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relativity of linguistic isolation: the etruscan case - Nostratica

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Luigi Della Rosa<br />

ldr47@libero.it<br />

RELATIVITY OF LINGUISTIC ISOLATION:<br />

THE ETRUSCAN CASE<br />

A. The Etruscan language is genetically nostratic, as we can easily see<br />

considering his grammar;<br />

B. in any <strong>case</strong> Etruscan is not Indo-European;<br />

C. we may ony think about a relative proximity to <strong>the</strong> Anatolian branch<br />

<strong>of</strong> Indo-European;<br />

D. Etruscan lexicon is in <strong>the</strong> main part non-Nostratic, because <strong>of</strong> <strong>the</strong><br />

influence <strong>of</strong> non-Nostratic languages;<br />

E. <strong>the</strong>se languages are Dené-Caucasian, Afro-Asiatic, and Old European<br />

(or Mediterranean, to use an older terminology).<br />

F. <strong>the</strong> simplicity <strong>of</strong> Etruscan grammar (as far as we can say to know it)<br />

and <strong>the</strong> manifold origin <strong>of</strong> his lexicon allow us to say (although it may seem a<br />

little laughable) that Etruscan was born as an ante litteram pidgin, to develop<br />

afterwards as a Creole.<br />

Descrivere qual è il nostro grado di conoscenza della lingua etrusca è<br />

tutto sommato abbastanza semplice. Le iscrizioni che sono state ritrovate, e<br />

che risalgono al periodo compreso tra il sec. VII a.C. e il I d.C. sono<br />

migliaia e migliaia (più di quelle in latino della stessa epoca). La maggior<br />

parte di esse però sono funerarie e per di più piuttosto brevi. Ciò significa<br />

che siamo ampiamente informati sull'onomastica, ma il numero delle normali<br />

voci lessicali che ci sono rimaste è veramente limitato.<br />

Di una parte di esse ci è noto il significato, come per svariati oggetti di<br />

uso comune, per lo più piatti, vasi ed altri contenitori, e peraltro tali<br />

vocaboli sono spesso mutuati, quali imprestiti culturali, dal greco. Di altre<br />

parole si è riusciti a determinare la sfera semantica, senza però ottenerne il<br />

significato preciso. Altre ancora rimangono tuttora senza traduzione. E<br />

comunque, quand'anche si riuscisse a tradurre perfettamente tutti i testi che


si sono conservati, rimarrebbe ignota la maggior parte delle parole che in<br />

una qualsiasi lingua fanno parte del lessico base.<br />

In questo senso, possiamo ritenere che in realtà l'Etrusco rimarrà<br />

sempre una lingua fondamentalmente sconosciuta, in quanto appare<br />

irrealistico sperare in sensazionali ritrovamenti, in particolare di iscrizioni<br />

bilingui, che possano cambiare radicalmente l'attuale state <strong>of</strong> <strong>the</strong> art. La<br />

stessa Tabula Cortonensis e le Lamine di Pyrgi, tanto per ricordare<br />

ritrovamenti particolarmente importanti di questi ultimi decenni, hanno solo<br />

permesso, assieme ad altri minori, di migliorare le conoscenze precedenti, e<br />

di ottenere complessivamente dei risultati certamente non disprezzabili in<br />

sé; ma non hanno potuto cambiare i termini della questione, così come li<br />

abbiamo appena enunciati. In realtà solo il possesso di testi di natura<br />

letteraria, e di sufficiente lunghezza, ci consentirebbe di avere dell'Etrusco<br />

qualcosa di più di una conoscenza superficiale.<br />

Possiamo fare un esempio molto semplice. Supponiamo che il latino<br />

fosse una lingua perfettamente ignota. Basterebbe allora il ritrovamento di<br />

un ampio corpus, quale quello formato dagli scritti di Cicerone, tra lettere,<br />

opere politiche, filos<strong>of</strong>iche ed orazioni, per permetterci una ampia e<br />

soddisfacente decifrazione. Se poi fosse in nostro possesso anche l'opera di<br />

Plinio il vecchio, saremmo veramente fortunati, perché verrebbe a nostra<br />

conoscenza anche una ricca messe di termini tecnici e scientifici, che<br />

arricchirebbe in qualità e quantità il lessico a noi pervenuto.<br />

Tanti hanno cercato di arrivare ad una più ampia interpretazione delle<br />

iscrizioni in nostro possesso, partendo dall'ipotesi dell'appartenenza<br />

dell'Etrusco a questa o quella famiglia <strong>linguistic</strong>a. La difformità delle<br />

“soluzioni” così ottenute è stata tale da gettare ampio discredito su questi<br />

tentativi.<br />

Come ci viene detto dagli specialisti in materia, il metodo corretto<br />

sarebbe prima di arrivare alla comprensione dei testi conosciuti; poi<br />

semmai, sulla base di questa, si può tentare di determinare la posizione<br />

dell'Etrusco nell'ambito delle varie famiglie <strong>linguistic</strong>he. In pratica, ciò ha<br />

soltanto significato dover considerare l'Etrusco una lingua isolata.<br />

Ora, il ragionamento appena espresso sembra in effetti ineccepibile a chi<br />

chiunque consideri seriamente il problema. Ma forse oggi è possibile


ibaltare i termini della questione, grazie a qualcosa di nuovo nel campo<br />

delle ricerche <strong>linguistic</strong>he: vale a dire, forse è possibile pervenire ad una<br />

classificazione dell'Etrusco, senza peraltro che ciò possa portare, sia ben<br />

chiaro, ad un sensibile miglioramento della nostra conoscenza di tale lingua.<br />

Ciò non è affatto strano: siamo e saremo sempre di fronte, come abbiamo<br />

detto, al problema costituito dalla mancanza di ampi testi di carattere<br />

letterario.<br />

Il tema che ci si pone di fronte è quello dell'origine del linguaggio umano<br />

e della classificazione delle varie lingue. Fino a qualche secolo fa, nella<br />

nostra parte del mondo, nessuno dubitava della comune origine di tutte le<br />

lingue, sulla base, beninteso, di quanto ci dice la Bibbia. Successivamente,<br />

come sappiamo, tale concezione è stata via via sempre più combattuta e<br />

respinta. D'altronde l'evidenza era proprio di segno contrario, e i viaggi e le<br />

esplorazioni geografiche hanno finito col farci conoscere un numero enorme<br />

di lingue estremamente diverse tra loro.<br />

Verso la fine del '700 però, con W. Jones, si arriva alla scoperta della<br />

somiglianza del sanscrito, e di altre lingue indiane, con le lingue parlate in<br />

Europa. Ad esser giusti, già il nostro Sassetti, nel XVI secolo, se ne era<br />

accorto, ma solo dopo le comunicazioni del Jones si assiste alla nascita della<br />

<strong>linguistic</strong>a comparata e alla definizione della famiglia indoeuropea.<br />

Agli inizi del XX secolo il danese H. Pedersen crea il concetto di lingue<br />

“nostratiche”: egli si accorge come tante lingue europee ed asiatiche<br />

mostrino dei tratti comuni. Non è necessario fare qui minutamente la storia<br />

dell'evoluzione della sua idea, ripresa inizialmente soprattutto da studiosi<br />

sovietici, e variamente modificata nel corso degli anni. Ci limitiamo a<br />

ricordare i nomi di M. Illich-Svitych, V. Shevoroshkin, A.S. Starostin e A.<br />

Dolgopolskij. Anche in America si sono avuti studi di estrema importanza,<br />

dopo quelli di un precursore quale E. Sapir; ricordiamo A. Bomhard, J. H.<br />

Greenberg e M. Ruhlen.<br />

È bene sottolineare, perché sia ben chiaro, che non esiste una perfetta<br />

identità di vedute tra i vari nostraticisti, e questo, come facilmente si può<br />

arguire, è un argomento ampiamente sfruttato dai detrattori della teoria.<br />

Peraltro la mole dei dati che a mano a mano vengono raccolti depone, a<br />

nostro parere, a favore della fondatezza dell'esistenza di una macr<strong>of</strong>amiglia<br />

nostratica; non solo, ma si è arrivati a ipotizzare anche altre macr<strong>of</strong>amiglie.


Lo stesso Greenberg è riuscito a classificare tutte le lingue africane in<br />

sole quattro grandi famiglie (Khoisan, Niger-Kord<strong>of</strong>aniano, Nilo-<br />

Sahariano, Afroasiatico) e a far accettare i suoi risultati, superando le<br />

iniziali opposizioni. Ancora lui ha classificato le lingue parlate nel continente<br />

americano in tre famiglie solamente (Eskimo-Aleuta, Na-Dené e<br />

Amerindo) qui peraltro incontrando aspra opposizione da parte della<br />

maggior parte dei linguisti.<br />

Oggi è possibile pensare, e la cosa non appare più utopistica come un<br />

tempo, ad una comune origine di tutte le lingue umane. È così possibile<br />

rivalutare l'opera del nostro A. Trombetti, che nei primi decenni del XX<br />

secolo aveva appunto osato ipotizzare la monogenesi delle lingue umane.<br />

Certo delle sue singole affermazioni ed intuizioni solo una parte potrà oggi<br />

essere considerare valida, stante il progresso successivo delle ricerche, e<br />

d'altronde la <strong>linguistic</strong>a non è una scienza esatta come la matematica;<br />

rimane il fatto che la sua idea fondamentale oggi trova sempre più elementi<br />

a suo favore, e non sembra più, come un tempo, solamente una ingenua e<br />

generosa utopia.<br />

Una ricerca particolarmente importante è quella condotta da J.D.<br />

Bengtson e M. Ruhlen (Global Etymologies). Tali autori sono riusciti ad<br />

identificare 27 etimologie globali, vale a dire 27 radici presenti nelle diverse<br />

famiglie <strong>linguistic</strong>he.<br />

Possiamo affermare che in questo tipo di ricerche <strong>linguistic</strong>he, gli<br />

studiosi si sono trovati affiancati, a differenza che nel passato, da esperti di<br />

altre discipline, i cui risultati non fanno che corroborare le nuove teorie.<br />

Basti pensare al lavoro di un genetista quale L.L. Cavalli Sforza e di altri<br />

come lui. Oggi, grazie ai risultati di tali ricerche, possiamo affermare di<br />

essere tutti discendenti di una Eva africana, e che i nostri primi antenati<br />

vivevano appunto in Africa orientale, da cui si sono poi diffusi su tutto il<br />

resto del pianeta. Inoltre si ritiene che, stante le difficoltà per la<br />

sopravvivenza, i vari gruppi umani che si sono staccati via via dai gruppi di<br />

originaria appartenenza dovevano necessariamente possedere già una forma<br />

di linguaggio; senza la quale, e quindi senza una ampia possibilità di<br />

comunicare, non avrebbero potuto validamente organizzarsi. Oltre alla


monogenesi della razza umana, avremmo dunque anche una comune origine<br />

delle lingue, nonostante l'apparenza, causata dai mutamenti <strong>linguistic</strong>i<br />

avvenuti nel corso di migliaia e migliaia di anni, faccia piuttosto pensare al<br />

contrario.<br />

Abbandonando ora queste considerazioni molto ampie e generali, ed<br />

avvicinandoci di più al tema principale di questo saggio, veniamo a parlare<br />

delle due grandi macr<strong>of</strong>amiglie interessate dal nostro discorso. La prima è<br />

quella <strong>Nostratica</strong>.<br />

Come detto in precedenza, essa in realtà non è stata definita nella<br />

stessa maniera da quanti se ne sono occupati. Sceglieremo, tra le tante, due<br />

delle più autorevoli ipotesi che sono state proposte, quella di A.R. Bomhard<br />

& J.C. Kerns (The Nostratic Macr<strong>of</strong>amily. A Study in Distant Linguistic<br />

Relationship), e quella di J.H. Greenberg (Indo-European and Its Closest<br />

Relatives), che possiamo considerare sufficientemente rappresentative, sia<br />

dei punti di convergenza, che sono molti, sia di quelli in cui le vedute invece<br />

divergono.<br />

In comune le due ipotesi prevedono, all'interno della macr<strong>of</strong>amiglia, le<br />

seguenti famiglie o lingue:<br />

Indoeuropea (lingue neolatine, germaniche, slave, baltiche, iraniche,<br />

albanese, greco, armeno etc.);<br />

Uralica-Yukaghir (finnico, estone, ungherese, samoiedo etc.);<br />

Altaica (lingue turghe, mongolo, manciù);<br />

Chukcho-Kamchadala (lingue dei Chukchi e della Kamciatka);<br />

Gilyak (lingua dello stesso nome, parlata nella parte settentrionale<br />

dell'isola di Sakhalin e lungo la costa continentale prospiciente);<br />

Eskimo-Aleuta (lingue di eschimesi ed aleuti);<br />

Etrusco, tra le lingue estinte.<br />

Per la verità la posizione dell'etrusco non è perfettamente definita<br />

all'interno della macr<strong>of</strong>amiglia nostratica; in particolare Greenberg, che ha<br />

preso in considerazione tale lingua dopo che essa era stata accettata nel<br />

Nostratico da Bomhard e Kerns, dichiara la sua incertezza se ritenere<br />

l'etrusco quale un membro indipendente del Nostratico, ovvero<br />

appartenente all'Indoeuropeo, eventualmente al suo ramo anatolico, oggi del


tutto estinto.<br />

Questo è comunque il nocciolo comune del Nostratico. Ad esso<br />

Bomhard e Kerns aggiungono le seguenti famiglie o lingue:<br />

Kartvelica (georgiano)<br />

Afroasiatica (nuova denominazione delle lingue una volta chiamate<br />

camito-semitiche: arabo, ebraico, berbero, amarico, somalo)<br />

Elamo-Dravidica (lingue del sud dell'India: tamil, telegu, kannada,<br />

malayalam etc. più l'antica lingua dell'Elam, oggi estinta)<br />

Sumero, altra lingua estinta.<br />

In quanto a Greenberg, va specificato che questo studioso ha preferito<br />

utilizzare, anziché il termine di Nostratico, quello di Eurasiatico, stante la<br />

collocazione prevalente delle lingue da lui prese in considerazione. Se non ci<br />

fosse altro, si potrebbe allora dire che l'Eurasiatico di Greenberg altro non è<br />

che un importante sottogruppo del Nostratico. Ma le cose non stanno<br />

esattamente così, in quanto egli, a differenza di Bomhard & Kerns, ha<br />

ritenuto di riunire sotto l'etichetta di Eurasiatico anche un ulteriore gruppo<br />

costituito da Coreano, Giapponese ed Ainu.<br />

Ora, le differenze che vi sono tra le varie formulazioni della famiglia<br />

nostratica sono evidenti e non vanno sottaciute. Esse anzi sono sottolineate<br />

da chi si oppone, spesso aspramente, a queste teorie. Peraltro, tali<br />

differenze sono in realtà, secondo noi, meno gravi di quanto tali detrattori<br />

pretendano. In pratica, per riportare con parole nostre l'opinione di<br />

Greenberg, potremmo dire che, mentre per Bomhard & Kerns le lingue<br />

afroasiatiche, indoeuropee, uraliche e le altre comprese nel loro Nostratico<br />

sono tra loro sorelle, per Greenberg le lingue afroasiatiche sono soltanto<br />

cugine delle altre sopra citate, vale a dire il rapporto di parentela è più<br />

lontano, ma non viene comunque assolutamente negato. Ci troviamo<br />

semplicemente di fronte ad una diversa ricostruzione di un comune albero<br />

genealogico.<br />

L'altra grande macr<strong>of</strong>amiglia che dobbiamo prendere in considerazione,<br />

e la cui esistenza è stata affermata solo in anni recenti, è quella Dené-


Caucasica. Ad essa apparterrebbero le seguenti lingue:<br />

Basco (nella zona pirenaica tra Francia e Spagna, sulla costa atlantica)<br />

Lingue Caucasiche (del nord e dell'est; tra esse, si noti, non c'è il<br />

georgiano, che abbiamo visto invece appartenere al ramo Kartvelico del<br />

Nostratico)<br />

Ket (lingua siberiana, parlata nella valle dello Jenisei)<br />

Burushaski (parlata nel Nord del Pakistan, nella valle degli Hunza)<br />

Lingue Sino-Tibetane (cinese, o meglio le varie parlate cinesi; tibetano,<br />

birmano)<br />

Lingue Na-Dené (Nord America; parlate alcune lungo la costa del<br />

Pacifico, come il tlingit; altre all'interno, tra cui apache e navajo.<br />

Come è evidente, la collocazione delle lingue appartenenti alla<br />

macr<strong>of</strong>amiglia Dené-caucasica non potrebbe essere più varia e frastagliata;<br />

la semplice spiegazione è che essa sia apparsa in tempi precedenti l'entrata<br />

in scena delle popolazioni nostratiche, che hanno mano a mano occupato la<br />

maggior parte della zona settentrionale del vecchio continente, relegando in<br />

aree periferiche baschi, caucasici etc. Per l'esattezza va però anche<br />

ricordato che, nel caso delle popolazioni sino-tibetane, la loro collocazione<br />

originaria era comunque diversa da quella attuale, e che esse si sono poi<br />

notevolmente espanse nel tempo, a differenza di tutte le altre.<br />

Sono dunque due le macr<strong>of</strong>amiglie che prenderemo in considerazione a<br />

proposito dell'etrusco, o magari tre se, seguendo Greenberg, si voglia<br />

collocare a parte, e non nel suo Eurasiatico, le lingue afroasiatiche.<br />

Giunti finalmente all'argomento principale, è opportuno anticipare per<br />

chiarezza le conclusioni a cui crediamo di poter arrivare, e che saranno<br />

corroborate via via da un non disprezzabile numero di distinte<br />

considerazioni.<br />

Secondo noi, dunque, è oggi possibile affermare che:<br />

A. l'Etrusco è una lingua geneticamente nostratica, come si può<br />

arguire, già a sufficienza, da numerosi tratti riguardanti la grammatica;<br />

B. non appartiene però al ramo indoeuropeo del nostratico;


C. si può pensare al più ad una certa vicinanza con l'estinto ramo<br />

anatolico delle lingue indoeuropee (vicinanza, non appartenenza, come per<br />

l'Afroasiatico rispetto all'Eurasiatico secondo Greenberg);<br />

D. ha subito in misura notevole l'influsso di lingue palesemente non<br />

nostratiche per quanto riguarda il lessico;<br />

E. tra esse troviamo lingue appartenenti alla macr<strong>of</strong>amiglia Denécaucasica<br />

e a quella Afroasiatica. Una parte ancora del lessico, di<br />

proporzioni rilevanti, è probabilmente da attribuire a popolazioni che in<br />

Europa hanno preceduto sia gli Indoeuropei, sia i Dené-Caucasici; abbiamo<br />

dunque un substrato che possiamo definire mediterraneo, secondo vecchie<br />

formulazioni, ovvero dell'Europeo antico, secondo la più recente<br />

terminologia di M. Gimbutas; rimane la possibilità che tale sostrato in<br />

qualche modo sia avvicinabile, se non proprio riconducibile, alla<br />

macr<strong>of</strong>amiglia Afroasiatica.<br />

F. l'Etrusco deve essersi dunque formato dalla commistione di lingue<br />

diverse ed appartenenti a famiglie diverse; l'apporto esterno che si è<br />

riversato su di una base nostratica è stato talmente elevato (come si deduce<br />

dalla impossibilità di ricondurre al Nostratico la maggior parte del lessico)<br />

che in tal senso possiamo considerare l'Etrusco come formatosi inizialmente<br />

come pidgin, per divenire poi una lingua creola ante litteram, benché<br />

entrambi i termini appaiano inevitabilmente risibili in quanto per noi<br />

anacronistici.<br />

Andiamo per ordine e illustriamo quanto appena affermato, punto per<br />

punto.<br />

A. Vi sono numerosi tratti grammaticali tipici delle lingue nostratiche,<br />

che si possono agevolmente riscontrare in quel che ci rimane dell'Etrusco,<br />

nonostante la nostra conoscenza solo frammentaria della sua grammatica.<br />

Nella esposizione che segue ci rifacciamo all'opera di Greenberg (Indo-<br />

European and Its Closest Relatives. The Eurasiatic Language Family, Vol.<br />

I ) in cui la materia è diffusamente trattata. Abbiamo scelto di segnalare i<br />

singoli tratti nell'ordine e con la stessa numerazione utilizzata in tale lavoro.<br />

Solo una minima parte dei suoi esempi sarà utilizzata, in quanto non<br />

riteniamo necessario illustrare qui quanto Greenberg ha efficacemente<br />

dimostrato. Riportare per esteso le sue argomentazioni ed i suoi esempi


allungherebbe oltremodo il nostro lavoro, che intende invece essere il più<br />

breve possibile, per permettere così di concentrare l'attenzione sulle nostre<br />

particolari affermazioni. I pochi esempi riportati sono in parte nostri, e<br />

riguardano prevalentemente il latino e qualche altra lingua, scelta spesso tra<br />

quelle viventi, in quanto sono così più adatti ad essere intesi e a far<br />

comprendere il significato e l'evoluzione semantica dei tratti stessi.<br />

Le singole specifiche ipotesi e gli esempi che invece riguardano<br />

l'Etrusco sono tutti nostri, in quanto Greenberg non ne riporta alcuno nella<br />

sua esposizione dei tratti grammaticali eurasiatici, ma si limita unicamente<br />

(pagg. 22-23 op. cit.) ad indicare poche forme lessicali (come tul, tur-).<br />

Il che dunque significa, si ripete per chiarezza, che l'individuazione dei<br />

tratti grammaticali eurasiatici qui sotto indicati è opera del Greenberg (o di<br />

altri autori a cui lui si può esser rifatto in singoli casi), mentre il loro<br />

riscontro in Etrusco, corretto o errato che sia, è totalmente opera di chi<br />

scrive. Aggiungiamo ancora che i tratti di cui si parla possono essere di<br />

volta in volta, nelle singole lingue eurasiatiche, proclitici o enclitici, ovvero<br />

parole isolate, mentre nell'Etrusco si riscontrano quasi esclusivamente come<br />

enclitici, e solo in qualche caso come parole isolate.<br />

1. M indicante la prima persona. Tratto ampiamente presente nel<br />

Nostratico (indoeuropeo e non). Riconosciamo, in latino, forme verbali<br />

come sum, legam, ed i pronomi me, mihi, e potremmo aggiungere tantissimi<br />

esempi dalle lingue moderne, a cominciare dall'italiano.<br />

Per l'Etrusco è ben noto il pronome soggetto mi, “io”.<br />

8.1. I ~ E pronome/dimostrativo. In latino abbiamo id, ibi (i-d, i-bi). Si<br />

riconosce tale tratto nelle forme arcaiche etrusche ica, ita, “questo”,<br />

divenute poi eca, eta. In esse, dalla base si è avuto un ampliamento con le<br />

particelle ca, ta, aventi valore rafforzativo.<br />

17. R(I) plurale. Tale tratto, nota il Greenberg, è presente quale<br />

passivo/deponente nelle lingue italiche e celtiche; ed è stato scoperto anche<br />

in tocario, frigio, venetico, e nelle lingue anatoliche. In latino, amantur,<br />

“sono amati”. Si tratta in definitiva di slittamenti semantici, che,<br />

attraverso forme dal significato mediale, hanno condotto fino al significato


passivo. Abbiamo esempi di varie lingue, come il masai in Africa, ed il<br />

chamorro a Guam, in cui vi è una relazione di identità tra terza persona<br />

plurale e passivo. In Etrusco lo troviamo, quale plurale, in varie forme, con<br />

la vocale precedente la vibrante, che varia a seconda della parola coinvolta:<br />

clan → clenar, “figlio → figli”, huS → huSur, “ragazzo → ragazzi”<br />

etc. Ricordiamo che tale plurale è utilizzato in genere con gli esseri animati<br />

(Notiamo per chiarezza che con il grassetto intendiamo indicare la<br />

pronuncia palatale della sibilante; in tal modo utilizziamo la tradizionale<br />

trascrizione dell'Etrusco, senza tralasciare al contempo i risultati ottenuti<br />

da H. Rix in fatto di fonologia. Vedere al proposito l'Appendice.<br />

Ricordiamo anche che, quando citeremo delle iscrizioni etrusche, useremo<br />

comunque la classificazione di H. Rix).<br />

18. KU plurale. Questo tratto è di diffusione limitata nell'eurasiatico.<br />

Ritroviamo ad esempio dei dimostrativi in un dialetto eskimo parlato in<br />

Groenlandia, che presentano tale forma di plurale. L'Etrusco riserva tale<br />

seconda marca del plurale agli esseri inanimati. La riconosciamo in forme<br />

come *culs → culscva, “porta → porte”.<br />

23. K assolutivo. Anche questo tratto compare in eskimo, come -q. In<br />

etrusco è utilizzato per formare sostantivi, indicanti concetti generali o<br />

astratti, a partire da forme verbali. In Etrusco, partendo da una radice<br />

zila-, dal significato riconducibile al campo semantico di “governare,<br />

guidare, giudicare” o simili, abbiamo così zilac, indicante una delle<br />

magistrature più elevate (e convenzionalmente tradotta di solito come<br />

“pretura”).<br />

25. N genitivale. Di questo tratto occorrerà parlare un po' più in<br />

dettaglio. Secondo H. Sköld qui ritroviamo in latino il genitivo feminis da<br />

femur. Aggiungerei forme come mein, dein, sein, “mio, tuo, suo” in<br />

tedesco, che oggi vengono definite aggettivi possessivi, ma che in origine,<br />

significando “di me, di te, di lui” altro non erano che il genitivo dei<br />

rispettivi pronomi personali.<br />

In Etrusco abbiamo una forma come mini, normalmente interpretata<br />

come accusativo di mi, “io”. Indubbiamente questo finisce con l'essere il


suo significato, ma noi riteniamo che si possa interpretare come un antico<br />

genitivo. L'iscrizione Vt 3.1: mini muluvanice vhlakunaie venel,<br />

viene normalmente tradotta “mi donò Venel Flacunaie”, ma a nostro<br />

parere la si può interpretare come fosse “di me fece-dono Venel Flacunaie”.<br />

È abbastanza ovvio e normale che uno stesso concetto possa esprimersi<br />

secondo forme grammaticalmente diverse, e l'Etrusco mostra, qui e altrove<br />

di avere costruzioni che non ritroviamo, o non sono abituali, in una lingua<br />

come la nostra.<br />

Allo stesso modo è possibile interpretare un'espressione come Cr. 6.2:<br />

mini zinace vel%ur […] “Velthur fece-opera di me...”, che di solito<br />

viene tradotta più semplicemente, secondo un'espressione più consueta, in<br />

“Velthur mi fece” etc. In Etrusco si esprime lo stesso concetto, ma si<br />

utilizza una diversa forma. Basti pensare, quali facili esempi, allo spagnolo<br />

él vio a su hermano, “egli vide suo fratello”, ove l'accusativo viene espresso,<br />

davanti a persona, con la preposizione caratteristica del dativo; o magari al<br />

nostro dialettale mangia a mammà, in cui ritroviamo invece una forma di<br />

dativo cosiddetto etico.<br />

28. BH locativo. Tratto presente anche in latino, come in nobis,<br />

regibus. L'idea di locativo è alquanto generica; abbiamo in definitiva una<br />

localizzazione in termini di pertinenza, vale a dire “è a noi, è ai re”. Ancora<br />

concetti simili in forme diverse. Ciò che è “a me” è anche “di me”, “mio”<br />

etc. Nel caso dell'Etrusco riconosciamo il suffisso pertinentivo -pi,<br />

utilizzato talora singolarmente, talaltra in addizione ad altri.<br />

Cr. 2.6: raquvupi vis%inas %ahvna, “il calice è a Raquvu<br />

Visthina”; Cl 2.4: en minipi capi, “non prendere da/attingere a quel che<br />

è di me”. Riguardo a questo secondo esempio è necessario ricordare che<br />

minipi viene considerato normalmente quale accusativo del pronome di<br />

prima persona mi. In realtà, secondo noi, abbiamo un ulteriore esempio,<br />

rispetto a quelli già riconosciuti come tali, in cui il tratto pertinentivo si<br />

aggiunge in successione a quello del genitivo.<br />

Il pertinentivo viene considerato in effetti dagli studiosi il locativo<br />

del genitivo, come in mi mulu aulesi (esempio in cui, beninteso, ci<br />

ritroviamo con un diverso suffisso, -si , a indicare tale caso): “io (sono)


donato nell'ambito di Aule”; espressione peraltro ambigua, perché non è<br />

chiaro (a noi almeno, oggi) se Aule sia il donatore o il donatario.<br />

31. I locativo. In latino domi, “a casa”. In Etrusco, da Ta 5.5 abbiamo<br />

zilci velusi hulxniesi “durante la pretura di Vel Hulchnie”. In zilci<br />

ritroviamo zilac “pretura”, con aggiunta di i locativo al suffisso assolutivo<br />

c e con la sincope della vocale a, fenomeno normale in Etrusco, stante<br />

l'accento d'intensità presente sulla sillaba iniziale.<br />

33. T ablativo. Consueto in latino arcaico (-ad, -od), è rimasto in<br />

parole come apud. Il significato originale di questo suffisso è di “sorgente,<br />

luogo di origine”. In Etrusco unial%i (uni-al-%i) significa “Giunone-di,<br />

nella-(casa)” vale a dire “nel tempio di Giunone”. Dopo il suffisso<br />

genitivale -al (che esamineremo in un punto successivo) abbiamo -%i come<br />

forma ablativa in Etrusco. Giova inoltre riflettere sul significato base di<br />

tale suffisso: luogo d'origine, ed anche sorgente (d'acqua). Non ci stupiamo<br />

nel verificare che, recentemente (da D. Steinbauer) è stata proposta con<br />

successo la traduzione “acqua” per la parola (isolata) %i, che evidentemente<br />

ha la stessa origine del suffisso che abbiamo esaminato.<br />

34. KO comitativo. Ci troviamo di fronte ad una particella che come in<br />

altri casi, è in altre lingue un prefisso, mentre è sempre un suffisso in una<br />

lingua agglutinante come l'Etrusco (e che tale è rimasta in definitiva<br />

nonostante talune tracce di incipienti forme flessive). Il significato<br />

originario di questa marca è di “riunione”, cui si è aggiunto, la cosa è<br />

abbastanza comprensibile, quello di “movimento”, per giungere infine, con<br />

tutta una serie di traslati, all'idea definitiva di “passato”. In latino<br />

ritroviamo non altro che la particella cum, isolata o in composizione, come in<br />

communis. Ulteriori esempi, da un'altra lingua indoeuropea (prendiamo<br />

deliberatamente, come già fatto in precedenza, anziché una lingua antica, il<br />

tedesco moderno, a significare come queste forme possano in realtà<br />

resistere durante i secoli e i millenni) sono gemein, “comune (agg.)”, come<br />

pure le normali forme di perfetto e di participio, come in gekommen,<br />

“venuto”.<br />

In Etrusco questo tratto viene utilizzato a significare il passato, come in


lupuce, muluvanice “morì, fece dono” e simili. Abbiamo inoltre una<br />

variante con la forma passiva -xe, come in far%naxe, “fu generato”.<br />

36. K diminutivo. Questa marca, molto diffusa ancor'oggi, e che si<br />

ritrova in forme come Anneke (olandese), in forme romanze come Antonicu,<br />

e persino nel russo vodka (“acquetta!”), la possiamo identificare nella z<br />

etrusca, derivata dalla palatalizzazione di un'originale K. Vedansi i<br />

diminutivi di nomi di persona come larza (da laris) o di parole comuni,<br />

come in certi nomi di recipienti, ad esempio, lextumuza, nome di “piccolo<br />

vaso”, dal greco λήκιθος.<br />

37. S strumentale. In Nostratico tale tratto serve a creare parole<br />

indicanti strumenti, o qualcosa di cui ci si possa comunque servire. Forse qui<br />

è possibile riconoscere una desinenza come in *mantisa, da cui la nostra<br />

“mantissa”. È anche possibile pensare ad una specializzzazione di tale marca<br />

in etrusco, a indicare semplicemente l'articolo. L'esempio riportato, come è<br />

noto, ci proviene solamente come glossa.<br />

40. L possessivo. Ci troviamo di fronte ad un tratto particolarmente<br />

importante. Lo riconosciamo, in Etrusco, nel genitivo in -al, come in<br />

lar%al, “di Larth”, e in innumerevoli altre espressioni. In pratica equivale<br />

ad un genitivo, come nel caso che abbiamo già esaminato, di N genitivale.<br />

Tale forma è presente anche in latino ed è arrivata nella nostra, come in<br />

tante altre lingue. Basti pensare a forme parallele quali “nazione ~<br />

nazionale”, ove il secondo termine, oggi sentito come aggettivo relativo al<br />

primo, è in realtà l'esito di un'antica forma genitivale.<br />

Desideriamo ricordare come questa particella sia pure presente, quale<br />

prefisso, nelle lingue semitiche, ad es. in ebraico: mizmōr l ə dāwīd, “salmo<br />

di David, che è a David”, esempio che si ritrova in tutte le grammatiche.<br />

48. L esortativo. Forse è possibile riscontrare questo tratto in una<br />

forma come acil, che dal Crist<strong>of</strong>ani è stata tradotta come equivalente al<br />

latino opus est, “è necessario (fare)”. Da una radice verbale ac-, indicante<br />

azione, si avrebbe dunque la forma suddetta.<br />

49. T denominativo. Continuando opportunamente con un lessema


già utilizzato, in Etrusco abbiamo zila%, tradotto normalmente come<br />

“pretore”, cioè colui che esercita la carica della zilac (“pretura” o altro<br />

che sia), e che funge da eponimo, per tutto ciò che si svolge zilci, cioè<br />

durante tale sua carica.<br />

57. M negativo. Il significato base di tale marca deve essere “senza”.<br />

In Etrusco si ritrova, come -em nei numerali sottrattivi, ciem cealx,<br />

“27”, vale a dire “3-senza 30”. Da non confondere -em con -um, che ha un<br />

significato opposto, di addizione, e corrisponde alla congiunzione “e”.<br />

60. K interrogativa. Si ritrova, come avverte Greenberg, in tutti i<br />

rami dell'Eurasiatico. In latino abbiamo ad es. quis, quid.<br />

Ma tale tratto ha conosciuto, nel suo uso, uno sviluppo semantico, che l'ha<br />

portato a significare anche “e” congiunzione. Ritroviamo così, sempre in<br />

latino, espressioni quali pater materque, “il padre e la madre”, dopo una<br />

fase in cui il senso era piuttosto “il padre come la madre”. Inoltre, in<br />

espressioni come “chi... chi...” (es.: chi fa una cosa, chi ne fa un'altra)<br />

abbiamo in definitiva il senso di “qualcuno... e qualcun'altro” da cui in<br />

ultimo si arriva al significato di “anche, e”.<br />

In Etrusco riconosciamo la comune enclitica -c, come in apac atic,<br />

“padre e madre”.<br />

Sicuramente utile è riportare in modo sintetico, in quali rami<br />

dell'Eurasiatico di Greenberg siano presenti i tratti appena descritti (con un<br />

punto interrogativo nei casi dubbi:<br />

Indoeuropeo: 1, 8.1, 17, 23, 25, 28, 31, 33, 34, 36, 40?, 48,<br />

49, 57, 60.<br />

Uralico-Yukaghir: 1, 8.1, 23, 25, 28, 31?, 33, 36, 49, 60.<br />

Altaico: 1, 8.1, 17, 23, 25, 28, 33, 36, 40, 48, 49, 57, 60.<br />

Coreano-Giapponese-Ainu: 1, 8.1, 17, 23, 25, 28, 31, 33?, 34?,<br />

36, 37, 48, 49, 57, 60.<br />

Gilyak: 1, 8.1, 17, 18, 23, 25, 28, 33, 34?, 36, 37, 40?, 48?,<br />

49, 60.<br />

Chukcho-Kamchadalo (Chukotian): 1, 17, 18, 23, 25, 28, 31, 33,


34, 40?, 49, 60.<br />

Eskimo-Aleuta: 1, 18, 23, 28, 31, 33, 36, 37, 40, 48, 49, 60.<br />

Notiamo che sono presenti in tutti i rami dell'Eurasiatico i tratti: 1, 23,<br />

28, 49, 60 (ed eventualmente il 33, nel caso si consideri sicura la sua<br />

presenza nel ramo Coreano-Giapponese-Ainu). In definitiva abbiamo<br />

sempre almeno 11 tratti in comune, tranne che con il ramo Uralico, in cui<br />

quelli sicuri sono solo 9. I risultati di confronto sono tali, a nostro parere,<br />

da poter dichiarare con certezza l'appartenenza dell'Etrusco alla famiglia<br />

nostratica.<br />

B. L'Etrusco dunque possiede molti tratti grammaticali in comune con i<br />

vari rami dell'Eurasiatico à la Greenberg (e quindi anche con il Nostratico à<br />

la Bomhard). Non è possibile però considerarlo, come qualcuno tuttora fa,<br />

una lingua Indoeuropea. Molte parole, soprattutto nomi di recipienti, come<br />

dovrebbe esser chiaro a tutti, sono solamente degli imprestiti culturali,<br />

provenienti dal mondo greco, alla pari, né più né meno, dei racconti omerici.<br />

Basti considerare due singoli fatti, ancora di carattere grammaticale, e<br />

la cui importanza è tale da non poter essere minimamente sottovalutata.<br />

Nell'Etrusco abbiamo due diverse possibilità nella formazione del<br />

plurale (in -r o in -cva/-xva) a seconda che ci si trovi di fronte a oggetti<br />

animati o inanimati. Questa duplice possibilità per il plurale si riscontra<br />

altrove nel Nostratico, ma non nell'Indoeuropeo.<br />

In quanto alla distinzione di genere (maschile, femminile, neutro) non<br />

possiamo dire che sia una caratteristica del Nostratico; essa è infatti<br />

un'innovazione propria dell'Indoeuropeo; in Etrusco la troviamo solo<br />

nell'onomastica, ma non nei tempi più antichi; di conseguenza, non può che<br />

esser stata causata dall'influsso del circostante ambiente italico. Quindi<br />

l'Etrusco è geneticamente nostratico, come ampiamente dimostrato dai<br />

numerosi tratti grammaticali appena illustrati, ma in ogni caso, nonostante<br />

talune somiglianze, non è (e non può essere) indoeuropeo. E per tale<br />

affermazione è appunto già sufficiente il basarsi anche solo su considerazioni<br />

di carattere grammaticale.


C. In passato ed ancora oggi sono stati sottolineati certi collegamenti che<br />

si possono fare tra le estinte lingue indoeuropee dell'Anatolia e l'Etrusco.<br />

Abbiamo già visto, nel punto precedente, che una appartenenza dell'etrusco<br />

al ramo indoeuropeo è assolutamente da escludersi, e quindi nemmeno si<br />

potrà parlare di una sua appartenenza ad un suo ramo, come quello anatolico.<br />

Ciò non toglie che si possano trovare dei tratti in comune.<br />

Le maggiori difficoltà però, indagando in questa direzione, vengono non<br />

tanto dall'Etrusco, ma dalla conoscenza, realmente scarsa, che abbiamo<br />

delle lingue anatoliche, eccezion fatta per l'hittita.<br />

Sono certamente suggestive le parole di Erodoto che, come è noto,<br />

considera la Lidia quale terra originaria del popolo etrusco. Dionigi di<br />

Alicarnasso riteneva invece che esso invece fosse autoctono, e che avesse<br />

quindi sempre occupato la loro sede storicamente conosciuta sulle coste del<br />

Tirreno. Torneremo oltre su questo tema e, per il momento, ci permettiamo<br />

solo di rilevare come il concetto di autoctonia per noi oggi debba essere per<br />

forza molto relativo, visto che sappiamo bene come in definitiva la razza<br />

umana provenga sicuramente dall'Africa. In antico, il definirli autoctoni<br />

derivava semplicemente dal fatto che dovevano essere ormai molti i secoli<br />

del loro stanziamento in Italia.<br />

Possiamo ricordare, per quanto riguarda il lessico, talune formazioni<br />

analoghe alla nota voce etrusca cepen, dal significato di “sacerdote” o<br />

“capo religioso”. In ebraico abbiamo seren, sicuramente prestito dal filisteo<br />

(ove doveva suonare probabilmente come saren) lingua appartenente alle<br />

lingue indoeuropee del ramo anatolico (vedere gli studi di G. Garbini). E qui<br />

conviene ricordare anche il frigio balēn, “re”; il licio essēn, ”re” e palēn,<br />

“capo”. Il termine etrusco, da cui il latino cupencus, ha indubbiamente una<br />

forma perfettamente analoga a quella delle altre parole qui riportate; ma<br />

oltre a questo non c'è molto di significativo o di utile da aggiungere.<br />

D. Continuando nelle considerazioni di natura lessicale, appare più che<br />

evidente che il vocabolario etrusco, nella limitatezza almeno in cui noi lo<br />

conosciamo, non possa definirsi certamente indoeuropeo, ed abbia solo un<br />

limitato grado di somiglianza con il vocabolario dei singoli rami del<br />

Nostratico. Questo può spiegare in parte i tentativi di chi, di volta in<br />

volta, ha identificato l'Etrusco come una lingua uralica, altaica, dravidica (il


amo dravidico fa parte, ricordiamo, del Nostratico secondo l'ipotesi di<br />

Bomhard), semitica etc. Le somiglianze che di volta in volta si sono<br />

trovate, non dipendono in effetti solo dalla casualità o dalla fantasia dei<br />

singoli, ma, almeno in parte, dipendono anche e sicuramente dal fatto che<br />

l'Etrusco, pur non essendo una lingua indoeuropea, né uralica, né altaica etc.<br />

ha in comune con queste lingue l'appartenenza al Nostratico.<br />

È allora possibile oggi ribaltare il ragionamento di chi ha visto, in<br />

molteplici successive proposte di decifrazione, ampiamente difformi tra<br />

loro, l'evidente prova della loro inconsistenza, e quindi l'impossibilità pratica<br />

della classificazione dell'Etrusco se non come lingua isolata. Oggi come<br />

oggi, checché se ne dica, abbiamo ormai superato i termini con i quali un<br />

tempo si poneva la questione: la necessità cioè di comprendere meglio<br />

l'Etrusco, e solo dopo, eventualmente, la sua attribuzione a questa o quella<br />

famiglia <strong>linguistic</strong>a.<br />

Oggi è in realtà finalmente possibile classificarlo, anche se ciò potrà forse<br />

servire a poco, finché non si ritroveranno (se mai questo dovesse accadere)<br />

dei testi di genere letterario sufficientemente lunghi, che ci consentano di<br />

averne una consistente e reale conoscenza.<br />

Dobbiamo rilevare come, in effetti, il lessico etrusco appaia solo<br />

parzialmente riconducibile al Nostratico. Il contatto con popolazioni non<br />

nostratiche ha contribuito pesantemente nel formare l'Etrusco, quale esso si<br />

presenta nei testi che ci sono prevenuti.<br />

Certo, tutte le lingue, tranne quelle che si parlano in una condizione di<br />

particolare isolamento (ad es. l'islandese, almeno fino ad oggi) risentono di<br />

sensibili influssi provenienti dall'esterno e ne producono a loro volta. Quello<br />

che si vuole intendere è che in alcuni casi questi apporti esterni sono<br />

talmente rilevanti nel loro complesso da modificare in modo drammatico<br />

l'aspetto, le caratteristiche e in definitiva la sostanza di una lingua; questo,<br />

secondo noi, è stato il caso dell'Etrusco. E le particolarità del suo lessico, a<br />

fronte delle evidenti caratteristiche grammaticali di tipo nostratico, non<br />

possono che essere dovute all'influsso prevalente (sul piano lessicale) di<br />

lingue che nostratiche non sono.


E. Abbiamo dunque indizi di un lessico di formazione varia; non<br />

mancano certo elementi che possiamo definire nostratici, assieme ad altri,<br />

più scarsi secondo gli attuali riscontri, di origine dené-caucasica, altri<br />

ancora afro-asiatici. Tantissimi altri termini, però, non sono riconducibili<br />

alle macr<strong>of</strong>amiglie che abbiamo appena nominate.<br />

Iniziando questa analisi, è tutto sommato spontaneo ricercare possibili<br />

apporti provenienti da lingue dené-caucasiche. In ambito più o meno<br />

mediterraneo noi verifichiamo tuttora la presenza del basco, che un tempo<br />

era ampiamente più diffuso, fino ad interessare, ad esempio, i vasti<br />

territori dell'Aquitania, vale a dire l'odierna Guascogna. Abbiamo inoltre le<br />

lingue caucasiche, a ridosso del Mar Nero.<br />

In effetti già in passato non erano mancate ricerche che avevano posto in<br />

relazione l'Etrusco con basco e lingue caucasiche.<br />

Ulteriori ricerche in questa direzione, condotte alla luce delle nuove<br />

teorie sulla macr<strong>of</strong>amiglia Dené-Caucasica, continuano ad accumulare dati,<br />

come in E. Robertson, che pone in relazione l'Etrusco con il phylum<br />

<strong>linguistic</strong>o del Nakh-Daghestan (30 lingue complessivamente).<br />

Limitandoci alle sole nostre ricerche personali, siamo in grado, per ora,<br />

di riportare le seguenti corrispondenze:<br />

*pui “donna” in naga (sino-tibetano), da confrontare con l'Etrusco puia<br />

“moglie”;<br />

*t-riw-s “ore del giorno (di luce), giorno” , in antico cinese, da confrontare<br />

con l'etrusco ril, termine usuale sulle iscrizioni funebri, tradotto<br />

solitamente come “all'età di”. Si tenga presente come in Etrusco la l può<br />

avere carattere velare (foneticamente ril equivale a [riw]);<br />

sik “figlia” in Tinglit (Nord-America), da confrontare con sec, sex<br />

“figlia”;<br />

naba “pianura o valle”, in basco, da cui anche lo spagnolo nava (es. las<br />

Navas de Tolosa). Forse Etrusco naper, tradotto come “misura” (di un<br />

terreno etc.). Se l'accostamento è legittimo, possiamo intravedere un'iniziale<br />

concetto di “estensione, lunghezza”, che può aver portato in un caso al<br />

significato di (grande) estensione di terreno (piano); nell'altro il nome di una<br />

specifica misura.


Decisamente più numerosi sono gli indizi che riportano, una parte<br />

almeno del lessico etrusco, al patrimonio comune del Nostratico e, in grado<br />

minore, a quello specificamente Indoeuropeo. Ciò in definitiva conforta<br />

l'opinione già riportata secondo la quale l'Etrusco deve essere considerato<br />

geneticamente nostratico.<br />

Dalle opere già citate di Bomhard & Kerns, Bengtson & Ruhlen, e di<br />

Greenberg (Vol. 2), ricaviamo una serie di radici, che riportiamo, precedute<br />

rispettivamente dalle sigle “BK”, “BR”, e “G”, con la stessa numerazione<br />

dei singoli originali.<br />

Per praticità, le radici di Bomhard & Kerns sono riportate in forma<br />

semplificata. Nelle ipotesi originali degli autori, infatti, la vocale “ə” è<br />

considerata alternativa a “a”, non essendo da loro ritenuta possibile una<br />

individuazione più precisa; per lo stesso motivo, inoltre, le consonanti mute<br />

non sonore si alternano con le loro forme aspirate, ma qui, per semplicità,<br />

verranno rappresentate solamente come “p h , t h , k h ” etc. Anche qui<br />

riporteremo solo un numero molto limitato degli esempi originali, e forse<br />

non sempre quelli più adatti, non essendo noi competenti in tutti questi<br />

vastissimi campi. Rimane inteso che le ipotesi di accostamento di forme<br />

etrusche a queste radici sono solo nostre, se non altramente indicato.<br />

BK55. p h al, “settlement, settled place”. Presente in IE (Indo-<br />

European; ricordiamo il Greco πόλις, “city, citadel”, ed il Lituano pilìs,<br />

“castle”); Finno-Ugrico (es. Karelio palvi, “dwelling-place, habitation”);<br />

Dravidico (es. Telugu palli, “hut”); Altaico (es. Mongolo balɣasun, “city,<br />

town, village”). Etr. spur-, “città” o concetto analogo. Cfr. G409.<br />

BK89. da, “along with, toge<strong>the</strong>r with, in addition to”. Presente in IE<br />

(come nel Greco οἴκοϑι,“at home”); Kartvelico (Georgiano da, “and”);<br />

Afroasiatico (Hausa dà, “with; and; by, by means <strong>of</strong>”); Elamita da, “also,<br />

too, as well, likewise; so, <strong>the</strong>refore etc.”); Altaico (Mongolo -da); Sumero<br />

(da, “with, toge<strong>the</strong>r with, along with, besides”). Etr. -%i locativo. Cfr.<br />

Greenberg (Vol. 1. - tra i tratti grammaticali: 33. T Ablative).<br />

BK115. t h ar, “to drink”. Presente in Kartvelico (Georgiano mtrval-,<br />

“drunk, tipsy”) e Dravidico (Telugu trāvu, “to drink, to swallow, to eat, to<br />

smoke”). Forse Etr. %rasce, come in Vt S.2: eca sren tva ixnac


hercle unial clan %rasce, “qui si vede come Ercole, figlio di Uni,<br />

succhia (il latte)”; sono peraltro ipotizzabili altre traduzioni per il termine<br />

etrusco, quali “diventa” (figlio di Giunone).<br />

BK221. gad, “to force, drive, or press toge<strong>the</strong>r; to join; to unite; to<br />

ga<strong>the</strong>r (toge<strong>the</strong>r); to collect”. Presente in IE (Inglese mod. to ga<strong>the</strong>r) ;<br />

latino caterva, di probabile origine etrusca); Afroasiatico (come<br />

nell'Ebraico gaδaδ, “to ga<strong>the</strong>r in bands or troops”). In Etrusco ca%ra,<br />

“assemblea” o qualcosa di simile.<br />

BK242. k h ap h , “to take, to seize; hand”. Presente in IE (Latino capio),<br />

“to take, to seize”); Afroasiatico (Ebraico kaɸ, “palm”); Finno-Ugrico<br />

(Finnico käppä, “hand, paw”); Dravidico (Malto kape, “to touch, to<br />

meddle”); Altaico (Turco kapan, “who seizes or grabs”). Etr. capi, come in<br />

ein mini capi, “non prendere di me/del mio”. Cfr. G331.<br />

BK254. k h am, “to seize, to gras, to grip, to clutch”. Presente in IE<br />

(come nell'Inglese hand); Afroasiatico (Accadico kamū, “to capture, to<br />

overcome, to ensnare”); Finno-Ugrico (Finnico kämmen, “palm, flat <strong>of</strong> <strong>the</strong><br />

hand; paw”); Dravidico (Telugu kamucu, “to hold, to seize”). Etr. hu%,<br />

“quattro (four)”. Si ricorda come il concetto di “quattro” sia legato alle dite<br />

della mano, escluso però il pollice (mentre “cinque (five)” corrisponde alla<br />

mano completa: pensare al greco πέντε, ed al prefisso “pan-” indicante<br />

totalità).<br />

Dobbiamo per la verità ricordare che per hu% esiste tuttora incertezza tra<br />

gli studiosi: per alcuni corrisponde infatti a “sei (six)”. Crediamo peraltro<br />

di aver trovato un indizio significativo nel Liber Linteus (LL VIII, 3):<br />

celi. hu%iw. za%rumiw. flerxva. ne%unsl<br />

“Quintile (!), giorno 24, <strong>of</strong>ferte a Nettuno.”<br />

La nostra analisi, in uno studio inedito condotto sul calendario romano<br />

(e sulle influenze che esso può aver ricevuto da quello etrusco) ci ha portato<br />

infatti a ritenere che anticamente il mese di celi corrispondesse a Quintile<br />

piuttosto che a Ottobre, come riportato dalle glosse. Detto questo, e si<br />

tralasciano per brevità i relativi dettagli, ci troviamo a verificare che il 23 di<br />

Quintile a Roma si celebravano i Neptunalia. Per noi si tratta<br />

semplicemente di uno spostamento di una più antica data di celebrazione,<br />

dovuto all'esigenza superstiziosa di evitare i giorni pari del mese.


Trattandosi della festa di una divinità, era abbastanza ovvio anticipare alla<br />

vigilia, piuttosto che posticipare, la festa stessa. Ricordiamo anche, come<br />

ulteriore corrispondenza tra una cerimonia etrusca ed una festa nel<br />

calendario di Roma, da LL XII, 10:<br />

%unem. cialxuw. masn. unialti. ursmnal<br />

“Il giorno 29, <strong>of</strong>ferta (?) nel tempio di Giunone U.”<br />

A fine mese, ci si trovava a ridosso delle Kalendae, festività dedicate<br />

appunto a Giunone. In definitiva, per noi hu% corrisponde a “quattro<br />

(four)”.<br />

BK263. k h ar, “to twist, to turn, to wind”. Presente in IE (Latino<br />

corbis, “wicker basket”); Afroasiatico (Ebraico *karar, “to dance”); Finno-<br />

Ugrico (Finnico kierä, “twisted, wound, rolled up”); Dravidico (come nel<br />

Tamil kaṟaṅku, “to whirl”, o nel Tulu garagara, “a whirling noise”).<br />

Secondo noi Etrusco krankru, riferito a gatto, come nell'iscrizione Vs<br />

7.16, col significato di “che fa le fusa”. C'è una relazione, in qualche modo,<br />

tra il concetto di (danzare) “in tondo” e taluni suoni ronzanti, che danno<br />

l'impressione di ripetersi e, per così dire, di tornare su sé stessi. Per fare un<br />

altro esempio, sicuramente non è un caso che al latino cicada, “cicala”<br />

corrisponda una radice indicante “rotondità, cerchio, punto” etc. in IE come<br />

in afro-asiatico. Accadico kakkabu, “stella”; ed ancora oggi, in italiano<br />

dialettale, cocco per dire “uovo”.<br />

BK326. k wh a, post-positional intensifying and conjoining particle:<br />

“and, also, moreover, etc.” Presente in IE (latino -que, “and” enclitico);<br />

Kartvelico (Medio Georgiano kue, particella intensiva e affermativa);<br />

Uralico (Finnico -ka, -kä, “and... not, nor”); Altaico (Evenki -ka, -kä, -kö,<br />

particella intensiva). Potrebbe avere relazione con la forma di plurale<br />

etrusco in -cva, -xva, e con l'enclitica -c, “e”.<br />

BK519. man, “to divide, to apportion”, da cui progressivamente anche<br />

“to consider, to think > to recount > to speak, to say”. Presente in IE<br />

(Inglese to mind, Latino memini, con analogo significat0); Afroasiatico<br />

(Accadico, manū,“to count, to reckon”); Uralico (Finnico manaa-, “to<br />

warn, to exhort, to admonish, etc”); Dravidico (Iruḷa maṇi, “to talk, to<br />

speak”). Forse in relazione con l'Etrusco *mantisa, da cui la nostra<br />

“mantissa”. Cfr. G388.


BK528. mal, “to fill, to be or become full, to increase”. Presente in IE<br />

(come nel Latino multus); Afroasiatico (Accadico malū, ”to be full, to fill<br />

up”); Dravidico (Tamil mali, “to abound, to be plentiful, to be full, to<br />

increase etc.”). Etr. mlax, “bello”, concetto legato a quello di<br />

“grandezza/grossezza”. Cfr. G262.<br />

BK546. mik', “to exceed, to surpass, to be in excess, to grow, to<br />

increase, to swell, to expand; big, great, much”. Presente in IE (come nel<br />

Latino magnus) e Dravidico (Tamil miku, “to exceed, to surpass, to be in<br />

excess, to grow etc.”). Forse Etr. mex, “assemblea/lega?”, ovvero<br />

“grande?”. Vedi però BK553 che ci sembra più attendibile.<br />

BK548. mag, “to handle, to work with <strong>the</strong> hands”. Presente in IE<br />

(Inglese mod. to make); Afroasiatico (Kambata mek'ees-, “to snatch”);<br />

Uralico (Nenets mee-, “to make, to fabricate (as handicraft), to build”).<br />

Probabilmente Etr. max, “cinque (five)”, inteso come “mano (intera)”.<br />

BK553. mak', “earth, land”. Presente in IE (come nel Gallico<br />

Arganto-magus) e Uralico (Finnico ed Estone maa, “earth, soil, ground,<br />

country, land”). Da confrontare con Etr. mex, per noi “terra (land)”. Se è<br />

esatta la nostra ipotesi, zila% mexl rasnal significhebbe “pretore della<br />

terra etrusca” (e non “dell'assemblea o lega etrusca” o magari “della<br />

grande Etruria”, nel caso fosse invece sicuro l'accostamento con la radice<br />

BK546). Cfr. G118.<br />

BK575. n j aʕar, “to appear, to arise, to sprout, to come into being; to<br />

grow (up), to mature”. Presente in Afroasiatico (Ebraico naʕar, “boy, lad,<br />

youth”); Uralico (Mari nörgö, “sprout, twig, young tree (one year old)”);<br />

Dravidico (Tamil ñāṟu, “to appear, to arise”); Altaico (Mongolo nirai,<br />

“infant, baby, new-born; fresh”). Etr. nur£-, “nove (nine)”, cioè “il<br />

nuovo”, dopo due serie di quattro. Sono noti i rapporti tra i due concetti, di<br />

“nuovo” e di “nove”. Cfr. G362.<br />

BK578. luk', lok', “to ga<strong>the</strong>r, to collect”. Presente in IE (come nel<br />

Latino lego, “to ordain, to appoint”); Afroasiatico (Accadico laqātu, “to<br />

collect, to ga<strong>the</strong>r”); Finno-Ugrico (Finnico lukea, “to read, to count”).<br />

Forse Etr. lucairce, con estensione del significato a “guidare, governare”.<br />

Cfr. G70.


BK601. ruw, row , “to cut, tear, or break apart”. Presente in IE<br />

(Latino ruo, “to fall down, to collapse (intr.), to hurl down (tr.)”; rumpo, “to<br />

break, to shatter, to burst open”) e Finno-Ugrico (Ungherese ró-/rov-,<br />

“to carve, to engrave”). Forse Etr. ruva, “fratello”, nel senso che<br />

rappresenta una parte del gruppo familiare, della comunità.<br />

BR18. pal, “two”. È una delle 27 radici globali di Bengtson & Ruhlen.<br />

Presente nelle famiglie del Niger-Congo (Nimari bala); Nilo-Sahariana<br />

(Maba mbar); Afroasiatica (Dime bal; Kafa barā, “o<strong>the</strong>r”); IE (Russo pol,<br />

“half”); Uralica (Kamassi pjeel, “half, side”); Dravidica (Tamil e<br />

Malayalam pāl, “part”); Indo-Pacifica (Tasmaniano del Sud-Est boula ~<br />

bura); Australiana (Ngiyambaa bulā, “one <strong>of</strong> a pair”; Austroasiatica<br />

(Santali bar); protoMiao-Yao *(a)war ~ (ə)wər, “two”); Daica (Mak wa,<br />

“twin”); Austronesiana (Giavanese kӗbar, “doubled”); Amerinda (Wappo<br />

pʼala, “twins”; Xinca bial ~piar ; Tuyuca pealo, “two”; Wanana pilia). Si<br />

noti la presenza di vocali palatali negli ultimi esempi.<br />

Qui è possibile fare un raffronto con Etrusco zal, “due (two)”, se<br />

ammettiamo che la z etrusca, anziché indicare, come ritenuto in genere,<br />

un'affricata dentale o alveolare come [ts] o simili, indichi piuttosto<br />

un'affricata più o meno palatalizzata. Cfr. italiano piccione dal latino<br />

pipionem, ovvero portoghese chorar da latino plorare. La relativa<br />

discussione costituisce un discorso a parte, che affrontiamo in dettaglio in<br />

Appendice. Se la nostra ipotesi è corretta, con l'etimologia di zal abbiamo<br />

la soluzione a quella che è una vera crux per gli etruscologi.<br />

BR23. tik, “finger; one”. Presente nelle famiglie del Niger-Congo<br />

(Gur dike, “one”); Nilo-Sahariana (Fur tɔk, “one”); Afroasiatica (Oromo<br />

toku, “one”; takku, “palm <strong>of</strong> hand”); IE (Latino digitus, “finger”; Inglese<br />

toe); Uralica (Votiaco odik, “one”); Altaica (Ciuvascio tek, “only, just” e<br />

Chagatai tek, “only, single”); Coreano teki, “one; thing”; Giapponese-<br />

Ryukyu (Giapponese te, “hand”); Ainu tek, “hand”; Gilyak řak, “once”;<br />

Chukchi-Kamchadalo (Camciadalo itygin, “foot, paw”); Eskimo-Aleuta<br />

(Eskimo: Kuskokwim tik(-iq), “index finger”); Yenisei (Proto-Yenisei *tok,<br />

“finger”); Sino-Tibetana (Cinese arcaico *t'iek, “single, one”); Na-Dene<br />

(Tlingit t l' eeq, “finger”, t l ek, “one”); Indo-Pacifica (Proto-Karonan *dik,


“one”; Boven Mbian tek, “fingernail”); Austroasiatica (Vietnamita tay);<br />

Miao-Yao (Proto-Miao *ntaɨ, “point with <strong>the</strong> finger”); Daica (Loi thɛŋ);<br />

Austronesiano? (Proto-Austronesiano *(tu-)diŋ, “point with <strong>the</strong> finger”);<br />

Amerindo (Nootka tak w a, “only”; Mangue tike, “one” etc.).<br />

Etr. %u, %un-, “uno (one)”!<br />

G4. muta, “all”. Presente in Altaico (Manciù mudan, “end”: con<br />

trapasso semantico: se c'è tutto, si è finito); Coreano modu; Antico<br />

Giapponese muta, “toge<strong>the</strong>r with”; Chukchi mitä, “completely”. Cfr. l'Etr.<br />

mun%, da cui Cicerone ha probabilmente ricavato il termine mundus<br />

(concetto di “ordine, ordinamento, essere ordinato”).<br />

G35. hant, “before”. Presente in IE (Latino ante, “in front <strong>of</strong>”); Altaico<br />

(Manciù antu, “sou<strong>the</strong>rn side, foreside”); Coreano? anthä, “fore, before, in<br />

front <strong>of</strong>”. Cfr. Etrusco han%in, “in front <strong>of</strong>”; l'ipotesi è già in Greenberg.<br />

G118. mag, “earth”. Presente in IE (Antico Irlandese mag, “plain, open<br />

field”); Uralico (Finnico ed Estone maa, “land”); Yukaghir (Kolyma mi-be,<br />

“lower end”, literally: “earth-LOCATIVO”); Ainu ma, “peninsula; island”;<br />

Gilyak mi-f, “earth”, literally: “earth-LOCATIVO”); Eskimo-Aleuta<br />

(Alutiiq maʁaq, “swampy area”). Da confrontare con Etrusco mex,<br />

probabilmente “terra”. Vedi discussione in BK553 (e BK 546).<br />

G180. asu, “good”. Presente in IE (Germanico Wisi ~Wesi, “<strong>the</strong> noble<br />

people”, earliest name <strong>of</strong> <strong>the</strong> Goths) ; Altaico (Antico Turco asyg-,<br />

“advantage, gain”); Eskimo-Aleuta (Yupik asiʁ, “be good”). Da cui<br />

Etrusco ais, eis, “divinità”.<br />

G232. mina, “lake”. Presente in Antico Giapponese mina-mina,<br />

“water(s)” ed Ainu mena, “pond, lake”. In Etrusco, come in tarSminaww,<br />

(Tabula Cortonensis), “del lago tarsh”, ovvero “del Trasimeno”. Si noti che<br />

già in Latino si poteva dire semplicemente Trasimenus o Trasumenus,<br />

senza lacus, evitando quella che in realtà è una tautologia. Sono noti casi<br />

analoghi, come (in Libano) la Valle della Beqaa: Ugaritico bqʿ, “fendere,<br />

spaccare”; Ebraico biqʿāh, “pianura”; termini che ci ricordano l'Iberico<br />

vaika, da cui deriva lo Spagnolo vega, “pianura fertile, vallata”; cfr. BK22<br />

bak'- “spaccare”. Ed analogamente, altra tautologia, (in Ispagna) Vall d'<br />

Aran, (dove aran proviene dal Basco).


G262. mel, “many/much”, in cui possiamo vedere il concetto di “tanto”,<br />

“pieno”. Presente in IE (Latino melius, “better”); Uralico (Enets maleo,<br />

“already”; Yurak mӑleś, “to end”); Altaico (Kazakh mol, “many,<br />

abundantly”); Coreano mol-a, “drive toge<strong>the</strong>r, hence all in all, in toto”;<br />

Antico Giapponese mor-, “to fill, heap up”; Gilyak molɣo, “be many”;<br />

Chukchi əməlo,“all” e Kamchadalo mel, “strongly, well”; Eskimo-Aleuta<br />

(Aleuta amnaʁu, “be many, much”). Etrusco mlax, “bello”. È nota<br />

l'endiadi “bello-pieno”, ovvero “bello-grasso”, nei tempi antichi anche più<br />

significativa di oggi. Cfr BK528 e BK 529.<br />

G331. kap, “seize”. Presente in IE (Latino capio, “I take”); Uralico<br />

(Ungherese kapa, “seize, obtain”); Altaico (Ciuvascio xap-, “take”);<br />

Moderno Coreano (kaps, “price”); Antico Giapponese kap- “buy”; Gilyak<br />

(Sakhalin Est kep, “handle”). Etr. capi, “prendere”.<br />

G362. nyar, “spring (season)”. Presente in IE (Inglese year); Uralico<br />

(Finnico nuore-, “young”); Altaico (Khalkha ńaraj, “young”); Medio<br />

Coreano nyəlɨm, “summer”; Antico Giapponese natu, “summer”; Ainu<br />

yarpe “child” (dialect 6, Hattori); Gilyak (Sakhalin yrŋ, “time”); Chukchi<br />

eleel, “summer”. Etrusco nur£-, “nove (nine)”. Cfr. BK575.<br />

G368. tul, “stone”. Presente in Altaico (Ciuvascio čol); Medio Coreano<br />

tōlh. Etr. tul, “confine”, da “pietra di confine”. L'esempio è già in<br />

Greenberg.<br />

G402. kul, “turn”. Presente in IE (Slavo Ecclesiastico kolěno, “knee”);<br />

Uralico (Finnico koljat, “necklace”); Altaico (Medio Mongolo kol-kida-,<br />

“go round and round, be restless”); Medio Coreano kuwɨl- ~ kuul-, “roll”);<br />

Giapponese kuru-, “reel, wind, spin”; Gilyak kulkul, “squint, be crosseyed”;<br />

Chukchi: Koryak kul, “roll” e Kamchadalo kʾele, “to circle”. Etr.<br />

*culs, “porta”. Di questo termine, per l'esattezza, è attestato solo il<br />

plurale culwcva.<br />

G409. palg, “village”. Presente in IE (Greco πόλις, “city”); Uralico<br />

(Carelio palvi, “dwelling, place <strong>of</strong> residence”); Altaico (Antico Turco balɨk,<br />

“city”); Gilyak? pry (secondo Greenberg dovrebbe esserci l anziché r);<br />

Eskimo-Aleuta (Aleuta ula-χ, ”house, dwelling”). Etr. come in spur-,<br />

“città” o simili. Cfr. BK55.


In definitiva, esaminando il lessico etrusco, abbiamo soprattutto trovato<br />

corrispondenze con il Nostratico; in numero decisamente minore con il<br />

Dené-Caucasico. Resta il fatto comunque che la maggior parte del lessico<br />

rimane priva di possibile etimologia, e possiamo ragionevolmente pensare<br />

solo ad una sua origine mediterranea, per esprimere un termine caro ai<br />

vecchi glottologi, ovvero antico-europea, per usare la definizione coniata da<br />

M. Gimbutas. Rimane anche il fatto che, se il basco è una lingua denécaucasica,<br />

allora è estraneo al sostrato mediterraneo, in cui possiamo allora<br />

vedere piuttosto apporti provenienti genericamente dall'Africa, in relazione<br />

soprattutto con la parte “camitica” (berbero etc.) della macr<strong>of</strong>amiglia<br />

Afroasiatica.<br />

F. L'Etrusco probabilmente si è formato come uno strumento atto alla<br />

comunicazione tra popolazioni <strong>linguistic</strong>amente diverse. Conosciamo bene<br />

quale sia questo meccanismo. Una lingua dalla grammatica minima viene a<br />

mano a mano a formarsi con l'uso di vocaboli oggettivamente importanti<br />

nella comunicazione. Si tratta dapprima di un lessico necessariamente<br />

limitato, che va a mano a mano estendendosi. Abbiamo tanti esempi di<br />

queste lingue franche o pidgins dall'epoca delle grandi esplorazioni<br />

geografiche in poi. In molte di queste si trovano elementi di lingue europee<br />

associati a lingue indigene, di Africa, America, Asia e Oceania; ma vi sono<br />

anche altri casi, come in Estremo Oriente, in cui la confluenza è avvenuta<br />

esclusivamente tra lingue non europee. Tutte queste lingue si sono dunque<br />

formate a scopo di comunicazione tra etnie diverse. Un pidgin formatosi in<br />

Europa era il russe-norsk, nato dai contatti tra marinai norvegesi e<br />

sovietici alle Isole Svalbard, ed oggi ormai estinto.<br />

Peraltro, in molti altri casi hanno talmente attecchito, da diventare la<br />

lingua madre delle successive generazioni. Come queste, anche i pidgin<br />

hanno dovuto crescere, ed arricchirsi progressivamente delle possibilità<br />

proprie di tutte le lingue, in modo da poter essere utilizzati in tutti i<br />

molteplici frangenti della vita e dell'esperienza umana. In questo caso,<br />

avendo qualcosa che è sicuramente molto di più di una semplice lingua<br />

franca, si preferisce utilizzare opportunamente un altro termine, quello di<br />

lingue creole, come a dire, lingue “creature”.


Stante la semplicità della grammatica etrusca (quale essa appare almeno,<br />

in base alla nostra comprensione dei testi rimastici) e stante il carattere<br />

composito del lessico, non crediamo di essere lontani dal vero se affermiamo<br />

che si può considerare l'etrusco come un pidgin evoluto in lingua creola;<br />

tutto questo rimanendo definita la sua matrice nostratica.<br />

Si noti che è fondamentale il trovarsi di fronte ad una grammatica, e ad<br />

una sintassi, relativamente semplici; in caso contrario dovremmo<br />

considerare lingue creole tantissime lingue, a cominciare dallo stesso<br />

inglese.<br />

Questa la formazione e lo sviluppo della lingua di un popolo che ha<br />

occupato per secoli, oltre ad altre aree minori, la vasta zona tra Tirreno,<br />

Arno e Tevere. La presenza di iscrizioni su di un ampio territorio ci<br />

testimonia l'uso di una lingua comune, nonostante la presenza di una società<br />

composita. Esisteva infatti una aristocrazia, che possiamo identificare con<br />

gli invasori dominanti, ed una classe servile, costituita dalle popolazioni<br />

vinte, che peraltro non abbandonarono mai del tutto gli sforzi per superare<br />

la condizione di sudditanza.<br />

A conclusione di questo saggio, e benché il discorso che segue sia solo in<br />

parte pertinente al tema del medesimo, è possibile tentare di inquadrare<br />

molto schematicamente il processo di formazione della lingua etrusca.<br />

Rimane inteso che in realtà sussistono decisamente molti problemi ed<br />

incognite, come dimostrano le differenti posizioni degli studiosi; la nostra è<br />

solo una semplice ipotesi che cerca di spiegare un po' di cose.<br />

Tra i cosiddetti Popoli del Mare, in parte Greci, in parte Indoeuropei<br />

non Greci, in parte non Indoeuropei, che si manifestano attorno al 1200<br />

a.C., vi sono i cosiddetti Tursha, che possiamo identificare con gli antenati,<br />

nostratici, degli Etruschi. Essi probabilmente erano già in contatto con<br />

popolazioni che oggi definiremmo dené-caucasiche.<br />

Quei vasti spostamenti di popolazione producono l'invasione dei Dori in<br />

Grecia, dei Frigi in Anatolia, nonché la caduta (quella almeno descritta da<br />

Omero) della mitica città di Troia.<br />

I Tursha, in particolare, ancora non alfabetizzati, si dirigono verso<br />

l'Italia. Si incontrano con altre popolazioni che si possono definire dené-


caucasiche? In ogni caso, con il contatto con altre genti ancora (né<br />

indoeuropee, né dené-caucasiche) e quindi grazie al cosiddetto substrato<br />

mediterraneo o europeo antico, viene a crearsi quanto definiamo popolo,<br />

civiltà e lingua etruschi. Verso il 900 a.C. inizia l'utilizzo delle miniere di<br />

ferro della Toscana, con la successiva espansione della loro potenza.<br />

Successivamente piccoli gruppi di Etruschi si volgono verso l'isola di<br />

Lemno, verso l'Oriente da cui, più o meno, erano arrivati i loro antenati.<br />

Questa è la conclusione cui dobbiamo necessariamente arrivare, se<br />

assumiamo che la lingua etrusca si sia formata in Italia; la loro presenza<br />

deve essere peraltro molto limitata se, a parte qualche rara iscrizione, non si<br />

ritrovano nell'isola particolari resti archeologici da attribuirsi loro.<br />

Verso la fine dell'VIII secolo, con il contatto con le prime colonie<br />

greche in Italia, si assiste all'alfabetizzazione degli Etruschi. Gli Etruschi<br />

di Lemno vi arrivano anche loro, ma in maniera indipendente. Lo<br />

dimostrano le differenze grafiche nei singoli alfabeti.<br />

Verso la fine del VI secolo Milziade invade Lemno e hanno termine le<br />

scarse testimonianze etrusche nell'isola. Probabilmente a seguito di questo<br />

fatto alcuni Lemniti riparano in Italia. Abbiamo un'iscrizione composta<br />

(Fe X.4) ritrovata a Bologna (Porta S. Isaia) e risalente agli anni 400-350<br />

a.C.: Fe 1.7: mi vetuw [k]a%lew Su%i, “Io (sono) la tomba di Vetu<br />

Kathle” e Fe 7.2: lemnitew, “Lemnite (o il Lemnita)”.


APPENDICE<br />

Una rivisitazione del sistema fonologico etrusco.<br />

Nella nostra analisi sarà sufficiente prendere in esame le sole consonanti<br />

mute (stops) e quelle affricate. Tradizionalmente, grazie a tanti fattori,<br />

come la forma con cui sono riportati in etrusco nomi e parole di origine<br />

greca, ovvero la trascrizione latina di nomi etruschi, si suole parlare di<br />

consonanti mute e mute aspirate (stops and aspirated stops): p; t; c, k, q<br />

per [p], [t] e [k]; £, %, x per [p h ], [t h ] e [k h ]. Eventualmente si può<br />

aggiungere che, per una maggiore funzionalità, tale sistema deve prevedere<br />

(se non sempre, almeno in talune posizioni) più che delle mute [p], [t], [k] le<br />

loro controparti deboli, vale a dire delle [µ], [†] e [‡], ma desonorizzate.<br />

Questo, tra parentesi, è quanto incontriamo in tedesco, con le consonanti<br />

iniziali delle parole Partei, Tabak, Kind aspirate, e con le iniziali di Besuch,<br />

Dame, Geburt deboli desonorizzate.<br />

Per l'Etrusco, peraltro, questa analisi non è del tutto soddisfacente. Un<br />

indubbio progresso si è avuto con quanto determinato da H. Rix, che ha<br />

visto piuttosto, nelle consonanti aspirate etrusche, degli stop palatalizzati.<br />

Il Rix ha avuto inoltre il grosso merito di avere distinto tra una sibilante<br />

[s], indicata nei testi prevalentemente con w al nord, e con s, y al sud, ed<br />

una palatale, da lui trascritta J, presente come s al nord, e come w al sud.<br />

Questo in linea generale. In quanto a z [ts], essa sarebbe derivata, per<br />

successiva palatalizzazione, da un'antica k.<br />

I fenomeni di palatalizzazione sono ben noti; non sono prerogativa di<br />

questa o quella lingua, ma anzi, sono molto diffusi, e possono conoscere fasi<br />

successive: come [k] che diventa [tʃ] e poi ancora [ts].<br />

Secondo noi è possibile interpretare la z etrusca come un'affricata<br />

postalveolare [tʃ], alveolopalatale [tɕ] o qualcosa di simile, cioè una<br />

affricata che, esprimendoci alla buona, possiamo definire palatalizzata; non<br />

è possibile naturalmente precisarne meglio l'effettivo valore. In quanto alla<br />

consonante che il Rix trascrive come J, e gli Etruschi, secondo gli usi del<br />

nord e del sud, scrivevano rispettivamente con s e con w, essa è comunque<br />

la sibilante corrispondente all'affricata z. Per cui il suo valore dovrebbe


essere [ʃ], o [ɕ].<br />

In questo modo si giustificano meglio, secondo noi, delle forme dal greco<br />

come ziumite, “Diomede” e simili. Non portiamo altri esempi, che<br />

potranno essere facilmente reperiti.<br />

Preferiamo s<strong>of</strong>fermare la nostra attenzione su due forme secondarie del<br />

numero “due” etrusco, vale a dire eslz, ed eslem, che ritroviamo nelle<br />

forme sottrattive.<br />

eslz ha il significato di “due volte”, e compare in Ta 1.183 e AT 1.108.<br />

L'altro termine compare in AH 1.34: eslem [z]a%rums, “diciotto”, e, per<br />

ben quattro volte nel Liber Linteus: LL VI.14: eslem za%rumiw, LL<br />

XI.8: eslem za%rum, ancora “diciotto” in entrambi i casi; LL XI.12<br />

eslem cealxus, LL XI,17: eslem cialxuw, “ventotto”. Notare negli<br />

ultimi due esempi, a parte l'anomalia tra le forme in ce- e ci-, l'uso<br />

promiscuo di -s, -w. Possiamo ipotizzare una incertezza nella grafia, in un<br />

testo tardo, realizzato quando molti parlanti etruschi potevano avere una<br />

ridotta familiarità con la loro lingua e cultura originarie; ma anche che il<br />

testo stesso sia in realtà il risultato di successivi accrescimenti, in cui si è<br />

rispettata, da parte dello scriba, la grafia dei singoli frammenti originari.<br />

Vi sono ancora altri casi di incoerenze ma, nel complesso, verifichiamo<br />

come in genere, s e w vengano trascritte dal Rix come J e w, in sintonia con<br />

il fatto che il documento rileva un'origine “settentrionale”. Per cui eslem<br />

dovrebbe esser trascritto come eJlem (per noi eSlem, secondo la nostra<br />

scelta di usare comunque la trascrizione ormai classica, sottolineando la<br />

palatalità con il grassetto). Il Rix, in realtà, non può accettare la pronuncia<br />

palatale della sibilante, in quanto il termine in questione è una forma<br />

secondaria di zal, in cui l'affricata non è, secondo l'opinione comune,<br />

palatale, ma piuttosto dentale o alveolare. Ma, una volta che ci siamo resi<br />

conto che la pronuncia di z è piuttosto [tʃ] o [tɕ], per cui zal è [tʃal] o<br />

[tɕal], non è una difficoltà accettare, per la sua forma secondaria, eslem,<br />

(eslem!) la pronuncia [eʃlem] o [eɕlem]. Per quanto riguarda le occorrenze<br />

di eslz, in verità, non è possibile fare il precedente discorso, ed abbiamo<br />

anzi una perfetta coerenza con le altre iscrizioni ritrovate negli stessi siti<br />

(rispettivamente Tomba dei Camna e Musarna/Macchia del Conte).


Altrettanto dicasi per eslem di AH 1.34 (da Bomarzo). Dunque vi sono<br />

delle occorrenze non in accordo con il nostro ragionamento; riteniamo<br />

tuttavia che ci troviamo di fronte, se non a singole incoerenze come nel<br />

Liber Linteus, almeno ad abitudini grafiche divenute tradizionali, al di là<br />

dell'effettivo valore fonetico.

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