la traduzione di Montale di due novelle di Cervantes - Bruno Osimo ...

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03.06.2013 Views

un’opera di finzione letteraria alla quale, per quanto realistica, non bisogna credere come se fosse realtà. La cornice del dialogo, il doppio mezzo della narrazione, scritta dell’alfiere ed orale di Berganza, e la diffidenza di Peralta fungono da ammonimento al lettore che non cada nell’errore di Alonso Quijano/don Quijote: creder vero il contenuto dei libri. La parola dunque funge da mediatrice dei fatti, ma ricopre anche un ruolo fondamentale tra i personaggi delle due novelle, in quanto si tratta in entrambi i casi di due amici che dialogano tra loro. Campuzano, attraverso il racconto delle proprie disgrazie sembra sublimare la propria disperazione, mentre attraverso il dialogo dei cani esprime il suo risentimento verso l’ingiustizia. In molte novelle della raccolta i personaggi vengono elevati dalla qualità del loro parlare, come la piccola gitana che dimostra senza saperlo le proprie origini nobili proprio attraverso la saggezza delle proprie risposte, o l’inaspettata ricchezza del linguaggio di due piccoli delinquenti come Rinconete e Cortadillo, senza contare gli altri numerosi personaggi che vengono riscattati agli occhi degli astanti attraverso la narrazione delle incredibili avventure che hanno vissuto. Il valore del linguaggio nelle avventure di Berganza è sottolineata dalla sua assenza, poiché più volte l’animale non sarebbe incorso in punizioni ingiuste se avesse potuto parlare con gli uomini e rivelare loro la verità. Cervantes esprime lo stupore dei due cani per essere d’improvviso dotati del dono della favella, e rimarca l’importanza di tale opportunità, attraverso la ripetizione proprio della parola “hablar”, cioè “parlare”. Nella seconda battuta del dialogo, Berganza la usa addirittura tre volte nel giro di appena tre righe, e subito dopo Scipione ne fa uso per due volte consecutive distinguendo el “hablar” dal “hablar con discurso”. Montale che, come sappiamo, preferisce la variatio, in questo caso sceglie di conservare la ripetizione ma in modo più limitato. Il testo spagnolo dice “Cipión hermano, óyote hablar y sé que te hablo, y no puedo creerlo, por parecerme que el hablar nosotros pasa de los limites de la naturaleza” [Scipione fratello, ti sento parlare e so che ti parlo, e non posso crederlo, per sembrarmi che il parlare noi supera i limiti della natura], mentre quello italiano riporta “Scipione, fratello, ti ascolto parlare e sento che anch’io ti parlo e non posso crederlo, perché mi pare che questo fatto ecceda dai confini del naturale”. Come si nota, il traduttore diminuisce l’effetto della ripetizione separando i due verbi con l’avverbio “anche” ed evitando il termine la terza volta. Così l’ “hablar con discurso” della battuta successiva diventa semplicemente “discorrere” per evitare la reiterazione. 59

Più sotto, di nuovo Montale evade l’insistenza dell’autore spagnolo sul tema chiave del linguaggio, poiché Berganza fa riferimento alla propria esistenza passata definendoladiscurso de mi vida” che il traduttore rende semplicemente “vita mia”. Il termine in questo caso risparmiato, viene impiegato invece più sotto dove un’ulteriore ripetizione di “hablar” viene reso “metterci a discorrere”. Un procedimento simile avviene nei confronti dei verbi relativi all’udito, senso complementare all’azione del parlare e che ne garantisce la funzionalità. All’uso costante del verbo “oír”, Montale oppone al solito una gamma di termini diversi. Nella seconda battuta, citata sopra, l’espressione sincretica “óyote (per oígote) hablar” è resa con “ti ascolto parlare” che italiano risulta piuttosto forzoso. Montale adotta questa strana costruzione probabilmente perché preferisce usare il verbo “sentire” in altre occasioni, nel campo semantico proprio dell’interiorità piuttosto che dell’udito. Così il “sé” appena successivo, letteralmente “so”, diventa “sento”, mentre, in un'altra occasione poco distante, parlando degli uomini che “han querido sentir que tenemos un natural distinto” si trasforma in “ han potuto trovarci una natura particolare” per variare rispetto al “ho sentito parlare” appena precedente. Poco dopo Berganza racconta di aver appreso un dato inquietante da uno studente di Alcalá de Henares. L’ “oí decir” in questo caso si mantiene in italiano col suo valore di “ho sentito dire” con la sola modifica del tempo verbale. Scipione domanda allora incuriosito “¿Qué le oíste decir?” che Montale riduce a “Che diceva?”, a cui l’amico risponde che il ragazzo spiegava che dei cinquemila studenti iscritti quell’anno all’università, duemila “oían medicina” che il traduttore rende con “son di medicina”. I casi da citare sarebbero numerosi all’interno di tutta la novella, e costituiscono in spagnolo una fitta trama lessicale, mentre nella versione di Montale danno luogo a un continuo esercizio dell’uso dei sinonimi. Ancora una volta, ad esempio, poche pagine dopo un “había oído contar” diventa “a ciò che si dice”, con una forte trasformazione di significato. Montale in questo caso mantiene l’indeterminatezza dell’originale, ma trasforma l’azione singolare del primo caso in un’espressione collettiva e generalizzata. L’annullamento delle ripetizioni in buona sostanza non risparmia nemmeno le parole che per Cervantes dovevano avere un valore semantico davvero rivelante. A sostegno di questa affermazione possiamo osservare ancora un caso evidente. Dopo aver dibattuto sull’origine della loro favella e sulle capacità dei cani, arrivando anche ad accenti inquietantemente apocalittici, Scipione si prende la briga di interrompere tale discorso 60

Più sotto, <strong>di</strong> nuovo <strong>Montale</strong> evade l’insistenza dell’autore spagnolo sul tema chiave del<br />

linguaggio, poiché Berganza fa riferimento al<strong>la</strong> propria esistenza passata definendo<strong>la</strong><br />

“<strong>di</strong>scurso de mi vida” che il traduttore rende semplicemente “vita mia”. Il termine in questo<br />

caso risparmiato, viene impiegato invece più sotto dove un’ulteriore ripetizione <strong>di</strong> “hab<strong>la</strong>r”<br />

viene reso “metterci a <strong>di</strong>scorrere”.<br />

Un proce<strong>di</strong>mento simile avviene nei confronti dei verbi re<strong>la</strong>tivi all’u<strong>di</strong>to, senso<br />

complementare all’azione del par<strong>la</strong>re e che ne garantisce <strong>la</strong> funzionalità. All’uso costante del<br />

verbo “oír”, <strong>Montale</strong> oppone al solito una gamma <strong>di</strong> termini <strong>di</strong>versi.<br />

Nel<strong>la</strong> seconda battuta, citata sopra, l’espressione sincretica “óyote (per oígote) hab<strong>la</strong>r” è resa<br />

con “ti ascolto par<strong>la</strong>re” che italiano risulta piuttosto forzoso. <strong>Montale</strong> adotta questa strana<br />

costruzione probabilmente perché preferisce usare il verbo “sentire” in altre occasioni, nel<br />

campo semantico proprio dell’interiorità piuttosto che dell’u<strong>di</strong>to. Così il “sé” appena<br />

successivo, letteralmente “so”, <strong>di</strong>venta “sento”, mentre, in un'altra occasione poco <strong>di</strong>stante,<br />

par<strong>la</strong>ndo degli uomini che “han querido sentir que tenemos un natural <strong>di</strong>stinto” si trasforma in<br />

“ han potuto trovarci una natura partico<strong>la</strong>re” per variare rispetto al “ho sentito par<strong>la</strong>re” appena<br />

precedente.<br />

Poco dopo Berganza racconta <strong>di</strong> aver appreso un dato inquietante da uno studente <strong>di</strong> Alcalá<br />

de Henares. L’ “oí decir” in questo caso si mantiene in italiano col suo valore <strong>di</strong> “ho sentito<br />

<strong>di</strong>re” con <strong>la</strong> so<strong>la</strong> mo<strong>di</strong>fica del tempo verbale. Scipione domanda allora incuriosito “¿Qué le<br />

oíste decir?” che <strong>Montale</strong> riduce a “Che <strong>di</strong>ceva?”, a cui l’amico risponde che il ragazzo<br />

spiegava che dei cinquemi<strong>la</strong> studenti iscritti quell’anno all’università, <strong>due</strong>mi<strong>la</strong> “oían<br />

me<strong>di</strong>cina” che il traduttore rende con “son <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina”.<br />

I casi da citare sarebbero numerosi all’interno <strong>di</strong> tutta <strong>la</strong> novel<strong>la</strong>, e costituiscono in spagnolo<br />

una fitta trama lessicale, mentre nel<strong>la</strong> versione <strong>di</strong> <strong>Montale</strong> danno luogo a un continuo<br />

esercizio dell’uso dei sinonimi.<br />

Ancora una volta, ad esempio, poche pagine dopo un “había oído contar” <strong>di</strong>venta “a ciò che si<br />

<strong>di</strong>ce”, con una forte trasformazione <strong>di</strong> significato. <strong>Montale</strong> in questo caso mantiene<br />

l’indeterminatezza dell’originale, ma trasforma l’azione singo<strong>la</strong>re del primo caso in<br />

un’espressione collettiva e generalizzata.<br />

L’annul<strong>la</strong>mento delle ripetizioni in buona sostanza non risparmia nemmeno le parole che per<br />

<strong>Cervantes</strong> dovevano avere un valore semantico davvero rive<strong>la</strong>nte.<br />

A sostegno <strong>di</strong> questa affermazione possiamo osservare ancora un caso evidente.<br />

Dopo aver <strong>di</strong>battuto sull’origine del<strong>la</strong> loro favel<strong>la</strong> e sulle capacità dei cani, arrivando anche ad<br />

accenti inquietantemente apocalittici, Scipione si prende <strong>la</strong> briga <strong>di</strong> interrompere tale <strong>di</strong>scorso<br />

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