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Relativismo epistemologico e persona umana - Edizioni Studium

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496 Marco Buzzoni<br />

tivo né in quello della più generale convivenza <strong>umana</strong>, senza il riconoscimento<br />

d’un unico mondo reale nel quale, sia pure dal proprio<br />

punto di vista e muovendo dalla propria particolare situazione,<br />

ogni <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> deve cercare d’inserirsi, conoscitivamente<br />

e praticamente.<br />

D’altro canto vale anche il viceversa: lo sforzo di porre in rilievo<br />

la realtà naturale come entità indipendente dai singoli ricercatori<br />

è intrinsecamente connesso con la loro possibilità di percepire<br />

se stessi come soggetti, cioè come artefici di conoscenza e di<br />

azione, e anzi di percepirsi come membri d’una umanità che, in linea<br />

di principio, può e deve accordarsi sulla realtà del mondo<br />

esterno 12 . Per utilizzare il lessico di Rorty, senza il momento della<br />

«solidarietà» – cioè senza una intersoggettività vivente, mossa da<br />

interessi che da ultimo hanno natura morale –, non vi sarebbe oggettività<br />

alcuna: ben lungi dal costituire una contrapposizione irriducibile<br />

all’oggettività, la «solidarietà» così intesa ne è condizione<br />

di possibilità.<br />

Rorty non erra a rifiutare ogni «tentativo di divinizzare» la<br />

scienza, ma erra a ritenere che questo tentativo sia «caratteristico<br />

della filosofia realistica» 13 . Se infatti, seguendo il significato usuale<br />

del termine, per «divinizzare la scienza» intendiamo l’attribuire<br />

ad essa una certezza o sicurezza che può competere soltanto ad un<br />

sapere divino, dobbiamo senz’altro ammettere che l’atteggiamento<br />

dello scienziato consistente nel far emergere la realtà così come<br />

essa è può sfociare in una sorta di «patologia», che non considera<br />

più il reale soltanto come qualcosa d’indipendente da lui, ma come<br />

qualcosa d’assoluto: è il caso d’ogni empirismo e positivismo<br />

radicali. Ma occorre poi subito aggiungere che è altrettanto possibile<br />

una seconda forma di divinizzazione della scienza, quella in<br />

cui, cancellata l’indipendenza dei «fatti» dalle categorie elaborate<br />

dallo scienziato, si giunge a sostenere che è quest’ultimo a «creare»<br />

i fatti: è per esempio il caso di molte affermazioni di Feyerabend<br />

(e invero anche di Rorty stesso). E occorre infine osservare<br />

che non si vede invece perché ciò debba riguardare chi fa luogo<br />

alla realtà, chi le riconosce una costanza e una indipendenza che<br />

possiamo soltanto in parte dominare: l’ammissione d’indipendenza,<br />

infatti, equivale proprio a segnare i limiti, sempre spostabili ma<br />

mai del tutto cancellabili, del nostro sapere, che opera sempre<br />

dall’esterno sul reale e mai lo domina dall’interno come un ipotetico<br />

intelletto divino.

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