I <strong>due</strong> decidono dunque <strong>di</strong> andare “al Espolón”, ma il lettore italiano non sapendo essere quello il nome <strong>di</strong> un giar<strong>di</strong>no, forse non capirebbe l’intenzione degli amici se il traduttore non scrivesse “a passeggiare sull’Espolon”. Peralta <strong>di</strong>chiara che lo scopo dell’escursione sarà “recrear los ojos del cuerpos pues ya he recreado los del enten<strong>di</strong>miento” [a ricreare gli occhi del corpo dato che ho già ricreato quelli dell’inten<strong>di</strong>mento], sancendo un parallelismo tra il piacere <strong>di</strong> un bel paesaggio e quello <strong>di</strong> una buona lettura, ma il traduttore, che per tutta <strong>la</strong> novel<strong>la</strong> si è <strong>la</strong>mbiccato per evitare le ripetizioni, anche in questo caso non viene meno al<strong>la</strong> sua poetica scrivendo “per ricreare gli occhi del corpo dopo aver rallegrato quelli dello spirito”. Per quanto una novel<strong>la</strong> possa avere una struttura equilibrata e sia ricca <strong>di</strong> riman<strong>di</strong>, vi sono dei punti critici che hanno un’importanza fondamentale e ai quali è importante prestare partico<strong>la</strong>re attenzione, ed essi sono l’incipit e l’excipit. La frase iniziale e finale <strong>di</strong> un racconto o <strong>di</strong> un romanzo racchiudono sempre una pregnanza <strong>di</strong> spicco proprio in re<strong>la</strong>zione al<strong>la</strong> loro posizione, per cui non si può supporre che <strong>la</strong> loro scelta sia casuale, soprattutto nel Coloquio de los perros, <strong>la</strong> cui conclusione, essendo l’ultima novel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> raccolta, non è solo il finale del racconto, ma anche dell’intero volume e si carica dunque <strong>di</strong> un’ulteriore valenza. La frase con cui termina <strong>la</strong> novel<strong>la</strong> è estremamente incisiva, e dato che <strong>Cervantes</strong> era stato scrittore <strong>di</strong> comme<strong>di</strong>e, mi sbi<strong>la</strong>ncerei a definir<strong>la</strong> teatrale, dato che dopo i racconti rocamboleschi dei vagabondaggi e delle esperienze <strong>di</strong> Berganza, dopo una panoramica sull’intera società spagno<strong>la</strong>, arricchita <strong>di</strong> commenti e morali, i <strong>due</strong> ultimi attori rimasti sul<strong>la</strong> scena non fanno altro che abbandonare il proprio pubblico ed andarsene, <strong>la</strong>sciando alle proprie spalle <strong>la</strong> stanza dei racconti, del<strong>la</strong> lettura e del sonno, vuota ma piena <strong>di</strong> questioni irrisolte. “Vamos” <strong>di</strong>jo el alferéz. Y con esto se fueron” <strong>Montale</strong>, che per tutta <strong>la</strong> <strong>traduzione</strong> ha esercitato il suo spirito <strong>di</strong> libera interpretazione del testo, anche in questo caso pare del tutto in<strong>di</strong>fferente al<strong>la</strong> resa letterale dell’espressione dell’originale per quanto puntuale ed incisiva e per nul<strong>la</strong> ambigua. In questo caso non è <strong>la</strong> sintesi a preoccupare lo scrittore ligure, né <strong>la</strong> comprensibilità del testo, ma probabilmente ritenne che il finale originale non si adattasse al gusto del proprio pubblico, e questa considerazione ci riporta a riflettere ancora una volta sul rapporto tra una <strong>traduzione</strong> e l’orizzonte letterario nel quale viene pubblicata. Che fosse per gusto personale o per accontentare i lettori, <strong>Montale</strong> si concede un ultimo colpo <strong>di</strong> mano <strong>di</strong>chiarandosi ancora una volta prima scrittore e poi traduttore, e scrive: 113
“An<strong>di</strong>amo”, <strong>di</strong>sse l’alfiere. E così fu fatto.” Segue, tra parentesi, nell’e<strong>di</strong>zione del 1941, l’in<strong>di</strong>cazione del traduttore. 114
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