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Relativismo epistemologico e persona umana - Edizioni Studium

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<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong><br />

e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong><br />

di Marco Buzzoni<br />

Larga parte della tradizione epistemologica ha tentato di dissolvere<br />

la funzione della <strong>persona</strong> <strong>umana</strong>, prima nel senso del fisicalismo<br />

neopositivistico e poi in quello dello storicismo relativistico. Muovendo<br />

dalle difficoltà e talvolta dalla contraddittorietà di questi tentativi<br />

e discutendo il nodo problematico della distinzione fra contesto<br />

della scoperta e contesto della giustificazione (che, con alterne vicende,<br />

dal neopositivismo, attraverso Popper e la svolta relativistica<br />

degli anni Sessanta, giunge sino alla svolta sociologica e al costruttivismo<br />

sociale), cercherò di porre in luce alcuni aspetti della presenza<br />

della <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> nella scienza e nella tecnica.<br />

La dissoluzione neopositivistica del soggetto era stata preparata<br />

da uno dei padri spirituali del Circolo di Vienna:<br />

«Il soggetto che pensa, immagina, non v’è – aveva affermato Ludwig<br />

Wittgenstein –. Se io scrivessi un libro “Il mondo come io lo trovai”,<br />

vi si dovrebbe riferire anche del mio corpo e dire quali membra sottostiano<br />

alla mia volontà, e quali no, etc., e questo è un metodo per<br />

isolare il soggetto, o piuttosto per mostrare che, in un senso importante,<br />

soggetto non v’è. D’esso soltanto, infatti, non si potrebbe parlare<br />

in questo libro» 1 .<br />

Siano stati o meno questi gli intenti del filosofo viennese (poiché,<br />

al di là dei limiti del mondo, per Wittgenstein si estende la dimensione<br />

del «mistico» e il senso ultimo del trattato è «etico» in<br />

un senso trascendentale), questa esclusione del soggetto dal mondo,<br />

insieme col rifiuto neopositivistico del sintetico a priori kantiano,<br />

condurrà alla sua dissoluzione fisicalistica. Il soggetto che


488 Marco Buzzoni<br />

compare negli enunciati protocollari – i resoconti di osservazioni<br />

ed esperimenti mediante cui controlliamo o verifichiamo le teorie<br />

scientifiche – è soltanto un termine di ciò che essi chiamavano<br />

«linguaggio fisicalistico» (Neurath), nella sostanza il linguaggio<br />

della fisica. Il nome proprio che compare negli enunciati protocollari,<br />

e cioè i resoconti di osservazioni ed esperimenti mediante<br />

cui sono controllate le teorie scientifiche («Otto Neurath ha percepito<br />

questo e questo al tempo t nel luogo x»), descrive soltanto<br />

una semplice cosa tra le cose, un oggetto da considerarsi alla stregua<br />

di qualsiasi altro oggetto che possa cadere entro il campo sensoriale.<br />

Le radici di questa cancellazione del soggetto si scorgono bene<br />

nel principio neopositivistico di verificazione. Com’è noto, secondo<br />

questo principio una proposizione è dotata di significato soltanto<br />

se si possono indicare le circostanze empiriche in cui essa è<br />

vera o falsa. Ora, anche se il principio di verificabilità conteneva<br />

un’importante istanza, che ancora oggi dovrebbe essere recuperata,<br />

se non s’intende rinunciare del tutto a comprendere la natura<br />

del discorso scientifico e a distinguerlo da tipi di discorso assai diversi,<br />

nella precisa formulazione che gli diedero i neopositivisti –<br />

formulazione che lo intende come criterio di senso tout court – esso<br />

è insostenibile, anzi intrinsecamente contraddittorio: non essendo<br />

esso stesso verificabile, risulta, sulla base del criterio che esso<br />

stesso impone, unsinnig, nel senso d’essere soltanto una mera concatenazione<br />

di suoni privi di significato. A ben vedere, questa contraddittorietà<br />

intrinseca del principio di verificazione deriva dal<br />

fatto che i neopositivisti non possedevano un linguaggio per parlare<br />

del soggetto. Com’è noto, essi ammettevano come conoscitivamente<br />

legittimi due soli tipi di giudizio: quelli analitici e quelli sintetici<br />

e rifiutavano viceversa, come abbiamo già accennato, ogni tipo<br />

di giudizio sintetico a priori; e ciò, ancor prima dell’intrinseca<br />

contraddittorietà del principio di verificazione (che non esprimeva<br />

né un giudizio analitico né un giudizio sintetico), comportava appunto<br />

l’impossibilità di parlare sensatamente del soggetto in quanto<br />

artefice d’ogni giudizio, e quindi non soltanto dei giudizi scientifici<br />

o logico-matematici, ma anche di quelli, fra i quali rientra appunto<br />

lo stesso principio di verificazione, che riflettono sulle condizioni<br />

di possibilità d’ogni nostro conoscere o agire.<br />

Ma la dissoluzione del soggetto all’interno del neopositivismo<br />

non riguardava soltanto il soggetto trascendentale, bensì anche lo


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 489<br />

scienziato in carne e ossa, come individuo concreto. Per i neopositivisti,<br />

che avevano ridotto la riflessione filosofica ad analisi logica<br />

e a critica metodologica della scienza, qualsiasi tipo d’indagine<br />

storica, psicologica o sociologica era irrilevante per comprendere<br />

la logica della ricerca scientifica. Reichenbach, coniando un’espressione<br />

che ebbe molta fortuna nelle discussioni successive, distingueva<br />

il «contesto della scoperta» dal «contesto della giustificazione»<br />

d’una teoria scientifica. Ancora Popper, che per alcuni<br />

aspetti importanti fu critico irriducibile del neopositivismo, accoglierà<br />

questa separazione, cui darà il nome di «psicologia e logica<br />

della ricerca scientifica»:<br />

«Lo stadio iniziale, l’atto di concepire o inventare una teoria, non mi<br />

sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile. Come accada<br />

che una nuova idea venga in mente a qualcuno – sia essa un tema<br />

musicale, un conflitto drammatico, o una teoria scientifica – può<br />

essere di grande interesse per la psicologia empirica, ma non pertiene<br />

all’analisi logica della conoscenza scientifica. Quest’ultima prende in<br />

considerazione non già questioni di fatto (il quid facti? di Kant), ma<br />

soltanto questioni di giustificazione o validità (il quid juris? di Kant).<br />

Le sue questioni sono del tipo seguente. Può un’asserzione essere<br />

giustificata? E, se lo può, in che modo? È possibile sottoporla a controlli?<br />

È logicamente dipendente da certe altre asserzioni?» 2 .<br />

Mediante la separazione fra scoperta e giustificazione, il modello<br />

<strong>epistemologico</strong> neopositivistico impediva sin dal suo sorgere ogni<br />

problema di guida o d’orientamento della scienza naturale da parte<br />

del più ampio contesto culturale e pratico in cui essa si inscrive.<br />

In questa prospettiva, ogni funzione assegnata alla filosofia, alla<br />

storiografia, o alle altre discipline umanistiche per la comprensione<br />

e per l’orientamento delle scienze naturali dovevano necessariamente<br />

significare soltanto un fraintendimento della natura della<br />

conoscenza scientifica e una minaccia alla purezza della sua oggettività.<br />

Il modello neopositivistico rivendicava invece l’assoluta<br />

autosufficienza, e quindi il valore assoluto, delle scienze naturali<br />

sia rispetto alla filosofia sia rispetto alle altre discipline umanistiche<br />

(o alle altre scienze umane) e ogni forma d’indagine intorno<br />

all’uomo (e ai prodotti del suo pensare e del suo agire) era ricondotta<br />

allo schema nomologico-deduttivo di spiegazione, la cui<br />

universale applicabilità in linea di principio significava, né più né


490 Marco Buzzoni<br />

meno, considerare l’uomo come cosa fra cose, significava cioè negare<br />

ogni specificità all’uomo in quanto soggetto responsabile delle<br />

proprie deliberazioni e azioni. Il modello nomologico-deduttivo<br />

non attribuisce alcuna funzione ai fini e ai valori che l’uomo<br />

pone a fondamento della propria condotta e risolve invece anche<br />

la comprensione delle azioni umane in una deduzione logica, che<br />

pone come premesse, per un verso, una legge generale (universale<br />

o statistica) relativa alle tendenze psicologiche del soggetto, e<br />

per l’altro una descrizione della situazione in cui l’agente agì, e<br />

che, come conclusione, ha l’azione concreta dell’agente 3 .<br />

In questo senso, la separazione fra contesto della scoperta e<br />

contesto della giustificazione, intesa ad espungere dalla pratica<br />

scientifica ogni elemento irrazionale: psicologico, sociologico,<br />

ecc., era strettamente connessa ad un concetto di scienza che non<br />

conteneva più l’uomo concreto, ma soltanto una rete logica di<br />

nessi sintattici già espressi oppure una serie di rinvii semantici<br />

senza spazio alcuno per il loro artefice, per lo scienziato concreto,<br />

che agisce in particolari contesti sotto l’influsso di concreti condizionamenti<br />

(psicologici, politici, ma anche etico-pratici). Cercando<br />

di garantire il valore conoscitivo della scienza, i neopositivisti<br />

finirono per confinare ogni aspetto sociale, etico o politico al momento<br />

dell’applicazione della scienza al mondo concreto (alla cosiddetta<br />

“scienza applicata”) e riposero per lo più i valori morali<br />

(insieme con le regole della convivenza civile, il senso della vita,<br />

ecc.) in una sfera soggettiva e privata.<br />

L’eliminazione neopositivistica del soggetto umano dall’impresa<br />

scientifica era insomma completa, riguardando il soggetto<br />

sia in un senso ontologico-trascendentale sia in un senso storico o<br />

etico-pratico. Fra le ragioni dell’importanza dell’epistemologia<br />

popperiana vi è certamente anche il fatto di aver mostrato l’insostenibilità<br />

d’un concetto di scienza che prescinda dal soggetto<br />

umano: i dati osservativi non hanno un significato a prescindere<br />

dai particolari punti di vista teorici che il soggetto umano escogita.<br />

Nessuna osservazione “pura” possiede, secondo Popper, un significato<br />

conoscitivo determinato: a tal fine è richiesto un punto<br />

di vista, e questo a sua volta presuppone un soggetto concreto, in<br />

grado di assumere in prima <strong>persona</strong> questo punto di vista 4 .<br />

Ma nonostante questa ed altre importanti critiche all’epistemologia<br />

neopositivistica, non si può in primo luogo trascurare il<br />

fatto che Popper è stato proprio l’originario artefice di quel mo-


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 491<br />

dello nomologico-deduttivo che tanto successo ebbe fra i neopositivisti<br />

5 ; e soprattutto non si può trascurare il fatto – cui già abbiamo<br />

fatto cenno – che, dell’impostazione neopositivistica, Popper<br />

conservò e anzi ribadì con forza la separazione fra il contesto<br />

genetico (storico, psicologico, sociologico, ecc.) della scoperta<br />

scientifica e quello della sua giustificazione oggettiva, riproponendo<br />

un modello di scienza che, almeno in una delle due fondamentali<br />

linee di pensiero della sua epistemologia, precludeva l’interazione<br />

e il dialogo con il restante mondo della cultura.<br />

Ora, proprio la separazione fra contesto della scoperta e contesto<br />

della giustificazione fu invece uno dei principali obiettivi polemici<br />

della cosiddetta «svolta relativistica» in epistemologia<br />

(Hanson, Kuhn, Feyerabend, Hübner), ripresa e continuata poi<br />

dalla cosiddetta «svolta sociologistica» (Bloor, Latour, ecc.); queste<br />

hanno insistito con forza sulla scienza come fenomeno storico<br />

e come attività <strong>umana</strong>, come attività sempre inserita entro un preciso<br />

contesto storico-sociale, assiologico e, in generale, pratico.<br />

Sennonché, com’è noto, la separazione neopositivistica fra<br />

contesto della scoperta e contesto della giustificazione non è stata<br />

soltanto rifiutata in questo senso ed entro questi limiti, bensì in un<br />

senso assai più radicale e indiscriminato, che ha revocato in dubbio<br />

la stessa portata conoscitiva e veritativa della scienza. Come ad<br />

esempio argomentava Feyerabend contro un tentativo di Feigl<br />

(autorevole esponente del movimento neopositivistico) di difendere<br />

la distinzione fra scoperta e giustificazione, il progresso<br />

scientifico è stato favorito da ragioni provenienti da entrambi i<br />

contesti, e non si può quindi propriamente parlare di un’alternativa,<br />

e neppure di una distinzione, fra di essi:<br />

«Le attività che, secondo Feigl, appartengono al contesto della scoperta<br />

non sono [...] solo diverse da ciò che si verifica nel contesto della<br />

giustificazione, ma sono in conflitto con essa. I due contesti non<br />

procedono fianco a fianco, ma spesso entrano in urto fra loro. E noi<br />

ci troviamo di fronte al problema a quale contesto dobbiamo concedere<br />

un trattamento preferenziale. Questa è la prima parte dell’argomentazione.<br />

Ora, abbiamo visto che, nel caso di un conflitto, gli<br />

scienziati scelgono di tanto in tanto le mosse raccomandate dal contesto<br />

della giustificazione, ma possono anche scegliere le mosse<br />

appartenenti al contesto della scoperta, e spesso hanno ragioni eccellenti<br />

per comportarsi in questo modo. In effetti la scienza quale la conosciamo<br />

oggi non potrebbe esistere se non si facesse valere a danno


492 Marco Buzzoni<br />

del contesto della giustificazione. Questa è la seconda parte dell’argomentazione.<br />

La conclusione è chiara. La prima parte ci dimostra<br />

che non abbiamo solo una differenza, ma un’alternativa. La seconda<br />

parte ci dimostra che entrambi gli aspetti dell’alternativa sono altrettanto<br />

importanti per la scienza e che ad essi dev’essere riconosciuto<br />

un ugual peso. Non stiamo perciò occupandoci neppure di un’alternativa<br />

bensì di un singolo campo uniforme di procedimenti, i quali<br />

sono tutti altrettanto importanti per la crescita della scienza. In tal<br />

modo la distinzione viene eliminata» 6 .<br />

Anche pregiudizi e idiosincrasie <strong>persona</strong>li degli scienziati, preferenze<br />

estetiche o credenze di tipo religioso come il culto del dio<br />

Sole in Keplero, per il solo fatto che hanno storicamente svolto<br />

una certa funzione nel processo scientifico, sono poste sullo stesso<br />

piano di criteri come la capacità esplicativa o la capacità d’una<br />

teoria di risolvere un maggior numero di problemi rispetto a teorie<br />

precedenti 7 .<br />

Ora, affermare che elementi psicologici, sociologici e in generale<br />

empirici hanno in linea di principio lo stesso valore epistemico<br />

e argomentativo degli elementi propri del piano della rappresentazione<br />

perché, da un punto di vista meramente storico, essi<br />

hanno svolto un ruolo causale nel favorire il progresso scientifico,<br />

significa a ben vedere presupporre che i concetti umani siano il<br />

mero prodotto di circostanze reali, storiche, che li determinano e<br />

li spiegano, che è la tesi fondamentale d’ogni storicismo relativistico.<br />

Quest’affermazione presuppone che non esista alcun piano<br />

posto al di sopra di quello positivo (psichico, storico, sociale, ecc.)<br />

e qualitativamente distinto da esso, muovendo dal quale sia possibile<br />

valutare diverse concezioni rispetto alla loro verità o falsità.<br />

Mentre nel neopositivismo il contesto della giustificazione fagocitava<br />

quello della scoperta, qui il contesto della scoperta fagocita<br />

quello della giustificazione. La conclusione fu, e non poteva non<br />

essere, uno storicismo relativistico: concetti come quelli di oggettività,<br />

progresso scientifico, ricerca della verità, ecc., venivano dichiarati<br />

privi di senso: in Kuhn, per esempio, l’oggettività si stemperava<br />

nel concetto sociologico di consenso all’interno della comunità<br />

degli scienziati, la ricerca della verità si trasformava nella<br />

ricerca di questo consenso, il concetto di progresso scientifico si<br />

trasformava in quello d’un semplice passaggio fra teorie incommensurabili,<br />

ciascuna delle quali era valutata sulla base dei criteri<br />

che essa stessa aveva stabilito, e così via. Tolto infatti il piano del-


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 493<br />

la giustificazione e lasciato il solo piano storico, psicologico o sociale,<br />

le teorie scientifiche vengono ridotte a realtà puntuali, ciascuna<br />

delle quali si pone semplicemente accanto alle altre, senza<br />

poter sollevare alcuna pretesa di verità.<br />

Ma anche questa riduzione sociologistica dell’impresa scientifica<br />

(e implicitamente della <strong>persona</strong> <strong>umana</strong>) non era meno insostenibile<br />

e contraddittoria di quella fisicalistica e comportamentistica dei<br />

neopositivisti. In primo luogo, teorie o paradigmi incommensurabili<br />

non possono contraddirsi, e viceversa teorie o paradigmi fra loro<br />

contraddittori non possono essere reciprocamente incommensurabili<br />

8 . Se si assume la possibilità del conflitto fra teorie o paradigmi<br />

incommensurabili, si assume implicitamente al tempo stesso l’esistenza<br />

di un dominio comune rispetto al quale essi risultano in linea<br />

di principio confrontabili, e ciò equivale ad assumere tacitamente,<br />

contro le premesse, proprio la loro «commensurabilità». Se<br />

due persone vedono un animale in lontananza ed una afferma trattarsi<br />

di un cavallo e l’altra invece di un asino, queste due affermazioni<br />

possono risultare incompatibili soltanto se si assume che<br />

le due persone si riferiscono al medesimo campo osservativo. In altri<br />

termini, non potremmo neppure venire a sapere che due teorie<br />

empiriche sono incompatibili, se non sapessimo da quale punto di<br />

vista e rispetto a quali particolari esperienze percettive esse risultano<br />

tali; ma posto di sapere ciò, avremmo già la possibilità in linea<br />

di principio di valutarle comparativamente. Forse l’obiezione in<br />

parola potrebbe esprimersi nel modo più semplice dicendo che<br />

due enunciati, A e ~A, possono risultare fra loro contraddittori<br />

soltanto se con il segno «A» intendiamo la stessa cosa e, trattandosi<br />

di conoscenza empirica, la stessa realtà d’esperienza (per la quale,<br />

da ultimo, debbono d’altronde rivelarsi adeguate anche le norme<br />

metodologiche o le stipulazioni di significato assunte da una teoria);<br />

in caso contrario, infatti, verrebbero semplicemente asserite<br />

cose diverse e ci si riferirebbe a diversi aspetti del reale. Insomma,<br />

incommensurabilità e incompatibilità fra teorie rivali sono concetti<br />

che si escludono reciprocamente e che è contraddittorio asserire<br />

contemporaneamente e dal medesimo punto di vista.<br />

In secondo luogo, rifiutando la separazione fra contesto della<br />

scoperta e contesto della giustificazione in ogni senso, la svolta relativistica,<br />

continuata nel sociological turn, ha, come si suol dire,<br />

gettato via, insieme con l’acqua sporca, anche il bambino, che era<br />

qui rappresentato dall’irrinunciabile pretesa, propria del discorso


494 Marco Buzzoni<br />

conoscitivo in genere e di quello scientifico in particolare, di rappresentare<br />

le cose come esse propriamente sono. La pretesa di<br />

rappresentare o (con buona pace di Rorty) di «rispecchiare» le cose<br />

come esse sono è inevitabile, poiché ogni atto che intendesse<br />

negarla non potrebbe che riasserirla come pretesa di validità di<br />

questa stessa negazione, ed è per questo che essa si ripresenta di<br />

fatto negli autori della svolta relativistica e sociologistica in epistemologia<br />

sotto mentite spoglie, nella forma cioè di un’altra e opposta<br />

assolutizzazione, altra e opposta rispetto a quella neopositivistica:<br />

non è più il valore assoluto della scienza naturale ad essere<br />

acriticamente presupposto, bensì quello dell’indagine storiografica<br />

e delle scienze umane in generale, i cui «dati» dovrebbero<br />

costituire la base sicura per costruire un’immagine affidabile dell’impresa<br />

scientifica (una tesi neopositivistica, si potrebbe dire, all’interno<br />

d’una epistemologia che si vorrebbe radicalmente antineopositivistica).<br />

È importante tuttavia notare che, nella sfera conoscitiva<br />

in generale, nel suo sforzo di far emergere le cose reali<br />

come esse effettivamente sono, il soggetto <strong>persona</strong>le compare per<br />

così dire in negativo, nel suo sforzo o impegno, propriamente morale,<br />

di far campeggiare l’oggetto, di non interferire col modo in<br />

cui stanno o si svolgono le cose (non importa in quale misura ciò<br />

possa poi davvero riuscire), che è al tempo stesso condizione di<br />

possibilità d’un accordo intersoggettivo con i suoi simili. Lo scienziato<br />

deve cercare di porre in atto ogni possibile accorgimento o<br />

procedimento metodico, affinché il suo sapere esprima soltanto<br />

contenuti che egli non vi ha surrettiziamente o involontariamente<br />

introdotto, contenuti cioè come necessariamente debbono apparire<br />

a non importa quale altra <strong>persona</strong> dotata di ragione.<br />

Si potrebbe obiettare – ed è stato di fatto spesso obiettato da<br />

parte del cosiddetto «pensiero debole» o, più in particolare, da<br />

autori come Feyerabend o Rorty – che un’epistemologia che si appelli<br />

alla verità come testimonianza del modo in cui le cose sono<br />

effettivamente contiene un’implicita negazione di valori come la<br />

tolleranza, la libertà della ricerca, la solidarietà, ecc. Rorty ad<br />

esempio, criticando le pretese di dominio del discorso scientifico<br />

in quanto discorso che tende a dire come le cose sono in se stesse<br />

(come pretesa d’una Verità che s’imporrebbe al soggetto e gli toglierebbe<br />

ogni potere di autodeterminazione e di critica), contrappone<br />

al valore dell’oggettività quello della «solidarietà»:


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 495<br />

«Coloro che vogliono fondare la solidarietà nell’oggettività – chiamiamoli<br />

“realisti” – debbono costruire la verità come corrispondenza con la<br />

realtà. Essi debbono così costruire una metafisica che ammette una relazione<br />

speciale fra le credenze e gli oggetti, che differenzierà credenze<br />

vere e credenze false. [...] All’opposto, coloro che vogliono ridurre l’oggettività<br />

alla solidarietà – chiamiamoli “pragmatisti” – non hanno bisogno<br />

né d’una metafisica né d’una gnoseologia. Essi considerano la verità,<br />

per dirla con James, come ciò che per noi è bene credere» 9 .<br />

La «radice dello scientismo» è secondo Rorty il desiderio, la brama<br />

o l’aspirazione all’oggettività (the desire for objectivity), cui egli<br />

contrappone il tentativo pragmatistico di fondare la tolleranza, la<br />

libertà di ricerca e la «comunicazione non distorta» (undistorted<br />

communication) fra i membri d’una comunità 10 . Non dunque la<br />

ricerca di come le cose sono in se stesse, bensì, come scrive Rorty,<br />

la ricerca della solidarietà all’interno d’una comunità data:<br />

«I pragmatisti vorrebbero sostituire l’aspirazione all’oggettività – l’aspirazione<br />

a toccare una realtà che è più d’una qualche comunità con<br />

la quale ci identifichiamo – con l’aspirazione alla solidarietà con quella<br />

comunità. [...] Secondo questo modo di vedere non v’è ragione di<br />

lodare gli scienziati perché sono più “oggettivi” o “logici” o “metodici”<br />

o “devoti alla verità” di altre persone. [...] Il mio rifiuto delle nozioni<br />

tradizionali di oggettività si può riassumere dicendo che il solo<br />

senso in cui la scienza è esemplare è quello in cui essa è un modello di<br />

solidarietà <strong>umana</strong>» 11 .<br />

Ora, contro obiezioni di questo genere si deve notare che non è<br />

affatto possibile separare i concetti d’una comunità intersoggettiva<br />

della comunicazione e quello d’un mondo reale, assunto come<br />

meta ideale verso cui cercano di convergere i vari ricercatori. Più<br />

precisamente occorre dire che non esiste «solidarietà» alcuna,<br />

non esiste appartenenza a nessuna comunità, né di ricerca né di altro<br />

tipo, senza il riconoscimento implicito non soltanto di alcuni<br />

valori condivisi, ma anche d’una realtà da modificare o interpretare<br />

alla luce di quei valori. Senza la presupposizione d’un mondo<br />

reale in linea di principio attingibile, anche le nostre rivendicazioni<br />

morali sarebbero prive di senso: che senso avrebbe invocare<br />

l’aiuto ai diseredati, se non credessimo nella loro esistenza, se pensassimo<br />

che essi sono soltanto nostre immagini oniriche? Non<br />

può esservi «solidarietà» di alcun genere, né nell’ordine conosci-


496 Marco Buzzoni<br />

tivo né in quello della più generale convivenza <strong>umana</strong>, senza il riconoscimento<br />

d’un unico mondo reale nel quale, sia pure dal proprio<br />

punto di vista e muovendo dalla propria particolare situazione,<br />

ogni <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> deve cercare d’inserirsi, conoscitivamente<br />

e praticamente.<br />

D’altro canto vale anche il viceversa: lo sforzo di porre in rilievo<br />

la realtà naturale come entità indipendente dai singoli ricercatori<br />

è intrinsecamente connesso con la loro possibilità di percepire<br />

se stessi come soggetti, cioè come artefici di conoscenza e di<br />

azione, e anzi di percepirsi come membri d’una umanità che, in linea<br />

di principio, può e deve accordarsi sulla realtà del mondo<br />

esterno 12 . Per utilizzare il lessico di Rorty, senza il momento della<br />

«solidarietà» – cioè senza una intersoggettività vivente, mossa da<br />

interessi che da ultimo hanno natura morale –, non vi sarebbe oggettività<br />

alcuna: ben lungi dal costituire una contrapposizione irriducibile<br />

all’oggettività, la «solidarietà» così intesa ne è condizione<br />

di possibilità.<br />

Rorty non erra a rifiutare ogni «tentativo di divinizzare» la<br />

scienza, ma erra a ritenere che questo tentativo sia «caratteristico<br />

della filosofia realistica» 13 . Se infatti, seguendo il significato usuale<br />

del termine, per «divinizzare la scienza» intendiamo l’attribuire<br />

ad essa una certezza o sicurezza che può competere soltanto ad un<br />

sapere divino, dobbiamo senz’altro ammettere che l’atteggiamento<br />

dello scienziato consistente nel far emergere la realtà così come<br />

essa è può sfociare in una sorta di «patologia», che non considera<br />

più il reale soltanto come qualcosa d’indipendente da lui, ma come<br />

qualcosa d’assoluto: è il caso d’ogni empirismo e positivismo<br />

radicali. Ma occorre poi subito aggiungere che è altrettanto possibile<br />

una seconda forma di divinizzazione della scienza, quella in<br />

cui, cancellata l’indipendenza dei «fatti» dalle categorie elaborate<br />

dallo scienziato, si giunge a sostenere che è quest’ultimo a «creare»<br />

i fatti: è per esempio il caso di molte affermazioni di Feyerabend<br />

(e invero anche di Rorty stesso). E occorre infine osservare<br />

che non si vede invece perché ciò debba riguardare chi fa luogo<br />

alla realtà, chi le riconosce una costanza e una indipendenza che<br />

possiamo soltanto in parte dominare: l’ammissione d’indipendenza,<br />

infatti, equivale proprio a segnare i limiti, sempre spostabili ma<br />

mai del tutto cancellabili, del nostro sapere, che opera sempre<br />

dall’esterno sul reale e mai lo domina dall’interno come un ipotetico<br />

intelletto divino.


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 497<br />

Nel senso sopra precisato, come espressione dell’ineludibile<br />

autonomia del piano logico-discorsivo della rappresentazione, la<br />

distinzione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione<br />

dev’essere quindi certamente mantenuta. Occorre però a<br />

questo punto chiedersi come l’irrinunciabile pretesa alla verità del<br />

proprio dire, in cui consiste appunto il motivo di vero della distinzione<br />

fra scoperta e giustificazione, si concretizzi in modo specifico<br />

nella scienza naturale. Ebbene, rispondere a questa domanda<br />

consente di determinare un diverso senso in cui la separazione<br />

fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione dev’essere<br />

invece senz’altro rifiutata.<br />

Abbiamo sinora sostenuto che, nella sfera conoscitiva in generale,<br />

il soggetto <strong>persona</strong>le compare per così dire in negativo, nel<br />

suo sforzo di far emergere le cose reali come esse effettivamente<br />

sono. Lo sforzo o l’impegno, propriamente morale, del soggetto<br />

<strong>persona</strong>le è cioè quello di far campeggiare l’oggetto, di non interferire<br />

col modo in cui stanno o si svolgono le cose (non importa in<br />

quale misura ciò possa poi davvero riuscire), in modo che queste<br />

possano apparire nello stesso modo a non importa quale altra <strong>persona</strong><br />

dotata di ragione. Ora, il modo specifico in cui ciò avviene<br />

nelle scienze sperimentali della natura consiste nell’esemplificazione<br />

d’un nesso fra proposizioni, che è un contenuto propriamente<br />

teorico, nel funzionamento, in un senso importante indipendente<br />

dal soggetto <strong>persona</strong>le, d’un apparato tecnico: dopo<br />

aver innescato un certo processo tecnico, questo si svolge in modo<br />

del tutto indipendente da noi, mostrando concretamente l’esistenza<br />

in natura d’un nesso che dipende certamente da noi quanto<br />

alla sua concettualizzazione, ma che è da noi del tutto indipendente<br />

per quanto concerne i suoi contenuti reali. Le idiosincrasie<br />

soggettive d’uno scienziato o i condizionamenti sociali cui egli è<br />

esposto possono certamente dirigere la sua attenzione a questo<br />

piuttosto che a quel fenomeno, ma il fatto che un certo apparato<br />

sperimentale funzioni nel modo previsto o no, è cosa che non dipende<br />

da essi. Ecco perché nessuna considerazione sulle ragioni<br />

storiche che indussero Galileo a intraprendere lo studio della<br />

traiettoria dei proiettili (per es. l’importanza di conoscere la gittata<br />

massima d’un cannone) può revocare in dubbio l’autonomia di<br />

cui godono i relativi decorsi sperimentali. Con la traduzione tecnico-operativa<br />

dei loro concetti teorici mediante l’esperimento,<br />

insomma, le scienze naturali realizzano in un modo che è loro pe-


498 Marco Buzzoni<br />

culiare l’esigenza propria d’ogni discorso di tipo conoscitivo di attingere<br />

il vero, di testimoniare come le cose sono in se stesse 14 .<br />

Questo non giustifica soltanto la portata in linea di principio<br />

veritativa del discorso scientifico, che ha trovato nell’esperimento<br />

un modo per concretizzare e far vivere quasi di vita propria il contenuto<br />

delle proprie affermazioni, ma, al tempo stesso, senza contraddizione<br />

alcuna, pone anche in evidenza la funzione insostituibile<br />

della <strong>persona</strong> <strong>umana</strong>, e con essa uno degli aspetti insopprimibilmente<br />

umanistici delle scienze naturali. Ciò non dà luogo a nessuna<br />

contraddizione, perché il soggetto <strong>persona</strong>le entra sì con tutto<br />

il proprio impegno, che non si saprebbe altrimenti qualificare<br />

se non come morale, ma appunto nel senso d’un impegno a testimoniare<br />

come stanno le cose, cercando di porre fra parentesi le<br />

possibili interferenze, pregiudizi e idiosincrasie nei confronti dell’oggetto<br />

della ricerca. E concretamente, questo impegno si traduce<br />

nel porre in atto una serie di procedimenti metodici che, in<br />

linea di principio, debbono poter essere ripercorsi e ricostruiti da<br />

chiunque in prima <strong>persona</strong>. Per comprendere e poi controllare la<br />

verità d’un enunciato scientifico, occorre che io ripercorra in prima<br />

<strong>persona</strong> (anche operativamente o tecnicamente) i passi che<br />

hanno condotto alla sua affermazione, occorre cioè un mio atto<br />

<strong>persona</strong>le di riappropriazione delle ragioni di verità dell’enunciato<br />

stesso. È da ultimo soltanto la singola <strong>persona</strong> che può in ogni<br />

momento controllare ed eventualmente rimettere in discussione il<br />

valore d’una scoperta accettata, ripercorrendo i passi procedurali<br />

che hanno condotto ad essa. Posso certamente usare il teorema di<br />

Pitagora per risolvere un certo problema geometrico, ma se qualcuno<br />

solleva il problema della sua validità, debbo essere in grado<br />

d’indicare i passi che conducono alla sua dimostrazione.<br />

Mentre prima abbiamo mostrato che la distinzione fra scoperta<br />

e giustificazione non può essere abbandonata in senso trascendentale,<br />

nel senso cioè in cui non v’è scienza o sapere cui si<br />

possa attribuire la qualifica della possibile verità senza l’atto in cui<br />

consiste il primo e più fondamentale senso dell’oggettività scientifica,<br />

cioè l’atto mediante cui rappresentiamo un decorso fisico come<br />

svolgentesi, quanto ai suoi contenuti, in modo del tutto indipendente<br />

da noi, emerge ora un diverso senso della distinzione fra<br />

scoperta e giustificazione, un senso in cui questa distinzione<br />

dev’essere invece senz’altro rifiutata, poiché non v’è oggettività<br />

scientifica senza controllabilità intersoggettiva in linea di princi-


<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 499<br />

pio, cioè senza presupporre la possibilità in linea di principio d’una<br />

ricostruzione e riappropriazione in prima <strong>persona</strong> dei passi<br />

metodici, cioè delle ragioni che hanno di fatto condotto ad una<br />

certa affermazione.<br />

Al neopositivismo e a Popper si deve obiettare di non aver saputo<br />

chiaramente distinguere il preciso senso in cui riveste grande<br />

importanza, nello stesso momento «logico» della ricerca, un<br />

certo atteggiamento genetico-storiografico o, come si potrebbe<br />

pure dire, ermeneutico. Accertare la verità o la falsità di una proposizione<br />

scientifica è possibile soltanto ripetendo quelle specifiche<br />

operazioni in cui di fatto è storicamente consistito un certo<br />

esperimento. Se intendiamo controllare la verità delle affermazioni<br />

che esso intende tradurre tecnicamente, siamo costretti ad assumere<br />

un atteggiamento di tipo genetico-ricostruttivo, che ripercorre<br />

le operazioni salienti eseguite e comunicate da chi per la prima<br />

volta è riuscito ad ottenere un certo risultato mediante il loro<br />

aiuto. In questo senso la tesi popperiana secondo cui le questioni<br />

di origine non hanno alcuna importanza per stabilire la verità o la<br />

falsità di una proposizione è senz’altro da respingere: è proprio<br />

perché non possiamo avere alcuna rivelazione diretta della verità<br />

di una proposizione empirica che siamo costretti a percorrere e ripercorrere<br />

certi «cammini» che conducono alla sua accettazione o<br />

al suo rifiuto.<br />

Il punto decisivo è che non esiste mai un momento oltre il quale<br />

possiamo senz’altro prescindere dal «contesto della scoperta»,<br />

perché tutte le volte che emergono dei dubbi circa la validità o<br />

«giustificazione» d’una teoria, occorre valutare i dati su cui essa<br />

poggia, e ciò richiede di riconsiderare e ripercorrere i passi procedurali<br />

che hanno reso e rendono possibile giungere ad essa, ricostruendo<br />

proprio il contesto della sua scoperta. Una proposizione<br />

può essere concepita come vera o come giustificata soltanto ripercorrendo<br />

i passi procedurali che ci hanno condotto ad essa, operando<br />

di essa una ricostruzione consapevole. In altre parole, la<br />

stessa giustificazione d’una teoria risulterebbe impossibile se fosse<br />

separata dalla ricostruzione del processo che ha condotto alla sua<br />

scoperta. Ciò anzi risponde alla movenza fondamentale del discorso<br />

scientifico, che mira alla più ampia invarianza possibile dalla<br />

<strong>persona</strong> dello scienziato o dell’utilizzatore. Quale altro senso dovremmo<br />

dare al principio metodologico della riproducibilità degli<br />

esperimenti, cioè al fatto che chiunque disponga di un sufficiente


500 Marco Buzzoni<br />

bagaglio di conoscenze fondamentali può, ripetendo certe operazioni<br />

prefissate, riconoscere la fondatezza di una proposizione<br />

scientifica? Questo riconoscimento non avrebbe alcun significato<br />

a prescindere dal fatto di ripercorrere in prima <strong>persona</strong> i passi procedurali<br />

che conducono ad esso (o di concepirli come ripercorribili<br />

in linea di principio, nel caso che riteniamo di poter accordare<br />

la nostra fiducia a chi di fatto ha già eseguito l’esperimento).<br />

In conclusione, v’è sia un senso, che recupera il soggetto in<br />

senso trascendentale, in cui occorre accettare la distinzione fra<br />

contesto della scoperta e contesto della giustificazione, sia un senso,<br />

che traduce sul piano metodico quello trascendentale, in cui<br />

occorre rifiutare la distinzione in parola. È chiaro che questi due<br />

sensi non sono fra loro separati, ma dialetticamente connessi. La<br />

pretesa ineludibile alla validità o verità del proprio dire, propriamente<br />

trascendentale, è condizione di possibilità d’ogni indagine<br />

particolare, ma ogni indagine particolare, considerata nel suo specifico<br />

sviluppo storico (nella prospettiva del «contesto della scoperta»),<br />

garantisce che il piano trascendentale non rimanga qualcosa<br />

di astratto, ma si traduca continuamente nei singoli atti di<br />

riappropriazione in prima <strong>persona</strong> di non importa quale contenuto<br />

conoscitivo. L’accettazione della distinzione fra contesto della<br />

scoperta e contesto della giustificazione non allontana o estranea<br />

la scienza dal contesto etico-pratico in cui essa è già da sempre immersa,<br />

sia perché il piano trascendentale della validità o della verità<br />

vive concretamente come dedizione o abnegazione dello<br />

scienziato in quanto <strong>persona</strong> ad un valore trans<strong>persona</strong>le, sia perché<br />

questa stessa dedizione o abnegazione non può andare disgiunta<br />

nell’indicazione d’un insieme di passi metodici che sono<br />

in linea di principio ripercorribili in prima <strong>persona</strong> da qualunque<br />

essere dotato di ragione 15 .<br />

Si potrebbe dire che l’uomo può anche interpretare tutta la<br />

realtà empirica (incluso se stesso) secondo il punto di vista della<br />

particolare disciplina da cui considera il mondo, ma in questo<br />

punto di vista particolare non può in linea di principio risolversi<br />

egli stesso in quanto sorgente da cui scaturisce quello o qualunque<br />

altro particolare punto di vista. Chi abbia accettato una particolare<br />

concezione del mondo (non importa se sociologistica, meccanicistico-deterministica<br />

o indeterministica) può certamente interpretare<br />

l’uomo come realtà sociale, come meccanismo determinato<br />

o come sistema indeterministico, ma non può pretendere che il


suo particolare punto di vista colga la <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> nella sua interezza<br />

e concretezza. Non può farlo, perché è quest’uomo concreto,<br />

il quale agisce (responsabilmente) nel mondo perseguendo<br />

determinati fini, che ha costruito quel punto di vista da cui guardare<br />

il reale e che dunque, nella sua concretezza, è condizione di<br />

possibilità della stessa visione sociologistica, meccanicistico-deterministica<br />

o indeterministica del mondo.<br />

NOTE<br />

<strong>Relativismo</strong> <strong>epistemologico</strong> e <strong>persona</strong> <strong>umana</strong> 501<br />

Marco Buzzoni<br />

Questo intervento rappresenta il testo, leggermente modificato ed ampliato, di<br />

una conferenza tenuta presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova,<br />

nell’ambito del Seminario «Pluralismo culturale e trascendentali», organizzato dal prof.<br />

Angelo Campodonico.<br />

1 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 5.631; tr. it., da cui cito, di<br />

G. Conte, Einaudi, Torino 1968.<br />

2 K. R. Popper, The Logic of Scientific Discovery, Hutchinson, London 1959 (cit.<br />

dalla II ed., 1968), p. 31, tr. it., La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970,<br />

pp. 9-10.<br />

3 Cfr. per es. C. G. Hempel, Reasons and Covering Laws in Historical Explanation,<br />

S. Hook (ed.), Philosophy and History, New York Univ. Press, New York 1953, tr. it. di<br />

D. Antiseri, Come lavora uno storico, Armando, Roma 1977.<br />

4 Cfr. K. R. Popper, The Logic of Scientific Discovery, cit., § 30. Cfr. anche, di Popper,<br />

Conjectures and Refutations, Routledge and Kegan Paul, London 1963, cit. dalla IV<br />

ed., 1972, p. 46, tr. it., Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, p. 84, dove<br />

Popper trasforma questa osservazione in una sorta di efficace esperimento mentale:<br />

«Venticinque anni or sono cercai di far capire questo punto a un gruppo di studenti di<br />

fisica, a Vienna, incominciando una lezione con le seguenti istruzioni: “prendete carta<br />

e matita; osservate attentamente e registrate quel che avete osservato!” Essi chiesero, naturalmente,<br />

che cosa volevo che osservassero. È chiaro che il precetto: “osservate!”, è assurdo».<br />

Sul concetto di <strong>persona</strong> in Popper, cfr. M. Buzzoni, Popper. La <strong>persona</strong> fra natura<br />

e cultura, <strong>Studium</strong>, Roma 1984.<br />

5 Occorre tuttavia dire che, con poca coerenza ma con più verità, Popper ha anche<br />

affiancato allo schema deduttivo di spiegazione un diverso tipo di spiegazione delle<br />

azioni umane, cui ha dato il nome di «analisi situazionale» (o «logica situazionale»), che<br />

tiene presenti le ragioni dell’agente dal punto di vista della situazione problematica in<br />

cui egli si trovava ad agire: cfr. per es. K. R. Popper, The Poverty of Historicism, Routledge<br />

and Kegan Paul, London 1957, p. 141, tr. it., La povertà dello storicismo, Feltrinelli,<br />

Milano 1975, pp. 125-126.<br />

6 P. K. Feyerabend, Against method: Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge,<br />

in M. Radner and S. Winokur (eds.), Minnesota Studies in the Philosophy of Science,<br />

IV, Univ. of Minnesota Press, Minneapolis 1970, pp. 17-130; tr. it., Contro il metodo. Abbozzo<br />

di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 136-137. Si<br />

potrebbero tuttavia altrettanto facilmente citare passi più o meno simili tratti dai maggiori<br />

esponenti sia delle epistemologie relativistiche degli anni Sessanta sia della svolta


502 Marco Buzzoni<br />

sociologica, che, da questo punto di vista, non ha aggiunto nulla di veramente nuovo al<br />

dibattito <strong>epistemologico</strong>: cfr. ad es. T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions,<br />

Univ. of Chicago Press, Chicago 1962 (II ed. 1970, da cui cito), pp. 151-156; tr. it., La<br />

struttura delle rivoluzioni, IV ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 184-188; A. Pickering, Reason<br />

Enough? More on Parity Violation Experiments and Electroweak Gauge Theory, in<br />

PSA 1990, vol. 2, Philosophy of Science Association, East Lansing, 1991, pp. 459-469,<br />

in part. p. 459; K. D. Knorr Cetina, The Couch, the Cathedral, and the Laboratory: On<br />

the Relationship between Experiment and Laboratory in Science, in A. Pickering (ed.),<br />

Science as Practice and Culture, Univ. of Chicago Press, Chicago 1992, pp. 113-138, in<br />

part. p. 116.<br />

7 Cfr. per es. T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, cit., pp. 151-156,<br />

tr. it., pp. 184-188.<br />

8 Cfr. per es. I. Scheffler, Science and Subjectivity, Bobbs-Merrill, Indianapolis<br />

(Ind.) 1967, pp. 51-52 e 82-83, e C. R. Kordig, The Justification of Scientific Change, Reidel,<br />

Dordrecht 1972, passim.<br />

9 R. Rorty, Objectivity, Relativism and Truth, Cambridge University Press, Cambridge,<br />

1991, p. 22.<br />

10 Cfr. ibid., p. 29.<br />

11 Ibid., p. 39.<br />

12 Come ha notato giustamente K. O. Apel, la comprensione da parte dell’uomo<br />

del mondo presuppone in senso pragmatico-trascendentale una comunità dell’argomentazione,<br />

presuppone cioè almeno gli altri scienziati come co-soggetti della comunicazione:<br />

cfr. per es. K. O. Apel, Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.<br />

M. 1973, tr. it. parziale Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977.<br />

13 R. Rorty, Objectivity, Relativism, and Truth, cit., p. 43.<br />

14 Su questo punto d’importanza decisiva sono costretto a rinviare, per es., a M.<br />

Buzzoni, Scienza e tecnica. Teoria ed esperienza nelle scienze della natura, <strong>Studium</strong>, Roma<br />

1995, cap. 2.<br />

15 Mutatis mutandis, queste due accezioni della distinzione fra contesto della scoperta<br />

e contesto della giustificazione, a ben vedere, guidano a comprendere due necessarie<br />

condizioni di possibilità del dialogo interculturale: possiamo dialogare insieme e<br />

comprendere i nostri rispettivi e diversi punti di vista (e anche i diversi, ma effettivi bisogni<br />

che vi possono essere collegati), soltanto perché possiamo ricostruire i passi metodici<br />

che ne fondano eventualmente le reciproche pretese, ma ciò d’altro canto non sarebbe<br />

possibile, se non si presupponesse la possibilità di assumere il medesimo punto di<br />

vista trascendentale sulla realtà, la possibilità cioè di accordarci su quali sono i nostri<br />

reali bisogni reciproci (per poter poi cercare di stabilire, in un momento che però non è<br />

più soltanto conoscitivo, ma è tipicamente morale, quale situazione storica effettiva potrebbe<br />

soddisfarli con maggiore giustizia).

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