezzo<br />

agli oggetti ostili, vuol dimostrare una competenza superlativa e<br />

ce la mette tutta per farci cambiare opinione. Non solo ne parla,<br />

ma argomenta, recita, si mette in scena.<br />

Del resto gli va sempre bene, perché il distratto, in quanto tale,<br />

G. Del Bue, Caro duca, 1979, tecnica mista, cm 100x150.<br />

406<br />

non è mai in un luogo preciso. Neppure lui sa dov’è. E perciò ha<br />

acquisito una straordinaria abilità. Riesce a tenersi ritto, quando<br />

magari sta camminando sull’acqua o spiccando un salto. Tanto<br />

sbadato a terra, quanto ingegnoso per aria: dove dà spettacolo<br />

sapendo di darlo.<br />

Allora non lo si può più considerare un distratto, ma uno che distrae.<br />

La voce ‘distrarre’ mi illumina su questo punto. Essa combina<br />

il trascinamento con la dispersione. Segnala la voluta dilapidazione<br />

di un tesoro. Allarga le maglie d’una tela troppo fitta;<br />

strappa, attorciglia i fili. Ed anche: distrarre vuol dire dislocare,<br />

spostare, rendere fluido l’immobile. Dargli velocità. Ed infine:<br />

sviare. Certo dalla via diritta e per ragioni di gioco. Giacchè ‘distrarsi’<br />

indica, e non a caso, il sospendere la realtà a vantaggio<br />

del piacere.<br />

Trascinare costituisce, lo si sa bene, una virtù poetica, da almeno<br />

un secolo, come diceva quel tale (così lo chiamava Picasso<br />

con finta sbadataggine): “Cette peinture serà de l’Ame, résumant<br />

tout, parfums, sons, couleurs, de la peinture accrochant la<br />

peinture et tirant”. Con voluta interpolazione.<br />

Pittura che uncina e pittura che tira: mi sembra la definizione<br />

esatta. I colori tirano le figure e le figure i colori. E le immagini<br />

sono ami, corde, cappi, fiocine, nubi e raggi. Ma anche draghi,<br />

ali, artigli. Un arsenale e un bestiario. Tutto il quadro una corrente,<br />

una rotazione spettacolare.<br />

E il suolo?<br />

Non è neppure da chiedere: è una formazione di tappeti volanti.<br />

Qualche anno fa Del Bue introduceva nel corpo delle immagini,<br />

delle sue grandi figure poligonali, degli elementi di disturbo. Se<br />

ne ricavava un effetto di turbamento e di instabilità, come se la<br />

tela improvvisamente si decentrasse e insieme la massa iconica<br />

lievitasse verso l’esterno.<br />

Ora quel procedimento a shock, quella iniezione di motilità inquieta<br />

viene sperimentata sul continuum dello spazio pittorico.<br />

Ripudiata l’immagine come fatto primario e strutturante, il pittore<br />

sembra puntare all’opposto su una ricerca di disturbo costante<br />

del segno, sui motivi per così dire ritmici della dissoluzione.<br />

Sulla tela rien ne se tient: le fitte stesure delle grafie non procedono<br />

per successione ma per contiguità simultanea, si incastrano<br />

e innervano le une nelle altre, tendono a confondersi, a perdere<br />

identità. La texture viene contraddetta nel suo principio ri-


G. Del Bue, Grande allegoria, 1981, tecnica mista, cm 200x150.<br />

407


G. Del Bue, Psicamore, 1980, tecnica mista, cm 100x100.<br />

petitivo e ciò nonostante mantenuta presente.<br />

Ecco perché queste superfici danno effetti di ridondanza e di sconfinamento. Non<br />

sono rappresentazioni dello spazio, ma frammenti e porzioni di spazi possibili, al<br />

limite inverificabili. L’insistito, sistematico sconfinamento del segno ne è una<br />

prova: l’abbondanza degli elementi congiuntivi, il travalicamento delle bordature<br />

e il richiamo ritmico delle serie di tracciati ci dicono che il discorso continua<br />

altrove. Lo vediamo ingrandirsi e debordare, tendere all’occupazione di nuove<br />

zone su cui estendere senza soluzione di continuità la propria sregolatezza. E se<br />

è così, che cosa ha di fronte l’osservatore se non una superficie-segnale o il dato<br />

sintomatico di uno spazio enormemente più vasto di quello offerto dagli indici<br />

contenuti dalla tela?<br />

Una sequenza di shock dunque. Lo scarto e la distorsione come materiali del ritmo.<br />

Il pittore, portando all’estrema conseguenza la propria riflessione sulla doppia polarità<br />

del segno, sulla molteplice risonanza dell’uno, in quanto non si dà tensione<br />

senza rilassamento del tessuto figurale, sembra voler sorprendere il valore del<br />

ritmo, la sostanza ultima della iterazione, nella zona delle contiguità, là dove si so-<br />

408<br />

vrappongono ed entrano in frizione gli elementi<br />

della catena. L’infinita successione del procedimento<br />

ripetitivo è inconquistabile e dunque va<br />

intaccata nel suo spazio ‘critico’, nel luogo del rilancio<br />

e del salto in avanti; che poi è anche il<br />

luogo della lassità. Da qui l’esercitarsi su dei<br />

campioni limitati di spazio che sono di per sé<br />

delle dichiarazioni abbastanza scoperte sul come<br />

viene condotta la meccanica dell’inseguimento.<br />

In certo senso ogni quadro è la chiave di una ripetizione<br />

che si prolunga altrove e si ispessisce<br />

in profondità, circolarmente. La superficie, a tramatura<br />

policentrica, non viene orientata sulla<br />

direttrice di qualche percorso privilegiato o<br />

verso direzioni esclusive: si dilata invece dappertutto<br />

come un campo sonoro o un segnale<br />

luminoso.<br />

Peso-luce appunto, entità oppositiva.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Gianni Del<br />

Bue”, svoltasi presso la galleria “Marin”, Torino, gennaio<br />

1980.


Natura e memoria<br />

Giulio Perina (1)<br />

Pittura en plain air, quella di Perina, ma più propriamente - si<br />

direbbe - à fleur de terre, sul filo della terra e ben salda sulla<br />

linea dell’orizzonte. O addirittura al di sotto dell’orizzonte, come<br />

capita di vedere abbastanza spesso nei quadri dell’ultimo decennio,<br />

dove il fuoco visivo, quand’anche accenni ad un moto<br />

d’ascesa, resta pur sempre ancorato al suolo, ai suoi pesi e all’intrico<br />

avvolgente di piante, arbusti e pietre.<br />

Tre anni fa, proprio all’inizio del ’77, è cominciato un nuovo pensiero<br />

pittorico che non saprei definire altrimenti che come un<br />

pensiero sulle rocce. Sulle rocce, e cioè sulla carne scoperta della<br />

montagna (ed altrove, in rarissimi nudi, sulla petrosità della<br />

carne), sulla pietra scorciata in vedute parziali e anche ravvicinata<br />

per effetto di decise abbreviazioni prospettiche. Pezzi di un<br />

gran corpo, piuttosto che il corpo tutt’intero. Una pietra, la costa<br />

d’un dirupo, una fuga di massi: vedute per lo più affioranti nello<br />

spacco della vegetazione. Ecco gli scorci frangere lucentezze diamantine,<br />

bagliori di vetrata: dunque viventi nell’ordine del colore<br />

e della luce.<br />

Ed è singolare che ad inaugurare la serie non sia stata una tela<br />

dipinta sul vero, ma uno studio, una sperimentazione al chiuso,<br />

ossia un’opera fondata sull’esercizio della pittura e sulla memoria<br />

anziché sull’immediatezza dell’osservazione. Ne viene una<br />

prima evidenza: il colore ha imposto in certo modo la roccia, l’ha<br />

convocata e partorita da sé, come un’immagine necessitata dall’interno.<br />

Segno evidente che un tema, per nascere, deve innanzi<br />

tutto costituirsi come traccia psichica. È grumo mentale e<br />

materia pittorica che, a forza di interrogazioni, genera immagini:<br />

il colore crea la roccia, non viceversa.<br />

In Perina l’osservazione si prolunga nella memoria dell’osservazione.<br />

Né questa può vivere a lungo da sola. L’una richiama l’altra,<br />

circolarmente. Sicché il segno vien fuori da una doppia emozione:<br />

è testimonianza del naturale e insieme ricordo, evocazione.<br />

Fantasma ed appunto, diario.<br />

Lo si constata chiaramente, una volta di più, visitando la mostra<br />

recente dei piccoli formati ("Alla Torre", dicembre ’79). Perina vi<br />

raduna due serie di oli, li mette a confronto, schematizzando attraverso<br />

l’immagine la duplicità dei suoi registri: da un lato nove<br />

409<br />

cartoni dell’agosto ’78, dipinti sul motivo, dall’altro undici quadri<br />

del medesimo soggetto, ma composti a memoria esattamente<br />

un anno dopo. Fra i due gruppi gli scarti sono al tempo stesso<br />

minimi e massimi. Minimi perché l’architettura visiva rimane<br />

pressoché costante, tutta presa com’è nel circuito di una scena<br />

invariata (i canonici “quattro passi” e non più, di cui s’è parlato<br />

in altra occasione), nel giro di una natura avvolgente che lo<br />

sguardo spia dall’interno, insinuandovisi come una sonda in<br />

emersione; massimi perché il colore subisce, nel corso della rimemorizzazione,<br />

un prestito mentale che accresce la corrosività<br />

dei tracciati e brucia la figurazione.<br />

E qui salta all’occhio un dato ulteriore: la densità degli impasti.<br />

Le superfici sono cariche, spesse, a strati multipli, quasi che il dipinto<br />

crescesse su un’immagine sottostante. Si ha perfino l’impressione,<br />

in qualche caso, di un intervento che cancella ed annienta,<br />

di una natura in rovina. O per dir meglio, l’iconografia<br />

del bosco e della montagna fa da supporto, ma non di più, alla<br />

vita del colore. Poco importa che un corpo contenuto scompaia,<br />

che quel dato paesaggio venga meno, poiché lo sovrasta la<br />

piena di un altro paesaggio in risalita: un’immagine sensitiva,<br />

materica, setacciata, filtrata dalla tecnica e dal ricordo.<br />

È probabilmente maturata una convergenza. Voglio dire che le<br />

procedure del pastello, quelle speciali procedure che l’artista è<br />

G. Perina, Paesaggio, 1953, olio su cartone, cm 43x46.


venuto praticando dal ’70 in poi, sono confluite negli oli, nel<br />

modo di intendere le miscele, di far pasta alta sulla tela. V’è infatti<br />

uno strettissimo addossamento della materia alla mano che<br />

la lavora. Ragionando per temi e iconografie, la situazione è<br />

quella del coinvolgimento, della progressiva perdita della distanza,<br />

dello stare in mezzo al paesaggio. Ma riflettendo sulle forme,<br />

occorre dire che il coinvolgimento è in prima istanza uno stare in<br />

mezzo al colore. Sono dita colorate al lavoro. La mano preme direttamente<br />

sul foglio, sfrega la pasta, ne trascina i grumi, la<br />

spiaccica in filamenti, macchie e nebulose. Il colore si assembra,<br />

brulica e dentro il formicolio dei segni nascono le figure; o più<br />

esattamente, rinascono.<br />

Fra gli esiti migliori, senz’altro rimarchevoli quelli legati allo scambio<br />

e all’incrocio dei registri, fra osservazione e rifacimento, fra<br />

dato concreto e sua traccia mentale. Perciò non sono distanti<br />

G. Perina, Collina d’autunno, 1959, olio su tela, cm 50x70.<br />

410<br />

dalle opere esposte a Parma, nel maggio ’78, di cui rappresentano<br />

uno sviluppo, un andar ancora più dentro il rapporto pitturanatura:<br />

un rapporto che R. Tassi definisce con le ragioni del “transfert”,<br />

dello spostamento dalla natura al fantasma: i pastelli – annota<br />

– “formano la parte più segreta e forse la più nuova dell’opera<br />

di Perina”, precisando che ciò avviene “per la forza luminosa<br />

e per l’intensità espressiva con cui il colore dà tutte le sue<br />

valenze pure e naturali, per la stravolta e ispirata bellezza con cui<br />

si combina nelle strutture dell’immagine, per il lirismo acceso che<br />

può arrivare fino a trasferire l’immagine da natura a fantasia, e<br />

suggerire l’apparizione del fantasma colorato e diurno di una coscienza<br />

non toccata dall’angoscia. In essa il mistero resta quello<br />

delle pietre preziose e dei sogni ad occhi aperti”.<br />

Così scrivendo, Tassi vuol segnalare implicitamente una distanza,<br />

sottolineare la temperie affatto opposta in cui Perina si trova ca-


G. Perina, Collina, 1961, olio su cartone, cm 47x68.<br />

lato rispetto ad un pittore che pure ama ed ammira senza riserve:<br />

Constable. Certo ha ragione il critico, poiché Constable, nella<br />

sua interpretazione, è temperamento notturno, segretamente<br />

soggiogato da fantasie di inabissamento, da materie oscure e<br />

putride: le acque stagnanti, il legno, l’aria gonfia di umori e di<br />

acque, con il cielo bianco di folgori. Mentre quest’altra pittura, lo<br />

si diceva nell’esordio, sta à ras de terre, sopra il suolo, con frenata<br />

attitudine ascenditiva. Simile a ciò che nasce e rinasce allo<br />

spettacolo naturale, lo sguardo si fa largo nella vegetazione.<br />

La pietra invece dell’acqua, la pianta viva al posto del legno fradicio.<br />

L’aria soffia anche qui, con verità però terrestre. I cieli s’assottigliano<br />

in strisce esigue di cobalto, viola, blu ai bordi della<br />

411<br />

tela. Non cieli propriamente, ma tracce di cielo, confini appena<br />

segnati, margini ed orli. Oppure frammenti gettati nell’onda del<br />

paesaggio e scaglie rifratte nel groviglio delle vigne e sui cumuli<br />

di pietre. L’indeterminato fa da cornice al suo contrario, al limite<br />

e alla gravità delle cose. L’immateriale al materiale, l’azzurro<br />

al verde, la profondità al primo piano. L’affinità con Constable<br />

andrà perciò cercata altrove. Non nelle regioni della notte<br />

ma in quelle del metodo, della pratica pittorica. Nell’idea della<br />

pittura come registrazione e catena di studi, negli atti emozionati<br />

di conoscenza.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova, 15 marzo 1980.


“Angelo Giuseppe Facciotto. Scritture (1943-1945)” (1)<br />

Scritture ultime di Facciotto: lettere, appunti, disegni, promemoria,<br />

frammenti poetici e note dappertutto. Sui fogli d’ufficio, nei<br />

quaderni privati, sul retro dei dipinti. Vi è adunato il senso di una<br />

stagione interrotta, di un’epoca di continuo fondata sulla doppia<br />

pronuncia della mancanza e della presenza: sulla fragilità del pittore<br />

e sulla potenza della pittura. V’è il non essere, l’annichilamento,<br />

il sentirsi impari alla esaltata necessità d’un amore, ma<br />

vi insorge anche l’ostinata convinzione che quell’amore si nutre<br />

di sconfitte e tanto meglio vive quanto più è minato dall’impossibilità.<br />

Riordinando le sue opere e riflettendo sui disordini del<br />

destino, Facciotto non trova che difetti, imperfezioni, fallimenti.<br />

Anche alle soglie della seconda personale, il niente è il suo<br />

G. Facciotto, I miei genitori, manoscritto autografo a penna, 1943, mm 240x165.<br />

412<br />

metro di misura: uno zero, come scrive a Borgese. Ma per tre<br />

anni si ostina a raccogliere ed archiviare le tracce di quell’impossibile<br />

niente, poiché il suo niente è attivo: un vuoto da cui<br />

tutto, ancora, può germinare. Posizione omologa ed al tempo<br />

stesso rovesciata rispetto al ’36: anche allora egli faceva questione<br />

di un’attesa, di qualcosa che s’era rivelato e doveva calarsi<br />

in un evento. Ma là si trattava di pienezza, di sovrabbondanza<br />

della visione, mentre ora, nel ’43, la coscienza trova d’essere in<br />

difetto e sa che occorre star dentro l’obliquità dell’errore. Far sì<br />

che le tracce producano il miracolo.<br />

Da qui proviene un’incentivazione critica, l’emergere d’una poetica<br />

che implica distruzione e archivio. Segnati alcuni punti fermi,<br />

l’artista decide di ricominciare.<br />

Valuta anche il senso della propria chiarezza e fa un’osservazione<br />

decisiva, trasferendola dal piano delle tenuità cromatiche a quello<br />

dello splendore, passa cioè ad una inedita illuminazione del vitale,<br />

alla verità della natura come trasalimento. Perciò parla di<br />

“nitore estatico”, convogliandovi attorno tutta una costellazione<br />

di valori per così dire ultranaturali che acquistano caratteri d’ossessività<br />

e di esaltazione: “qualcosa di eterno e di fatale”, di<br />

“astratto”; “un’idea fissa”. Di modo che termini altrimenti inconciliabili<br />

arrivano a convivere: i suoi luoghi fermi, le costanti dell’immaginazione<br />

con le “furie disperate”. Sempre gli stessi motivi<br />

certo, ma sottoposti a più inquietata e sospesa interrogazione.<br />

S’indovina poi, qua e là fra le corrispondenze e le memorie, uno<br />

spostamento di geografia pittorica intorno al ’43, non contradditorio<br />

verso le scelte precedenti e tuttavia incidente sulla inclinazione<br />

del segno pittorico e dei disegni: una più insistita attenzione<br />

ai modelli lombardi, il cui cenno potrebbe forse apparire<br />

d’occasione e legato alle sole circostanze dei rapporti con Milano,<br />

ma che esteriore non può essere se vi si associano altri elementi,<br />

anch’essi frammentari e piuttosto indizi che prove certe.<br />

Ribaditi però, nelle ragioni tematiche, dall’abbassarsi dello sguardo<br />

ad una umile quotidianità, uno sguardo girato verso gli interni<br />

e le cose d’affezione, con un loro ribaltarsi in primo piano e disporsi<br />

in forme trasognate e trasversali. Declinazione evidente<br />

non solo negli oggetti, ma nelle figure e nei ritratti, mentre nei<br />

paesaggi si assiepano fitte barriere in primo piano, specie nei disegni<br />

del ’45. Negli autoritratti il volto infine si dà a vedere per<br />

via laterale, con occhi inquisitivi ed obliqui.


G. Facciotto, 1944, manoscritto autografo a penna, mm 185x135.<br />

Dalle carte vien incontro una gran folla di pensieri, molti dei<br />

quali in riflusso e talora in incrocio con le tesi di poetica degli antecedenti<br />

anni cruciali (del ’34 - ’36 e del ’38 - ’39), tanto da indurre<br />

una scansione più fluida fra le tappe del dodicennio creativo.<br />

Ritornano le argomentazioni sul colore, sulla “verità” dell’ispirazione,<br />

sul mestiere e sulla tecnica, sull’arte mantovana. Ed<br />

altre vi si legano, nuove soprattutto per il tono interrogativo e<br />

autocritico.<br />

Se la sosta fra le carte del triennio porta a cogliere spessori biografici<br />

e temi di cronaca, il loro vero motivo di interesse va molto<br />

oltre i confini d’una vita segreta e si colloca su ben altro versante.<br />

Le scritture fanno in realtà corpo strettissimo con l’esercizio<br />

dell’immagine, giacché per Facciotto (e qui sta la radice morale<br />

413<br />

e non mimetica del suo lavoro) anche la biografia è materia che<br />

si fa visione. Può stupire che egli si soffermi su fatti minuti, che<br />

ci torni sopra e ci si arrovelli, lui che aveva un’idea così acuta del<br />

far pittura da non trovare altri paragoni possibili che con gli stati<br />

davvero estremi ed opposti degli idioti o degli spiriti di genio. Il<br />

fatto è che quelle minuzie quasi mai contano per se stesse, valgono<br />

in controluce e in trasparenza su uno schermo di riferimento:<br />

la pittura. Sono le sue grandi o minime metafore. Quando<br />

ci consegna un tema d’amore, si può essere certi che, in un<br />

altro passo, vi corrisponde una equivalenza più alta: quella dell’arte.<br />

Che è un modo per moltiplicare la potenza dei segni e<br />

delle parole, di produrre un accumulo di immagini.<br />

L’edizione di queste pagine nasce anche da una scommessa ed<br />

ha un’ipotesi da verificare: dar conto di un Facciotto estremo, più<br />

dubitativo ma anche più tragico e visionario. Fra i pensieri seguiti<br />

alle mostre del ’43 e i pochi dipinti (ma i moltissimi disegni) del<br />

’45, pare aver corso una diversa avventura: quella di una sensibilità<br />

incline ad eccessi sensitivi e in grado di avvertire, anche sul<br />

piano della natura, i soprassalti dei fenomeni di mutazione.<br />

(1) Presentazione del catalogo “Angelo Giuseppe Facciotto. Scritture<br />

(1943-1945)”, scritta in occasione della mostra tenutasi presso “Gianluigi<br />

Arcari”, via Cappello 10/a, Mantova, 31 maggio-4 ottobre 1980.


Irrealtà del naturale<br />

Giuseppe Facciotto (1)<br />

È una prerogativa di Facciotto, della sua pittura come della sua<br />

parola, dare insieme la cosa e il fantasma della cosa, attenersi<br />

alla concretezza d’una sensazione, tuffandola però nel risentimento<br />

d’una perdita imminente. Facciotto è sì il pittore dell’attimo,<br />

dell’impressione istantanea, della registrazione bruciante,<br />

capace di rifare sulla tela la pienezza d’un gesto, di fissare d’un<br />

colpo la totalità della visione. Ma dietro la pienezza, anche nei<br />

G. Facciotto, Doppio ritratto (Nene ed Ezio), s.d., olio su cartone, cm 60x70.<br />

414<br />

momenti più felici, s’avverte una incrinatura, una febbre di ricominciamento.<br />

C’è il bisogno di tornare a calarsi nei paesaggi, di<br />

fondersi con oggetti e figure.<br />

In ogni momento egli avverte la minaccia della separazione, del<br />

restare impietrato di fronte all’immagine. La pittura - egli afferma<br />

-, quando non è "illuminata", resta inerte tecnica riproduttiva.<br />

Una pratica sterile, antifusionale.<br />

“È dannoso - scrive in un appunto - guardare Monet e Renoir per<br />

poi andare sul paesaggio e rifare gli stessi verdi. La pittura purtroppo<br />

non si risolve coi pennelli”. Per lui, infatti, la questione è


di aprirsi all’evento della rivelazione (del “vero”), di scoprire<br />

un’anima nel campo dei fenomeni: una irrealtà1 che è poi la verità<br />

magicamente trovata nella carne della natura.<br />

“La mia idea è che in arte - prosegue subito la nota - la tecnica<br />

non esiste” 2 , così come non esistono, secondo il pittore, l’imitazione,<br />

il calcolo, la fredda progettazione. Tutto, nel quadro e nel<br />

disegno, deve risultare da rapidità esecutiva, dev’essere fulmineo<br />

e inconsapevole, automatico e immediato3 .<br />

Eppure Facciotto amava la tecnica. Innumerevoli testimonianze,<br />

non solo sue, lo confermano. Aveva addirittura un culto fanatico<br />

per la preparazione dei cartoni e delle tavole4 . Meglio: amava il<br />

mestiere, la naturalezza e la sapienza del fare. Ma tecnica e mestiere<br />

metteva ogni volta in questione, osservando da un lato che<br />

“in pittura si possono usare anche le dita, un cucchiaio” e sostenendo<br />

dall’altro, come s’è visto, che la tecnica, in arte, non conta.<br />

Così addensava ombre e tentava, rinnovando l’interrogazione<br />

sugli strumenti, di rendere fluido l’immobile, di evitare le “formule”.<br />

Formula: persino Cézanne, così ammirato in certi anni,<br />

aveva irrigidito la sapienza dei veneziani creando una ricetta<br />

senza “via d’uscita”. Ragion per cui Facciotto non riteneva di<br />

dover guardare ai cubisti, cui imputava di aver frainteso quel non<br />

so che di cosmico che animava le forme di Cézanne.<br />

Egli vuole, al contrario, svuotare e cancellare i suoi stessi programmi,<br />

negare il primato della teoria e del sistema.<br />

Una scelta decisa e “critica” 5 , questa, caparbiamente inseguita. E<br />

tradotta nei paragrafi d’una poetica che non cessa di ripiegarsi<br />

sui propri presupposti, di tornare alle premesse per farne oggetto<br />

di riflessione. Una poetica percorsa dall’ammonimento che la<br />

pittura si perde quando l’intelligenza non ridiscenda e scompaia<br />

nel grembo dell’emozione. Perciò tanto la parola scritta quanto<br />

il segno rappresentativo vengono sottoposti a un esercizio di<br />

umiliazione, di abbassamento, spinti a fare i conti col tono<br />

medio, che assai spesso coincide col quotidiano e col naturale, e<br />

sempre con la “verità” della sensazione.<br />

Anzi, proprio il dibattito fra altezza e caduta costituisce un nodo<br />

centrale del discorso. Da un lato s’inarca la vertigine dell’unica illuminazione<br />

(che è poi il lampo di compenetrazione con la Natura),<br />

dall’altro quella luce vien piegata a comprendere i luoghi<br />

comuni dell’esistenza. Un chiasmo di eccezione e normalità. Così<br />

Facciotto si affanna a dire che i “geni”, i “grandi”, i “maestri”<br />

415<br />

G. Facciotto, Autoritratto, 1938 ca., olio su cartone, cm 68x50.<br />

sono tali perché praticano una lingua quasi inavvertita e sanno<br />

stare tra le cose: coloro che intrecciano la singolarità con la parola<br />

familiare e anonima.<br />

Essere qualcuno o uno qualunque? 6 La divaricazione sembrerebbe<br />

radicale; dà luogo invece ad una disgiunzione produttiva, ad<br />

una aspirazione all’unità, cioè all’assoluto naturale, nel pensiero<br />

dell’autore: una assolutezza che è azzeramento del soggetto, valore<br />

neutro perché fluido, giacché il segno, quando fluisce con lo<br />

stesso respiro delle cose, perde il sigillo della proprietà e del<br />

nome. Duplicità, si capisce, irrisolvibile, poiché un polo non può<br />

stare senza l’altro, ha bisogno di bruciarsi nella tensione contraria.<br />

Come l’oggetto nel suo fantasma.<br />

In tal modo Facciotto s’è costruita, oltreché una poetica, una mitografia.<br />

Una mitografia che ha funzionato fin da principio sotto


l’etichetta del pittore "candido" e puro, "sereno". Aggettivi che<br />

colpiscono nel segno, i primi due, poiché toccano un registro<br />

della sua scrittura e ne indicano la volontà d’approdo, mentre<br />

non danno conto della genesi dell’opera e neppure delle scansioni<br />

che segnano il tragitto temporale di una evoluzione pittorica<br />

sia pure fatalmente breve, tutta circoscritta com’è nell’arco<br />

di poco più di un decennio, dal ’34 al ’45, a tener conto delle<br />

prove maggiori.<br />

Restano, però, fortunatamente i taccuini di Facciotto (non tutti, a<br />

causa della dispersione della sua opera dopo la morte). Restano<br />

gli abbozzi, gli schizzi, gli appunti, i progetti, i pro-memoria, le<br />

autorecensioni immaginarie7 e i registri. Vale a dire le tracce del<br />

processo creativo, dalle quali si ricava l’idea di una periodizzazione,<br />

di un movimento, di una storia interna. Storia coerente ma<br />

non per questo senza strappi, fratture e slanci rinnovati.<br />

Allo stato spesso magmatico, come accumulo apparentemente<br />

sincronico di frammenti, la documentazione è a sua volta un universo<br />

di resistenze.<br />

G. Facciotto, Natura morta bianca, 1942, olio su cartone, cm 50x60.<br />

416<br />

Il fatto è che Facciotto, per sua natura pittorica, si insedia nel<br />

cuore di una mobilità già di per se stessa produttrice di articolazioni<br />

plurime, di diramazioni e di simultanee variazioni di registro.<br />

Sicché è arduo ancorarlo a una partitura conclusa di segni, perimetrarlo<br />

dentro un’epoca, fargli percorrere delle ordinate stazioni<br />

diacroniche: v’è il rischio di scoprire, di lì a poco, che una stessa<br />

immagine, una certa inquadratura, aveva già ispirato il pittore.<br />

Né conviene trar partito certissimo dal criterio di qualità, giacché,<br />

anche qui, certe prove di grande intensità non si pongono<br />

al culmine di un decennio ma ‘aprono’ un’epoca o fanno stazione<br />

in se stesse. Valga per tutte l’esempio del Nudo disteso col<br />

gatto che, sul fondamento del registro autografo8 , va riportato al<br />

1935 c., vale a dire al momento di un dibattito di posizioni. Un<br />

nudo interamente dato per trasparenze aeree, per via di smaterializzazioni<br />

cromatiche, senza ingombri di paste e di velature<br />

sovrapposte, dall’impianto nitido eppure privo di peso, quasi si<br />

trattasse di un sogno (tra un De Pisis e un Modigliani) di fronte<br />

alla figura. La stanza è divenuta un paesaggio mentale, gli oggetti<br />

non sono più oggetti nè soltanto carni le carni, ma velari e<br />

sipari, campi di colore. Viene subito alla mente una metafisica<br />

del vero, quella “vita irreale” che il pittore sentiva battere dentro<br />

di sé proprio trasferendosi nell’eccitazione dei fenomeni. Se<br />

v’è, sia pure in eco lontana, un’iconografia altamente stilizzata,<br />

da italiana scuola di Parigi (la nudità dispiegata sulla diagonale,<br />

una nudità anche come enigma), quell’iconografia esce però<br />

dall’architettura dei contorni, non ha marcata grafia che la contenga,<br />

risolvendosi invece in una ritmica dello spazio e del colore.<br />

In più il nudo è figura esibita su un ventaglio di poche quinte<br />

spaziali che si incernierano di lato, come se l’angolo, la lateralità,<br />

il margine fossero la sorgente della rappresentazione.<br />

Qualche anno più tardi, alcune nature morte e paesaggi faranno<br />

leva su un’analoga ‘battuta’ laterale, per i loro piani d’appoggio<br />

e di germinazione.<br />

Si può dire intanto che la fluidità della pittura facciottiana, l’impianto<br />

mobile dei dipinti, non tende affatto a privilegiare il centrifugo<br />

a scapito della concentrazione. Sempre, in tutte le stagioni,<br />

anche in quella della "preistoria" (e si ha modo di constatarlo<br />

fin dall’isolato miracolo di Paesaggio con cipresso, 1926-<br />

27), sussiste un luogo d’ancoramento, un punto dello spazio che<br />

fa da culminazione; e che, in assenza d’una cerniera dominante,


viene ad assumere funzione organizzatrice una sequenza ritmica<br />

di rimandi, una scansione di battute, un discorso in rima cromatica.<br />

C’è amalgama, conversione del multiplo all’uno, condensazione.<br />

I larghi spazi, lo straripamento d’atmosfere, le variazioni,<br />

gli slarghi e le ‘fughe’ han modo di esprimersi dandosi<br />

il limite d’un puntello, la certezza benché minima d’un segmento.<br />

Questo segmento potrà essere in parte occultato, dato di<br />

sbieco, in un angolo della superficie, ma potrà anche esporsi deliberatamente,<br />

come quinta esplicita o primo piano orizzontale,<br />

parapetto visivo e valico da sormontare. Il limite (o cornice, che<br />

è cornice di risonanza) è per lo più esso stesso ritmato, modulato<br />

su un valore eccentrico, su un salto, come se lo spazio ulteriore<br />

dovesse essere sottoposto ad una interpellanza, messo in<br />

agitazione per rivelarsi. Talvolta si ha l’impressione di dover superare<br />

un breve varco prima d’imbattersi, di attraversare il luogo<br />

di partenza per la lettura: una breve sospensione nel vuoto, una<br />

pausa, prima del disteso racconto. Qualche volta, perfino violentemente<br />

(come capita di vedere in alcuni disegni sia del ’36-’37<br />

che del ’44-’45), un’immagine compatta viene eretta sulla verticale<br />

e al centro della composizione: un albero, un incrocio di<br />

strade, un chiasmo figurale, una persona. Nei casi più complessi<br />

un reticolo e una gabbia visiva, non tanto col compito di indurre<br />

una prospettiva a cavaliere, quanto per disporre un filtro e<br />

ordinare la cadenza del visibile. Uno stimolo ottico e dinamico,<br />

che decanta e rilancia.<br />

Se un motivo torna prepotentemente ad insistere nella pittura di<br />

Facciotto, c’è da scommettere che, insieme ad altre urgenze fantastiche,<br />

agisca l’interesse compositivo per questo cardine della<br />

visione: il tema figurale della cerniera e dell’appoggio; del valico<br />

che aggancia l’occhio per rendere più acuto l’apprendimento<br />

della realtà, del lontano. In alcune nature morte degli ultimi anni<br />

(Natura morta - in bianco, 1942, e Piccola cucina, 1945) l’accentuazione<br />

dei piani inclinati è la conseguenza di un simile<br />

pensiero (i tralicci assiepati di fronte allo sguardo), pensiero a tal<br />

punto irriducibile che una totalità viene declinata verso l’incipit<br />

e la nota d’esordio. Anche la serie degli autoritratti disegnati fra<br />

il ’43 e il ’45 mostra un tormentato rapporto della mano (una<br />

metafora forse della pittura9 ) con lo sguardo, una relazione fra il<br />

gesto che occulta e l’accrescimento di tensione. Ma, a voler dare<br />

una sola stringente campionatura all’interno di un tòpos costan-<br />

417<br />

G. Facciotto, Autoritratto con Gabriella in azzurro, 1942 ca., olio su cartone,<br />

cm 50x69.<br />

te, appaiono significativi gli oli e i disegni ispirati ad un paesaggio<br />

del Dosso, la Casa Rubini, di cui esistono infinite versioni. L’argomento<br />

dà origine ad un ampio capitolo stilistico, fin dal 1930:<br />

sempre, in queste opere, case e campi vengono fatti emergere<br />

dietro una cortina di rami, oltre un cancello, che in qualche caso<br />

(nei disegni) viene rinforzato da un raddoppiamento, dalla nota<br />

aggiunta di un secondo cancello, al di qua della strada. Battutapausa-esordio.<br />

Ed è la speciale calibratura di questa soglia a regolare<br />

lo sviluppo delle partiture successive, oltreché a segnare,<br />

nel tempo, l’evoluzione del discorso formale: nella tela del ’34<br />

(coll. A. Pasino), la nota d’apertura è giocata su una tenera modulazione<br />

di verdi e in certo modo su un valore d’assenza (il tratto<br />

appena velato o scoperto di tela: cosa assai rara, ma presente<br />

in un’altra opera del medesimo anno, in Paesaggio verde con<br />

ciminiera). Un lieve accordo d’introduzione al secondo campo visivo,<br />

fortemente ravvicinato e radiante. Nel ’38 invece (coll. A.<br />

Morari) le immagini si distribuiscono su fasce orizzontali, con un<br />

più accentuato spessore di corpi, mentre nel ’40 (versione maggiore,<br />

coll. G. Venturini) v’è una rapidissima partenza esecutiva<br />

(anche nel gesto), proprio sul bordo della raffigurazione, con un<br />

immediato controcanto in orizzontale e tre battute in verticale<br />

che aprono su uno sconfinamento paesistico, di cui la casa è<br />

quinta affiancata. Una serie di appoggi, dunque, al servizio della<br />

variazione di spartito.


“La pittura è canto”, musica, leggiamo in una nota. Non<br />

“grido” 10 . Ma il canto si serve di limiti e di interdizioni, per dispiegarsi.<br />

Paesaggio col cipresso documenta, senza ombra di dubbio, l’originalità<br />

di questo pensiero del limite e lo riconduce, al tempo<br />

stesso, alla matrice dell’insegnamento bignottiano11 : il retroterra<br />

d’impressionismo locale per il giovane Facciotto. Castiglione,<br />

d’altronde, rappresenta uno strato resistente della sua memoria<br />

figurativa, tanto più robusto quando viene a formarsi nell’Alto<br />

Mantovano, agli inizi del Trenta, un clima di incontri “chiaristi”<br />

che favoriscono il progetto di nuova pittura. Una proposta sostanziata<br />

dall’esempio di Del Bon (e in seguito di Lilloni), con la<br />

mediazione del critico (e pittore) O. Marini e dello scultore Mutti.<br />

L’idea diviene presto progetto e sogno anche per Facciotto: qualcosa<br />

di simile ad una divaricata avventura, a confronto della più<br />

recente tradizione mantovana di paesaggio.<br />

G. Facciotto, Ritratto dei genitori (incompiuto), s.d., olio su cartone, cm 50x70.<br />

418<br />

“Parve accarezzare per qualche tempo - scrive E. Faccioli - l’idea<br />

di un Principato di Castiglione (insieme a Marini, Mutti e alla Nodari).<br />

Ma più tardi, con Lilloni e Del Bon, che proprio nel Principato<br />

andavano a villeggiare, si mise sulle piste di Semeghini, lo<br />

inseguì fino a Mazzorbo” 12 .<br />

Tuttavia, dentro la novità del “chiarismo” milanese e veneziano,<br />

una novità in grado di segnare un largo momento collettivo dell’arte<br />

mantovana13 , si macinano anche motivi della tradizione,<br />

recente e lontana, della pittura; e Bignotti, per Facciotto, fa parte<br />

di questa tradizione: è il suo ponte verso il post-impressionismo,<br />

ma soprattutto l’iniziazione al processo pittorico: il primo maestro<br />

di vedute dall’alto, dei verdi declinanti al grigio, d’una figurazione<br />

che è poesia14 .<br />

Si è detto che il piccolo quadro del ’26 - ’27 è un “miracolo”. Rimane<br />

difatti isolato e in fortissimo anticipo sulla pittura successiva<br />

dell’autore. Tale dovette considerarlo anche Facciotto che


mai lo incluse in una mostra e pur registrandone ripetutamente<br />

la presenza nel registro autografo delle opere, lasciò un’ampia<br />

spaziatura di silenzio fra la data della sua composizione e gli<br />

anni Trenta.<br />

All’aprirsi del nuovo decennio, sull’asse Mantova - Castiglione,<br />

egli inaugura davvero la ricerca pittorica sua propria. La certezza<br />

della vocazione è in principio fissata nell’esecuzione di esili bozzetti<br />

colorati, in disegni per così dire dipinti, in piccole tavole<br />

(Paesaggio, 1930) e ritratti (Lidia col cappello, 1932).<br />

Contemporaneamente va registrato un intenso scambio di esperienze.<br />

Se a Castiglione Marini tiene le fila dei rapporti col “chiarismo”,<br />

a Mantova tutta una giovane generazione respira aria<br />

meno provinciale, cultura non solo nazionale, ma anche europea<br />

(pensando a Persico). Cavicchini, Bergonzoni, Bini, Perina, Di<br />

Capi, in ispecie, dibattono i nuovi orientamenti, ciascuno con inclinazioni<br />

diverse e persino oppositive.<br />

G. Facciotto, Nudo diteso con gatto, 1935 ca., olio su cartone, cm 41x64.<br />

419<br />

Neppure si può dire che essi dimentichino quel che le arti figurative<br />

mantovane sono state e sono. Basta scorrere, per esempio<br />

Artisti15 di Sandro Bini (che tenterà di far attecchire a Mantova,<br />

più tardi, un altro ramo milanese, Birolli, ma ci riuscirà in<br />

parte col solo Perina), per constatare che il cordone ombelicale<br />

con la provincia, anche per chi sta per andarsene, non è stato interamente<br />

spezzato. Si insiste su Giorgi, nel caso di Bini sul controluce<br />

di Milano. Si tien conto dei Lomini, Polpatelli, Guindani e<br />

Zanfrognini16 , come di artisti con i quali è lecito fare confronti,<br />

magari per scoprirsi distanti, mentre nei diari segreti non si<br />

legge quasi nulla della più importante presenza artistica del<br />

primo Novecento: Vindizio Nodari Pesenti17 . Questi fa isola a sè<br />

ed è legato piuttosto ad altro giro di relazioni ufficiali e private<br />

(Guindani, ad esempio).<br />

Con Di Capi le testimonianze portano a credere che il dibattito riguardi<br />

il problema dei calibri compositivi in pittura, dell’ordine e


della proprietà linguistica, nell’idea, propria di Di Capi, che risalendo<br />

dalle avanguardie ai ‘classici’ della realtà, in Ottocento<br />

inoltrato, si possa e si debba reimpostare la pittura sul principio<br />

dell’analisi. Ecco allora gli esercizi di incernieramento spaziale, i<br />

dosaggi al millimetro dei colori e dei segni (che fanno pensare<br />

anche a Chardin: quindi ad una riflessione a lungo tragitto sulla<br />

storia della pittura), le smorzature di tono, per ricavarne le essenze<br />

cromatiche e quasi la sezione aurea delle forme: elementi<br />

che costituiscono un motivo di tangenza, di comune indagine<br />

e infine di spostamento, nella diversificazione delle scelte, fra Di<br />

Capi e Facciotto. Fra ’32 e ’35 questo insieme d’argomenti (e Cavicchini<br />

dovette discuterli dalla sua prospettiva novecentista)<br />

viene affrontato insieme, quando ancora una certa disponibilità<br />

verso la linea di Sironi è ritenuta possibile. Alle porte, batte però<br />

un altro novecentismo: quello magico e bontempelliano, d’insurrezione<br />

verso la Sarfatti.<br />

L’Ottocento francese. Corot.<br />

A chi allude Facciotto se non a Di Capi e ai mantovani, scrivendo<br />

a Marini nel ’35? In quella lettera dà notizia d’un comune innamoramento:<br />

“Troverai modo di convincerti - scrive - che non<br />

abbiamo torto ad entusiasmarci per Corot. Osserva con quanta<br />

sobrietà di colore è fatto quel mulino colla strada. E pensare che<br />

è un pittore del primo 800” 18 . L’intenzione è trasparente: coordinare<br />

chiarezza e sobrietà, effusione lirica e impegno costruttivo,<br />

Castiglione e Mantova.<br />

Che cosa v’è in comune fra Facciotto e Di Capi? Innanzitutto<br />

l’idea di “mestiere”, di nobiltà della pittura; benchè questa teoria<br />

del mestiere, che attraversa gli anni Venti e Trenta come una<br />

cifra di rinnovato classicismo per molti, sia poi intesa dai due in<br />

modo affatto speciale (come dimensione dell’ordine primitivo e<br />

dell’artigianale). Nè le conseguenze sono le stesse: mentre Facciotto<br />

dirà che ogni amore, e tra gli amori anche quello che lo<br />

lega al mestiere, va cancellato e fatto naufragare nell’empito di<br />

fusione col naturale, Di Capi isserà quel tòpos a tema stesso e<br />

stile dell’opera. Cosa che diverrà chiarissima, intorno al ’50, nei<br />

dipinti che Facciotto non vide, dipinti in cui la trama neocubista<br />

dell’immagine rivela l’istanza dell’analisi come esigenza primaria<br />

di tutto il lavoro di Di Capi.<br />

Il “musicale” Facciotto e l’ “architettonico” Di Capi, inoltre, nutrivano<br />

insieme il culto del sobrio e della tenuta del quadro, che<br />

420<br />

doveva svilupparsi come un serrato microcosmo, un tout se tient<br />

concentrato. Infine, se non temessimo di forzare una temperatura<br />

d’amicizia, diremmo che l’uno rappresenta per certi versi l’<br />

‘impossibile’ dell’altro, il suo partito di contraggenio. Nell’indipendenza<br />

trovavano motivi di intesa, anche se la misura dell’eternità<br />

doveva essere micidiale per Di Capi, così alieno dall’abbandonarsi<br />

all’aneddoto e al particolare descrittivo, che poteva<br />

viceversa riuscire compatibile alla poetica dell’istantaneità di<br />

Facciotto.<br />

Per quanto concerne Cavicchini, i motivi di consonanza sono certo<br />

presenti, ma forse meno immediati.Vengono a porsi su un livello<br />

di ‘cultura’ piuttosto che di anima pittorica: su quel piano<br />

di esperienze che Facciotto intende mantenere sempre segreto.<br />

Il piano dell’intelligenza critica e storica. È lo stesso Cavicchini, in<br />

una sua recensione, a fare i nomi che interessano, quando legge<br />

in Facciotto i segni di Signorini, Fattori e Fontanesi (e certo l’artista<br />

poteva consentire), ravvisando chiaramente la centralità di<br />

una temperie “cosmica” dell’ispirazione, che impedisce di insistere<br />

troppo su debiti e ascendenze. Con Perina, infine, fa occasione<br />

di discorso il concetto di ‘imitazione’: mentre questi vuol<br />

passare attraverso il “sistema” ricevuto dall’impressionismo,<br />

darsi insomma una base ottica, stretta alle categorie operative<br />

di un Monet o di un Cézanne (e le cala nel ‘motivo’ per ricostruire<br />

la natura e farne sprizzare le energie), al contrario Facciotto<br />

insegue una tecnica dell’automatismo che non ammette mediazioni<br />

grammaticali, se non molto lontane, alle spalle. Alla<br />

memoria d’una sintassi egli contrappone l’arte della dimenticanza,<br />

al risentimento della grammatica l’imitazione della natura.<br />

Così almeno gli pare. Facciotto senza modelli?<br />

Pare difficile sostenerlo, per quanto la decantazione delle influenze<br />

sia molto ardua da attuare. La più esplicita, sia detto ora<br />

anzitempo, è quella di Semeghini: poiché a lui e a pochi altri sono<br />

dedicate alcune citazioni figurali: scorci ed immagini di Burano e<br />

Mazzorbo, ripensati sempre ad una potenza diversa, e tuttavia<br />

nascenti, con alta probabilità, da suggestioni semeghiniane. Ma<br />

appunto suggestioni. Meglio dire allora che Semeghini, come per<br />

traslato Van Gogh e Gauguin (in taluni autoritratti e nature<br />

morte), rappresenta un polo di orientamento mentale, un segnale<br />

di direzione. Seduzione, imitazione, dimenticanza: una triade di<br />

attitudini che Facciotto discute per apprendere o respingere e che


sono parte del clima culturale di un’epoca mantovana.<br />

Quando, nel ’35, non è stata chiarita del tutto la posizione definitiva,<br />

Facciotto si dibatte fra molteplici innamoramenti, ma già<br />

sufficientemente circoscritti e declinati in pronuncia "chiarista" e<br />

veneziana. In più la sua inchiesta riguarda i modi in cui una antica<br />

tradizione è stata ripresa lungo l’esperienza romantica e<br />

tardo-ottocentesca: “lo non so - scrive - quale sia la strada da seguire;<br />

mi sento attratto da tutti i più grandi [Delacroix compariva<br />

qualche riga avanti, n.d.a.], ma fra questi sento che sono ancora<br />

sempre i veneziani. Tutti qui si sono abbeverati, Cézanne<br />

compreso. Lanciarmi sulla pittura di questo mi sembra un grave<br />

errore” (Lettera a O. Marini, 28 - 11 -’35).<br />

Le attrazioni non sono superate neppure l’anno successivo. Ciò<br />

G. Facciotto, Piccola cucina, 1945, olio su cartone, cm 25x34,5.<br />

421<br />

nonostante appare esplicito il corso (in negativo) della riflessione:<br />

“Questi autori francesi mi seducono, ma non è con questi che<br />

io mi accoderò” (Lettera a corrispondente anonimo, 26 - 5 -’36).<br />

Nel frattempo il pittore è uscito allo scoperto, esponendo alla<br />

sua prima collettiva del ’34 Uomo che mangia ed altre opere<br />

oggi perdute. Da questo olio, come da successivi nudi e figure, si<br />

ricava una smaterializzazione delle forme che insiste sulle<br />

ombre colorate e su un ordito quasi invisibile. Il traliccio dell’immagine,<br />

piuttosto che plastico, è difatti aereo, disincarnato. Le<br />

superfici dei corpi, dei panneggi, degli oggetti, vengono tradotte<br />

in quantità luminose, in tessere e vele. Prevalgono accenti di<br />

accordo e di consonanza, di modo che ad una cromia elevata a<br />

tono maggiore fanno eco varianti di profondità e di risonanza.


G. Facciotto, Torcello, 1942, olio su cartone, cm 40x50.<br />

Anche in Pagliai in Toscana del ’36 la pittura si dispiega sui registri<br />

di rarefazione e radianza, nell’annullamento della prospettiva<br />

e della gravità. La superficie impone davvero una severa<br />

legge compositiva, invitando ad agire sulle sue dimensioni proporzionali<br />

anziché sui dati d’illusionismo.<br />

È forse questo il momento di più meditata vicinanza a Di Capi, a<br />

un Di Capi però annegato nel giro d’un canto luminoso e travolto<br />

nelle sue stesse analisi spaziali. Eppure una così alta misura di<br />

accordi, una così calibrata essenzialità non corrispondono interamente<br />

alle aspirazioni dell’artista. Egli sente il dramma della separazione<br />

dalle cose. Il regìme secco dell’immaginazione non gli<br />

422<br />

basta. Vuole l’immersione.<br />

Ecco due confessioni dell’estate ’36: "Un giorno gli squallidi oggetti<br />

del mio studio mi si scandirono dinnanzi agli occhi nelle<br />

loro linee precise e mi apparvero nel loro colore esaltato. Quel<br />

giorno - continua il frammento - io capii che avrei fatto qualcosa<br />

in pittura" (12-6-1936). Poche settimane prima aveva annotato:<br />

“Tu a un certo punto senti che la materia cede e che il pennello<br />

corre come se ubbidisse alla tua visione (...) Ma verrà<br />

tempo, lo sento, che forzerò la materia. (...) Allora andrò pazzo<br />

di gioia per le campagne, mi mescolerò alle messi, affonderò<br />

nell’erba ubertosa e fresca, vivrò la vita delle più umili e degne


estie. La vita primitiva. La vita antisociale” (31-5-1936).<br />

Sono presagi decisivi: ubertoso, fresco, primitivo, esaltato. Che<br />

significano se non una rinnovata ed ancor più radicale volontà<br />

di compenetrazione con la ‘natura’, di comunione con l’Altro, di<br />

solarità annegata negli umori della terra, di fertilità e di fecondazione?<br />

Fantasie di interramento agitarono spesso Facciotto. E si vuol dire<br />

anche interramento della pittura, dell’opera; riconduzione, come<br />

ha spiegato E. Faccioli, alla matrice della vita, al Femminile.<br />

Quali sono i desideri dei pittori, i gesti che essi vorrebbero compiere?<br />

Ecco la risposta: “lasciare le proprie tavole nel luogo dove<br />

furono dipinte”, abbandonarle in “campagna” 19 .<br />

Ne deriva una complicazione e un arricchimento nei regimi dell’immaginario.<br />

Ora, dal ’37 e soprattutto dal ’38 in poi (fino ai dubbi e all’incupirsi<br />

dell’umor "malinconico", che si potrebbe chiamare, per<br />

usare parole sue, “disperato”, attorno all’autunno del ’43), una<br />

lunga e continuata catena di invenzioni espone una nuova immagine:<br />

una visione che lievita, fermenta, si rigonfia.<br />

Prende quota la pittura “anfibia” d’acque e di arie, con conseguenze<br />

strutturali per l’immagine che esce dall’à plat sonoro, dal<br />

piano quasi musivo del primo triennio, per inoltrarsi in gorghi<br />

misurati e trasalimenti, secondo una spazialità vicina all’ordine<br />

dello sferico. E s’avvita talora in moti ellittici, ascenditivi (Colline<br />

a Sant’Andrea, per esempio).<br />

Si vedano, a riprova, i pastelli e i disegni (a carboncino) dei paesaggi<br />

morenici, le figurazioni di viottoli e viali aperti su un fianco,<br />

le fughe di balze e strade, di cui si indagano le ventate d’alberi,<br />

gli ampi ventagli laterali, il germinare di cespugli, gli snodi<br />

e i crocicchi (Strada in collina, Steccato). La sofficità ondulante<br />

dei terreni, le mareggiate di campi e grani sono in funzione del<br />

prorompimento prospettico, ma di un prorompimento anche in<br />

avanti e circolare.<br />

V’è esaltazione, ma non disordine: rotazione piuttosto e circolarità<br />

di elementi: quel “cosmico” che Facciotto aveva tanto inseguito<br />

è ora raggiunto.<br />

Un analogo spirito di totalità animata vive nelle nature morte,<br />

dove gli oggetti si irradiano in una compagine di ritmi e di pulsazioni<br />

fin dentro le quinte degli sfondi e talvolta pencolano nell’assorbente<br />

tessuto dei piani d’appoggio.<br />

423<br />

Si capisce allora come Facciotto abbia sottolineato l’importanza<br />

del segnale-Semeghini, non per affiancare quella lezione, ma<br />

per materiarla di altre eccitazioni, con un suo senso differente<br />

dell’equilibrio: spostando i fuochi e giocando sugli scarti. Certo vi<br />

sono aneddoti, brevi episodi, frammenti narrativi dentro il racconto<br />

più grande degli elementi (figurine e barche nelle vedute<br />

di laguna; l’esile voluta di fumo, ad es., nella Casa Rubini del<br />

’40), ma il particolare si lega, là dove riesce, all’insieme e tanto<br />

più ha forza (anche quella di sottolineare la cadenza dell’effimero),<br />

quanto più esibisce una necessità di struttura compositiva. È<br />

il caso, per esempio, di certi campanili di Angeli, Mazzorbo e Burano,<br />

che, a guardar bene, rappresentano il fuoco ultimo della visione,<br />

un punto di arrivo quasi inavvertito, cui si risale percorrendo<br />

l’arabesco portante della composizione.<br />

Perdurano, in quest’epoca, anche gli ordini paralleli, a gradi, dei<br />

piani di rappresentazione, la cui metrica segreta è però una diagonale,<br />

o un accenno di obliquità, un lieve spostamento d’asse.<br />

G. Facciotto, Fiori con libro di Maria, 1940 ca., olio su cartone, cm 60x50.


Tanto che, volendo segnalare un tema ricorrente dell’orditura<br />

spaziale, specie per i Canali di Mazzorbo, le periferie e le strade<br />

in collina, lo si potrà indicare in una grafia serpentinata e inconclusa<br />

che annoda le presenze dei primi piani per dissolverle in<br />

enunciati di fuga. Un altro dato abbastanza costante è l’appoggio<br />

dei gravi su un’icona accostata alla cornice, sicché il paesaggio o<br />

la figura sembra accennare ad un moto di assestamento; o di risveglio.<br />

Soluzione più volte adottata, e talvolta contestata nell’ultimo<br />

periodo, se si tien conto dell’intervento cancellatorio<br />

(del’45) su un Pontile a Torcello, inteso ad allentare la pressione<br />

dei pesi su un fianco. Sopravviene nel ’43 l’opportunità delle mostre<br />

personali. Facciotto comincia a tracciare bilanci e a stabilire<br />

sequenze. Progetta nuovi studi. Fra ’42 e ’43 vien scoprendo una<br />

gestualità assai più risentita che nel passato e diretta, una sorta<br />

di scrittura colorata sul quadro, che è preludio ai più tesi momenti<br />

disegnativi dell’estremo triennio. L’attenzione si sposta, in<br />

qualche caso significativo (Burano, coll. Arcari) verso le alterazioni<br />

e i mutamenti d’atmosfera, i fenomeni di rapida trasformazione,<br />

i miraggi (Arcobaleno, coll. Baratta). Trascorrimenti di nubi<br />

(Nubi e campi, coll. Panina). O interni, stanze e nature morte bagnate<br />

da una luce radente, tutta mentale. V’è talora anche irruzione<br />

di frontalità (Albero centrale, 1944). Facciotto non accarezza<br />

più fertilità paesistiche: c’è un sondarle in profondità per<br />

cavarne anche riverberi psichici, quasi simboli quotidiani (Piccola<br />

cucina, ’45). Ha fretta, non solo di accumulare e di conservare,<br />

per antica consuetudine con l’archivio privato delle memorie,<br />

ma di verificare e di scegliere; di vagliare e tracciare altre prospettive.<br />

Negli ultimi mesi di frenetica registrazione grafica (e di<br />

malattia) gli accenti visionari si intersecano alla contemplazione<br />

del naturale. Potrebbe essere una nuova, la terza stagione di<br />

Facciotto. Ma è stagione rimasta aperta e meglio ravvisabile nei<br />

disegni che nei dipinti. “È inverno - egli conclude - e fuori c’è la<br />

neve/una luce irreale entra e batte sulla tavola azzurra e le cose<br />

assumono un non so che di magico”.<br />

1. Irreale è aggettivo frequentemente usato da Facciotto, non per indicare una<br />

dimensione contrapposta alla realtà, alla natura, ma al contrario la sua sostanza<br />

più profonda, tratta fuori, per magia artistica (l’arte è una alchimia naturale) dalle<br />

cose. Valore analogo, negli scritti, ha anche l’aggettivo astratto. Ambedue le<br />

parole indicano processi e situazioni formali del tutto opposti a "naturalistico".<br />

2. cfr., fra le carte dell’Archivio Sigurtà-Facciotto, A 38. Riprodotto nel cat. Fac-<br />

424<br />

ciotto, Rivalta, 1969.<br />

3. cfr. E. Faccioli, scritti vari, in bibliografia su questo catalogo.<br />

4. Tra gli appunti inediti sono conservati fogli contenenti annotazioni di formati,<br />

materiali, tecniche ecc.. Per il dibattito sulla tecnica, in particolare, si rinvia agli<br />

scritti del ’43-’45, in via di pubblicazione presso l’ed. Arcari (G. Facciotto, Scritture,<br />

1943-45, Mantova, 1980).<br />

5. v. Scritture cit., alla carta A49.<br />

Ibid., paragrafo 19: “È venuto il tempo per me di diventare un uomo qualunque,<br />

come ogni altro uomo (…). O è venuto il tempo di arrischiare il tutto per tutto”,<br />

eccetera, considerazioni vicine ma non identiche, in un taccuino di disegni e scritti<br />

(Coll. Gianna Panini Milano), composto tra il 1933 e il ’36. Qualcuno ha il senso<br />

di : “maestro”, “artista”. Si associa anche il riconoscimento della genialità. Il qualunque,<br />

l’uno qualunque, sono invece contrassegni non solo d’anonimato quotidiano<br />

ma di vicinanza alla inconsapevolezza naturale, all’animalità, alla follia.<br />

Con questo significato compare anche il termine neutro.<br />

6. v. Scritture cit., alla carta A9 “una pulizia, un ordine, un nitore estatico vi è in<br />

questa mostra di Facciotto”, eccetera.<br />

7. "Elenco dei dipinti e notizie raccolte quest’anno 1942", p. 2, retto. (1935 col<br />

punto interrogativo). Il punto interrogativo, per lo più, non indica uno spostamento<br />

d’anni ma di mesi. Cfr. la trascrizione del registro autografo, con ordinamento<br />

per anni, nel cat. Facciotto cit., al n.38. L’Elenco si trova nell’archivio Facciotto-Sigurtà.<br />

8. L’accostamento fra l’artigianato, il lavoro della mano, e la pittura, l’arte, è assai<br />

frequente negli autografi. Del resto è di Facciotto la persuasione che si può anche<br />

dipingere con le dita. V. su questo punto Scritture cit., paragrafo 33 e nota relativa.<br />

9. Espressioni impiegate dall’autore nel recensire U. Bignotti (minuta e non copia<br />

manoscritta: A 16).<br />

10. Per un profilo dell’opera di Umberto Bignotti valga il rinvio allo studio (l’unico<br />

fino ad ora) di A. Puerari, nel cat. Mostra dei Pittori, Scultori e Incisori Mantovani<br />

"800" e "900", Mantova, 1939. Cfr. inoltre la testimonianza, proposta in<br />

questo catalogo, di Alessandro Dal Prato.<br />

11. E. Faccioli, articolo su G. Perina, in "Gazzetta di Mantova", novembre 1950,<br />

riprodotto nel cat. Giulio Perina - mostra antologica, a c. di R. Tassi, Mantova,<br />

1975.<br />

12. G. Tonna, introduzione al cat. Chiaristi Mantovani, Castelgoffredo (Mantova),<br />

1966.<br />

13. Espressioni e concetti impiegati da Facciotto a proposito di Umberto Bignotti.<br />

(cfr. A16, A 55).<br />

14. S. Bini, Artisti, Edizioni "Libreria del Milione", Milano 1922, pp. 13-27.<br />

15. cfr. C. Perina, Mantova - Le Arti, vol. III, Mantova, 1965; R. Margonari, Lomini,<br />

Mantova, 1978; R. Margonari, Bresciani da Gazoldo, Mantova, 1979; F. Solmi,<br />

Guindani, Mantova,1979; E. Faccioli, scritti vari sugli artisti mantovani, in parte citati<br />

nella biobliografia in appendice a questo catalogo; A. Dal Prato, Mario Polpatelli,<br />

un pittore dimenticato, in "Civiltà Mantovana", Quaderno 67-68, 1978, pp.<br />

74 ss. Nelle pubblicazioni sopracitate sono presenti altri e essenziali rinvii bibliografici.<br />

16. v. G.M. Erbesato, Biografia attraverso il carteggio, in cat. Vindizio Nodari Pesenti<br />

(1979-1961), Mantova, 1979.<br />

17. cfr. carta autografa A 33 (archivio Facciotto-Sigurtà).<br />

18. Cfr. Scritture cit., carta A 26 (lettera a U. Bernasconi, del ’43)<br />

(1) Scritto in occasione della mostra personale “Giuseppe Facciotto.<br />

Opere 1934-1945”, tenutasi a Palazzo Te, Galleria d’Arte Moderna di<br />

Mantova, maggio-giugno 1980.


Racconti per trasparenza<br />

Christina Kanz (1)<br />

Il segno e nient’altro. Un segno che sia luce. È stata questa una<br />

delle principali ossessioni pittoriche di De Luigi, protagonista insieme<br />

a Lucio Fontana (ma con inclinazione affatto diversa) dell’avventura<br />

“spazialista” del secondo dopoguerra. Egli sosteneva<br />

anche, con singolare inversione litografica, che “forse la luce è<br />

l’anima; l’ombra, lo spirito”. Christina Kanz, le cui opere sono<br />

esposte in questi giorni alla Loggia di Giulio Romano (una ventina<br />

di dipinti dal ’76 all’80), deve aver meditato su simili proposizioni,<br />

trovandovi, lei tedesca, delle ragioni di consonanza con<br />

la sua cultura d’origine: una consonanza che agisce, ci sembra,<br />

sul piano delle tensioni immaginative piuttosto che nel repertorio<br />

delle procedure stilistiche. Se in comune v’è infatti la riflessione<br />

sul colore, su una luce che è processo e mutazione delle<br />

forme, l’attenzione della Kanz è tutta rivolta ai fenomeni di cangianza,<br />

al mutamento che non ha principio né fine, mentre in De<br />

Luigi quel che conta è il dramma di un’emergenza: la luce che irrompe<br />

dal buio, l’energia liberata dalla fatica dello scavo. Il grattage<br />

appunto, l’urto dei contrari. In questi quadri invece si esprime<br />

una sotterranea vocazione narrativa, un racconto fatto per<br />

cromie trasparenti, tanto più mobile quanto più aereo è il segnale<br />

in spostamento. La serie dei gesti ripetuti costituisce una<br />

trama, scandisce una partitura, di cui è protagonista il deposito<br />

traslucido di una traccia verticale che, occupando lo spazio della<br />

tela, crea una frase ritmica. Al tempo stesso sperimenta la sua<br />

forza espansiva. Ogni quadro è un’azione che rimanda ad un’altra<br />

azione.<br />

Tela viola-rosso veneziano è il titolo di un’opera del ’79, dove è<br />

davvero in gioco, come in altri lavori, il dialogo fra una superficie,<br />

un suono cromatico di fondo, e un segno che la percorre mutando<br />

di continuo i margini della propria identità. Avvia un accordo:<br />

e con l’accordo prende vita una serie di eventi, una sequenza<br />

di incidenti luminosi che non esprimono il conflitto dei<br />

contrari, ma il distendersi e velarsi/disvelarsi di un principio di<br />

riunificazione. Come a dire che il mistero non è più sotto la superficie,<br />

ma agisce allo scoperto, in una conseguente e tuttavia<br />

imprendibile peripezia.<br />

Da questo bisogno di evidenza deriva un ispessimento sensitivo<br />

425<br />

del segno. Qui si spiega anche il rapporto – documentato in una<br />

stringata sezione della mostra – con Morris Louis, vale a dire con<br />

una pittura tesa a sondare la forza irradiante del colore in un<br />

campo percettivo assoluto. E giacché il quadro si costruisce interamente<br />

sulla processualità della scia cromatica, ne viene una<br />

secca cancellazione di figure ed emblemi.<br />

Quando accenna a comparire (a tale proposito si può vedere la<br />

serie degli Acquarelli Salzburg, dipinti nel ’76), la figura diventa<br />

il campo di una frantumazione. Dà luogo ad una storia di dissolvenze.<br />

Si ha allora l’impressione che Christina Kanz costruisca<br />

delle favole di metamorfosi, delle avventure intorno al tema<br />

della fluidità: fiabe che – per una segreta simpatia fra segni e<br />

luoghi – documentano in modi antimimetici l’incontro con alcune<br />

città elettive: con la mozartiana Salisburgo e col sensuoso luminismo<br />

di Venezia. Ma i riconoscimenti, come la pittrice si è<br />

scoperta a dire, sono postumi: motivo di divinazione più che di<br />

pronuncia discorsiva, di un desiderio che resta inaccessibile alla<br />

parola, secondo l’opinione di G.G. Lemarie che ha presentato<br />

Christina in catalogo.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 20 settembre 1980.


Pittura come ornamento e irrealtà<br />

Osvaldo Licini (1)<br />

È Giuseppe Marchiori a parlarci più volte, nelle pagine di corrispondenza<br />

e nei saggi, dell’amore, anzi dell’esaltazione quasi fanatica<br />

di Licini per la pittura visionaria, per certe figurazioni mistiche<br />

del Medioevo e del primo Umanesimo1 : un’adesione tanto<br />

profonda ed eccitata da manifestarsi, anche nei momenti di più<br />

alta disciplina ascetica, con i toni rapiti della rivelazione. Mentre<br />

alcuni artisti del “Milione” 2 puntavano sulla convergenza fra<br />

astrattismo e razionalità della forma, facendo del comporre il<br />

tema centrale della loro invenzione, in lui continuava ad operare<br />

la riflessione sul simbolo, sullo spessore allusivo dei segni. Un<br />

interesse che resta attivo anche quando la poetica esplicita indurrebbe<br />

a pensare che egli agisca su un solo livello, tutto spo-<br />

O. Licini, Nudo, 1925, olio su tela, cm 60x81.<br />

426<br />

stato cioè verso protocolli di rigorosa formatività. Cosa, questa,<br />

senz’altro vera se si considera la complessità e insieme la coerenza<br />

interna con cui nascono - in ogni epoca dell’avventura liciniana<br />

- le articolazioni retoriche dell’immagine; come esse si<br />

svolgano e diano luogo ad una catena di temi solidali, generantisi<br />

in certo modo l’uno dall’altro, per intima proliferazione.<br />

Accanto alla fantasia retorica va tenuto conto però di un’altra germinazione,<br />

di tutto un carico metaforico che quelle stesse figure<br />

stilistiche convogliano dentro di sé.<br />

Se Licini non ne parla o vi accenna velatamente, ciò dipende -<br />

in alcuni anni - da una serie di ragioni, per lo più di ordine negativo.<br />

In primo luogo dal fatto che egli deve azzerare un codice<br />

pittorico cui è rimasto legato, sia pure in modo affatto speciale,<br />

fino alle soglie degli anni Trenta: per esempio quella nozione<br />

di realismo, da lui declinata nel senso delle magie3 , che lo


aveva accompagnato fino alla confluenza nel gruppo sarfattiano<br />

di Novecento. V’era poi, urgentissimo, il bisogno di dar vita ad un<br />

vocabolario di nuovi segni, ad una grafia elementare disancorata<br />

da obblighi referenziali, mimetici, naturalistici. Infine, specie<br />

nel quadriennio 1935-1938, la decisione di dar battaglia sul fronte<br />

degli astrattisti lombardi, la solidarietà con il manifesto di<br />

Belli, insieme ai problemi di natura costruttiva, consigliavano di<br />

sottolineare nelle dichiarazioni pubbliche taluni temi piuttosto<br />

che altri. Del resto è l’autore stesso ad autorizzarci. A proposito<br />

di Kn4 non scrive forse che la sua positività sta “nella negazione<br />

totale di ciò che oggi si intende per cultura”? Nell’essere, quell’opera,<br />

una cancellazione dell’esistente?<br />

Eccolo insistere allora sul tasto delle cerebralità, del mentalismo,<br />

del lavoro di “testa”; e affermare risolutamente, nella celebre<br />

lettera aperta del ’35, che i “quadri non rappresentano nulla” e<br />

che “la geometria può diventare sentimento, poesia più interessante<br />

di quella espressa dalla faccia dell’uomo’” 5 .<br />

Ed è qui, nella stretta associazione istituita dal pittore tra geometria<br />

e immaginazione, tra forme pure e fantasia, che appaiono<br />

preziose le indicazioni di Marchiori. Ci rivelano l’entusiasmo<br />

per i deliri prospettici di Paolo Uccello, le grafie goticheggianti<br />

del Sassetta e Pisanello6 , gli spazi radianti dei neoplatonici. Si<br />

potrà osservare certo che le tavole del Miracolo dell’ostia sono<br />

raccomandatissime in ambito surrealista (più volte riprodotte e<br />

commentate sulla Révolution bretoniana o su Minotaure) e che<br />

Licini non è il solo ad ispirarvisi. Ciò che dà tuttavia alle predilezioni<br />

dell’autore una pronuncia inconfondibile è l’insieme dei riferimenti<br />

ai “primitivi”, quella catena di opere anteriori al pieno<br />

Rinascimento e al trionfo della Rappresentazione che aiuta a disegnare<br />

una mappa di motivi iconografici incidenti sulla storia<br />

delle immagini liciniane. Non solo: grazie ad esse si aduna altro<br />

materiale intorno ai “sogni”, a quell’universo mitografico che gli<br />

scritti dell’artista invitano ad interrogare in chiave eminentemente<br />

letteraria. Intanto risulta subito significativa la presenza<br />

del capitolo dei "primitivi" accanto alla lettura dei grandi isolati<br />

(e veggenti) dell’Ottocento, da Hölderlin a Novalis a Mallarmé:<br />

fonti gli uni e gli altri di una imagerie estatica che tende ad<br />

esprimersi nella cifra del geroglifico e dell’enigma.<br />

Proviamo ad elencare alcuni di quei luoghi contemplativi: i mosaici<br />

di Sant’Apollinare, gli affreschi di Santa Maria Antiqua, Le<br />

427<br />

O. Licini, Marina, 1931, olio su tela, cm 26x20,5 (particolare).<br />

nozze mistiche di S. <strong>Francesco</strong> del Sassetta, i dipinti dell’Angelico:<br />

opere sulle quali è certa l’attenzione di Licini nel corso dell’epoca<br />

astratta. Che cosa lo spinge ad interessarsene? Se si scorrono<br />

gli scritti del ’35, che pure tacciono su simili modelli, veniamo<br />

ad imbatterci in una categoria che da quei riferimenti può<br />

trarre un ulteriore chiarimento. Si tratta del concetto di iperdecorazione<br />

e di splendore: “A che serve un quadro - si chiede l’artista<br />

- se non a superdecorare un muro?”. E continua: superfici<br />

che “non rappresentino nulla, ma che a guardarle procurino un<br />

vero riposo allo spirito” 7 .<br />

Come si vede, è in gioco un’idea di astanza, di intransitività che ha<br />

molto in comune con le dottrine mistiche della figurazione. Il colore,<br />

non la linea, svolge un’azione magica. È l’autore a ricordarlo.<br />

Il colore non descrive, ma significa per sé: sprigiona una forza rapinosa,<br />

esalta ed innalza. Esige il silenzio della rivelazione.<br />

Quando tocca simili argomenti, il discorso evita di sostarvi a


O. Licini, Addentare su fondo grigio, 1936, olio su tela, cm 90x66,5.<br />

lungo. Ricorre piuttosto alla reticenza, pone tra parentesi, si vela<br />

di ironie ed autoironie. Ma lascia anche trasparire delle tracce,<br />

degli enunciati germinali che andranno a confluire, qualche anno<br />

più tardi, in proposizioni più ricche di mitologemi. Intanto si afferma<br />

che il tragitto dell’arte è ascensivo, verticale; che il compito<br />

della pittura è di ribaltare la logica del concreto, di riunire i<br />

contrari, di far miracoli, forzando il possibile verso l’impossibile.<br />

E tutto ciò vien detto insistendo sul funzionamento del significante,<br />

delle linee e del colore: un significante che ha l’evidenza<br />

dell’ornato e della decorazione.<br />

Manca il quadro mitico, ma la grammatica lo fa presupporre o<br />

perlomeno lo annuncia.<br />

Che Licini avesse ben chiaro un itinerario da percorrere, lo si de-<br />

428<br />

sume anche dalle scelte sul terreno della contemporaneità: Matisse,<br />

Kandinsky, Mondrian. Con i correttivi in area dada-surrealista:<br />

Man Ray, Arp. Come a dire il versante fusionale dell’astrattismo,<br />

debitamente filtrato nell’esercizio dello humour, dei controsensi<br />

e del calembour.<br />

Se si tien conto poi, al di là delle testimonianze di poetica, dei<br />

temi presenti nella sua pittura, di tutta una geometria simbolica<br />

incentrata sulle figure del chiasmo, della circolarità e dell’alternanza<br />

ritmica, si vedrà che il discorso procede intorno ad alcune<br />

grandi metafore visive della trasformazione, della metamorfosi<br />

e del tempo cosmico8 .<br />

Le tele fra 1930 e 1935 appaiono istoriate, intessute, contornate<br />

e percorse da tracciati ritmici. I grandi campi notturni e aerei


vengono suddivisi in settori, i settori posti in agitazione tra loro<br />

da una linea che mentre avanza, al tempo stesso ruota su di sé,<br />

si allontana e si avvicina agli assi dominanti della composizione.<br />

Per sottrazioni e accumuli, ritmicamente alternati, lo spazio è<br />

dato come inesauribile, pronunciato e sospeso nell’infinità della<br />

tensione ciclica.<br />

Fin dal 1931, in uno dei quadri inaugurali della ricerca astratta,<br />

l’emblema lunare accompagna lo sbocciare delle linee verso l’alto<br />

Schemi astratti su fondo bianco, iscrivendo la verticalità sotto<br />

il segno dell’inversione e del mutamento. Così in Notturno n. 1<br />

(1931-32) una cerniera ellittica lega l’architettura in crescita dei<br />

O. Licini, Angelo ribelle su fondo rosso, 1946, olio su tela, cm 91,5x72,5.<br />

429<br />

triangoli. Entrano in gioco le polarità di segno opposto, non per<br />

creare una dialettica che alla fine si concluda in un luogo o in un<br />

macrosegno unitario e totalizzante, ma per mettere fronte a<br />

fronte energie differenti ed eccitarne l’intersezione, il metamorfico<br />

cerchio dei bilanciamenti. La geometria obbedisce insomma<br />

ad un immaginario dell’antifrasi, del confuso, del chiasmo. In<br />

Ritmo rosso (1932) compaiono una mano ed un piede, l’una,<br />

bianca, al vertice di un triangolo, l’altro (nero) sul luogo di giuntura<br />

di due rettangoli, quasi una microstruttura dei futuri Mulini<br />

a vento; poi un triangolo-freccia ed un cerchio, ossia la linearità<br />

e la rotazione: tutti elementi che però non si danno in netta op-


posizione, segnati, come sono, internamente da una frattura, da<br />

incidenti che ne interrompono la compattezza. Non solo: vengono<br />

tutti assorbiti nella mobilità metrica di un’unica frase, il cui<br />

culmine è forse da vedere nel moto serpentinato d’una freccia<br />

che punta su una stella-bersaglio. Analogamente, quando il pittore<br />

riflette sui simboli del tempo (e andrà visto in questo caso<br />

il Notturno n. 2, 1932), gli emblemi rinviano l’uno all’altro, in<br />

coppie complementari e dinamiche, come il disco e il quadrato,<br />

un disco che ospita una falce lunare e un quadrato attraversato<br />

dalla diagonale, dal segno dell’addentamento, minato cioè dall’erosione<br />

del più e del meno.<br />

Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, fino alle opere centrali<br />

della metà del decennio: Il bilico, Obelisco, il Drago e così via.<br />

Ma quel che preme sottolineare è il darsi dell’intero repertorio<br />

lessicale in una calligrafia e in un cromatismo irraggianti, volti ad<br />

oltrepassare i parametri della misurabilità.<br />

La questione, allora, è proprio quella posta dall’autore nella pagina<br />

appena ricordata: l’emergenza di un ornato che non è costruzione<br />

plastica, d’una pittura che vuol operare sul versante<br />

contrario allo statuto architettonico. Sicchè nella netta presa di<br />

posizione nei confronti del funzionalismo, nel collocarsi più dalla<br />

parte di Carlo Belli che dell’amico Sartoris, a favore di una “poesia”<br />

alleata alla musica ed estranea alle leggi della tridimensionalità,<br />

è vivo l’urgere del tèlos estatico della figurazione.<br />

“L’arte non deve avere nessun significato”. La pittura costituisce<br />

una pratica “irrazionale, contrariamente a quel che è l’architettura”.<br />

Non si tratta - rimarchiamo - di un discorso sui generi artistici,<br />

sulle possibili analogie, differenze e cooperazioni fra procedure<br />

specifiche della visione. Nè l’ornamentazione di cui si parla ha<br />

qualche attinenza col dibattito allora vivacissimo sul décor vero<br />

e proprio. Tant’è che, a riprova, può essere addotta la simpatia<br />

da parte di Licini per le superfici di misura minima, i formati ridotti<br />

(si pensi alla serie, la più clamorosa forse, delle tele-portafortuna<br />

e dei quadri-talismano). Per lui infatti la tensione va cercata<br />

lontano dall’elemento sensibile e dalle proporzioni materiali.<br />

Viene richiesta in prima istanza la fusione fra lo sguardo che<br />

contempla ed il fatto pittorico, senza mediazioni concettuali. Il<br />

che non suona a discapito dell’interpretazione, quanto a sostegno<br />

di una speciale forma di lettura che nasca dal desiderio, da<br />

un "piacere" immediato, e si svolga poi, se è necessario, nelle<br />

430<br />

forme del commento, dell’analisi in cifra9 .<br />

La demarcazione fra “decorare” e “costruire” appartiene, nella<br />

sua formulazione più stringente, al pensiero mistico, al sentimento<br />

del colore e della linea dei primitivi, così come, d’altronde,<br />

era venuta illustrandola proprio in quegli anni Lionello Venturi,<br />

in un libro che Licini aveva letto con viva partecipazione10 . E<br />

Matisse, evidentemente, rappresentava un luogo di confronto<br />

inevitabile intorno al problema.<br />

Viene da lui infatti (e nella formulazione più limpida) l’equivalenza<br />

assoluta fra ornare ed esprimere, unitamente al principio<br />

dell’annientamento del supporto mediante la decorazione. L’ornato<br />

si impadronisce dello spazio percettivo e lo annulla. Anche<br />

Licini dirà qualcosa di analogo a proposito di Modigliani11 , così<br />

come i suoi procedimenti pittorici tenderanno a cancellare i confini<br />

della tela, in un progressivo azzeramento della superficie fisica<br />

del dipinto a vantaggio della sua densità mentale.<br />

Matisse: “Per me l’espressione non consiste nella passione che<br />

si accenderà su un volto o che si affermerà con un movimento<br />

violento. L’espressione è in tutta la disposizione del mio quadro<br />

(…). La composizione è l’arte del sistemare in modo decorativo<br />

i diversi elementi che il pittore ha a disposizione per esprimere<br />

i suoi sentimenti” 12 . E Licini: “La pittura è l’arte dei colori e delle<br />

forme, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di<br />

creazione”, eccetera.<br />

Lo sviluppo successivo dell’opera pittorica non abbandona mai,<br />

anzi articola e approfondisce ancor più questa topica dello splendore.<br />

Perché mai, ci si chiede, Licini dovrebbe “garantire” - come<br />

sostiene - le sue Amalassunte in “oro ed argento”, se non agisse<br />

in lui la profonda consonanza col mondo dei visionari? Perché<br />

fiori e gemme popolano gli ultimi cieli? Da dove viene la partitura<br />

preziosa, quasi da lapidario, delle sue immagini? Perché infine<br />

ha tanto respiro il gusto, anche nella parola scritta, per la<br />

voce ermetica, il senhal, il termine che depsicologizza?<br />

Non si creda però ad una consonanza astorica e felice. Di mezzo<br />

sta, come sappiamo, la ‘testa’ di Licini, la sua malinconia di funambolo.<br />

Il leopardismo non concede spazi ai progetti della Modernità<br />

e attraversa, con disincantata memoria, i paesaggi impietrati<br />

della ragione positiva. Di qui viene il suo appello alla funzione<br />

disintossicante della menzogna, della maschera, dell’artificio<br />

superiore. Di qui la mobilità del fumista, il maledettismo del-


l’angelo-demone, l’issarsi a “500.000 metri d’altezza, nella zona<br />

siderale”, verso l’irrealtà. E il leopardismo scava baratri non solo<br />

nel presente, ma anche fra l’attualità e quel passato che pure è<br />

sentito consanguineo e vitale.<br />

“L’importante è che la menzogna sia geniale”.<br />

L’impiego della nozione di frode, accanto a quella della bellezza<br />

e dello splendore, segna lo stacco necessario della coscienza dai<br />

neoplatonici, dal loro tuffo nella vertigine della “Emanazione”; o<br />

se si vuole, rilancia l’ossessione decorativa nelle regioni accidentate<br />

della rivolta e del male. Accetta la sfida dell’impuro. Giacché<br />

irrealtà non vuol dire, per Licini, dimenticanza del vivente;<br />

significa invece una realtà più essenziale e decisiva, magari sepolta<br />

e dimenticata, che occorre far riemergere e tornare a modellare<br />

con precisa coscienza linguistica: con la forza d’una lette-<br />

O. Licini, Angelo ribelle su fondo rosso, 1953 (particolare).<br />

431<br />

ra che bruci la distanza fra il segno e la cosa, faccia scaturire il<br />

non-nato13 , e il possibile. Non a caso questo pensiero si lega alle<br />

peripezie di esilio, di lontananza e peregrinazione; e, conseguentemente,<br />

la “superrealtà” cui si tende è animata dalle pulsazioni<br />

dell’eros e della mater-materia, dall’agitarsi della chora.<br />

Qual è il volto della “misteriosa bellezza”? Ecco la risposta del<br />

pittore, in rapporto a Matisse: “entusiasmo, gioia di vivere, sensualità,<br />

lirismo, senso pagano dell’esistenza” 14 .<br />

In tal modo la vicinanza ai primitivi, ai bizantini e ai senesi, riceve<br />

la sua spiegazione ontologica: come approssimazione all’essenza,<br />

alla realtà originaria, giacché gli artisti medievali appaiono<br />

più prossimi dei moderni al fuoco della creazione.<br />

Ed è chiaro: non è la religiosità ad essere interpellata, quanto la sacralità<br />

dell’esperienza; con essa viene interrogato lo sguardo, che<br />

andrà spostato altrove e rovesciato, reso perfino più disumano.<br />

Dai primitivi ai grandi romantici: il secondo anello della catena è<br />

costituito da quei “naufraghi” in cui agisce il demone del ritorno.<br />

Licini ha in loro una fonte primaria di riflessione, nonostante la<br />

violenza con cui attacca l’Ottocento, le sue convenzioni patetiche<br />

e la tradizione dello psicologismo. Si potrebbe dire, per un certo<br />

verso, che egli tende a geometrizzarne gli umori, a disseccarne<br />

i depositi sentimentali, per estrarne una sostanza più duratura.<br />

Non ha in mente l’uomo, vuole piuttosto oltrepassarlo. L’uomo<br />

gli pare una malattia. Parafrasando un poeta maledetto, lo definisce<br />

“una buona iena con tendenza alla poesia”.<br />

L’esercizio di effrazione comincia nel ’13, durante l’adesione al<br />

futurismo, con i “racconti di Bruto”. In virtù di acidi palazzeschiani<br />

e ubueschi, Licini-Bruto compie la prima immersione spettacolare<br />

nell’animalità della vita e nella materia, una materia che<br />

viene tuttavia lavorata (ciò è decisivo), oltreché con furia, con la<br />

sottigliezza dell’araldica e di una pirotecnica teatralità.<br />

Bruto attraversa l’esistente, lo mette a fuoco, ma non può fare a<br />

meno di tradurlo in segni. Il suo gesto ha la fatalità della scrittura,<br />

rifà il vocabolario delle cose. In questa metamorfosi scritturale è<br />

da vedere una delle costanti del lavoro di Licini, fin dai primi anni.<br />

La materia, il terrestre, ricostituiti nella forma dell’emblema e<br />

della metafora. Una traccia d’orizzonte è sempre visibile nelle<br />

Amalassunte e nei Missili lunari: ed è confine talora eccitato dal<br />

taglio della diagonale o dalla M di due seni culminanti.<br />

Se v’è un tema negativo, questo è sicuramente l’opacità del


mondo di cui la pittura può farsi complice. Qui esplode l’intemperanza<br />

di Licini, anche a rischio di un’ingiustizia. È il caso, per<br />

esempio, di un suo giudizio sul lavoro di Morandi alla fine del<br />

Trenta, di Morandi che pure aveva percorso un itinerario parallelo<br />

nella stagione futurista e in quella immediatamente successiva.<br />

Orrore delle nebbie, dei colori cinerei, dell’offuscamento, si<br />

direbbe: “Cos’è questo velo, questo tedio, che Morandi mette davanti<br />

ai quadri? (...) Osservando a fondo mi accorgo che le tanto<br />

celebrate sottigliezze e raffinatezze coloristiche e tonali non sono<br />

che delle superficiali, sorde e scolorite poltigliette,” eccetera15 .<br />

La paura della gravità attizza il movimento contrario: l’amore per<br />

il motto di spirito e le virtù dell’equilibrista. Non si tratta però di<br />

un dinamismo fine a se stesso o di biomeccanica spettacolarità.<br />

O. Licini, Notturno, 1954, olio su cartone, cm 32,5x23.<br />

432<br />

Internamente vi agisce il sentimento della perdita: una perdita<br />

che riguarda soprattutto la Natura, le sorgenti del divenire.<br />

Che significa la tematica del drago e, strettamente allacciata a<br />

questa, la costellazione volante dei castelli in aria, degli aquiloni<br />

e dei sagittari? Perchè la solidarietà fra addentare e volare?<br />

Come può l’Olandese solcare acque celesti? L’inabissamento, il<br />

motivo della discesa, cui il simbolismo del drago rinvia (ma il<br />

drago è anche un emblema del tempo circolare, del serpente),<br />

attiva già il tragitto rigenerativo: è la prima tappa del riconoscimento<br />

raggiunta dall’eroe. Solo dopo aver attinto alle radici<br />

dell’“essere”, dopo essersi per così dire rifatto nel ventre materno,<br />

può tentare la risalita. Questa la peripezia. Ma prima di essa,<br />

come si diceva, il dramma.


Non è certo senza motivo se la data di inizio della più intima ricerca<br />

liciniana coincide con l’apparizione dell’arcangelo folgorato,<br />

di un nunzio (Gabriele e non un altro) precipitato in un paesaggio<br />

apocalittico (1919, ma il quadro viene ripreso nel biennio<br />

’28-’30). La figura scomparirà per alcuni decenni, sostituita da<br />

tutta una catena di immagini intermedie (l’ala, il triangolo, la T,<br />

ecc.) e anche da cifre e lettere mutilate, per lo più appartenenti<br />

al regime notturno, e dunque connesse ad un processo di gestazione,<br />

per riemergere soltanto nel secondo dopoguerra; ed in<br />

accezione gloriosa con gli angeli di Santa Rosa e di San Domingo.<br />

Ma quel che importa, ai fini del nostro discorso, è che questa<br />

rinascita fa tutt’uno, nella ‘fabula’ del pittore, con la redenzione<br />

della materia, con l’ascesa dell’elemento terrestre.<br />

O. Licini, Fiore fantastico n. 2, 1957, olio su carta, cm 19,5x26..<br />

433<br />

L’infero si tramuta nell’angelico o, per dir meglio, prende forma<br />

un’entità doppia, un corpo insieme ctonio e spirituale: erede di<br />

tutta una stirpe di presenze umbratili, di traghettatori d’anime e<br />

mercuriali Pierrot.<br />

Se nella fase astratta Licini lavora con maggior accanimento sui<br />

problemi di struttura, occorre ricondurre la sua indagine anche<br />

ad una contemporanea investigazione delle “radici” (rivelatrici in<br />

questo senso, fra 1936-’37, le Archipitture, cui seguiranno di lì a<br />

poco le Memorie d’oltretomba) e tener conto infine di dove vada<br />

a confluire, nel secondo grande periodo di "silenzio" (1940-’45),<br />

la sua scienza compositiva.<br />

Il documento illuminante è la lettera a Ciliberti del 194116 , dove<br />

l’immagine goethiana delle “madri” implica la regione dell’ar-


ché, lo scrigno delle memorie sepolte e dei tesori dimenticati.<br />

Memoria, questa, funzionante almeno in due sensi: come mitica<br />

immersione nel principio femminile e come riscoperta della<br />

scrittura, di un alfabeto primo del reale.<br />

La svolta potrebbe parere improvvisa, ma non lo è, se non nei<br />

termini di una rinnovata accensione. Alle spalle sta la preistoria<br />

di Licini (anche il “cuore” e la “merda” di Bruto), così come premono<br />

i refusés, i quadri del cosiddetto periodo “realista”, le<br />

opere fatte sul “vero” che erano state accantonate a conclusione<br />

del secondo decennio di lavoro; opere che non solo contenevano<br />

in germe i segni futuri (nei nudi, nel citatissimo capro o<br />

nelle mappe di certe nature morte e paesaggi, come “La ruota”),<br />

ma scavavano nei medesimi “sogni”, dentro il circuito di un naturale,<br />

investigato allora con i criteri della somiglianza.<br />

L’ispirazione è difatti antinaturalistica e non antinaturale, vuol<br />

cogliere sempre il sostrato delle immagini. Non si comprenderebbe<br />

altrimenti l’elogio riservato ai pittori dell’espressione e<br />

della forza, ai “costruttori”: a Courbet, Van Gogh, Cézanne e Picasso,<br />

nonostante l’estrema lontananza dalle loro risoluzioni formali<br />

più evidenti. Resta poi sempre e in ogni caso Matisse, vale<br />

a dire la coincidenza fra espressione e decorazione (ben al di là<br />

dei Loos e dei Van de Velde), la chiave di volta del suo progetto<br />

linguistico.<br />

“Vuol sapere Carrà chi furono i miei veri maestri? Glieli dico subito,<br />

ma Lei lo sa già perfettamente: Cézanne, Van Gogh, Matisse.<br />

I maestri di Morandi sono: Chardin, Corot, Cézanne” 17 . Tutto<br />

ciò ribadito in piena ricerca astratta, oltre le frontiere del purovisibilismo.<br />

Ora, giacché l’immaginazione tende a spostarsi dall’ordine sensibile<br />

al dominio dell’invisibile, dalle forme dell’apparenza alle<br />

forze permanenti che le generano, la grammatica della pittura<br />

non potrà che avvalersi di tipologie universali, capaci di attraversare<br />

l’orizzontalità del presente per attingere un più alto spessore<br />

simbolico; o anche: riscattare il fenomeno nella prospettiva<br />

del sovrapersonale e del tipico, animando le materie pesanti di<br />

un respiro e di un ritmo “cosmici”. Ecco perché le figure nuove,<br />

i loro gesti e i loro volti (dai primi personaggi agli angeli), hanno<br />

densità psichica mentre sono privi di caratterizzazione sentimentale.<br />

I visi duri come idoli mettono a morte la fisiognomica<br />

dei caratteri e simpatizzano invece con la recitazione ed il rac-<br />

434<br />

conto impersonali.<br />

Talora l’orizzonte ironico di una imprecazione, trasfigurata nel<br />

calligramma araldico dei portafortuna, indica la soglia da cui si<br />

accede alla irrealtà. Prelevate da Rimbaud o da Jarry, le lettere<br />

di MERDA disegnano la griglia prospettica, anzi il parapetto, dell’osservatore<br />

sospeso. E mentre esorcizzano la gravità del quotidiano,<br />

inaugurano le avventure aeree di inedite combinazioni alfabetiche.<br />

Nella dissoluzione delle gerarchie visive (e mentali) che questo<br />

processo comporta, è soprattutto la metafora a svolgere un ruolo<br />

centrale. Frantuma e riconiuga tessere figurali. Disloca, taglia e<br />

condensa.<br />

Intanto, insieme al funzionamento rigenerativo della sineddoche<br />

(non tutto il corpo, ma un frammento intensivo), è in atto la redenzione<br />

del principio notturno. Il rito inaugurale è celebrato<br />

dagli olandesi, dopo i quali emergono gli emblemi e i ritmi reversibili<br />

del capitolo amalassuntiano. Nelle invenzioni sintetiche<br />

che vengono alla luce si condensano energie di specie contraria,<br />

come nell’immagine errante/erotica del piede che si prolunga in<br />

una mano.<br />

Laddove i “fantasmi ebbri di energia”, operanti nella Parigi di<br />

Tzara e Breton, innescavano movimenti dissociativi e centrifughi,<br />

qui la dislocazione delle forme è investita da una controforza<br />

coagulante, riassimilativa. Le fasi del tempo si aprono e chiudono,<br />

continuano a pulsare nel giro dei ciclici ritorni. Si consideri,<br />

per sostare su un esempio, la frase ritmica della pupilla di Amalassunta,<br />

il moto dei suoi numeri ermetici: lo sguardo non solo<br />

ruota nel chiasmo calante-crescente delle stazioni lunari (6, 9, 3<br />

ecc.), ma si carica e dilata nella ripetizione di identiche cifre. Un<br />

modo ulteriore, anche questo, di far valere un’indicazione stilistica<br />

dell’arte prerinascimentale: la crescita di radianza per<br />

mezzo di iterate battute ritmiche ornamentali.<br />

Come la riduzione dell’immagine ad alcuni elementi nucleari<br />

crea una più alta concentrazione e accresce il desiderio di ciò che<br />

viene taciuto (basta una lettera, la Q, per suggerire un corpo),<br />

allo stesso modo il tracciato di un movimento appare più acuto<br />

quand’ è abbreviato o sospeso in uno stato d’attesa. È la tecnica<br />

dell’eccitazione fissata. Il racconto costruito sulla virtualità degli<br />

spostamenti propone una infinita erranza. Ed il viaggio, grazie<br />

alle cadenze ritmiche delle figure e alle astrazioni gestuali, ha


spesso l’andamento della danza: una danza affatto speciale, poiché<br />

non v’è tanto un corpo che dia spettacolo nello spazio quanto<br />

una molteplicità di luoghi animati, sia in quel corpo che in<br />

quello spazio. Non si tratta neppure di una coreografia che respira<br />

all’unisono: alla mobilità di un elemento può corrispondere<br />

infatti la ieratica (ed orfica) immobilità di un altro, alla chioma<br />

volante di una luna il silenzio d’una mano aperta nella quale<br />

è esposto, come su una tavola, il sigillo di un cuore. Positure non<br />

imitative, ma immaginative: assorbite nei campi dell’astrazione<br />

e del tipico18 . Se tutto ciò è vero, i fiori fantastici e i missili lunari<br />

non rappresentano delle entità futuribili né sono annunci di un<br />

avvenire meccanico. Condensano invece dei soffi di vita e sono<br />

trasfigurazioni dell’organico.<br />

O. Licini, Missile lunare, 1958, olio su carta, cm 22x28,5.<br />

435<br />

Ai percorsi erratici dell’Incostante (1933) il Missile (dal 1953c. in<br />

poi) sostituisce tragitti più lineari e fulminanti; costruisce edifici<br />

diamantini. Il movimento si riduce davvero ad un istante, sospende<br />

perfino la circolazione del tempo universale radunando<br />

tutte le epoche in un punto. Per usare le parole di Benjamin, potremmo<br />

dire che la pittura “si tiene immobile sulla soglia del<br />

tempo”. È l’ora messianica preparata dalle scritture ermetiche e<br />

riassunta nella figura della triangolarità (Notturno n. 2, Alba,<br />

Estasi del 1956; Ritmo (missili-marina) del 1957-58).<br />

La parola di Licini aiuta ad intuire: “Tutta la vita / che almeno la<br />

morte / non sia menzognera”.<br />

Sarà perciò lecito, col sostegno di questa parola, suggerire un<br />

percorso mitografico, vedere nelle stazioni stilistiche delle varie


“epoche” (e nei silenzi in cui venivano preparate) le tappe di un<br />

pensiero della rinascita: originale ma significativamente parallelo<br />

agli itinerari di altri solitari. Non è un caso che anche altrove<br />

il ritorno ai princìpi sia inteso come riattivazione del mito e faccia<br />

propria la segretezza di Hermes, la “sapienza” dei numeri e<br />

delle lettere; e che, come in Licini, si attraversi il tema dell’Assunzione19<br />

: tema riproposto in area surrealista, ma di sostenuta<br />

ascendenza romantica (con Nerval, ad esempio). Conosciamo le<br />

ragioni di questo pensiero e del suo controdiscorso, volto a rifare<br />

il linguaggio vivo della creazione, il suo essere obliato: enigmatico<br />

e scintillante, come l’ha descritto Foucault, entro una dispersione<br />

infinita. Questa “insopprimibile metafisica” resiste in<br />

Licini.<br />

Ma è, ancora una volta, metafisica eterodossa, priva di un codice<br />

iniziatico costante (se pure di iniziatico in senso stretto si<br />

possa parlare), e costruita, stando ai documenti finora indagati,<br />

con mobilissima virtù eclettica. Una sorgente primaria è semmai<br />

da vedere nella letteratura ed in ispecie nella poesia, lontano dai<br />

prestiti felici della réverie. Concludiamo perciò con l’elogio di<br />

Maldoror. “Arithmétique! algèbre! géometrie! (...) celui qui vous<br />

connait, ne veut plus rien des biens de la terre; ne désire plus<br />

que de s’élever, d’un volléger, en construisant une hélice ascendante,<br />

vers la voute sphérique des cieux ».<br />

1. G. Marchiori, Licini - con 21 lettere inedite del pittore, De Luca, Roma, 1960;<br />

vedi inoltre A. Sartoris, Licini archipittore, in "Origini", Roma, n. 5-6, 1941.<br />

2. Per l’analisi complessiva dell’astrattismo italiano si rinvia a P. Fossati, L’immagine<br />

sospesa – Pittura e scultura astratte in Italia 1934-1940, Einaudi, Torino,<br />

1971. Da vedere anche il catalogo Arte astratta italiana 1909-1959, Galleria Nazionale<br />

d’Arte Moderna, Roma, aprile-maggio 1980, con interventi di Giovanna<br />

De Feo (per A. Burri e G. Capogrossi), Ida Panicelli (G. Turcato e L. Fontana), Livia<br />

Velani (G. Balla, A. Magnelli, E. Prampolini) e Pia Vivarelli (O. Licini e A. Soldati).<br />

3. Sul rapporto Licini e la cultura italiana del primo dopoguerra cfr. il catalogo Letteratura-Arte.<br />

Miti del ’900, a c. di Zeno Birolli, Edizioni Padiglione d’Arte Contemporanea<br />

di Milano e Idea Editions, Milano, 1979. Un cenno anche nel recente<br />

catalogo La Metafisica: gli anni Venti, a c. di R. Barilli e F. Solmi, (Pittura e scultura),<br />

Bologna, 1980.<br />

4. C. Belli, Kn, Edizioni del Milione, Milano, 1935 (n.ed. con un avviso dell’autore<br />

e due lettere inedite di Kandinksij su "Kn", Scheiwiller, Milano, 1972). Di C. Belli<br />

é uscita anche, nel 1978, la Lettera sulla nascita dell’astrattismo italiano per i tipi<br />

di Scheiwiller.<br />

5. Lettera aperta al Milione, comparsa sul n. 39 del "Bollettino del Milione", Milano,<br />

1935. Cfr. O. Licini, Errante erotico eretico - Gli scritti letterari e tutte le lettere,<br />

a c. di G. Baratta, F. <strong>Bartoli</strong> e Z. Birolli, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 99 e 194.<br />

Per i cataloghi delle opere ci limitiamo a tre indicazioni essenziali: Osvaldo Licini,<br />

a c. di Z. Birolli e A. Passoni; Giuseppe Marchiori, I cieli segreti di Osvaldo Licini,<br />

con catalogo generale delle opere, Alfieri, Venezia, 1968; Osvaldo Licini, Mu-<br />

436<br />

seum am Ostwal. Dortmund, 1974.<br />

6. "Come gli affreschi di Santa Maria Antiqua, considerati un termine di confronto<br />

assoluto, altre pitture assumevano talora per lui un’importanza decisiva, quasi<br />

una ragione di essere o di non essere. Una di queste era: "Le nozze di San <strong>Francesco</strong><br />

con la povertà", del Sassetta, nel castello di Chantilly. Licini non ammetteva<br />

indugi. Durante la visita al castello (...) voleva correre immediatamente alla<br />

Tribuna, dove si trova l’opera del Sassetta. (…) Finalmente, arrivato davanti all’amato<br />

Sassetta, Licini si abbandonava all’ammirazione, mentre custode e turisti<br />

erano già in un’altra stanza, indignati di quel rumoroso entusiasmo. Licini non voleva<br />

più andarsene. E ci volle del bello e del buono per deciderlo ad allontanarsi<br />

dall’oggetto della sua fervida e intensa contemplazione. Chantilly s’identificava,<br />

per lui, col Sassetta" (G. Marchiori, Licini - con 21 lettere inedite del pittore,<br />

op. cit., p. 14).<br />

7. O. Licini, op. cit., p. 99.<br />

8. Sul motivo della memoria e sulle forme del tempo nell’opera di Licini, v. lo<br />

scritto di Zeno Birolli, Storia e temporalità circolare, in O. Licini, op. cit., pp. 11-<br />

31. Per quanto riguarda i temi legati all’immaginario ‘notturno’ e i procedimenti<br />

retorici, rinvio ai saggi contenuti in quel volume, che costituisce il punto d’avvio<br />

di questo intervento.<br />

9. Il motivo ermeneutico é presente nella parte finale della lettera a Franco Ciliberti<br />

(1° febbraio 1941, in O. Licini, op. cit., p. 161).<br />

10. L. Venturi, Il gusto dei primitivi, Bologna, 1926 (n.ed., Einaudi, Torino, 1972,<br />

con prefazione di G.C. Argan). Cfr. anche: R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero<br />

medievale, Il Saggiatore, Milano. 1961.<br />

11. Ricordo di Modigliani, in O. Licini. op. cit.. p. 91.<br />

12. H. Matisse. Scritti e pensieri sull’arte. Raccolti e annotati da D. Fourcade. Einaudi,<br />

Torino, 1979, p. 6.<br />

13. Cfr., oltre alle celebri pagine di Klee, G. Agamben, Stanze - La parola e il fantasma<br />

nella cultura occidentale, Einaudi, Torino, 1977, pp. 54-70.<br />

14. O. Licini, op. cit., p. 205.<br />

15. Lettera a G. Marchiori, 3 marzo 1939 (O. Licini, op. cit., p.142).<br />

16. La riportiamo per intero: "Ti scrivo dalle viscere della terra, la «regione delle<br />

Madri» forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori immateriali,<br />

non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano. In<br />

questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io cercherò di recuperare<br />

il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo. Perciò estinzione<br />

del contingente, per ora. Voi non mi vedrete cosi presto a Milano, né con la<br />

spada, né con le larve, né con gli emblemi. Cessato il pericolo, non dubitate, riapparirò<br />

alla superficie con la «diafanità sovressenziale» e «senza ombra». Solo allora<br />

potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e<br />

scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua scienza<br />

potrai decifrare. Quella sarà la nostra ora" (O. Licini, op. cit., p. 161).<br />

17. Correzioni a Carrà, in "Bollettino del Milione", n. 41, Milano, 1935 (O. Licini,<br />

op. cit., p. 100).<br />

18. Per il primato del principio immaginativo nella danza orientale, a cui molte<br />

figure liciniane fanno pensare, cfr. C. Sachs. Storia della danza, prefazione di D.<br />

Carpitella, Il Saggiatore, Milano, 1966, specialmente alle pp. 250 e 55.; N. Savarese,<br />

Il teatro al di là del mare, Studio Forma, Torino, 1980, ai capp. L’attore, La<br />

danza, Il rito, con particolare riferimento ai saggi ivi contenuti di Barrault, Claudel,<br />

Barba, Jung e Mejerchol’d. Un principio analogo guida anche la definizione<br />

del movimento nella pittura bizantina.<br />

19. L’analisi iconologica del tema in M. Calvesi, Duchamp invisibile - La costruzione<br />

del simbolo, Officina Edizioni, Roma, 1975, passim.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Osvaldo Licini”, tenutasi presso la<br />

Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 19 ottobre-14<br />

dicembre 1980.


La natura, la iena e l’equilibrista<br />

Osvaldo Licini (1)<br />

Post-romantico e non anti-romantico, nemico della psicologia e<br />

non del sentimento, Licini crede, a differenza di Carlo Belli, nella<br />

vitalità dell’Ottocento, di un suo Ottocento ermetico e sulfureo.<br />

Ci crede assumendo la prospettiva dello sguardo postumo, con<br />

occhi appena disincantati e con autoironica affezione. Leopardi,<br />

in un suo disegno, volta le spalle alla luna e fuma un sigaro. In<br />

un altro due lune orbitano dietro il cilindro. Ma l’ironia non cancella<br />

il senso; lo prolunga invece o lo rende, per così dire, ancor<br />

più vibrante, poiché è Leopardi-Licini che fuma ed il luogo del<br />

pensiero rimane sempre lo stesso.<br />

Il tempo minato dalla colpa, il secolo della décadence e dei tramonti,<br />

ospita per il pittore presagi di incominciamento, luci di<br />

aurore. Si configura spesso come l’alba di un mondo in cui «il solitario»<br />

sta alla periferia dell’universo, su un orlo da cui si interroga<br />

e dubita. Anche la geografia pittorica è ricca di nuovi indizi.<br />

Perciò l’errante non esita, lui che pure inveisce contro il «banale,<br />

lurido naturalismo» e contro l’accademia impressionista<br />

degli anni Trenta, ad indicare in Gustave Courbet uno dei suoi<br />

maestri. E Courbet, lo sappiamo, è stato un inizio per Duchamp:<br />

il Courbet di Sar Péladan, non di Prudhomme. Così il cubismo, in<br />

questa dottrina degli inizi, non è la fondazione di un sistema<br />

quanto l’avvio di una interrogazione.<br />

Il fatto è che tra l’assolutismo di Kn e l’irrealismo liciniano, nonostante<br />

la stretta convergenza di proposizioni polemiche e negative,<br />

passa una differenza capitale intorno ad un tema che riconduce<br />

al Romanticismo: questo tema è la Natura, la materia.<br />

Mentre per il rosminiano-platonizzante Belli la dissociazione fra<br />

natura ed arte va posta in modo irrevocabile (“l’arte è fuori della<br />

natura”; “l’arte è tutta astrazione e niente materia: la vita è tutta<br />

materia e niente astrazione”), la pronuncia di Licini batte invece<br />

sulla coniunctio, sui legami segreti, sul come della somiglianza.<br />

Convergenza e dissenso su cui interviene, da un diverso orizzonte,<br />

anche Kandinsky. Tacere sulla Natura, non dimenticarla:<br />

ecco una persuasione costante. Stare nel circuito vitale e, al<br />

tempo stesso, oltrepassare il codice della imitazione. Il tuffo<br />

nella vita e il ritorno alle «sorgenti» sono essenziali per l’artista.<br />

Ed è, la sua, bisogna aggiungere, un’immersione da attuare in si-<br />

437<br />

lenzio, invocando riti di lontananza e di segretezza, giacché sulla<br />

Natura occorre essere reticenti. Non a caso, nel ’37, in piena fase<br />

astratta, lo sentiamo dichiararsi a favore di una equivalenza e<br />

sostenere che l’arte è, come tutte le cose della natura, «enigmatica,<br />

menzognera, bella ma con frode». Di lì a poco (è ben<br />

noto), potrà scrivere dalle «viscere della terra», tentare le porte<br />

della Notte, agitare la grande lettera, la M, per ri-scrivere il<br />

mondo. I quadri sono «macchine infernali», non solo e non tanto<br />

nel senso esplicito del sarcasmo e dell’invettiva, ma proprio in<br />

quello - mitico - di uno sprofondamento nelle regioni infere del<br />

«suo» Holderlin, dell’aorgico.<br />

La materia resta il sottosuolo imparlabile ma necessario, un’energia<br />

da superare e da far vibrare fantasmaticamente puntando<br />

sulle forze «misteriose» della menzogna, e cioè sul cambiamento<br />

e sulla metamorfosi. Ma una cosa è la vita come sorgente,<br />

un’altra la natura impietrata e umanizzata, poiché l’uomo, cosi<br />

com’è, ha perduto la chiave del ritmo e della musica. «Dimostreremo<br />

che la geometria può diventare (...) una poesia più interessante<br />

della faccia dell’uomo». Il volto umano s’è difatti inaridito<br />

e, psicologizzandosi, ha perduto la sacralità della «vera vita».<br />

Ritorna qui, ci sembra, in questo spostamento di interesse dall’immagine<br />

del volto ai ritmi dell’astratto (ma l’astratto convoca,<br />

si badi, un bestiario fantastico), quel motivo cardinale che sta<br />

sotteso al progetto di disumanizzazione di tanta parte dell’arte<br />

contemporanea, a quel progetto che, a cominciare dai romantici,<br />

da Kleist per esempio, vuol essere rottura del senso e disarticolazione<br />

dell’inanimato. Non per nulla Licini chiama in causa, più<br />

volte, autori «petrosi» come Rimbaud, Lautréamont o Reverdy.<br />

Ma l’opzione astratta, ci si chiede, sposta definitivamente quell’interesse<br />

in nome della «decorazione» o è una trappola sottile<br />

per ingannare-sedurre il lettore? Licini non si pronuncia, sospende<br />

il problema mentre dialoga con gli ‘amici’ del Milione. Di<br />

fatto, però, l’aniconismo accoglie ‘impurità’ mitiche e opera infine<br />

con una tensione rigenerativa: che è un modo per far passare,<br />

attraverso il formalismo, una diversa nozione di purezza.<br />

L’astratto tende a «forgiare» (il verbo è caro a Licini) qualcos’altro,<br />

un volto che è altro, ad energetizzare corpi ed immagini: un<br />

volto e un corpo di cui intanto si sondano le energie, i movimenti<br />

«impossibili», le attitudini oltre e più che umane.<br />

Prima di continuare in una simile inchiesta, conviene ritornare al


punto di partenza e domandarci di che natura sia il romanticismo<br />

‘postumo’ dell’artista, quali figure del sentimento metta in<br />

campo. Una prima, non ardua difficoltà è costituita da affermazioni<br />

che suonano perentoriamente negative (e in un certo contesto<br />

lo sono senz’altro), tali da liquidare la questione.<br />

«Siamo astrattisti - sostiene l’autore - perché riteniamo che classicismo,<br />

romanticismo, realismo ecc. siano cieli chiusi ed è ozioso<br />

ritornarci sopra». Anche le voci e gli emblemi canonici del<br />

mal du siècle, incontrano sorte analoga. Vengono sbeffeggiati,<br />

imbastarditi, sconvolti: l’amore, il cuore, la poesia: «"Poeta del<br />

cazzo", scrisse una volta Palazzeschi non so più dove. Che significa<br />

tutto questo? Che la poesia è finita, è morta».<br />

Assistiamo ad un processo di desublimazione, allo scompigliamento<br />

dei ruoli. Se il cuore finisce, nelle storie di Bruto, in una<br />

latrina, nondimeno continua a mostrarsi, a dar spettacolo, mentre<br />

al suo posto si assesta, come si sa, la riflessione sul cuore,<br />

anzi la riflessione costruttiva tout court, l’intenzionalità retorica:<br />

il «cervello». L’inversione fa sì che la pittura, nell’assumere abito<br />

cartesiano, inventari protocolli rigorosamente asemantici, almeno<br />

ufficialmente (“quadri che non rappresentino nulla”). Ma la<br />

poetica dice troppo poco, in questo caso, sulla pittura, poiché nel<br />

bandire l’inganno del sogno non aggiunge che lo sguardo resta<br />

ancora lautréamontianamente aperto, ferocemente spalancato<br />

sul cuore. Tanta la paura dello spossessamento ipnotico.<br />

Il ‘cervello’ di Licini è tutt’altro che perduto nei candidi cieli platonici<br />

(in senso cattolico e rosminiano, beninteso). Erige geometrie<br />

aggressive, ribalta «i piani dell’essere» e, nutrendosi di sensi<br />

corporei, li richiama continuamente alla fatica dello scontro e<br />

della riunificazione.<br />

Termini e titoli quali addentare o assaggiare, geometrie aguzze<br />

e taglienti, definiscono il campo di una sfida in cui la gravità vien<br />

costretta a purificarsi, a pronunciarsi sul registro d’un principio opposto.<br />

Talora, quando Licini vuol definire l’artista, ricorre alla nomenclatura<br />

del bestiario e gioca sull’allitterazione anima/animalità.<br />

Rovescia e confonde. «Fatta la debita proporzione - egli dichiara<br />

- risulta che l’uomo è una buona iena con tendenza alla<br />

poesia». Lautréamont, con evidenza. A lui si deve l’epiteto iena<br />

per i poeti, per Maldoror e sé medesimo: si vous croyez apercevoir<br />

quelque marque de douleur ou de crainte sur mon visage<br />

d’hyène (...) soyez détrompé. C’è da precisare però che in Licini<br />

438<br />

la iena aggredisce apertamente se stessa, l’immagine propria:<br />

«Seguiterò a fare e a disfare, e a divorare - preferibilmente me<br />

stesso - per conservarmi degno di te» (in una lettera a Sartoris<br />

del ’41).<br />

Tuttavia questa ‘iena’ è talvolta smemorata, non sa resistere agli<br />

incanti di primo grado della natura, all’infinito musicale degli<br />

elementi. Anche la materia, in certi momenti, sa cantare da sola.<br />

Nel Nord, da cui Licini scrive nel ’31, in un anno cioè insospettabile<br />

di empatie naturalistiche, egli si lascia travolgere dalla seduzione<br />

del paesaggio. L’istrione, come egli ammette, è Wagner:<br />

«A 800 metri sul livello del mare, in vascello, sopra i monti,<br />

le immense mitologiche selve sotto i piedi, cieli capovolti nelle<br />

acque, solo a bordo, la luna fra le nuvole come una pazza! Dove<br />

eri tu? Ti saresti lasciato prendere come me dalla gran rete romantica?<br />

Re Nibelungici apparvero; tutto il corteo di principesse<br />

della favola: a suon di corni, Wagner attaccò la grande orchestra.<br />

Questo ho provato» (lettera da Goteborg, ottobre 1931). E all’amico<br />

Acruto: «Ma la cosa più bella, tu sai che sono i tramonti.<br />

Non finiscono mai. Sono ore pericolosissime per i sensi. Miraggio,<br />

incantesimo, poesia e... canto». Ai labirinti di pietra e di<br />

mare della Svezia si associa poi un’altra ‘allucinazione’, questa<br />

volta pittorica: ad innescare la molla dell’incanto è «la luce che<br />

viene dalle stelle» di Rembrandt, il «Veronese nero», come lo<br />

chiama Licini per stringere in un ossimoro due tensioni antagoniste<br />

della tradizione pittorica. Cadono in quegli stessi anni pochi<br />

versi sulla notte (la Fuggitiva), frammenti faticosi e più volte riscritti<br />

in cui è dato cogliere una crescente intimità nell’oscillazione<br />

pronominale delle varianti, sintatticamente irrisolte, dalla<br />

terza alla seconda persona: «Sulla pietra mi sono disteso / io e<br />

la mia notte amica / Nuda nel suo mistero / avvinta a me sarai»<br />

(var. «sarà»).<br />

È vero che simili trasporti, specie nelle lettere, sono immediatamente<br />

rintuzzati da un giro di frase scherzoso, da un epiteto burlesco<br />

e sdrammatizzante (per es.: «A Stoccolma ho incontrato un<br />

altro romanticone: Bruno Barilli»), ma, a guardar bene, espressioni<br />

di questo genere, servono al gioco delle reticenze: mettono<br />

tra parentesi l’oggetto del discorso piuttosto che negarlo. Del<br />

resto quando Licini deve indicare le matrici della sua prima fase<br />

pittorica, fa tre nomi precisi: Cézanne, Van Gogh e Matisse.<br />

E su quest’ultimo insiste particolarmente, dichiarando d’essere


stato, nei primissimi anni, lui stesso fauve.<br />

Al di là delle differenze morfologiche più che evidenti, è il loro<br />

vitalismo mitico ad attrarlo. Senza l’abbraccio della mater-materia<br />

il pittore è impotente. Anche Picasso, nella lettura che ne fa<br />

Licini, è iniziato a quel dèmone.<br />

«Solo con lentezza giunsi a scoprire - aveva confessato Matisse<br />

- il segreto della mia arte. Consiste nel meditare in contatto con<br />

la natura, per esprimere un sogno sempre ispirato alla realtà».<br />

Ed ancora: «avere in me il modello», «rispettare la grandezza e<br />

il carattere sacro di ogni cosa vivente».<br />

Potremmo accumulare altri riscontri ed addentrarci nella fitta<br />

rete dei riverberi matissiani sul pensiero (e sull’opera) del pittore<br />

delle Marche. I punti di contatto nonché stretti appaiono continui<br />

nel tempo: basterebbe richiamare, ad esempio, il legame<br />

fra decorazione e ‘sentimento’ per darne conto sufficiente; oppure<br />

insistere sulla funzione ‘rasserenante’ del quadro, sulla richiesta<br />

fatta al lettore di un punto di vista estatico, senza-tempo;<br />

ed ancora sottolineare il predominio accordato alle procedure<br />

asimmetriche, alla costruzione dell’immagine per via di rimandi<br />

interni e rifrazioni lineari a partire da un nucleo generatore. Potrebbe<br />

essere registrata inoltre una serie di sintonie, più che di<br />

prestiti, intorno a cui si istituisce una certa idea comune di orfismo,<br />

non ultima quella di produrre uno slancio di immensità in<br />

uno spazio minimo ed araldico.<br />

Tuttavia il riferimento a Matisse, al pittore che si diceva votato<br />

alle altezze (“La verticale è nel mio spirito”), ha qui uno scopo<br />

più limitato. Serve a cogliere un nodo, o se si vuole un luogo di<br />

passaggio, nella formulazione della tesi che la Natura è un momento<br />

insostituibile del fatto pittorico.<br />

Da quel che si è detto, dovrebbe risultare chiaro che la Natura è<br />

intesa come principio cosmogonico, energia e chora scatenata,<br />

eros allo stato puro.<br />

In lei ci si perde, ma con lei ci si unisce anche, in un abbraccio<br />

che è possesso continuamente invocato e perduto. V’è infatti<br />

nella peripezia mitografica di Licini un doppio stazionamento<br />

prima dell’ “esperienza ultima”: quello scandito nelle tappe della<br />

fusione sognata e del risveglio, della Notte e dell’Alba. Lo si<br />

vede, per esempio, nelle sue poesie, in cui l’aurora viene a dissolvere<br />

l’ora visionaria: “un sogno breve / o Fuggitiva addio / La<br />

nostra alba un grido / la sua cima ai falchi”.<br />

439<br />

Ora proprio questo sentimento di un’attesa che potrà sfociare<br />

nella pienezza della rivelazione, benché il tempo della veglia<br />

non conceda di cogliere che sparsi sintomi e frammenti della totalità,<br />

accompagna il tragitto della pittura liciniana. Non solo: a<br />

caratterizzare un simile percorso, a dargli il suo senso proprio, la<br />

sua speciale inflessione tematica, interviene il tòpos del messaggero,<br />

dell’angelo. Il motivo apre e chiude l’avventura più documentata<br />

dell’autore: dall’Angelo Gabriele del 1919 all’Angelo<br />

di S. Domingo del 1957. Esso incontra una serie di metamorfosi,<br />

di formulazioni successive, che non s’arresta certo negli anni dell’opzione<br />

astratta per quanto si travesta sotto forme quasi irriconoscibili,<br />

fino alla riemersione del dopoguerra. Si tratta, siamo<br />

tentati di dire, di un processo di gestazione vera e propria, non<br />

solo formale ma figurale, poiché convoca e mette in agitazione<br />

tutto un archivio di emblemi della discesa, dell’inghiottimento e<br />

della fecondazione: il serpente e il drago, l’ala dentata, la bocca,<br />

i1 mulino a vento, l’ade, il sottosuolo e così via.<br />

Emblemi e metafore di valore plurimo, sempre ricondotte alla<br />

vertigine dell’errare (volo, navigazione celeste, ascesa, circolarità),<br />

dell’equilibrio alogico e del non finito: figure quindi complesse,<br />

antifrastiche, fluide, dove l’elemento satanico-tellurico<br />

non viene perimetrato in se stesso, ma coniugato e posto in frizione<br />

con tema “superiore”; temprato, anzi “garantito”, come<br />

scrive l’autore, in oro ed argento. Da qui deriva il necessario<br />

splendore della geometria: che è sapienza iniziatica al “volto misterioso<br />

della bellezza”, non scienza. Eccesso decorativo appunto.<br />

Prismi e fiori di luce sbocceranno sui fondi neri, insieme e<br />

dopo le Amalassunte. Come in Novalis e Nerval, le cavità ctonie<br />

e le viscere del drago rinchiudono segreti di fuoco. Sono fucine<br />

di talismani.<br />

Quel che sorprende, ogni volta che ci si trova a sfogliare le tavole<br />

liciniane, è l’assenza di una «tradizione» privilegiata di riferimento,<br />

di un codice vincolante. Vi traspare un pensiero in crescita,<br />

aperto alle suggestioni più varie, ricchissimo, multiplo, ma<br />

eclettico nelle matrici. Mentre in altri autori ‘ermetici’ è pur possibile<br />

scoprire le tracce di una dottrina dominante, qui vengono<br />

ad incrociarsi - quasi sicuramente - tessere provenienti da tradizioni<br />

diverse, frammenti che di volta in volta, per via traversa ed<br />

in modo quasi irrelato, richiamano l’iconografia astrologica, cabalistica<br />

o pitagorica. Lo stesso cammino biografico del pittore,


così caratterizzato dalla solitudine e dall’isolamento, presenta<br />

uno strato segreto cui è assai difficile accedere.<br />

Resta fertile invece il terreno letterario, cioè quel registro di risonanza<br />

entro cui Licini muove le figure; ed in cui prende corpo<br />

non tanto il segno pittorico, com’è naturale, quanto il «sogno»,<br />

la sua visione del mondo. La letteratura è per lui uno scrigno, un<br />

archivio di miti (fa sua la spleenetica sentenza di Mallarmé:<br />

hélas! et j’ai lu tous les livres), qualcosa come un itinerario della<br />

mente: un serbatoio da cui estrarre nomi, immagini verbali e mitologie:<br />

la fonte iconologica della pittura. La letteratura è insomma<br />

un repertorio enciclopedico di temi e in quanto tale viene ripercorsa<br />

come una fonte di verità inappellabili, di aforismi e di<br />

assiomi. Ciò non toglie tuttavia che alcuni suoi testi, come le pagine<br />

di Bruto, e certi sintagmi siano il risultato di un lavoro stilistico<br />

sulla parola. In questo senso amalassunta, ricalco in apparenza<br />

neutro di un nome proprio, costituisce un evento esemplare<br />

e straordinariamente intenso, ponendosi da un lato, sul<br />

versante dell’immagine, in rapporto col capitolo surrealista (ortodosso<br />

e non) delle Assunte, e richiamandosi per un altro<br />

aspetto alla stirpe verbale degli esiliati: alla famiglia di Maldoror,<br />

del Mal-aimé e di Amalécyte: Et, protégeant tout seul ma mère<br />

Amalécyte, / le ressème à ses pieds les dents du vieux dragon,<br />

grida l’Antéros delle Chimères.<br />

Sono quegli esiliati a portare profezie nel mondo manifestato, ad<br />

esibire enigmi, imponendo su di essi il silenzio. Se un’essenza<br />

dell’angelo è la lettera sacra, poiché dipende dall’esistenza di<br />

questa lettera la sua condizione di portatore e custode, di mediatore<br />

fra i diversi gradi della creazione, si capisce come la riappropriazione<br />

della lettera costituisca una delle rivendicazioni più<br />

alte del satanismo; o possa configurarsi come una prova di redenzione.<br />

Gli angeli dipinti da Licini nel ’19 mostrano un’inquietudine che<br />

è assente nelle pagine della Bibbia. Nel primo dei due quadri è<br />

raffigurato Gabriele, il nunzio maggiormente dotato di virtù ermeneutiche.<br />

Nel secondo compare un angelo privato dei suoi<br />

contrassegni celesti, in fuga e di spalle, ma col capo rivolto verso<br />

l’alto. Sullo sfondo, fra le nuvole, un disco incandescente di luce<br />

bianca allude ad un’ora topica, culminante. Anche il volto di Gabriele<br />

dà l’impressione di un moto bruscamente interrotto, di un<br />

crollo, mentre la spada puntata sul fianco sembra infliggere es-<br />

440<br />

sa stessa una ferita al suo corpo.<br />

Da dove viene questa iconografia? L’esegesi biblica attenta agli<br />

apocrifi e alla tradizione gnostica potrebbe scorgervi la raffigurazione<br />

di un rituale di veglia. Scrive infatti G. Scholem citando lo<br />

Zohar: “a mezzanotte (...) da Nord si leva un vento, e una scintilla<br />

scaturisce dalla forza del Nord, dal fuoco di Dio, che non è<br />

altro che quello della potestà del giudizio, e colpisce sotto l’ala<br />

l’arcangelo Gabriele”. La folgore inviata da Elohim dà inizio al<br />

tempo della contemplazione durante l’esilio. E di esilio, di attesa,<br />

sembra effettivamente parlare una delle due tele con l’angelo<br />

in fuga. Anche la spada è facilmente assimilabile al fuoco<br />

del dio ebraico, essendo un simbolo noto della giustizia. Tutto il<br />

resto rimane però abbastanza oscuro.<br />

Evitando di soffermarci ora su ulteriori particolari di queste tele<br />

assai complesse e tormentate (Licini tornò a considerarle fra il<br />

1928 e il ’29, ritracciando l’immagine dell’arcangelo, mutandone<br />

la posizione e l’attitudine, ma mantenendo il suo sguardo rivolto<br />

all’astro luminoso), si può azzardare l’ipotesi di una speranza<br />

di rinnovamento, di una idea di attesa che, attraverso la metafora<br />

dell’angelo, punta alla riconquista delle capacità estatiche<br />

nell’epoca del Moderno, cioè nell’età di eclissi del vivente. Di<br />

colpo, però, dopo i ripensamenti iconografici del ’28-’29, la figura<br />

esplicita dell’angelo scompare. Vi saranno metafore di secondo<br />

grado, come Uccello o ala. Soltanto a distanza di quindici anni<br />

O. Licini, Amalassunta con cravatta, 1949 (particolare).


gli olandesi volanti restituiscono tematicamente la presenza di<br />

un mediatore fra terra e cielo, fra finito e infinito, micro e macrocosmo,<br />

come ha spiegato Birolli nella sua lettura del mito dell’Olandese.<br />

Soltanto allora si assiste alla spettacolarizzazione di<br />

cifre, lettere ed oggetti magici. Di più: le materie pesanti appaiono<br />

filtrate, il Femminile assunto in una araldica estatica, l’impuro<br />

innalzato agli splendori di Amalassunta-Diana.<br />

Che cosa è accaduto nel frattempo? La fase astratta ha ospitato<br />

un’opera di rimozione?<br />

Il ‘testo’ risponde in modo negativo. Infatti un dato assolutamente<br />

lampante nell’opera di Licini è la persistenza, da un’epoca<br />

all’altra della sua pittura, di alcuni nuclei figurati, anzi di poche<br />

strutture ritmiche che crescono, si metamorfosano e creano nel<br />

Dal volume “O. Licini, errante, erotico, eretico”, appunti di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>, (particolare).<br />

441<br />

loro dispiegarsi famiglie e costellazioni solidali. La formatività in<br />

atto produce metafore consecutive ed è la sua natura ritmicagenerativa<br />

a costituire la chiave di volta della performance<br />

grammaticale.<br />

La geometria sperimenta una catena di situazioni acrobatiche<br />

sullo sfondo di fluidi campi simbolici. Nella mutabilità relativa<br />

delle scene domina la costante del funambolismo. C’è una sorta<br />

di volontà dimostrativa, a livello di segno, nel creare spettacoli<br />

antifunzionali e fantasmagorie abbacinanti. Il ‘geometra’ è<br />

anche un equilibrista che saggia il proprio dominio costruttivo e<br />

lo estende, con garbata indifferenza, su regioni molteplici. Eleva<br />

castelli in aria, architetture ascendenti e traslucide, che in realtà<br />

sono serpenti, frecce, draghi, macchine trituranti e assimilative.<br />

La linea mette alla prova capacità prensili, ribaltanti: cattura, assorbe,<br />

moltiplica, disgrega e ricostruisce. Sprigiona vitalità mercuriale,<br />

trasporta materie ed oggetti, li rende fantasmi.<br />

Si aggiunga l’intenzione esibitiva, attoriale, recitativa del ritmo.<br />

Non troviamo il funambolo come creatura, ma il tracciato dei<br />

suoi percorsi: il suo repertorio di gesti e movimenti, quel tesoro<br />

che verrà trasmesso ai personaggi della stagione successiva.<br />

Anche Bruto aveva ostentato virtù di saltimbanco. Ora, però, gli<br />

acidi corrosivi appaiono come decantati. Il paradosso assume cadenze<br />

meno fragorose e rampanti. Se gli sketch di Bruto disegnavano<br />

traiettorie rettilinee, puntute, in progresso d’accelerazione<br />

(Baratta), il movimento ha qui un respiro rotatorio e labirintico,<br />

continuo. Quando staziona, è in eccesso non in arresto,<br />

poiché contrae una tensione, implode in un moto interiore.<br />

Questa metrica, espandendosi come per eco sulla tela, crea poi<br />

delle topografie simboliche. Fa emergere alberi e croci, obelischi<br />

e ruote del tempo. La diagonale, che costituisce l’asse di molte<br />

composizioni, riunisce in sé non solo la verticale e l’orizzontale,<br />

ma il movimento rettilineo e quello rotatorio. Il funambolo si<br />

esercita sotto e sopra la corda, teso contemporaneamente fra<br />

due tentazioni.<br />

Propensione teatrale, esibitiva, si diceva. Nelle tele più antiche<br />

essa è documentata nell’impianto scenografico, nell’uso delle<br />

quinte laterali, simmetriche, quasi di addobbi per incorniciare un<br />

episodio. Effetti artificiali di illuminazione, giochi di controluci da<br />

palcoscenico sono presenti nelle opere del 1917; e qualche conseguenza<br />

formale è ancora visibile negli arcangeli di due anni


più tardi, dove la cortina delle nubi si spalanca come un sipario.<br />

È di quegli anni anche la fascinazione esercitata da Parade, dai<br />

giocolieri di Picasso, da Petruska e dalle figure di Cocteau. La<br />

stessa Parigi, per Licini, ha l’evidenza del teatro: è la scena moderna,<br />

la metropoli non industriale, in cui l’arte del trucco ringiovanisce<br />

e salva. Parigi è Baudelaire, col suo Théatre du Séraphin:<br />

non il luogo della natura, ma dell’antinatura, della natura resa<br />

più bella dall’artificio: la città interlocutrice di Monte Vidon Corrado,<br />

il suo vero pendant dialettico. Solo in questo senso si poteva<br />

amare Léger senza seguirlo.<br />

Sotto la spinta dell’ ‘irrealtà’ il teatro liciniano si spoglia: non è<br />

uno spazio da vedere ma un luogo da immaginare: un teatro<br />

della mente.<br />

Ed ecco: nell’atto di interiorizzarsi, si dilata a scena cosmica. Il pierrot<br />

che vi si esibisce, mostra volto astrale, come nella Composizione<br />

del 1934 (coll. A. Giovanardi), e corpo erratico: l’incostante.<br />

Nel 1954, eseguendo un Omaggio a Cavalcanti, Licini riformula<br />

l’emblema amalassuntiano del piede e della mano per trarne<br />

fuori il ritratto del poeta sospetto di averroismo. È un volto pieno<br />

d’occhi e di vento, simile all’ala di un serafino disegnata da un<br />

gotico. Mentre il busto rimane saldamente ancorato alla terra ed<br />

anzi sprofondato in essa come un’erma gigantesca, il viso irradia<br />

una fortissima tensione estatica: nuova visualizzazione, questa,<br />

della scena mentale ed autoritratto fantastico per via di transfert.<br />

Agisce un emozionato collegamento con l’“eretico” dello Stil<br />

Nuovo, anch’egli attore di un teatro invisibile e inquisitore di lettere<br />

«spiritate».<br />

La diagonale, si è detto, funziona metaforicamente come un<br />

orlo. È il confine fra mondi ancora inconciliati, secondo un’urgenza<br />

simbolica che va sempre più ispessendosi dopo le Archipitture,<br />

con i dipinti della memoria e dell’oltretomba. Inizia allora il<br />

viaggio negli abissi della Natura romantica e l’incontro è frontale.<br />

Chi discende nel regno delle «Madri», nella «verde landa dell’originario»,<br />

può contare però sul sapere del numero e del ritmo.<br />

L’errante mette in azione la sua agilità di traghettatore d’anime,<br />

è ombra senz’ombra, come Hermes. Ha in mente di rubare lettere<br />

e cifre con le quali costruire portafortuna, piccoli quadri magici,<br />

pentacoli. Sa che la materia può acquistare il soffio dell’anima<br />

in virtù della lettera e del geroglifico.<br />

Si tratta di un gesto decisivo, documentato nella mirabile lettera<br />

442<br />

a Ciliberti, di cui diamo la conclusione: «Potrò mostrarti le mie<br />

prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche;<br />

rappresentazioni totemiche, che solo tu con la tua<br />

scienza potrai decifrare».<br />

Il totem: lo spirito parentale, il principio, l’origine. L’anima della<br />

comunità. Il suo volto è impersonale, inciso di geroglifici, una<br />

maschera sacra. Anche le Amalassunte e gli Angeli mostreranno<br />

un volto ieratico, quello radioso e sovrumano, superindividuale e<br />

radiante dei corpi in folgore. L’equilibrista, il funambolo hanno<br />

rappresentato una tappa di questo processo di trasformazione.<br />

«Dopo il romanticismo il buffone, il saltimbanco ed il clown sono<br />

state le immagini iperboliche e volontariamente deformanti che<br />

gli artisti hanno dato di se stessi e dell’arte. Il loro è un autoritratto<br />

travestito».<br />

L’interpretazione di Starobinski aderisce, non c’è dubbio, alla ripresa<br />

del mito fattane da Licini, largamente immerso per suo<br />

conto nel paesaggio culturale delineato dal critico francese. Di diverso<br />

e di singolare, rispetto agli autori presentati nel Portrait de<br />

l’artiste en saltimbanque, v’è il ricorso alla simbolica del funambolo<br />

in termini di pura sintassi ritmica. Il pittore ha in certo modo<br />

smaterializzato l’iconografia del circo, estraendone la gestualità<br />

e fissandola nella linea e nel colore. C’è il sublime e il suo contrario.<br />

Non v’è infatti rinuncia dei protocolli comici dell’antico repertorio:<br />

La patetica, Amalassunta che ride, con trombetta,<br />

mentre fuma o è felice. Si sviluppa una fisiognomica su questo<br />

registro durante l’ultimo decennio, accanto alle partiture sacrali.<br />

Ed è una prova, anche questa, della cosmicità di una ispirazione:<br />

far posto a tutti i sensi e dissolverli in un chiasmo senza fine.<br />

Non termineremmo però con Nietzsche, in questo caso, nonostante<br />

il funambolo, benché Licini ne abbia conosciuto e amato<br />

il pensiero. La menzogna liciniana è un enigma che nasconde<br />

ancora la verità, la pienezza è conquistabile benché indicibile.<br />

Per lui soltanto i fantasmi dell’esistenza sono maschere vuote e<br />

false: «un angelo fatto di tutto / a prendermi scenderà / angelo<br />

o demonio / che sia / fa lo stesso / poco importa».<br />

(1) Scritto contenuto nel periodico d’arte “Acrobat Mime Parfait”, edizioni<br />

Acrobat, Bologna, numero 0, trimestrale, gruppo IV/70.


F. Milani, Fotopoesia, 1980.<br />

Raccontare per frammenti.<br />

Fotopoesie di Fulvio Milani (1)<br />

Se i procedimenti più radicali della scrittura visuale tendono a far esplodere la materialità<br />

della lettera col dare spessore ai segni alfabetici e col dissolvere la verbalità nel dominio dell’immagine,<br />

altre ricerche, in campo sia poetico che figurativo fanno leva piuttosto sulle interferenze,<br />

sui rapporti di specularità e gli effetti di contatto tra una serie e l’altra. La parola,<br />

ad esempio, non è negata in quanto tale, ma costretta a subire i contraccolpi del linguaggio<br />

visivo, ad interrogare ed interrogarsi intorno a ciò che un altro codice propone come tema di<br />

investigazione e rebus da sciogliere. Si stabilisce in tal modo una sorta di intrattenimento,<br />

una relazione: da un lato v’è l’emergere d’una cifra muta che sfida la parola, dall’altra si tenta<br />

di comprenderla o quanto meno di stabilire uno spazio di complicità, di scambio attivo, di<br />

443


movimento parallelo.<br />

Una situazione, questa, posta in modo esemplare nella recente mostra di fotopoesie di Fulvio Milani<br />

(Galleria “Il Chiodo”). In tante stazioni quante sono le tappe in cui viene scandito il nastro figurale<br />

(7 studi con/fusi), la scrittura accompagna e commenta un processo catturato dalla registrazione<br />

fotografica. Non si limita però a fiancheggiarlo. Lo assedia invece, talora lo anticipa e<br />

lancia una serie di insidie, contrapponendogli la evidenza della propria trama, una cadenza di<br />

444<br />

F. Milani, Fotopoesia, 1980.


itmi e di sincopi. Vien così messa in dubbio la lettura a senso<br />

unico: dallo spazio della figura allo scorrimento del testo. E si dubita<br />

perché il diritto all’incipit, nella separatezza delle serie, è invocato<br />

contemporaneamente da entrambe: se la parola, nella<br />

prima tavola, si assume la responsabilità di pronunciare la nota<br />

di esordio dell’intero progetto (un’ipotesi di riattivazione: “ri-coniugare<br />

/ (...) / riprendendo le sproporzioni / realtà celata”),<br />

anche l’immagine esibisce una analoga investitura. Si teatralizza<br />

come auctor. Sicché il rapporto diventa subito circolare, di doppia<br />

sobillazione.<br />

Interpellante ed al tempo stesso evocato dal potere delle parole,<br />

il dettato fotografico si dispone lungo una serrata parabola<br />

narrativa.<br />

Ordina un’azione in una sequenza retoricamente calibrata di<br />

tappe: esordio, svolgimento, culmine ed epilogo. Su un boccascena<br />

ricondotto alla misura interiore della stanza, mai visto totalmente<br />

e sempre abbuiato sul fondo, un corpo femminile<br />

mima l’accesso alla visione: alla pienezza della scena e agli strumenti<br />

della conoscenza. Quel corpo è però ombra, silhouette,<br />

doppio. Quando irrompe in primo piano, si fa cogliere per frammenti,<br />

spezza i simboli e si rituffa infine nell’oscurità, nella penombra<br />

senza misura che sta oltre i sipari laterali.<br />

Neppure il teatro, luogo deputato della rappresentazione, può<br />

dunque dar nome a ciò che per un attimo lo ha attraversato. Per<br />

quanto la fotografia abbia cercato di mordere l’immagine puntando<br />

sugli effetti di contrasto, questa resta imprendibile e fantasmatica.<br />

Un puro movimento.<br />

Mentre analizza una convenzione figurativa (l’artificio della<br />

scena), l’autore riflette su una figura, anzi su un tema centrale<br />

della vita psichica: la corsa all’immagine perduta, lo sIittamento<br />

metonimico verso l’arché negata. Fatalità della ripetizione e discorso<br />

sul discorso.<br />

“Ho scritto sul nulla”: questa tematizzazione iniziale prefigura lo<br />

scacco dell’ultima tavola, quel “viaggio/ non ancora inizio” che<br />

è “già arrivo”.<br />

Pur rassodandosi attorno all’azione e colpendo ogni volta il bersaglio<br />

(la messa a fuoco è infatti ostinatamente centrale), la fotografia<br />

costruisce infatti un edificio vuoto, la struttura della peripezia<br />

inutile.<br />

Alla compattezza lineare dei quadri fotografici entro cui viene<br />

445<br />

scandito l’evento mitico che lo eccede, fanno eco i depositi scritturali<br />

nelle zone traslucide delle tavole. Sono brandelli e resti di<br />

una discorsività che è stata amputata, ricondotta quasi sempre<br />

alla pronuncia del verso breve, dal quaternario all’ottonario, e<br />

per di più riflessa per distorsione dietro le lastre. Ed è strategia<br />

divergente: mentre l’immagine tenta di catturare il non-dicibile<br />

serrando le maglie della rappresentazione, la parola discorsiva<br />

viene decentrata, interrotta da spaziature, inquietata nelle domande<br />

e nelle sospensioni. Ricorrono i lemmi ad alta tensione<br />

dei discorsi sulla profondità. C’è tutta la nuova retorica dell’eccentrico,<br />

ma è un arsenale impietrato. Gli spazi bianchi, i riflessi<br />

e le ombre, i simboli geometrici sospesi e i salti dimensionali<br />

della scrittura segmentano la normale amministrazione dei sintagmi,<br />

confondendone la lettura e l’ascolto.<br />

E ci si aggirerebbe senza fine nel labirinto dei segni devitalizzati,<br />

se non intervenisse a bloccarli una precisa tensione stilistica<br />

volta a incidere, a rimodellare icone e lettere: quello “scolpire la<br />

parola” che costituisce, a ben guardare, la nota più originale del<br />

lavoro di Milani. Un incidere e uno scolpire che decide sul ritaglio,<br />

aduna frammenti e racconta per via di sineddoche. Il che<br />

porta a pensare, come ha osservato Gino Baratta nella nota in<br />

catalogo, che l’anelito nasconda una passione impossibile: impossibile<br />

perché la Notte si sottrae al freddo calcolo dei segni.<br />

.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 9 settembre 1980


Presagi della scena<br />

Rodolfo Aricò (1)<br />

La pittura e il teatro: una relazione sotterranea e produttiva, non<br />

un rapporto di identità. Parlarne vorrà dire addentrarsi nelle ragioni<br />

della somiglianza, soprattutto scoprire una mappa di comuni<br />

metafore e presagi. Pirandello, Calderon, Ionesco, Tardieu.<br />

Basterebbero questi nomi, espliciti e documentabili, a dire quanto<br />

sia intensa, specialmente nell’ultimo decennio, la frequentazione<br />

dell’universo teatrale da parte di Aricò. “Pour avancer je<br />

tourne sur moi-meme/Cyclone par l’immobile habité“, leggiamo<br />

nei Testimoni invisibili di Jean Tardieu. Ed è, questo un pensiero<br />

che trova ragioni di conoscenza con le riflessioni del pittore,<br />

un tema assimilabile al suo tòpos del retrocedere per avanzare,<br />

del discendere per risalire e compiere circolarmente un itinerario<br />

di conoscenza.<br />

Stare sulla soglia, occupare il margine, addensarsi alla tessitura<br />

della tela: ecco alcune attitudini dello sguardo che appare, al<br />

tempo stesso, come medialità costruttiva della pittura. “Amo -<br />

scrive Aricò - che un quadro si legga osservandolo da vicino. Non<br />

capisco come si possa esaurire un’opera con una veloce occhiata<br />

lontana.<br />

Nell’esecuzione è fissata gran parte della sua essenza, pura”. È<br />

vero: la superficie richiede avvicinamento, rottura delle distanze,<br />

immersione: quest’opera in cui le procedure della fusionalità<br />

hanno così larga parte e dove l’unità, la dominante di colore, è<br />

l’esito d’una germinazione cromatica, di una crescita per strati ed<br />

assorbenze; dove il campo, severamente bloccato in margini taglienti<br />

e in esatti perimetri, è sorgente di valori radianti e materializza<br />

una sorta di esaltazione fissata, un’addensamento del delirio<br />

visivo nella fermezza ieratica della frontalità.<br />

La soglia, si diceva. Qui sta anche, in una simile figura, una riserva<br />

di ambiguità, una entità duplice e conflittuale (“l’homme<br />

est l’etre entr’ouvert (…). La porte schématise deux possibilités”<br />

– Bachelard), un bifrontismo dell’immagine. Ma è davvero il<br />

caso di parlare di un’immagine e non piuttosto di uno spazio in<br />

cui all’immagine non è dato tempo di coaugularsi, di maturare<br />

in un corpo definitivo, di pietrificarsi in un simulacro e in un’effige?<br />

Sta di fatto che lo sguardo (sguardo potenziato e intensivo)<br />

è colto contemporaneamente da una doppia vertigine: catturato<br />

446<br />

R. Aricò, Timpano, 1980, tecnica mista su carta.<br />

R. Aricò, Timpano, 1979, tecnica mista su carta, cm 30x40.


per un verso dall’evidenza di un perno centrale, dall’autorità di<br />

una figura e di un macrosogno, e per un altro sospinto a perdersi<br />

nella liquida motilità della superficie dipinta, nella profondità<br />

degli spessori, in corpi soffici ed aerei. Sicchè, venendo meno la<br />

perentorietà di un punto di sostanza, la visione corre sui paesaggi<br />

cromatici e prospettici. Il sogno, tutto esibito in apparenza<br />

è rianimato da uno spostamento e da una riapertura di cifra. Ciò<br />

che si è osservato da una stazione non è ancora tutta la sostanza<br />

vivente della pittura. C’è una sospesa emergenza che afferra<br />

e dà il senso del rischio e dell’attesa.<br />

Vien da pensare al Quattrocento di Aricò, alla sua riflessione sul<br />

motivo del “mazzocchio”. Come dimenticare che quell’icona ha<br />

ospitato un’erranza, che è stata l’approdo di una lunga, ragionata<br />

follia? E che ha funzionato altresì come un magico corpo e un<br />

talismano? Un oggetto purissimo e impossibile nel paesaggio<br />

della peste? Ed ancora: un reticolo diamantino, un astratto erbis<br />

pictus?<br />

E dopo Paolo Uccello (o “Paolo degli Uccelli”, come amava chiamarlo<br />

Artaud per indicarne la febbre prospettica), la scena di Sebastiano<br />

Serlio: ma riattivata nell’utopia visionaria di Gordon<br />

Craig. Il Serlio osservato con gli occhi di Blake. Ed insieme vien<br />

da ricordare la strenua scritturale della messa in scena appiana,<br />

dove il motivo della costruzione si lega all’eccitazione mistica per<br />

un assoluto che è luce e suono, partitura musicale.<br />

Ambedue volti, Craig ed Appia, al disvelamento delle architetture<br />

“armoniche” del movimento universale, a cogliere il “geroglifico”<br />

della vita; entrambi “umanisti” eterodossi, capaci di rovesciare<br />

la scienza in sapienza, proiettati verso un avvenire che è<br />

riannodamento con l’arché sepolta. Se nelle rovine del presente,<br />

fra le macerie della modernità, domina il calcolo computistico<br />

dello scientismo, la geometria patisce gli effetti di uno spossessamento:<br />

da un’anima del mondo è divenuta strumento<br />

d’amministrazione quantitativa. La scienza designa la mancanzaad-essere,<br />

il gelido dissezionamento del reale, l’amputazione del<br />

desiderio, laddove il sapere, la saggezza, apre spazi di rigenerazione<br />

e mette in moto i dispositivi dell’immaginario. Certo non<br />

v’è coincidenza fra le dottrine di Appia e di Craig e la poetica di<br />

Aricò, non foss’altro per la lontananza dal clima metafisico in cui<br />

essi erano immersi. Vogliamo dire però che quelle dottrine costituiscono<br />

dei luoghi di riferimento, dei presagi per la pittura.<br />

447<br />

Così come altri presagi sono disseminati, talora con lucida ironia,<br />

lungo il percorso del suo lavoro: gli utopici progetti di Ledoux, le<br />

carceri di Piranesi e l’ ”Idea di tutte le perfezioni” di Bibiena. Anticipazioni<br />

di quel “tornare ad essere” che anima con tanta forza<br />

il suo zibaldone.<br />

Ma v’è, accanto alla suggestione dello spazio teatrale, anche il<br />

fascino della parola del pensiero drammaturgico. Una drammaturgia<br />

che collocandosi sulla linea dell’assurdo investiga la dimensione<br />

del sublime decaduto e del tragico. Anche ad essa il<br />

pittore affida un ruolo indicativo, il carico di un’insurrezione. Non<br />

è forse Amedeox ad innescare il processo di volatilizzazione<br />

della materia, in nome di una “vita altra” e dell’immaginazione?<br />

Ma a pagare infine col volo l’eccesso di fantasia? E non è ancora<br />

Berenger, il secondo personaggio ioneschiano convocato da<br />

Aricò, a sostenere i diritti del sogno, quello sprigionamento<br />

dell’”universo del dentro” che, separato dall’esistente, rischia di<br />

perdere peso e di dissolversi nei cieli dell’astrazione? D’essere insomma<br />

solamente un pensato, di non vivere?<br />

Limpida appare qui la sintonia con la parola di Ionesco, poiché la<br />

ponderalità, il peso dell’immagine, la necessità di dar carne e<br />

sangue ai fantasmi mentali sono un leit-motiv della pittura-oggetto:<br />

un’aspirazione che guidò, fra l’altro, Pendus 68, quel programma<br />

di mostra “impossibile” e il lavoro di contraggenio che<br />

fu l’idea (e la creazione) di ingombri tridimensionali negli spazi<br />

di esposizione: progetto che se fu interrotto, non di meno sta<br />

ancor lì a testimoniare, proprio a ridosso di una nuova stagione<br />

(l’epoca di Casa prima e delle Aree), un’urgenza di emanazione<br />

il desiderio di irraggiamento spaziale che si ritrova poi nella pittura.<br />

Concepito come un’amalgama di forza immaginativa e di<br />

ispessita sensorialità, come gesto mentale e fisico, l’opera è una<br />

metafora che si incarna in figure avanzanti. Pesare, avvertiva la<br />

nota in catalogo, significa anche pensare, considerare.<br />

Ma di quale pensiero si tratta? Che significa tirar fuori figure dalla<br />

mente? Intanto ci interessa notare che il fantasma, l’immagine<br />

del dentro, declinandosi secondo i registri dell’oggettualità, vuol<br />

avere la stanza del vivente, porsi a fronte con l’esistenza. Un’esistenza<br />

che si disegna spesso come la dimensione dell’inautentico,<br />

della petrosità. Vien fuori allora in questa istanza di confronto<br />

e scontro, una ulteriore sintonia con la drammaturgia della caduta<br />

con quel teatro dell’ ”invincibile” a cui si ricollega l’eserci-


zio di riscrittura d’un dramma assai amato, La vita è sogno, da<br />

Calderon ad Hofmannsthal, sul quale si è soffermato di recente<br />

Aricò negli acquarelli. Risentimenti e trascrizioni nello specifico<br />

d’una grammatica visiva, dell’assenza di un testo. Lo “spirito del<br />

dramma”, per usare un’espressione cara ai riteatralizzatori, si trasferisce<br />

nel colore, passa dalla scena reale e dalla parola recitata<br />

alla muta superficie della pittura; così come – con scarto non<br />

solo estetico ma etico – il soffio di vita, la “verità contaminata”<br />

può riemergere nella protensione inesausta del dipingere. “Le<br />

opere – suona una preziosa dichiarazione – sono il prodotto di<br />

questa emergenza di valori contaminati. Da qui l’ossessione in<br />

cui rientra la necessità di un oggettivarsi continuo”.<br />

In bilico tra impurità e chiarezza, in aggetto per così dire sul presente,<br />

vengono issati gli elementi della pittura, le sagome d’una<br />

costruzione le cui cerniere sono ritmi e numeri, cadenze metriche.<br />

Le correzioni e gli aggiustamenti cui è sottoposta l’orditura<br />

proporzionata dell’insieme, nonché costituirsi quali tratti stilistici<br />

di quell’animazione dell’inanimato che rimette in vita gli archetipi<br />

figurali, sprigionano tensioni di avanzamento: le forze premono,<br />

stringono da presso, si impongono. È in gioco tutto il lavoro<br />

mentale sui minimi spostamenti che, operando sulle virtualità<br />

della linea e del colore, sull’energia della pittura, abbacina<br />

la visione.<br />

Perché la curva dell’arco si abbassa? Da dove viene la ritmica dei<br />

portali e dei timpani, scanditi nella progressione misurata e sacrale<br />

del passo, sulla fisica statura del corpo, se non dalla volontà<br />

di colmare varchi senza tuttavia serrarli, di creare un continuum<br />

vibratile, una ciliazione che non s’arresta? Perfino le<br />

ombre si caricano di trasalimenti e ospitano mareggiate luminose.<br />

Lontano-vicino, interno-esterno: le due polarità stanno insieme<br />

e creano una spazialità che vorrei chiamare dell’avanzante.<br />

Un avanzante di cui v’è precisa coscienza progettuale; e fantastica<br />

urgenza.<br />

“Mi ha animato (…) quel particolare stato che preferisco chiamare<br />

vecchiezza e per vecchiezza intendo qualcosa che assomiglia<br />

alla lucidità della nostra cultura europea, al cinismo della<br />

struttura filosofica del nostro sistema, eccetera “coscienza di vivere<br />

la continua trasformazione, nell’avanzamento di un passato<br />

mai remoto”. Ritorno della forza e del tempo. Si noterà come la<br />

coscienza del più antico, dell’antichissimo, dell’estrema vecchiez-<br />

448<br />

R. Aricò, Scena di Mantova, progetto 1980.<br />

R. Aricò, Scena di Mantova, progetto 1980.


R. Aricò, Timpano, 1979, acrilico su tela, cm 30x30.<br />

za faccia tutt’uno con l’illusione e il desiderio. Anzi proprio la coscienza<br />

di un passato-mai-remoto, la lucidità che viene da lontano,<br />

genera la potenza della metamorfosi. Il da-semprepresente<br />

è anche ciò che da sempre sopraggiunge e irrompe,<br />

sopravvive e torna ad accadere. La pittura, il dipingere è questo<br />

atto: l’evento dell’accadere-cadere: una riarticolazione metaforica<br />

dei gesti primi, una fitta pioggia, una tessitura. Perciò, non a<br />

caso la pittura è invocata come la “nostra Penelope”. Essa disvela<br />

l’essere che ritorna, lo contiene e lo fa apparire. È la sogliacontenitore,<br />

la stanza dell’evento.<br />

Proviene da qui un tremore quasi sacro dentro il mondano, un’atmosfera<br />

di ascolto ininterrotto nell’interrotto accadimento. La<br />

stanza che ha a che fare con un’attesa, con un presagio di miracolo.<br />

I campi, i perimetri, i profili sono una geometria della rivelazione<br />

che appare al tempo stesso vicina e lontana, finita ed infinita.<br />

Per tale motivo (e anche per questo motivo) la finzione teatrale,<br />

il circuito dello spazio scenico esercitano una forte suggestione.<br />

È in ogni caso con una simile attitudine che Aricò ha affrontato<br />

nel ’78 l’allestimento di alcuni atti unici di Tardieu, situando<br />

gli attori in un’area tesa e vibrante, in una sorta di camera mentale,<br />

in grado di accogliere i prorompimenti dell’immaginario.<br />

Funzionava da unico dispositivo una costruzione di praticabili di<br />

449<br />

fronte al pubblico, separato/fuso rispetto all’azione mediante<br />

l’uso di un esilissimo diaframma, “un velo posto obliquamente”,<br />

da una soglia dunque appena accentuata e tuttavia, proprio per<br />

questo, in grado di dischiudere, di alludere ad un al di là, di dare<br />

forma al cosmo del semiaperto. La scena: un laboratorio per<br />

l’evocazione dei deliri onirici… la piattaforma, teatrum<br />

mundi,…sospesa per aiutare, nella sua oggettività anche uno<br />

stato levitazionale, una dimensione lirica, diffusa, in un’ambientazione<br />

di toni sfumati”. Vale perciò l’indicazione dell’entità costruttiva<br />

del teatro e la metafora di quella realtà. La citazione testuale<br />

di Mannoni, dell’anno precedente, autorizza ad allargare<br />

ancor di più la rete dei riferimenti, ad ispessire la trama delle somiglianze.<br />

Se la scena e il luogo in cui “le immagini si pavoneggiano”,<br />

dove si struttura “tutta la nostra riserva di ruoli immaginari”;<br />

se essa è lo scrigno del sogno, ma di un sogno reso comunicante<br />

perché attraversato dall’ordine del linguaggio, calato<br />

nelle geometrie significanti dello sguardo, sarà allora possibile<br />

far coincidere quello spazio con l’oggettivazione non semplicemente<br />

utopica, ma visionaria di quell’altra vita, di quell’invisibile<br />

che l’artista vuol far risalire alla chiarezza. Scena I, del ’78 ed<br />

ora, qui alla Casa del Mantegna, Scena II sono in rapporto col<br />

teatro, ma nel modo in cui la pittura può condividere un progetto<br />

di vita e di idee con una pratica dello spazio che ha modi suoi<br />

propri e diversi di esprimere il tempo e il movimento.<br />

“La puerta, que da frente a espectador, està entrabierta”, semiaperta:<br />

è l’istruzione di Calderon. Così, a suo modo, la pittura:<br />

un universo del dischiuso.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Mito e architettura”, Casa del<br />

Mantegna, Mantova, 1980.


Arte temporale e arte spaziale.<br />

Pittura (1)<br />

“Nel Laocoonte di Lessing, sul quale perdemmo tante giovanili<br />

meditazioni – scrive Klee nella Confessione creatrice – si<br />

fa un gran parlare di differenza tra arte temporale e arte spaziale:<br />

il che è una dotta illusione, perché anche lo spazio è<br />

una nozione temporale”. Rivendicare il flusso del tempo allo<br />

statuto della figurazione pittorica costituisce, al di là dell’altissima<br />

posizione di un autore teso a sondare, per tutta la vita,<br />

gli oscuri processi della genesi, un tema assiduo di meditazione<br />

per l’artista del Novecento. Le matrici filosofiche stanno<br />

però più lontano, nelle estetiche e poetiche tardosettecentesche<br />

e romantiche, alleate a quelle pratiche della pittura<br />

in cui venne disegnandosi l’eclissi dell’ocularità rinascimentale.<br />

Occorre insomma tornare ai grandi visionari, a Blake<br />

o a Füssli, pittori sensibilissimi, per altro, alle suggestioni<br />

della drammaturgia e vicini a quel teatro che Goethe chiamava<br />

“invisibile” (Kleist, Büchner, eccetera), sia per la temperatura<br />

dell’immagine sia per l’intolleranza verso la convenzionale<br />

boîte d’optique. In Füssli, per esempio, il tempo e lo<br />

spazio, il teatro e la pittura si condensano nello spessore di<br />

un’immagine. Una tensione innomata colma le figure di<br />

energia e i personaggi, fissati in positure impossibili, raccolgono<br />

le memorie dei gesti. L’istante rappresentato non è che<br />

l’estrema culminazione d’una sotterranea geologia emotiva, il<br />

punto d’arrivo d’una traiettoria spaziale e temporale. Pittura<br />

d’azione dunque, nata sotto il cielo dei ‘furori’ e per di più riscrittura,<br />

in certi casi, delle passioni shakespeariane.<br />

Il prospettivismo comincia a mancare proprio nel luogo che<br />

era suo: il cubo illusionistico. Ma non si tratta solo di questo.<br />

Anche lo sguardo (quello Sguardo che è solidale al Concetto)<br />

viene messo in causa e spinto a rovesciarsi nelle regioni altre<br />

del Notturno, a darsi in negativo, a tuffarsi nelle acque dell’Immaginario<br />

e delle Origini, oppure a rintracciare parentele<br />

con la musica (e l’opera lirica), con un sistema di segni che intrattiene,<br />

assai meno degli altri specifici, obblighi mimetici<br />

verso la realtà. Nella elezione di un simile modello linguistico,<br />

autogenerativo per eccellenza, anche la figurazione esperimenta<br />

partiture inedite, fa i conti col divenire, la metamorfo-<br />

450<br />

si, il movimento. L’immagine si mentalizza (“Chiudi l’occhio fisico,<br />

per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito”,<br />

annota Friedrich) e obbedisce alle leggi del ritmo.<br />

Più avanti il processo all’illusionismo porta la pittura a estrofletterre<br />

i suoi protocolli, a denudarsi come finzione, maschera,<br />

sistema costruttivo. L’arte per l’arte, ossia (qui) l’arte come<br />

‘convenzione’, stile: è la via intrapresa da un Seurat, contemporanea<br />

ma affatto divergente da quella dell’espressione.<br />

Il confronto fra la pittura e il teatro avviene in entrambi i territori,<br />

per iniziativa frequente delle arti figurative specie nei<br />

primi decenni del secolo. Tuttavia un rapido sguardo d’insieme<br />

sul panorama del Novecento svela macroscopici casi di rigetto<br />

e di cancellazione del codice-pittura, mettendo così a<br />

nudo una incompatibilità di fondo da parte dei riteatralizzatori.<br />

Il sospetto con cui è considerato oggi, da molte parti, il<br />

teatro dell’immagine ne è d’altronde ereditaria dimostrazione.<br />

È infatti vero che la rinascita del teatro, quand’anche comporta<br />

l’assunzione di stilemi visuali desunti dalle arti figurative,<br />

mette in causa la stessa sopravvivenza della pittura sulla<br />

scena, in nome di un teatro che sia integralmente ‘teatrale’.<br />

Tuttavia, nelle teorizzazioni e nelle pratiche più estreme rimbalzano<br />

spesso nomi familiari alla storia delle immagini, sia<br />

pure di una storia antipittoricistica e visionaria, carica di simboli<br />

e di forza: Blake, Paolo Uccello, i bizantini o Rembrandt.<br />

È accaduto però che, nel momento stesso in cui Appia e Craig<br />

negavano la pittura a teatro, la figurazione si prendesse rivincite<br />

clamorose, trasferendosi nel circuito della scenografia<br />

e sostituendosi a essa, tanto da imporsi come protagonista<br />

sul palcoscenico: il teatro come tableau vivant, col quale si<br />

decretava il trionfo della bidimensionalità. Si pensi poi ai successi<br />

della “scuola di Parigi”, a Picasso o a Mirò, le cui pitture<br />

teatrali stanno spesso al di qua della rappresentazione,<br />

così come oggi i manufatti di Dubuffet o di Burri sopravvivono<br />

all’evento scenico.<br />

Altra cosa è invece l’assoluto cinetico e visivo degli sperimentatori<br />

sensibili alle leggi della scena astratta (da Prampolini<br />

a Moholy-Nagy a Schöffer), che nell’area della utopia<br />

craighiana hanno dato vita, per così dire, a un terzo teatro, a<br />

una scena che, situandosi al di là del teatro e della pittura, ne<br />

riassume al tempo stesso le reciproche ragioni col fare dello


spazio visivo l’attore di un dramma.<br />

Infine, se si vorrà dar conto delle relazioni intervenute fra i<br />

due universi di segni, sarà conveniente abbandonare il luogo<br />

comune d’una visualità che procede soltanto dalle arti plastiche<br />

a quella della scena. Il Novecento, se non altro, smentisce<br />

recisamente un simile pregiudizio, avendo spesso invertito<br />

il tragitto dei prestiti e delle trasformazioni, grazie alla<br />

profonda vocazione teatrale delle avanguardie e delle neoavanguardie.<br />

Non solo la pittura si è dissolta negli spazi dell’evento<br />

(happening), ma ha assunto talora gli stilemi compositivi<br />

della finzione scenica, configurandosi, per esempio in<br />

Klee e De Chirico, come teatro mentale.<br />

Araldica, superdecorazione e stile<br />

Un denominatore comune avvicina le esperienze francesi di<br />

Paul Fort, Lugné-Poe e Rouché a quelle tedesche e russe alle<br />

soglie del secolo (Reinhardt, il primo Mejerchol’d, lo stesso<br />

Stanislavskij, Djaghilev, eccetera): la venuta dei pittori a teatro.<br />

Non è qui certo il caso di procedere al resoconto dei fatti,<br />

ma di insistere sulle motivazioni di un orientamento generale<br />

che, in concomitanza con l’espansione travolgente dello Jugendstil,<br />

ma non di rado in opposizione a essa (decise in<br />

questo senso le riserve di Mejerchol’d verso il modernismo di<br />

Reinhardt), ha di mira lo smantellamento della visone naturalista.<br />

Ricorrere alla pittura, alla partizione bidimensionale<br />

della scena, significa imporre i diritti dello stile alla poetica<br />

della tranche de vie. Che poi, nelle realizzazioni effettive, gli<br />

esiti appaiono diversissimi e in numerosi casi perfino opposti,<br />

tutto ciò è dipeso dalla superiore o minore intensità con cui<br />

la presenza del simbolo ha permeato di sé il lavoro dei pittori.<br />

Si potrebbe con cautela affermare che laddove il “Saint des<br />

Saints, mais mental” di Mallarmé ha agito in profondità, l’immagine<br />

ha toccato indici altissimi di spoliazione. Tutto il contrario<br />

è invece avvenuto quando la cecità del simbolo ha dovuto<br />

cedere al bonheur dell’immagine e l’invisibile contrarsi<br />

di fronte al visibile. L’astrazione metafisica di Mallarmé si è<br />

scontrata, a un certo punto, con lo sguardo materiato di cose<br />

di Rimbaud, con la teoria delle correspondances: vogliamo<br />

dire cioè che la visione si spettacolarizza con tanto maggiore<br />

evidenza quanto più si diffonde il progetto di rinvenire degli<br />

451<br />

equivalenti della parola, dei parallelismi concreti e sensibili<br />

della scrittura. Sérusier e Bonnard collaborarono alla messa in<br />

scena di Ubu per Lugné-Poe nel 1896, ma il loro intervento<br />

si limitò alla sola esecuzione delle idee di Jarry. L’ambientazione<br />

temporale e spaziale del dramma venne affidata infatti<br />

a impersonali cartelli indicatori e a un eteroclito deposito di<br />

oggetti senza tempo, in uno spazio vuoto e invisibile (“un<br />

décor qui voudrait représenter Nulle Part...”, aveva ordinato<br />

l’autore), secondo i dettami d’una scenografia araldica che intendeva<br />

valersi delle grafie neutre e dei toni uniformi dei blasoni.<br />

Araldica come ideogramma scarnificato, ben diversa<br />

dall’arabesco cromaticamente abbagliante dei Balletti Russi.<br />

Simile al Libro, anche la pittura si fa scrigno di epifanie. Colori,<br />

linee e superfici velano e svelano, esprimono piuttosto che<br />

rappresentare. Se la pittura è finestra, ora lo è in un senso rovesciato<br />

e antialbertiano: apre verso un dentro pieno d’ombra.<br />

Quando Munch dipinge gli scenari per Gli Spettri, è il fantasmatico<br />

che domina la chiusa prigione dell’io.<br />

In tale temperie prende quota un’idea di ornato, imperativamente<br />

retto dai principi di semplificazione e di sintesi, i cui<br />

rapporti col pensiero mistico sono ormai indubitabili. A ragione<br />

si è parlato di teosofia per il Mejerchol’d del Primo Studio,<br />

così come v’è incidenza massiccia di cabalismo e di alchimia<br />

nelle propensioni araldiche di Jarry. Tranne che per Djaghilev<br />

e alcuni altri, i rimandi si possono moltiplicare all’infinito, ma<br />

quel che importa sottolineare è la congiunzione sacrale in cui<br />

l’ornato viene a situarsi, dischiudendo una semantica del divino<br />

agli esercizi del décor.<br />

Ben lungi dall’attribuire all’ornamentazione una pura funzione<br />

decorativa, anche i pittori Nabis del Théâtre d’Art e de<br />

l’Oeuvre fanno valere l’equazione col sacro, il maestoso, l’Immobile.<br />

Da qui viene anche il cloisonnisme, vale a dire l’uso<br />

di una procedura compositiva estratta da una tradizione religiosa<br />

dell’immagine: stilema tecnico, questo, largamente impiegato<br />

nelle messe in scena di Maeterlinck, sul versante sia<br />

occidentale che russo, e esteso poi alla visualizzazione di altri<br />

drammi, fino all’impiego di questo artificio tecnico, ma in<br />

clima più laico, nelle radianti composizioni di Benois e Bakst.<br />

Appartiene a Maurice Denis una precisa formulazione del<br />

tema ornamentale in senso mistico e divino: “La grande arte


che chiamiamo decorativa degli indiani, degli assiri, degli egiziani,<br />

dei greci, l’arte del medioevo, del rinascimento e le<br />

opere decisamente superiori dell’arte moderna che cosa sono<br />

– egli argomenta – se non il travestimento delle sensazioni<br />

comuni in immagini sacre, ermetiche, maestose?” Tale persuasione<br />

si annoda inoltre (secondo un rapporto che si ripresenta,<br />

ad esempio, in Mondrian) a una rigorosa indagine<br />

compositiva, a una teoria volta a secernere, nella pittura à<br />

plat dei quadri e di conseguenza anche dei fondali di scena,<br />

le forze stilistiche in gioco, l’energetismo delle linee e del colore.<br />

Lo studio della fictio è in tal modo solidale con la teleologia<br />

essenzialista, lo stile – in una parola il jeu della peinture<br />

– alla tensione evocativa della forma. Sempre in tema di<br />

style orné le dichiarazioni dei Nabis vanno in parallelo con i<br />

pensieri di Van der Velde, grande ammiratore anch’egli dell’arte<br />

orientale e studioso della linea. L’ornato si collega perciò<br />

alle filosofie della forza vitale e del soffio divino, così diffuse<br />

anche in ambito rosacrociano.<br />

Stilbühne e ornamentation pongono entrambe l’accento sulla<br />

‘codificazione’, sulle necessità dello stile. La prima si adegua<br />

alla seconda proprio per riceverne le massime garanzie di<br />

concentrazione. Si imitano, nell’uso del colore e della linea, i<br />

pittori vascolari greci e i pompeiani, i primitivi, gli artisti delle<br />

icone, Perugino, Borgognone, Puvis de Chavanne; ma al di là<br />

dei modelli iconografici, la strategia compositiva dei pittori a<br />

teatro è indirizzata al gioco degli incastri fra figura e sfondo,<br />

a legare i costumi e gli atteggiamenti degli attori con le strutture<br />

compositive del fondale. In una simile ‘bidimensionalità’<br />

l’evento spettacolare ha il compito di assecondare l’opera del<br />

pittore, poiché il quadro si anima quando gli attori prendono<br />

posto nelle caselle in attesa della composizione. Il demiurgismo<br />

degli artisti è evidente. Altissima anche la consapevolezza<br />

critica, nelle differenti pronunce teoriche e stilistiche,<br />

ora inclinanti verso le tonalità basse e indeterminate, ora<br />

volte ad accelerare il dinamismo delle superfici, mediante<br />

iperboli prospettiche e ingigantimenti. Oltre a Bakst, Benois o<br />

Variot, un altro pittore, Dethomas, braccio destro di Rouché al<br />

Théâtre des Arts, si segnala per la chiarezza teorica dell’operazione.<br />

Facendo del teatro finalmente un’arte liberata dalle ipoteche<br />

452<br />

illusionistiche, la figurazione scenica bidimensionale mise a<br />

fuoco il problema della ‘convenzione’. Si trattò però, come<br />

osservò Craig, di un flirt ‘pericoloso’ e a lungo andare conservativo.<br />

Quando De Chirico, anni più tardi, trasferirà in teatro<br />

l’impianto metafisico degli schizzi per I puritani, sconterà<br />

forse inconsapevolmente l’eccesso di fiducia nella superficie<br />

e voterà all’inerzia la straordinaria invenzione dei bozzetti.<br />

Ma se fu errore, servì certo a indicare un punto di rottura e a<br />

orientare De Chirico verso nuove soluzioni.<br />

Profezie della pittura e spazio organico<br />

Di radicale impossibilità di trasposizione (dalla superficie alla<br />

scena) conviene invece parlare a proposito dell’espressionismo.<br />

E ciò non accade tanto perché l’arte figurativa perda<br />

quota nei confronti del teatro, quanto perché proprio la pittura<br />

di espressione insegna a puntare sui ritmi vitali del colore,<br />

a passare cioè dall’immagine piatta (Bild) allo spazio (Raum)<br />

vivente, dal simulacro al corpo dell’attore. Spazialità plastica,<br />

quella dell’espressionismo, incompatibile con le nozioni di<br />

piano retinico e di perimetro, con la scansione ottica di ascendenza<br />

cartesiana.<br />

Il rapporto con la pittura segue le vie del contagio, dell’affatturamento,<br />

della traslazione di forze, del transfert. La pittura<br />

è profezia della nuova scena, luogo di seduzione e di ispirazione<br />

magica: una certa pittura naturalmente, quella solcata<br />

dal conflitto primigenio delle energie.<br />

Tintoretto, Grünewald, Leonardo, Rembrandt; poi Van Gogh,<br />

Munch, Ensor: ecco i nomi tutelari presenti nelle pagine di<br />

Sievert, Emmel, Hasenclever, Bahr o Schreyer. Scrive ad<br />

esempio Emmel: “Noi vogliamo muovere le linee e le forme<br />

corporee dall’interno, dal dramma, e non concedere loro<br />

alcun ruolo particolare al di fuori dello spartito drammatico<br />

[…]. Che esistano linee drammatiche lo vediamo in un quadro<br />

di Rembrandt, I discepoli di Emmaus, eccetera. L’archetipo<br />

è probabilmente Strindberg, con le sue letture dei pittori<br />

visionari, non solo di Munch, ma anche di Böcklin. In ogni<br />

caso, quel che Van Gogh e Munch sottolineano è la convulsione<br />

dello sguardo.<br />

La visione si acceca, cementandosi con le presenze animate<br />

che attorniano il pittore. L’atto del guardare si tramuta in flus-


so ardente di energia: energia fisica e al tempo stesso psichica.<br />

Scaturigine della luce, anzi dramma cosmogonico dell’ombra<br />

e della luce, esplosione genesica.<br />

Se tra pittura e figurazione teatrale è senz’altro possibile rintracciare<br />

tutta una serie di sintonie teoriche e stilistiche (i<br />

temi della rinascita e dell’Uno; le teorie della dissonanza cromatica<br />

e del contrasto lineare; la grafia acutangola, lo scheggiamento<br />

delle forme, la fluenzialità delle cadenze colorate,<br />

la deformazione e così via), sempre nella differenza segnata<br />

dal transfert, ciò che lega in profondità il pensiero pittorico a<br />

quello drammatico è il tema della luce, autentico centro mitico<br />

dell’espressionismo, essendo appunto il dramma un calvario<br />

dal buio alla rinascita. Qui si spiega il richiamo a Rembrandt<br />

e a Van Gogh, quali detentori dei ‘segreti’ della creazione,<br />

e perciò fatti interagire con la mistica della luce, da<br />

Ruysbroeck a Eckart a Boehme. Qui anche l’appello alle forme<br />

‘ardenti’ dei primitivi (per esempio Nolde), alle colture del<br />

fuoco e della danza. La luce, in quanto articolazione prima<br />

dell’energia, anteriore alle parole e alle immagini, scandisce<br />

il processo della creazione, non dipendendo da nessun altro<br />

principio che da se stessa. Se Rembrandt interessa, ciò avviene<br />

perché la sua luce proviene dall’interno del quadro, ne<br />

costituisce la sorgente, anziché un oggetto di rappresentazione.<br />

E ancora: la luce-forza frantuma le forme, le dissocia in un<br />

paesaggio di macerie, ma proprio per questo le riempie di<br />

vita: è il motivo della morte come crogiuolo che purifica.<br />

Mentre nella scena astratta, dove pure è centralissimo il principio<br />

luminoso, gli oggetti scompaiono, nello spazio organico<br />

la loro presenza ha il compito di testimoniare il ritorno sconvolgente-risanatore<br />

del mythos. Le combustioni e le deformazioni<br />

oggettuali costituiscono appunto la prova della iniziazione.<br />

L’assassinamento delle immagini opache a favore dei corpi di<br />

luce è in rapporto con l’animazione totale dello spazio: un’animazione<br />

affidata in primo luogo alla recitazione e al gesto<br />

dell’attore. Ed è importante osservare, a questo punto, come il<br />

contributo forse più alto dato dai pittori alla nascita della scena<br />

espressionista non avvenga nel campo della scenografia, ma<br />

in quello della parola, del dramma, vale a dire in una direzione<br />

diversa rispetto al fronte futurista, dove si registra, insieme<br />

453<br />

al lavoro della ‘sintesi’, un interesse acuto e sistematico per la<br />

visualizzazione spettacolare e per la scenotecnica; anzi la pittura<br />

stessa finisce per spezzare le coordinate della superficie,<br />

diventando polimaterica, oggettuale, cinetica.<br />

Kokoschka non scrive, come Depero o Trampolini, né una<br />

storia né una teoria della scena. Sceglie altre maniere di intervento,<br />

oltre alla pittura e all’incisione: compone drammi.<br />

Così anche Barlach. Tranne alcune mirabili sequenze di bozzetti,<br />

l’uno e l’altro scavano nella drammaturgia e redigono<br />

testi di straordinaria portata innovatrice. Segno quanto mai<br />

eloquente dell’impossibilità, per loro, di trasferire a teatro il<br />

codice del quadro. Solo più tardi, ma ormai si affacciano gli<br />

anni Venti, la scenografia tedesca vedrà una più marcata frequentazione<br />

degli artisti. Con gli allestimenti brechtiani di<br />

Grosz e le esperienze di Piscator si avvia la fase della politicizzazione:<br />

la scena come spazio del mito cede il passo alla<br />

Nuova Oggettività.<br />

In Germania, ma non in Francia. Il tragitto segnato dall’espressionismo<br />

trova in Artaud un rilancio ad alta tensione.<br />

È difatti col Teatro della crudeltà, in posizione eretica rispetto<br />

al surrealismo bretoniano, che la scena come circuito della<br />

rigenerazione e guerra dei principi torna ad ardere e, correlativamente,<br />

la pittura assume quel compito oracolare e profetico<br />

che il Teatro estatico di Emmel aveva prefigurato.<br />

Paolo Uccello, Bosch, Luca di Leyda vengono additati come gli<br />

autentici detentori dei segreti vitali e definiti registi implacabili<br />

della ‘necessità’. Il loro è “teatro muto”, carico di forza<br />

proiettiva, ermeticamente intessuto di geroglifici mortali, di<br />

un’araldica che non lascia scampo. Così anche, fra i contemporanei,<br />

Masson, Balthus, Klee, Derain. Contro la parata delle<br />

false effigi e la menzogna del teatro-spettacolo, Artaud fa valere<br />

l’urto d’una pittura magica che scava nel soffio e se ne<br />

lascia scavare.<br />

Anche per lui è impensabile trasporre la pittura sulla scena<br />

come se si trattasse di citare dei reperti figurativi, di tradurre<br />

delle iconografie, poiché i quadri, quei quadri “sono a doppio<br />

senso, e accanto a un aspetto puramente pittorico comportano<br />

un messaggio e rivelano aspetti misteriosi o terribili della<br />

natura e dello spirito”: ed è il secondo aspetto evidentemente<br />

che importa. Essendo la superficie, al pari della pagina, do-


tata di poteri paralizzanti, il quadro non può essere che talismano<br />

e annuncio; come tale, portatore muto del soffio, fatalmente<br />

diminuito rispetto al teatro e tuttavia capace di innescare<br />

il linguaggio inaudito della ”vera scena”.<br />

Nella visione metafisica e gnostica del Teatro e il suo doppio<br />

la spazializzazione del registro, nell’atto stesso di frantumare<br />

le immagini, si manifesta come esplosione luminosa, abbagliamento,<br />

bruciatura. “La luce […] assume l’aspetto di autentico<br />

linguaggio e le cose sulla scena, gravide di significati,<br />

si ordinano, rivelano figure”. Identità del gesto, del suono e<br />

della luce nella ritrovata pienezza della Creazione: quest’identità<br />

genesica e organica, proiettata verso la conquista<br />

dell’Uno perduto, la cui menzogna Artaud denuncerà nella<br />

successiva fase rodeziana, segna durante gli anni ‘metafisici’<br />

una tappa decisiva per quel pensiero dell’Origine che arriva<br />

fino ai nostri giorni.<br />

Genesi pittorica della grammatica scenica dalla “composizione”<br />

al “sistema”<br />

Riconquistare il Tutto, abbattere la barriera della civilizzazione,<br />

è anche la nota di fondo delle prime sperimentazioni<br />

astratte della scena.<br />

Da Scrjabin a Kandinskij si annuncia l’avvento dello Spirito<br />

dopo l’Apocalissi del presente. L’età nuova è vicina, un’età<br />

portatrice di linguaggio totale, fondato sul principio interiore<br />

e su una rigorosa cifra transmentale, L’Opera d’Arte Monumentale,<br />

erede del Gesamtkunstwerk wagneriano, ne costituisce<br />

il luogo di rivelazione.<br />

Fortemente connotata in senso simbolista, la ricerca di Kandinskij<br />

si avvicina in più di un punto, ma con piena indipendenza,<br />

all’utopia di Craig, non solo per gli accenti metafisici e<br />

lo slancio empatetico delle forme, ma specialmente per<br />

l’energica sottolineatura dell’a priori grammaticale della<br />

scena , di cui i due autori intendono rintracciare i fondamentali<br />

dati costitutivi, gli elementi nucleari a livello linguistico.<br />

Kandinskij riformula il problema della sintesi teatrale nel saggio<br />

Sulla composizione scenica. Dopo aver criticato Wagner<br />

per l’uso del ‘parallelismo’ fra le arti e per gli eccessi descrittivi,<br />

sottolinea come centrale la nozione di movimento: dinamizzazione<br />

multipla e intersecata di scritture diverse (gesto,<br />

454<br />

colore, suono), in cui dissonanza e consonanza coabitano a<br />

pari diritto: “Tutti e tre gli elementi – egli scrive – sostengono<br />

una parte ugualmente importante, rimangono eternamente<br />

autonomi e vengono trattati allo stesso modo, ossia subordinati<br />

al fine interiore. […] Tra i due poli, cooperazione e reazione,<br />

si colloca tutta una serie di combinazioni intermedie”.<br />

Comporre gli elementi in un’unità superiore è il compito dell’Arte:<br />

comporre nel senso di conciliare anche gli opposti, non<br />

di mettere in simmetria, in equilibrio statico; comporre vuol<br />

dire conquistare un’armonia più alta, far sì che l’Opera materializzi<br />

il Movimento cosmico, essendo la risonanza interiore<br />

l’asse attorno al quale ruota il flusso continuo delle forze in<br />

disfacimento/rinascita. Per mettere in vita una simile ‘composizione’<br />

occorrono nuovi mezzi artistici, capaci di risuonare<br />

col Tutto, di natura dunque transrazionale piuttosto che irrazionale<br />

(poiché il Tutto è ineffabile, ma non è Caos), sull’esempio<br />

del linguaggio mistico e simbolico, di cui vengono<br />

ristudiate le leggi mediante la tradizione teosofica. In seguito<br />

l’opera teorica di Kandinskij, Punto, linea, superficie, lungi<br />

dal presentarsi come una svolta razionalistica dopo gli anni<br />

del Cavaliere azzurro, costituisce un approfondimento metodologico<br />

delle premesse contenute nello Spirituale, e dunque<br />

di una ontologia linguistica di radice romantica. Se ci fu scarto<br />

dal futurismo russo, il dissenso si incentrò proprio sul divario<br />

fra psichiatricità kandinskiana e formalizzazione costruttivista,<br />

fra ‘composizione’ simbolica e sistema.<br />

Alla linea dello Spirituale, ma sulle primarie matrici della Parola,<br />

si riporta poi la proposta di Achille Ricciardi, tendente a<br />

fare del colore “la seconda anima” del dramma e l’oscura<br />

forza rivelatrice: forza per altro inconoscibile, daimon ed<br />

enigma che la grammatica non può afferrare. Forse per un difetto<br />

di teorizzazione, come è stato ipotizzato, il fossato fra<br />

composizione e sistema è qui ulteriormente approfondito.<br />

Siamo in ogni caso lontanissimi dal presenzialismo futurista,<br />

cui per tanti anni il Teatro del colore ricciardiano è stato forzatamente<br />

ricondotto.<br />

Per il tramite di Schreyer e di Klee, vale a dire attraverso un<br />

canale centrale e uno laterale dell’espressionismo, il tema<br />

dell’Opus entra nella fucina del Bauhaus. Schlemmer rilancia<br />

con tensione assoluta il progetto del Teatro totale, annodan-


do persuasioni metafisiche a una strenua ricerca linguistica.<br />

Nel suo Figurales Kabinett un’inesausta esplorazione di movimenti<br />

rifà l’immagine dell’uomo sulla scena, salda l’ombra<br />

alla luce, le due metà disperse dell’Essere, nel tentativo di risalire<br />

alle sorgenti dell’Armonia universale, secondo una pitagorica<br />

sapienza delle trasformazioni che convoca insieme il<br />

numero e il gesto. “ L’uomo cerca il Senso. Sia questo un problema<br />

faustiano, che pone a proprio fine la creazione<br />

dell’Homunkulus; sia un’istanza di personificazione, per la<br />

quale egli si è creato dèi e idoli, l’uomo cerca senza tregua il<br />

proprio simile, o la propria immagine, oppure quanto c’è di<br />

incomparabile rispetto a lui stesso. L’uomo cerca il suo riflesso,<br />

il superuomo o la forma fantastica”.<br />

Nello spazio “caleidoscopico” del teatro, Schlemmer aduna figure,<br />

posizioni, gesti d’una primigenia vita delle forme, come<br />

quell’otto rovesciato (“il segno delle braccia conserte”) che lo<br />

stesso Klee assumeva nei corsi al Bauhaus quale emblema<br />

della “fluidità allo stato puro”, del ciclo Degenerazione-Rigenerazione.<br />

In Germania, come in Russia, la grammatica della scena<br />

astratta si trova presto di fronte a un bivio: se si debbano conservare<br />

le premesse essenzialiste delle prime avanguardie o<br />

se l’astrazione radicale abbia altrove, nel funzionamento del<br />

segno piuttosto che nel rinvio allo Spirituale, i propri fondamenti.<br />

Nel 1913 erano nate intanto le lettere di un alfabeto<br />

non-figurativo, decisivo tanto per il teatro quanto per la pittura.<br />

Realizzando alcune parti dello spettacolo La vittoria sul<br />

sole, Malevič aveva posto le basi del linguaggio suprematista.<br />

“Il sipario – scriverà più tardi – rappresenta un quadrato<br />

nero, embrione di tutte le possibilità. Nel corso della sua evoluzione<br />

il quadrato acquista una forza incredibile: diventa il<br />

capostipite del cubo e del globo, le sue decomposizioni apportano<br />

una sorprendente cultura in campo pittorico”.<br />

Da quel momento in poi, nella convergenza incandescente di<br />

istanze cubiste, raggiste e futuriste, vengono dispiegandosi le<br />

invenzioni dei “planiti”, i modelli volumetrici dipinti da Malevič,<br />

che sono il tramite più interno fra la pittura da cavalletto<br />

e lo spazio dello spettacolo. Tutto un susseguirsi di ricerche,<br />

impossibili da riassumere se non a rischio di sfigurarle, prepara<br />

lo spazio ‘nudo’ senza oggetti, fino alla precipitazione<br />

455<br />

della pittura in un universo architettonico. In più v’è la fecondazione<br />

della poesia fonetica e del formalismo letterario, con<br />

Šklovskij in posizione emergente, da cui viene il concetto di<br />

meccanica formale e di struttura del testo artistico. Da questo<br />

punto di vista, la biomeccanica mejercholdiana non è che la<br />

prodigiosa fioritura in campo registico di simili premesse.<br />

Risulta decisiva la nozione di unità delle parti nel funzionamento<br />

del testo scenico, nella formulazione, ad esempio, di<br />

Efros nel suo Il teatro e la pittura durante la rivoluzione: “Il<br />

principio del teatro russo non è l’insieme ma l’unità. Come il<br />

cambiamento di attitudine di una creatura vivente produce<br />

un cambiamento coordinato di tutte le parti del corpo, un<br />

cambiamento di una qualsiasi parte dello spettacolo russo<br />

deve produrre uno spostamento di tutte le altre parti per ottenere<br />

un nuovo equilibrio vitale”.<br />

È la vittoria del ‘sistema’ sulla ‘composizione’. Introducendo<br />

una semantica della funzione, del corpo testuale, al posto del<br />

simbolo, la teoria della non-intercambiabilità determina<br />

anche uno spostamento di valore nel campo degli oggetti.<br />

Il mito negativo della macchina, con la connessa paura dell’inorganico,<br />

che nell’immaginazione apocalittica di Majakovskij<br />

aveva ispirato il tema degli oggetti in rivolta, viene ora<br />

assorbito ed espunto nel lucido funzionamento macchinico<br />

della rappresentazione. Domina la pantomima astratta, cui<br />

obbedisce non solo l’attore ma l’intero meccanismo scenico.<br />

Le analogie col futurismo italiano sono evidenti. Se in Marinetti,<br />

ad esempio, il geometrico-inorganico assume valenza<br />

duplice (energetica o orrifica, nel caso dei “fantocci”), con<br />

Balla, Depero e Prampolini l’accento cade prevalentemente<br />

sulle polarità positive, pur nella varietà delle pronunce stilistiche:<br />

ludico-combinatorie, funamboliche (i “complessi plastici”),<br />

grottesche e infine astratte. Prampolini soprattutto approda<br />

a una limpida dottrina delle funzionalità, all’idea di sistema,<br />

sulla spinta delle intuizioni giovanili dell’attore-gas e<br />

nella ripresa craighiana d’uno spettacolo integralmente luminoso.<br />

Con la scenodinamica “accanto al problema dello spazio<br />

viene posto e risolto il problema del tempo mediante il ricorso<br />

a una successione ritmica di elementi in gioco, alla loro<br />

continua trasformazione”; infatti, scrive F. Menna, “il nuovo<br />

sistema scenico, come l’oggetto tecnico moderno, si fonda


[…] su una stretta e inestricabile convergenza di funzioni separate<br />

in virtù del dinamismo della simultaneità e dell’unità<br />

dei singoli elementi costitutivi”.<br />

Press’a poco alla stessa epoca lo scontro espressione/funzione<br />

impegna Schreyer e Moholy-Nagy; poi, con la sconfitta di<br />

Schreyer, scompare l’ala più radicale dell’espressionismo al<br />

Bauhaus. Di conseguenza vengono ripudiate le componenti<br />

mitiche e la ‘zavorra letteraria’ del Teatro da camera. Se non<br />

ci fosse stata l’influenza determinante di Schlemmer, l’annientamento<br />

dell’uomo sulla scena sarebbe stato forse totale;<br />

l’attore vi rientra infatti, ma con dignità pari a quella degli<br />

oggetti, materiale fra i materiali di una cristallina spettacolarizzazione<br />

visiva. Di nuovo agisce l’aspirazione all’ordine (il<br />

Cosmo contro il Caos), non significando però quest’ordine una<br />

restaurazione della categoria cartesiana e neppure il ritorno<br />

pitagorico-craighiano dell’Armonia: il cosmo di Moholy-Nagy<br />

ha natura funzionale-combinatoria, è un meccanismo di figure,<br />

una con-figurazione appunto, com’egli lo chiama. Certo la<br />

parola ‘organismo’ riaffiora, ma nel senso di corpo retorico<br />

della scena e vita d’un testo figurale: “il Teatro della totalità<br />

– si legge nel saggio programmatico del ’25 – dovrà essere,<br />

con i suoi svariati fasci di rapporti di luce, spazio, superficie,<br />

forma, movimento, suono, uomo – con tutte le possibilità di<br />

variazione e di combinazione di tali elementi vicendevolmente<br />

– configurazione artistica: Organismo”.<br />

Il pittore-regista, “demiurgo dai mille occhi”, non solo determina<br />

la vita dell’intera struttura, ma predispone le condizioni<br />

idonee alla partecipazione del pubblico, chiamato a qualificare<br />

in senso attivo la propria presenza. Tanto demiurgismo fa<br />

ricordare Lisickij che avrebbe voluto manovrare, in una progettata<br />

edizione della Vittoria sul sole, la “machine à spectacle”<br />

da una tastiera di suoni-movimenti. Né da meno era<br />

stata la messa in scena di Balla per Feu d’artifice.<br />

È certo significativo che in anni di rinnovato furore strutturalista<br />

questi archetipi siano stati citati e persino ‘rifatti’ nell’area<br />

delle ricerche cinetico-visuali, mentre tornava tumultuosamente<br />

la febbre giacobina dell’Ottobre o l’ideologia di Gropius.<br />

Icone e fantasmi<br />

Proseguendo nell’excursus veniamo a imbatterci in una diffi-<br />

456<br />

coltà. Appena si ha a che fare con la teatralità dada-surrealista<br />

(ma anche, in parte, futurista), viene il sospetto che la nozione<br />

di codice scenico sia ben poco praticabile, se non fuorviante.<br />

Già nel primo futurismo, e non solo italiano, così pieno<br />

di germi anarcoidi e di tensioni destrutturanti, certe manifestazioni<br />

dell’avanguardia storica stentano a rientrare nella normatività<br />

d’una categoria: intendiamo riferirci alle ‘serate’, alle<br />

‘recitazioni’ di poesia, alle irruzioni degli artisti fra il pubblico. O,<br />

per dir meglio, servono allo scopo altri metri di misura, per<br />

altro caratterizzati da una terminologia in piena fluttuazione<br />

teorica, come happening, performance, body art, eccetera.<br />

Tutto ciò è in parte spiegabile col fatto che i ‘processi’ tendono<br />

a porsi al di là dell’idea stessa di codice, oltre il Simbolico, a<br />

meno che non fingano di farlo, per appoggiarsi segretamente<br />

a una rete tanto rigorosa quanto coperta di relazioni linguistiche,<br />

di cui è esemplare paradigma l’opus duchampiano.<br />

Ciò premesso, sembra eccessivo da un lato ricondurre, come<br />

è stato fatto da taluni critici anglosassoni, tutto il teatro e la<br />

scena futuristi all’idea di performance, così come non persuade<br />

d’altro canto l’intento di trovare nel teatro dada-surrealista<br />

una dottrina, in senso stretto, della scena. È ben nota<br />

del resto l’allergia bretoniana per il luogo teatrale (al quale è<br />

senz’altro preferito il testo immaginario della città), ed è sintomatico<br />

d’altronde che di “scena” si possa parlare quando le<br />

poetiche pittorico-teatrali ricorrono al concetto di astrazione.<br />

Negli altri casi converrà forzatamente parlare di teatro come<br />

drammaturgia o di cooperazione visiva alla scena. La prima<br />

grande eccezione è costituita da Schwitters. A essa farà seguito<br />

un secondo esempio, ma di opposta polarità (Picabia).<br />

Si è frequentemente affermato che Schwitters è un portatore<br />

di antiforma, un assassino di immagini, latore di un gioco<br />

nichilista e insensato. Ed è certamente vero, se si tiene conto<br />

dell’eteroclito campionario di materiali che egli comprime e<br />

affoga in strati sempre più densi; tanto più vero quando gli<br />

acidi corrosivi dell’ironia, dello humour, della beffa disperdono<br />

i significati e i valori concettuali affidati ai brandelli di parole<br />

o ai frammenti di materie. Meno credibile invece quando<br />

si osservi la sua strategia compositiva volta a erigere un<br />

edificio calibratissimo nei rapporti interni di funzione; funzioni<br />

che non sono certo più concettuali, ma materiche e plasti-


che, perfino narrative. Tutto accade come se ci si trovasse in<br />

un universo polverizzato, in un flusso informe di materie dissolte,<br />

e si provasse a far coagulare dei corpi energetici in<br />

piena trasmutazione. Corpi e non fantasmi, come per Tzara.<br />

La partenza è senz’altro costituita da un mondo di macerie e<br />

rifiuti, ma non è questo il momento della decostruzione: ché<br />

anzi, raccogliendo i frammenti dimenticati, l’artista li vuole in<br />

certo modo salvare dalla miseria, con attitudine simile a<br />

quella dell’archivista. Senonché, a differenza d’un restauratore,<br />

Schwitters ha di mira un’opera d’arte vivente, un’agglomerazione<br />

metaforica in crescita. L’atto decostruttivo interviene<br />

quando il frammento, già sfigurato nella collocazione<br />

imprevista dell’assemblage, può essere mutato di posto e<br />

addirittura strappato. L’opera può disfarsi e rinascere dalle<br />

proprie ceneri. Più che la funzione in senso meccanico, è in<br />

gioco l’idea di funzione corporea, nel rapporto binario assimilazione/taglio,<br />

suzione/rigetto. La procedura dominante è<br />

tuttavia quella di adunamento, raccolta, conglomerato: di assemblage<br />

appunto. Schwitters ha parlato di intercambiabilità<br />

dei pezzi e di astrazione, nel manifesto della Scena Merz:<br />

“L’opera scenica è un’opera d’arte astratta. […] Finora nelle<br />

rappresentazioni teatrali si distingueva tra scenografia, testo<br />

e partitura. Ogni valore veniva elaborato singolarmente e lo<br />

si poteva anche gustare singolarmente. La Scena Merz conosce<br />

solo la fusione di tutti i fattori nell’opera complessiva”.<br />

Non meno significativa, poi, la simbolica sottesa al Merzbau,<br />

col suo processo di elevazione e di discesa dal laboratorio ai<br />

piani superiori e nella cantina; e con tutta una serie di anfratti<br />

e di stazioni faustiane.<br />

Picabia ha di mira invece la confusione diretta allo spreco,<br />

alla perdita, all’abbagliamento. I legami con i futuristi o con<br />

Léger non vanno al di là di certe coincidenze tematiche e dell’uso,<br />

tutto negativo però e ironizzato, di congegni meccanici.<br />

Ossimorico fin nel titolo, l’’istantaneismo’ del balletto Relâche<br />

è una dilapidazione di energia, con quel gusto del rovesciamento<br />

del falso nel vero che si trova nella piéce dialogata Festival-Manifeste-Presbyte<br />

e nel monologo Cannibale nell’oscurità,<br />

dove un oratore della Morte, reincarnazione forse<br />

di Stirner, affronta l’io dello spettatore tentando di scavarne<br />

la compattezza e di precipitarlo in un puro flusso di traspa-<br />

457<br />

renze, di desideri senza gravità. Lo spazio per Picabia perde<br />

spessore, è esso stesso fantasma e corrente abbagliante di<br />

luce, della quale non si intravede la sorgente, perché l’origine<br />

acceca, distrugge lo sguardo. Il nesso fra bocca da fuoco e<br />

fondale di scena (i riflettori puntati), l’uso delle proiezioni, la<br />

regia stessa della danza, benché richiamino il mito della Ville<br />

lumière, sono molto di più e di diverso dalla modernistica<br />

gioia di vivere: rappresentano una visualizzazione del nomadismo,<br />

di una erranza affatto aerea e fantasmatica nelle regioni<br />

nietzscheano-stirneriane del Nulla creatore. Nonostante<br />

alcuni punti di contatto (cinetismo visivo, la “sorpresa” marinettiana,<br />

il clownismo, l’antipsicologismo, eccetera), Léger<br />

resta ben altrimenti fedele al ‘pieno’ e all’iconicità oggettuale:<br />

“la scène – egli dichiara – ne sera pas vide, car nous allons<br />

faire agir les objets”. Loda il picabiano Entr’acte, ma per ragioni<br />

simili a quelle, forse, di un Depero, in nome cioè dell’astrazione<br />

volumetrica e della scena mobile. Se esalta la policromia<br />

e il dinamismo, cardini dell’orfismo di Delaunay e di<br />

Kandinskij, lo fa partendo da una ideologia completamente<br />

diversa, tesa a reinventare la tecnologia dell’oggetto piuttosto<br />

che a svuotarne sottilmente i significati, come Duchamp,<br />

o a idealizzare le forme-colore. La messinscena Création du<br />

monde, appartiene in fondo al giro dei progetti futuristi di<br />

“nuova costruzione della vita”.<br />

Come il cubismo, anche il surrealismo a teatro va per lo più<br />

nella direzione dei costumi e del décor, sicché gli interventi<br />

sono da ritagliarsi nell’ambito della storia della scenografia,<br />

alla quale di proposito in questa sede non abbiamo fatto<br />

cenno se non per talune implicazioni interne del discorso. Da<br />

Dalì a Masson, da Ernst all’eterodosso Savinio, quasi tutti i pittori<br />

hanno allestito scenari. Non Magritte: eccezione davvero<br />

curiosa, questa, poiché l’opera sua è diventata materia di citazione<br />

a teatro fin dagli anni Trenta. E ancor più lo è oggi,<br />

assieme a quella di Duchamp e di Delvaux, nelle figurazioni<br />

del Teatro dell’immagine, sul doppio registro del concettuale<br />

e dell’onirico. Basti pensare a Bob Wilson o al Carrozzone.<br />

Sulla scia delle persuasioni di Djaghilev, di Massine o di Rolf<br />

de Maré, la pittura diventa un ingrediente centrale dello spettacolo,<br />

anzi spettacolo essa stessa, come nelle fantasie spaziali<br />

di Mirò per Jeux d’enfants; o ingenera esercizi di scrittu-


a parallela, fra movimento e immagine, fra recitazione e partitura<br />

visiva, come nella Traumbühne di Masson o di Dalì.<br />

Singolarmente densa, ancora una volta, la presenza di Picasso.<br />

Già in Parade era venuta fuori un’attitudine speciale a rivoluzionare<br />

lo spazio lasciando intatta la cubatura del palcoscenico,<br />

anzi giocandola con la ripetizione ‘dipinta’ dei media<br />

della rappresentazione: quinte, fondali, sipari. Come in pittura,<br />

così sulla scena Picasso lavora all’interno della convenzione,<br />

la cornice, ma impedendole di essere trasparente al<br />

senso, ai valori referenziali. Non ci sono ‘finzioni’, poiché ciò<br />

che la pittura produce è ‘più vero del vero’, istanza assoluta:<br />

e il pittore lavora sulla storia delle immagini come se si trattasse<br />

di alimenti con i quali nutrire la vita dello sguardo.<br />

Che il teatro, per Picasso, sia essenzialmente ‘visione’, e visione<br />

in qualche modo onnivora, lo si desume anche dalla ripetuta<br />

associazione di sguardo e boccascena. Nei suoi disegni<br />

compare spesso un occhio spalancato accanto alla parola<br />

théâtre (nel senso primo e etimologico dunque di theaomai,<br />

guardare). Dentro la cornice l’occhio gioca le sue partite, con<br />

elementi multipli e interattivi. I tempi dell’azione sono anche<br />

‘epoche’ diverse dell’immagine: così, in Parade, la scansione<br />

cubista del retroscena convive accanto all’area mitologica<br />

‘neoromantica’ del sipario, e le architetture mobili di alcuni<br />

personaggi, graniticamente complessi, si coniugano con le<br />

acrobazie e le ‘sorprese’ dei funamboli. L’età primitiva gioca<br />

con quella urbana.<br />

Dopo l’allestimento di Mercuri (1924), non abbiamo che ingrandimenti<br />

sistematici dei quadri per gli scenari. Senonché,<br />

proprio nella più avanzata stagione del Surrealismo, anzi ben<br />

oltre la diaspora del movimento, Picasso torna di colpo al teatro<br />

tramite la scrittura. Compone nel ’41 una commedia, Il<br />

desiderio preso per la coda, in cui l’iconismo pittorico viene<br />

assorbito nelle regioni della parola. Il protagonista, Gros Pied,<br />

veste i panni dello scrittore, di un narratore-cuoco intento a<br />

sfornare agli ospiti del Sordid’s Hotel i frammenti di un interminabile<br />

romanzo-salsiccia, condito di metafore culinarie,<br />

erotiche e visive. Anche i personaggi convocati provengono<br />

da una fantastica cucina dei desideri: una maya di cui tutti i<br />

maschi si innamorano, denominata la Torta, Cipolla, le Angosce<br />

Magra e Grassa, gli oggetti animati. Gros Pied-Picasso im-<br />

458<br />

bandisce, si direbbe, i materiali accumulati nell’arsenale del<br />

lavoro e della memoria, compresi quelli della pittura, ma li<br />

manipola con la tecnica della scrittura automatica, sicché la<br />

pittura è questa volta oggetto di traslazione piuttosto che<br />

procedura compositiva, un tema fra gli altri e nemmeno il più<br />

esplicito. Ciò non toglie tuttavia che la pittura viva in profondità<br />

e ritorni allusivamente sulla pagina, non solo nello sventagliamento<br />

dell’archivio tematico (i déjeuners sur l’herbe,<br />

les demoiselles d’Avignon, i topoi di Parade, eccetera), ma<br />

nell’impasto pittorico di certi passaggi verbali. Soprattutto<br />

opera a supporto dell’esercizio traspositivo, l’impeto dell’immaginazione<br />

gastronomica. La cucina, ha suggerito R. Queneau,<br />

è arte “corpuscolare”, come la pittura, una “chimica”<br />

anch’essa degli odori e dei colori.<br />

Seduzioni e ambivalenze<br />

Chiudendo qui la nota sulle avanguardie storiche, resta appena<br />

lo spazio per un cenno ad altre ambivalenze.<br />

È ben noto che il gesto, la danza e la recitazione, vale a dire<br />

alcuni dati primari del mestiere teatrale, hanno fornito, fin dal<br />

secolo scorso, spunti essenziali all’analisi dei processi attivi<br />

della visione. Grazie a essi è stato possibile dilatare l’universo<br />

dell’immagine oltre i confini dell’estetica classica e indagare<br />

le connessioni fra la vita dello sguardo e i fenomeni cinesici,<br />

psichici e comportamentali, anche in rapporto alla comunicazione;<br />

scoprire cioè la materialità dello sguardo, sottraendolo<br />

agli obblighi della contemplazione distaccata, alla<br />

presa della Bellezza e dell’Identico.<br />

Il teatro poi, configurandosi come il luogo palmare della ‘dissimulazione’,<br />

rappresentò nell’epoca stessa della tranche de<br />

vie uno stimolo alla conoscenza del principio pittorico, delle<br />

sue convenzioni e del suo diritto all’opacità rispetto all’esistente.<br />

Quando Degas abbandona la natura en plein air per trasferirsi<br />

negli interni (e gli interni sono significativamente quelli del<br />

lavoro teatrale), obbedisce alla convinzione che la pittura<br />

coincida con l’artificiale. E artificiale significa tecnica di dominio<br />

e di potenziamento, poiché l’arte è, per lui, al tempo stesso<br />

maîtrise e sovrabbondanza, eccesso: organizzazione del<br />

dispendio, convenzione e vita, inestricabilmente congiunte.


Esiste – scrive Valéry – una forma singolare di dépense: la<br />

danza, che consiste “nell’ordinare e nell’organizzare i nostri<br />

movimenti di dissipazione”.<br />

Studiare la danza vuol dire rituffare la pittura nelle tensioni<br />

più alte e restituirle un compito produttivo, anziché mortificarla<br />

nelle pratiche della ri-produzione. Dalla danza l’interesse<br />

si allarga fino a comprendere la festa popolare, il circo e<br />

le sue mitologie (mitologie della sospensione, del manque,<br />

di un mondo perduto), la vita del teatro al di qua del palcoscenico,<br />

i riti pubblici della platea, dei ridotti, della piazza. Il<br />

circo in modo speciale esercita una seduzione profonda. Non<br />

v’è infatti manifesto, o quasi, delle avanguardie che non<br />

abbia per esso un riferimento centrale. Ma qui probabilmente,<br />

come suggerisce J. Starobinskij, il teatro è mediato dal<br />

pensiero letterario, da Gautier e Baudelaire.<br />

Lo sguardo abbandona la stazione consueta anche grazie all’identificazione<br />

col clown, l’acrobata, il danzatore. Quasi tutti<br />

i riformatori della pittura si sono rifatti al topos del funambolo,<br />

o l’hanno, in qualche momento, intensamente frequentato,<br />

da Seurat a Picasso a Malevič. Se nelle opere di Matisse<br />

la linea dell’orizzonte si incurva assumendo un andamento<br />

sferico e cosmico, è certo perché vi agisce, insieme alla forza<br />

del colore, lo ‘spirito’ della danza. La consonanza è decisiva:<br />

dal primo Novecento rimbalza sui movimenti di oggi, connotando<br />

gli sviluppi ‘processuali’ della pittura e accelerando l’assimilazione<br />

del tempo allo statuto della figurazione. Le immagini<br />

fluttuanti di Rauschenberg, le forme ‘a processione’ di<br />

Pollock o le recitazioni di Oldenburg, Warhol, Klein, Beuys,<br />

sono debitrici di non poco, benché in misura diversa, nei confronti<br />

del teatro e più specificamente dell’attore.<br />

Il futurismo aveva risolutamente individuato i nodi centrali<br />

del problema nei temi della sintesi e della simultaneità: motivi<br />

non radicalmente nuovi nella storia dei rapporti fra teatro<br />

e pittura, ma rilanciati con veemenza nel crogiuolo dell’opera<br />

dell’arte totale, divenuta un punto di intreccio obbligato per<br />

tutte le ricerche sulla simultaneità. Anche gli sviluppi<br />

dell’happening e dell’environment cominciano da lì la loro<br />

avventura. La pittura ha dovuto spesso attraversare materialmente<br />

questo crocicchio, confrontarsi con altri specifici e perfino<br />

annientarsi nel loro dominio. Altre volte s’è invece tenu-<br />

459<br />

ta in disparte, rifiutando il telos della totalizzazione. Ma<br />

anche nelle zone più appartate e ascetiche s’è fatta valere, a<br />

un certo momento, la suggestione d’una sintonia improvvisa<br />

e illuminante. È il caso, ad esempio, dei bozzetti di Mondrian<br />

per L’éphémère est eternelle di Seuphor, opera nata da suggestioni<br />

futur-dadaiste, in cui l’autore olandese vide l’opportunità<br />

di esprimere la profezia della sua pittura facendola interagire<br />

dialetticamente con “l’effimero” del drammaturgo.<br />

C’è dunque tutto un versante pittorico che ha introiettato e<br />

tenuto segrete certe inclinazioni recitative e gestuali, risolvendole<br />

nel giro delle grafie e nelle impaginazioni della<br />

forma, nel riecheggiamento di un mito. Le androgine Amalassunte<br />

di Licini che altro sono se non un malizioso travestimento<br />

del lunare Pierrot?<br />

Come dimenticare i “teatrini” di Melotti e Fontana? O di Martini?<br />

Le finzioni di Clerici o le macchine teatrali di Ceroli? Le<br />

“impronte” di Scialoja e le colonne-avvenimenti di Perilli?<br />

Quinte, fondali, costumi, silhouettes compaiono enigmaticamente<br />

nelle tele di Klee, De Chirico, Savinio, accaniti lettori di<br />

Goethe e di Kleist. L’Immaginario ricorre all’arsenale del teatro,<br />

invoca il silenzio, nell’attesa forse di una esplosione più<br />

grande.<br />

(1) Il saggio è stato pubblicato in Enciclopedia del teatro del ‘900, a<br />

cura di A. Attisani, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 468-73.


1981<br />

Da Domenico Gentile<br />

a Renzo Schirolli<br />

Modi del comporre<br />

Domenico Gentile<br />

La scena come cantiere del possibile<br />

Leonardo Mosso<br />

Chi recita?<br />

Elio Marchegiani<br />

“Campionario”<br />

Mostra di alternative<br />

Filo annodato<br />

Gianni Del Bue<br />

La forma dell’invisibile<br />

Carlo Cioni<br />

Materie e cerniere<br />

Renzo Schirolli


Modi del comporre<br />

Domenico Gentile (1)<br />

Terzo respiro pittorico, questo del salernitano Gentile: un tempo<br />

segnato come i precedenti dalle cose e dalle immagini concrete,<br />

ma con una differente accensione rispetto all’esordio (anche<br />

impressionistico) e alla successiva ripresa lombarda negli anni<br />

Sessanta: ora meno cupa e materica. Di mezzo, oltre agli effetti<br />

del silenzio, v’è la lettura della contemporaneità; l’esercizio privato<br />

dello sguardo intorno ai fatti della visione, anche di quelli<br />

lontani e assunti per ragioni di contraggenio nel lavoro riflessivo.<br />

Contrario si rivela infatti (per l’emozione) il puramente mentale,<br />

la smaterializzazione dell’oggettivo, giacché dipingere qui vuol<br />

462<br />

dire mettere insieme, confrontare e accumulare elementi sensibili:<br />

dar luogo ad una rappresentazione perfino murata, ispessita<br />

di corpi cromatici, di presenze ed esistenze. Con in più il ribadimento<br />

della procedura d’origine: la finzione della finestra, della<br />

tela e del cavalletto.<br />

L’ossessione della radice fornisce i modi del comporre. Si badi<br />

alla massiccia emergenza dei primi piani, veri e propri parapetti<br />

visivi sui quali si innesta l’ordito del quadro. Le forme colorate, ritagliate<br />

e addossate come le tessere di una scacchiera, materializzano<br />

pesi plastici e si annodano lungo cerniere figurali. Prendono<br />

corpo dentro i perimetri delle cose, ritmandosi nella ricerca<br />

delle consonanze e nei passaggi armonici di tono. Si centripeta<br />

l’aereo a vantaggio del terrestre, dell’architettonico.<br />

D. Gentile, Metà/fisico, 1980, olio su tela, cm 50x40.


Ne deriva un cuirioso rapporto con l’oggetto, che è rispettato<br />

come schema e configurazione, ma poi alterato nell’interpretazione<br />

emotiva, quasi sognata. Come dire che l’immaginazione<br />

si prende la rivincita dall’interno, ingigantendo, raddoppiando o<br />

comunque trasformando l’immagine, dopo averla estratta dall’universo<br />

visibile.<br />

Così un cono di gelato può diventare un edificio, un vaso di fiori<br />

dar luogo ad una scenografia; o un paesaggio metamorfosarsi<br />

nella articolazione di piani astratti, in una costruzione di quinte e<br />

fondali. Ed è qui che Gentile, con la mente un poco rivolta ai fantasmi<br />

dei pittori urbani (dei pop, ad esempio), può ironizzare su<br />

se stesso e citare per simpatia anche le “magie” di Carotenuto,<br />

pur dichiarandosene irrimediabilmente diverso: a lui vicino nel-<br />

D. Gentile, Notturno in quadricromia, 1981<br />

olio su tela, cm 45x35.<br />

463<br />

l’assunzione di un simulacro quotidiano, ma estraneo per la gravirà<br />

comunque data alla carne dell’esistente: metà/fisico appunto,<br />

con la barratura, e cioè soprattutto fisico.<br />

Lo scarto della penultima stagione è, come s’è detto, di accenti.<br />

Non incidendo sulla fedeltà delle figure, sui consueti luoghi<br />

del paesaggio, vi insinua piuttosto l’interrogazione della memoria<br />

e un contemplare più sospeso: l’interpellanza del sentimento<br />

intorno all’invincibile evidenza del reale.<br />

(1) Tratto dal cartoncino d’invito alla mostra tenutasi alla Galleria Rossi<br />

di Parma, maggio 1981.


La scena come cantiere del possibile<br />

Leonardo Mosso (1)<br />

Nello spazio nudo del teatro nascono e muoiono figure. È la<br />

struttura, questa fluida architettura inventata da Mosso, a sprigionarle<br />

e riassorbirle dentro di sé. Nel vuoto sta invece la chiave,<br />

la grammatica produttiva del modulo, un algoritmo di forme<br />

possibili. In se stessa è un’astrazione, benché sia uno schema attivo,<br />

una misura che scandisce ed articola. In quanto puro pensiero<br />

progettante richiama l’universo del non-ancora ed è la memoria<br />

del futuro.<br />

“Io progetto - scrive l’autore - dei sistemi strutturali semiotici che<br />

in sé non sono la forma, ma dei sistemi di generazione, di produzione<br />

e trasformazione della forma”.<br />

Concepita come lo stampo in cavo del vivente, la struttura ancora<br />

immobile, appena eretta, sta all’azione come una cifra dell’esorcismo<br />

che risana. Docile e trasparente. La sofficità le è infatti<br />

indispensabile per lasciarsi attraversare dal movimento<br />

reale e dai gesti, dal tragitto dei corpi. È un arcobaleno virtuale<br />

di forme. Contiene il presagio della nuvola e della fiamma, i<br />

grandi mitemi della spettacolarità urbana. Si direbbe una macchina,<br />

se la parola non suonasse compromessa con la fissità e<br />

con il sistema, tanto più in area costruttiva e neoplastica. Meglio<br />

considerarla un crogiuolo, un ordigno di trasformazione, incentivatore<br />

di processi: un’entità mobile, con i suoi giunti elastici e virtuali,<br />

in cui si esprime la tensione di una tèchne che vuol essere<br />

poiesis. Analisi e ricomposizione.<br />

La prima specificazione scenica, la più evidente, nasce dalla cifra<br />

evocativa, dalla disponibilità della struttura a confrontarsi col<br />

corpo. Venendo in scena si metamorfosa subito in attrezzo fisico.<br />

Sprigiona motilità e richiama, in sé e fuori di sé, l’immaginazione<br />

corporea.<br />

La vocazione al teatro è recente. Solo nel 1972, nel corso dei seminari<br />

berlinesi, le costellazioni modulari si trasmutano in machines<br />

à jouer. Ed è, il loro, un jouer a doppio senso, del gioco e<br />

della recitazione. Grazie alla complicità della pantomina ed al<br />

magistero dell’attore prendono vita dei quadri, frammenti di<br />

dramma.<br />

Il mimo è l’interrogante. Ma la configurazione modulare non è da<br />

meno: se il danzatore vi scopre la promessa di inedite partiture<br />

464<br />

coreografiche, lo può fare unicamente accettando la disciplina interna<br />

della struttura, cioè scomponendo e ritessendo il proprio repertorio<br />

espressivo secondo le misure e i ritmi della forma plastica.<br />

A sua volta anche questa si sacrifica e, azzerandosi, diventa<br />

effigie scenica e spielkorper: organismo spettacolare.<br />

Altre volte si esibisce, come in alcuni pensieri grafici o nella concretezza<br />

della volta di Palazzo Carignano, nell’autonomia della<br />

performance cinetica, ricorrendo alle attrezzerie e al sapere del<br />

teatro: alle luci e alle prospettive, ai percorsi gestuali e alle sequenze<br />

dei piani rappresentativi. Mai però si fa oggetto, elemento<br />

del décor, scenografia. Istituisce invece rapporti di integrazione<br />

con la scrittura poetica o con la musica, suggerendo<br />

partiture di relazione nel tempo e nello spazio.<br />

È sintomatico, da questo punto di vista, che Mosso prediliga le<br />

cavità di grande respiro e ancor più gli spazi aperti, i profili dei<br />

paesaggi sociali, senza quinte, fondali e macchinismi illusivi. Lavora<br />

sullo sviluppo delle forme anziché circoscrivere e bloccare<br />

dei luoghi. Fa leva sui trapassi e sulle continuità. Procedendo dal<br />

nucleare al complesso, attiva traiettorie di crescita: una crescita<br />

che lavora all’interno delle forme (così che si danno delle avventure<br />

sceniche dentro ciascuna struttura) ed al tempo stesso<br />

produce scambi con altri sistemi di segni, con la conseguenza di<br />

avviare delle peripezie di contatto, delle azioni di reciprocità.<br />

Nella speciale attitudine della “comunicazione universale”, l’accento<br />

dominante cade sulla formatività delle scritture. Non v’è<br />

altro modo, infatti, data la pronuncia del problema, per sondare<br />

i confini disciplinari e far vibrare insieme i piani multipli della testualità.<br />

Soltanto filtrando la materia dell’espressione nella cifra<br />

cristallina del numero, della regola e del caso, e discendendo all’arché,<br />

verso la matrice comune delle lingue, ridiventando,<br />

come scrive Mosso, analfabeti, è possibile scuotere l’immaginario<br />

collettivo, le sue strutture linguistiche, e farlo risalire verso la<br />

costruzione.<br />

Da qui il privilegio accordato al teatro, depositario di plurime dimensioni<br />

ritmiche e scritturali. Differenti testualità vi si incontrano,<br />

anatomizzandosi, ed esplorano, nella singolarità delle loro<br />

specifiche articolazioni, la radice comune, quel fonema che legittima<br />

poi gli isomorfismi.<br />

È allora evidente l’eco del tòpos romantico della ‘sintesi’, benchè<br />

il tema assuma qui una fisionomia del tutto nuova, in forte po-


L. Mosso, Grande struttura cinetica autogestibile e complessizzabile<br />

a giunto universale elastico, come applicazione<br />

degli studi delle strutture semiotiche,<br />

per la Technische Universität di Berlino, con la collaborazione<br />

del gruppo di lavoro del Seminario di Metodologia<br />

della Progettazione Strutturale, Berlino 1972.<br />

lemica con le tentazioni di specie essenzialistica o meccanica. È infatti sempre energicamente<br />

presente una sorta di contromovimento che garantisce la necessaria ambiguità<br />

alle configurazioni. Quando una di esse sembra sul punto di assestarsi su un<br />

ordito definitivo, ecco intervenire uno scarto d’annichilimento e di autocancellazione.<br />

Nel teatro, si intende. L’immagine, scandendosi nella temporalità scenica, si inabissa<br />

ad un tratto nello stampo vertiginoso della struttura. Si defigura. E ciò facendo<br />

evidenzia la precarietà di un’icona o di una lettera, prima di rianimarsi nel segno<br />

successivo. Piomba dentro se stessa e ne emerge diversa, attraverso un ciclo di<br />

reinvestimenti circolari.<br />

Si tratta di un’inclinazione documentabile a vari livelli retorici, sia nei tropi che nelle<br />

figure di senso. Nel balletto Egalité, ad esempio, le lettere fluiscono conflittualmente<br />

nel giro della propria organizzazione, scompaginandosi e riordinandosi lungo<br />

il passo d’una scrittura che è tesa a contraddire la ricezione linearizzata del significato.<br />

Il messaggio non è mai totalmente pronunciato. È anch’esso una virtualità da<br />

interpretare. Allo stesso modo, nel primo quadro dello stesso spettacolo, Mattmarkmortmark,<br />

il tema dell’agitazione si incrocia con quello della morte, mentre sul versante<br />

plastico, si spazializza un’entità simbolicamente multipla: un emblema del<br />

movimento e della tortura, della vita e della violenza, nel chiasmo degli opposti.<br />

465


L. Mosso, Nuvola rossa, 1975.<br />

L. Mosso, Struttura mobile a giunto elastico (1970), realizzata nell’aula del Primo<br />

Parlamento Italiano al Museo del Risorgimento di Torino, sale della Resistenza in<br />

Palazzo Carignano. Legno rosso, m 20x20x0,40.<br />

466<br />

Neppure l’architettura recitativa totale, l’insieme cioè della scena<br />

e della sala (e perfino ciò che sta fuori dall’involucro), rimangono<br />

esclusi dalla motilità innescata dalla struttura. Anzi il perimetro<br />

rappresenta per definizione, in questo genere di teatralità,<br />

una zona di scorrimento, una cerniera - diaframma sulla quale è<br />

possibile, in certe circostanze, dislocare un intervento di trasformazione.<br />

Non solo ne deriva il recupero delle parti marginali<br />

(con tutta una riqualificazione dei dati periferici, per lo più assegnati<br />

al voyeurismo, come balconate e parapetti), ma quel che<br />

più conta si mette in moto una catena di investimenti, di reazioni<br />

e di contagi. L’autore decentra, nel senso che stabilisce una pluralità<br />

di centri. Agisce sui bordi e sulle tensioni diagonali, piazzando<br />

lateralmente una configurazione o proiettando una sequenza<br />

di processi sulla volta del palcoscenico, sicchè una scrittura<br />

può germinare dove meno ci aspetteremmo di trovarla.<br />

Nulla resta estraneo all’idea del continuum. Oltre a ciò l’innesto<br />

provoca una metamorfosi, un passaggio dal chiuso all’aperto, dal<br />

contratto al fluido. Dando respiro ad un luogo, lo si trascina verso<br />

nuovi spazi semantici, che sono qui spazi della forma: soprattutto<br />

luminosità diffusa, senza bruschi e segmentati trapassi dallo<br />

scuro al chiaro.<br />

Che cosa ha rappresentato infatti, qualche anno fa, la sospensione<br />

di una struttura aerea all’esterno e poi all’interno di un teatro<br />

popolare di Milano? Se una forma è stata issata fra la fronsscenae<br />

e la platea, non è stato forse per porre in comunicazione<br />

due spazialità separate? Ed indicare, con la discrezione d’una<br />

presenza silenziosa, delle modalità linguistiche di illuminazione<br />

e di scambio? Così può capitare che una procedura compositiva<br />

si traduca in metafora, dia carne all’idea, pur restando rigorosamente<br />

nella sfera delle ‘figure’ stilistiche.<br />

Anche Schlemmer, quand’era più vicino a Moholy-Nagy che a<br />

Schreyer, operava nell’atmosfera dell’officina, reperendo gli strumenti<br />

elementari dell’azione nella prospettiva analitica. La sua<br />

era però una visione fortemente attoriale, mentre Mosso guarda<br />

alle zone di incrocio, all’integrazione e alla reciprocità con l’attore.<br />

Quell’orientamento riaffiora semmai nel lavoro collettivo, in<br />

cui ciascuno sacrifica qualcosa e mette in gioco la lingua dell’altro.<br />

Se alla fine ci si proietta nell’organico, nell’estensività del fare<br />

e nella sapienza del corpo, si tocca a ben guardare l’ultimo bersaglio<br />

di Mosso, il possibile estremo della sua tecnologia.


Consideriamo per un momento le operazioni combinatorie con<br />

cui vennero scanditi i rapporti fra la struttura, la musica e la poesia,<br />

nelle regie coreutiche o più semplicemente scenico-visive<br />

del ’78. Si va dal programmato all’aleatorio, infittendo i punti di<br />

cerniera. In più vengono ruotate le gerarchie testuali, variando la<br />

collocazione dell’icona sui nastri della voce, del suono (quello<br />

della musica elettronica, sintetizzata) e del gesto, ora al centro<br />

ora ai lati, in modo da farla rientrare o uscire alternativamente<br />

dalle soglie del proprio alfabeto. Ne risulta una tessitura totale,<br />

con una serie di passaggi qualitativi dal più al meno.<br />

È nel circuito pantomimico, soprattutto, che la struttura può vantare<br />

una compiuta astanza scenica. Il contatto col mimo crea il<br />

dramma, indipendentemente dal suo contenuto ideologico.<br />

"Dans le théatre moderne - scriveva Vera Idelson in "Cercle e<br />

Carré" - nous pouvons exploiter simultanéament les deux dynamismes…La<br />

marionette n’est pas necéssairement une poupée<br />

humaine. Dans la conception moderne la marionette n’est<br />

qu’une plastique-mécanique rytmée et harmonieuse". Il nuovo<br />

dramma, il dramma dell’incontro dell’umano col meccanico, "est<br />

à naitre". Anche qui, l’immagine, stando ai limiti quasi del-<br />

L. Mosso, Nuvola rossa ed esposizione. “Un’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori”,<br />

al Palazzo Carignano di Torino, 1980.<br />

467<br />

l’astrazione, svolge una molteplicità di compiti, fra i quali il ruolo<br />

del personaggio antagonista o del doppio. Diventa l’ ‘idolo’<br />

aereo, la quintessenza della fluidità che sfida la danza. Ma, in<br />

altre situazioni, è poi un segnale, una cifra ritmica o un costume<br />

scenico.<br />

Nel paesaggio sociale e architettonico di Martina Franca queste<br />

qualità emergono lungo un itinerario articolato in luoghi deputati<br />

e segnalato dalle strutture. Ne vien fuori così un tracciato ludico-conoscitivo:<br />

ludico perchè la struttura fa da esca alla danza,<br />

offrendo dei pretesti di gioco e invitando la ballerina a tessere<br />

una trama narrativa, la fabula; conoscitivo perché il racconto interpella<br />

altri segni, quelli del contesto ambientale, e suggerisce<br />

la ricombinazione. Quando poi una struttura si porge come costume,<br />

non slitta affatto verso l’inessenziale. C’è sì l’arabesco, ma<br />

un arabesco dinamico. Piana o tridimensionale, “a mantello” o<br />

avvolgente, la struttura esige una serrata interpretazione da<br />

parte del corpo, il suo mobile addossamento strutturale, e nel<br />

contempo rappresenta l’ostacolo, il nodo da sciogliere in una dialettica<br />

di leggerezze.<br />

La riprova viene dalle minime configurazioni modulari dei “gio-<br />

L. Mosso, Nuvola rossa ed esposizione. “Struttura”, Palazzo Carignano di Torino,<br />

1980.


ielli”. Manovrandole si può dar vita ad un teatro microscopico, ad<br />

una scena gulliverizzata di gesti e metamorfosi; anche ad un<br />

teatro di ombre. In tal caso il gioiello funziona come magnete,<br />

una pietra magica, un talismano: custodisce delle figure che la<br />

mano rivela.<br />

Evocare: questo verbo ricorre, non a caso, nelle dichiarazioni dell’architetto<br />

e della ballerina. Ma che significa esattamente? Non<br />

è certo ad una magmatica ed oscura energia psichica che si fa<br />

riferimento. Evocare vuol dire piuttosto far appello all’ordo della<br />

forma e della luce, all’inespresso della Gestalt.<br />

Il battito ritmico della struttura convoca, se così si può dire, il respiro<br />

della lingua originaria. Compie un lavoro di rimozione, specie<br />

nei confronti dei sistemi formali costretti al silenzio o disarticolati<br />

dalla arroganza dell’Identico, del sempre-uguale. Poiché in<br />

definitiva, ciò che importa è l’elemento pneumatico, la vibrazione<br />

continua, nella gamma infinita delle sue manifestazioni, dalle<br />

‘radici’ del comunicare alle articolazioni imprevedibili delle parole,<br />

degli atti espressivi. Quel battito li riporta alla superficie, nella<br />

pienezza del tempo assembleare.<br />

Da qui il valore proiettivo degli esercizi sintetici compiuti nel laboratorio<br />

teatrale. La sua esemplarità è la metafora dell’architet-<br />

L. Mosso, “Progetto per Torino”, struttura in piazza, strutture in cielo, struttura e<br />

danza sulla città, 1979-’80.<br />

468<br />

tura vivente, della progettazione a grande scala urbana.<br />

Le profezie apocalittiche della fine sono in tal modo rintuzzate<br />

con la forza dell’utopia positiva. Il sogno serve per corrodere<br />

l’inerte e creare zone di resistenza, momenti di propulsione.<br />

Apriamo i fogli del teatro immaginario e troviamo una folla di<br />

progetti per Torino: Struttura e danza sulla città. Sono investimenti<br />

fantastici dei luoghi pubblici, di piazze, giardini e cieli piemontesi:<br />

pensieri che hanno trovato posto nelle strade e sui cornicioni,<br />

sia pure in abbozzo. Dunque non attraversiamo le regioni<br />

della rinuncia, quanto quelle dell’attesa e della prefigurazione.<br />

Questi progetti sono infatti i possibili vaticinati nella febbre disegnativa.<br />

Qualcuno di essi ha cominciato ad abitare i teatri e le sale, come<br />

la grande fiamma sospesa sul percorso multiplo del Museo della<br />

Resistenza, sopra le bandiere dell’Altra Italia. Un sogno? Lo è<br />

senza dubbio, purchè si riconosca a questo sogno uno spessore<br />

concreto, il suo farsi qui ed ora forma manifestata di un immaginario<br />

volto alla leggerezza.<br />

Questa animazione totalizzante e tuttavia sempre aperta è<br />

l’esatto contrario della messa in scena archeologica, giacché il<br />

passato ritorna, non come spoglia o documento congelato, ma<br />

L. Mosso, Inserimento di una struttura a giunto elastico in ambiente storico, Martina<br />

Franca, 1981.


L. Mosso, Struttura di scena per lo spettacolo “Struttura e danza”,<br />

esperimento di teatro urbano al ‘Teatro d’artista’ di Martina Franca, danzatrice Tiziana Tosco, 1980.<br />

469


come un’espressione viva: un materiale d’uso. Lo si constata ulteriormente<br />

nei progetti di risanamento e ristrutturazione dei<br />

centri storici, dove la "regia totale" dell’architetto riesce a far convivere,<br />

in un organismo flessibile, i segni del passato (o della subalternità)<br />

con quelli del presente.<br />

La interpretiamo come la fatica più arrischiata di Mosso. Un<br />

frammento di esistenza (un complesso di spazi) si trasforma in<br />

officina sperimentale, sia esso il museo o un isolato, il “quartiere-borgo”<br />

della città. Il Gesamtkunstwerk si rovescia così nella<br />

470<br />

L. Mosso, Sistema alfabetico<br />

seriale monografematico a<br />

modulazione verticale, 1980,<br />

tecnica mista, cm 22x22.<br />

prassi della trasformazione urbana. La scena continua ad agire<br />

sullo sfondo, con potenza divinatoria. È il “piccolo mondo” in cui<br />

si forgiano le istanze della città trasparente.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Architettura e pensiero logico”, tenutasi<br />

presso la Casa del Mantegna, a Mantova, nel maggio 1981.


Chi recita?<br />

Elio Marchegiani (1)<br />

Il tempo è oggettivo, dice Marchegiani: oggettivo a differenza<br />

dello spazio, che è invece marcato dalla soggettività, dal limite,<br />

dalla prospetticità dello sguardo. Ed è figurazione del tempo senz’altro,<br />

la sua, così insistentemente cadenzata sullo scorrere degli<br />

istanti e sul rifluire del già-stato nei punti del ricominciamento,<br />

dei ritorni e dei rilanci.<br />

La messa in scena, sia dell’oggetto in sé sia dell’intero visibile<br />

della mostra, spazializza gli accadimenti, disloca forme ed immagini<br />

lungo stazioni duali, in cui giocano i doppi, le false somiglianze,<br />

il soggetto di ieri e quello di oggi, infine le identità e i<br />

loro simulacri. Niente panottico dunque, ma talora peste, conta-<br />

E. Marchegiani, Grammature di colore - supporto intonaco, 1978.<br />

471


gio e fulmini, come nelle "Veneri", nelle "Mosche" del 1969 o nel "Fiore e farfalla artificiale" di<br />

due anni dopo.<br />

Fra gli stazionamenti polari degli oggetti, fra il polo per così dire negativo e quello positivo delle<br />

immagini, preme inoltre tutto lo spessore mentale del tempo, quell’entità invisibile ed illuminante<br />

che fa appello alla visione intuitiva del dentro, la sola in grado di istituire un rapporto di<br />

solidarietà fra le differenze e di innescare perfino dei misteriosi coaguli d’amore.<br />

Ecco scandito, ad esempio, nell’ultima stanza, il dialogo muto di un oggetto naturale e di un manufatto,<br />

entrambi bianchi, ambedue salvati dalla dimenticanza e situati ai bordi opposti del tavolo:<br />

una conchiglia ed il frammento di uno stucco. Diversi e tuttavia uguali. Li accomuna il segno<br />

della spirale, il glifo della crescita. Nella misura evolutiva della forma, l’una fusionale e l’altra impressa<br />

dalla mano, avviene la condensazione immaginaria: l’artificiale precipita nell’inconsapevolezza<br />

della natura e lì trova il suo stampo, la vitale ‘corrispondenza’. Mentre lo sguardo segmenta<br />

le cose, il geroglifico del tempo li riunisce nella gessata uguaglianza di un medesimo destino.<br />

Due bianche presenze naufraghe: così si adunano le tracce, ma per farlo, occorre lo stato<br />

di "grazia", come diceva Kleist; solo la superiore leggerezza riesce ad avvicinare l’antichissimo<br />

ed il nuovo, ponendoli l’uno al di qua e l’altro al di là di uno stesso punto nel cerchio della conoscenza.<br />

Allora, come qui avviene, i relitti e le testimonianze parlano nonostante il silenzio,<br />

dentro il vuoto, oltre il loro guscio ed essere mortale, poiché appartengono alla circolarità degli<br />

E. Marchegiani, Rapito da infinito amore,<br />

più care d’ogni bene mi accolgano le Muse<br />

(Georgiche, II)<br />

472


E. Marchegiani, Sinopia XVII (<strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>), 1981, cm 50x50. E. Marchegiani, Sinopia XVI (Gino Baratta), 1981, cm 50x50.<br />

eventi ed insieme la misurano. La continuità li riassorbe dentro<br />

di sé riconoscendovi il proprio volto.<br />

Lavorare sulle diversità e produrre somiglianze, ben sapendo che<br />

l’immagine ultima è imprendibile; anzi correre insistentemente<br />

da un luogo all’altro per catturare il filo nascosto delle ‘figure’,<br />

costituisce l’ossessiva tensione di questa morfologia: una morfologia<br />

genesica (e non genetica), una pratica del rifacimento e<br />

della maçonnerie, divaricata fra il gesto spaesante del trascrivere<br />

e la riattivazione dell’energia, fra il disseppellimento dell’interrato<br />

(che altro è la sinopia se non una scintilla nascosta,<br />

un’anima delle cose?) e la nuova nascita, La forma evidentemente<br />

non è l’energia ma solo il luogo nel quale scorre: è la finzione<br />

che rende percepibile lo scatto dell’accadimento; il suo involucro<br />

fittizio e la sua maschera. Di qui la necessità di rendere<br />

ubiquitarie le manifestazioni sensibili, facendole poi tornare su<br />

sé stesse lungo itinerari anomali, mediante l’esercizio della distorsione<br />

e del ribaltamento, del dritto anche e del rovescio insieme<br />

(Il Cristo morto). Perciò Marchegiani ricorre alla recitazione<br />

dello spazio. Lo spettacolarizza fisicamente e mentalmente,<br />

dis-centrando le attese e provocando parallelismi, suggerendo<br />

analogie nella trama discontinua degli eventi.<br />

473<br />

Percorsi laterali e rovesciati, si è detto. Ma anche verticali. In comune,<br />

gli uni e gli altri possiedono la strategia dell’aereo, promuovono<br />

cioè l’incunearsi di spazi liberi fra i termini contrari di<br />

una configurazione: spazi aperti ma fortemente centripeti, attrattivi.<br />

Quando i principi opposti (l’uovo e il punto di luce, la durezza<br />

e la sofficità, eccetera), spesso pregnanti come emblemi,<br />

fanno respirare la visione sulle cerniere dell’alto e del basso,<br />

della destra e della sinistra, lo spazio subisce una sorta di accelerazione,<br />

diventa ‘ordine cosmico’, saldando in unico blocco gli<br />

elementi lontani. Né si tratta di un pieno cristallizzato, quanto di<br />

una concentrata attesa contemplativa, in cui il dato fisico fa da<br />

supporto all’evento ideale, alla ‘mente’.<br />

Questo detentore di materie cifrate, ouvrier del silenzio, fa conto<br />

delle mappe, organizza i luoghi nella collana armonica delle<br />

stanze, ponendo al centro del perimetro, sotto il metafisico cielo<br />

mantegnesco, la più rapinosa delle installazioni. Adotta la sintassi<br />

della febbre fissata, la pura ed assoluta verticalità, vale a<br />

dire una stilistica e una topica della ascesa. Dall’alto, sul cuore<br />

della casa-atelier, pende l’uovo calcinato di Piero, il lapis della divina<br />

proporzione, col tatuaggio sferico di una scritta vaticinata<br />

nel mondo dell’Ade da Anchise-Pitagora: voce, quest’ultima,


E. Marchegiani, Sinopia II (Il Cristo morto), 1981.<br />

delle ombre intorno alla ‘mole’ del mondo in gestazione, per segnalarne<br />

la peripezia di metamorfosi e rinascita. Ma il cuore sottostante<br />

è ancora più vivo; è la luce incandescente del pensiero:<br />

lampeggia dal fondo, distillata dalla superficie della terra.<br />

Tutta una serie di simboli intesse dunque la rete del senso. Eppure<br />

questi significati non si lasciano perimetrare dalla discorsività.<br />

Più che simboli conclusi, le forme sprigionano delle traiettorie<br />

di idee, delle virtualità significative. Fanno apparire e disparire,<br />

dischiudono e mostrano il vuoto, sicché quel che parrebbe<br />

essere una trasparente pronuncia teorica, un offrirsi quasi<br />

della poetica nell’opera, alla fine non si fa più catturare. Incentiva<br />

anzi l’ambiguità.<br />

Ecco perché le immagini, simili ai crocicchi di un paesaggio accidentato,<br />

invitano a viaggiare. Né si è certi che i loro sentieri assicurino<br />

tragitti sereni, con regolari ritorni. Ogni volta, all’atto dell’attraversamento,<br />

può aggiungersi un’asperità, un caso inedito,<br />

così come può capitare una perdita, un incidente sottrattivo. Il simile<br />

sfocia nel diverso.<br />

Nella galleria dei ritratti la somiglianza conosce avventure di trasformazione.<br />

Quel volto, per esempio, non è più lui. Oppure: è<br />

lui, ma in una differente stratificazione psichica, ha tratto fuori la<br />

“sinopia” e l’ha ribaltata, l’ha fatta giocare a scacchi col ‘sottosuolo’<br />

di un altro io.<br />

Osservando tecnicamente le cose, è chiaro che il pittore mano-<br />

474<br />

vra le entrate e le uscite. Esibisce e fa esibire, è il clown agile<br />

che traghetta le anime. Guarda e si fa guardare. Ma forse neppure<br />

lui è il primo attore. Anch’egli è un portatore di energia, il<br />

sostegno di qualcos’altro. Chi agisce in realtà? Chi recita, dietro le<br />

apparenze?<br />

Lo spazio della finzione e la topografia teatrale sono chiaramente<br />

fissati secondo i principi, ancora una volta ‘trascritti’ e perciò<br />

metamorfici, del rituale cortese. C’è una corte d’anime, non servile,<br />

Servo è semmai, qualche volta, il ritrattista per sue segrete<br />

disposizioni spirituali, in certi luoghi deputati al cerimoniale d’affezione,<br />

come nella stanza della “grande chiave”, del pensiero<br />

dominante e del potere. Altrove l’autore è solo con se stesso, allestisce<br />

una ironica triangolazione con la sua presenza vivente,<br />

l’io solo spettatore, e con le funzioni attoriali attribuite alle effigi,<br />

ai propri duplici riflessi: dialoga con l’Artifex e con Hermes,<br />

con l’io tutto in luce e quello sfuggente, col grande e col piccolo,<br />

col severo e col folle. Ma anche qui vale il processo della<br />

identificazione con un altro, sia pure parziale, e del travestimento.<br />

Quasi una trasmigrazione. Trasferisce l’io e lo fa abitare in una<br />

figura immaginaria, nell’universo della cultura (la ‘seconda’<br />

corte) e dell’autoriflessione. Lo sdoppia per potenziarlo. L’analisi<br />

diventa così una procedura dell’energia.<br />

Se la morte non è morte ma un evento di traslazione, tanto più<br />

un simile movimento opera nella pittura. Sottraendosi alle metafore,<br />

anche le superfici dipinte trasmigrano: passano dalla totalità,<br />

dall’istante compiuto dell’opus, al proprio riflesso; dalla<br />

Vecchia storia del 1964 alla nuova storia, potrei dire, in figura di<br />

sinopia. Disimpietrano l’Identico osservandosi. Allo stesso modo,<br />

l’ultimo segno guarda la sua radice, quella datità che è per lui<br />

natura.<br />

Chi recita non è perciò l’effigie, ma il tempo, quel tempo della<br />

pittura che in altra ed essenziale occasione, proprio in termini di<br />

spettacolo, Marchegiani aveva restituito/ sottratto a Balla, "trascrivendo"<br />

materialmente Jeu d’artefice, cioè una scena di luce.<br />

Non a caso.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Mens agitat molem”, tenutasi<br />

presso la Casa del Mantegna, Mantova, giugno-agosto 1981.


“Campionario”<br />

Mostra di alternative (1)<br />

Furono anni effervescenti, pieni di promesse di eccitazioni per<br />

l’arte italiana quelli che vanno dal declino dell’informale al Sessantotto:<br />

splendidi allora, per chi li visse alle soglie delle grandi<br />

utopie di liberazione, ma carichi in seguito di rimorsi e perfino di<br />

sensi di colpa: tanto carichi da introdurre poi lo sguardo retrospettivo<br />

a dare giudizi discriminanti, oltre che a disamorarsi o rimuovere.<br />

Se pochi finora si sono cimentati in un esame complessivo<br />

del periodo, quasi nessuno lo ha fatto ricorrendo ad uno<br />

strumento diretto di conoscenza come la mostra, con la sua concreta<br />

partitura di materiale. Ed il silenzio, più che apparire misterioso,<br />

sembra venire dal disagio o da calcolata dimenticanza.<br />

Tra le rare eccezioni sta la recente rassegna veronese di “Campionario<br />

60-68 – alternative italiane alla Pop Art e al Nouveau<br />

Réalisme”, aperta fin dall’agosto al palazzo della Gran Guardia.<br />

Curatori dell’ordinamento sono gli stessi saggisti in catalogo: un<br />

poeta e critico come Alessandro Mozzambani, che vanta una sua<br />

attiva presenza nel Sessanta (dunque un ‘testimone’) e un giovane<br />

Luigi Meneghelli, cui, per ragioni di anagrafe, è affidata la<br />

responsabilità dell’inventariamento e della lettura a distanza. Col<br />

che viene offerta in apertura, la necessaria garanzia di un’operazione<br />

dialettica giocata fra parzialità e acribìa documentaria.<br />

L’esito è non solo persuasivo ma provocatorio abbastanza per<br />

rompere i silenzi e suscitare il dibattito. Innanzitutto “campionario”<br />

svolge una sua tesi polemica, un’ipotesi che - venendo a<br />

concludere altri regesti - ribadisce l’autonomia di una ‘factura’<br />

italiana dell’immagine rispetto ad altri contesti, europei e statunitensi,<br />

con i quali viene spesso fatta collidere. Insomma un’attiva<br />

differenza, neppure riducibile al moto uniforme di una corrente.<br />

L’inchiesta, tutta condotta sulle immagini artificiali e sulla pelle<br />

dei simulacri urbani, torna a riannodare il dialogo, ora cinico, ora<br />

sottilmente ironico e crudele, ora patetico fra l’artista-mimo e le<br />

vuote superfici della falsità delle maschere e delle icone nella<br />

sfera dell’immaginario: del mito, del gioco, delle scritture. Quasi<br />

mai l’occhio si arrende all’oggetto, alla dovizia del tutto-uguale,<br />

e gli errori quando ci sono, vengono commessi per eccesso di<br />

slancio, senza le cadute che altrove si ebbero nelle cieche eufo-<br />

475<br />

rie di realismo. L’artista coglie segnali ma al tempo stesso rammemora<br />

e rifà, demolisce e rinnova, magari tuffandosi nell’oscurità<br />

dell’inconscio o nel segreto degli enigmi. Lo spaccato<br />

degli anni e delle opere si anima così di molteplici avventure individuali.<br />

In particolare vien fuori limpidamente la continuità col<br />

passato, il coagulo fra le neoavanguardie e il futurismo, dada, la<br />

metafisica. Di fronte ai reperti più prestigiosi, la temperatura si<br />

fa incandescente, sprigionando scintille di anticipazione; ed allora<br />

si pensa all’arte povera e ai fatti successivi del Sessanta. Dal<br />

canto suo il ‘testimone’ scommette sull’eredità, con ricchezza di<br />

prove dirette: inoppugnabili anche per noi, quando si tratta per<br />

esempio dei cifrari di Kounellis o di Baruchello, dei fantasmi mortali<br />

di Mauri; oppure di Pascali (splendido il suo monolito di<br />

“negra al bagno”), di Pozzati, di Schifano o della Fioroni.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 3 ottobre 1981, in<br />

occasione della mostra tenutasi presso il Palazzo della Gran Guardia a<br />

Verona.


Filo annodato<br />

Gianni Del Bue (1)<br />

Librata sulla superficie una figura si sposta, alita, ondeggia. Tante<br />

altre cercano di sfuggire alla tela lacerando i legami col quadro.<br />

Ma vi riescono solo in parte: eccole infatti affiorare altrove, più in<br />

basso o di fianco, intere, a pezzi o semivelate. Qualcosa continua<br />

a trattenerle e questo qualcosa non è soltanto la forza dello stile,<br />

il passo della ripetizione (figura dominante in Del Bue), bensì un<br />

elemento materiale, il filo stesso della tela, un filo che talvolta si<br />

strappa e più spesso aggancia, afferra e ricuce l’immagine al corpo<br />

della rappresentazione. Va a finire che la figura aggalla incerta a<br />

mezz’aria, insieme vicina e lontana, come un’esca che infinitamente<br />

rilanci il piacere dell’inseguimento.<br />

Va - vieni, scompari-ritorna, Fort! Da! Non è questo il gesto onnipotente<br />

del bambino, quel gioco del «rocchetto» che, stando allacciato<br />

alla mano, salva dalla perdita? Anche il pittore tiene un<br />

cappio e, allentandolo, inscena l’atto della scomparsa. Colma il<br />

vuoto mediante una cerimonia, con la differenza che gli oggetti<br />

non appartengono più alla camera dell’infanzia ma provengono<br />

dai campi della pittura.<br />

Egli rovescia, annoda, torce. Associa e dissocia, ricombina. Dalla<br />

storia dell’arte, viene fuori un’altra storia, un racconto. Un romanzo<br />

finito? O non si tratta piuttosto di tessere e ritessere l’impossibilità<br />

di dargli compimento? di rincorrere, senza mai raggiungerla,<br />

quella medesima figura, e di affaticarsi per tenerla velata?<br />

Se nulla si linearizza e tutto, anzi, sfugge e ritorna a potenze diverse,<br />

per ellissi e spirali, se non v’è progresso ma spostamento<br />

laterale e arretramento, dove sta veramente lo sguardo? Sul dritto<br />

o sul rovescio? Probabilmente sull’angolazione dell’uno e dell’altro,<br />

sul calcolato spigolo che separa le cose dai loro riflessi, a<br />

100 gradi, come vuole una celebre ipotesi della metafora. Che sia<br />

in questione una partita di caccia pare intanto sicuro. L’iconografia<br />

sta lì a confermarlo. Basta osservare fra gli intrichi e i cespugli di<br />

fili, anche nei minimi scomparti dell’opera, i cani lanciati su animali<br />

selvatici, gli ami, le frecce e i graffi confitti nella pasta del colore:<br />

poi le reti, gli anelli e le fionde, tanto per citare alcuni dei<br />

molteplici arnesi d’urto e di taglio.<br />

La caccia si direbbe selvatica, ma fa presto a tramutarsi in un appostamento<br />

d’altro genere e più precisamente in una battaglia<br />

476<br />

d’amore, se è vero che la lepre lascia il posto ad una dama, il cane<br />

ad un cavaliere. Intorno alle principesse di Paolo Uccello, alle Veneri,<br />

ed alle Lede, ruotano ghirlande di segni illudenti, battiti d’ala,<br />

astri e pianeti in rivoluzione. Su uno sfondo di costellazioni si convoca<br />

il tòpos del torneo, che è segnale inequivoco dei riti di affascinamento.<br />

La festa è galante, altre volte romanzesca e talora maliziosamente<br />

crudele. In ogni caso, sempre, marcata dalla finzione, da un eccesso<br />

ornamentale; troppo affollata di smalti per essere un travestimento<br />

del quotidiano. Viene il sospetto che la partita vera non<br />

sia neppure quella d’amore, pur restando centrale la tensione erotizzante<br />

degli ostacoli. Intanto osserviamo che anche la tela opera<br />

sulla strategia del rovesciamento, rientrando nella prospettiva del<br />

riflesso cui soggiace il repertorio delle apparenze. Del Bue l’ha ritagliata<br />

e di nuovo composta sul verso, per meglio lavorarne la<br />

trama. E sul rovescio risalgono anche i protagonisti, catturati per<br />

così dire allo specchio, come se di loro importasse il frangersi sul<br />

vetro della rappresentazione e non la vera, primitiva sembianza.<br />

Rispetto ai luoghi d’origine (che sono regioni dipinte e scolpite: un<br />

quadro di Carpaccio o un marmo di Canova), i draghi, i cavalieri e<br />

i corpi femminili percorrono tragitti di retrocessione. Guardano all’indietro<br />

e inviano lontano la fragilità dei profili, i tratti dimidiati<br />

fin dal principio come compete alla loro natura di effigi.<br />

Un’ulteriore caratteristica di una simile battaglia di miraggi è che<br />

la tecnica del ribaltamento colpisce infine chi dovrebbe imprigionarli.<br />

Il cacciatore appare a sua volta preso ed il legamento legato.<br />

Uno scolo di colore ingomma, per esempio, il gancio del disegno<br />

e lo incolla alla tela. Il molle inchioda l’acuminato.<br />

Le grafie di Garanza e dei Finimenti rossi al pari dei serpentinati<br />

addobbi ispirati ai turchesi e alle maschere, escono dal guardaroba<br />

dei trucchi avvolgenti. I copricapo, che molto debbono al mazzocchio,<br />

finiscono per tramutarsi in anelli e cinture. Stringono<br />

mentre arabescano e colorano un corpo. Così un nastro girato sulla<br />

caviglia svolge doppiamente, come le giarrettiere, una funzione di<br />

cattura e una di seduzione.<br />

E più la prima che la seconda. È chiaro allora che lo scontro si consuma<br />

dentro la pittura, teso a coniugare, meglio ad intersecare il<br />

momento mentale con quello fisico del dipingere. Che cosa sono<br />

ami e finimenti, cuciture e fili se non manifestazione della pratica<br />

intellettuale della figura, concettualizzazioni dello sguardo?


G. Del Bue, Senza titolo, olio su tela, cm 60x50.<br />

In breve gli artifici del disegno. E d’altra parte non si incarica il colore,<br />

da sempre, di convogliare il vibrare dell’ ‘anima’, l’impulsività<br />

dell’espressione? Senonché l’autore confonde i ruoli, precipita il<br />

puro nel greve spessore delle materie, rendendo prodigo l’ordine<br />

avaro del segno. Né alto né basso: sopravvivono unicamente<br />

brandelli di superficie e volano arpioni, simulacri disseccati, cortecce<br />

e fili. Reciprocamente in urto.<br />

Che cosa resta?<br />

Nient’altro, ci sembra, che una battaglia sospesa, potenziata dalla<br />

moltiplica degli scorci. Non il colore in sé e neppure, da solo, il progetto<br />

mentale della figura. Opera invece la doppia macchinazione<br />

degli elementi polari che si evocano a catena sul limite della sparizione.<br />

Nel tentativo di scongiurarla.<br />

Sorpresa nello spazio della nascita, l’immagine è mantenuta allo<br />

stato aurorale, in una sorta di ripetuta simbolizzazione primaria<br />

della pittura: lingua fluttuante, beninteso, cigliata ed elastica. Scopriamo<br />

la sua metafora nella Grande allegoria: una gabbia da cui<br />

477<br />

fluttuano ritagli e sagome. Frammenti come lingue tagliate.<br />

Se poi arcangeli e corpi divini impugnano spade lampeggianti alla<br />

periferia di Nuova disseminazione. non lo fanno per appiccare<br />

fuochi del giudizio. Per niente.<br />

L’apocalissi è intransitiva e endolinguistica: serve a riformulare i<br />

segni della pittura in una folla danzante di cigliazioni. Di nuovo un<br />

fulmine esplode alle spalle di Vermeer, facitore di allegorie, e subito<br />

frantuma la mappa che gli sta di fronte, sì che l’ordinato interno<br />

olandese si sfonda in curvature celesti, tiepolesche. Trauma<br />

del distacco ma esorcizzato dai festoni, questo di Del Bue. Anche<br />

San Giorgio, al quale si dedica il recente ciclo dei dipinti, dilapida<br />

una pittura che si alimenta dei propri resti. Colpisce e viene trafìtto.<br />

È il filo annodato all’anello di Olimpia. Scompari! Ritorna!<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Gianni Del Bue, opere 1979-1981”,<br />

tenutasi presso la Galleria d’Arte “Giancarlo Salzano”, piazza Carignano 2,<br />

Torino, dicembre 1981.


La forma dell’invisibile<br />

Carlo Cioni (1)<br />

Due termini vengono a contatto perentoriamente, da anni, nell’opera<br />

di Cioni: termini che parrebbero non solo opposti ma<br />

anche incompatibili. Da un lato sta l’ossessione della forma, con<br />

i suoi connotati ad un tempo esaltanti e mortali, ma anche griglia,<br />

carcere, simulacro e impietramento. Dall’altro v’è l’energia,<br />

il fluire della forza, il Movimento, anch’esso scandito nella duplice<br />

pronuncia dell’accrescimento e della perdita, del vivente e del<br />

riflesso.<br />

Oscillando rischiosamente tra significazioni contrarie e comunque<br />

divergenti, il segno assume sulle tavole uno statuto enigmatico.<br />

Per via di agglutinamenti e rilanci (tutta la poetica del<br />

comunicare mediante la ritmica dell’anima lo prova), si spinge a<br />

condensare una molteplicità di tensioni, l’invisibile e concreto<br />

scorrere dell’energia che il Senso non può perimetrare e che, tuttavia,<br />

ne rappresenta la sorgente, l’imprendibile arché. Accade<br />

così che, nella ricerca del legame, un’immagine non sia più immagine,<br />

ma vibrante figura mentale, e che l’Immobile, tutta la<br />

congerie degli oggetti d’una visione senza zolfo, si sciolgano<br />

riannodandosi al fluido; accade che il geometrizzato precipiti nel<br />

radiante o che un atto sovrano come lo scrivere divenga, nella<br />

strategia figurale del ‘viaggio’, una pratica della sospensione significativa:<br />

una forma dell’itinerare, piuttosto che un congegno<br />

per fissare ed esaurire. È singolare l’amore di Cioni per le scritture<br />

gerarchiche, geroglifiche, ieratiche; significativa la sua partenza<br />

dall’impietrato. Mai lo vediamo mettere tra parentesi le<br />

tecniche del dominio. Per lui il “compimento”, il ritorno della /<br />

alla forza va promosso nel presente, anticipato. L’originario, il suo<br />

‘totemico’, riguarda il futuro. Così come c’è una redenzione della<br />

storia (e della "scienza"), allo stesso modo i protocolli della potenza<br />

sono oggetto di scontro e ri-facimento. L’uomo nuovo (un<br />

leitmotiv dell’artista negli anni della poesia tecnologica) è colui<br />

che interroga con pazienza la funzione del concetto e dell’analisi;<br />

che cerca sostanze e radici nelle regioni della freddezza.<br />

Questo lavorare sulle materie dure, dalle scritture agli atlanti allegorici,<br />

su tutto ciò che ha perduto la plasticità dell’organico,<br />

viene a delineare un’avventura di traslazione: un camminare ad<br />

occhi aperti che nulla concede alla dimenticanza. Il rimembran-<br />

478<br />

te osserva il presente e staziona nei luoghi della modernità.<br />

Adotta lingue gelate per accoglierne meglio la sfida. Lo fa conoscendo<br />

bene la fatalità della maschera, la finzione dei sostituti e<br />

i rischi di spossessamento connessi alle forme della rappresentazione,<br />

rischi dai quali neppure le tradizioni misteriche più agguerrite<br />

possono considerarsi immuni. Se ricorre alle mitografie<br />

segrete, ne coglie il nostos profondo verso lo Heimat, la patria<br />

dimenticata, ma ne denuncia contemporaneamente i pericoli:<br />

l’alienazione che è perdita di coscienza. Come a dire che la loro<br />

funzione dev’essere profetica, non regressiva.<br />

Anziché separare radicalmente l’un versante dall’altro, i due<br />

‘sogni’ della scienza e della mistica, del mondano e del sacro, ne<br />

considera invece i punti di frizione, quella fascia indistinta e conflittuale<br />

dove l’interno e l’esterno misurano le proprie intermittenze:<br />

lo spazio-cerniera tra l’indicibile e la mediazione oggettivata.<br />

È una questione di ‘soglie’ e di ‘porte’, di echi e di segnali<br />

colti sul limite, come avviene ad esempio nella serie dei ritratti<br />

senza volto della Dalle cose fuori, dove l’abisso della contemplazione<br />

si apre dentro la muratura delle effigi e quella muratura<br />

viene cifrata, ‘rifatta’ nella lingua sospesa del geroglifico. La<br />

rappresentazione martellata nella fucina dell’ideogramma; e il<br />

mondano, per così dire, divinizzato.<br />

Mi sembra inoltre che lo sguardo di Cioni oltrepassi i segni e le<br />

cose nell’atto stesso di attraversarli. Ed è questa simultaneità del<br />

qui e dell’oltre, questo continuo fiorire dell’ápeiron dentro le maglie<br />

dell’apparenza che ne anima il tragitto. Sicché, con coerenza,<br />

il processo germinativo dell’opera, il suo costruirsi sull’asse<br />

della compenetrazione e degli incastri, si manifesta poi in una<br />

sequenza di enunciati discorsivi, che traducono lo scontro delle<br />

forme in una dialettica senza fine (non decapitata) della storia e<br />

del tempo. Tutta una collana di dicotomie viene convocata (magico/razionale,<br />

alogico/quantitativo, analitico/sintetico, eccetera),<br />

con effetti produttivi di chiasmo, di discesa e di risalita. Forse<br />

un concetto pregnante come quello di rinascita potrebbe essergli<br />

attribuito.<br />

Che significa l’insistenza, acutissima nell’artista toscano, sulle ragioni<br />

della modernità, quel suo pronunciarsi dalla finestra dell’esistenza?<br />

Perché tenersi dentro i margini dell’analitico e del costruttivo,<br />

rovesciandoli di segno? Come spiegare il nesso fra l’elemento<br />

progettuale dell’ipotesi e la tensione verso l’innominabi-


le e l’occulto? Tra logico e totemico?<br />

Benché tecnicizzate fino alla aridità, le grammatiche formative<br />

del moderno non vengono eluse. È vero che esse, obbedendo al<br />

demone della scomposizione, designano una caduta di valori.<br />

Ma in quanto macerie ed eclissi, venendo a testimoniare al<br />

C. Cioni, Dai semi della mente, 1980, acrilico su tela, cm 100x100.<br />

479<br />

grado più alto un’assenza, suscitano in negativo il desiderio di un<br />

altro tempo e diventano le forme in cavo dell’attesa. Se il silenzio<br />

è una delle costanti dell’opera di Cioni, soprattutto il silenzio<br />

della concentrazione, l’attimo senza misura che sta al vertice<br />

della comunicazione, occorre osservare che accanto a questo


stato ‘finale’, se ne colloca uno d’esordio: ed è il silenzio dell’inautentico<br />

ormai devitalizzato; il respiro affannoso delle lingue<br />

totalmente amministrative.<br />

Eppure, per Cioni, la caduta innesca potenzialità inedite. Le materie<br />

tecnologiche, di per sé afflitte dalla cecità, vengono assunte<br />

per modellare la luce e far da sostegno alle cifre pitagoriche.<br />

C’è una dialettica dell’opacità che si rovescia in splendore. Come<br />

ha osservato Ernst Bloch, “quando il mondo visibile sembra crollare<br />

e svuotarsi", proprio allora "le risonanze del mondo invisibile<br />

cercano di diventare immagini in esso e per esso: superfici<br />

evanescenti, crescendo di pienezza, flusso e riflusso delle cose<br />

nella selva di cristallo dell’Io”.<br />

Il che significa servirsi della dis-continuità per mettervi fine, inaugurando<br />

la condizione dell’intensivo. È quel che leggiamo in Un<br />

uomo nuovo: “Il superamento di questa fase può avvenire unicamente<br />

con la generazione di un super-linguaggio che ne rappre-<br />

C. Cioni, Scripta volant, 1963, tempera su tela, cm 120x85.<br />

480<br />

senti la sintesi”. Un super-linguaggio, aggiungiamo, che non è la<br />

summa né la biblioteca di figure separate, ma un’unica figura che<br />

tutte le oltrepassa, convocandole insieme e bruciandole. C’è infatti<br />

un moto di sfiguramento e di cancellazione che non va dimenticato.<br />

Cioni aduna i nomi delle cose, va in traccia di morfologie<br />

visive e di archetipi, ritma numeri e misure, ma è sempre<br />

lontanissimo dal produrre un archivio, poiché i numeri e i nomi,<br />

una volta issati nel campo della tela, hanno perduto il contrassegno<br />

della somiglianza. Azzerano la presunzione del simulacro.<br />

A cominciare dalle superfici, programmaticamente monocrome<br />

in certi anni, viene interpellata la potenza dell’oscuro, del buio,<br />

vale a dire il generarsi delle forme dal vuoto lasciato dai sostituti.<br />

In questo senso il quadro è una metafora genesica, qualcosa<br />

che ‘lavora’ in parallelo con le correnti della vita e le richiama. Tipica<br />

tensione del sapere intuitivo: la pittura, che pure è apparenza,<br />

è fatta rientrare nel circuito kleeiano (e goethiano) del linguaggio<br />

simbolico, dell’indagine essa stessa metamorfica che<br />

esplora la physis: pittura come immersione nella ‘natura delle<br />

cose’, isomorfismo, velo e nube del vivente; con lo scarto necessario<br />

tra fisico e mentale. Ecco perché il dipingere è una forma<br />

dell’ermeneutica, un decifrare per cifrare di nuovo, un evento filtrato<br />

in ogni caso dai protocolli geometrici della conoscenza; e, in<br />

quanto tale, delinea un itinerario, un cammino di avvicinamento<br />

(talora di lontananza) e una sequenza di stazioni.<br />

L’antiromanticismo di Cioni sta proprio qui, nella scelta del limite e<br />

anzi nel fare di esso (la forma) il luogo della ‘seconda’ creazione.<br />

Lo zero, il vuoto, il non ancora semantizzato (l’ ‘asettico’) rappresentano<br />

la condizione perché una forma ancora ardente si manifesti<br />

nella sua estrema purezza. Niente dissoluzione estatica, uscita<br />

da sé, spargimento di energia, ma addensamento e coagulo.<br />

Da qui viene la serrata configurazione della tela, che appare simile<br />

ad uno schermo o ad un oscuro boccascena percorso da<br />

lampi. Gli accadimenti sono fulmini e traiettorie, epifanie luminose,<br />

germinazioni di strutture ritmiche. Certo vi si delinea un<br />

universo di analogie, ma la densità dell’analogico finisce col far<br />

crollare la meccanica dei distinti e sprigiona qualcosa che non è<br />

il reale e neppure il suo rovescio, ma un terzo dato: una energetica<br />

della creazione.<br />

“Nella parte inferiore della scala - racconta un personaggio di<br />

Borges - vidi una sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore.


(...) Vidi l’Aleph. In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di<br />

atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che<br />

tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza<br />

trasparenza”.<br />

Questa immaginazione cabalistica ricompare sugli schermi di<br />

Cioni. Anche lì il tempo lineare svanisce, annientato dal sopravvenire<br />

di un attimo totalizzante. Ma si badi: è in gioco una azione<br />

della mente, non la natura. Come per l’autore dell’Aleph, il<br />

demiurgismo della nascita appartiene al pensiero, che con una<br />

prodigiosa abbreviazione si impadronisce di tutti i luoghi e li concentra<br />

in un punto senza estensione.<br />

Dallo zero ad un altro zero: zero attivo, s’intende; un nulla genesico.<br />

“Dal diario di un artista vissuto sul finire della seconda<br />

era dell’uomo conosciuta come periodo della corruzione (dissoluzione)<br />

iniziale o Nigredo”: questo l’incipit di un foglio. E altrove:<br />

“In fondo il tentativo consiste nello svincolare il ritmo individuale<br />

da quello cosmico per ritrovarsi presenti col nostro punto<br />

zero nello zero del mondo”. Il legame tra il grande ed il piccolo,<br />

l’unione fra i piani dell’esperienza, si pone così nei termini dell’Einfühlung,<br />

della simpatia cosmica, in un salto energetico e ritmico<br />

che mentre fa appello all’unica forza, conserva l’identità del<br />

corpo proprio. Micro e macro risuonano insieme: la grammatica<br />

è quella del contagio, dell’oscillazione simultanea, del potenziamento<br />

del soffio tramite il raddoppiamento intensivo. A ben vedere,<br />

si tratta della medesima relazione che l’opus alchemico instaura<br />

con l’universo naturale, concepito come un crogiuolo di<br />

forze. Non che l’alchimista voglia rifare il mondo. Intende costruire<br />

sé come mondo, rinnovata creazione. Perciò si chiude con<br />

la propria opera in una ferrea meccanica costruttiva, affidandosi<br />

ai suoi indici di contatto, alla dynamis vibratoria che da essa<br />

emana. In altre parole l’opera è una finzione ma una finzione efficace.<br />

Dal principio alla fine, proseguendo nella scala della purificazione,<br />

rimane perfettamente consapevole del carattere illusorio<br />

del processo. Ed è la coscienza dell’illusione, insieme alla<br />

‘densità’ del sogno, a garantirgli la riuscita. La presenza a sé, trasferita<br />

nel fare pittorico, fa sì che l’immagine acquisti spessori<br />

fortemente psichici, operazionali; che non sia solo una metafora,<br />

ma anche un processo di trasformazione, produca sigilli mentali:<br />

un mutus liber.<br />

Se la luce costituisce un tòpos dominante, è tuttavia come de-<br />

481<br />

tentore delle partiture temporali che il tema diventa significativo.<br />

Quale tempo? Intanto, come s’è visto, l’oltre del fenomeno<br />

(il lampo cairologico, l’Aleph) è un evento congiuntivo. Moltiplica<br />

i rapporti. L’altrove, l’istante che tutto contrae, non trascende<br />

il deposito delle forme, ma le invera. Opera nel qui del visibile,<br />

agganciandolo, grazie ai colpi di sonda del pittore, al “regno nascosto”.<br />

Prende vita piuttosto un diverso prodigio: l’insediarsi<br />

dell’universale nel particolare, dell’assoluto nel tempo. La violenza<br />

divorante e quantitativa di Chronos è sconfitta dall’amoroso<br />

coagulo di Mnemosine, la custode degli itinerari, colei che tesse<br />

la tela dei ricominciamenti e dei ritorni.<br />

Nella mitografia dell’artista il tempo creaturale, marcato com’è<br />

dalla scissione, è latore di malinconie saturnine. “Le porte - egli<br />

scrive - rimangono chiuse e una grande tristezza / incombe su<br />

tutta la scena”. Forse la creazione stessa è sbagliata: la beffa di<br />

un Arconte malvagio o un gioco di specchi del pensiero: “la porta<br />

C. Cioni, Dalle cose fuori, 1981, tecnica mista, cm 48x33.


C. Cioni, Dalle cose fuori, 1980, tecnica mista, cm 45x32.<br />

482


sempre chiusa / senza cardini e senza serrature. / Sigillata: essa<br />

è una / porta finta”. Come può la limpida forma, la teatrale e<br />

specchiante rappresentazione, sopportare la crudeltà di un dio<br />

insensato? Lo specchio non fa che rimandare, moltiplicandoli, i<br />

frammenti, accrescendo lo strazio della perdita. Anche le opere<br />

sembrano impotenti di fronte all’assalto del tempo; inutile l’itinerario<br />

testimoniato dai “fogli, con i tuoi / poveri segni”.<br />

Per invertire il tragitto del tempo, la pittura dovrà percorrere sentieri<br />

laterali, praticare a sua volta la menzogna, battere l’Altro<br />

con la potenza del “vero sogno”. E ci riuscirà facendo irrompere<br />

l’enigma, la tensione dell’ambiguità nelle strutture della contraddizione:<br />

il tutto pieno del simbolo nei frammentati paesaggi<br />

dell’analitico.<br />

Cioni è talvolta approdato al récit, al racconto visivo del “suo”<br />

viaggio. Ci ha dato delle fabulae e delle scene, anche una dram-<br />

C. Cioni, Albero, 1975, acrilico su tela, cm 150x100.<br />

483<br />

matica dell’ombra e della luce, montando un teatro essenziale,<br />

fatto di emergenze smaterializzate e di scale ritmiche. Un dato,<br />

questo, che testimonia fra tanti altri la continua riflessione intorno<br />

al tema della generatività: dalle avventure del linguaggio dei<br />

primi anni Sessanta alle rifrazioni temporali, fino alle ironie di<br />

certe trame ultime dei semi e modelli cosmici; voglio dire che lo<br />

documenta l’intera successione dei cicli plastici e disegnativi. Va<br />

però aggiunto che la temporalità, quella ossimorica e circolare<br />

che gli è propria, agisce fin nel sottosuolo dell’immagine, nei<br />

punti più riposti del meccanismo formativo delle grafie e delle<br />

icone, di cui rappresenta il traliccio portante. Ne sorprendiamo la<br />

presenza già nelle cellule pittoriche. Poi da nocciolo si dilata a<br />

macrosegno, a mitologema perfino frontale, e al campo intero<br />

della superficie.<br />

Questa struttura profonda è dotata di prospetticità: ambigua<br />

però e ubiquitaria. Due immagini in una, o l’uno con i suoi doppi.<br />

Il più e il meno nello stesso percorso. Anche nelle configurazioni<br />

più racchiuse e centripete, le tracce luminose disegnano flussi<br />

di andata e ritorno, con-fondono l’identico. Il loro dèmone formale<br />

è il labirinto. Lavora sui rovesci, separa ed unisce. E tanto<br />

più attivo è il suo dinamismo quanto maggiormente impatta<br />

nella centralità dei luoghi, come mostra il frangersi e rinascere<br />

dei corpi lineari nelle tempere ed acrilici del ’75-’76; o l’affrontarsi<br />

di una parte col proprio volto rovesciato nelle zone opposte<br />

di un quadro: sugli spartiti laterali, sul sopra e sul sotto di un orizzonte<br />

arbitrario, all’interno e all’esterno di un perimetro.<br />

Se la spirale abita in una sfera, è certo per incentivare il principio<br />

dedalico che un cerchio viene spezzato, un poligono contraddetto<br />

o una immagine spartita da una energica cesura luminosa.<br />

Il coefficiente di smarrimento che un segno in trasformazione<br />

convoglia dentro lo spazio, con l’andare e tornare dal centro<br />

all’esterno, tocca l’intimità stessa del simbolo. Ogni punto, ogni<br />

pulsazione è difatti un labirinto in miniatura. E poiché un<br />

tema cresce dentro l’altro, tutti i germi nati da questo elemento<br />

nucleare, una larga costellazione di motivi finisce per ruotarvi attorno:<br />

la voluta, la chiocciola, la caverna ed infine il mandala, per<br />

citarne solo alcuni cardinali. È evidente allora che la ‘simultaneità’<br />

dello sguardo di Cioni si riferisce alle proprietà agglutinanti<br />

della forma, che determina anche qui una ‘storia infinita’ di analogie,<br />

per aggiunte, accrescimenti e incontri di doppi.


Quel che importa sottolineare, in ogni caso, è il tremore dell’ubiquità<br />

nel cuore dell’uno.<br />

Nelle ultime tele, al posto dei neri e dei blu senza fondo, iniziano<br />

a scandirsi sottili grammature di colore, alternanze scalari di<br />

azzurri, di grigi e di chiari, trasparenze e velature quasi fantasmatiche.<br />

Si ha l’impressione che dei corpi provengano dall’indistinto,<br />

come se l’occhio li percepisse dal di fuori, da un mondo<br />

non ancora nato e cercasse una scorza visibile con cui rivestirli.<br />

Forse il dialogo con l’altrove si è fatto più intenso; e più struggente<br />

il rapporto col tempo. Vi leggiamo delle storie cosmogoniche<br />

di incontri. Attrazioni regali di soli e di lune. Nozze mistiche.<br />

Ma la fantasia grafematica, questa ‘vera’ alchimia, è l’autentica<br />

protagonista. Che cosa articolano i miti, i corpi astrali del<br />

Maschile e del Femminile, se non i meandri del pensiero, il suo<br />

pulsare per grandi volute? Non per nulla tornano a ribadire le vie<br />

della scrittura, i sistemi vertiginosi, come li ha chiamati una volta<br />

Sergio Salvi, delle lettere e degli alfabeti. Nascono, non a caso,<br />

dai “semi” della mente. E seme letteralmente vuol dire indizio,<br />

traccia, cifra e prodigio. Dunque sono i sigilli della conoscenza, la<br />

sua incontenibile produzione simbolica e formale.<br />

484<br />

C. Cioni, Dalle cose fuori, 1979, tecnica mista, cm 48x33<br />

(particolare).<br />

Una strategia del compimento? Stando nella zona dell’intermittenza,<br />

la forma che puntualmente svolge il ruolo della mediazione,<br />

si carica di desideri androgini. “Sono figlio di terra / e di<br />

cielo stellante”. Ma il mito nasconde un itinerario negativo, la ripresa<br />

del processo, l’umbratile consistenza di una pittura ormai<br />

sospesa fra il reale e i possibili. Anticipa un’altra tappa del viaggio<br />

e un traguardo irraggiungibile, se non come tensione estrema<br />

e contagio.<br />

Un corpo puro anche la tela, un tutto perimetrato. Nuova lingua<br />

che arresta il tempo, ai confini della fluidità.<br />

(1) Articolo comparso su “Arte Centro”, Milano, luglio 1981.


Materie e cerniere<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Nel giro di quattro anni, dal ’56 al ’59 (e in parte nel ’60), si<br />

avvia e conclude il primo tempo di questa pittura: primo tempo<br />

e non semplicemente esordio (tantomeno preistoria). I preliminari,<br />

se mai, vanno cercati altrove, nel triennio precedente, all’epoca<br />

degli esercizi inaugurali intorno al neonaturalismo lombardo<br />

ed emiliano.<br />

Ora, proprio nel ’56, il pittore si trova ad operare su un limite. È<br />

l’idea stessa di natura ad essere posta in questione: un’idea che<br />

egli interroga ancora come dato emozionale e sensitivo, per<br />

spingerla, poi, a tradursi in qualcosa d’altro, in un evento che la<br />

fa precipitare dentro se stessa, più a fondo, mentre va trasformandola.<br />

Lo sguardo viene allenato a discendere e quasi accecarsi<br />

dentro le cose. Lì scopre relazioni e ritmi, soprattutto scansioni,<br />

senza-nome, che dissolvono definitivamente la naturalità<br />

come dimensione riconoscibile.<br />

L’attenzione per le grafie, con certe attitudini alle congestioni lineari,<br />

ritmate e pulsanti, talora incise nella pasta dei quadri, va<br />

in parallelo con la volontà di defigurare; di trovare cioè grumosità<br />

sotterranee, dei noccioli oscuri di natura gestante, anonima,<br />

anche cosmica, che solo il sentimento ritmico può aiutare a cogliere.<br />

Il che spiega, in taluni momenti, il riecheggiamento di tonalità<br />

ed accenti di area veneta, da Afro ad esempio. Ma è breve<br />

citazione, più che altro un orientarsi nei primi passi dell’indagine.<br />

Il riferimento essenziale resta sempre, come identità da oltrepassare<br />

e bruciare attraverso gli scarti, la carne lombarda di<br />

Morlotti, alla quale l’autore discendeva per tragitti diagonali, spiralici<br />

e vegetali.<br />

Ed è allora che Schirolli mette a punto un suo impatto frontale,<br />

meno febbrilmente organico e più minerale. Non conta più la<br />

curva molle, fibrillare, della terra, bensì la polvere, il terriccio, il<br />

muro, la crosta, il suolo, la crepa. Da lì, seguendo la catena delle<br />

analogie e delle somiglianze, viene lo sfogliarsi di evidenze<br />

aride e porose, come carte, intonaci, carboni, ruggini, concrezioni<br />

per così dire fossili nelle fibre degli oggetti. Calando nel basso<br />

la visione si dilata, potenzia la minima apparizione, ingrandisce<br />

un intrico o una cellula. Eleva il particolare ad universo.<br />

Così la natura si metamorfosa in materia e, a sua volta, quest’ul-<br />

485<br />

tima (con un rovesciamento davvero decisivo) in natura più vera,<br />

essenziale. Materia è natura, suona il titolo di una tela, volendo<br />

significare che è vita, energia ed origine; e che lo è proprio nel<br />

suo nucleo più indifferenziato, non nominabile, cieco.<br />

Un simile sentimento dell’ ‘inizio’, questo presagio di vita nascosta<br />

ed aurorale che preme dal fondo, che indistintamente alita e<br />

resta imprendibile; che si fa sentire ma non esplode, rappresenta<br />

una potenza del buio che il dipingere tenta di penetrare per<br />

mettervi luce e di portare in superficie. Si direbbe un cercare rivelazioni<br />

per manifestarle, un premere dall’interno all’esterno.<br />

Quanto abbia pesato in quel frangente l’esempio di Bendini, frequentato<br />

allora a Bologna, appare tanto più risolutivo se considerato<br />

da questa angolazione. Diversa è fuor di dubbio la temperatura<br />

morale del ‘maestro’. Singolare ed irripetibile l’inquietudine<br />

conoscitiva dell’artista più anziano, quel suo cercare echi<br />

di un fantasma indecifrato nel mondo della dispersione ed arrestarsi<br />

sulle “porte” e “lapidi” del sensibile; e sospendere l’inchiesta<br />

nella turbata coscienza degli incompimenti. Ma in comune<br />

v’è l’itinerario che parte dall’oscuro, l’interpellanza sulla ‘figura’<br />

custodita in uno scrigno lontano.<br />

La strategia di Bendini, “l’accanita estroversione” di un’effigie, dal<br />

dentro al fuori, passa in Schirolli, lo contagia, assumendo calibri<br />

percettivi, in certo modo tattili, nel fiottare concreto di forme ed<br />

elementi. Se Burri, altra presenza capitale nel ’57 - ’58, specie<br />

R. Schirolli, Per favore, l’uscita?, 1964, olio su tela, cm 170x200.


per i “legni”, insegna l’arte del coagulo, strappa, addossa e condensa,<br />

Bendini dal canto suo assottiglia e sfrangia, apre le cuciture.<br />

Insinua soffi nella geologia delle croste.<br />

L’umido in Schirolli presto s’inaridisce, lascia posto al secco e in<br />

seguito all’aereo: potrei riassumere così schematicamente la trasmutazione<br />

delle forme nelle regioni dell’immaginario, aggiungendo<br />

però che il trapasso di regime convoglia una diramata avventura<br />

cromatica, uno sviluppo lenticolare verso l’ombra, mediante<br />

minime, impercettibili differenze. Le terre ancor molli e<br />

vegetanti, i verdi e i bruni si incarboniscono e perdono intumescenza<br />

fino a trasferirsi in pellicole. Tramate, quasi fossero scisti<br />

e filtri, le superfici tradiscono alla lunga un desiderio di traspa-<br />

R. Schirolli, Paesaggio n. 1, 1974, olio su tela, cm 190x250.<br />

486<br />

renza e di velature.<br />

Si osservino gli impasti e si vedrà che i colori più fervidi, i gialli<br />

e i rossi, anziché perdersi e scomparire, vengono invece precipitati<br />

nell’oscuro, fatti lavorare dentro e sotto gli accumuli. Segno<br />

che il nero non è nero assoluto, ma innerimento e calcinazione.<br />

Un temporaneo annientamento: gestazione profonda ed interrata<br />

perfino dei bianchi.<br />

Quando si aprono crateri e ferite, non è un lago di rosso a sedimentare<br />

(il vivo fuoco e sangue di Burri), quanto una faglia accidentata<br />

e una riverberazione di riflessi. Uno sfrangiarsi di spigoli<br />

abbrunati, di tessere lucide ed opache, di spugne e garze.<br />

I riflessi delineano cadenze, sprigionano ordini e misure. La ma-


R. Schirolli, Atmosferico, 1975, olio su tela, cm 100x100.<br />

487


teria è soggetto e oggetto insieme, presenza a sé e forma. Stando<br />

nel cuore del ‘motivo’ il pittore alterna i registri d’ascolto: allenta<br />

e tira, si abbandona all’improvvisazione e la riprende, ordina<br />

il caso. Si mantiene docile all’imprevedibile: ed è la sua<br />

sperimentalità. Accumula accidenti, vi si aggancia e li riassesta.<br />

Come?<br />

Non direi soltanto in virtù dello sguardo. C’è in Schirolli un vedere<br />

quasi tattile che lo porta a sfiorare, ad accarezzare le materie.<br />

L’occhio si allea alla mano, non solo per ragioni di prossimità,<br />

ma per esigenza di vibrazione. Quel che appare immediatamente<br />

(ed è anche) “piacere della pittura” deriva da una speciale<br />

modalità di orientamento, da un guardare per toccamenti<br />

e passi leggeri, facendo conto delle pressioni, delle direzioni di<br />

stesura e degli spogliamenti. Tuttavia resta pur sempre un vedere,<br />

poiché il tatto riposa infine nello sguardo e cerca prove<br />

nella figura.<br />

Ecco perché assume valore esemplare la pratica del disegno e<br />

R. Schirolli, Gotic Phought, 1972, olio su legno telato, cm 202x90x110.<br />

488<br />

dell’acquaforte, accanto all’esercizio sulla tela, in stringente relazione<br />

di scambio con gli oli e le tempere. Già la tecnica è di per<br />

sé rivelatrice. Più che incidere, Schirolli preme, valuta assorbenze,<br />

cerca impronte, verifica contatti. Si serve di carte dure e le<br />

piega, usa stracci, garze, legni, colle; fa correre acidi, acque ed<br />

inchiostri. Tratteggia, sfuma, lievita.<br />

In un quadro del ’57 (Sul fondo oscuro) grume terrose e croste,<br />

rossi, marroni e bruni, s’incarcerano e fermentano cagliandosi gli<br />

uni dentro gli altri, in un focolaio di germi polverizzati, al pari di<br />

altre condensazioni nelle acqueforti. Si configurano campi, simili<br />

talvolta a schermi e fosse, che se richiamano per analogia ‘territori’<br />

bendiniani (come nella struttura a cornice mandalica di un<br />

Senza titolo dello stesso anno) prefigurano anche certi fondali<br />

oscurissimi del ’58.<br />

Sempre più l’attenzione si concentra verso le zone di confine, gli<br />

orli, i crinali di smarginamento e sovrimpressione. Poiché in questi<br />

luoghi, nei punti di scorrimento e d’urto, Schirolli misura i presagi<br />

della forma. Dove una pelle s’accartoccia e freme contro un’altra,<br />

s’insinua fertile l’ambiguità, scocca una promessa iconica.<br />

Inoltre, per quanto rugoso ed opaco, un confine non blocca mai<br />

la mobilità dei percorsi. La cerniera designa un attraversamento<br />

e fa balenare dei corpi sottostanti. È viluppo di pieghe e velo accartocciato.<br />

Di più: segnala stazioni e rilanci. Collega ed avvicina<br />

anziché separare. È insomma uno stilema congiuntivo. Lega nonostante<br />

le strozzature.<br />

Lo si vede, ad esempio, in Immagine e rosa o nello splendido<br />

collage Polimaterico, tutto cadenzato in orizzontale, del ’58. E<br />

non solo lì. Quand’anche le carte, l’amalgama coi supporti, le<br />

paste ed i veli siano addossati, perfino bruciati e fusi dalla fiamma,<br />

ne viene sempre una spazialità traforata e vibratile, una topografia<br />

a gruviera.<br />

Ci si muove nel buio, eppure la tenebra non è mai totalmente<br />

ostile. Benché minimi, sussistono indizi di abitabilità. Tant’è vero<br />

che rinascono gli orizzonti; meglio: si dà una messa in scena del<br />

‘fondo’, scandito nella partitura delle quinte e nel montaggio di<br />

cortine, appoggi e fondali. Screens del buio ripartiscono Immagine<br />

(’58) e tutta la serie dei quadri del medesimo ciclo.<br />

Inutile dire l’eredità guidiana in queste scritture sotterrate di<br />

“marine” e cieli; così appare anche evidente dove s’è rivolta<br />

l’opzione dell’artista nel contrastato panorama dell’informale.


R. Schirolli, Pittura, 1974, olio su tela, cm 170x170.<br />

Certo lontano dagli scheggiamenti e gorghi espressionistici. Vale<br />

invece la ricerca contraria, tesa a cavare misure dalle derive del<br />

vitale; e a confrontare, anche, cifre auree e neoplastiche con la<br />

perdita del centro.<br />

Per due anni almeno Schirolli resta agli inferi, distillando grafie,<br />

contorni, flussi. Vede con le mani, ma presagisce geometrie aeree.<br />

Se stampa (in alcune delle Trentatré acqueforti, le ultime) l’impronta<br />

velata d’una carta cannetée dentro l’orbita di un cratere<br />

di polvere, la tenebra si fa crepuscolo, luce incerta e spiraglio. In<br />

altri fogli, da tempo, fluttua una struttura bivalve, astata verticalmente.<br />

Oppure si incrociano orli e tralicci in risalita che danno<br />

vita ad un morfema generativo: la piegatura radiante. Pare una<br />

linea, un solco, ma è molto di più: un doppio margine, una ci-<br />

489<br />

gliata emergenza figurale: si schioda ed apre dapprima al centro,<br />

poi ai lati del foglio.<br />

Troppo presto ancora per parlare di luce, quest’immagine è piuttosto<br />

materia leggibile al chiaro, pellicola decantata e pura. Costola<br />

e spigolo.<br />

La cerniera: un tema chiave della pittura a venire.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli 1956-1981”, tenutasi<br />

presso la Galleria d’Arte Contemporanea di Suzzara (Mantova), dicembre<br />

1981-gennaio 1982.


1982<br />

Da Ferruccio Bolognesi<br />

a Giuseppe Botturi<br />

Un sistema magico<br />

Ferruccio Bolognesi<br />

Di piombo e di cera<br />

Paolo Cotani<br />

Ai confini dell’astratto<br />

Giordano Di Capi<br />

Il codice del nulla<br />

Giuseppe Botturi


Un sistema magico<br />

Ferruccio Bolognesi (1)<br />

La scena del melodramma, di un melodramma sorpreso nei momenti<br />

di slancio e di rinnovata sperimentalità anziché nelle codificazioni<br />

monumentali dell’opera chiusa, costituisce il luogo dominante<br />

dell’invenzione di Bolognesi; ed insieme ai lavori di Gagliano<br />

o Paisiello, anche il genere misto, a cerniera fra l’oratorio,<br />

il ballo di corte, la cantata. Il suo sguardo trova alimento in un<br />

teatro per musica già di per sé votato all’esplorazione di grammatiche<br />

metamorfiche ed innovative, capace di sondare partiture<br />

multiple, incastri, compenetrazioni con i registri verbali e figurativi.<br />

Pensiamo, in campo visivo, al gusto composito di Diaghilev,<br />

a certi "scherzi" e trucchi di Taìrov. Non si guarda comunque alla<br />

F. Bolognesi, Villanello, 1973, acrilico su carta, mm 200x155. F. Bolognesi, Nina, 1973, acrilico su carta, mm 200x155.<br />

492


costruzione di un edificio totalizzante (il mito di Gesamtkunstwerk,<br />

pur così vitale nel nostro secolo), quanto alla cooperazione<br />

tra le arti, per incrociarle in un tessuto effervescente di scritture.<br />

Le si fa agire per contatto, consonanza o divergenza espressiva,<br />

mai asservendo l’una all’altra e tenendo viva piuttosto, di<br />

ciascuna, l’esigenza di autonoma formalizzazione.<br />

Quanto all’unità dello spettacolo, è la figura demiurgica del regista,<br />

questa funzione ossessiva della teatralità contemporanea, a<br />

subire uno scarto. Non regge più da sola il fatto rappresentativo.<br />

La congruenza fra le parti è affidata al laboratorio, dove lo specifico<br />

della messa in scena gioca sempre un ruolo inventivo, ma<br />

alla pari con la musica, la pittura e la coreografia. Coordina intenzioni<br />

ed analogie; non prevarica. Può anche accadere, in certi<br />

casi, che l’architettura spettacolare venga suggerita da un versante<br />

speciale, quello del suono. In ogni caso si tiene lontano il<br />

supercodice delle regie totali, dove l’evento musicale appare fatalmente<br />

ri-scritto dalla messa in scena.<br />

Un attivo sguardo filologico innesca il metodo rappresentativo,<br />

nella condivisione di un criterio appreso dalla direzione musicale.<br />

L’archetipo è un corpo semisommerso, rilevato dalle tracce di<br />

una testualità di cui molti spessori sono andati perduti: lo spartito<br />

sei-settecentesco. In più, per sua natura, lo spettacolo non<br />

ammette ripetizioni. Il che legittima, quando il restauro non sarebbe<br />

che un falso con la presunzione dell’autentico, l’intervento<br />

creativo, l’addossamento a ciò che il pittore chiama, con locuzione<br />

significativa, lo spirito del dramma.<br />

La nozione di spirito ha qui un valore propulsivo ed allontana<br />

ogni tentazione ricostruttrice, naturalistica, storico-archeologica.<br />

Non solo: mentre implica una fedeltà più profonda, libera un’attitudine<br />

interpretativa incline al simbolico e all’intensività. Questo<br />

tema, ben noto all’epoca dei ri-teatralizzatori primo-novecenteschi<br />

ed avvertito in modo particolarmente acuto ogni volta<br />

che occorra costruire una ritmica dello spazio a partire dalla metrica<br />

musicale, porta ora ad intendere l’immagine scenica come<br />

emblema cromatico e geroglifico visivo: inclinazione stilistica<br />

senz’altro costante nella attrezzeria e nei costumi di Bolognesi.<br />

Ritmo non vuol dire però movimentazione materiale del palcoscenico<br />

in senso ingegneresco e meccanico. Significa eccitazione<br />

psichica, forza allusiva del colore e della linea.<br />

Secondo quale itinerario?<br />

493<br />

È il testo, empaticamente assunto mediante una pratica severa<br />

di ascolto, ad innescare il tragitto creativo. Dallo scrigno dei suoni<br />

provengono i possibili, l’inesauribile effimero delle figure. Non<br />

arbitrariamente poiché di quel ‘campo’ strutturale vengono indagati<br />

i nessi compositivi, i tempi e le loro relazioni, fino a ricostituirlo<br />

come misura di ritorno. "Il senso dello spettacolo - dichiara<br />

l’artista - mi viene dall’opera, da ciò che mi arriva attraverso<br />

il tempo. Ecco perché mi documento e studio: non voglio<br />

che il mio esercizio sia gratuito". Si configura così una poetica<br />

della risonanza, da cui discende quel tipo di formatività grazie al<br />

quale la lettera del testo trapassa continuamente in memoria e<br />

da lì in emozione pittorica. La voce ed il suono suggeriscono<br />

degli equivalenti nati per vibrazione, con l’esigenza di un confronto<br />

ripetuto con la matrice del senso (la parola, il canto, eccetera,<br />

o meglio le loro tensioni).<br />

Diceva Matisse: "Ci sono due modi per esprimere le cose: uno é<br />

mostrarle brutalmente, l’altro evocarle con arte". Ed è il secondo<br />

che importa. Qualcosa di analogo avviene in questa gestazione<br />

di immagini. Si trasgredisce la somiglianza a vantaggio dell’espressione,<br />

del trar-fuori. E si deforma magari la ‘cosa’ per coglierne<br />

la cifra nascosta. Deformare e rifare, ma non tradire è<br />

chiaro, giacché la presa sull’oggetto (un artificio musicale) resta<br />

sempre fortissima, come d’altronde nella pittura di Bolognesi,<br />

dove non hai una rappresentazione semplicemente fantasticata,<br />

ma una realtà risarcita, generata per la seconda volta. I mitologemi<br />

della vita. Risarcire la musica vale, da una simile prospettiva,<br />

quanto artificializzare il teatro, spingere in avanti il gioco<br />

delle finzioni e delle maschere. Così la superficie viene posta in<br />

stato di allucinazione, talora fissata tanto a lungo da tramutarla<br />

manieristicamente in impresa ed allegoria.<br />

Si consideri, a tale proposito, a quali avventure sottoponga il pittore<br />

il codice della scena all’italiana, vale a dire l’assialità prospettica<br />

con la sua gerarchia di fughe e addizioni. Mantiene in<br />

vita il sistema, lasciandosene fasciare come da un corpo periferico,<br />

un guscio entro il quale mettere in campo un’altra scena.<br />

Alla scansione armonica contrappone, per lo più in avanti, la<br />

forza dell’eccentrico o la frontalità tutta topologica di un percorso<br />

in piano: i due ‘occhi’ della Nina, tradotti in piazza e giardino<br />

sulla pianta dipinta del palcoscenico, ne sono un esempio. E dal<br />

momento che l’ordine chiuso della boite post-rinascimentale


F. Bolognesi, Lindoro, 1973, acrilico su cartoncino bianco, mm 400x300.<br />

494<br />

riassume il mondo, egli fa dialogare quell’universo in controcanto<br />

con una scenografia ‘aperta’, montata sulle catene paratattiche<br />

degli arredi e delle immagini, in cui il frammento, la parte<br />

per il tutto, la sineddoche contano più dell’intero.<br />

Se il contenitore rimane intatto, la logica della molecolarità finisce<br />

col determinare nuovi centri di tensione. Un inquietamento,<br />

si direbbe, dell’esistente, in coincidenza con le stazioni barocche<br />

e settecentesche del dramma.<br />

Perché mai verrebbero innalzate altrimenti sagome inorganiche<br />

e rigide proprio nel cuore del retroscena, all’Olimpico o al Bibiena,<br />

se non per iscrivere delle emergenze araldiche, controprospettiche<br />

ed avanzanti, nei punti di fuga? E segnare così dei<br />

‘metri’ su cui misurare la fisicità degli attori? Di simili interventi<br />

è intriso il montaggio figurale di Bolognesi: dalla emblematizzazione<br />

dell’acqua e del cielo negli speroni aggiunti al proscenio<br />

per Paisiello, agli arredi mobili, alle gabbie della ‘prima’ Dafne,<br />

alla galleria dei costumi. Inclinandosi a contrappuntare l’incombenza<br />

plastica dell’architettura, lo sguardo rilegge il pieno servendosi<br />

di grafismi e irradiazioni coloristiche. Fa leva sull’energetismo<br />

lineare per indurre moti, pulsazioni e pirotecnie nel<br />

quadro iconografico.<br />

Entriamo per un momento nell’officina del costumista. Lo troviamo<br />

immerso nel ritmo, mentre alterna momenti di sintesi a sviluppi<br />

analitici. All’origine c’è un gesto, una sorta di grafema animato,<br />

quasi un’essenza mentale che rivela la natura scenica di un<br />

personaggio. Nel disegno trovi già impressa una attitudine spaziale.<br />

Poi quel ‘soffio’ si ispessisce di paste cromatiche ed è qui<br />

che un protagonista assume forma definitiva. D’ora in poi nulla<br />

potrà più cambiare. Dai semi sigillati dal colore verranno delle<br />

conseguenze strutturali per lo spettacolo, che dovrà rispettare<br />

certe positure, collocazioni e movimenti, perfino registici. Un cavallo,<br />

per citare un caso, anziché sorreggere, dovrà essere sostenuto<br />

e richiederà dei cambiamenti a vista, di sapore tra ludico e<br />

metateatrale, che ricordano i cartigli di Jarry o Mejerchol’d. Naturalmente,<br />

quando nasce, una figura trascina con sé una famiglia<br />

omogenea di segni, accomunati da una nota interna che agisce<br />

da riconoscimento collettivo; e il contrassegno, insieme psichico<br />

e visivo, trova modo di esprimersi in uno specialissimo accenno<br />

di curva, in una inedita forma di diagonalità, in una atmosfera. A<br />

parte alcuni macrosegni clamorosi, quali il labirinto dell’Aeneis


F. Bolognesi, Maschera per il “ballo delle ingrate”, 1979.<br />

495<br />

(venuto per altro da una illuminazione d’equipe) o la siepe dei<br />

doppi metallici del ’78, a Sabbioneta, un’intera suite di personaggi<br />

appare connotata da un tropo centrale: può essere l’ovale,<br />

l’immagine con due fuochi e anime multiple per la Dafne (non a<br />

caso il tema della metamorfosi), o lo spegnimento cinereo del<br />

tono, elegiaco e lunare nelle storie di Eolo ed Eurialo e Niso.<br />

Un elemento curioso che non sempre traspare alla fine del processo<br />

esecutivo (ma un nesso sostanziale deve pur esserci, se riflettiamo<br />

sul carattere totemico ed antipsicologico delle icone: la<br />

cancellazione dei tratti individuali, la cosmesi assoluta del corpo<br />

di cui parla C. Gallico), è ravvisabile nella oggettualità, ossia nella<br />

tendenza a dare l’umano attraverso la cosa. È ben noto che tanta<br />

parte delle grammatiche ‘meravigliose’ traggono ispirazione dalla<br />

fantasia combinatoria, confondendo i territori dell’evidenza sensibile.<br />

Il ‘mostro’ è un figlio puro dell’inventio, per nulla malato di<br />

prospetticità (e forse per questo i mostri sono simpatici a Bolognesi,<br />

compreso l’’’orribil angue" trafitto da Apollo). Fatto sta che<br />

la cosa, non importa a quale regione essa appartenga, infera, terrestre<br />

o cosmica, minerale od organica, determina una metaforizzazione<br />

tale per cui il fisiognomico diventa tipico.<br />

Un personaggio sarà fiore, fiamma, albero, pavone, pipistrello, libellula,<br />

oppure guardinfante, voluta, ricamo. Anche poltrona, bacile,<br />

sacra effigie, santino: ma nei casi proprio estremi dell’opera<br />

buffa (e per ora soltanto progettati), perché l’artista, più disposto<br />

all’ironia che alla disfrenata comicità, suggerisce delle<br />

linee di fuga dentro l’umano. Non demolisce né pietrifica, ma<br />

fonde. È la sua strada verso l’universale. Da qui all’animazione<br />

degli oggetti il passo è breve. Bolognesi lo ha compiuto quando<br />

ha retto un intero spettacolo o potuto dirigere piccoli quadri dentro<br />

la rappresentazione.<br />

Tuttavia, che lo possa o no, dal costume egli procede verso lo<br />

spazio scenografico più ampio, facendo proprie alcune competenze<br />

coreutiche o direttive.<br />

Muove i personaggi in un suo ‘teatrino grafico’, sul foglio da disegno.<br />

Ne anticipa movenze, passi, rotazioni e distanze rispetto<br />

all’osservatore. In breve: fa agire il costume nello spazio. O se si<br />

vuole: inventa lo spazio deducendolo dalla figura. Tanti fogli ancora<br />

lasciati nel cassetto sono zeppi di appunti sul tempo e sulla<br />

illuminazione: tutte regie immaginarie che Bolognesi non impone.<br />

Li usa semmai come zibaldoni di lavoro e credo gli servano


F. Bolognesi, Ermafrodita, 1980, pastello su carta da parati, mm 350x230.<br />

contemporaneamente da alternativa e verifica, per provare se<br />

un’immagine regge alla prova del palcoscenico; e vedere quale<br />

sia la forma più congrua di gestualità: lenta, inceppata, marionettistica,<br />

oppure concitata, fluida e così via. Per lui è una questione<br />

di "tempi affettivi".<br />

Quando venne rappresentato Per passatempo di veglia nel ’79,<br />

con la regia di Caterina Mattea, aveva predisposto, fin dall’anno<br />

precedente, un brogliaccio d’azione per il Combattimento di Tancredi<br />

e Clorinda, che, se pure rimase lettera morta, la dice lunga<br />

sugli sviluppi della scena nell’immaginazione del pittore. Lo<br />

spettacolo è concepito infatti nei termini d’una rivelazione, come<br />

se il teatro fosse il luogo in cui l’oscuro viene improvvisamente,<br />

folgorantemente, in luce. E questo oscuro è la precarietà dell’esistente,<br />

il non senso delle cose. Gli eventi appaiono dal niente<br />

(dal buio e dal deserto) per ritornare nel niente; anche l’or-<br />

496<br />

chestra è cancellata, posta "in modo - dice l’appunto - che non<br />

si veda". I due cantanti, quasi alle radici dell’arco scenico, in costume<br />

cortigiano, disegnano la cerniera tra pubblico e scena. Così<br />

vien data la nota storica ed araldica del recitar monteverdiano.<br />

Poi, alle spalle dell’auctor (la figura del Testo), viene inscenata<br />

una sorprendente azione pantomimica. Gli eroi tasseschi compaiono<br />

letteralmente dal nulla, emergendo dentro il visibile su<br />

due trapezi volanti con progressione lentissima. Il congelamento<br />

del tempo è anzi la nota dominante di tutta la sequenza successiva,<br />

ribadita dall’imprigionamento fisico, cui alludono due<br />

gabbie metalliche, "di ferro forgiato col fuoco", a significazione<br />

plurima: sono armature e luoghi, costumi e fondali, a seconda<br />

dei casi. Una materializzazione del destino che diventa paesaggio,<br />

geografia fatale. Anche la luce partecipa, frantumata com’è,<br />

dopo la tenebra iniziale, in un pulviscolo lampeggiante. Tutto è<br />

concreto, materico, pregno di corposità ed al tempo stesso sognato,<br />

magico. Lo si vede anche nei gesti, nel modo di portare i<br />

colpi: "molto realistico e con grande lentezza". Straniata a sé,<br />

l’esistenza si rivela irrealizzandosi.<br />

Che la luce svolga un ruolo drammatico, ora di energica conflittualità<br />

ora di patetico illanguidimento, appare ulteriormente chiaro<br />

sfogliando il grande spartito registico per la Dafne del 1981,<br />

che porta una minuziosa registrazione di fatti scenici. È una luce<br />

che commenta ma anche una luce che agisce e significa. Talora<br />

un medesimo quadro ospita più di una luminosità, tenue e intensa,<br />

azzurrata e solare, così da esporre nel concertato luministico<br />

un incontro di antagonistiche temperature emotive.<br />

Altrettanto incisiva la recitazione dell’ombra e forse di più, almeno<br />

in certe sequenze. I personaggi stessi sono miraggi e<br />

larve, apparenze talora destinate a svanire (Aeneis), a perdersi<br />

o a perdere gli altri, come il Plutone del Ballo delle Ingrate, vera<br />

creatura abissale; o a celebrare riti di trasformazione, momenti<br />

del lutto. Con più di una soluzione: o l’ombra viene concretata in<br />

una forma circoscritta (costume, maschera, sagoma, attrezzo), o<br />

risolta attraverso una dominante cromatica, oppure manovrata<br />

come l’altro dal corpo, il suo fluido ed enigmatico prolungamento.<br />

Il protendersi del fantasma. Dal brevissimo esercizio del Sanitruch<br />

(’74), dove una battaglia veniva stilizzata nelle proiezioni<br />

d’ombra su uno schermo, fino ai percorsi tortuosi della peripezia<br />

mazzocchiana, si scava dentro questa possibilità. Il vertice


è però raggiunto nell’episodio della metamorfosi di Dafne nell’edizione<br />

del ’78, con lo scompigliamento di un simulacro metallico,<br />

gli echi d’ombre e penombre, i vuoti duramente ritagliati<br />

nei manichini di lamiera.<br />

Una vitalizzazione dell’inerte sarebbe dovuta avvenire già nel<br />

’76 (un’altra delle scenografie mancate) per l’Arcadia in Brenta,<br />

con un’intuizione felice della vita degli oggetti nella drammaturgia<br />

dell’autore veneziano. Protagonisti, nella XII scena, una porta<br />

girevole e dei siparietti, un arioso carosello di forme. Giudicati<br />

"troppo espressionistici" non passarono, per evidente miopia<br />

anche nei confronti dell’opera goldoniana, come se il realismo<br />

della copia fosse davvero la chiave del Settecento.<br />

In definitiva il pittore occupa spazi esigui per produrre effetti risonanti.<br />

Gli bastano alcuni punti di appoggio, attrezzi e gesti minimi:<br />

dei modi aggreganti. Coagula il molto nel poco, per stratificazione.<br />

Ecco perché un gesto appena accennato contiene una<br />

tensione esplosiva e una mano leggermente schiusa può riassumere<br />

una geometria sentimentale, seguendo il criterio pantomimico<br />

dell’essenziale. Niente ridondanze nei costumi di Bolognesi,<br />

ma pressioni e rigonfiamenti per eccesso di contrazione.<br />

Non sono decorativi ma tesi, e proprio per questo intrattengono<br />

un difficile rapporto con l’attore ed il ballerino, chiedendo a quest’ultimo<br />

d’essere altra cosa che due gambe danzanti. Al posto di<br />

un portatore d’abiti hai un corposcenario rifatto dalla pittura.<br />

Muovendosi, il costume traccia figure e mappe nella scatola teatrale.<br />

In certo modo incide degli itinerari simbolici. Enfatizza gravità<br />

e leggerezze. Ed è anche un congegno trasformabile, come<br />

per Depero. Teatro nel teatro, trucco e incernieramento di opposti,<br />

un ermafrodito. L’arcaismo della figurazione ci riporta spesso<br />

alle origini del passo di danza, dissentendo o consentendo alle<br />

istruzioni del ballo di corte, che è, per suo conto, un nuovo principio<br />

nella storia del movimento (la disposizione "a mezzaluna",<br />

per esempio, raccomandata da Marco da Gagliano, riaffiora nella<br />

pioggia di segni sul foglio XXI di regia). Maschere ed arredi,<br />

nei loro artifici, nascondono coups à surprise.<br />

Anche la simmetria rovesciata dei décors induce ribaltamenti. E la<br />

procedura vale per i colori come per la linea. Il dietro del costume,<br />

invece di proseguire e concludere lo sviluppo della composizione<br />

frontale, quasi sempre la ribadisce per inversione, o la tronca di<br />

netto, evitando i panneggiamenti decorativi. Ragion per cui le sa-<br />

497<br />

gome, con la loro piattezza radicale, appartengono alla medesima<br />

costellazione formale dei costumi-corazza, antiplastici e lontanissimi<br />

dall’effettismo a tutto tondo dei quadri viventi.<br />

Il colore è cercato nel suo oltrepassarsi, un oltre raggiunto mediante<br />

picchiettamenti, dislocazioni di fibre, grumosità, velature,<br />

pieghe, trasparenze, brillii, mélanges, compenetrazioni. Pelle su<br />

pelle: scatta il meccanismo dell’accumulo eterogeneo.<br />

Nel creare una situazione l’artista mobilita il sistema delle rifrazioni,<br />

esibendone la flessibilità costruttiva. Addensa/dirada. Sovrappone/toglie.<br />

Concentra o allarga una selva dipinta.<br />

Il cerimoniale della simulazione rientra perfettamente in questo<br />

gioco. Vedi le maschere. Nel "capriccio" madrigalesco sulla Bellezza,<br />

sono delle lamine appena sagomate, facce impugnabili,<br />

danzanti col corpo e specchi dell’irrealtà. Talismani dell’iniziazione<br />

amorosa. Ma riflettono anche il doppio negativo e finalmente<br />

si lasciano annientare nel culmine del trionfo. Altre volte connotano<br />

la profondità, qualcosa di definitivo. Rappresentano il<br />

compimento del personaggio in cifra metafisica. In quanto tali<br />

serrano il capo dentro una grata ieratica (i visi catafratti delle Ingrate).<br />

Con analoga evidenza riassuntiva operano le minuzie<br />

della bottega teatrale, incentivando la catena dei rimandi.<br />

Non servono al corpo ma all’occhio. Guai a sedersi su un cavallo<br />

o su una sedia di Bolognesi! Crollerebbe l’incanto.<br />

Dunque, per concludere, una scenografia mobile, in apertura. C’è<br />

da chiedersi che cosa produrrebbe dialogando con parole e musiche<br />

del Novecento. Ma la domanda è oziosa. La rielaborazione<br />

dei suoni appartiene all’oggi.<br />

.<br />

(1) Scritto per il catalogo della mostra “Vestire i sogni. Rassegna di bozzetti<br />

e di costumi teatrali ideati da Ferruccio Bolognesi e realizzati dalla<br />

sartoria teatrale Umberto Tirelli”, edito dal Centro di Documentazione<br />

Arti Contemporanee, quaderno 1, nell’aprile 1982 a Carpi (Modena).<br />

Rieditato in occasione della mostra “Simulazione d’ombre”, tenutasi<br />

presso la Casa del Mantegna a Mantova nel 1985


Di piombo e di cera<br />

Paolo Cotani (1)<br />

Che vuol dir cercare uno “spazio totalizzante” e poi fare di questo spazio una regione soffice, pulviscolare,<br />

cigliata in cui la percezione si disorienta? Nelle superfici di Cotani (ma sono poi superfici?)<br />

mi trovo e mi perdo. Posso dire piuttosto che vi galleggio, vado alla ricerca di margini ed approdi<br />

e che, una volta trovatili, devo subito attaccarmi a nuovi confini per non sprofondare. Scopro<br />

isole e continenti, anche l’Africa, le piramidi e palazzi incantati, muraglie, archi, colonne. Luoghi<br />

della memoria e paesaggi segnati sulle carte: sono territori ideali e plaghe viste dall’alto, non<br />

corpi solidi. Soprattutto ho a che fare con fessure, crepe e frammenti, giacché il segno di confine<br />

è in realtà un avvallamento, una riva scoscesa: e l’Africa, quando la incontro, mi è data anche al<br />

rovescio ed in maniera che là dove credevo di salire mi tocca invece discendere e camminare su<br />

degli orli.<br />

L’andare è precario e la precarietà vien ribadita dal rovesciamento sistematico dei piani d’appoggio<br />

e degli orizzonti mentali. Isole e penisole sono nubi e i cieli delle porzioni di terra. E via di seguito,<br />

per moltiplicazioni, agglutinamenti, intersezioni; o affiorare di doppi.<br />

Una immagine forse mi aiuta a capire dove e in che modo debba posare lo sguardo, come dargli<br />

consistenza e spostarlo. Si tratta di un segnale di controllo, di una lastra di piombo fatta per<br />

misurare nei muri l’espandersi di una fenditura: una biffa. Qui l’occhio trova delle ragioni per ope-<br />

P. Cotani, Sulla piramide, cm 58x77.<br />

498


are e si riconosce. Il vedere, metaforizzato nella lastra, è tutta<br />

questione di assestamenti e di pesi, sicché, mentre guardo, non<br />

sono che una misura posata nell’intervallo, una sosta di piombo<br />

fra due rive e una presenza nella marginatura. O anche una cucitura<br />

nel (e dell’) intervallo.<br />

E di nuovo: al di fuori del mio stare non ho sostegni plausibili. I<br />

sostegni li trovo grazie ai contrappesi che riesco a provocare<br />

sulle sponde e alla sola forza di penetrazione nei margini. Direi<br />

quasi che la gravità lotta con se stessa e che questo consistere<br />

di metalli, lamine e carte ha alcunché di medianico. Un puro atto<br />

di sospensione in luoghi immateriali e svuotati. Il che equivale a<br />

dire che il principio cui mi appiglio non sta al di fuori di me, ma<br />

nel mio occhio, nella fatica, sia pure labile ed intermittente, di<br />

viaggiare lungo linee di confine che il cammino stesso vien tracciando<br />

nel corso dell’esperienza.<br />

Che cos’è allora l’atto di dipingere se non un lavoro che inventa<br />

il proprio itinerario, produce mappe e figure, copre i deserti di<br />

solchi e passaggi? Magari li reincide e stratifica?<br />

Comunque ha fame di costruzioni. E le eleva perché innalzarle è<br />

il solo modo che ha di vivere agitando la fucina della visione.<br />

Se nel passato recente qualcuno, anche un maestro di Cotani,<br />

praticava l’arte di viaggiare nei paesi dell’Origine, ora quest’illusione<br />

è tramontata. Alle spalle non restano in attesa degli universi<br />

pieni, ma soltanto belle finzioni e vecchie favole, territori<br />

vuoti e antiche violenze.<br />

Così per via di racconti e nuove finzioni vien fuori un mondo immaginario<br />

teso fra le soglie del tempo, fluido ed espansivo come<br />

lo scorrere degli istanti ai quali aderisce. La tela registra il vorticare<br />

delle luci e delle ombre che gli atti visivi producono senza<br />

soluzione. La mente resta dentro l’ingegno della pittura e vive di<br />

ciò che finge e modella. In questo senso totalizza spazi di crescita<br />

e li dilata instancabilmente per minime differenze.<br />

Quando poi la pittura è una pratica consapevole dell’incantesimo,<br />

l’efficacia dell’ordito fa trasparire nelle pieghe il repertorio<br />

delle astuzie. E la mano le esibisce col porre in frizione ed infine<br />

confondere la duplicità dei miraggi, certi modi d’apparire e i<br />

loro contrari. Cotani non dipinge per esempio una colonna intera<br />

né separa il vuoto dal pieno, o la massa dall’esterno di una ‘piramide’.<br />

Agisce al contrario per sovrimpressioni e rimandi. Ad un<br />

vertice accosta una base, allo schiacciamento fa seguire l’eleva-<br />

499<br />

zione, allo scuro il chiaro. Al nero l’oro, il suo altro. I dittici di cui<br />

è costellata la sua ricerca negli ultimi anni vengono a dirci che il<br />

sogno di totalità, una volta che sia slittato verso linee d’ombra,<br />

diventa una inquietata sorgente di segni; e che è tensione anziché<br />

dominio, un pencolare tra l’esistente e il possibile. Non comprenderei<br />

altrimenti l’assiduo riprendere e soppesare dal ’76 ad<br />

oggi (e forse anche prima) le categorie dell’uguale e del simmetrico,<br />

spinte a rivelare delle zone di crepuscolo, sfuocate ed<br />

instabili; a fare i conti col dissimile. Cotani tira nelle sue “fabbriche”<br />

dei fili acuminati che sono corde vibranti e tagli. Imprime<br />

P. Cotani, Il continente analogo, cm 150x73.


colpi di rasoio contro la presunzione dell’Identico e mobilita gli<br />

spazi sul ritmo delle ferite e delle cerniere.<br />

Ora la fabbrica, quel tema struttivo che abitava il cuore delle<br />

configurazioni nei cicli delle vele a volta, dei doppi archi e dei<br />

cerchi in un campo rettangolare, va assumendo sempre più il<br />

senso delle architetture periferiche e delle soglie. Ha finito per<br />

coincidere con lo spigolo della tela producendo una orlatura continua<br />

e divenendo in certo modo il themenos della fattura. Il suo<br />

recinto: una angolatura oltretutto aurea e tanto più eminente in<br />

quanto ricorre all’artificio della massima sottigliezza. Sta lì senz’essere<br />

dipinta e regge, quasi invisibile, il farsi dell’opera sui<br />

principi cardinali dell’ordo, quali il cerchio e il quadrato.<br />

Ma se il tondo è aspirazione all’immobile, il segno di durata vien<br />

però fatto reagire sul filo degli eventi. Nell’Idea, tradotta in contorno,<br />

i contraccolpi di infiniti accidenti non fanno che alimentare<br />

la motilità del contenuto, il loro essere da un lato già vissuti e<br />

il loro prefigurarsi, da un altro, in una sorta di memoria futura,<br />

500<br />

P. Cotani, dal ciclo “Spazi virtuali e mondani”, cm 140 Ø.<br />

provocata dal presente. Il ‘mondano’ e il ‘virtuale’. Le differenze<br />

sono i fatti del colore e del disegno, i biancori e le nerezze delle<br />

grafiti e delle cere. Gli alti e i bassi, gli andirivieni, le grommature<br />

e gli sfrangiamenti delle carte ripropongono infatti le ragioni<br />

della materia e dei corpi. Sono loro a far sì che sulla pianura<br />

perfetta, dentro l’immobile architettura, si apra un abisso, che un<br />

sole sia nero per virtù cromatica e che una figura in gestazione<br />

ecciti un battito di analogie.<br />

D’altra parte l’opaco tende alla trasparenza e cerca la leggerezza<br />

del pensiero. Corpi di cera e contemporaneamente idee plananti<br />

dentro il mondo visibile. Nulla è certo se non l’inventio che li<br />

spinge a manifestarsi. Dietro intravedo l’ossessione di Cotani, la<br />

figura raggelata del vuoto che l’à plomb dello sguardo tenta di<br />

risanare, cucendo e colmando.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra antologica “Paolo Cotani”, Casa del<br />

Mantegna, Mantova, 5 giugno 1982.


Ai confini dell’astratto<br />

Giordano Di Capi (1)<br />

Parafrasando un passo di Braque ispirato a Pascal, Non la cosa<br />

ma la ricerca della cosa, potremmo dire che per mantenere vivo<br />

il fuoco della visione occorre alimentarlo appassionatamente e<br />

desiderare quel fuoco più che l’oggetto stesso del dipingere, più<br />

che l’immagine ultima. Ogni conclusione è mortificante per la<br />

pittura poiché "concludere significa escludere l’imponderabile’’.<br />

Se ora consideriamo lo sguardo del pittore, così com’egli lo dipinse<br />

nell’autoritratto del 1934 e come poi si deposita e lavora sulla<br />

superficie dei quadri, ci troviamo davanti a qualcosa di simile: ad<br />

una speculazione (nella pregnanza etimologica del termine) ad<br />

infinitum. Un osservare le cose in modo fermo, penetrante, teso;<br />

un fissare e circoscrivere gli oggetti e non solo quelli pittorici; un<br />

abbandonarsi ad essi ed impregnarsene prima ancora di domi-<br />

G. Di Capi, Composizione astratta, 1952, tempera su carta, cm 32x46.<br />

501<br />

narli con la severità del metodo rappresentativo; e, fatto decisivo,<br />

un anticipare l’azione dello sguardo col suo patimento, un<br />

mettere a confronto l’emozione con la regola e cercare di annodarle<br />

in un equilibrato sistema di rapporti visivi, mai per altro definitivo:<br />

queste le attitudini mentali che l’artista trasferisce nell’atto<br />

creativo e che, oltrepassando la stessa pratica figurale, rivelano<br />

un pensiero in movimento attraverso i visibili, un orientamento<br />

e un progetto riconducibile ad uno stile di vita.<br />

Osserviamo l’autoritratto: niente frontalità, nonostante l’energica<br />

e calibrata strutturazione del corpo, ma - com’è stato detto - "eccezionale<br />

intensità drammatica", emozionato dialogo fra l’occhio<br />

dell’artista e le cose circostanti, tra la diagonalità di un vedere<br />

che ci sfiora, pur apparendo acutissimo, ed un’altra inquieta lateralità,<br />

quella della piccola tela appesa a destra, alla medesima<br />

quota del volto. L’esiguo riquadro è anch’esso inondato di luminosità<br />

fluttuanti, quasi un generatore di echi colorati, di aloni e


iverberi dal bianco all’azzurro, dal vicino al lontano. Le relazioni<br />

formali e simboliche insistono sulle ‘fughe’ e delineano sconfinamenti,<br />

ma lo fanno senza tumulto ed avviano contemporaneamente<br />

dei moti circolari, in certo modo delle controcurve che<br />

suggeriscono il ritorno al centro del quadro, così da ricomporre<br />

l’esterno con l’interno, la lontananza degli spazi con lo sguardo<br />

che vi si immerge e li scruta. E l’oscurità sta, pittoricamente, più<br />

fuori che dentro.<br />

Il vedere è dunque un evento intensivo; di meditato abbandono.<br />

Di Capi - molte testimonianze lo ribadiscono - ne faceva una<br />

questione di docilità alla ricchezza del mondo visibile. Essere<br />

umili, nella maniera aristocratica, segreta ed ironica che gli era<br />

propria, voleva dire consegnarsi senza riserve al dettato muto<br />

delle cose e, seguendo i suggerimenti di altri pittori introspettivi,<br />

Chardin o Morandi, tentare di decifrare l’anima nascosta delle<br />

forme. Il suo mentalismo, che batte anche i sentieri dell’analisi<br />

ed arriva alla scomposizione di corpi ed oggetti, non ha nulla di<br />

precostituito e di gelidamente concettuale. Si ricordino i suoi sospetti<br />

sul far critica dei letterati e dei filosofi in fatto di immagine.<br />

Cerca invece nessi, spazi connettivi, associazioni. Intende<br />

leggere in profondità e trovare legami sotto le manifestazioni di<br />

natura, restandovi però dentro e non operando contro di esse. Il<br />

pittore vuole interpretare l’oggetto, farvi aderire l’occhio, ma<br />

teme l’inganno e la cieca irruenza della percezione immediata.<br />

Perciò ne disciplina lo slancio. L’educazione all’attesa costituisce<br />

una premessa al dipingere. Tracciare segni e colori significa pensare<br />

in figure. Registrare e riscrivere. Senza questo sostegno che<br />

un Braque chiamava "teorico" e che qui potremmo definire autoeducativo<br />

e speculativo, non si spiega - crediamo - lo sperimentalismo<br />

di Di Capi, il suo desiderio di "esperienza".<br />

A proposito poi di quest’atteggiamento sperimentale non si vede,<br />

alla prova dei fatti, nessuno scarto immotivato o troppo brusco,<br />

neppure quando, arrivato alla soglia del Cinquanta, egli imbocca<br />

decisamente una via che finirà col portarlo nel breve giro<br />

di tre-quattro anni ai confini dell’astrazione. Non si tratta neanche,<br />

in questo come in altri casi, di trascrivere degli aggiornamenti<br />

linguistici sulla spinta dei modelli affacciatisi nel secondo<br />

dopoguerra. Avvengono invece degli approfondimenti, anche<br />

con l’aiuto di quei modelli, all’interno di un itinerario che continua<br />

a restare fedele a se stesso. Che poi la decisione a favore di<br />

502<br />

una grammatica essenziale scatti improvvisamente, ad una certa<br />

data, ciò va fatto corrispondere ad una consapevole volontà<br />

espressiva che si era preparata con circospezione. Per nulla insolita.<br />

Basti pensare alle svolte molto più dirompenti di Capogrossi,<br />

Birolli, Vedova ed in generale agli autori provenienti dalla<br />

Scuola Romana o da Corrente, allora militanti nel Fronte Nuovo<br />

delle Arti. Quando Di Capi riprende a dipingere dopo la parentesi<br />

della guerra, compie tutta una serie di verifiche sulla propria<br />

pittura, sui grandi esempi che lo avevano guidato nel decennio<br />

precedente e sulle conseguenze che ne erano derivate ai più<br />

giovani. Le fa in silenzio frequentando le mostre e misurandosi<br />

direttamente sulle opere che venivano esposte, spesso per la<br />

prima volta, a Venezia, Milano, Firenze. È un periodo di letture e<br />

di ripensamenti, lasciati fermentare in segreto e affioranti solo<br />

per tracce esilissime negli esercizi personali, se si eccettuano alcune<br />

tavole e cartoni del ’47. Nel complesso egli appare volto a<br />

scandagliare le radici abituali delle sue immagini (anche marginalmente<br />

chiariste), andandosi a cercare gli elementi di modernità<br />

fuori dell’avanguardia più stretta, nei precorritori e negli isolati<br />

del Novecento: gli stessi dell’anteguerra, lungo l’asse Chardin-Cézanne-Morandi<br />

e in parte Carrà, con digressioni intorno<br />

agli svolgimenti tonali di Semeghini e ai disfatti tessuti pittorici<br />

di De Pisis. Il problema centrale riguarda sempre la struttura colorata:<br />

una costruzione tesa ad assorbire il campo pittorico in una<br />

solidale rete cromatica, ottenuta ora per larghe stesure ed ora<br />

per fibrillare motilità di tocchi. Tutto avanza in primo piano,<br />

preme in avanti. Lo spazio si fa fluido e le immagini appoggiano<br />

sulle pure consistenze di forma e colore. Le irradiazioni partono<br />

dall’immagine, l’attraversano per contagiare la periferia. Nelle<br />

nature morte le conseguenze di rilievo toccano lo sfondo e l’oggetto.<br />

Se quest’ultimo tende a disincarnarsi fino ad assumere un<br />

aspetto pellicolare, quello addirittura si dissolve in uno schermo<br />

impalpabile e talvolta si annulla lasciando emergere il supporto,<br />

non solo e non tanto per restituirlo matericamente all’ordito<br />

della composizione, quanto per spalancare proprio dei vuoti,<br />

delle zone di risonanza estenuata e delle pause nella successione<br />

dei pieni; di modo che, non facendosi grumo, le stesure veleggiano<br />

nello spazio aperto, simili a bave di vento e a superfici<br />

sfogliate. Tuttavia non sempre. Soprattutto quando Di Capi ricorre<br />

all’à plat o rassoda il nucleo dell’immagine, chiude i varchi al-


l’irruzione del vuoto. Per un verso concentra i pesi cromatici su<br />

un motivo dominante, quasi sempre alloggiato nel cuore della<br />

superficie (per esempio le "sviluppatrici fotografiche" e le brocche<br />

azzurre, un colore ben suo, del ’47-’49), per un altro cerca<br />

digradate e continue sequenze di piani, sia in verticale che in<br />

orizzontale. Un caso è l’olio acquerellato del ’47 circa (la natura<br />

morta della Coll. Morari), dove già viene impostandosi il reticolo<br />

a fasce ortogonali, a maglia larga (lo schema a croce), che genererà<br />

in seguito gli ordini a scacchiera di molte tempere. Da notare<br />

che la forma centrale non è mai sola, ma dialoga con uno<br />

o più oggetti, per lo più secondo scale tripartite, così che ad una<br />

figura forte rispondono due battute costruttive più deboli, ma<br />

nell’insieme equivalenti alla prima. In questo genere di montaggi<br />

il fuoco può anche frangersi per onde concentriche, come<br />

un sasso gettato nell’acqua. Esempi ulteriori di scala continua,<br />

forse del medesimo anno, sono una "natura morta con brocca"<br />

G. Di Capi, Natura morta, 1950, tempera su carta, cm 36x50.<br />

503<br />

(Coll. Masè Dari), che insegue in cifra araldica lo slittamento verticale<br />

di tre rotondità, e la tavola ‘astratta’ della collezione Paiola,<br />

in cui tessere variamente ritagliate di frutti ed oggetti si assiepano<br />

sul piano, e vorremmo dire su un proscenio rigorosamente<br />

bidimensionale.<br />

È come se l’occhio sperimentasse un doppio respiro, in uscita ed<br />

in entrata; da un lato decomponendo l’immagine e diradandola,<br />

dall’altro riassestandola come una riserva di energie. Cosa che<br />

porta ad investigare delle coppie antinomiche: movimento-stabilità,<br />

periferia-centro, asimmetria-equilibrio. Le figure si ripetono<br />

instancabilmente nell’inventariamento di molteplici possibilità<br />

compositive, favorendo il sedimentarsi della memoria e di<br />

fantasmi più pensati che percepiti.<br />

Insieme ad esse, si fa largo in qualche caso un colore improbabile,<br />

assente in natura. Anche acido, come in Villon. Lo spettro<br />

tonale nasce infatti da accordi strettamente pittorici fra una tinta


e le sue derivazioni, pensabili soltanto sulla tavola, oppure da un<br />

clima immaginario che assimila l’ombra alla luce, le coniuga insieme<br />

come parti di un universo che non è più notturno o solare,<br />

ma annegato in una regione intermedia, tendenzialmente<br />

monocromatica. Ed assieme a Braque, anche Matisse deve aver<br />

richiamato il pittore, specie sul versante della purezza.<br />

Il Cinquanta fa registrare il compiuto esaurimento di simili motivi<br />

(si veda l’olio della Coll. Lanfredi, che dispiega una finissima<br />

padronanza di grigi, rosati e bruni), ma segnala anche un rilancio,<br />

quello definitivo, che mentre determina un insieme di rinunce<br />

ai risultati, prolunga però le tensioni che vi erano sottese.<br />

Vanno inoltre tenuti nel conto, per respingere l’ipotesi della immotivazione,<br />

i brevi assaggi di arabescatura e profilamento dell’oggetto,<br />

che cooperano a tradurre gli elementi del quotidiano<br />

in emblemi fuori del tempo; ed assieme a questi accenni, gli altri<br />

esercizi minimi o appena abbozzati intorno alla intersezione dei<br />

piani, come si vede nell’incompleta "natura morta con Budda"<br />

del ’47 e nel ben più maturo olio dell’anno dopo (raccolta Paiola),<br />

col suo campionario di figure semplificate e di sfibramenti<br />

della superficie semiscollata dal fondo: in vista, si direbbe, di un<br />

repertorio spirituale di immagini.<br />

Dunque le ragioni di inchiesta, per Di Capi, agiscono nel territorio<br />

delle figure riconoscibili e per ora tenute lontane dalle maniere<br />

neocubiste o astratto-concrete. L’arroccamento è per altro<br />

confermato dal dipinto presente al "Premio Mantova" del ’49-<br />

’50: una natura morta calibrata su inequivocabili evidenze naturali,<br />

sui verdi e le terre. Lì avviene il confronto con il Totem di<br />

Morlotti e gli sviluppi postpicassiani di Birolli (Il Picasso della<br />

Pesca notturna di Antibes), vincitori del premio insieme a Mandelli<br />

e Perina. Ma alla rassegna partecipavano anche Vedova, Alberto<br />

Viani, Soldati, Spazzapan, cioè alcuni protagonisti, nella diversità<br />

dei temperamenti, di una rinnovata astrazione.<br />

Con la pressoché totale mancanza di documenti, oggi è arduo dire<br />

quali fossero con esattezza gli stimoli che contribuirono ad affrettare<br />

il bisogno di strutture essenziali. Non crediamo comunque<br />

che le occasioni vadano iscritte in un generico eclettismo. Di<br />

Capi era curioso fino all’ossessione, non dispersivo. Aveva visto<br />

Kokoschka e Braque nella memorabile Biennale del ’48 e si sa<br />

che andava dibattendone le ragioni, condividendo in questo l’atteggiamento<br />

di <strong>Francesco</strong> Arcangeli. Rifiutava l’alternativa radi-<br />

504<br />

cale fra realtà ed astrazione promossa dal "Fronte" e riteneva legittimo<br />

più di un approccio all’astratto. Niente aut-aut. Tra i tanti<br />

appartati, stimava Zigaina e Breddo, del quale segnalava l’autonomia<br />

al giovane Carlo Bondioli, specie per certe modulate stesure<br />

di colore puro. E pur facendo riferimento ad Arcangeli, era<br />

ben lontano dal condividere i miti lombardo-emiliani di una natura<br />

sanguigna, di forze vitali, oscure ed interrate. Nella sua pittura<br />

si interpone infatti tutta una serie di filtri tra la rappresentazione<br />

e il naturale: in primo luogo un pensiero che non possiamo<br />

chiamare altrimenti che essenzialista (differenza capitale<br />

con Facciotto), grazie al quale le cose esistono, ma vivono come<br />

ombre e scrigni di immagini mentali. In secondo luogo v’è una<br />

memoria collettiva, consegnata alla sapienza della pittura e ad<br />

alcune visioni dell’arte in ispecie.<br />

Cézanne, per esempio, non è un approdo ‘cosmico’ dal quale bisogna<br />

deviare (lo diceva ancora Facciotto), ma un inizio gravido<br />

di conseguenze analitiche. E dopo di lui il cubismo. Non stupisce<br />

perciò che egli interpelli contemporaneamente la natura e la cultura<br />

(la prima come pre-testo), andando avanti "senza fretta" nei<br />

magazzini delle forme per catturare, nel particolare e non nel<br />

generale, negli interstizi e negli episodi, quel che comunemente<br />

è considerato invisibile ma che è invece (anche) cultura depositata<br />

nella vita, spontaneità apparente e rigore dimenticato.<br />

Lo chiama "mestiere" in pittura ed è paziente illuminazione.<br />

Dopo gli oli del ’48-’49, ecco lo scarnificare di slancio ordito ed<br />

immagine; e lasciar sopravvivere pochi elementi di natura morta.<br />

Sottrae spazio tutt’attorno, concentrandosi sull’armatura portante<br />

della composizione. Toglie atmosfera agli oggetti e li ravvicina in<br />

un primissimo piano frontale. Fa scomparire i panneggiamenti, le<br />

bianche vaporosità delle tovaglie, gli sfumati. Mineralizza la luce.<br />

L’aria si dissolve per troppa vicinanza così che non v’è modo di<br />

sfuggire all’aggetto di un piatto o di una mela. Il colore viene<br />

scandito ed arrestato, vetrificato in scaglie mediante sciabolate<br />

decise, mentre l’impasto crudo toglie di mezzo i passaggi di profondità.<br />

Si ha l’impressione che lo sguardo precipiti nel motivo,<br />

levando e semplificando, mettendo a nudo delle strutture, in un<br />

mondo pittorico del dettaglio che era già avaro di concessioni descrittive.<br />

Restano delle sagome campite rapidamente, con contorni<br />

alonati di traiettorie secche, gesti riduttivi. Dentro il profilo,<br />

l’ombra diventa tessera di un mosaico. Costituisce cifre serrate al


pari della luce, depositandole in aree omogenee e separate:<br />

facce di un prisma tutto svolto in superficie. Può essere questo il<br />

motivo di fondo per cui la tempera magra sostituisce progressivamente<br />

l’olio, a cominciare da "Piatto con pere" della raccolta di<br />

famiglia1 . Ora che la ricerca verte sulle cromìe nette, distinte, non<br />

c’è più bisogno di illuminare per trasparenza, di velare e sovrapporre.<br />

E difatti nelle nature morte ad olio di quell’anno, se trascuriamo<br />

la tavola più sopra citata della Coll. Lanfredi (che era un<br />

compimento) e simili risoluzioni, la materia viene stesa con forza,<br />

quasi fosse uno smalto. In ogni caso gli effetti aerei sono inibiti,<br />

raggelati nei settori mediani e nei contorni. Con le polveri trattate<br />

ad acqua l’esito coprente è assicurato. Ed è allora che Di Capi<br />

inventa delle nature morte, per così dire, sotto vetro, in cui la<br />

linea colorata, ampia e spessa, campisce mentre disegna. Tira<br />

fuori nervi e carni, talora vividi e smaglianti di energie pure. Basterà<br />

vedere le due carte, come dire?, araldiche, dagli oggetti che<br />

paiono sigilli e fanno pensare allo splendore di un ornato matissiano,<br />

cioè ad un’idea decorativa in grado di fondere il colore alla<br />

linea. In una (Coll. Di Capi), la brocca e le tre mele diventano<br />

sigle, pittogrammi, emblemi. Non solo: vengono tramutate in<br />

qualcosa che non è più brocca o frutto, ma risoluzione geroglifica<br />

dell’immagine, oggetto di grazia. Che cos’è il tema sintetico dipinto<br />

accanto alla brocca, quel condensato di memorie ottiche, se<br />

non un motivo proiettato nel tempo assoluto del piacere, una lettera<br />

trilobata e stemma del visibile? Una cifra dello sguardo?<br />

Nella seconda carta (Coll. Baratta) è un oggetto in partenza bloccato,<br />

una gabbia o scatola, ad eccitare l’immaginazione. Da solo<br />

fa tutto: da campo e da motivo. È supporto e figura di se stesso,<br />

una struttura astratta autonoma2 .<br />

Vien da chiedersi quale sia la natura del fantasma pittorico, poiché<br />

non sono in questione soltanto elementi disegnativi, logici,<br />

‘cubistici’ (anche se il disegno resta una premessa irrinunciabile,<br />

un disegno però espressivo, in talune circostanze, toccato fin<br />

dagli esordi dalle magie scipioniane, come nella puntasecca Primavera<br />

e in quella del sole a picco su un nudo) 3 , ma svolge un<br />

ruolo primario il colore allusivo, indagato nei costituenti armonici,<br />

per pesi e contrappesi, lievi dissimmetrie. "La regola corregge<br />

l’emozione", ma l’emozione vien prima. Il fantasma sembra<br />

insediarsi in una zona mediana, a cerniera fra l’evidente e l’edificio<br />

interno dello spazio, in una struttura primaria sottesa al-<br />

505<br />

l’evento percepito: nel tipico e nel permanente, in ciò che resiste<br />

alla variabilità del fenomeno.<br />

Che una sostanza antidiurna si accompagni di frequente ad un<br />

simile scavo, può servire da indizio psicologico, sia pure marginale,<br />

intorno allo stato sorgente delle immagini. Nei pochi ritratti<br />

la mano insiste su itinerari intermedi, tangenti al cerchio e al<br />

quadrato, come ovali, spicchi, archi, mezzelune, crescenti, trapezi,<br />

angolarità differenti e frante, prese in un giro di movimenti<br />

che fanno pensare ai tracciati di Spazzapan o di Zigaina (Filatrice,<br />

Nudo seduto). Il volto di un contadino vien colto in controluce<br />

e composto su un ventaglio di semicerchi centrati lateralmente.<br />

Una vendemmiatrice segue una analoga legge generativa,<br />

complicata questa volta dal rapporto con i percorsi curvilinei,<br />

a fascio e matassa, dei tralci che la sovrastano.<br />

La stessa cosa, afferrata al suo inizio, si trova in qualche natura<br />

morta (Piatto con pera, ’51, ad esempio: in cui il piano è sventagliato<br />

a destra per tre volte sui colori primari. Coll. Di Capi).<br />

Ma stiamo anticipando. Il primo tempo (che si inoltra fino alla<br />

metà circa del 1951) è rappresentato, nella sua maniera più tipica,<br />

da energiche abbreviature. È vero che si configurano parallelamente<br />

diverse soluzioni, più riposate e magari più ricche, ma<br />

senza la scarna essenzialità di quel momento di slancio (e il suo<br />

vuoto d’aria) non ne comprenderemmo il principio orientativo.<br />

Abbreviare, poi, vuol dire sforbiciare, indurre tagli e dissezioni.<br />

Fatto sta che, recuperando a suo modo la tecnica delle carte incollate<br />

all’esercizio della tempera, Di Capi dipinge strisce di colore,<br />

ricavate alternativamente dal positivo e dal negativo degli<br />

oggetti, dall’ombra e dalla luce, una accanto all’altra. Le accosta<br />

e ne tiene impercettibilmente separati i margini. Non so se pensasse<br />

a regole auree, a rapporti calcolati di corrispondenza, ma<br />

l’idea poetica della scala armonica è senz’altro attiva di nuovo:<br />

in genere riferita a rime pari, sia nei valori ortogonali che negli<br />

incroci a chiasmo, o per entrambi contemporaneamente. Doppia<br />

la silhouette di una bottiglia, duplice o quadruplice l’invaso di un<br />

bicchiere, iterate le bande laterali, ultimo resto di un luogo stilistico<br />

tanto a lungo esercitato: la piattaforma della natura morta.<br />

Riaffiorano i bianchi in un clima d’acque ferme. Le altre colorazioni<br />

ovattate mediano gli scuri per registri graduati, disponendosi<br />

sui punti di orientamento della pianta a croce, vertici e centro.<br />

Talvolta un doppio centro. Ed è un modo per ribadire gli anel-


G. Di Capi, Natura morta, s.d., tempera su cartoncino, cm 50x35.<br />

506


li col passato. A voler schematizzare il percorso successivo, si rintracciano<br />

almeno due costanti, dialetticamente intrecciate: la<br />

tendenza a costruire l’omogeneo, un tout-se-tient sul piatto, e un<br />

complementare scioglimento dei legami, un introdurre vuoti, disarticolazioni<br />

e dinamismi di superficie4 : ciò che non vorremmo<br />

chiamare analisi, per la freddezza implicita in un simile termine,<br />

ma fluttuazione e formatività del segno. L’una punta sull’effetto<br />

"vetrata", come ha ben letto Schirolli, l’altra rimette in moto la<br />

linea, i profili. Libera effervescenze. Campiture vaporose e nebbie<br />

palpitano dentro griglie sottili, appena scalfite; vi aleggiano,<br />

mettendo fuori causa pesi e profondità5 .<br />

Che si tratti di persone o di cose, poco importa, tanto l’occhio rimette<br />

in posa, assesta e riquadra. Tranne esigue eccezioni (carte<br />

e tavole per il Suzzara), la vibrazione viene dal pensiero pittorico,<br />

quando è necessario, mai da un’attitudine fisica. Le figure riposano,<br />

i volti chini e quasi abbandonati stanno in attesa, segnali<br />

in certo modo anch’essi di uno stato riflessivo. Davvero si percepisce<br />

il silenzio guardandoli. Il vuoto determina la condizione del<br />

sentire le forme, è l’intervallo fra una cosa e l’altra. E vincere il<br />

vuoto, o meglio costringerlo ad accogliere misure, a farsi ‘contenere’<br />

dai mezzi del dipingere, è un compito della costruzione.<br />

L’artista è preso da questo pensiero inesauribile né intende, mi<br />

sembra, concluderlo con una cancellazione, facendo stravincere<br />

la forma. Che sarebbe forzato. L’autoironia, lo scetticismo, il male<br />

della perfezione nascevano forse anche da questo: dal dubbio,<br />

dal sentire che è raro trovare un assoluto e che i mezzi per imprigionarlo<br />

sono fatalmente insufficienti, se si eccettua qualche<br />

episodio irripetibile nella storia della pittura.<br />

A che valeva la presunzione? Era meglio commentare quegli episodi<br />

e inseguire, con acuta avvertenza di lettore, un tracciato toccato<br />

dalla perfezione, giottesco o morandiano6 .<br />

Eppure la reticenza è produttiva. Il senso dell’impossibilità finisce<br />

col segnare intensamente fogli e carte di lavoro. Se le superfici<br />

non sono preparate, lo si deve a questa interpellanza dell’informe,<br />

non ad approssimazione o a fretta. Semmai ad una avarizia<br />

che spinge ad essere essenziali, perché, in definitiva, i conti tornano,<br />

almeno in pittura.<br />

Quel che Di Capi lascia non è solo un insieme di tracce; è la pronuncia<br />

limpida di un problema, su quell’intervallo tra vuoto e<br />

forma che egli tenta di colmare andando da un polo all’altro, dal<br />

507<br />

G. Di Capi, Natura morta, 1952, tempera su carta, cm 61x47.<br />

configurare delle nebulose di segni alle sequenze continue. Problema,<br />

quest’ultimo, che tecnicamente apre una alternativa fra<br />

i poteri della linea e della campitura; ed ancora richiede di saper<br />

estrarre dei segni puri dalle somiglianze con le cose.<br />

Sulle carte i tratti dipinti denunciano da principio la loro provenienza<br />

dall’imitazione. Nascono da qui, per un lettore, desideri<br />

di riconoscibilità utili a decifrare la genesi di un tema stilistico7 .<br />

È ben chiaro, però, che l’autore avverte modernamente il fondo<br />

come entità priva di significato, senza-forma. Le superfici, le<br />

barre di colore vi si accampano ma non fanno presa. Nessun<br />

fondo le può garantire. Navigano cercandosi, poiché solo i rapporti<br />

danno senso ad una configurazione.<br />

Dominano i grigi, i bianchi, gli azzurri, i bruni e le terre, inframezzati<br />

da insorgenze di neri, rossi cupi e blu in controcanto, rapidi<br />

tasti sul registro generale dei colori smorzati. Dilaga l’acquario.<br />

Eccezionalmente una natura morta s’accende d’un acuto, di


un tagliente brivido cromatico, che è il segno di un istante che<br />

irrompe e scherza con le forme: per un attimo, come nella Fruttiera<br />

con uccellino del ’52.<br />

Motivi grigliati, liste curviformi e serpentine, trapezi fermi di colore<br />

appena stemperato portano ritmi verticali alle ultime carte.<br />

Ma il tono rimane quello delle elegie del ’51-’52.<br />

L’esercizio sulla curva che aveva dato gli ovali nei ritratti memori<br />

di Modigliani, si fissa su una geometria più severa, a ricorrenze<br />

binarie di archi e semicerchi. Il pittore crede nella forza risolutiva<br />

della simmetria e cerca i bilanciamenti sia nel fluido che nell’arrestato<br />

(ora prevalente). Se usa le asimmetrie, ne dispone più di<br />

una in parallelo a breve o a lunga distanza, con la coscienza che<br />

gli errori d’equilibrio servono a richiamarlo con più forza.<br />

Qual è il Di Capi più nuovo: quello teso a ricomporre l’unità o al<br />

contrario, il pittore che lascia correre il movimento? che concatena<br />

o scioglie? L’autore, per ricordare un esempio, della mirabile<br />

natura morta madreperla, degli ordini doppi o trinari, delle stilizzazioni<br />

sul piatto, o colui che disloca le somiglianze ed incentiva<br />

gli slittamenti?<br />

Da una parte sta l’esigenza della grazia, dall’altra l’interrogativo<br />

sulla sua fragilità. Sappiamo che sono complementari.<br />

Anche le composizioni decisamente astratte del ’52 lasciano<br />

aperto l’indecidibile incontro del vuoto con la forma, lavorando<br />

ora sulla stabilità ed ora sulla oscillazione, per morbide scacchiere<br />

o per pendolarismo e diagonalità.<br />

Quando l’alternativa sembra risolta, nelle tempere estreme, leggere<br />

distonie inquietano dall’interno il comporre. Il vuoto scivola<br />

sui bordi, li disfa e se ne lascia disfare impercettibilmente.<br />

No alla solidificazione8 .<br />

1. Ciò non toglie che qualche volta la tempera preceda un olio e ne sia la forma<br />

prefigurante, la stesura che lo anticipa, o anche l’assaggio analitico compiuto di<br />

una struttura, poi risolta con modi propri. Lo si può misurare confrontando le tessitrici<br />

n. 1 e n. 2, nudo e figura definitiva, 1950. Gli esiti sono ugualmente pregnanti.<br />

Nella mietitrice del ’51 l’olio è, poi, sostanzialmente trattato come nelle carte a<br />

tempera: stessi gesti dell’Aratura.<br />

2. A guardar bene, la composizione sembra derivare dal motivo della gabbia con<br />

uccellino, svolto nel ’52, ma stilisticamente l’opera é vicinissima alla “natura<br />

morta araldica” del ’50. Poiché Di Capi non era insolito a riprese, potrebbe essere<br />

giustificato uno spostamento della data in avanti. Le ragioni sono però più<br />

contenutistiche che formali.<br />

3. Si tratta di una lastra recentemente ritrovata (ora di proprietà Nenci, Mantova),<br />

che assieme ad altre otto, dovrebbe essere tirata in pochi esemplari, a cura<br />

508<br />

della vedova del pittore e del Museo Civico, forse in occasione della mostra. Sono<br />

visibili presso il proprietario alcune prove di stampa in attesa di autentica. La<br />

punta secca cui alludiamo presenta una veduta in verticale, con un nudo sdraiato<br />

sull’erba, affiancato da un treppiede per dipingere provvisto di tela e sormontato,<br />

oltre il profilo di una fabbrica, dal sole. Il segno è fortemente allusivo. La interpretiamo<br />

come uno svolgimento lirico dei luoghi della pittura (mm. 200 x 92).<br />

4 È la relazione tra le cose che interessa all’artista, il legame (non di natura né<br />

prospettico) che la mente intravede fra un oggetto e l’altro. Per questo ho scelto<br />

di impiegare un termine (e un concetto) come quello di ‘vuoto’ che mi sembra<br />

dar conto del confronto dell’artista con l’informe: lo ‘spazio tra’ da colmare,<br />

da rendere significante.<br />

5. Un ritorno di atmosfericità? Lo si può ammettere, purché si dia ad essa un significato<br />

antinaturalistico, di luce impalpabile, proveniente dall’interno dei luoghi<br />

dipinti. Quest’atmosfera richiede tempo di lettura e dunque ha carattere contemplativo.<br />

6. Tra i gesti più tipici di Di Capi vi è il cerchio, con le sue varianti. Le figure disegnate<br />

ne sono piene. È una memoria classica? Sembra in certi casi trasferirsi<br />

dai volti alle cose.<br />

7. Questo desiderio aiuta, per altro, il processo di dissociazione del ‘motivo’. Cfr.<br />

Composizioni astratte (cat. nn. 88, 88 b), 1952, Coll. G. Venturini, tra le più belle<br />

per la impaginazione a sequenza libera verticale.<br />

8. Il testo di G. Braque cui si è fatto riferimento all’inizio, comparve sui “Cahiers<br />

d’Art”, 1935, p. 21 ed è accessibile in trad. it. nella antologia delle poetiche figurative<br />

di A. Pozzi e P. Vandelli, Da Cézanne ai surrealisti, Paravia, Torino 1977,<br />

pp. 122-4. L’altra citazione, tratta da Le jour et la nuit 1917-52, Parigi 1952, segnala<br />

nell’originale un rapporto di reciprocità: “Amo la regola che corregge<br />

l’emozione e l’emozione che corregge la regola”, cui segue: “L’Arte vola in alto,<br />

la Scienza procura dei puntelli” (trad. di L. Vinca Masini).<br />

È di Chiara Perina l’espressione fra virgolette sul tono drammatico dell’autoritratto<br />

del ’34 (v. E. Marani-C. Perina, Mantova - Le Arti, III, cap. “Fra Otto e Novecento”,<br />

Istituto Carlo d’Arco, Mantova 1965, p. 663. Nel dare una testimonianza<br />

orale, molto preziosa, E. Marani mi ha segnalato lo stretto rapporto fra Di Capi e<br />

De Luigi intorno al “costruire col colore”, specie alla fine degli anni Trenta, insistendo<br />

inoltre sul carattere antiletterario, rigorosamente visivo, del loro modo di<br />

intendere la pittura. Sue anche le numerose precisazioni sui legami con la cultura<br />

fiorentina (ma di questo si è occupato Margonari nel saggio che precede).<br />

Altre notizie sono state rilasciate da F. Ruberti, A. Seguri, G. Perina C. Bondioli. A<br />

quest’ultimo, in particolare, sono debitore di stimoli sullo “spirituale”, ricchi di<br />

spunti interpretativi, tra i più pertinenti dei lavori astratti. Ecco un passaggio della<br />

sua conversazione: “perché meno Picasso? Il fatto è che Di Capi non teneva alla<br />

resa evidente dell’oggetto. Non che lo rifiutasse, questo no. L’oggetto restava ma<br />

veniva trasfigurato (...). In molti quadri di Picasso è fortissima la volontà filosofica,<br />

l’intenzione, l’idea di dar corpo alla dimensione dello spazio e del tempo. In<br />

Braque invece (e in Di Capi) l’immagine si fa più spirituale. È non a caso che Braque<br />

precede Mondrian. Tutti pittori dell’atemporalità. Metterei nell’elenco anche<br />

Klee, benché Giordano avesse visto poco o quasi niente dal vivo. Conosceva Klee<br />

quasi esclusivamente attraverso le quadricromie. È una linea della bellezza in cui<br />

la dimostrazione è totalmente bandita e conta all’opposto il puro fatto estetico.<br />

Anche Di Capi pensava a strumenti proiettivi nuovi che gli permettessero di dar<br />

vita ad un’eloquenza non divulgativa”. Per la datazione delle opere mi sono attenuto<br />

principalmente ai ricordi della Sig.ra Aldina Menegollo vedova del pittore,<br />

che è stata larga di notizie, consentendomi di fissare alcuni nodi cronologici<br />

precisi, nonché di ampliare la documentazione bio-bibliografica sull’artista.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Giordano Di Capi. Opere 1930-<br />

1953”, tenutasi a Palazzo Te, Mantova, settembre-ottobre 1982.


Il codice del nulla<br />

Giuseppe Botturi (1)<br />

C’è in Botturi una rinnovata scommessa a favore della combinatoria:<br />

una combinatoria beninteso arbitraria, che mentre insegue<br />

particolari cadenze numeriche, cerca fonti e figure nei paesaggi<br />

semicancellati del passato e trae spunti dovunque l’archeologia<br />

fantastica suggerisca larghi margini di congetturalità. La sua ossessione<br />

è la griglia, il rettangolo e il quadrato magico, l’acrostico,<br />

grazie ai quali balena il miraggio di una lingua universale non<br />

ancora nata, che sappia coniugare gli elementi dispersi del visibile,<br />

stabilire connessioni ed incastri.<br />

Raramente il singolo foglio disegnato può vantare una propria autonomia<br />

compositiva. Più spesso fa parte di una sequenza, così<br />

come gli altri oggetti (le scatole o i cilindri a spirale, i codici e le<br />

mappe) costituiscono i paragrafi di un racconto e vivono, nonostante<br />

l’estensione, più nel tempo che nello spazio. Si sottraggono<br />

anzi, per quanto è possibile, alla presa fisica dello sguardo, fanno<br />

in certo modo della prosa visiva rinunciando alla corposità del<br />

segno e all’allettamento materico delle paste colorate.<br />

Già qualche anno fa (e non a caso) quando Botturi dipingeva<br />

quadri nell’accezione consueta del termine, il fondo della tela restava<br />

in parte scoperto o appena velato da una colorazione fluida,<br />

quasi impalpabile e senza peso; ed insieme al piano d’appoggio<br />

anche le immagini esibivano una presenza umbratile,<br />

come se veleggiassero lungo correnti d’aria e potessero cambiare<br />

di posto, scorrere sullo schermo del dipinto. Quest’attitudine a<br />

spogliare lo spazio si è ora approfondita fino ad accecare quasi<br />

del tutto il colore, con la conseguenza di spostare il disegno<br />

verso la pratica della scrittura e della ideografia. Nient’altro che<br />

scritture sono infatti gli elementi di questa affabulazione disossata,<br />

ridotta ad una trama di fili, sia nel caso dei motivi inchiostrati<br />

sulla carta che delle materie naturali, quali fibre, sabbia, oli<br />

o pietre, deposti nel letto delle “scatole” o in luoghi pittoricamente<br />

neutri e poverissimi. Mediante la sequenza viene ordinato<br />

un campo temporale in cui i segni acquistano valori di lettera<br />

e di cifra, scandendo la nascita di un alfabeto elementare ed allusivo.<br />

Che cosa indicano? Quale azione promuovono?<br />

Di primo acchito vien da pensare ad una archiviazione topogra-<br />

509<br />

fica di emblemi e di simboli, ad una sorta di collezionismo figurale.<br />

Senonché questo archivio non lascia intatti i segni che accoglie,<br />

li spreme secondo una chiave cerimoniale e li trasforma.<br />

Per di più contamina una mitografia oggettiva, quella del paesaggio<br />

supposto archeologico, con una storia personale, cioè con<br />

scavi soggettivi e diaristici. La configurazione dei reticoli in forma<br />

di nota, l’andare per appunti, il camminare per mappe provvisorie<br />

e talora impraticabili introducono qualcosa che richiama la<br />

casualità della réverie e la rarefazione del sogno. In tal modo realtà<br />

ed immaginazione si confondono incentivando gli sdrucciolamenti<br />

nell’uno e nell’altro senso. Quel che resta è una figura<br />

fantasma, il desiderio di una lingua, spesso una increspatura di<br />

segni che vengono dal niente per andare verso un altro niente.<br />

Il Codice del nulla è probabilmente fra tante congetture, il meno<br />

azzardato.<br />

La griglia serve allora a far cagliare il poco, il quasi niente, quel<br />

possibile che corre da una stazione all’altra per attirarlo e dargli<br />

un senso. Ostinatamente ancorato al simbolismo del cinque, la<br />

progressione denuncia una forte presunzione sintetica, coagulante.<br />

Vuol far riposare l’annuncio di un segno e dargli tempo di<br />

nascere.<br />

Ecco i riti del sonno. Le pietre e le fibre riposano nei tumoli. Botturi<br />

li chiama sepolture, ma dentro non troviamo dei morti. Tant’è<br />

vero che, dopo averli interrati, torna ad aprirli. Li mura e li riapre.<br />

Li dissemina anche, seguendo certi tempi e durate, nei luoghi<br />

di passaggio di una superficie urbana, lungo i camminamenti,<br />

vicino alle porte e agli ingressi, così che la città diventi davvero<br />

madre del codice immaginario: metro-poli.<br />

Ne viene fuori una geometria del riposo, incolore, senza timbro<br />

avvertibile poiché anche il bianco, che qui dà il tono dominante,<br />

non è ravvivato da pigmenti ed è semplicemente un lenzuolo sul<br />

quale giacciono polveri di segni. Il foglio è un arredo accogliente,<br />

un letto misurato sul numero delle dita, simbolo forse dell’uomo<br />

e della totalità del sensibile. Temi e grafie, per ora, di un<br />

inizio.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Giuseppe Botturi”, Galleria d’Arte<br />

“Ferrari”, Verona, 1982.


1983<br />

Da Valentino Vago<br />

a Yasmin Brandolini d’Adda<br />

Ritmiche dell’ascesa<br />

Valentino Vago<br />

Dopo il tutto<br />

Concetto Pozzati<br />

Ad occhi chiusi<br />

Sculture di Nenci al Te<br />

Svolte e ritorni<br />

Giovanni Bernardelli<br />

L’occhio del cielo. Miraggi<br />

Carrozzone Magazzini Criminali<br />

Sulla soglia delle figure<br />

Sonia Costantini<br />

Fotografare come un gotico<br />

Christian Schad<br />

Risanare l’ombra<br />

Renzo Schirolli<br />

Cere come stanze mentali<br />

Giovanni d’Agostino<br />

Cartomagie<br />

Yasmin Brandolini d’Adda


Ritmiche dell’ascesa<br />

Valentino Vago (1)<br />

C’è un avvertimento della Gaia scienza che può servire da preludio<br />

per accostare la pronunciatissima astrazione lirica di Valentino<br />

Vago. Scriveva Nietzsche: tutto quanto viene costruito e plasmato<br />

in una forma “o appartiene all’arte monologica, o all’arte<br />

in presenza di testimoni”. E proseguiva precisando che la sospensione<br />

del mondo costituisce l’elemento essenziale di un’arte<br />

della solitudine. “Essa ha la sua base nell’oblio, è la musica<br />

dell’oblio”.<br />

Quel che provo davanti alle tele è un transfert, la spinta a portarmi<br />

altrove; un’esperienza della cancellazione. Non che manchino<br />

i suoni o che sia assente una lingua, poiché è vero piuttosto<br />

il contrario. La lingua c’è, perfino sfolgorante, irradiata e assoluta.<br />

L’insufficienza che avverto riguarda il linguaggio del<br />

mondo, voglio dire un’insufficienza conseguente alla “musica<br />

dell’oblio”.<br />

Che cosa è dunque all’opera? Chi sospende lo sguardo ed insieme<br />

parla? Intanto registro un trascorrere di fuochi e una metamorfosi<br />

di emergenze. Delle vere e proprie nascite. Le chiamerei<br />

volti e presenze, se con ‘volto’ conveniamo di intendere qualcosa<br />

di originario, un affacciarsi e venire incontro di sostanze e<br />

corpi, qui diafani, vibranti, smaterializzati, in trasformazione. C’è<br />

un desiderio di riconoscimento, una domanda di voci prime e di<br />

nomi nel pulsare dei colori e nelle forme sottratte alla prigionia<br />

delle cose.<br />

Potrei dire, impiegando una formula romantica, di avere a che<br />

fare con una espressione geroglifica, ossia con una lingua che si<br />

fa universo e non parla più del mondo, ma è essa stessa un<br />

mondo nell’atto di esprimersi. Se cosmico è attributo ricorrente<br />

nelle letture di Vago, esso viene ad indicare, certamente non a<br />

caso, il senso di una cosmicità e di una genesi divenuti immanenti<br />

al costituirsi stesso delle forme nell’ordine del dipingere.<br />

Ragion per cui le analogie e le metafore, di cui indubbiamente<br />

è dotata la pittura, non si riferiscono a ciò che sta fuori dalla tela,<br />

giacché questa non è lo specchio, una trasfigurazione magari sublimata<br />

del reale, ma fanno capo ad una catena interna di rapporti.<br />

Vivono insomma dietro una rete autonoma di somiglianze.<br />

Vedo anche che una simile cosmicità punta sulla consonanza dei<br />

512<br />

segni, come se il conflitto fosse un antefatto dimenticato e tutto<br />

cooperasse ormai all’unità dell’organismo compositivo. L’affiorare,<br />

il venire in primo piano di una forma appartengono inoltre ad<br />

una ritmica dell’inizio, costituendo contemporaneamente una invariante<br />

tematica di tono positivo. Niente cadute e vuoti. Una<br />

volta avviato il processo del comporre, la forma grida l’eccomi!<br />

d’una creatura, l’”io sono” di un insieme cromatico. Come chiamarli<br />

questi corpi privi affatto di gravità materiche, ma alla cui<br />

costituzione coopera nondimeno una memoria lontana della<br />

concretezza? Talora una atmosfera diffusa di fumi perlacei e di<br />

nebbie? Il fatto è che l’aereo e l’astrale disincarnano la natura,<br />

trasferendola nelle regioni di un’esistenza espansiva, fatta di alonature,<br />

echi, riverberi. Tutta la prima stagione di Vago è percorsa<br />

ed in certo modo ossessionata dal fantasma della nascita.<br />

Anche le intitolazioni contengono dei segnali e aiutano quelle<br />

didascalie, pur minime, che in seguito scompariranno del tutto.<br />

Che altro vengono a mostrare parole come apparizione, immagine,<br />

distensione, o termini estratti da una sorta di archetipologia<br />

geometrica, quali linea, quadrato, forma, orizzonte, se non<br />

un animato risalire di corpi eterei dall’ombra delle materie? se<br />

non un vocabolario luminoso? Le lettere, o meglio le figure sono<br />

infatti entità vive dell’immaginazione, poiché i nomi sono esseri<br />

e gli esseri nomi di un puro universo di cifre. Volti ed aspetti<br />

della genesi; e della pittura come genesi.<br />

Per comprendere questa curvatura fantastica, bisogna afferrarne<br />

l’ipostasi che la sorregge e che deriva, come si diceva, da<br />

un’epoché armonizzante. Obliato l’invivibile diurno, l’insieme fissato<br />

e petroso dei fenomeni, il paesaggio viene rifatto nel pensiero,<br />

ricominciando dai suoi elementi essenziali: il colore, la<br />

linea, lo spazio. Così la materia è anch’essa risospinta al suo principio<br />

generatore, a quel mitologema ben noto alla fantasia visionaria<br />

che è la luce. Non però la luce accecante, “nera”, della<br />

mistica negativa, dei soli scuri e mortali di Rembrandt e Kokoschka,<br />

ma quella neoplatonica, bianca, drammatica certo, ma<br />

salvifica, dell’orfismo. L’andirivieni segmentato dal mondo al sovramondo,<br />

dall’oscuro al chiaro e nuovamente al buio, lascia<br />

posto ad un tragitto unico ed assetato nella luce, alla risalita. Peripezia,<br />

questa, sempre più inquietata, dilagante e senz’altro corale<br />

nelle opere degli ultimi anni, dove un’azione, quando vi ha<br />

posto, disegna dei gradi della incandescenza ed è un morire e


nascere della luminosità a se stessa.<br />

Le icone del ’60-’62 mostrano ormai in atto la produzione di una<br />

chiarezza per via di effrazione. Le immagini si aprono, disserrando<br />

dei nuclei positivi; si distendono e bilanciano, coagulano dei<br />

rapporti d’unione. Le loro ferite non sono tagli, ma sorgenti di<br />

fuochi in espansione. Una metrica dell’irraggiante. Si consideri,<br />

per esempio, il rosso. Non ha nulla di sanguigno e di corposo;<br />

non fa grumi. È piuttosto un timbro sonoro, una vibrazione, un<br />

evento acustico e spesso un incendio.<br />

Decantati a forza di levitazione i detriti e le scorie, pencola sul<br />

più e sul meno, modellando dei battiti. Divide e riunisce. Cerca<br />

delle cromìe solidali con le quali mettere in circuito delle gravitazioni.<br />

Vien fuori quel che il pittore chiama una presenza, o anche<br />

un’anima o un soffio: il primo attante della sua scena mentale.<br />

Non si creda però ad un facile equilibrio degli opposti, tant’è<br />

vero che appena lo spazio si dilata e quella presenza cerca un riferimento<br />

amplificato verso altri valori luminosi, può incrinarsi e<br />

cadere. Quando si è trattato di passare dal piccolo al molteplice,<br />

da una a più alitazioni, la rottura è difatti avvenuta in modo flagrante,<br />

tanto da mettere in dubbio il telos stesso dell’accordo. La<br />

tempesta dello sfondo, rivelatosi un’energia straripante (e un’insorgenza<br />

del caos), disarticolava le configurazioni minori. Impadroneggiata<br />

com’era, spezzava e frantumava, sprigionando quell’antiforza,<br />

quel niente, che più di ogni altra cosa l’artista teme<br />

V. Vago, E 291, 1973, olio su tela, cm 180x240. V. Vago, M.R., 1974, olio su tela, cm 150x200.<br />

513<br />

perché impedisce il generarsi armonico della lingua per partiture<br />

continue.<br />

Ne sanno qualcosa gli Orizzonti sconvolti del ’63 che hanno richiesto<br />

tutta una serie di assestamenti, di calibrature e di messe<br />

a punto analitiche del campo visivo e quindi un confronto col sapere<br />

‘astratto’ del Novecento, una ripresa che ora diventa non<br />

soltanto limpidamente consapevole, ma necessaria per risolvere<br />

un problema generale di struttura. Se fino a questo momento,<br />

nell’invenzione di un solo nome, lo sguardo ha saputo cavare da<br />

sé l’immagine nascosta, tenendosi in certo modo ancorato agli<br />

accertamenti intuitivi della forma, stando cioè in consonanza indiretta<br />

con le figure dei grandi visionari, d’ora in poi - almeno per<br />

un certo periodo - la riconquista della luce passa attraverso le<br />

verifiche esplicite del “basso continuo”, della teoria e di una situazione.<br />

Influisce, per esempio, il Licini ultimo, o quella sua<br />

parte più celeste e meno demoniaca, direi quasi senza coda e<br />

angelica, dalla quale viene il magistero cristallino degli spazi.<br />

Cosa che apre un curioso paragrafo dentro il capitolo finalmente<br />

attivo dell’errante nelle stratosfere del Settentrione, mentre<br />

l’eretico/erotico sarà da vedere altrove nel ritorno alle Madri.<br />

Oppure viene ad incidere una microstruttura kleeiana di bande e<br />

tastiere, fatta trasvolare insieme all’arricciatura di un filo di luce,<br />

ad un segmento o al bordo incipiente di un “planiti”. Fatto sta<br />

che a poco a poco si configurano delle pluralità di tempi e luoghi.<br />

La linea d’appoggio si ricompone e questa pur sottilissima


linea costituisce la chiave di volta dell’intero piano orbitale.<br />

Quanto allo schema segreto da cui un simile cardine deriva, non<br />

pare azzardato pensare ad un punto di vista vagante, ad una<br />

sorta di croce, di germe reticolare o di embrione a scacchiera in<br />

continuo slittamento. Se una forma si estende e dilata, è bensì<br />

vero che il movimento batte dei sentieri privilegiati in verticale<br />

o in piano, per via di ripetizioni intensive e fasce parallele. Segno<br />

che la mobile griglia d’origine, quell’incrociamento di fratture e<br />

riprese che è l’icona della presenza, sta producendo una scansione<br />

di cerniere: l’orizzonte di uno spettacolo immaginario.<br />

Perché un orizzonte? Dal momento che tutto viene giocato sul-<br />

V. Vago, Presenza, 1962, olio su tela, cm 130x163.<br />

514<br />

l’irradianza e manca il sussidio laterale delle quinte, lo scenario<br />

esige dei confini per disegnare una topologia degli spazi recitativi<br />

che sia funzionale all’ingresso o all’uscita dei segni. Detto in<br />

altri termini, è la temporalità del quadro, la sua ripartizione in<br />

tappe a richiederlo. Il bisogno della sequenza e dell’assembramento<br />

di istanti. L’orizzonte è poi il limite, la zona di passaggio<br />

e il bordo entro il quale l’informe, vale a dire la percussività anarchica<br />

del colore viene costretta a modellarsi. Manifesta dunque<br />

l’esigenza di serrare nell’articolazione un flusso altrimenti imperimetrabile.<br />

L’essere ancora attraversabile, resta comunque nella<br />

natura di questo confine, sicché un segno quando viene ad in-


V. Vago, P.C. 78, 1982, olio su tela, cm 200x150.<br />

515


crociarlo prosegue nel suo percorso, non muta traiettoria, ma ne<br />

esce come rifratto continuando la corsa in un riverbero di echi. A<br />

metà tra forma e non-forma, non ancora del tutto segno parlabile<br />

ma nemmeno più corrente irreggimentata, l’immagine vive<br />

nella dimensione fluida dell’edenico.<br />

Non ha significato; tuttavia, proprio perché si grammatizza in un<br />

ordito nascente, tende ad averlo.<br />

È volontà di senso appoggiata al puro fianco del colore.<br />

Se aduniamo il corteo delle somiglianze interne, l’intermittente<br />

suite dell’aereo e del luminoso, una figura forse potrebbe riassumerle.<br />

È quella del lampo, di un abbagliamento del pensiero anteriore<br />

ai fulmini e ai fuochi reali: la forma-lampo di uno spirito<br />

meditativo. In certe occasioni la vediamo rimbalzare da un capo<br />

all’altro della superficie, mettendo in chiaro un’altra tendenza di<br />

fondo, che è l’aspirazione al grande e all’avvolgente. Dilatare il<br />

quadro, oltrepassare l’ordine percettivo della cornice, assorbire<br />

psichicamente lo spazio dell’osservatore in un’unica mareggiata<br />

cromatica ed infine fondare su un simile incontro la solidarietà<br />

col riguardante, rendendolo co-autore di un evento contemplativo,<br />

rappresenta, per altro, una delle più appassionanti ragioni di<br />

confronto fra la pittura italiana e quella statunitense, per suo<br />

contro nutrita di molteplici spinte storiche europee. Vi si raffrontano<br />

due soglie della visione, oggi tutt’altro che esaurite. Già all’origine<br />

il ‘grande’ è implicato, in Vago, dall’idea di stendere velari<br />

e trasparenze. Il quadro viene dipinto come se fosse un affresco,<br />

la tela un muro o una parete, un ‘murale’ in potenza,<br />

come osservava vent’anni fa Ballo con felice intuizione. Non solo<br />

il quadro da allora si allarga fino ad assumere sintomaticamente<br />

le misure di uno schermo eccedente le proporzioni fisiche di<br />

chi lo osserva, obbligandolo ad uscire da se stesso, ma il supporto<br />

svolge un ruolo attivo, è già pittura virtuale. Non perché<br />

assuma una funzione cromatica speciale restando grezzo o scoperto<br />

da qualche parte, ma perché vive nel ricambio dei toni,<br />

come può vivere uno strato sottostante che respira insieme alle<br />

stesure successive. Non si comprenderebbe altrimenti il passaggio<br />

naturalissimo, quasi senza sforzo, ai due recenti cicli parietali<br />

di Barlassina, entrambi realizzati nell’invaso di spazi comunitari:<br />

una banca artigiana e una chiesa. Di modo che oggi tela e pittura<br />

murale convivono fianco a fianco, o sono addirittura la stessa<br />

cosa.<br />

516<br />

Diceva Kandinsky, a proposito di “nuovo futuro romanticismo”,<br />

che la parte nuda è l’inedito sì contro il rumore, la distrazione,<br />

l’accidentalità caotica e parassitaria del quotidiano: “Chi sa veramente<br />

sentire, con l’intensità dell’esperienza vissuta, la parete<br />

nuda, è preparato nel modo migliore per vivere l’esperienza di<br />

un’opera pittorica: la parete bidimensionale, perfettamente liscia,<br />

verticale, proporzionata, “muta”, sublime, che dice di sì a<br />

se stessa, rivolta in sé, limitata all’esterno e irraggiantesi verso<br />

l’esterno, è un elemento quasi primario”.<br />

La congiunzione dell’intimità con la grandezza, della solitudine<br />

con lo spazio aperto parrebbe un paradosso. E senza dubbio lo<br />

è, ma contraddittorio, se questo ‘dentro’ deriva da una storia privata<br />

e rifluisce nell’intimismo del diario soggettivo. Ma qui non<br />

v’è soggettivismo. Tanto più intima, nel senso alto del termine,<br />

è la grandezza quando sprigiona immagini ignote, dense come<br />

archetipi, dalle quali l’ocularità del fuori è posta fuori gioco; che<br />

assorbono lo sguardo della mente e vi si fondono. Allora si dà<br />

come unità interiore del pensiero; ed è anche un segno del<br />

maestoso. L’implicita religiosità delle figure è proprio ciò che, nel<br />

nostro caso, occorre in definitiva ribadire. Lo sviluppo dimensionale,<br />

con i suoi precisi corollari stilistici e tematici, lo richiede.<br />

Il protagonismo della luce ha prodotto una coralità di presenze:<br />

una scena e un’azione. Osservo dei segni e contemporaneamente<br />

ne sono guardato. I parapetti del vedere, gli orizzonti, i<br />

piani d’appoggio e i tralicci sono duplici. I miei si spostano mano<br />

a mano che passo davanti alle tele, mi avvicino e allontano. Ma<br />

sono poi soltanto miei? Non sto seguendo degli altri sguardi? Ed<br />

in fondo agendo empaticamente in sintonia con la luce? Ci sono<br />

degli ideogrammi che fanno da catalizzatori, quasi delle “finestre”<br />

aperte dall’alto, delle triangolarità appena accennate, delle<br />

barre e delle cerniere.<br />

Punti, croci e tasti. A Barlassina, nella cupola ottagonale e nel<br />

presbiterio (una fabbrica per altro duramente estranea ed aggiunta<br />

all’edificio barocco di S. Giulio), trovo delle chiavi di raffronto.<br />

Lì Vago ha dovuto delineare degli equivalenti, decidere e<br />

predisporre un glossario ‘umile’ della sua mitografia. Sotto la<br />

grande spirale bianca, giallo-azzurra (ancora un lampo! e un abbagliamento)<br />

in discesa/ascesa, ha lavorato di citazioni, lui pur<br />

così restio all’esercizio del tradurre. Una concessione “popolare”<br />

(nonostante i referenti raffinati), ma anche generosa e difficile,


che il torrente luminoso produttivamente riassorbe. La vera azione infatti sovrasta le<br />

stazioni letterali e riconoscibili. Le autentiche icone sono il fiume cromatico, gli ideogrammi<br />

e le barre, tutto il vortice delle trasparenze. Proprio il medesimo dramma<br />

delle tele. Anche il bilanciamento della luminosità proveniente dalle aperture murarie<br />

serve all’unico macrosegno, all’environment prodotto nel cavo mediante spinte<br />

e controspinte, di modo che il citazionismo viene nella sostanza negato per ciò<br />

che di eteroclito (e combinatorio) questa procedura di solito comporta. D’après e<br />

plurilinguismo stanno davvero agli antipodi della grammatica dello scintillamento.<br />

Là dove una forma tira l’altra non sussiste pittura a programma. Eppure una confi-<br />

V. Vago, P.E. 96, 1972, olio su tela, cm 240x180.<br />

517<br />

gurazione triadica è lentamente emersa<br />

col tempo nei quadri. E s’impone. Con insistenza<br />

via via maggiore una, due, tre sottili<br />

architetture aeree incidono lo sfondo,<br />

dialogando con la tessitura delle effervescenze<br />

e col paesaggio, ora tumultuante<br />

ora rasserenato, in retroscena. È una crocifissione<br />

del colore, una passione della luce,<br />

iconologicamente attiva come via crucis<br />

mentale di specie radiosa. I punti sono<br />

‘occhi’ e pupille. Ed i fili arricciature di<br />

nembi ed ali. Per questo si invoca il silenzio.<br />

Quale silenzio? Se Vago dichiara di essere<br />

colto da afasia di fronte alle sue tele;<br />

se, com’egli dice, “ogni crescita dell’immagine<br />

è sottrazione di parola”, non è certo<br />

l’azzerante arsura dell’aorgico cui vuole alludere.<br />

Questo nulla radicale gli è in realtà<br />

estraneo. La parola tace perché abbia<br />

luogo una lingua piena, totale: quella rigeneratrice<br />

della manifestazione.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Valentino<br />

Vago”, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano,<br />

11 marzo-11 aprile 1983.


Dopo il tutto<br />

Concetto Pozzati (1)<br />

…Pozzati aveva abbastanza da spartire, era stato in quell’occasione<br />

che avevamo avuto la possibilità di intessere un confronto<br />

con autori con i quali Pozzati da tempo intrattiene per lo meno<br />

una relazione, non dico un rapporto strettissimo, ma certamente<br />

una relazione di dibattito, di discussione. Si trattava di Bonfiglioli,<br />

Boarini e Boatto, che credo abbiano contato qualcosa nella<br />

storia critica di Pozzati, della letteratura critica intorno a Pozzati.<br />

Poi c’è stata la mostra di Suzzara, nel corso della quale Umberto<br />

Artioli ha potuto intervenire direttamente sul lavoro di Pozzati<br />

del ’79, su quella tematica del bacio e della spada, che credo<br />

prosegua nei lavori che questa sera noi presentiamo. Si tratta infatti<br />

di un ciclo di dipinti, leggo dal frontespizio del libro che questa<br />

sera vi proponiamo, a tecnica mista: 301, cioè una introduzione,<br />

un incipit, più 300 dipinti, che cadono sotto il titolo di<br />

"Dopo il tutto". Come dicevo mi pare che ci sia una forte continuità<br />

tra le cose viste nella mostra di Suzzara e queste riprodotte<br />

nel libro. Avremmo voluto certamente intervenire, almeno per<br />

quanto mi riguarda, in maniera più incisiva su quanto Pozzati va<br />

componendo proprio perchè riteniamo che il suo lavoro sia<br />

estremamente articolato e importante, quindi cercheremo di<br />

dire qualcosa su questo lavoro sapendo bene che probabilmente<br />

si tratterà di un attraversamento dell’opera abbastanza occasionale;<br />

ci riserviamo di intervenire in modo più incisivo in seguito,<br />

intanto questa è una ragione per cui le nostre (mie e di Baratta)<br />

non saranno delle presentazioni, come suona l’indicazione dell’invito,<br />

ma piuttosto delle letture a ridosso e successive al discorso<br />

che Pozzati farà sul suo lavoro, sia parlandone, sia presentando<br />

l’immagine di questo "Dopo il tutto".<br />

Comincerò ad azzardare qualcosa sapendo bene di non poter<br />

fare una lettura esauriente; mi sono notato alcuni temi che Pozzati<br />

ha enunciato; ha parlato di un bianco lattiginoso, di isole. La<br />

prima constatazione è naturalmente evidentissima: le immagini<br />

i segni le cose che ci dà Pozzati stesso, il bambolotto appeso,<br />

galleggiano su un universo di elementi ‘indifferenti’, disegni che<br />

sono tra di loro commutabili, intercambiabili, svuotati, cioè collocati<br />

in un universo di simulazione. È scattato un corto circuito<br />

518<br />

nei meccanismi dialettici del regime duale, della opposizione,<br />

non è possibile distingure tra un vero e un falso, tra la vita e la<br />

finzione, tutto è sovrapponibile. Ci dice anche che egli ha raccolto<br />

una biblioteca, un catalogo, ha fatto un inventario, che di fronte<br />

ci troviamo degli scaffali con delle coste di libri più all’inizio<br />

che libri aperti. Ha evocato il diluvio, la fine della storia; quale<br />

storia? Quella sorretta da un télos, quella che aveva un futuro.<br />

Ma mi sembra che dopo quella storia una nuova cominci, una<br />

svuotata dalle presunzioni della storia precedente. La domanda<br />

a questo punto è: anche il pittore è indifferente di fronte a questo<br />

universo di segni in cui non agisce più la differenza? Egli mi<br />

pare abbia reclamato più volte il diritto della sua soggettività, sia<br />

pure sottolineandone l’aspetto precario, e una soggettività che<br />

ha i caratteri del desiderio; in certi momenti ha parlato di un piacere<br />

del disegnare, del ripercorrere certi segni; ci ha detto che il<br />

disegno è un elemento di uniformazione, di resa del tutto ad un<br />

tutto uguale, e tuttavia però non può privarsi del diritto di segnare<br />

dei percorsi molto precisi in cui una soggettività comunque<br />

vien fuori e allora di fronte a questa grande tavola, a questo<br />

insieme di loculi, come lo ha chiamato, a questo apparente<br />

cimitero fluttuante, si genera una catena di incontri. E mi pare<br />

che attraverso la sovrapposizione alcuni luoghi, almeno dieci,<br />

stando all’opera definitiva, quella esposta e fotografata in catalogo,<br />

almeno dieci di questi luoghi emergano sopra agli altri,<br />

quelli che Pozzati ha chiamato “le mie isole”, o le isole che in<br />

qualche modo si sono configurate. Dunque se il pittore non è del<br />

tutto indifferente, se c’è in qualche modo la precarietà del soggetto<br />

a riproporsi di nuovo ed a installarsi nel segno, il suo è in<br />

qualche modo anche un addossamento, è uno stare ‘da vicino’,<br />

è un incollarsi alle cose; c’è una vecchia polemica che Pozzati ha<br />

riportato qui e ha gia discusso qualche anno fa, della serie che<br />

ho ricordato prima, la polemica contro il d’aprés, cioè contro una<br />

lettura della ripetizione, della ripresa delle figure in termini di<br />

prospettivismo, in termini di storicismo: quello ha rifiutato da allora<br />

e continua a rifiutarlo. Quello che mi interessa dire è che c’è<br />

un attaccamento alle figure, alle immagini che diventano da lontano;<br />

Pozzati parla di amori “da lontano” ad un certo momento,<br />

però questi amori da lontano si individualizzano all’avvicinamento,<br />

hanno qualcosa anche di plastico, di tattile, questo mare<br />

lattiginoso ad un certo momento si individua, si arricchisce di fi-


gure, questi resti cominciano a parlare, e allora per citare alcune<br />

delle note "anonime", apparentemente impersonali, o per lo<br />

meno di una impersonalità nuova, tutta da ridiscutere, questo<br />

nominare le cose, che si costruisce nei termini di un ascolto delle<br />

tracce, ha qualcosa che ha a che fare con delle materie collose,<br />

ha qualcosa che restituisce di nuovo un rapporto fisico. Non a<br />

caso poi, tra i materiali che egli usa ci sono tecniche del tagliare,<br />

dello sforbiciare, del rendere tagliente, ma anche del raggrumare,<br />

del far coagulare. Comunque c’è una catena di amori da<br />

lontano e dieci luoghi privilegiati si evidenziano in questo senso.<br />

Non mi sembra neppure un caso, o almeno non lo voglio considerare<br />

tale, non voglio scartarlo subito arrendendomi a quella<br />

che è una dichiarazione dell’analiticità di cui ci ha parlato Pozzati;<br />

è molto curioso che alcune di queste figure, alcune delle dieci<br />

figure che coagulano di più, provengano da territori per così dire<br />

magici, che da sempre hanno saputo coagulare; è già stato nominato<br />

più volte Licini, ma non a caso anche il tocco di Klee, poi<br />

c’è un’altra animalità, che è quella di Dürer, poi ci sono delle figure<br />

animali, fisicamente pregnanti legate a Grosz, in particolare<br />

delle figure del femminile legate ad un assassinamento, a<br />

tutta una storia che si lega ad una mitografia molto precisa del<br />

primo ’900, per esempio.<br />

Abile dell’assassinamento. Mi interessa riprendere per un momento,<br />

so di non essere estremamente coerente, quella sottolineatura<br />

del termine: disegno. Allora io me la leggo subito a livello<br />

etimologico, e so che disegno deriva da de-signum, cioè riprendere,<br />

un partire da un segno dato; io vengo da un segno,<br />

dice P., e intanto risegno, ricalco quel segno e cancello, ma questo<br />

cancellare, guarda caso, poi riproduce delle riconoscibilità, e<br />

queste riconoscibilità sono dei coaguli, delle isole in qualche<br />

modo amorose, sia pur precarie. Questo procedimento che va<br />

per rovesciamenti è visibile, secondo me, sia a livello di figure<br />

che anche di procedimenti, di lavoro proprio artistico in senso<br />

stretto, di pratiche, di manualità, di fattualità; cioè da una parte<br />

trovo un muoversi sia sulle figure che sul segno, in termini di ossimoro,<br />

in termini di chiasmo. Da una parte trovo elementi estremamente<br />

puntuti, estremamente taglienti, dall’altro trovo invece<br />

elementi assorbenti, trovo delle ceralacche, quasi delle spugne,<br />

la carta stessa mi pare di aver notato, direttamente dalla<br />

conoscenza delle opere precedenti al ciclo che lui ci ha presen-<br />

519<br />

tato, ma molto legate a quello; mi sembra l’uso di una carta in<br />

grado di assorbire il segno che vuole in qualche maniera cancellare,<br />

cioè c’è un impregnarsi di quel ridisegnare, di quel battere<br />

il passo su certi elementi, di questo reinterrogare le cose e<br />

prendere da parte del supporto in qualche modo questo segnale<br />

di evocazione.<br />

Un argomento che mi interessa in modo particolare, al quale per<br />

ora accenno soltanto, è questa dominante del bianco, del biancore,<br />

del lattiginoso che c’è nelle opere degli ultimi tre anni; di<br />

un bianco che non è abbacinante, e tuttavia abbacina, di un<br />

bianco che si sporca e che tuttavia sembra invecchiato, sembra<br />

estremamente antico; in realtà è in qualche maniera fermentante,<br />

in qualche maniera di nuovo riemergente; anche qui, in<br />

questo biancore della carta, del supporto, trovo doppiamente<br />

presente sia l’elemento del vecchio, sia l’elemento del giovane,<br />

sia dell’antico che del nuovo, senza potermi decidere però su<br />

una direzione, mi sembra che siano compresenti entrambi. Sappiamo<br />

da sempre - gli interpreti più acuti di Pozzati, ed è questa<br />

la domanda che egli in ultimo si è rivolto -, sappiamo da sempre<br />

che egli è un maestro del nascondimento, che in lui è fortissimo<br />

l’esercizio della rimozione, che sempre, là dove egli ci<br />

mostra un’immagine, certamente sotto di essa o di fianco o lateralmente<br />

o addirittura in un punto molto evidente, ma quasi<br />

non visibile, vi è l’oggetto rimosso, vi è qualcosa di cui non ci<br />

parla esplicitamente; questo abilissimo camuffatore ci propone<br />

dei tranelli, sta a noi, e questa è la sfida che lui ci ha lanciato,<br />

trovare qual è il segnale nascosto, ciò che egli ha allontanato. Se<br />

dovessi seguire il percorso delle rimozioni, degli inganni, delle<br />

trappole e degli allontanamenti che Pozzati ha esercitato nel<br />

corso degli anni, certamente non avrei dubbi sul rispondere che<br />

ciò che egli nasconde, ciò che nasconde perché non vuol darlo<br />

in pasto ad un universo del tutto uguale, è un elemento di vita<br />

profonda, è un qualcosa come una organicità che è sotto le cose,<br />

è qualcosa che potrei chiamare provvisoriamente una scintilla di<br />

vita, è qualcosa che ha a che fare con la materia, con la plasticità<br />

della materia, e che in altri anni si è manifestata con la ripresa<br />

di un simbolo, di un elemento o di un segno fortemente<br />

organico.<br />

A questo proposito, aprendo una rapidissima digressione, credo<br />

che non sia affatto secondario che ci sia una figura ossessiva in


questi 301 pannelli/quadri e cioè quella dell’incontro pittoremodella:<br />

mi pare che quell’incontro che egli rivive attraverso la<br />

catena delle invenzioni della modernità, attraverso Picasso in<br />

particolare, un incontro che ha qualcosa a che fare con la carne,<br />

con la fisicità, sia un incontro che significa anche attraversare il<br />

modello, un rifarlo e un violentarlo, per trarne attraverso l’opera<br />

un qualcosa che è anche la morte dell’altro. Mi ha interessato<br />

dire come all’inizio, o a un certo momento del suo discorso, la<br />

matrice, la prima lastra che egli ha posto per prima nella numerazione,<br />

come incipit a fianco delle 300 tavole, sia qualcosa che<br />

non riproduce, e tuttavia questo qualcosa che non riproduce è<br />

una madre, è una materia che egli non fa riprodurre proprio perché<br />

tiene gelosamente per sé. Tra tutte le immagini una in particolare<br />

credo che debba essere interrogata, perché mi sembra<br />

che costituisca un poco la chiave del discorso pozzatiano, è una<br />

immagine ben evidente a tutti quanti, è quella del bambolotto,<br />

del puer, dell’appeso, di quel soggetto mutilato in cui Pozzati si<br />

riconosce. Mi ero segnato su un foglio una serie di corrispondenze,<br />

di associazioni, di ricorrenze di questa immagine, di familiarità<br />

con questa immagine, nel ciclo dei 360 quadri: se dovessi<br />

seguire tutte le associazioni mi troverei di fronte certamente<br />

ad una molteplicità di sensi, questa molteplicità di sensi<br />

mi confonde, ma anche mi spinge a creare delle solidarietà, ad<br />

individuare dei significati sotterranei, quel forse rimosso, quel taciuto<br />

di cui Pozzati parla, su cui ci interroga, intorno al quale probabilmente<br />

ha disposto una sottilissima trappola. Intanto credo<br />

che a nessuno sia sfuggito come in un caso il bambolotto sia<br />

stato presentato come un giocattolo, quasi smontato, una sorta<br />

di personaggio appeso di cui si è perduto il filo, si è perduta la<br />

corda - e cioè assomigli molto in certi casi ad una marionetta -,<br />

poi come sia diventato ad un certo momento un puer; lo dico<br />

sottolineandolo, perché qui mi conforta il fatto che sia associato<br />

alla figura di Dürer e Dürer sappiamo bene che è legato ad una<br />

tematica molto precisa del saturnino, della nigredo, della macinazione:<br />

ed allora questo puer che è cieco: gli sono stati rubati<br />

gli occhi, ma al tempo stesso guarda, con che cosa guarda se<br />

non - ha detto Pozzati - con il sapere che gli è rimasto e cioè con<br />

uno sguardo del dentro che è in grado di fermentare? Questo pupazzo<br />

è mutilato, ma al tempo stesso appeso, sospeso, è diventato<br />

aereo, può aggirarsi e guardare questo catalogo di cose e<br />

520<br />

può stabilire lui dei luoghi di stazione, dei momenti di coagulazione,<br />

quei dieci momenti che mi pare in modo evidente risaltino<br />

dal complesso dell’opera.<br />

La mia ipotesi allora è questa, che all’interno di questo deserto<br />

di segmentazione, questo deserto di elementi tutti uguali, questo<br />

universo appunto delle simulazioni, in realtà si celino delle<br />

scintille di rinascita: non una, altrimenti ricadremmo forse in una<br />

teologia storicistica, ma molteplici possibilità di viaggio, molteplici<br />

stazioni e momenti di cammino; rinascita che proprio per<br />

non avere un centro, ma una serie di centri polverizzati, può lì<br />

trovare le sue ragioni in qualche maniera di svolgimento.<br />

(1) Conversazione pubblica su Pozzati, tenutasi in occasione della presentazione<br />

“Dopo il tutto” presso la Casa del Mantegna, Mantova, 5<br />

aprile 1983. Relatori: F. <strong>Bartoli</strong>, G. Baratta. La conversazione è stata trascritta<br />

da una registrazione.


Ad occhi chiusi<br />

Sculture di Nenci al Te (1)<br />

Che la cultura artistica mantovana del Novecento riservi ancora delle<br />

zone, sia pure esigue, d’ombra e che talune valutazioni vadano riviste<br />

o comunque controllate nel confronto diretto con le opere, lo<br />

suggerisce – tra altri episodi espositivi – la mostra postuma di E.<br />

Nenci (1903-1972), attualmente ordinata presso il Museo Civico di<br />

Palazzo Te. La rassegna consente di gettare uno sguardo d’insieme<br />

sull’attività di circa un cinquantennio, illuminandone le stazioni<br />

principali e puntando in modo particolare sulla lettura delle plastiche<br />

di piccola e media fattura che costituiscono, a fianco di qualche<br />

impresa monumentale, l’asse portante di una ricerca pienamente<br />

innestata nel gusto del suo tempo.<br />

Gli esordi si esplicano soprattutto nel clima ferrarese del Venti, connotato<br />

per un verso dall’eclissi di Valori Plastici (la Metafisica è ormai<br />

memoria e per di più memoria di pochi aristocratici) e per un<br />

altro dall’affiorare di elementi tardo-liberty e neopuristi che vengono<br />

progressivamente annodandosi alle proposizioni del realismo<br />

521<br />

magico e di quel Novecento, ‘nazionale’ e non milanese, che sta<br />

affermandosi un po’ dappertutto come orientamento vincente.<br />

Una situazione per molti aspetti elastica quanto ai riferimenti stilistici,<br />

oscillante tra suggestioni regionali, fantasmi del visibile in<br />

chiave simbolista e rinnovata volontà di espressione, ma tesa<br />

tutto sommato verso una essenziale misura compositiva. Né mancano<br />

le accordature da melodramma. Ed è proprio questa idea d’ordine,<br />

di stile e di forma, di cifra interna dell’opera, a ottenere l’esuberanza<br />

immaginativa del giovane scultore, poiché appare evidente<br />

fin dai primi esercizi un’insistita disposizione a calcare sulle metafore<br />

e a suggerire prolungamenti patetici dell’emozione. Di modo<br />

che il fare disciplinato (Wildt con la sua Arte del marmo è un referente<br />

lampante di quel decennio), la riduzione al minimo, il dare<br />

l’immagine per via di scorciature e rinunce hanno quasi sempre effetti<br />

positivi sull’articolazione formale. Specie il volgersi allo stiacciato,<br />

l’aderire anche nelle opere di proporzioni maggiori ad una<br />

sorta di superficie continua, quasi di percorso prolungato, incentivano<br />

senza appesantirle le qualità allusive della scultura.<br />

Ciò non toglie tuttavia che agisca anche un’altra componente. In-<br />

E. Nenci, Stalagmiti-stalattiti - La caduta, 1962, alluminio patinato, cm 52x18x18. E. Nenci, Argonauta, 1950, bronzo, cm 23x25x32.


sorgono infatti in più di un lavoro delle tensioni fisicamente corpose,<br />

come delle inarcature, nodi e grumi pregni di materia, alcunché<br />

di impulsivo e originario, fremente sotto la superficie. È l’altra<br />

faccia di Nenci, quella che fa discorrere di oscure ossessioni,<br />

di genesi (La creazione dell’uomo, 1949), di slanci che l’artista tendeva<br />

a purificare in nitida scrittura. L’organico spinge però senza<br />

esplodere. Produce accenni di moto e non sequenze agitate o racconti<br />

d’azione. Il che promuove uno speciale capitolo di quella gestualità<br />

contenuta che, mentre privilegia la quiete intensiva, libera<br />

alcune figure ricorrenti del comporre, quelle per esempio dell’arco<br />

o del “ponte”, intese a connettere e compenetrare, a far slittare<br />

l’una nell’altra, le direttrici plastiche dell’immaginazione. In fondo<br />

certe fasi stilistiche si definiscono in rapporto alla duplice pronuncia<br />

cui soggiace la forza, alla maggiore o minore nudità con la quale<br />

viene espressa l’energia sotterranea. Ed a ragione lo sottolinea Licisco<br />

Magagnato quando in catalogo parla di volontà di occultamento<br />

del "terrestre”, di decantazione del “materico e sensuale”,<br />

E. Nenci, Ritratto di Mimmi, 1952, terracotta, cm 35 h.<br />

522<br />

negli ultimi lavori contrapponendo dialetticamente una simile<br />

pratica all’impulsività di taluni momenti precedenti.<br />

Vien da dire, osservando la severa campionatura della mostra, che<br />

la finezza del modellato, insieme ai valori pellicolari ed alle articolazioni<br />

minute dei bronzi e dei marmi, alle scabrosità e patinature<br />

delle crete, costituisce una invariante sia del periodo ferrarese<br />

che di quello mantovano, pur offrendo il primo inclinazioni di ricerca<br />

maggiormente divaricate, che è merito degli ordinatori<br />

aver segnalato nonostante l’esiguità della documentazione reperibile.<br />

Costante è l’addossamento della mano, il tastare, premere<br />

ed incidere delle dita sul corpo plastico. Lo sguardo ravvicinato prevale<br />

sulla visione della distanza, così come il plasmare ha la meglio<br />

sullo scolpire, la modulazione sull’asperità e contrapposizione<br />

di blocchi: cosa che poi si traduce in una solida iconografia<br />

di figure e volti, intensamente contenuti quand’anche abbreviati<br />

ed icasticamente penetranti, tuffati nel giro d’una ritmica che ritorna<br />

su se stessa e ribadisce l’assetto inziale dei volumi.<br />

Si capiscono allora certe affinità elettive, il perché dell’amicizia con<br />

Casorati o De Pisis: e il magistero di Rambelli, Drei, Wildt; il classicismo<br />

o meglio l’atticismo decadente del Lamento di un cieco,<br />

dell’Argonauta, la cerea consistenza della Testa dell’aviatore o<br />

della Donna dagli occhi chiusi, la sua levigata trasparenza. Splendido<br />

di proporzioni il modellato intorno al ’26.<br />

Quando Nenci si sposta a Mantova, nel secondo dopoguerra,<br />

l’immagine quotidiana deve certo attrarlo, ma si tratta di una quotidianità<br />

considerata ancora una volta sotto il profilo delle volumetrie<br />

essenziali. E sono allora leggibili diverse riflessioni in comune<br />

con gli scultori locali, con Bergonzoni e con Seguri; per<br />

analogie (ad esempio la Deposizione del ’50 o la Donnina dell’anno<br />

successivo) o per contrasto. Se la compagine dei Bonzi in<br />

Preghiera non può non richiamare per affinità di struttura certi conglomerati<br />

coevi e quasi fungaie di personaggi seguriani, l’esito<br />

espressivo è poi diametralmente opposto, giacché nel primo caso<br />

si sfocia nel silenzio mentre dall’altro vengon fuori dissacrazione<br />

e grottesco. Sempre più vengono poi accentuandosi morbide cifre<br />

simboliche, quasi a chiudere il cerchio e a far tornare i conti<br />

con le esperienze giovanili, nella ripresa fin troppo estenuata, in<br />

qualche caso, dell’allegoria.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 21 maggio 1983.


Svolte e ritorni<br />

Giovanni Bernardelli (1)<br />

Non credo che la categoria dello stile, da sola, possa tornare utile<br />

alla lettura di quest’opera. La pittura c’è, fuor di dubbio, ma manca<br />

la risoluzione costringente d’una lingua, voglio dire il premere<br />

d’una forma unica che proceda conseguentemente da determinate<br />

premesse per approdare a precise conclusioni compositive. Ci<br />

G. Bernardelli, L’annegato, 1969, olio su tavola, cm 30x40.<br />

523<br />

sono blocchi di quadri, ognuno con proprie articolazioni e pronunce<br />

che, però, non inducono acquisti e neppure rifiuti definitivi. Accade<br />

infatti che nel corso di un medesimo periodo ci si imbatta in<br />

famiglie diverse di immagini o si subisca il contraccolpo, perentorio<br />

quanto inatteso, di un fantasma che credevamo consumato.<br />

D’altra parte non si può neanche sostenere che questa maniera<br />

di dipingere sia eclettica, dispersiva o accidentale, tanto resta<br />

addossata a se stessa e in certo modo acquattata nelle ragioni


G. Bernardelli, Aratura, 1977, olio su tela, cm 40x50.<br />

che la determinano. Si tratta piuttosto di constatare che lo svolgimento<br />

normale del tempo, se pur presente, non è imperativo,<br />

come se fosse consentito retroflettere le esperienze, farle zigzagare<br />

fino a confondere cause ed effetti.<br />

Tutto è o può essere sinuosamente richiamato, senza dar luogo al<br />

dramma delle contraddizioni. Detto in altre parole, l’esito testuale<br />

non decide sullo scorrere del pensiero figurativo. Può ben capitare<br />

che un approdo stilistico porti alla luce una certa figura, ma è<br />

altrettanto vero che quasi mai ne esaurisce l’antefatto, se quest’ultimo<br />

torna poi a riemergere con una fisionomia, per dir così,<br />

anteriore a quel risultato. Ne viene che il dar forma a qualcosa,<br />

mentre corrisponde ad intermittenti spinte psicologiche, disubbidisce<br />

con discreta frequenza alla pratica selettiva del dipingere.<br />

Se talora compaiono delle relazioni con la pittura contemporanea,<br />

metti coi lombardi o gli emiliani del Trenta, Rosai o altri, le<br />

analogie sono a tal punto mediate da non dovervi insistere eccessivamente.<br />

Fanno parte del tempo e sono, a volerle considerare,<br />

troppo generali per definire una militanza. E il chiarismo?<br />

Quando pare di avvertirlo, resta spesso un sospetto, un’eco vaga,<br />

un’assonanza spirituale ed anche postuma che non ha molto da<br />

spartire con le impressioni in presa diretta ed il plein air. Tant’è<br />

vero che l’atmosferico tende a comprimersi anziché ad irraggiare,<br />

sboccando in conclusione sul piatto, ed eguagliando tonalmente<br />

il vicino al lontano.<br />

524<br />

Bernardelli torna a guardare alle ‘sue’ sorgenti e se, per lui, quel<br />

che conta è la fedeltà alle radici delle immagini, non mi sorprende<br />

che il percorso assuma un andamento irregolare, con<br />

tutta una serie di volute interne, di arresti e diramazioni all’indietro:<br />

un itinerario che, visto nell’insieme, appare scandito<br />

lungo tre stazioni principali. Per circa trent’anni (ed è la prima<br />

lunghissima tappa) vengono fuori le ‘mitologie’ personali e di<br />

Gorgo, i sogni e i desideri, anche gli angelismi del pittore, la sua<br />

educata dialettalità. Più tardi, pressapoco intorno al ’65, comincia<br />

una svolta di natura purista e geometrizzante: si riducono le<br />

immagini ma in compenso le tele diventano più numerose, calibrate,<br />

riflessive. Infine, quasi riassumendo l’una e l’altra stagione,<br />

prende corpo l’epoca dei ‘ritorni’, l’ultima e tuttora in corso.<br />

Due quadri, tanto per esemplificare la logica della ripetizione,<br />

servono da riscontro. Uno è addirittura la prima opera dipinta, Alberi.<br />

Il piano avanzato costituisce anche lo sfondo, come una barriera<br />

blu-azzurra di vegetazione e di tronchi assiepata davanti<br />

agli occhi. L’altro, ancora un bosco (del 1982), impaginato quasi<br />

fosse un muro, anzi una superficie frontale, ha il medesimo andamento<br />

di linee e forme. E tuttavia è rovesciato in quanto a sostanza,<br />

poiché la barriera ha la consistenza d’una parete di cenere,<br />

in cui gli alberi sono scalfitture e solchi, crepe, angoli, grafie.<br />

È da lì che l’osservazione cava le sue intuizioni: da boscosità imparentate<br />

con acque e golene, argini, prati e altre presenze selvatiche.<br />

Selvatiche tuttavia in origine, nella materia prima dell’immaginare<br />

e nel suo derivare da un luogo che è l’unico orizzonte<br />

percepibile. Poiché in seguito interviene a modificarle la<br />

fantasticheria di assottigliamento, la spinta a depurare ed irrealizzare,<br />

che è tutto il contrario (penso dialettico e compensatorio)<br />

di chi ha pronunciato Tempo di bufera ed altri versi di imprecazione;<br />

di uno che sta lì vicino a guardare e giudicare, per<br />

amicizia, anche.<br />

La siepe. Questo elemento d’origine costituisce anche la metafora<br />

di una cornice, oltre che di un mondo. Nella pastorale del<br />

’38 (Figure sulla riva) o nei tanti interni del Settanta, che sono<br />

poi scrigni e cassetti dove si rifugia la memoria, vediamo gli oggetti<br />

disporsi al di qua o dentro i margini.<br />

Il pittore non afferra subito il piano concreto delle figure. Lo vive<br />

e rivive, poiché tra lui e le cose interviene il rimuginìo, la distanza<br />

del ripensamento, sicché, prima di affacciarsi sulla pittu-


a, luoghi e persone germogliano nella mente, han bisogno di farsi sogno e ricordo. Ed è questo intervallo che li<br />

trasforma in sostanza diversa, sottraendoli all’ordine corposo del quotidiano.<br />

L’ingorgo selvoso inaugura il primo mito: è la muraglia d’alberi e l’accerchiamento della natura. Otturazione, intoppo,<br />

sbarramento, griglia. La linea dell’orizzonte o scompare o viene a formare una cintura. Chi guarda ne resta<br />

imprigionato e può, al massimo, assestarvi sopra delle cose, magari un nudo o una natura morta, mai sfondarla.<br />

Procedimento già riscontrabile agli esordi, per esempio tanto nel Mio paese del ’47 quanto nei Fiori del ’42, vale<br />

a dire in due prove apparentemente molto diverse tra loro per luminosità e stesura cromatica, ma più solidali di<br />

quel che sembra a prima vista, poiché entrambe danno fiato ad una spazialità protesa in avanti, concava, sbarrata<br />

sul fondo.<br />

Le limpide conferme verranno tanti anni dopo. Che cosa sono la Sfoglia o le arature se non superfici a piombo?<br />

tavole verticali?<br />

È la griglia il nodo generatore. Proprio nell’imporsi come luogo abituale della fantasia, nell’essere semenza delle<br />

immagini e tema introduttivo, risulta disponibile e subisce tutto un ventaglio di metamorfosi. È l’argine e lo ster-<br />

G. Bernardelli, Tramonto, 1982, olio su tela, cm 50x60.<br />

525


peto, ma assorbe anche l’intero ambiente, fino a confondersi col<br />

cielo, il vento, le nubi. E non mi riferisco soltanto alle innumerevoli<br />

porte, muraglie e pareti assestate contro il fondo, alle quinte<br />

e ai sipari laterali del Sessanta e del Settanta, ma al divenir<br />

siepe del cielo stesso, al tumefarsi e stendersi dell’aria in padiglioni<br />

di scaglie e barre. Sì che ad un certo punto un bosco equivale<br />

pittoricamente ad una ventata di nuvole, l’aereo precipita<br />

nell’umido, in un fuoco liquido o in una danza di scorie (Tramonto,<br />

1971). Una nebbia agitata, lenticolare. Ecco perché allineerei<br />

insieme, lungo una catena ideale, le prime ‘barriere’ alle<br />

molto più tarde orchestrazioni di segni celesti e vegetali, alle<br />

tempeste e ai notturni recenti, compreso il fondale scuro, da caverna,<br />

di una luna del 1982.<br />

È davvero qui, dentro e non dietro la muraglia, che il pittore<br />

spinge lo sguardo, aspettando che una figura riveli quel che ha<br />

da dirgli; che lo scuota, minacci, affascini, come le pietre e i legni<br />

che raccoglie sul greto. L’occhio non trova risposte sensate, uniformi:<br />

solo emozioni, accadimenti, mute ambivalenze, maniere<br />

alterne dell’esistere.<br />

Allora è sintomatico che una riva suggerisca insieme idee<br />

d’amore e di soffocamento; e che le linee d’appoggio siano biforcazioni<br />

e crocicchi.<br />

Prendiamo il più fluido e vicino degli orizzonti del paese, quello<br />

dell’acqua che scorre. Il filo del fiume, un canale. L’esito è duplice.<br />

Incorniciata da un reticolo di tronchi e di sponde, un’ambivalenza<br />

elementare non tarda a manifestarsi; e lo fa in controluce,<br />

cioè ancora attraverso uno sbarramento ed una tenaglia. Nelle<br />

tele del ’38 hai l’idillio e il suo opposto, con le mitologie primitive<br />

del corpo, dell’uomo, della donna, delle bagnanti. Su una riva<br />

la dormiente, su un’altra l’annegato. Spavento e piacere, proiettati<br />

nel silenzio o nel suono d’uno zufolo, si danno il cambio. Avviene<br />

la stessa cosa per il sogno sereno e l’incubo, ma mentre il secondo<br />

ha breve sviluppo il primo motivo conoscerà un largo numero<br />

di varianti pur continuando ad insistere sull’immobilità del<br />

corpo femminile, sul suo essere fermo come un fossile o un idolo,<br />

a parte qualche accenno di moto in un paio di danzanti.<br />

Lavorato nell’essenziale, il nudo si fa enigmatico, petroso, squadrato<br />

man mano che passa il tempo. Dal tenero pastello al sasso,<br />

dal verosimile al deformato ed all’imprendibile. Si mineralizza.<br />

Non si tratta comunque di un processo violento. Bensì di preserva-<br />

526<br />

zione. Una forma chiara, luminosa, ridotta all’osso, quasi un talismano.<br />

Del resto questa pittura opera sul secco da sempre. Si serve<br />

di colori smagriti, lascia scoperte delle parti o vela appena la superficie.<br />

Colorisce - si direbbe - un disegno e dissecca paste e materie,<br />

sia che s’arruffi oppure proceda in modo uniforme e continuo.<br />

Anche altre storie vi si adeguano, intendo quelle sociali e naturali<br />

di Gorgo, gli episodi dei cavallanti e del varo, le domeniche<br />

e i giorni di festa al santuario, i campi, le case; soprattutto quest’ultime,<br />

che da un certo anno in poi fanno da protagoniste uniche,<br />

o pressappoco, dei dipinti. Proprio da esse (il quadro-chiave,<br />

per me, cade nel ’65) viene il segnale d’un cambiamento. Lasciando<br />

da parte la corsività del bozzetto ed il tenero degli sfumati,<br />

l’occhio prende a selezionare le forme. Riduce la composizione,<br />

poche linee, semplifica ed abbrevia i piani. Il risultato è<br />

una immagine compatta (non dico astratta, benché questa intenzione<br />

sia sicuramente presente), in cui l’idea della realtà ha<br />

subìto un ulteriore giro di vite in direzione contemplativa.<br />

Solo ora, probabilmente, Bernardelli si pone il problema del linguaggio<br />

in termini drastici e forza le cose a vantaggio della forma.<br />

Tenta il partito purista a costo di cadere nel geometrismo. Pialla,<br />

cancella l’oggetto. Conserva pochi argomenti: la natura morta, la<br />

stanza, le pareti di casa ed il paese. E dappertutto fa circolare<br />

un’aria intima, gelosa, domestica, come se dovesse tirare le fila<br />

d’un pensiero disperso puntando sulla nettezza dell’esecuzione.<br />

Mi pare un bagno di ascetismo in cui sfoga la neccessità della<br />

misura espressiva e dell’equilibrio. Potrebbe costargli molto,<br />

anche la perdita delle fonti di eccitazione fantastica, la monotonia<br />

dell’armonico. Ma per fortuna inizia a profilarsi, dentro le impaginazioni<br />

centralizzate, a volte fin troppo assiali, una vera urgenza.<br />

Qualcosa che va oltre l’ordine, che non fa questione di<br />

questo o quell’oggetto, ma della loro sopravvivenza in generale.<br />

Alludo agli effetti dissolventi del contemplare: un’energia corrosiva<br />

che disfa il mondo circostante. Ne dimostra la precarietà.<br />

Meglio: il suo carattere sognato e fantasmatico. Che è quel che<br />

serve realmente al pittore.<br />

Là dove compare l’immagine-fantasma, l’ustione, il buco, il quadro<br />

infatti riesce. Penso in particolare ad un paesaggio e a una<br />

natura morta del ’72, in cui un settore dell’immagine sembra<br />

calcinarsi, diventar traccia. Mi spiego allora come, in tanto purismo,<br />

vengano alla luce delle tele in qualche modo marginali,


G. Bernardelli, Case, 1965 ca., olio su tavola, cm 25x35.<br />

non-geometriche, dove uno spaccato vegetale o un cielo agitato<br />

offrono il pretesto per svolgere il tema profondo, che è l’incandescenza<br />

della pittura e il suo svanire. La cenere.<br />

Vedo le conseguenze nell’epoca dei “ritorni”. Certi motivi visivi<br />

rinascono come impronte, delicati ricalchi ed ombre di una materia<br />

divenuta così sottile da tramutarsi in profilo. Grazie alla<br />

linea di confine il mondo riappare per evocazione. Lo si richiama<br />

bordeggiandolo.<br />

Il sentiero (1975), La ragazza sul prato (’78), dei nudi. Accanto<br />

527<br />

a questa c’è l’altra maniera, quella delle scaglie e dei controluce,<br />

alle cui premesse ho già accennato.<br />

Sta al sogno, a questo dialetto del sogno, incernierarle.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Giovanni Bernardelli. Opere 1935-<br />

1982”, Suzzara (Mantova), 19 giugno-31 luglio 1983; San Benedetto Po<br />

(Mantova), settembre-ottobre 1983; Ferrara, 18 dicembre-5 febbraio<br />

1984.


L’occhio del cielo. Miraggi<br />

Carrozzone Magazzini Criminali (1)<br />

La prossimità del teatro al cinema, la presenza di media elettronici<br />

nonché il ricorso sempre più insistito, in molta spettacolarità<br />

recente, all’immagine pellicolare, gettata sullo schermo, costituiscono<br />

uno stato ormai ‘normalizzato’ dello spazio scenico. Optare<br />

per l’ocularità diffusa, per il neutro e l’indifferenziato dello<br />

sguardo, significa molto spesso dar credito ad un’idea di parete,<br />

sipario, quadro teatrale: uno screen traslucido che moltiplica i<br />

luoghi, funzionante nella duplice valenza della parete divisoria e<br />

della superficie ricettiva. Lo schermo assicura l’impalpabilità e<br />

nello stesso tempo il movimento continuo dell’immagine. Non è<br />

un caso che proprio nello screen il panottico abbia trovato la sua<br />

culminazione. Che cos’era la scena cinetico-visiva del progetto<br />

moderno se non un perfetto congegno di schermi, Schau-Spiel<br />

meccanico, tastiera di immagini in trasformazione?<br />

Ancor prima di McLuhan, Benjamin si era soffermato su due decisive<br />

specificazioni dello sguardo senza distanza, attribuendole<br />

al cinema e all’architettura, due arti destinate alla disattenzione:<br />

il tattico e il tattile. Ed ora cinema ed architettura sono entrati nel<br />

corpo del teatro, ci sono entrati insieme, simultaneamente, costruendo<br />

una sorta di congegno a sequenza, una architettura ci-<br />

528<br />

nematografica programmata elettronicamente. Struttura dell’evanescenza<br />

ma nondimeno avvolgente: là dove il flusso delle<br />

immagini non viene perimetrato dal silenzio delle pause, dove<br />

manca l’intervallo, l’occhio si fa onnivoro, ubiquitario, insinuante.<br />

È lo sguardo benjaminiano del “chirurgo” per il quale il segreto<br />

non ha più ragione di esistere e che penetra all’interno, per operarvi<br />

tatticamente da vicino, estrovertendo in superficie quel che,<br />

in altre visioni è spessore e nascondimento.<br />

Lo screen ha inoltre qualcosa da spartire con la sequenza e lo<br />

scorrimento a scatti dell’immagine, col taglio e la ripresa. Lo<br />

scatto opera una manovra di slittamento nell’indifferenziato. Artificializza<br />

ed accumula riserve di figure. Torna a combinarle. Non<br />

importa dove, purché il gioco del montaggio possa continuare.<br />

Che il mondo si offra come un magazzino di effigi e che il viaggio<br />

attraverso il reale sia puramente illusorio poiché, di fatto, è il<br />

mondo che viaggia, vale a dire il repertorio delle immagini del<br />

mondo, l’iconosfera avvolta su se stessa, e che nulla resti da<br />

esplorare poiché l’esplorazione è già di per sé un effetto di simulazione,<br />

o preda di quell’effetto, è conclusione cui la pittura, su<br />

certi versanti e da tempo, è pervenuta. Rauschenberg, Warhol o<br />

Schifano lo testimoniano e prima di loro la pratica del “trovare”<br />

in sostituzione del cercare, dell’artificiale al posto del naturale.<br />

A questo proposito appare esemplare, in teatro, lo spostamento<br />

Antonin Artaud, Punto di rottura, 1979.


tematico del “Carrozzone” / “Magazzini criminali”. Dalla metafora<br />

del viaggio che lo ha accompagnato al termine (o quasi)<br />

degli anni Settanta, è approdato ad una nuova mitologia, compiendo<br />

quel che è probabilmente un passo strategico nei confronti<br />

dell’esistente: il passo verso (contro) il tutto-pieno delle<br />

immagini, il magazzino, l’arsenale. L’antibiologico quotidiano. Il<br />

che vuol dire anche immmersione nelle tecniche produttive del<br />

deposito, nelle viscere di quel panottico che la modernità ha<br />

ostinatamente inseguito; ed ancora significa confronto con la<br />

geografia assestata alle spalle del teatro tecnologico, la città, il<br />

territorio metropolitano.<br />

Ma, a considerarlo dal di dentro, l’arsenale presenta poi connotazioni<br />

tutt’altro che rassicuranti. Badiamo all’aggettivazione che lo<br />

completa: camaleontico, frantumatorio dissolvente. Il “magazzino<br />

criminale”, a dire il vero, potrebbe esprimere due cose esattamente<br />

opposte, a seconda che l’accento cada piuttosto sull’uno o<br />

sull’altro termine giuntura, sulla criminalità o sulla riserva. Giacché<br />

si pone l’alternativa: o il furto tesaurizza il risultato della propria<br />

azione, oppure al contrario questo magazzino è un falso contenitore,<br />

uno spazio in negativo, dove avvengono dei crimini mortali.<br />

Per trovare una risposta conviene vedere su quale sfondo si collochi<br />

il luogo della recitazione e come la città ne venga implicata.<br />

Dopo le mappe terrestri del primo “Carrozzone”, da quando<br />

si è concluso il cammino attraverso i cicli stagionali e i segreti<br />

degli elementi, ecco sopravvenire al posto dei sentieri un sistema<br />

non meno intricato di itinerari. A diramarsi è questa volta la<br />

selva dell’elettrico, l’antinatura meccanica della metropoli intessuta<br />

di correnti artificiali: una galassia talmente compatta da interdire<br />

ogni movimento vitale. Non è l’officina del corpo, l’infero<br />

sottosuolo, ma il suo limbo, qualcosa di eternamente raffreddato<br />

e neutralizzante. Nell’iper-pieno della città l’occhio non fa<br />

esperienza. Osserva soltanto pellicole fantomatiche che mimano<br />

un falso respiro. È come se annegasse in un oceano di vedute.<br />

Ben altra cosa è la città orientale evocata dai componenti del<br />

gruppo, quella configurazione dell’abitare dove l’esistere fa tutt’uno<br />

con l’esperienza ed il paesaggio si pensa per così dire nello<br />

sguardo che lo osserva, germina con lui, si trasforma. Qui il suo<br />

potere è magico ed ha una forza d’intrattenimento, di intreccio,<br />

che non riguarda più le vedute. Pertiene piuttosto ai miraggi.<br />

Neppure più metropoli, ma “megalopoli”, città dal disegno fem-<br />

529<br />

minile, un nulla e un vuoto in cui le forme vengono dilapidate.<br />

Quanto la prima è caratterizzata dal processo rettilineo di accumulazione,<br />

dal simmetrico riprodursi dei segnali per via di equivalenze,<br />

tanto la seconda viene lacerata dalle pause, dall’intervallarsi<br />

degli istanti. L’una è il territorio della logica, mentre l’altra<br />

ospita costrutti impossibili della retorica: una retorica disaccumulante,<br />

sofisticata, orientale, demonica. “L’inferno della megalopoli<br />

è qui, in Asia, in Africa, città stese come tappeti, bruciate<br />

dal sole, imputridite dalla pioggia (...), nervose come fanciulle,<br />

instabili come adolescenti”.<br />

Tutt’altro che dimenticato è perciò l’asianesimo che costituiva<br />

una delle radici del “Carrozzone”. Meno ieratico, forse meno clamoroso<br />

di un tempo, si iscrive ora nella ritmica dissolvente, nella<br />

operatività ‘nera’ del disgregare e del solvere.<br />

Mario Ceroli, Le tre età, 1982, tecnica mista, cm 260x160.


Quel che importa è tuttavia stabilire delle zone di contatto fra<br />

mitologia ed esistenza, il calare della città-tappeto sulla metropoli.<br />

Non fuori, accanto, in parallelo all’universo tecnologico, ma<br />

dentro, nella geografia epidermica della città europea, per usare<br />

una metafora ricorrente. Quel che il teatro della “criminalità”<br />

sembra cercare è allora la presa, l’addentamento dell’immaginario<br />

sull’inerte e non una fuga, un viaggio lontano dai ghiacci<br />

della tecnica. Nonostante molte dichiarazioni possano indurre a<br />

pensare che il movimento sia di natura nomadica, volta all’accumulo<br />

‘felice’ di spazi biologici, la pratica del teatro nel suo insieme<br />

non prende corpo al di qua, prima, delle barriere del Simbolico.<br />

Invertendo in qualche modo il tragitto positivante del Surrealismo,<br />

teso ad elevare il quotidiano nel meraviglioso ed a<br />

chiudere cerniere di scala ascendente tra il reale e l’immaginario,<br />

qui i ‘vasi comunicanti’, le sovrimpressioni, gli agganci<br />

forti, le morsure non imbiancano per niente la realtà. Il vaso comunicante,<br />

l’interconnessione, fa correre il vuoto, inietta una seconda<br />

morte nel solidificato.<br />

Per quale ragione, altrimenti, i ritmi teatrali assumerebbero una<br />

così forte pronuncia antiorganico-frantumatoria? Che vuol dire in<br />

questi esercizi il delirio di un corpo spinto a guadagnarsi il morire?<br />

Che specie di meraviglioso sprigiona la fatica della marionettizzazione?<br />

Se un concetto come quello di “possibile” compa-<br />

Giuseppe Spagnulo, Tondo, 1982, Ø cm 60x6.<br />

530<br />

re insistentemente nella poetica dei Magazzini Criminali (ed è<br />

concetto invariabilmente associato a meraviglioso e immaginario),<br />

le procedure che poi lo accompagnano spingono verso la rarefazione<br />

e il prosciugamento. Vien da dire allora che i ‘possibili’<br />

siano piuttosto delle rotture, degli scontri indirizzati a liquefare.<br />

Per un certo numero di anni il “Carrozzone” è stato rubricato fra<br />

i teatri della figuratività e dell’immagine, tra i più vicini, ed ancora<br />

lo è in parte, alle arti visive. Architettura, pittura, arte povera<br />

e minimal hanno lasciato tracce consistenti nelle sue tecniche<br />

spettacolari. Questo è vero, con una speciale predilezione per le<br />

configurazioni rituali, esoteriche, mentalizzate dell’immagine.<br />

Quell’emergenza iconica, però, si è data sempre con modalità<br />

essenziali, spesso per via di sottrazione e di stringata allusività.<br />

Anche il procedimento costruttivo a stazioni, per quadri e “studi”<br />

irrelati, aveva compito di serrare dentro le reti degli elementi<br />

scheggiati e dei frantumi; serviva a corrodere l’immobilità delle<br />

figure oltreché a ritagliare, all’interno dell’azione, dei minima figurali:<br />

minimi che lavorano in definitiva contro l’immagine; o<br />

meglio, la liquefano, aprono dei precipizi.<br />

Se, ricorrendo a Deleuze e Guattari, lo scatenamento della visione<br />

viene iscritto in una esperienza che fa “senza l’immmagine”,<br />

cosa che la porterebbe al principio materno, a tutto favore di una<br />

ocularità selvaggia e straripante, di pienezza organica, una conseguenza<br />

potrebbe essere proprio quella, rifiutare il vuoto, l’annientamento<br />

dei liberi flussi immaginifici. Invece lo scheggiamento,<br />

il “punto di rottura”, stanno a testimoniare una volontà<br />

di sperdimento.<br />

Viene perciò da supporre che il nomadismo, al pari dell’asianesimo<br />

in versione “barbara”, non costituisca l’indiscusso e unico<br />

polo di lavoro e sia invece una delle componenti sulle quali<br />

viene giocata un’azione più larga (e sostanzialmente più cifrata),<br />

uno scontro, vogliamo dire, fra immagini che fingono la vita e<br />

immagini (rigorosamente cerimonializzate) che intendono riattivare<br />

la tensione del morire.<br />

È curioso che uno degli spettacoli più recenti, Punto di rottura, sia<br />

stato letto in chiave modernista come un evento di primitivismo<br />

meccanico, di magìa e di trance a vantaggio della produzione costruttiva,<br />

come una “Cerimonia del Movimento e del Rumore”,<br />

quando al contrario - e qualcuno non ha mancato di osservarlo -<br />

ciò che si annuncia è l’agonia del geometrico e l’invivibilità dei


suoni e delle luci. Eppure quel giudizio coglie a suo modo nel<br />

segno poiché indica lo sfondo del conflitto, la vicinanza dei Magazzini<br />

Criminali al mondo della simulazione, e l’installarvisi per<br />

spingerlo alle estreme conseguenze. La cerimonia c’è, ma antagonistica,<br />

ed il teatro indossa per celebrarla le sembianze dell’avversario.<br />

Decide - tatticamente - di assumere la freddezza dell’analitico.<br />

Il teatro deve morire né sa se potrà rinascere. Quel che cerca è<br />

la necessità della fine. In un simile amor fati si sviluppano paradossi<br />

e contraddizioni, quel problematico incastro di mentale e<br />

di vitale di cui parlano le interpretazioni.<br />

Intanto il teatro, “l’arte dell’istante” e della presenza del corpo a<br />

sé, devìa nella parata scenica, diventa scenario, veduta, luogo<br />

‘cinematografico’ e pianoforte di luci. Introietta feticci, macchine<br />

dall’apparenza eterna, moti continui, computer. “Corpo che seduce<br />

se stesso. Patinato lucido immortale, astratto, non logorato,<br />

senza orifizi...”, come la moda. La parodia del corpo glorioso non<br />

potrebbe essere più forte, se non fosse che ciò che si vuole parodiare<br />

in realtà è un finto organismo di gloria, una manifestazione<br />

evanescente di energia, un guscio inerte: il mondo del tuttouguale,<br />

omologato dagli edifici della produzione estetica.<br />

Renzo Schirolli, Componenti per installazione “L’occhio del cielo”, 1983, olio su tela e legno, cm 336x461x223.<br />

531<br />

Artificializzazione poi del corpo. Non che l’attore adotti delle maschere<br />

o si occulti dietro corazze e costumi biomeccanici. Si dà<br />

come immagine piatta, riduce se stesso a figura che scorre, trucco<br />

e pellicola riproducibile. Cosmesi e travestimento, maquillage<br />

che ne doppia altri. Per derubarli, poiché un trucco più forte dà<br />

modo di incidere la normalità del simulacro, lo fissa nella sua più<br />

reale attitudine che è quella di essere una spoglia. Tutto viene in<br />

certo modo inchiodato alla propria superficie e sfidato ad esibire<br />

i sortilegi di cui è capace.<br />

Se il “mondo vero è diventato favola”, non resta che accogliere<br />

la favola, la maschera, il riflesso come il campo dei possibili rapporti<br />

intensivi. Sarà anzi da vedere, fra tante favole, quale o quali<br />

abbiano un più alto grado di trascinamento e sappiano forgiare<br />

la menzogna più forte; quali in definitiva custodiscano la tecnica<br />

del segreto, l’ars della tentazione, capace di affatturare, condurre<br />

a sé e stregare l’avversario, dentro il niente della propria macchinazione<br />

maliosa: in un vuoto che contagia. Segreto come arte<br />

del mettere in abisso, del dissolvere la proprietà (il dominio)<br />

delle figure, sventando il trabocchetto d’una presuntuosa perfezione<br />

nel quale ogni imago, arrestandosi, rischia di inciampare.<br />

Quest’artificiale non fa questione di inautentico o meno, colloca-


to com’è oltre l’insincerità delle storie “che erano vere un<br />

tempo”. Se di questo si trattasse, rispunterebbe fuori un nascosto<br />

che aspetta d’essere conosciuto o sarebbe in causa un suo ritorno<br />

in qualche veste nuova; o anche una speciale verità della finzione<br />

che direbbe l’essenza del falso. Siamo oltre tutto ciò. È il<br />

macchinare del falso assoluto, dell’innaturale dell’arte, la magia<br />

del miraggio, quell’istinto che, leggiamo nel Crepuscolo degli<br />

Idoli, “comprende in sé anche il piacere dell’annientamento”.<br />

Dire che non v’è più posto per l’illusione “perché il reale non è<br />

più possibile”, adottare la diagnosi di Baudrillard almeno su questo<br />

punto, significa cercare scampo nelle forze, dar fiato alla catena<br />

delle sperdizioni, e fare della presenza attoriale un detonatore<br />

di svuotamenti. Anche in lui stesso, poiché la ‘guerra’ è rivolta<br />

fuori e dentro, contro le accumulazioni del corpo proprio, le<br />

crescite del biologico e dell’erotico. L’artificio si iscrive così nell’ordine<br />

sacrificale della Natura, nella messa a nudo e nella of-<br />

532<br />

ferta (dissociativa) di frammenti, come avviene in Punto di rottura,<br />

immagini registrate - scatti e dissolvenze, tics fisionomici -<br />

vengono ridate per videotape; e ancor più in Crollo nervoso, con<br />

l’impaginazione astrattizzante, ocularizzata, bidimensionale,<br />

combinatoria. Un massimo di visualità per assassinarla.<br />

È una poetica che mentre inclina al Schau-spiel, alla festa dell’occhio,<br />

recita anche il funzionamento corrosivo, macerante dell’intrattenimento.<br />

L’attore governa le regole della sparizione e ne<br />

è a sua volta governato: ombra contro ombra, maschera contro<br />

maschera, finzione contro finzione. E nell’esistere come tale, non<br />

dietro ma in una maschera, dimostra la sua attitudine obliqua al<br />

tradimento. Bada, il ladro, soprattutto. Ed ancora: thanatos, quella<br />

pulsione di annientamento che s’annida nel ciclo biologico e<br />

costituisce l’antefatto (e l’antagonista irriducibile) del principio di<br />

verticalità. L’agguato dell’inorganico, secondo quanto suggerisce<br />

l’ultimo Freud.<br />

Luigi Ontani, Davide e Golia, 1980, tempera su carta, cm 190x90. Luigi Ontani, Maschera Galimese, 1982, legno e lacca.


Luciano <strong>Bartoli</strong>ni, Mantegna a Berlino, 1983, tempera e<br />

olio su carta, cm 200x150.<br />

Ci si chiedeva poco fa in quale regione questo teatro avesse scelto di operare.<br />

Una metropoli liquefatta dalla retorica asiana. Più precisamente, per stare ai termini<br />

della sua teoresi, le zone (e i tempi) di passaggio, gli intermondi dove le forme<br />

sono ‘ibridi’, né notte né giorno, né altezze né profondità: lo spazio dove il fare è<br />

contemporaneamente disfare, soprattutto disfare.<br />

Val la pena di soffermarsi sulla mitologia del luogo inter, tra, del mezzo e nel mezzo,<br />

che mette in situazione l’evento teatrale. Per un verso ciò che lo qualifica è la violenza<br />

delle traiettorie, l’incrociarsi disfrenato di rapine, per un altro quest’irruenza che si<br />

dichiara selvaggia è tutta filtrata da una matematica interna, ipertecnicizzata e siderale.<br />

Mentre si dà come deserto e steppa, nel medesimo tempo è come un impianto<br />

elettronico. Un’astronave.<br />

Occupa l’indifferenziato ed il ‘neutro’. Ed ancora: territorio di pestilenze, putrefazioni,<br />

contagi, quasi che l’inizio e la fine della storia vi si trovassero confusi.<br />

Annotiamo la bivalenza messa in campo: pulsione e techne, convulsività ed ars, primitivismo<br />

e regola. Forse nemmeno un fatto di polarità, ma un’endiadi, un’inferenza<br />

di antitesi. Ancora una volta, come dire? una iter-polarità, quale sarebbe una violenza<br />

ritualizzata o un ‘segreto’, una ‘misura’ mortale.<br />

Se interroghiamo ora la tematizzazione più stretta del luogo scenico, l’intermondo si<br />

articola in una zona pneumatica, l’empty room, “la stanza vuota”, che rappresenta<br />

l’esito di una progettazione analitica in piena regola. Ha alle spalle perfino l’ascesi<br />

533


laica (la fredda hybris del costruttivismo) che alimentava l’arte<br />

totale degli anni Venti, compresa l’idea di una grammatica degli<br />

elementi primi e il rinvenimento delle figure fondanti il sistema<br />

scenico. Il concetto di opera come organismo e struttura. “Ogni<br />

singolo ‘spettacolo’ è una parola in cui la lingua è teatro. Ora<br />

siamo più interessati alla lingua che alla parola. Vorremmo procedere<br />

in un lavoro in cui lo spettacolo-parola scompare per lasciar<br />

posto all’analisi della sua lingua-teatro”. La conoscenza<br />

dello spazio, la misurazione dei rapporti d’ambiente, lo studio del<br />

‘campo’ hanno contribuito a dare al teatro la tagliente fisionomia<br />

del nudo congegno, uno scheletro minimal. Eppure la machine<br />

à spectacle non è vuota per questo, anche perché la levigatezza<br />

disossata del minimal, del primario ottico, è rimontata su ritmi<br />

Renzo Schirolli, Quadrombo III, 1983, olio su tela, cm 180x180.<br />

534<br />

sghembi, ipnotici, ossessivi. Né è vuota soltanto perché, a rigore,<br />

almeno ad un certo momento, nelle installazioni e nelle performance,<br />

la scena (nel senso alto del termine) si è allontanata,<br />

sopraffatta dall’esterno, dall’irruzione di immagini urbane. Lo è<br />

specialmente perché l’empty room smaglia la tessitura dell’azione,<br />

precipitando il racconto visivo nella parodia d’una spettacolarità<br />

di cui vengono intaccate perfette giunture modulari, come<br />

stanno a dimostrare, per esempio, gli esercizi di disturbo della<br />

specularità e dei procedimenti binari di crescita, di coppia, di<br />

falsa somiglianza, aggrediti alla sorgente, nella logica combinatoria<br />

del computer: aggressione che si configura come uno svuotamento<br />

della ripetizione accrescitiva, dell’uno-due elettronico,<br />

ricondotto invece all’uno-zero da una controripetizione dissocia-


tiva, di timbro alcoolico, che non produce transitività, ma all’opposto<br />

rende cieche le simmetrie.<br />

“Stanza vuota” fa il paio con “magazzino criminale”, definizioni<br />

entrambe dello spazio in cui l’aggettivo è più importante del sostantivo,<br />

poiché è l’aggettivo che si incarica - nel dibattito teorico<br />

- di esporre la natura dell’intervento.<br />

E se in altre dichiarazioni il perimetro del contenitore viene particolarmente<br />

sottolineato, questo ‘chiuso’ non sta certo ad indicare<br />

dei procedimenti di conservazione quanto il chiudersi, il serrarsi<br />

della volontà operatoria dell’attore, la sua magìa (“Il mistero<br />

della stanza chiusa”), analogamente a quel che avviene nel<br />

chiuso di un ‘esperimento’ delimitato, nello spazio contratto di<br />

un miraggio, sulla tastiera circoscritta - chiusa - di pochi suoni.<br />

Ora, proprio la stanza vuota, con le sue calcolate possibilità d’uso,<br />

con le sequenze esatte affidate ai monitor, questo luogo che ha<br />

un ex-machina ancor più imperioso, accoglie il corpo, anch’esso<br />

spinto a lavorare per figure, a partire da principi elementari, a<br />

patire-reagire al principio costruttivo. L’attore perde il corpo nel<br />

continuum ottico e si rilancia in una bidimensionalità scheggiata,<br />

distruttiva per sé e infine per la stessa immagine. Mentre assiste<br />

in certo modo allo svanire della propria presenza, mentre<br />

interpella e convoca il vuoto, getta tutt’attorno l’incantesimo<br />

dello zero. Monta dei drammi che sono ingloriosi per le effigi.<br />

Quando si afferma che il “risultato è il melodramma quasi liturgico<br />

di una società di massa”, veniamo a sapere che stiamo assistendo<br />

ad un quasi-sacro, ad una parvenza dimidiata di sacralità,<br />

anzi alla melodrammaticità di un quasi-sacro. A nessun’altra<br />

liturgia lo spettacolo fa accedere se non a quella debole di un<br />

dramma fittizio, di un evento simulato.<br />

Un morto che sopravvive per spinta d’inerzia. Un quasi che sta<br />

dalla parte delle sembianze inerti e irrigidite.<br />

Tutt’altra cosa dal melodramma è l’esercizio spettrale della cancellazione,<br />

il restituire una peripezia nelle figure del riso e del<br />

lapsus. L’attore sta nel melodramma per disperderne la finta, risibile<br />

ritualità, ma dalla sua parte c’è qualcosa che al piacere<br />

melodrammatico risulta insopportabile ed è il rischio della morte<br />

reale, il pericolo del black-out definitivo. Deve attraversare il melodramma,<br />

condurlo a sé, sedurlo, rendere improduttiva la sua<br />

circolazione.<br />

Spettacolo dunque arrestato, avente come posta la “morte ne-<br />

535<br />

Eliseo Mattiacci, Predisporsi ad un capolavoro cosmico-astronomico, 1981-’82.<br />

Luigi Mainolfi, Le basi del cielo, 1982, installazione, terracotta.<br />

Mario Nanni, Solidificazione, 1982, gesso e scaiola, cm 100x100x140.


Gianfranco Notargiacomo, 1945, 1982, smalto, acrilico, lamiera su tela, cm 150x200.<br />

gata”, la fine dello spettacolo, il risucchiamento delle superfici. Il<br />

vero ‘intermondo’ dell’attore, costretto a giocare il ruolo della<br />

scimmia nel mondo della simulazione, non starebbe dunque sul<br />

versante dei non-nati.<br />

Deve innanzitutto vivere il morire. La recitazione riguarda l’altra<br />

parte, il dopo la creazione, l’entropia ridotta al punto zero. Il<br />

coma del pieno.<br />

Naufragio energico, accelerato e soprattutto padroneggiato. Arte<br />

del vuoto. Per questo si può parlare di rito del morire e di messa<br />

a morte. Se mancano i simboli della scienza sacra che il melodramma<br />

tiene a distanza, è ben attivo però il funzionamento<br />

della macchina di sparizione, la partitura del liquefare.<br />

536<br />

Congegno di vibrazioni, per di più ubiquitario, atmosferico, ambientale.<br />

Circostanza, questa, non da poco, relativa al teatro “totale”<br />

dell’immagine e non a caso presente in altre teorizzazioni<br />

della spettacolarità astratta, per esempio in Bob Wilson; ed in<br />

genere invocata laddove la componente cinetico-visiva assume<br />

un ruolo centrale. O sia evocata sullo sfondo.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “L’occhio del cielo”, Casa del Mantegna,<br />

Mantova, 19 giugno-17 luglio 1983.


Sulla soglia delle figure<br />

Sonia Costantini (1)<br />

Dapprima c’è il campo, la mappa; un perimetro entro il quale provocare<br />

l’interrogazione. Può essere una zona quadrettata, il foglio<br />

d’un taccuino ed anche una tavola dipinta, ma quel che importa<br />

è soprattutto la morbidità e l’arrendevolezza del supporto, il suo<br />

cedere e saper trasalire ai minimi tocchi ed agli eccitamenti cromatici,<br />

a pieghe e strofinature, come fa il pelo dell’acqua che s’increspa<br />

al passare del vento. Lavorando di punta o di veloci pressioni<br />

il pennello misura la superficie con leggerezza, vi lascia dei<br />

segni e sgomitola dei soffi.<br />

Tra la mano, le carte e i colori si intreccia un dialogo intermittente,<br />

talora si accenna ad un racconto o ad uno smarginamento figurale.<br />

Se la materia è fluida, trasparente, velata, anche l’andirivieni dello<br />

sguardo ha il peso di un alito. Così Sonia Costantini scopre la complementarietà<br />

del liquido e dell’aereo, riuscendo a portare il respiro<br />

nei mondi dell’umido. Una maniera di dipingere, la sua, tutta volta<br />

a cercare miraggi dentro le spume e a strappare fantasmi dallo specchio<br />

solo in apparenza cristallino dell’immaginazione.<br />

Pozzo e stagno, polla d’acqua. Evidentemente anche il pozzo<br />

della memoria. Ogni cosa vi si macera e scioglie poiché l’esperienza<br />

non è altro che il fluire continuo dei pensieri ed il pensiero<br />

interpella le proprie sorgenti, l’archivio delle immagini ed ancora<br />

più le origini che le determinano, il ‘seme’ delle figure. Anzi, proprio<br />

il passaggio dall’immagine già costituita (e preservata) alla<br />

S. Costantini, Senza titolo, 1982, colori in polvere e collage su cartone, cm 24x30.<br />

537<br />

motilità del germinare, l’interesse via via più acuto per la genesi,<br />

costituiscono il dato innovatore degli ultimi lavori. Un tema che già<br />

s’intuiva nelle trame di fili, nelle barre e legamenti dei fogli<br />

dell’82, nelle carte dove affiorava il desiderio di toccare il fondo<br />

e quasi di accecarsi sotto i minimi visibili. Appena qualche mese<br />

fa profili e contorni si incaricavano di assicurare il destino delle figure.<br />

Bastava un frammento d’aquilone, una parete di casa, o un<br />

filo d’argento per segnalare che un’immagine continuava a vivere<br />

intatta e poteva anche salvare lo sguardo. Ed erano presenze quasi<br />

sempre felici, nonostante refoli e brandelli, estratte dal magazzino<br />

del sogno e dei giochi, provenienti dall’infanzia delle cose, come<br />

il cavallo o la marionetta delle fiabe.<br />

Senonché, ad agitarla, la superficie dello stagno s’intorbida ed innesca<br />

un’avventura di cancellazione. Corrode le cose possedute.<br />

Col tragitto di discesa, scompaiono le certezze del disegno e<br />

viene meno il potere di ritagliare l’oggetto, di dargli un volto e un<br />

nome. Restano soltanto degli eventi di gestazione, un pullulare di<br />

sostanze possibili. Non la figura ma la sua virtualità.<br />

Ciò che vive prima dell’immagine ed anticipa il visibile, dunque<br />

il colore con la sua energia espansiva e cangiante, diventa l’universo<br />

da sondare, il non-nato da opporre alla fissità dell’esistente.<br />

È perciò accaduto che lo sguardo, dopo aver percorso gli spartiti<br />

della memoria ed aver attraversato tante stanze e momenti di veglia,<br />

abbia oltrepassato la soglia di casa, per affacciarsi al buio in<br />

cui si preparano i nomi e i segni.<br />

Che si tratti di uno stato aurorale piuttosto che di pura informalità<br />

lo dimostra la storia delle immagini. Tant’è che non è la materia<br />

in sé e per sé, ma la grammatica del fare (la fattura e la pratica<br />

del dipingere) a subire i processi fusionali delle colle e delle<br />

muffe, a bagnarsi, imputridire e rinascere a forza di macerazione.<br />

Da questa matrice e non da altro vengono fuori le nuove presenze.<br />

Sono le carte, i fili, gli strappi, i colori i veri ingranaggi del racconto.<br />

Da lì si sprigionano gli incanti della finzione, magari degli ingorghi<br />

e dei vortici, le pirotecnìe del fluido. Sicché non sorprende che<br />

l’ambivalenza torni a circolare in questo mondo subacqueo dove<br />

esplodono fulmini e si aggirano code di comete. Vale a dire talismani<br />

e geroglifici celesti.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Sonia Costantini”, Libreria Galleria<br />

“Einaudi”, Mantova, giugno 1983.


Fotografare come un gotico<br />

Christian Schad (1)<br />

Schadografie, ossia disegni e scritture di Schad. Così Tristan Tzara<br />

ebbe a chiamare con efficace neologismo le composizioni fotografiche<br />

che il dadaista Christian Schad aveva realizzato nel 1918<br />

a Zurigo, in pieno Cabaret Voltaire, deponendo sulla carta emulsionata<br />

pezzi di giornale, oggetti e ritagli di vario genere sui<br />

quali faceva cadere la luce. Se il procedimento non era nuovo, fu<br />

nuova però e inconfondibile la qualità dei risultati. Innanzitutto il<br />

pittore tedesco rigettava ogni intento formalizzante e analitico<br />

del fotogramma; ed insieme all’oggettività dell’analisi, qualsiasi<br />

parentela con i media tecnologici e il linguaggio della scienza. Il<br />

sapere della luce gli appariva estraneo a tutti i marchingegni,<br />

diorama e camere ottiche escogitate in epoca moderna, un’età<br />

che il suo sguardo di visionario considerava con orrore. Schad ve-<br />

C. Schad, Senza titolo, 1962, tecnica mista.<br />

538<br />

niva infatti da una generazione di apocalittici e sognava la “redenzione<br />

verso le stelle” dopo il calvario sulla terra. Non per<br />

nulla il tramite che lo portò al Dada zurighese, dentro l’orbita<br />

mistica di Hugo Ball, fu l’utopia astrale della rivista “Sirius” diretta<br />

dall’amico W. Serner.<br />

Per lui, come per gli espressionisti dai quali discendeva, solo la<br />

civiltà gotica e la Rinascenza ermetica avevano conosciuta l’autentica<br />

magia della luce. Lo incantavano Baldung, Grien, Cranach,<br />

Grünewald, gli xilografi medievali, Carpaccio, Leonardo.<br />

Sicché era inevitabile che, date simile premesse, la fotografia più<br />

che dar vita ad un nuovo linguaggio, subisse l’imperativo di un<br />

occhio prepotentemente inattuale che l’assimilava ad una pratica<br />

incisoria aspra, fatta di luci intermittenti e di blocchi d’ombre,<br />

durissima nell’esecuzione. Se lo sperimentalismo risulta innegabile<br />

nell’audace mescolamento del collage con la tecnica del<br />

contatto, ciò nonostante quel che resiste sul fondo ha ben poco<br />

da spartire con l’avanguardismo modernista ed è la temperatura<br />

contrastata della visione, l’urto di luci ed ombre, l’impianto in<br />

certo modo xilografico delle figure. E per quanto pronunciato sia<br />

l’astrazione, sprigiona sempre dei drammi di figure in cui emergono<br />

talora degli annunci narrativi, cenni di quel racconto di miti<br />

e visioni che avrà poi modo di distendersi liberamente negli ultimi<br />

anni.<br />

Il fatto è che astrarre nel caso di Schad, voleva dire purificare,<br />

puntare più all’essenziale, cogliere ‘l’intimo’ delle cose un po’<br />

come facevano Schwitters e Arp riattivando materiali di scarto o<br />

interpellando animisticamente i corpi naturali. Tant’è vero che lo<br />

scavo realistico, di un realismo singolarmente allucinato e tipicamente<br />

tedesco, espressivo e fisiognomico, costituiva il termine<br />

costante di partenza e ritorno per l’artista, secondo una prospettiva<br />

che lo spingeva soprattutto ad indagare la figura dell’uomo,<br />

quella presenza terrestre che la memoria nordica dei misteri<br />

medioevali tornava a proporre all’inizio del secolo; specialmente<br />

il volto dell’esule e del perseguitato, còlto in molteplici autoritratti<br />

ed immagini di ribelli, martirizzati e protetti. Ma soltanto<br />

in loro.<br />

Contemporaneamente agli svolgimenti sublimi del tema, troviamo<br />

infatti il quadro della devastazione quotidiana, dei cabaret,<br />

postriboli e “calvari notturni” in cui si riaffaccia la peripezia della<br />

caduta, accompagnata dalle tentazioni del santo e dagli spetta-


C. Schad, Senza titolo, 1976, tecnica mista.<br />

coli enigmatici del desiderio. Si capisce allora perché Schad aderisse,<br />

a metà del Venti, alle ragioni morali (e non politiche) della<br />

Nuova Oggettività e perché tornasse a incidere su metallo e su<br />

legno per decifrare il demoniaco della metropoli. Quando tornerà<br />

alla fotografia un quarantennio più tardi, lo farà per una sorta<br />

di riconversione nostalgica, ormai molto intenerita, alle mitologie<br />

del Dieci (il suo decennio “selvaggio”), mettendo in scena<br />

come su un piccolo palcoscenico di carta i fantasmi della giovinezza:<br />

trine e dischi magici, coboldi, l’immagine dell’Eletta e gli<br />

Sputi di strega, la grande maschera e l’ombra del nuovo evo, infine<br />

il seme di Dada, Dadanux, con i suoi numi tutelari e i prismi<br />

dell’illusione; una recita a mezza voce, sussurrata e tuttavia sorvegliatissima.<br />

539<br />

Quest’Hommage à Dada è ora al centro di una mostra grafica ordinata<br />

dal Goethe Institut ed ospitata presso la galleria “La Torre”<br />

per iniziativa dell’Istituto Mantovano di Cultura germanica: 29<br />

pezzi in tutto, ma splendidi. Una campionatura suggestiva delle<br />

varie fasi dell’autore, compresi alcuni fogli della collaborazione a<br />

“Sirius”, una schedografia delle origini e quattro lito del 1928-29.<br />

. (1) Scritto in occasione della mostra tenutasi presso la Galleria d’Arte<br />

“La Torre”, Mantova, 15 settembre 1983.


Risanare l’ombra<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Indubbiamente queste carte hanno a che fare con l’ombra. Testimoniano<br />

di un testa-a-testa con lei. Stanno con l’ombra e al<br />

tempo stesso la interrogano, l’inquietano, la mettono in dubbio,<br />

la fanno lavorare e infine la vincono.<br />

Ma che cos’è l’ombra per Schirolli tra ’57 e ’59?<br />

Innanzitutto non è un’idea, un simbolo. E neppure un fantasma,<br />

un oltre, una sostanza eterea. Tutto al contrario: è una presenza<br />

immediata e palpabile, una realtà senza orizzonte che lo sguardo<br />

incontra alla minima distanza, come il frammento di un muro,<br />

una macchia, uno strato di polvere; e dunque un oggetto non<br />

tanto o soltanto osservato, per di più con attenzione microscopi-<br />

R. Schirolli, Notizie sotto le due torri, 1958, tecnica mista, cm 70x50.<br />

540<br />

ca, quanto soppesato, toccato, tastato. Ma a questa determinazione<br />

abbastanza prevedibile dopo un Burri o un Fautrier, se ne<br />

aggiunge un’altra decisiva e meno ovvia: ed è che il mondo diventa<br />

ombra quando la materia precipita al nero. Nero per il pestaggio<br />

delle figure, l’ imputridirsi dei confini, il macerarsi delle<br />

forme concluse. Nero da forgia fino alle ultime fibre del colore.<br />

E poiché è un nero “fulminato”, non mancano bagliori e incandescenze.<br />

Il fuoco ferve quasi silenziosamente. Manda oscuri<br />

cromatismi e folate di cenere: una lucentezza capovolta e intermittente<br />

che si conserva nel buio.<br />

Quando, sulle tele di quegli anni, si osservano paste accartocciate<br />

o colanti mentre intessono una ragnatela di grumi in un misto<br />

di scorie, vien da pensare all’energia occulta del carbone, come<br />

se si trattasse di conservare delle potenze e portarle a concen-<br />

R. Schirolli, Opera n. 2, 1956, tempera su tela, cm 80x65.


trazione. Cosa ben evidente nei polimaterici del ’58, dove la<br />

mano ha depositato tutta una variegata famiglia di frantumi e di<br />

superfici ossificate; dove ha incollato, stirato, schiacciato e sovrapposto<br />

tanto intimamente le materie che queste si compenetrano<br />

l’una nell’altra mettendo in piedi una sorta di buio retroscena<br />

e voragine, qualcosa di simile ad un mondo cavo in cui le cose<br />

addensate mutano natura. Una trasformazione è in atto ed ecco<br />

quel che avviene. Per quanto graffiata e ferita, ogni parte del<br />

quadro acquista leggerezza e sembra alitare. Ed è proprio la ferita,<br />

quel modo particolare di incidere i corpi, che da un lato li sfigura<br />

e dall’altro sottilizza la regione sotterranea. La materiaombra<br />

diventa velario, trina, panneggiamento dell’ottenebrato.<br />

Può ben parlare Schirolli, intitolando qualche opera di allora, di<br />

muri ciechi e di zone opache. Tanto la tenebra non è mai totale.<br />

541<br />

O meglio, ne può parlare perché l’opacità è l’antagonista da inseguire<br />

e pestare: un avversario ambivalente che ha in serbo dei<br />

tesori e, messo alla tortura, sprigiona dei lampi. Più di una volta<br />

la tela mette in mostra la doppiezza dell’ombra giocando sulla<br />

natura contrastante dell’elemento materico, sull’alternanza di un<br />

volto raffinato e di uno sordo e pesante, col risultato che quest’ultimo<br />

viene costretto in certo modo alle corde ed infine coopera<br />

alla costruzione di spazi misurati disegnando simmetrie e<br />

rapporti di equilibrio.<br />

Naturalmente un simile addomesticamento non avviene per<br />

caso. Se la materia è selvatica, la pittura rappresenta proprio<br />

l’esperienza di passaggio attraverso la quale un dato impulsivo<br />

viene filtrato e composto. Come ogni processo di metamorfosi,<br />

si avvale anch’essa di speciali procedure riequilibranti, una delle<br />

R. Schirolli, T.C. 57, 1957, tempera e china su carta, cm 49x36,5. R. Schirolli, Notizie sotto le due torri, 1958, tecnica mista, cm 70x50.


quali consiste, per esempio, nel dare all’ombra una o più linee<br />

d’orizzonte, stirandola frontalmente sugli incrociamenti delle verticali<br />

e delle orizzontali; un’altra nell’addensarla dentro perimetri<br />

circolari, crateri e avvallamenti. In ogni modo la pittura interviene<br />

col sapere che le viene dalla più pura tradizione neoplastica,<br />

facendo leva sull’ordine assiale e sulla costolatura centrale del dipinto.<br />

E lo fa senza mezzi termini, non solo imponendo questa<br />

compostezza per via di sciabolate e incisioni ma ricorrendo<br />

anche all’incinerimento estremo del fuoco.<br />

Se prendiamo ora le carte, dove il disegno interviene in modo<br />

consistente ma raramente da solo, visto che il procedimento si<br />

arricchisce di altre tecniche oltreché di mistioni con le ocre, coi<br />

gialli e i bruni di tempera, incontriamo un’attitudine parallela a<br />

quella degli oli. Salvo che occorre registrare un salto rispetto alle<br />

tele: uno scarto che non è semplicemente dovuto ad un cambiamento<br />

di genere, ma a qualcosa di qualitativamente diverso<br />

che avrà poi effetti risolutivi anche sulla pittura. Si tratta, come<br />

dire?, di un cambio di rito che dall’incenerimento passa alla via<br />

umida, alla purificazione per acqua.<br />

Forse per virtù di un caso (Schirolli ricorda l’accidentale caduta di<br />

un foglio dentro un secchio) o per effetto di una sollecitazione<br />

provocata dai lavori all’acquaforte, con le loro morsure lenticolari<br />

e smorzate, l’erosione cambia statuto. Accoglie il liquido. L’impuro,<br />

il pesante, l’informe vengono iniziati ad altro mediante una<br />

immersione violenta, una vera e propria docciatura.<br />

Progressivamente le superfici avanzano verso il chiaro, senza<br />

che l’imbianchimento comporti di per sé la fine dello scontro,<br />

poiché il bianco può essere tante cose contemporaneamente,<br />

ma mai una chiarezza venuta dal di fuori, una entità priva di legami<br />

e tantomeno una luce dipinta. Non vi sarebbero altrimenti<br />

tanti bordi smagliati, tante ferite e slogamenti. Il fatto è che la<br />

bianchezza assume un andamento tagliente, segmentato. La<br />

corrente umida, scorrendo sulla materia, la sottilizza sottraendola<br />

alla sua stessa bêtise. Un’acqua beninteso bruciante, abrasiva,<br />

agitata, che ora squarcia e mette a nudo ed ora cade come un<br />

velo sui segni d’inchiostro.<br />

Sul foglio (stavo per dire in questa sorgente e pozzo) si vedono<br />

subito gli effetti del combattimento, così da far pensare che nel<br />

cuore d’ogni carta deve esserci stata un’esplosione, come un<br />

moto cieco di sparpagliamento dell’ombra. Tutto insomma sem-<br />

542<br />

bra incominciare da un fondo e da un centro che liberano il materico<br />

per irradiazione e quasi lo polverizzano. Ma contemporaneamente<br />

si fa in modo che l’irruzione dell’oscuro si consumi<br />

dentro un territorio-graticola, già grigliato in precedenza dalla<br />

tempera, preparato a riceverne l’inseminazione e in grado di riqualificarla.<br />

Mentre l’imprimitura funziona normalmente da sostegno<br />

per l’immagine, qui la preparazione del fondo è destinata<br />

a scollarsi nel bagno successivo. Anticipa la sottrazione occupando<br />

alcuni luoghi-chiave che serviranno a cifrare l’avversario<br />

prima che l’intensivo si scateni con conseguenze irreversibili.<br />

Come non parlare allora di una trappola guaritrice? Di una macchinazione<br />

pittorica predisposta, analogamente a quel che avviene<br />

nelle dissociazioni ritualizzate, ad accogliere una forza minacciosa<br />

e a canalizzarla?<br />

Quando l’acqua, per spruzzatura o immersione, inonderà l’interno<br />

del campo e metterà in luce l’esorcismo sotteso allo scuro,<br />

quel tatuaggio potrà agire in senso armonizzante. Affioreranno<br />

costole e spiragli, fessure e trasparenze, vale a dire le tessiture<br />

al bianco dell’ombra, le trame di un disegno che hanno scavato<br />

mappe luminose dentro e sotto l’evidenza fisica del buio.<br />

Una cancellazione? È vero piuttosto che - ancora una volta - si è<br />

preservato il rivale dalla dispersione. Lo si è agganciato per ritmarlo<br />

con finalità costruttive.<br />

Ad un certo momento (quando la cerimonia avrà assunto cadenze<br />

meno aspre e la mano busserà lievemente, più che battere,<br />

alle porte dell’ombra), la durezza del combattimento farà<br />

pronunciare parole d’odio nei confronti dell’antagonista, o meglio<br />

di quella parte che non si è lasciata ridurre: un odio vero e necessario.<br />

Il pittore le pronuncerà in nome dell’immagine mentre<br />

sta percorrendo stazioni di risalita. Eppure l’immagine nasce<br />

dalle riserve generative della materia e compare fra i battenti<br />

dell’ombra finalmente schiusa.<br />

Si guardi il foglio. L’ombra continua a girare e a lasciare impronte.<br />

Non copre più né acceca. Si muove sulle punte, di taglio e per<br />

tracce. È l’ombra lavata, preludio delle figure.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli negli anni Cinquanta”,<br />

tenutasi presso la Libreria Galleria “Einaudi”, Mantova, ottobre<br />

1983.


Cere come stanze mentali<br />

Giovanni d’Agostino (1)<br />

Che per vedere intensamente occorra prima diventare ciechi,<br />

d’Agostino lo avverte fin dall’inizio, già alle soglie del Settanta,<br />

quando comincia a sottoporre lo sguardo ad una lunga serie di<br />

esercizi di cancellazione: esercizi ‘pesanti’ che, mentre producono<br />

(ed anzi proprio nel produrre) immagini dure e lavorate come<br />

oggetti, al tempo stesso sottraggono carne alle figure. Di queste<br />

non rimangono intatti che i bordi, i confini, le zone pellicolari, di<br />

modo che l’occhio finisce con lo sbattere contro superfici impermeabili:<br />

bianche, cieche e fantasmatiche.<br />

È una battaglia, direi, contro il corpo delle cose, combattuta dentro<br />

gli spessori del reale. Par quasi che egli voglia assumere una<br />

presenza col proposito di annientarla introducendovi dei cortocircuiti<br />

di vuoto, contraddicendola e spaesandola.<br />

Per di più lavora su figure elementari, anche idee di figure, che<br />

si riferiscono o appartengono all’universo naturale: paglie, sassi,<br />

erbe e tronchi raccolti e imballati. Ingabbiati e molto spesso verniciati<br />

di bianco.<br />

Dunque i segni, al pari dell’occhio che li osserva, vengono legati<br />

in catene e dislocati. Ma come? In che senso va la costrizione?<br />

G. d’Agostino, Trasparenze e spessori, 1983, legno, panno e cera, cm 177x177.<br />

543<br />

Potrei dire che se da un lato v’è l’accumulo delle cose, un darle<br />

in tutta la loro pesantezza, sottolineandone perfino il radicamento<br />

al suolo mediante blocchi serrati, dall’altro quelle medesime<br />

cose vengono disposte lungo percorsi tendenzialmente<br />

verticalizzanti ed aerei.<br />

Dapprima hai l’impatto con la gravità, con un terrestre imbiancato<br />

e circoscritto, poi quel terrestre lo vedi inerpicarsi per gradi<br />

e costruire muraglie, colonne che si perdono nell’aria; o accenni<br />

di ziggurat.<br />

Il minerale insieme al legno, all’organico. Ma questo organico appare<br />

decapitato e defigurato, un fossile di organico, un totem, un<br />

tronco d’albero. E subito dopo eccolo, mummia o dormiente che<br />

sia, tentare una avventura di leggerezza, spinto com’è a negarsi<br />

nel volatile e nel luminoso.<br />

In questa prima fase, comunque si svolga il tragitto dell’opera,<br />

quel che appare costante è la partitura conflittuale del lavoro,<br />

poiché una energia di contrasto, una minaccia (o promessa) di<br />

incandescenza sovrasta la fissità delle effigi. Nell’allineare, ad<br />

esempio una fila di tronchi, l’artista cala su ciascuno di essi dei<br />

fasci di luce elettrica con l’intento di produrre un urto dentro<br />

l’immobile. E di folgorarlo.<br />

Se poi erige, come fa nel ’72, una stele di ceppi sovrapposti la<br />

forza cui ricorre è ancor più dissolvente, poiché immagina di tuffarne<br />

la cima nella profondità vertiginosa del cielo aperto. La<br />

chiama palafitta per la città nuova, che è titolo già di per sé stracarico<br />

di significati, latore di un’utopia di redenzione quando lo<br />

si pensi riferito a Venezia, città per antonomasia delle acque<br />

morte, del declino e dell’impaludamento.<br />

D’Agostino conosce bene la mitologia del moderno, l’ibris costruttiva<br />

della tecnica, il progetto estetico dell’avanguardia. Lo afferra<br />

e lo irrealizza sospendendolo nell’impossibile: un’utopia si<br />

badi bene, cifrata nella tessitura ermetica di un numero, il tre,<br />

che la sposta sul versante della segretezza e del silenzio.<br />

Anche altrove lo vediamo riattivare il volto interno delle cose,<br />

accedere, chiudendo le palpebre, ad una vita più ‘vera’ che per<br />

lui è plasticità inesausta e trasformazione, pneuma. Mi spiego allora<br />

l’insisistenza sulle procedure dello sciogliere, dello spezzare,<br />

del mettere a fuoco. E capisco l’attrazione esercitata da Rimbaud,<br />

Klein, Rotko, il primo Artaud, quello di "Paolo degli Uccelli", l’accecamento<br />

dello sguardo, il rifiuto dello spettacolare e il disgu-

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