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Copyright© 2004 by<br />
Antonella Giurastante<br />
Via Adriatica, 60/A<br />
66023 Francavilla al Mare (Ch) - tel. 347 4736728<br />
Tutti i diritti sono riservati. All rights reserved.<br />
Ogni riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, è vietata. L’Autore può concedere<br />
autorizzazioni scritte, specie se domandate per motivi di studio e ricerca culturale,<br />
purchè si citi la fonte mediante esplicito riferimento all’Opera e all’Autore.<br />
Intervista di:<br />
Flavia Florindi<br />
Autore:<br />
Antonella Giurastante<br />
Immagine di copertina:<br />
Antonella Giurastante<br />
Davide Biondi<br />
Prima stampa Gennaio 2004<br />
Contributo offerto da:<br />
Ente Provincia di Pescara<br />
Ristampa Gennaio 2007 contributo offerto dal<br />
Comune di Francavilla al Mare (CH)<br />
Stampa MODULAR<br />
Francavilla al Mare (CH)
ELISA MISSAGLIA<br />
Pescara, 31 gennaio 2004<br />
Presentazione delle prima stampa di questo volume<br />
e secondo anniversario della morte di Elisa Missaglia.<br />
Racconto - Testimonianza<br />
delle barbarie naziste vissute nei campi di sterminio.<br />
Intervista di: Flavia Florindi Autore: Antonella Giurastante
Elisa Missaglia è nata a Lecco il 14 Ottobre del 1919. Seconda dei tre<br />
figli di Giuseppina Rusconi, casalinga, e Enrico Missaglia, caporeparto<br />
di una fabbrica di Lecco per la trafilatura fili in acciaio e tessitura di reti<br />
metalliche per gabbionate. Elisa lavorava come operaia nella stessa fabbrica<br />
del padre e fu proprio durante uno sciopero indetto dalla C.N.L. che<br />
il 7 Marzo del 1944 venne catturata dai fascisti e deportata nei campi di<br />
sterminio nazisti.<br />
Scampata alle barbarie ed ai maltrattamenti, ridotta ad una larva<br />
umana, riuscì a tornare a casa il mese di Ottobre del 1945.<br />
Dopo la fine della guerra conobbe Gabriele Giurastante, abruzzese,<br />
anche lui uscito da una forte esperienza di guerra, combattente in Albania,<br />
lì ferito gravemente in trincea dall'esplosione di un proiettile di artiglieria.<br />
Creduto in un primo momento morto, il suo corpo fu miracolosamente<br />
recuperato dal mucchio dei cadaveri. Prestate le prime cure, fu ricoverato<br />
nell'ospedale di Pietra Ligure e poi in convalescenza a Lecco dove<br />
incontrò Elisa.<br />
Elisa e Gabriele si sposarono il 28 dicembre del 1946, la loro è stata<br />
una esemplare vita di coppia, sostegno reciproco nelle tribolazioni, condivisione<br />
piena delle gioie. Dalla loro unione sono nati tre figli: Rita,<br />
Biagio e Antonella.<br />
Nel 1955 Elisa e Gabriele, con i primi due figli, si trasferirono da<br />
Lecco a Pescara.<br />
A Pescara, Elisa visse dedicandosi al lavoro, alla sua famiglia ed agli<br />
altri: il suo, il “nostro” prossimo. Dedicò, infatti, molta parte della sua<br />
esistenza alla cura ed all’assistenza dei malati e degli inabili, nonostante<br />
la sua non perfetta salute.<br />
Ha affrontato ogni problema che la vita le ha posto innanzi, con incredibile<br />
impegno e coraggio, grazie anche al grande sostegno di Gabriele.<br />
Ha accettato, senza mai cedere allo scoraggiamento, le frequenti cure<br />
mediche alle quali, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, si è dovuta<br />
forzatamente sottoporre. Spesso diceva: “Bisogna tirare avanti”.<br />
Purtroppo il cancro è stato più forte di lei. Quando lo ha scoperto, e<br />
non siamo riusciti a nasconderglielo perché lei già sapeva tutto prima di<br />
noi, era ormai in uno stadio molto avanzato, troppo tardi per poter trovare<br />
un rimedio.<br />
Anche allora, nel 1999, è stata esempio di grande coraggio. Non ha<br />
mai smesso di combattere… Sorridendo, mostrando con l'ironia la sua<br />
intenzione di non arrendersi, diceva ai medici che la curavano quando spiegavano<br />
a noi ed a lei i notevoli rischi della terapia e delle tante impegnative<br />
operazioni chirurgiche alle quali è stata poi sottoposta: “Non sono<br />
riusciti i tedeschi ad ammazzarmi…, non ci riuscirete nemmeno voi!…”<br />
Ma purtroppo, dopo due anni di ulteriori sofferenze, il cancro ha vinto<br />
su questa donna grande, forte e coraggiosa. Ha avuto la meglio e lei ha<br />
chiuso per l'ultima volta gli occhi e da essi scendevano lacrime, forse per<br />
la tristezza di dover lasciare i suoi cari, ma poi il suo viso si è disteso in<br />
un lieve sorriso di pace… la sua “croce”, era stata posta ai piedi di quel<br />
Cristo al quale non ha mai smesso di rivolgere le sue preghiere.<br />
4
Flavia Floridi, all’epoca dell’intervista era<br />
una studentessa universitaria: l’intervista qui di<br />
seguito, curata successivamente dalla figlia<br />
Antonella Giurastante, era la parte memorialistica,<br />
viva e pulsante, della sua tesi di laurea.<br />
Attualmente è insegnante di scuola media.<br />
5<br />
<strong>La</strong> Memoria è il nutrimento dell’uomo:<br />
chi dimentica avvizzisce.<br />
Dedicato ai Piccoli affinché sappiano<br />
e ai Grandi affinché ricordino.<br />
Flavia Florindi<br />
Antonella Giurastante, figlia di Elisa Missaglia<br />
e Gabriele Giurastante, ha voluto onorare<br />
la madre dando voce alla sua Memoria, affinché<br />
la sua esperienza non venisse dimenticata ma<br />
oltresì contemplata. Sulla base di una intervista,<br />
ha realizzato questo libro inserendoci ricerche,<br />
note personali ed illustrazioni, dando così maggiormente<br />
modo di comprenderne la <strong>storia</strong>.<br />
Di seguito è riportata un’altra intervista, più<br />
breve, una sorta di riassunto di quella che è stata<br />
l’esperienza di sua madre nei campi di concentramento.<br />
Ha voluto che il messaggio fosse forte e<br />
diretto, come un grido di dolore per le atrocità<br />
che sono state e che, purtroppo, in altre occasioni,<br />
continuano ad esserci. E’ per lei una Storia<br />
da meditare, anche per il modo semplice con<br />
il quale è stata raccontata da una Donna forte e<br />
coraggiosa.
DEDICATO A MAMMA<br />
E’ difficile da capire, ma soprattutto rimane difficile credere che sia veramente potuto accadere tutto<br />
questo… la verità è che ti sei trovata in situazioni di incredulità, che forse hanno smorzato in te il desiderio<br />
di creare uno spazio alla Memoria.<br />
Nonostante ciò, hai sempre voluto donare, come un vero regalo, la tua testimonianza, lasciando sopiti<br />
i tuoi sentimenti di rancore, annullando l’odio e raccontando con tanta dolcezza “<strong>La</strong> tua Storia”, avendo<br />
a volte quasi timore di poter impressionare chi, in quel momento, la ascoltava.<br />
Nei tuoi occhi, nel tuo sguardo, nei tuoi comportamenti, c’è sempre stato qualcosa, qualcosa che<br />
solo chi sapeva poteva capire. Sei stata come un fiore che ha voluto resistere al dolore ed alla sofferenza,<br />
per amore della vita, un fiore che è riuscito a crescere in tutta la sua bellezza, nonostante abbiano<br />
cercato di spezzarlo… perché tu amavi la vita… anche se questa vita, forse, non ti ha dato quanto meritavi.<br />
<strong>La</strong> tua forza ti ha salvata, la tua fede è stata per te compagna di vita, sempre… non ti sei mai lasciata<br />
andare alle carezze, non ti sei mai immersa in un abbraccio, hai sempre risolto i tuoi problemi con<br />
coraggio e dignità… sì, le tue carezze mi sono mancate, ma la tua presenza costante, imponente e certa,<br />
ha compensato questa lacuna, ed ho sempre cercato di capirti…<br />
Ho deciso che questo libro doveva essere pubblicato il giorno che tu, stanca di tutte le sofferenze che<br />
sino alla fine ti hanno tormentata, ci hai lasciati, andando in un posto bellissimo dove sicuramente e<br />
finalmente hai trovato la pace… ti si leggeva in viso… abbiamo visto finalmente il tuo volto distendersi.<br />
Vorrei che la tua “Memoria” diventi un monito per quelle atrocità che sono state e per quelle che purtroppo<br />
ancora oggi continuano ad esserci. Vorrei che la tua “Memoria” sia un elogio a te, grande Donna<br />
coraggiosa, che è stata capace, con quel suo esile corpo, a sopportare tante sofferenze, che è stata capace,<br />
con coraggio e fede, a non perdere mai la speranza di rivedere i suoi cari.<br />
Non ho mai potuto tenere la tua mano nella <strong>mia</strong>, nemmeno quando eri molto malata… tu non volevi…<br />
ho potuto farlo solo quando te ne sei andata… non avrei più voluto lasciarla!<br />
Forse per questo sei venuta a trovarmi e mi hai fatto sentire la tua mano calda nella <strong>mia</strong>… ti ho sentita,<br />
ho avuto paura prima di capire, ma poi, la certezza che eri tu, mi ha riempita di gioia e di conforto…<br />
mi hai voluto dire, prendendomi per mano, che saresti stata sempre con me… come ho potuto meritare<br />
un regalo così bello?<br />
Tu hai dato tanto, sempre, anche quando non potevi!<br />
E’ banale forse dire ti voglio bene?<br />
Te lo dico tutti i giorni… è semplicemente così: Ti voglio bene. Mamma!<br />
Antonella<br />
7
DA MICHELE<br />
Quando penso a <strong>mia</strong> nonna mi viene difficile ricordare il suo viso contratto arrendersi<br />
all’imprevedibilità di un sorriso;… tuttavia, la sua apparente severità era l’inevitabile corollario<br />
delle sofferenze della sua vita.<br />
Questa testimonianza è un dono per noi tutti, perché il tempo, purtroppo, ha il potere di<br />
annebbiare le nostre coscienze anche da grandi catastrofi… non deve succedere!!! Non possiamo<br />
pensare al sacrosanto diritto alla vita ed al rispetto reciproco solo dopo qualche umano<br />
disastro… Non deve succedere!!!<br />
Mi rimane pertanto complicato parlare delle gustosissime ciambelle di riso che la “Lisetta”<br />
preparava nelle riunioni domenicali della nostra famiglia, senza pensare a quel numero<br />
tatuato sull’avambraccio sinistro in cui vedevi la dignità inchinarsi alla follia, marchio indissolubile<br />
che aveva il suo macabro contrappasso nella cieca eliminazione di migliaia di vite<br />
umane.<br />
Grazie Nonna, perché tutti i tuoi cari hanno nel cuore un esempio, e se anche nei nostri<br />
occhi rimane solo una tomba, essa comunque conserva nel suo silenzio le urla del tuo immenso<br />
carisma che Dio ha saputo accogliere e saprà custodire gelosamente per l’Eternità… Un<br />
abbraccio forte dal tuo nipote che forse ti ha dato più pensieri … e che te li dà ancora…<br />
Il buio comparve<br />
e poi una luce<br />
che non tardò ad arrivare…<br />
capimmo dal tuo viso<br />
finalmente disteso<br />
che in realtà morì sofferenza.<br />
O Divina Fede,<br />
apri ora le bianche stanze<br />
a Colei che in vita ti ha sempre adorato<br />
e avvolgi le sue pene<br />
dalla pace a lungo cercata!<br />
O Divino Spirito,<br />
accogli la sua grazia<br />
e custodisci le nostre lacrime<br />
affinché il nostro dolore<br />
trovi ristoro nella sua Memoria.<br />
Vola Anima semplice,<br />
vola leggera,<br />
guarda le meraviglie dell’Eternità<br />
e i tuoi sorrisi spesso nascosti<br />
liberarsi ora privi di alcun turbamento.<br />
Tu,<br />
che ora vivi nel grembo più puro<br />
laddove l’umano pensier non può arrivare<br />
accogli la nostra gratitudine<br />
e da lì<br />
guida il cammino di quell’uomo così dolce<br />
che in vita fedele ti accompagnò con sì grande umiltà.<br />
Addio!<br />
Michele<br />
9
UN PENSIERO A MAMMA<br />
Un foglio bianco dinanzi e tanti pensieri nella <strong>mia</strong> testa. Una valanga di ricordi a rumoreggiare<br />
nella <strong>mia</strong> mente in maniera vorticosa e confusa come neve che, libera, precipita per il<br />
pendio di una montagna. Il desiderio di arrestare questa inconcludente massa di pensieri, di mettere<br />
ordine dove ordine non c’è.<br />
Scontata l’emozione di ripercorrere con la <strong>mia</strong> mente tutte le cose che avrei voluto dirti,<br />
mamma, e che per un motivo o per l’altro, ma spesso per quella sorta di “pudore” che tanta<br />
parte era di te e che mi hai trasmesso, non sono stato capace di dirti.<br />
Non ora, non è più necessario. Io ormai sono per te trasparente, i miei pensieri, le mie<br />
emozioni, le mie meschinità, il mio coraggio, la <strong>mia</strong> viltà, la <strong>mia</strong> cattiveria, la <strong>mia</strong> sofferenza,<br />
la <strong>mia</strong> bontà, le vivo cosciente che le vivi anche tu con me, ma so bene che dove ora<br />
sei hai una visuale di questo mondo terreno molto diversa, non hai più tempo né luogo che<br />
ti assillano.<br />
Vedi ormai l’infinito ed il tempo che ci rimane da vivere nel nostro corpo è per te più rapido<br />
di un battito di ciglia. Ti sei finalmente avvicinata alla verità, forse l’ hai già scorta, forse<br />
già la vivi e quindi non è la <strong>mia</strong> singola azione di uomo che può in qualche maniera farti sorridere<br />
o piangere, ma la tua attenzione è rivolta a quello che ho nel cuore e che, unico bagaglio,<br />
mi porterò nell’attraversare quella stessa porta che tu hai attraversato il 31 gennaio 2002.<br />
Ho scritto quella sorta di “pudore” nell’aprire il tuo cuore, che tanto ha caratterizzato il tuo<br />
comportamento, fino a farti sembrare fredda e distaccata, incapace alle volte di provare sentimenti<br />
ed emozioni.<br />
Tardi ho scoperto che non era così, quando ti ho fatto partecipe di una <strong>mia</strong> decisione che<br />
ti ha sconvolto e, scoppiata in lacrime, hai gridato al mondo quello che, sbagliando, ritenevi<br />
un tuo fallimento.<br />
Mi sono mancate le tue carezze, mamma, ma come posso fartene una colpa? <strong>La</strong> necessità<br />
di reagire alle durissime prove che la vita ti ha posto avanti non ha potuto che cucirti addosso<br />
una protezione apparentemente impenetrabile ai sentimenti. In compenso sei stata<br />
l’esempio per me di come occorre sempre guardare avanti, come reagire con fermezza, coraggio<br />
ed onestà alle avversità.<br />
<strong>La</strong> tua incrollabile fede in Dio giusto e misericordioso, da sempre e dopo il ritorno dalla<br />
prigionia in Germania, l’avere al tuo fianco un compagno di vita sul quale contare, papà, sono<br />
certo ti hanno aiutata a superare le difficoltà più ardue e solo negli ultimi mesi della tua tribolata<br />
vita, nel tentativo improbo ed estenuante di lottare contro una malattia impossibile, hai<br />
a tratti mostrato il tuo viso rigato dalle lacrime e ti sei dichiarata “stufa di vivere”.<br />
Ma sono stati attimi. Docile a chi aveva tracciato il disegno della tua vita, hai continuato<br />
a curarti e fino alla fine ho letto nei tuoi occhi la speranza.<br />
Quale sopravvissuta allo sterminio tedesco, nel racconto terrificante dei lunghissimi mesi<br />
di prigionia trascorsi in maniera disumana, descritti in questo libro – intervista e, negli ultimi<br />
anni, con la tua presenza attiva alle manifestazioni di commemorazione, ti sei fatta carico<br />
di partecipare alla “memoria” per non dimenticare, perché l’urlo di sofferenza di tutti quelli che<br />
hanno subito l’ignominia dei campi di concentramento nazisti, si elevi alto e possente, anche<br />
per tuo mezzo, ad imperituro monito per tutta l’umanità.<br />
Monito che però, sono certo mamma che sarai d’accordo con me, non deve limitarsi a che<br />
un simile genocidio non si ripeta per gli Ebrei o per i prigionieri politici quale sei stata tu,<br />
ma che deve farci guardare alle atrocità commesse anche recentemente, anche in questo esatto<br />
attimo. Deve farci guardare nelle fosse comuni scoperte che contengono i “cadaveri scomodi”<br />
di regimi dittatoriali che convivono con la nostra epoca e che non sono ancora un “imbarazzante<br />
ricordo”, ma una tristissima presente realtà.<br />
Sei con me oggi, come sempre nella <strong>mia</strong> vita. Grazie!<br />
Biagio<br />
11
Una sola parola,<br />
Mamma:<br />
GRAZIE!<br />
Rita<br />
A colei che è stata compagna ed esempio di v ita.<br />
Se il nostro matrimonio ha superato i cinquantacinque anni, non è stato per i singoli meriti,<br />
ma perché ho sposato una Donna stupenda. Non solo bellezza, ma un cuore da amare e che<br />
sapeva amare. Lei ha portato avanti i suoi doveri di mamma, moglie, lavoratrice, con grande<br />
capacità… sembrava fosse nata per questo… lei c’era per tutti, anche per i malati, per gli<br />
inabili bisognosi di aiuto sia materiale che spirituale. Per tale scopo nel 1970 si iscrisse al<br />
Centro Volontario della Sofferenza, per assisterli e curarli con tutto l’amore possibile, con<br />
tutte le sue forze; è stata con loro finchè ha potuto, finchè la sua malattia non l’ha impossibilitata<br />
a compiere quello che per lei era diventato ormai un sereno dovere.<br />
Io l’accompagnavo, ero con lei sempre… ed oggi, ancora oggi e sempre sentirò la sua<br />
mancanza.<br />
Gabriele<br />
Il 7 luglio del 2006 Gabriele Giurastante ha chiuso gli occhi per sempre davanti a noi e li ha riaperti<br />
pe l’eternità, ritrovando, dopo tanto attendere, la sua amata “Lisetta” che aveva, come lui stesso<br />
diceva, “un cuore da amare e che sapeva amare”.<br />
Voglio ricordarti come esempio di saggezza, bontà e dignitosità; hai tracciato la tua vita con una<br />
profonda linea di amore, sulla quale noi, tuoi figli, abbiamo trovato l’esempio che non dimenticheremo<br />
mai.<br />
Antonella<br />
13
Non posso nascondere la <strong>mia</strong> emozione nello scrivere questa breve nota introduttiva<br />
a “<strong>76147</strong> <strong>La</strong> <strong>mia</strong> <strong>storia</strong>”, volume che la Provincia di Pescara decise di promuoverne<br />
la pubblicazione dopo la richiesta della figlia di Elisa Missaglia all’indomani della Sua<br />
morte.<br />
Ricordo ancora la testimonianza semplice e struggente della sua prigionia nel<br />
campo di sterminio di Auschwitz, raccontata nella sala dei Marmi della Provincia, testimonianza<br />
perentoria e drammatica su un luogo dell’orrore per eccellenza.<br />
L’occasione fu allora la consegna dell’attestato che l’amministrazione provinciale<br />
volle dedicare, a lei come ad altri sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, in ricordo<br />
della pagina più buia della <strong>storia</strong> d’Italia e d’Europa, che scrissero a quattro mani la<br />
ferocia nazista e la complice assistenza che il regime fascista assicurò con le sue leggi<br />
razziali. Ci sembrò allora, e ora che Elisa Missaglia se ne è andata la convinzione si è<br />
fatta più forte e matura, che solo la conoscenza da parte delle giovani generazioni della<br />
vicenda umana di chi visse davvero questi anni terribili, possa essere l’unico baluardo<br />
contro il ripetersi di quella barbarie. L’unico vaccino<br />
contro il cancro dell’intolleranza razziale che oggi, come<br />
ieri, ancora avvelena la civile convivenza tra i popoli.<br />
L’unico antidoto a una irresponsabile pubblicistica che<br />
ancora nega l’evidenza, alimentata da un revisionismo<br />
storico che attenua le colpe di chi decise lo sterminio di<br />
un popolo intero.<br />
Aiutare la pubblicazione del volume ci è parsa anche<br />
una buona occasione, se mai risarcimento morale potrà<br />
esserci per questa pagina della <strong>storia</strong> umana, per tener<br />
viva e desta l’attenzione sull’Olocausto.<br />
Elisa Missaglia ci ha consegnato in questa intervista<br />
una significativa testimonianza di quel che fu lo sterminio<br />
degli ebrei. L’intervista consegna a noi la realtà di<br />
una Donna partecipe della vita del suo tempo, strappata<br />
alla vita quotidiana dall’orrore di Auschwitz, e a quella<br />
vita riconsegnata con il marchio indelebile di quella tragedia.<br />
Arch. Giuseppe De Dominicis<br />
Presidente della Provincia di Pescara<br />
15
Una ragazza come tante<br />
Quando è nata e dove?<br />
Sono nata a Lecco il 14 ottobre del 1919 e ho vissuto lì fino a quando non sono<br />
venuta a Pescara con mio marito. Mio marito è dell’entroterra abruzzese, l’ho conosciuto<br />
a Lecco quando sono tornata dalla Germania; aveva fatto la guerra, era ferito.<br />
Il mio fidanzato si era perso, o meglio, se n’era andato… (?!)...<br />
Lui invece, aveva bisogno di sistemarsi, e per me la vita ormai, non valeva quasi<br />
più nulla... ed allora mi sono detta: “Proviamo… se va, va; se non va... pazienza”.<br />
E invece, per fortuna, mi è andata bene. L’ ho sposato e per un po’ ho vissuto a<br />
Lecco. Poi lui è voluto tornare qui, per stare vicino ai suoi genitori così, nel 1955, ci<br />
siamo trasferiti a Pescara.<br />
Quante persone componevano la sua famiglia?<br />
Eravamo in cinque: mamma, papà e tre figli. Io ero la seconda.<br />
Mio padre era caporeparto in una fabbrica; io e <strong>mia</strong> sorella lavoravamo nella stessa<br />
industria di papà, nel reparto tessuti. Mio fratello aveva studiato e lavorava come<br />
impiegato altrove. In seguito ha aperto una sua azienda, e aveva trentacinque operai.<br />
Qualche anno fa è rimasto coinvolto in dei fallimenti, e per far fronte ai debiti ha<br />
preferito chiudere.<br />
Mia madre faceva, per sua libera scelta, la casalinga.<br />
Che scuole ha frequentato?<br />
Solo le scuole elementari. Non mi piaceva studiare,<br />
ero tremenda!<br />
Studiavo solo tre mesi all’anno per essere promossa,<br />
altrimenti erano botte.<br />
Poi ho lasciato la scuola perché allora c’era una<br />
mentalità un po’ particolare: i maschi dovevano studiare,<br />
mentre le femmine dovevano andare dalle<br />
suore per imparare a cucire e ricamare. Ho imparato<br />
bene e ho avuto modo di mettere in pratica gli<br />
insegnamenti avuti.<br />
I suoi genitori erano severi?<br />
Erano severi, ma allora in tutte le case era così.<br />
Mamma però era molto dolce, papà, invece, era<br />
davvero rigido, voleva che noi figli studiassimo e ci<br />
comportassimo in un certo modo. Per esempio, a<br />
noi donne non ci permetteva che andassimo in giro<br />
per casa con la camicia da notte, specie se c’erano<br />
lui o mio fratello.<br />
17<br />
Elisa Missaglia nel giardino della sua casa di<br />
Lecco prima della deportazione nei campi di sterminio.
Allora c’era molta serietà e poca possibilità di fare tutto quello che si fa oggi…<br />
magari la domenica si diceva che si andava all’oratorio, poi invece si andava a fare<br />
una corsa... ma la libertà che c’è adesso! Al punto che noi della nostra generazione<br />
non riusciamo sempre a capirla. Succedevano anche allora certe cose: forse non si<br />
sapevano come adesso, però... no, c’era molta più serietà.<br />
Che cosa le era permesso fare e che cosa no? (leggere, fumare, ballare, frequentare<br />
amicizie al di fuori della cerchia di conoscenze..).<br />
Niente. Oddio, qualche scappata si faceva. A me, per esempio, piaceva ballare, e<br />
se potevo...<br />
Quando sono tornata dai campi di concentramento, una sera, mentre stavo rincasando<br />
(io sono tornata ad agosto, quindi l’inverno è arrivato subito) ho incontrato un<br />
ragazzo, adocchiato da tutte le ragazze perché era il più bello del paese. Quella sera<br />
andava a ballare in un paesetto sulla collina, e siccome, appena tornata, ero coccolata<br />
un po’ da tutti, mi vede e mi fa: “Ciao. Ci verresti a ballare con me, stasera?”<br />
“Certo, certo che vengo!” Rispondo io tutta tranquilla.<br />
“Ti aspetto alla fermata del tram”.<br />
Allora si usava il tram che correva sulle rotaie, e la fermata passava proprio sotto<br />
casa <strong>mia</strong>, quindi passando per il giardino lo prendevo di corsa.<br />
Vado a casa, erano le sei e mezza, e lo dico alla mamma: “Sai, ho incontrato Paolino,<br />
mi ha invitata... stasera vado a ballare”<br />
E lei: “Che cosa hai detto?”.<br />
“Si, perché?”<br />
“Perché no”<br />
“Ma perché no?”<br />
Allora mamma mi fa: “Vai a chiedere il permesso a papà”<br />
Lì vicino c’era una specie di cantina, una grossa osteria, dove papà andava a trascorrere<br />
un pò di tempo finita la cena. A quel punto risposi: “Inutile, perché so già<br />
che mi direbbe di no. Ma quante storie! In fin dei conti, di che cosa vi devo rendere<br />
conto? Dopo tutto quello che ho passato! Sono stata fuori di casa diciotto mesi quando<br />
avevo venticinque anni. Adesso ne ho ventisette…” Pensavo che avrei potuto fare<br />
tutto quello che volevo, invece...<br />
Mia madre mi disse: “Allora noi non avevamo nessuna responsabilità su di te,<br />
perché non potevamo. Adesso è no!”<br />
In quel momento ho sentito il tram che arrivava... Ricordo che sono scappata in<br />
camera, mi sono spogliata e, senza mangiare, mi sono infilata a letto scoppiando a<br />
piangere.<br />
Ricordo anche che ho inveito contro <strong>mia</strong> madre. Lei mi ha lasciata sfogare, poi è<br />
venuta, si è seduta sul letto e mi ha detto: “Guarda, mi dispiace, dopo tutto quello che<br />
hai passato, farti ancora piangere. Ma la <strong>mia</strong> decisione è no!”.<br />
Era il modo di vivere di allora....<br />
Io penso che i genitori capivano che si diceva di andare in un posto, mentre poi<br />
si andava in un altro. Ma facevano finta di non capirlo per essere presi sul serio.<br />
18
Che persona era? (mite, espansiva, taciturna, riflessiva, ecc.).<br />
Ah, ero un maschiaccio! I giochi da femmina li ho<br />
usati solo quando ero piccola.<br />
Poi, le biglie, le bocce, la bicicletta, il pallone...<br />
Avevamo un bel giardino grande, e allora ci si riuniva<br />
tutti là. Poi papà era proprietario assieme a dei<br />
soci di una baita in montagna, per cui la domenica si<br />
partiva e si andava su. Una volta l’ ho fatta grossa:<br />
sono andata a rocciare senza dire nulla e mi sono sbucciata.<br />
Mi ricordo che sono tornata con la gonna tra le<br />
gambe e le maniche tirate giù per non far vedere i lividi.<br />
Qualche volta ci permettevano di fare una passeggiatina<br />
in bicicletta. Mi piaceva andare al cinema,<br />
quello dell’oratorio, e ascoltavo sempre la radio, perché<br />
la televisione non c’era ancora; al mattino, chi<br />
prima si alzava l’accendeva. Ricordo anche che, quando<br />
è cominciato il festival di Sanremo, ci si trovava in<br />
circolo con gli amici dell’oratorio, e una parola uno,<br />
una parola l’altro, riscrivevamo le canzoni. Potrà sembrare<br />
sciocco, ma solo il fatto di stare insieme per noi era una gioia. Una piccola cosa<br />
ci faceva piacere, ad esempio, un semplice paio di calze per noi era un regalone.<br />
Invece oggi non si dà più importanza a niente. Si può regalare ad una persona una<br />
pelliccia e quella non l’apprezza nemmeno, figurarsi delle calze! Io penso, però, che<br />
la colpa di tutto questo l’abbiamo noi genitori. Abbiamo sofferto parecchio, sia prima<br />
che durante che dopo la guerra, e questo ci ha autorizzati a dire: “Quel che ho sofferto<br />
io, non lo devono soffrire i miei figli...” Oppure: “Io non ho avuto questo, allora<br />
è giusto che mio figlio l’abbia...”. D’accordo, però forse adesso ci siamo allargati<br />
un pó troppo.<br />
Lei è diventata mamma, ha ed ha avuto delle<br />
responsabilità verso i suoi figli. Alla luce di ciò, come<br />
stima gli insegnamenti dei suoi genitori?<br />
Buoni, ancora molto buoni. Tanto che talvolta giudico<br />
male i miei figli.<br />
Volantino antifascista - Dicembre 1943<br />
Archivio di Stato di Como<br />
Nella sua famiglia si discuteva di politica, si leggevano<br />
libri o riviste apposite, si partecipava a comizi<br />
o raduni?<br />
Mio padre era contro il fascismo. All’epoca c’erano<br />
le Piccole Italiane 1 : ebbene, io e <strong>mia</strong> sorella non abbiamo<br />
mai potuto aderire a nessuna loro attività.<br />
Papà non voleva nemmeno che mettessimo la divisa<br />
fascista, avevamo il permesso di mettere solo quella per<br />
fare ginnastica perché era obbligatoria.<br />
1 Le Piccole Italiane, organizzazione giovanile fascista, venne creata da Mussolini nel 1925: composta da fanciulle in età scolare, aveva il fine di educarle secondo i valori razziali e misogini<br />
cari alla pedagogia fascista.<br />
19<br />
Elisa Missaglia all’età di venticinque anni.
Aveva la sua idea, e non si poteva discutere. Per lui il fascismo non esisteva, non<br />
aveva sostanza. Eppure, anche se la pensava così, non ha mai avuto problemi, perché<br />
lui si faceva i fatti suoi, non partecipava ad alcuna attività che potesse esporre lui o<br />
la sua famiglia. <strong>La</strong> pensava così anche un mio zio, un pezzo grosso che dirigeva una<br />
fabbrica di velluti. Quando mi hanno arrestata avrebbe potuto aiutarmi, ma nascondeva<br />
in casa due clandestini inglesi. E allora non ha potuto fare nulla. Quando la<br />
mamma andò a chiedergli di parlare con i fascisti, lui le rispose di no. “Se quelli vengono<br />
a perquisire la casa, di sicuro li troveranno, e anche loro hanno una mamma, un<br />
papà e dei diritti”. Con tutto che ero la sua nipote preferita! Ma così si pensava: sacrificare<br />
una figlia per salvare delle persone che non si conoscevano.<br />
Anche papà, se poteva, aiutava chi si trovava in difficoltà.<br />
Ne ha aiutati parecchi: li nascondeva in montagna e portava loro da mangiare.<br />
Quando sono tornata dalla Germania e mi sono sposata, uno di questi era diventato<br />
sindaco di Lecco. Io avevo bisogno di un piacere, e così sono andata da lui.<br />
Premetto che sono una a cui non piace chiedere favori. Ma si era bandito un concorso<br />
per dei posti di ferroviere aperto solo a chi già lo fosse, e siccome mio marito<br />
aveva bisogno di impiegarsi da qualche parte, mio padre mi disse: “Vai a chiedergli<br />
un favore, con tutto quello che ho fatto per lui, è obbligato ad aiutarti”.<br />
Invece....<br />
In casa si parlava di politica, anche se non eravamo aggiornati.<br />
E poi si ascoltava la radio, anche in tempo di guerra. Allora, però, si ascoltava<br />
soprattutto Radio Londra, che era proibita; per farlo, ci si chiudeva in casa e, mettendoci<br />
un panno sopra la testa la si sentiva a volume bassissimo.<br />
Era molto pericoloso farlo, perché<br />
si poteva essere denunciati e finire in<br />
prigione. Ci sono stati diversi episodi<br />
di persone denunciate dai vicini e<br />
arrestate perché sospette.<br />
A proposito di quello che stava<br />
succedendo in Europa e dei campi<br />
tedeschi non sapevamo niente.<br />
Quello che realmente stava succedendo<br />
era una cosa che nessuno si<br />
sarebbe mai sognato. Si sapeva che<br />
c’erano degli uomini prigionieri, ma<br />
si credeva che fossero i soldati presi al<br />
fronte.<br />
Mai si sarebbe pensato che i prigionieri<br />
fossero trattati peggio degli<br />
schiavi e che tra loro ci fossero tanti<br />
civili.<br />
Si è cominciato a sapere qualcosa<br />
quando hanno cominciato a tornare<br />
20
alcuni prigionieri liberati dalla Croce Rossa. Gli italiani hanno conosciuto la verità<br />
da quelli che sono stati rispediti per primi a casa. Per esempio, <strong>mia</strong> madre ha saputo<br />
dei campi dalla <strong>mia</strong> amica Gina, che è tornata prima di me. Io poi ho raccontato qualcosa,<br />
ma già si sapeva tutto.<br />
Mia madre non ha mai superato quel dispiacere lì. Chissà quanto avrà sofferto!<br />
Quante volte, dopo che sono tornata, la vedevo che mi guardava e poi scoppiava<br />
a piangere. “Ma perché piangi?” le chiedevo. E lei mi rispondeva: “Stavo pensando<br />
a quello che hai passato lì”… Mamma non si dava pace… sono tornata che aveva<br />
cinquantacinque anni, è morta che ne aveva sessanta. Papà è stato più forte, ma mi<br />
hanno detto che anche per lui è stato bruttissimo. Siccome in casa non voleva farsi<br />
vedere triste, andava su in montagna, si chiudeva dentro la baita e non c’era verso di<br />
farsi aprire. Un giorno un suo amico mi ha detto che, passando vicino la baita, aveva<br />
visto il fumo che usciva dal camino e sentito il cane abbaiare. Pensando che fosse<br />
dentro, ha bussato una, due, tre volte. Niente da fare. “<strong>La</strong>sciatemi in pace”, diceva.<br />
Chissà che cosa aveva dentro! Era un tipo molto riservato, che non diceva mai<br />
quello che provava veramente.<br />
Avevo imparato a fumare una volta libera.<br />
C’erano sigarette a volontà, sia russe che americane. Noi lavoravamo, come sarti<br />
o braccianti, e le guadagnavamo. Oh sì, posso dire che durante il viaggio di ritorno<br />
abbiamo vissuto solo di tabacco! Facevamo le sigarette con i fogli dei libri, così,<br />
dicevamo, impariamo il tedesco! Venivano fuori dei grossi rotoli e, fumandoli, ingannavamo<br />
il tempo e la fame. Abbiamo fatto più di dieci giorni di tradotta: ora era lento<br />
il treno, ora bisognava aspettare la coincidenza, poi si era rotto il cambio...<br />
Ricordo che io indossavo dei pantaloni che mi ero fatta confezionare dal sarto<br />
presso il quale lavoravo; essi furono la <strong>mia</strong> fortuna, perché erano molto comodi per<br />
salire e scendere dalle tradotte.<br />
Dicevamo un mucchio di sciocchezze, tipo: “Ah, quando arriviamo al Brennero<br />
scendiamo e baciamo la terra”.<br />
Invece, al confine abbiamo incrociato una tradotta che riportava i prigionieri tedeschi<br />
in Germania e su quei vagoni qualcuno aveva scritto bello grande: “Vogliamo<br />
donne, anche usate, che in Germania non sian state”. Pensavano che noi donne<br />
fossimo andate in Germania a fare la vita. Allora, ho levato i pantaloni, anche se<br />
avevo ancora le gambe fasciate e piene di piaghe 2 , mi sono confezionata un vestitino<br />
bianco e verde, con un abito che avevo rubato in Germania e che avevo stretto perché<br />
mi andava largo. Quel vestito aveva anche un taschino, dove mettevo le sigarette.<br />
Papà me le vide e mi chiese: “Ma che fumi te?<br />
“Si, perché?”.<br />
Non ha risposto. Povero papà, chissà che schiaffo morale ha preso!<br />
Alle sue dipendenze aveva diversi operai che andavano a Chiasso a prendere le<br />
sigarette per venderle di contrabbando. Lui le comprava e poi le metteva nel suo cassettino.<br />
Ma io sapevo dove le teneva, così andavo là e me le prendevo.<br />
Questo per dire la sua serietà. Io ho ricevuto il primo bacio da papà in prigione.<br />
Forse da piccola mi avrà baciata, ma non me lo ricordo… la prima volta che ram-<br />
2 <strong>La</strong> signora Missaglia soffriva di avitaminosi, come tutti i superstiti dei KZ, dovuta alla cattiva alimentazione.<br />
21
mento è stato in prigione.<br />
Non si era per niente sdolcinati una volta, ma questo non voleva dire che non ci<br />
si voleva bene. Questa cosa qui mi è rimasta impressa.<br />
Sono chiusa, restia a dare baci. Quando ci troviamo con gli amici, con i membri<br />
dell’associazione, i baci e gli abbracci non li voglio…<br />
Pensa che l’esperienza vissuta possa averla indurita?<br />
Non lo so… forse mi ha resa più aperta alle necessità degli altri, anche se non<br />
sono mai stata insensibile ai bisogni altrui.<br />
Però non sopporto la folla, la ristrettezza. Anche la <strong>mia</strong> amica di <strong>La</strong> Spezia 3 dice<br />
che lei non può viaggiare sull’autobus perché tutta quella folla attorno la fa diventare<br />
matta. Preferisce fare chilometri e chilometri a piedi.<br />
3 Bianca Paganini, autrice di una delle testimonianze contenute nel libro di Lidia Beccaria Rolfi Le donne di Ravensbrück.<br />
22
25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti<br />
Quando è stata arrestata e per quale motivo?<br />
Sono stata arrestata il 7 marzo del 1944 mentre lavoravo in fabbrica.<br />
<strong>La</strong> CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) aveva ordinato di scioperare per<br />
protestare contro i tedeschi che razziavano tutte le cose belle e utili dell’Italia.<br />
Alle dieci abbiamo fermato le macchine. A mezzogiorno siamo tornati a casa.<br />
Alle due siamo rientrati in fabbrica; alle due e dieci, due e un quarto c’erano già<br />
i questurini fascisti, venuti ad arrestarci. Perché, mentre nelle altre fabbriche quelli<br />
che avevano organizzato lo sciopero non erano andati via dopo aver finito il turno, a<br />
noi ci hanno lasciati soli, così sono venuti i fascisti.<br />
C’era anche il questore, e mi ricordo che gli sono andata davanti e gli ho detto<br />
tutto quello che pensavo. Ad un certo punto i questurini ci hanno puntato il mitra alla<br />
schiena e ci hanno fatto segno di seguirli. Con me e papà c’era anche <strong>mia</strong> sorella, lei<br />
era incinta ed allora l’ hanno lasciata perdere. Mentre facevano segno a papà di andare<br />
via con loro è intervenuto il direttore della fabbrica che ha detto: “Questo è il caporeparto<br />
di quattro reparti di lavorazione bellica, se lo portate via, si ferma tutto”.<br />
E così lo hanno lasciato andare. Io, invece, sono stata presa. E quando sono corse<br />
a Lecco le voci dell’arresto, <strong>mia</strong> madre ha detto subito: “<strong>La</strong> Lisetta è dentro”.<br />
E difatti ero dentro.<br />
Ci hanno portati subito a Como, dove siamo rimasti una settimana. <strong>La</strong> prigione<br />
era strapiena, così ci hanno messo dentro la palestra di una scuola. Ricordo che faceva<br />
molto freddo! C’erano spifferi d’aria dappertutto perché i vetri erano rotti, abbiamo<br />
chiesto di accendere il riscaldamento ma i questurini non hanno voluto.<br />
Poi ci hanno mandato a Bergamo, passando da Lecco. Allora ci hanno permesso<br />
di scrivere a casa per informare i nostri familiari che andavamo in Germania e per<br />
dire di portarci vestiti pesanti e roba da mangiare. Quella è stata la giornata più terribile,<br />
vedere la mamma e il papà in quelle condizioni... e poi tutte quelle urla... è<br />
stato bruttissimo. Mi ricordo che a un certo punto ho detto alla mamma: “Ma perché<br />
urli?”. E lei mi ha risposto: “No! Sei te che urli!”.<br />
I fascisti vi hanno interrogate?<br />
Non ci hanno mai chiesto niente,<br />
per loro noi eravamo rivoluzionari,<br />
alta politica! Non serviva<br />
l’interrogatorio per sapere che eravamo<br />
colpevoli. Arrivati a Bergamo ci<br />
hanno dato in mano ai tedeschi. <strong>La</strong><br />
cosa ci parve un po’ strana, ma si<br />
pensava che si andasse a scontare la<br />
pena in Germania lavorando nelle<br />
fabbriche.<br />
<strong>La</strong> prima fermata è stata<br />
Mauthausen (Austria superiore): l’ingresso al lager.<br />
23
Mauthausen.<br />
Lì abbiamo avuto la possibilità di parlare con un comandante, che ci ha detto che,<br />
se non avevamo fatto niente di male non c’era da preoccuparsi. “Vi rimanderanno di<br />
sicuro a casa”, diceva. Invece quello lo sapeva che cosa ci aspettava. Noi donne<br />
siamo state sistemate in una cella a parte. E vedevamo passare quei disgraziati, quei<br />
poveri corpi che rassomigliavano a scheletri...<br />
Qualche giorno dopo siamo partiti per Vienna, dove siamo finiti in una vera prigione<br />
fatta di mattoni. Poi da lì,<br />
un mattino, ci hanno portato<br />
alla stazione e ci hanno spediti<br />
ad Auschwitz.<br />
Auschwitz era situata a 250<br />
Km. a sud di Varsavia e lì, in<br />
un’area di 1.280.000 mq.<br />
erano distribuiti i più vasti ed<br />
affollati lager di sterminio<br />
organizzati dal Reich.<br />
Auschwitz era un luogo<br />
destinato a corsi di perfezionamento<br />
per i Kapos che sarebbero<br />
stati poi destinati ai campi<br />
di sterminio sparsi nel Reich e<br />
nelle nazioni dell’Europa occupate<br />
dai tedeschi; era il luogo della scienza e del massacro, era il luogo della<br />
morte… tutto comandato da carnefici come Hoess, Kramer, Baer, Mengele.<br />
Sul cancello di ingresso del campo principale di Auschwitz si leggeva la<br />
scritta: ARBEIT MACHT FREI (“il lavoro rende liberi”... macabra ironia)<br />
Quante persone partirono con lei?<br />
Partirono più di settecento persone. Della <strong>mia</strong> fabbrica eravamo in ventisette, ventidue<br />
uomini e cinque donne: io, la Gina, l’Agnese, la Emma e Antonietta.<br />
Poi a noi si aggiunsero tre donne di Como; ma una, furba, si è fatta venire la febbre<br />
infilandosi la paglia sotto le ascelle e dentro le scarpe, così i tedeschi l’ hanno<br />
rimandata a casa.<br />
Un’altra, invece, non ha mai lavorato. Appena siamo arrivate si è ammalata (?!?)<br />
ed è finita al revier; da lì non è più uscita. Non so come abbia fatto, forse è stata fortunata…<br />
forse si è fatta amica di qualcuno... E’ vissuta abbastanza bene ed è tornata<br />
a casa prima di noi perché quando i tedeschi hanno evacuato il campo lei si è nascosta<br />
sotto le cataste dei morti.<br />
Così, quando i russi sono arrivati ad Auschwitz, lei era lì. E mentre noi altre eravamo<br />
ancora prigioniere, lei alla fine di aprile è tornata a casa. Però ha dovuto fare<br />
un giro tortuoso, perché per tornare a Como è passata per la Sicilia occupata dagli<br />
alleati e poi ha dovuto aspettare che sfondassero il fronte settentrionale; dopo il venticinque<br />
aprile lei era a casa.<br />
24
Intanto che i russi si avvicinavano, i tedeschi evacuavano i campi vicini al fronte;<br />
è stato così anche per Auschwitz. I primi convogli sono partiti a giugno, ma la vera<br />
e propria evacuazione c’è stata nel gennaio del 1945, a piedi, senza mangiare e senza<br />
potersi riparare dal freddo,<br />
conciati in un modo... l’ hanno<br />
chiamata “la marcia della<br />
morte”.<br />
Per fortuna io sono partita<br />
prima, il 27 ottobre e, invece<br />
che a piedi come quei poveretti,<br />
abbiamo viaggiato sulle tradotte;<br />
siamo partiti al tramonto<br />
e, dopo aver viaggiato tutta la<br />
notte, siamo arrivati a Ravensbrück<br />
la sera successiva.<br />
Di tutti quelli che quel giorno<br />
partirono da Bergamo sono<br />
tornati solo quattro uomini e<br />
sei donne con l’altra ragazza di<br />
Como.<br />
Emma è scomparsa, non è<br />
tornata, però quando<br />
l’avevamo lasciata ad<br />
Auschwitz era ancora viva.<br />
Il 18 e 19 gennaio del 1945 le<br />
SS iniziarono l’evacuazione del<br />
campo. Era pieno inverno e<br />
l’inverno in Polonia vuol dire<br />
molti gradi sotto lo zero, i detenuti<br />
erano senza vestiti e senza<br />
viveri, e quando non riuscivano,<br />
stremati, a tenere il passo<br />
dei loro compagni, venivano<br />
fucilati ed i loro cadaveri erano<br />
gettati dentro fosse comuni<br />
lungo il percorso<br />
Questi prigionieri sono stati tenuti in vita solo dalla loro grande forza di volontà, ed è<br />
la stessa forza che dà loro la possibilità di sopravvivere fino al momento della liberazione<br />
Erano usuali casi di favoritismi come quello della sua compagna di Como?<br />
Cioè casi di donne che diventavano l’amante di questo o quel pezzo grosso?<br />
Sì. Comunque, non si parlava molto di queste cose, né si poteva, per partito preso,<br />
dire: “Divento amica di quello, così mi sistemo”, perché erano i tedeschi che decidevano.<br />
Quanto a lei, per un po’ la vedemmo, poi , siccome la portarono in un altro<br />
campo, la persi di vista. <strong>La</strong> sua amica, invece, ha sempre lavorato. Si chiamava Elisa<br />
ed è stata evacuata con i primi trasporti.<br />
Una bella ragazza, alta, ben disposta, così anche la carne ci ha messo un po’ a<br />
calare. Ora non ricordo se sia tornata il mese di novembre o di dicembre, però ram-<br />
25
mento che tutti dicevano che fosse morta... ricordo che non mi ha più guardata in faccia,<br />
non mi ha più voluto parlare… e dire che le ho salvato la vita!<br />
Subito dopo la liberazione la C.R.I. ci inviò dei pacchi di roba da mangiare… fu<br />
una strage. <strong>La</strong> gente cominciò a sentirsi male, scolandosi di diarrea come niente.<br />
Quando ha visto quel ben di Dio, Elisa ha avuto come un sussulto, gli si è avventata<br />
sopra e avrebbe voluto divorarsi tutto il contenuto di quei pacchi; ma io gliel’ ho<br />
impedito, anch’io mangiavo un pezzetto di cioccolata alla volta oppure un pò di margarina<br />
o di marmellata… così siamo sopravvissute.<br />
Ma lei, dopo, è cambiata, non mi ha più voluta<br />
vedere, né voleva sentire parlare di Auschwitz, ed<br />
anche il marito della <strong>mia</strong> amica Antonietta, che è tornata<br />
prima di me nel mese di giugno, non ha mai voluto<br />
parlarne; era un reduce di Mauthausen, e guai se io<br />
o l’Antonietta ci permettevamo di parlare davanti a lui<br />
di quello che ci era accaduto!<br />
Dipende da come uno la prende questa cosa; a me<br />
non mi ha mai fatto male parlarne. Sono riuscita a perdonare,<br />
e questo ha significato tanto. Devo ringraziare<br />
padre Guglielmo, che esercita alla chiesa della Madonna<br />
dei Sette Dolori, ai Colli di Pescara. Andavo da lui<br />
e mi sfogavo, tiravo fuori tutta la ribellione che avevo<br />
dentro; lui mi ascoltava, mi dava l’assoluzione ma non<br />
mi diceva mai niente.<br />
… Poi, quel generale là, Kappler, è scappato…<br />
Io quel giorno ebbi come un presentimento. Ricor-<br />
do che con i miei familiari eravamo andati fuori e che<br />
ho fatto passare i guai a tutti quanti. Siamo tornati pre-<br />
Deportati che aiutano i compagni più provati a tentare di ritornare alla<br />
vita. Però tanti di loro spesso soccomberanno nei giorni seguenti la liberazione,<br />
putroppo per loro la libertà è giunta troppo tardi<br />
26<br />
Un sopravvissuto.<br />
sto, perché avevo voluto per forza<br />
rientrare: ero intrattabile, avevo il<br />
diavolo dentro. Tanto che mio<br />
marito mi disse: “Ma che cosa ti è<br />
preso?”.<br />
“Niente, però lasciatemi in<br />
pace”.<br />
Mi sono seduta fuori, con un<br />
libro in mano, mentre dentro sono<br />
rimasti mio marito, <strong>mia</strong> figlia e il<br />
suo ragazzo. Ad un certo punto<br />
hanno acceso il televisore e ho<br />
sentito che dicevano: “Non diciamolo<br />
alla mamma”.<br />
”Che cos’è che non si deve<br />
dire alla mamma?” ho chiesto,
con la <strong>mia</strong> solita boria arrogante.<br />
Allora mio marito mi rispose: “Beh, se hai sentito... hanno fatto scappare Kappler”.<br />
Io, in quel momento lì, ho sentito come se mi cadesse giù qualcosa, mi sono sentita<br />
libera, leggera. Mi sono sentita bene. Mi ricordo che dissi: “In Italia non poteva<br />
che succedere questo”. E mi è tornato il sorriso sulle labbra, è passato tutto.<br />
Il mattino dopo sono andata da padre Guglielmo e gli ho detto: “Padre, io ho perdonato”.<br />
“E come fai ad esserne sicura?”.<br />
“Perché io non odio più”.<br />
Allora lui ha allargato le braccia e ha sospirato: “ Finalmente!”.<br />
Io non ho più portato rancore ed ho compreso il suo silenzio.<br />
Foto scattata dalle SS che riprende i deportati della Compagnia di disciplina<br />
inquadrati per cinque mentre salgono la scala della morte trasportando<br />
sulle spalle blocchi di pietra.<br />
27
L’umiliazione<br />
Facciamo un passo indietro. Ricorda di dove erano originari quelli che viaggiarono<br />
assieme a lei?<br />
Quando sono arrivata alla stazione di Bergamo, quelle settecento persone c’erano<br />
già. A parte le mie amiche e i compagni di fabbrica, non conoscevo nessun altro. Non<br />
capivo nulla, ero come stordita. Ci hanno fatto salire sulle tradotte, ammassati come<br />
bestie: le chiamavamo carri armati! Noi sette abbiamo viaggiato meglio, perché ci<br />
hanno messo in un vagone a<br />
parte.<br />
Fino al confine ci hanno<br />
accompagnato gli austriaci.<br />
L’austriaco non è cattivo, i soldati<br />
ci hanno trattato abbastanza<br />
bene, ci hanno dato il cibo<br />
della loro razione, ci facevano<br />
scendere quando il treno fermava<br />
alle stazioni. E poi, c’erano i<br />
nostri ferrovieri, che nei punti<br />
più favorevoli rallentavano<br />
l’andatura. Così, se si voleva, si<br />
poteva scappare. Però, mentre<br />
il nostro vagone non era piombato,<br />
quello degli uomini invece<br />
lo era. Quando i ferrovieri<br />
passavano, ci chiedevano: Un trasporto di deportati diretto ai campi di sterminio.<br />
“Volete scappare, volete scappare?”.<br />
I soldati che erano di guardia capivano, ma non dicevano nulla. Noi donne<br />
non abbiamo avuto il coraggio di scappare, perché avevamo paura di fare del male a<br />
chi era a casa, visto che i tedeschi ci avevano minacciate dicendo che se avessimo<br />
tentato di fuggire, avrebbero preso i nostri familiari e li avrebbero uccisi oppure che<br />
li avrebbero portati in Germania… io a Lecco avevo papà, mamma, mio fratello e<br />
<strong>mia</strong> sorella… non volevo, non potevo rischiare.<br />
Si poteva scappare ma solo prima della frontiera. Alcuni lo hanno fatto, rompendo<br />
le tavole di legno del pavimento e calandosi giù. Non so che fine abbiano fatto,<br />
né che cosa sia successo agli altri perché alla frontiera ci contarono. Non passammo<br />
per il Brennero perché avevano bombardato; ci dirottarono per il passo del Tarvisio.<br />
Là il comando austriaco ci ha lasciato in mano ai tedeschi. Le SS hanno piombato<br />
anche il nostro vagone. Morivamo dal freddo. C’era la neve, il ghiaccio. Ricordo<br />
cose confuse, non capivo nulla, ero come stupidita.<br />
29
Che cosa ricorda di<br />
Mauthausen?<br />
Gli uomini furono<br />
fatti scendere e andarono<br />
avanti a piedi, mentre<br />
noi donne fummo<br />
prelevate da un cellulare.<br />
Quando le porte<br />
della fortezza si sono<br />
aperte, i nostri uomini<br />
erano vicini al muro,<br />
coperti di neve e ghiaccio.<br />
Quel giorno nevicava<br />
a cielo aperto.<br />
Senza poter scambiare<br />
nemmeno una parola, ci<br />
hanno portate nella sala doccia e ci hanno ordinato di spogliarci: rimanemmo nude,<br />
mentre le SS di guardia ci guardavano... Dio, che umiliazione! Erano tutti uomini,<br />
perché a Mauthausen che comandavano erano solo uomini. Quando quella doccia<br />
che non finiva mai è terminata, ci diedero la divisa, pantaloni e giacca. Poi ci sistemarono<br />
in due celle: quattro in una e tre in un’altra.<br />
Il cibo ce lo passavano da<br />
una finestrella, per i bisogni<br />
avevamo un secchio.<br />
Per fortuna avevamo ancora<br />
un po’ di quella roba che ci<br />
avevano dato i nostri familiari<br />
alla stazione: un cacciatorino,<br />
qualche scatoletta... Il mangiare,<br />
comunque, non era cattivo,<br />
credo che fosse il rancio dei<br />
soldati. Ricordo che il luogo<br />
dove ci alloggiarono era fatto<br />
di mattoni: vicino c’erano le<br />
stanze di tortura, ed ogni tanto<br />
si sentivano certe urla!<br />
Dopo tre o quattro giorni ci<br />
hanno ridato i nostri vestiti e ci<br />
hanno fatte partire per Vienna.<br />
Faceva freddo, i vestiti non ci riparavano perché erano leggeri.<br />
Noi non avevamo idea di dove ci mandassero e che tempo facesse laggiù.<br />
Appena arrivavano a Mauthausen i prigionieri erano costretti a rimanere nudi,<br />
anche per giorni interi, sotto il sole o la pioggia o la neve, prima di essere destinati<br />
alle baracche.<br />
Mauthausen era una fortezza costruita dagli stessi prigionieri con spesse mura perimetrali<br />
dalle quali le SS vigilavano attentamente perché nessuno potesse fuggire. In alto a<br />
sinistra i due camini del forno crematorio.<br />
30
Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano!<br />
Com’era la prigione di Vienna?<br />
Era una vera prigione. Ci misero dentro delle celle assieme a donne di altre nazioni.<br />
Lì abbiamo trovato anche otto donne di Milano. Ma quelle non ripartirono con<br />
noi. Qualche giorno dopo ci hanno fatte risalire sul treno, destinazione<br />
Auschwitz...ma non lo sapevamo...noi stavamo attente a non sciupare i vestiti e le<br />
scarpe perché avevamo intuito che<br />
sarebbe passato molto tempo<br />
prima che ne avessimo potuto<br />
avere di nuovi.<br />
Mi ricordo che in tempo di<br />
guerra le scarpe erano molto<br />
costose, tanto che si acquistavano<br />
con la tessera.<br />
Ero così terrorizzata di rovinarle<br />
che non le mettevo mai;<br />
quando sono arrivata ad<br />
Auschwitz i miei sandali a forma<br />
di zoccolo erano nuovi. Siamo<br />
arrivate al campo dopo aver viaggiato<br />
su scomparti, siamo arrivati<br />
in stazione ad Auschwitz intorno a<br />
mezzanotte, e siccome il campo<br />
era lontano, anche se c’era la neve e faceva freddo, lo abbiamo raggiunto a piedi.<br />
Le SS ci vennero a prendere alla stazione, e per tutto il tragitto non ci maltrattarono.<br />
Mi ricordo che si vedevano in lontananza i crematori che fumavano. Allora la<br />
<strong>mia</strong> amica ha detto: “Guarda, che<br />
bello! Domani avremo il pane fresco!”.<br />
…Erano gli ebrei che bruciavano.<br />
Forni crematori del campo, funzionarono per anni, giorno e notte<br />
ininterrottamente.<br />
Binari che portavano ad Auschwitz.<br />
31<br />
Lei o le sue compagne sapevate<br />
che posto fosse Auschwitz?<br />
No. Abbiamo cominciato a capire<br />
qualcosa dalle russe durante il viaggio:<br />
erano spaventatissime! Ripetevano<br />
con terrore: “Speriamo non Auschwitz,<br />
speriamo non Auschwitz!”.<br />
Le russe erano informate più di<br />
noi perché loro erano internate da<br />
anni e le voci correvano.
Ripetevano come impazzite quella frase là,<br />
parlavano di un campo vicino, mi pare che si chiamasse<br />
Terezin, e si auguravano di finire lì perché<br />
si diceva che non si stesse poi tanto male.<br />
È la dimostrazione della<br />
sequenza usata per mettere<br />
i cadaveri nei forni crematori.<br />
Coloro che erano<br />
addetti a questo lavoro<br />
erano prigionieri costretti<br />
a volte a dover bruciare i<br />
loro stessi parenti; erano<br />
meglio nutriti rispetto agli<br />
altri, ma periodicamente<br />
venivano uccisi dalle SS e<br />
sostituiti da altri perché<br />
pericolosi testimoni.<br />
32<br />
L’ingresso ad Auschwitz e il filo spinato<br />
percorso dall’alta tensione.
<strong>La</strong> selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro<br />
Che impressione le ha fatto Auschwitz la prima volta che l’ ha vista?<br />
Il primo impatto c’era già stato a Mauthausen. Però, nessuna aveva pensato che<br />
saremmo finite in un posto simile. Il campo era tutto illuminato e circondato dal filo<br />
spinato dove correva l’alta tensione.<br />
Dopo averci fatte entrare e attraversare<br />
tutto il campo, ci hanno condotte<br />
ad un baraccone dove abbiamo<br />
passato la prima notte. Ci comandavano<br />
dei prigionieri che, appena<br />
hanno potuto, ci hanno chiesto se<br />
avevamo ancora qualcosa da mangiare<br />
e se glielo volevamo dare,<br />
facendoci capire che poi però non<br />
avremmo avuto più nulla.<br />
Quando è cominciato a farsi giorno,<br />
dalle finestre senza vetri abbia-<br />
mo visto passare delle povere donne<br />
senza età. Perché sembravano vecchiette<br />
di ottant’anni, così corrucciate<br />
da fare impressione… magari<br />
avranno avuto la nostra età…<br />
Fuori c’era una tormenta di neve<br />
ed il vento ammassava loro il ghiaccio<br />
addosso. Noi ci chiedevamo che<br />
cosa avessero fatto mai di male quelle<br />
poverette, che sembravano così<br />
vecchie, per essere trattate così.<br />
Mai avremmo potuto immaginare<br />
la verità. Eravamo tranquille, poiché<br />
eravamo sicure che non avevamo<br />
fatto nulla di male, e nello stesso<br />
tempo avevamo pena di quelle, forse<br />
anche più giovani di noi.<br />
All’arrivo chi veniva selezionato era destinato subito alle camere a<br />
gas. Questo gruppo di donne invece è scampato ad una selezione; a<br />
loro, prima davano da indossare la casacca del lager, poi sarebbero<br />
state rasate e depilate, andando incontro a pericolose infezioni per i<br />
tagli causati dalle macchinette tosa-cani che le SS usavano.<br />
Il giorno dopo, la prima cosa che ci hanno fatto è stato il numero sul braccio,<br />
tatuandocelo direttamente nella baracca.<br />
Mi tatuarono sul braccio sinistro il numero di matricola le cui cifre mi vennero<br />
impresse nella pelle con timbri a spillo immersi precedentemente in un inchiostro…<br />
da quel momento non avevo più un nome, ero solo un numero… <strong>76147</strong>.<br />
I primi tempi incidevano i numeri sull’avambraccio sinistro; negli ultimi tempi,<br />
lo facevano sulla spalla, mentre gli ebrei venivano numerati a parte. Ai bambini lo<br />
incidevano sulla coscia.<br />
33
Verso mezzogiorno ci hanno fatto fare la doccia: un vero tormento, con l’acqua<br />
che da bollente diventava di colpo fredda al di sotto dello zero, e sempre con le S.S.<br />
in giro. Finita la doccia, ci hanno condotte in un’altra stanza e ci hanno tagliato i<br />
capelli… io, che li avevo brutti, appena una sforbiciata, invece alla <strong>mia</strong> amica, che li<br />
aveva belli, li hanno massacrati. Con le russe e con le ebree erano implacabili, le<br />
rapavano completamente a zero. Poi, con le stesse macchinette che usavano per tosare<br />
i cani, ci hanno rasato i peli sotto le ascelle e in mezzo alle gambe, eravamo piene<br />
di ferite e di tagli infetti. Naturalmente tutto avveniva alla presenza delle SS, che<br />
erano tutti uomini come quelli che ci rasavano.<br />
Non vi selezionarono?<br />
I detenuti politici, cioè noi, non<br />
venivano selezionati, gli ebrei sì.<br />
Si era selezionati per andare a<br />
lavorare nelle fabbriche o per andare<br />
in un altro campo, o per far posto<br />
se c’era troppa gente… in quel caso,<br />
se eravamo diventati troppi, chi<br />
veniva selezionato, andava direttamente<br />
alle camere a gas.<br />
Quando finirono di tosarci come<br />
cani, ci rifilarono quattro stracci di<br />
corredo, cioè mutande che dicevano<br />
che erano disinfettate, invece erano<br />
sporche di tutto, le prendevano a<br />
quelli venuti prima e le davano a<br />
casaccio, un camicione a righe di<br />
cotone, un cencio da mettere in testa<br />
ed un paio di calze rotte, ci vestirono<br />
come pagliacci. Ricordo che<br />
quando la <strong>mia</strong> amica, di famiglia<br />
povera e quindi abituata alle ristrettezze<br />
le ha viste, è scoppiata a piangere<br />
dicendo: “Malgrado tutto, le<br />
calze rotte non si portavano in casa<br />
<strong>mia</strong>!”. Io ero così rincretinita che<br />
non ho provato nulla.<br />
Dopo di che ci hanno portate nella baracca. Lì c’era un’italiana, Margherita, che<br />
parlava cinque lingue ed era trattata abbastanza bene. <strong>La</strong> blocova non era cattiva, la<br />
prima cosa che ci ha detto attraverso la signorina che traduceva per noi e che anche<br />
noi trattavamo con riguardo, è stata: “Qui non si piange, non si mangia, non ci si<br />
ammala...”. Ci ha riferito i dieci comandamenti del campo. Invece le due che comandavano<br />
con lei... una, insomma, ma l’altra era una vipera; erano polacche.<br />
Stazione di Auschwitz - Birkenau. I deportati vengono suddivisi: gli<br />
uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra.<br />
L’inizio della selezione delle donne.<br />
34
Anche le kapò erano quasi<br />
tutte polacche perché, quando fu<br />
creato il campo, le prime che vi<br />
sono state rinchiuse erano polacche.<br />
In seguito vi hanno rinchiuso<br />
donne di altre nazioni, ma i<br />
posti di comando, ormai, erano<br />
stati tutti occupati da loro. Erano<br />
peggio delle belve, peggio degli<br />
stessi tedeschi. Del resto, per<br />
mantenere il posto che avevano<br />
Colonna di prigioniere avviate al lavoro.<br />
loro assegnato, dovevano diventare<br />
belve.<br />
<strong>La</strong> mattina dopo ci hanno subito mandato a lavorare nei campi, eravamo in quarantena<br />
e quindi dovevamo sgobbare.<br />
Chi è che vi comandava?<br />
I tedeschi impartivano gli ordini, ma erano alcuni dei prigionieri a farli eseguire.<br />
Le SS erano costituite da volontari reclutati anche dalle prigioni. Poi c’erano le ausiliarie,<br />
che erano cattive come la peste. Non contavano nulla, nel senso che gli ordini<br />
li davano gli uomini, ma erano più feroci delle SS.<br />
Rudolf Höss, il comandante di<br />
Auschwitz.<br />
Gerhard Palitzsch, vice comandante<br />
di Auschwitz.<br />
A fare da tramite tra le SS e le prigioniere erano delle detenute, soprattutto polacche,<br />
contrassegnate con il triangolo verde.<br />
Ad Auschwitz ognuna aveva cucito sul vestito un triangolo il cui colore indicava<br />
la provenienza della persona. Quello verde era dei criminali comuni: difatti le nostre<br />
blocove erano quasi tutte galeotte. Il viola era il colore degli omosessuali, mentre il<br />
nero delle donne di strada. Il rosso per i politici, le donne con il triangolo rosso erano<br />
pochissime.<br />
35<br />
Maria Mandel, comandante del<br />
<strong>La</strong>ger femminile di Birkenau.
Tredici ore al giorno di estenuante lavoro, compensato<br />
solo da pochissima zuppa ed un piccolo pezzo di pane<br />
spesso secco o ammuffito. Così i deportati erano ridotti<br />
in breve tempo allo stremo delle forze.<br />
Erano folli anche gli esperimenti<br />
che facevano. Cosa serviva sterilizzare<br />
la gente, mettere un pezzo d’osso ad<br />
una persona dopo averlo tolto ad<br />
un’altra, immergere la gente nell’acqua<br />
fredda e tutte quelle altre cose che<br />
facevano? Certo è che ai tedeschi<br />
faceva comodo perseguitare gli ebrei,<br />
perché è con il loro oro che hanno<br />
potuto fare la guerra. E questa è una<br />
cosa che dicono tutti.<br />
Vicino al triangolo c’erano<br />
l’iniziale del paese di provenienza e il<br />
Mi ricordo che c’erano tante che portavano<br />
il triangolo giallo di ebrea assieme a quello<br />
rosso di politica. Il motivo era che se una donna<br />
aveva sposato un ebreo, veniva accusata di aver<br />
rovinato la razza e considerata di razza mista…<br />
perché quel pazzo di un Führer voleva creare la<br />
razza pura. Però poi, nella sua folle mentalità,<br />
era capace di togliere il sangue agli ebrei e di<br />
tenerlo da parte per i tedeschi, infatti frequentemente,<br />
quando tra i nuovi arrivati c’erano<br />
persone in buone condizioni di salute, anche se<br />
ebrei, e quindi per loro di qualità inferiore,<br />
venivano effettuati dei prelievi di sangue utilizzato<br />
poi nelle trasfusioni ai feriti tedeschi.<br />
Il castello di Hartheim dove furono trasferiti migliaia di deportati<br />
usati come cavie per inumani esperimenti con pretese scientifiche.<br />
Nessun deportato riuscì ad uscirne vivo<br />
numero che bisognava tenere sempre in vista. I numeri erano progressivi: quelli che<br />
comandavano l’avevano basso. Quando i presenti sono diventati tanti, hanno cominciato<br />
a numerare gli ebrei a parte.<br />
Le persone che erano entrate tra le prime ed erano sopravvissute occupavano un<br />
posto di comando. Stavano bene, almeno rispetto a noi altre, e godevano un trattamento<br />
preferenziale: per esempio, quando si tagliava il pane la razione più grande era<br />
per loro, quando distribuivano la zuppa a loro toccava il fondo perché era più sostanzioso.<br />
Poi avevano amicizie in cucina e vestivano sempre bene, portavano lo stesso<br />
la divisa a strisce ma con una bella maglia di lana sotto, sempre impeccabili...<br />
Le stubove e le blocove avevano stanze proprie.<br />
Dormivano un paio per stanza in due camerette poste all’ingresso della baracca;<br />
quando si passava lì vicino e la porta era un pò aperta, si vedevano le imbottite e tante<br />
buone cose.<br />
36
Gli esperimenti<br />
Eravate al corrente degli esperimenti del blocco 10?<br />
Sapevamo qualcosa, ma non parlando bene la lingua era difficile chiedere e capire,<br />
e questa era un’altra tortura. Certo, le parolacce le ho imparate in tutte le lingue.<br />
Mi ricordo che le russe ci dicevano: “Tu, puttana; io, svigna”. Cioè, la stessa cosa.<br />
Si capisce però che non si poteva contare solo su quelle due parole, e che parole<br />
poi, che avevamo imparato. Era la torre di Babele, c’era chi parlava in polacco, chi<br />
in tedesco, chi in russo, sloveno, francese.... e poi, gli ordini venivano dati in tedesco,<br />
nei blocchi comandavano le polacche, mentre la maggior parte delle prigioniere<br />
erano di origine russa.<br />
Quindi è molto facile immaginare la confusione che ci poteva essere.<br />
Le italiane erano maltrattate da tutte...non conoscendo la lingua, eravamo sempre<br />
lente a fare le cose… dopo, però, con quattro legnate capivamo tutto.<br />
L’italiano era calpestato, disprezzato e calunniato. Ci gridavano continuamente:<br />
“Italianko sciaiser, ni servai: danzia, esser e liben”, cioè: “Italiano pece, non lavorare:<br />
ballare, mangiare e fare l’amore”. Invece, non era vero niente. Perché, per dirla<br />
tutta, le donne polacche erano molto più sporche, nel senso della morale.<br />
Nel Blocco 10 avevano luogo le cosiddette<br />
“esperienze scientifiche” su “cavie umane”<br />
tenute, oltre che dal dott. Mengele, anche dai<br />
professori Schumann e Clauberg.<br />
Provavano sull’organismo umano l’effetto di<br />
nuovi preparati prodotti dalle industrie farmaceutiche<br />
tedesche.<br />
Un esperimento, forse quello compiuto con<br />
più frequenza, era la sterilizzazione. Consisteva<br />
nel sottoporre il detenuto maschio a radiazioni<br />
di intensità crescente, fino a che il medico ne<br />
accertava la definitiva distruzione delle facoltà<br />
generative; il passaggio successivo era quello di<br />
condurre il prigioniero sottoposto a tale esperimento<br />
alla camera a gas.<br />
Sulle detenute donne invece l’esperimento di<br />
sterilizzazione consisteva nel sottoporle all’azione<br />
dei raggi Roentgen, i quali venivano diretti<br />
sulle ovaie, le quali venivano rapidamente<br />
distrutte, e sul ventre si formavano ulcere e piaghe<br />
dolorose.<br />
A volte venivano asportate anche le ghiandole<br />
sessuali, con la conseguente morte atroce<br />
della cavia.<br />
37<br />
Un esperimento di decompressione su una cavia<br />
umana.
Organi femminili venivano asportati<br />
per essere sostituiti con organi<br />
artificiali, oppure si effettuavano<br />
fecondazioni artificiali per poi procurare<br />
l’aborto o, come in alcuni casi, si<br />
faceva andare avanti la gravidanza<br />
per poter effettuare continui esperimenti<br />
che procuravano l’inevitabile<br />
morte del feto ed anche della mamma.<br />
Si inoculavano ai detenuti scelti<br />
per l’esperimento malattie come il tifo<br />
Bambini il cui destino è stato quello di essere usati per atroci esperimenti<br />
“scientifici” comandati dal dott. Mengele, il quale a tale<br />
scopo ha barbaramente martoriato il loro corpo.<br />
o il cancro, per poi verificare l’efficacia o l’inutilità dei nuovi metodi di cura.<br />
C’erano poi anche prove di resistenza; ad esempio: quanto tempo una cavia<br />
potesse vivere dal momento in cui le venisse somministrata esclusivamente acqua<br />
salata, oppure quale potesse essere la resistenza dell’organismo umano immerso in<br />
acqua gelata o la rapidità con cui un essere umano morisse sotto l’azione di diversi<br />
tipi di ustioni.<br />
Si verificò la resistenza umana al digiuno o all’alimentazione forzata, portando<br />
le cavie a nutrirsi ingozzandole fino a farle scoppiare.<br />
Il dott. Mengele salvava regolarmente al loro arrivo le coppie di gemelli assieme<br />
alle loro madri. Essi venivano poi sottoposti a speciali studi sulla procreazione con<br />
l’intento di trovare un sistema per rendere<br />
prolifica la razza germanica, “razza eletta”,<br />
visto che era stata decimata dalla<br />
guerra. I continui prelievi di sangue ai<br />
quali venivano sottoposti, così come le<br />
iniezioni e gli esami clinici, avevano spesso<br />
per loro esito letale.<br />
Ma quale poteva essere lo scopo di<br />
questi esperimenti… ed altri… così atroci,<br />
se non quello dello sterminio?<br />
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />
Baldini & Castoldi - Milano 1969.<br />
E quale la ragione di tutto ciò su povera<br />
gente completamente ed assolutamente<br />
innocente?… Ed anche se fosse stata mai<br />
colpevole di qualcosa… avrebbe potuto<br />
meritare tutto questo? O ciò non sarebbe<br />
mai dovuto e potuto essere inferto nemmeno<br />
al peggior criminale di questa<br />
terra?<br />
38<br />
Coppie di gemelli selezionati dal dott. Mengele.
Le parole non possono descrivere…<br />
Che cosa ricorda dei primi giorni di permanenza<br />
ad Auschwitz?<br />
E’ difficile trovare le parole... è difficile da spiegare…<br />
non riesco ancora a capire come abbiamo<br />
fatto ad accettare quella situazione; il nostro “io” era<br />
completamente annientato, umiliato… non ci rendevamo<br />
conto di quello che ci stava accadendo e perché...<br />
I primi giorni... forse…, dopo non eravamo più<br />
persone, non eravamo più niente.<br />
Mi ricordo che ci chiedevamo: “Cosa abbiamo<br />
fatto? Che cosa ci aspetta?”. Ma non trovavamo<br />
risposta alle nostre domande… no! Non riesco proprio<br />
a spiegarmi come abbiamo potuto accettare<br />
quella situazione.<br />
In seguito, siete riuscite a farlo? Nessuna ha<br />
provato a ribellarsi, a resistere alla regressione a<br />
cui eravate sottoposte?<br />
Eravamo diventate.... è difficile trovare la parola<br />
adatta... non eravamo più gente, non avevamo più la<br />
nostra personalità, non avevamo la forza e la voglia<br />
necessarie per batterci, e poi, come avremmo potuto<br />
farlo?<br />
Eravamo bestie,<br />
ragionavamo come<br />
asini: “Questo ci<br />
tocca e questo dobbiamo<br />
fare”. E guai se<br />
si aveva vicino una<br />
che non faticava, la si<br />
odiava. Perché sape-<br />
Cavalletto usato per le bastonature inferte per<br />
ogni futile mancanza da parte dei prigionieri. Il<br />
numero ufficiale di colpi per la punizione era<br />
25 ma spesso ne venivano inferte anche 75 causando<br />
la morte del punito.<br />
vamo che avremmo dovuto fare anche la sua parte,<br />
altrimenti ci avrebbero massacrato di botte.<br />
Dopo la quarantena, che lavoro ha svolto?<br />
Ho continuato a lavorare nei campi. Ma era faticosissimo.<br />
Per esempio, quando si trebbiava dovevamo<br />
fare le cose in una certa maniera, lavorare con macchine<br />
apposite… e chi le aveva viste mai? Chi<br />
l’aveva fatto mai?<br />
39<br />
Quando le SS non facevano in tempo a bruciare<br />
nei forni crematori i prigionieri morti nelle<br />
camere a gas, i loro cadaveri venivano ammucchiati<br />
all’esterno... così i vivi camminavano in<br />
mezzo a montagne di morti...
Dovevamo trebbiare, poi zappare e infine appianare il campo in un certo modo,<br />
e guai se la superficie non era liscia, una briciola fuori posto e facevano finire il<br />
mondo!<br />
Ma a che cosa serviva, poi, appianare la terra come un foglio?! Non era una tortura<br />
quella?<br />
Poi, quando le piantine seminate cominciavano a crescere, bisognava stare lì per<br />
tirare via le erbacce, ma Santo Dio, anche nel Vangelo c’è scritto che bisogna far crescere<br />
assieme la zizzania e il grano! Invece no, noi dovevamo separare le piantine<br />
dalla zizzania, e non eravamo neppure capaci!<br />
Ci avevano fatto vedere come dovevamo fare, ma quando si strappava si portava<br />
via tutto. Dovevamo farlo stando chine sulle gambe, guai ad accovacciarsi! Ma dopo<br />
ore e ore in quella posizione...<br />
Una volta, ero più avanti rispetto alla <strong>mia</strong> amica e, siccome ero stanca, ho provato<br />
ad accovacciarmi… quante botte ho preso!<br />
Ho fatto appena in tempo a vedere la kapò venire verso di me che già menava<br />
sberle con il bastone. Mi ha colpita proprio sotto la faccia e in un modo...<br />
Insomma, mi ha fatto capire che così non dovevo lavorare.<br />
Dietro di me c’era la <strong>mia</strong> amica Gina. Con la <strong>mia</strong> amica si divideva tutto, anche<br />
le botte. Se lavoravamo assieme, bene, ma se eravamo a lavorare in kommandi diversi,<br />
la sera ci chiedevamo: “Le hai buscate te?”.<br />
“E te?”.<br />
Allora il giorno dopo quella che non le aveva prese doveva prenderle perché si<br />
doveva pareggiare il conto.<br />
Quando ha visto la kapò picchiarmi, la <strong>mia</strong> amica mi ha detto: “Non piangere, eh,<br />
non piangere”.<br />
Visto che le brutte parole là si dicevano, ho risposto: “Per una puttana così, non<br />
piango”. Pensavamo che la Kapò non avesse capito, ma lì le parolacce si imparavano<br />
in tutte le lingue, così me ne diede un’altra razione, ed anche la <strong>mia</strong> amica fu riempita<br />
di botte, così eravamo pari!<br />
Dividevamo tutto, anche le cose più insensate. Quando si trebbiava, se si lavorava<br />
accanto agli uomini si era fortunate, ma se si lavorava dietro le macchine, che tortura!<br />
Perché le macchine erano veloci e noi, che dovevamo raccogliere subito il grano<br />
e poi legarlo, non ce la facevamo. Poi guai a lasciar fuori un filo: finiva il mondo! I<br />
covoni dovevano essere belli precisi, allineati diritti uno dietro l’altro. Quando potevamo,<br />
però, qualche spiga ce la mettevamo in tasca, oppure l’ingoiavamo direttamente<br />
così.<br />
In Auschwitz appena potevamo rubavamo qualcosa da mangiare. Ad esempio, le<br />
rape o le patate che conservavamo dentro i canali che scavavamo noi; quando i sorveglianti<br />
erano voltati, afferravamo qualche rapa e, dopo averla pulita un po’, la mangiavamo<br />
così, cruda e ancora sporca di terra. Meno male che non ci siamo buscate<br />
nulla!<br />
Si vede che avevamo dei buoni anticorpi, altrimenti...<br />
Una cosa devo ammetterla: qui da noi non sanno come conservare le patate, inve-<br />
40
ce in Germania sì. Scavavamo un fosso, poi mettevamo uno strato di patate, uno di<br />
paglia, poi ancora di patate, concludendo con la terra. A primavera, quando le tiravamo<br />
fuori, le patate erano ancora buone.<br />
Scusi la banalità della domanda, ma che cosa la spingeva a rubare?<br />
<strong>La</strong> fame e la necessità. Non si poteva vivere con quella miseria che ci davano,<br />
dovevamo per forza organizzarci, dovevamo rubare.<br />
Chi non era capace vendeva una porzione di zuppa, di margarina o di salame e si<br />
procurava un cucchiaio, una fetta di pane, carta, spago...<br />
Quando lavoravo in campagna, dove ho scavato fossi per interrare le patate e<br />
canali di scolo per dragare Auschwitz di tutto il fango che la sommergeva, poichè<br />
Auschwitz era una vera palude, mi ingegnavo per rubare le patate, le rape bianche,<br />
le fave secche, perfino la cicoria selvatica.<br />
Qualche volta nascondevamo il bottino tra le pieghe del grembiule, ma per paura<br />
di essere scoperte o derubate mangiavamo subito quello che avevamo preso. Nel<br />
lager, invece, si rubava la zuppa. Solo che bisognava stare attenti. I barili di zuppa<br />
erano portati dal kommando addetto, scortato quasi sempre dalle SS.<br />
Capitava però a volte che passavano sette o otto barili con una sola SS di guardia<br />
così, se lei andava avanti, si poteva organizzare qualcosa. Bisognava però stare attenti<br />
agli addetti al trasporto; se il bidone era portato da quattro persone, era difficilissimo<br />
rubare, ma se lo portavano in due, e uno lasciava la presa, allora...<br />
Quelle del kommando della zuppa erano quasi tutte raccomandate, non facevano<br />
lavori pesanti e godevano di trattamenti di favore. Erano quasi tutte polacche, magari<br />
dello stesso trasporto o dello stesso paese; si intendevano a meraviglia, e così facevano<br />
il comodo loro.<br />
Io avevo “organizzato” una latta, e mi appostavo nel punto giusto, magari in un<br />
fosso; se fossi stata scoperta, e quelle del kommando avessero strillato per fare accorrere<br />
le SS, non avrei avuto scampo, per me ci sarebbe stato il bunker, dove lasciavano<br />
morire i prigionieri di fame, di sete, di stenti.<br />
Un giorno siamo rientrate presto; mentre parlavo con la <strong>mia</strong> amica, che non era<br />
capace di rubare nemmeno un filo d’erba, ho visto passare la zuppa delle SS.<br />
Ho riconosciuto subito il bidone, perché quelli delle SS erano piccoli e di solito<br />
venivano portati da due persone soltanto. <strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica ha visto i miei occhi che<br />
seguivano le addette e la SS, così mi ha detto preoccupata: “Non ti permettere, guai<br />
a te. Se ti ammazzano io non piango mica, sai?”<br />
Forse era il Signore che mi rendeva invisibile quando facevo quelle cose, chissà...<br />
fatto sta che quando sono passata vicina al barile, la tentazione è stata troppo forte,<br />
così ho cacciato la mano dentro.<br />
Le SS si sono messe a strillare: “Svigna! Curva!”, tutte le parolacce possibili ed<br />
immaginabili.<br />
Ma io ero già dentro il fosso, uno di quelli che anch’io avevo scavato.<br />
<strong>La</strong> SS, quando si è voltata, non mi ha vista.<br />
Così quel giorno abbiamo mangiato una bella zuppa bianca, perché le SS man-<br />
41
giavano bene, era zuppa di orzo bianco, una vera specialità.<br />
<strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica strillava, però, poi l’ha mangiata con me, perché sapeva che altrimenti<br />
non l’avrei mangiata nemmeno io.<br />
Mi è sempre andata bene: si vede che il mio Angelo Custode mi proteggeva, o che<br />
forse, semplicemente, doveva andare così.<br />
Ma non rubavamo solo il mangiare... eravamo sprovviste di tutto, non avevamo<br />
niente. Per esempio, la zuppa la mangiavamo come fanno le bestie. Per avere il cucchiaio<br />
bisognava sacrificare una mezza razione di pane; si andava da chi lo rubava o<br />
lo fabbricava e lo si comprava; poi, raschiando il manico sui sassi, lo rendevamo affilato<br />
e lo usavamo come coltello.<br />
Anche la gamella era “organizzata”, e se serviva un bottone per aggiustare la divisa<br />
lo rubavamo, oppure vendevamo una razione di zuppa o di margarina. <strong>La</strong> stessa<br />
cosa accadeva per il mangiare; se si voleva un altro po’ di zuppa, bisognava rivolgersi<br />
alle blocove e sacrificare qualche altra cosa.<br />
42
Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura,<br />
la distruzione morale…<br />
Mi può descrivere il campo?<br />
Io e le mie amiche siamo state a Birkenau, era Auschwitz 2,un campo più piccolo<br />
all’interno del territorio di Auschwitz, in cui c’erano molte donne.<br />
Anche le SS che ci comandavano erano quasi tutte donne, mentre quelle che sorvegliavano<br />
il campo e che ci scortavano al lavoro erano uomini.<br />
Il campo di Auschwitz era immenso, una cosa pazzesca; quando si doveva andare<br />
dal lager A al lager B, c’era da fare una bella scarpinata. C’erano i lager A, B e<br />
C, il revier, la ferrovia, il campo degli zingari...<br />
Quando sono tornata ad Auschwitz con l’associazione di Milano, le baracche del<br />
lager A c’erano tutte; invece, quelle del lager B e C erano state bruciate.<br />
Ogni lager era recintato dal filo spinato; se una voleva andare da un campo all’altro<br />
doveva attraversare i reticolati. Però, siccome i fili erano attraversati dall’alta tensione<br />
giorno e notte, non era possibile scavalcarli, bisognava per forza passare dai<br />
cancelli. Ma quelli erano sorvegliati dalle SS e dai cani.<br />
I selezionati sulla rampa della stazione di Birkenau<br />
stanno per salire sugli autocarri che li porteranno<br />
alle camere a gas.<br />
Nel momento in cui il numero dei<br />
deportati aveva raggiunto cifre elevate,<br />
dovettero suddividere il territorio<br />
di Auschwitz in 3 grandi unità:<br />
Auschwitz 1, che era il Campo<br />
Base.<br />
Auschwitz 2, chiamato Birkenau,<br />
che si può dire fosse un campo di<br />
smistamento e di sterminio dove i<br />
prigionieri non svolgevano alcun<br />
lavoro utile alla guerra, ma in esso i<br />
Questa foto illustra la tragedia che si svolgeva all’arrivo di<br />
ogni convoglio di deportati alla stazione di Auschwitz-Birkenau.<br />
I crematori IV e V di Birkenau durante la loro costruzione.<br />
43
detenuti servivano solo a mantenere<br />
in funzione il campo che era<br />
una vera e propria fucina di<br />
morte.<br />
Auschwitz 3, che comprendeva<br />
altri sotto-campi di lavori forzati<br />
dove c’erano fabbriche di<br />
prodotti industriali ed armamenti;<br />
qui almeno i prigionieri erano al<br />
riparo dalle intemperie, anche se<br />
erano costretti a lavorare dodici<br />
ore al giorno.<br />
Come si svolgeva la vita ad<br />
Auschwitz?<br />
Filo spinato percorso dall’alta tensione.<br />
<strong>La</strong> sveglia era verso le tre, le<br />
tre e mezza. Dopo che la blocova ci aveva sbattute giù dal pagliericcio a maleparole,<br />
dovevamo riordinare quel giaciglio che avevamo per letto, e che non avrei dato<br />
per dormire nemmeno al mio cane, facendo bene attenzione agli angoli che dovevano<br />
essere squadrati al millimetro. Poi, si faceva la fila al gabinetto; certe mattine era<br />
così freddo che si rinunciava volentieri a lavarsi.<br />
Infine dovevamo metterci in fila per l’appello.<br />
L’appello era una vera tortura, perché non finiva mai; ore e ore immobili, fisse,<br />
con il sole, la neve o la pioggia, senza la possibilità di muoversi o di scambiare una<br />
parola con le altre.<br />
Giustamente, dopo un po’ i muscoli delle gambe si indolenzivano. Ma non ci si<br />
poteva mica abbassare per massaggiarsi, erano guai! Erano botte! Poi, ci davano un<br />
mestolino di caffè, almeno ci scaldavamo.<br />
Prima di uscire, però, ci contavano un’altra volta. Poi, a passo di marcia ci avviavamo<br />
verso il cancello, gonfiando i muscoli e cercando di assumere un’aria marziale,<br />
era una cosa pietosa, viste le nostre condizioni.<br />
A mezzogiorno circa ci fermavamo per mangiare, avevamo solo un quarto d’ora<br />
di tempo, ma per quello che ci davano era più che sufficiente.<br />
<strong>La</strong> zuppa era immangiabile, magari l’avevano portata quelle del kommando alle<br />
sette del mattino, perciò alle dodici era fredda e indigesta.<br />
Rientravamo prima che tramontasse il sole, quindi d’estate lavoravamo più dell’inverno.<br />
Appena rientrate, dovevamo andare all’appell serale; certe volte stavamo lì per<br />
ore, stanche, intirizzite dal freddo, senza neanche poter mangiare. Poi, la sola cosa<br />
che volevamo fare era dormire, così ci buttavamo esauste sul pagliericcio.<br />
Anche la disinfestazione era una tortura, per farla ci facevano saltare la “cena”.<br />
Una volta alla settimana ci facevano fare il bagno e ci sterilizzavano i vestiti per<br />
paura che scoppiassero delle epidemie, ma dovevamo aspettare ore prima che ce li<br />
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estituissero, e non sempre erano quelli che avevamo dato loro; quando li indossavamo<br />
erano ancora caldi e puzzavano di disinfettante, una cosa stomachevole.<br />
Se i conti non tornavano, era scappato qualcuno; allora bisognava restare in piedi<br />
finché le cose non fossero andate a posto; una volta, mi pare che fosse il mese di gennaio,<br />
i conti appunto non tornavano. Allora ci hanno fatto restare fuori, senza vestiti<br />
e senza mangiare, finché non hanno trovato quelli che mancavano.<br />
Ho letto su alcuni libri che certi appelli duravano anche giorni interi!<br />
Quando si voleva punire qualcuno, di solito si costringeva tutta la baracca a stare<br />
fuori all’aperto; era un supplizio, una cosa tremenda. Erano dei barbari!<br />
Ad Auschwitz faceva freddo e pioveva continuamente. Spesso capitava che diluviava<br />
e, mentre eravamo dentro al coperto, suonava il fischietto: “Appell!”. Così<br />
dovevamo uscire ed aspettare sotto l’acqua che facessero l’appello…<br />
Oppure facevamo appena in<br />
tempo a tornare dal lavoro e a fare<br />
l’appello che l’acqua cominciava a<br />
scendere giù a catinelle, e quando<br />
pensavamo di essercela scampata,<br />
suonava di nuovo il fischietto, così<br />
dovevamo tornare tutti fuori, e<br />
rimanerci anche due o tre ore.<br />
Spesso dovevamo lavorare sotto<br />
la pioggia, bagnati fin dentro le<br />
ossa... poi, appena si rientrava, si<br />
strizzava il cencio che avevamo<br />
addosso e ci si sdraiava sopra di<br />
esso per farlo asciugare... guai se lo<br />
avessero visto le SS, sarebbero<br />
state botte a non finire!<br />
Adesso soffro terribilmente di<br />
dolori; ne soffrivo anche là, un<br />
<strong>La</strong> drammatica cerimonia dell’appello.<br />
giorno mi sono svegliata e non mi potevo muovere, ma ho pensato che per fortuna<br />
era domenica e non si doveva andare a lavorare… non ho fatto in tempo a pensarlo<br />
che proprio quella domenica ci chiamarono e ci incolonnarono per andare a lavorare<br />
fuori.<br />
Fino al cancello mi hanno aiutata le mie compagne, perché da sola non ce l’ avrei<br />
fatta, ma davanti alle SS dovevamo sfilare a passo di marcia, diritte e marziali. Quando<br />
siamo uscite, ci hanno fatto fare qualche giro e poi ci hanno fatte rientrare; allora<br />
sono andata dalla blocova, le ho cercato di spiegare che non stavo bene e lei mi ha<br />
messa in lista per le visite del giorno dopo, costringendomi, anche se stavo malissimo,<br />
ad andare a lavorare ugualmente! Sono andata al revier, dove mi hanno fatta spogliare<br />
e mi hanno dato un termometro che avrei dovuto mettere nell’ano… ma io non<br />
avevo capito e l’ ho tenuto in mano, poi gliel’ho restituito; la blocova mi ha dato un<br />
biglietto dicendomi che la sera dopo sarei dovuta tornare. Quando sono tornata, mi<br />
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hanno fatto segno che avrei dovuto stendermi dentro una cassa da morto piena di<br />
lampadine. Io ero spaventata, e non ci sono più voluta andare.<br />
Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.<br />
<strong>La</strong> parte più amara e più tragica della terribile esperienza dei campi<br />
d’internamento era senza dubbio quella toccata alle donne ed ai bambini.<br />
Il campo femminile di Auschwitz-Birkenau, sorto per volere di Himmler nell’anno<br />
1942, doveva accogliere tutte le donne ebree deportate, comprese quelle che già<br />
si trovavano nel <strong>La</strong>ger di Ravensbrück, poi vi vennero internate anche donne non<br />
ebree.<br />
Anche per esse la Selezione si svolgeva all’arrivo, nel consueto modo brutale. In<br />
presenza di numerose SS che continuamente dicevano frasi sarcastiche e volgari,<br />
dovevano spogliarsi interamente e subire un minuzioso controllo genitale e rettale<br />
per accertare che non vi avessero nascosto oggetti preziosi. Poi le scampate alla<br />
Selezione venivano tatuate e rapate ma in modo così irregolare da rendere il loro<br />
aspetto grottesco e pietoso. Ricevevano poi dei vestiti laceri e sudici, in uno stato tale<br />
da farle sembrare spaventapasseri. Così entravano nel <strong>La</strong>ger.<br />
Se tutte le donne del mondo civile meditassero su quale dovesse essere lo stato<br />
d’animo di quelle povere sventurate, strappate alla loro vita familiare e sottoposte<br />
ad un trattamento così umiliante che feriva i loro intimi sentimenti di pudore e le<br />
riduceva a fantasmi cenciosi!<br />
Venivano stipate in tetre baracche puzzolenti, conducendo una vita d’inferno.<br />
Nelle cuccette dei “castelli” giacevano strette una all’altra in un sudiciume indescrivibile<br />
e le “installazioni igieniche” loro riservate erano ancora più scarse e forse<br />
peggiori di quelle esistenti nel campo maschile.<br />
Il loro ciclo mensile spariva per effetto di misteriose medicine mescolate al cibo,<br />
e come conseguenza di ciò, il loro corpo si ricopriva di pustole, foruncoli ed ascessi.<br />
Avevano l’interno della bocca pieno di<br />
vesciche.<br />
Per quanto riguarda il loro impiego nel<br />
lavoro, le detenute che non venivano scelte<br />
per essere trasferite nelle industrie e nei servizi<br />
dell’organizzazione del campo erano sottoposte<br />
a compiti gravosi che comportavano<br />
fatiche e sforzi cui, per la maggior parte,<br />
erano assolutamente inadatte… ed a volte,<br />
recandosi al lavoro o tornando da esso,<br />
erano costrette a cantare altrimenti erano<br />
riempite di botte.<br />
Le Kapos destinate alla disciplina erano<br />
quasi sempre giovani e robuste, ben vestite e<br />
con un frustino tra le mani. Venivano inviate<br />
espressamente a Birkenau da altri campi, ed<br />
46<br />
Donne e bambini ebrei incolonnati mentre attendono di<br />
essere condotti al loro triste destino.
erano generalmente “triangoli verdi”, cioè rifiuti di galera, capaci di superare i loro<br />
colleghi uomini in fatto di crudeltà e depravazione.<br />
I tormenti e le sevizie fisiche e morali cui sottoponevano le prigioniere abbandonate<br />
al loro arbitrio erano quanto di più atroce potrebbe escogitare la mente di un<br />
pazzo sanguinario.<br />
Schiaffi, pugni, calci, frustate, venivano distribuiti abitualmente per ogni futile<br />
motivo ed anche senza motivo. Le Kapos si scatenavano per niente, si scagliavano<br />
come furie sulle prigioniere e strappavano loro le vesti, le graffiavano, le mordevano…<br />
a volte le facevano correre all’aperto, nude, seguite da una Kapo che con un<br />
frustino le colpiva nelle parti intime.<br />
Molte prigioniere, troppo prostrate dall’avvilimento e dalla disperazione, si<br />
lasciavano morire per finirla con quell’inferno.<br />
In un punto appartato del campo era stato installato un luogo ad uso delle SS del<br />
<strong>La</strong>ger e dei militari di passaggio. Sceglievano le donne più giovani e belle fra le<br />
internate e queste povere ragazze, dopo aver ricevuto un corredo nuovo di biancheria<br />
che potevano cambiare frequentemente, avevano l’obbligo di intrattenere le SS<br />
del campo ed i soldati tedeschi diretti al fronte… il “cliente” che rimaneva insoddisfatto<br />
delle prestazioni di una ragazza poteva fare rapporto al Comando, così che la<br />
donna veniva mandata alle camere a gas.<br />
Le donne in stato interessante venivano destinate all’arrivo alle camere a gas.<br />
A causa della denutrizione e delle pessime condizioni igieniche del campo qualsiasi malattia era pericolosa.<br />
Quando il medico di servizio alla Selezione non riusciva a riconoscere lo stato di<br />
gravidanza delle deportate, esse venivano giudicate valide al lavoro ed entravano<br />
nel campo.<br />
Esse facevano l’impossibile per mascherare le loro condizioni e spesso riuscivano<br />
a non farsi scoprire fino al sopraggiungere delle doglie… ma, al verificarsi del<br />
parto, sia la mamma che il neonato finivano al crematorio.<br />
Cosa le davano da mangiare?<br />
Ah, per carità! Al mattino ci avrebbero dovuto dare mezzo litro, ma non era nemmeno<br />
un quarto, di un liquido sporco che chiamavano caffè; se non altro, smorzava<br />
47
la sete, perché non avevamo la possibilità di bere niente.<br />
A mezzogiorno ci davano della zuppa, una specie di brodaglia con dentro di tutto:<br />
bucce di patata oppure torsoli di rapa, magari raccolti dalla spazzatura. Qualche volta<br />
c’era un filo di pasta, ma uno di numero, oppure un pezzettino di carne che, a ripensarci<br />
adesso, chissà che carne fosse...non riuscivo a mangiarla perché si diceva che<br />
fosse la carne degli ebrei.<br />
<strong>La</strong> sera, dopo che eravamo rientrate dall’appello, ci davano un pane tipo panecarré.<br />
Noi lo dividevamo in quattro, e poi ci spalmavamo sopra un cucchiaino di marmellata<br />
o un pezzettino di margarina. Oppure ci davano una fettina di salame sottile<br />
come l’ostia… alcune dicevano che fosse fatto con la carne degli ebrei.<br />
Una volta mi ricordo che ci hanno dato un semolino grigio e puzzolente; era così<br />
strano che qualcuna ha detto che era fatto con la cenere dei morti.<br />
Quelle che lavoravano nelle baracche, le raccomandate, prendevano per sé o per<br />
le loro clienti la parte migliore della zuppa, la parte finale, che era sempre più densa<br />
perché non si rimescolava mai il bidone. Quelle brutte bestie avevano le loro clienti<br />
che, per un mestolino di zuppa in più, cedevano la fettina di salame o la margarina;<br />
quello era il modo di vivere lì. Ognuna si organizzava come poteva.<br />
C’erano alcune prigioniere, come le russe o le polacche, che ricevevano dei pacchi<br />
da casa. Una russa una volta mi venne vicina e mi fece vedere che aveva dell’aglio,<br />
una cosa preziosissima perché lo si poteva strusciare sul pane facendogli cambiare<br />
quel brutto sapore che aveva. Premetto che io ho sempre odiato l’aglio, quindi<br />
quando lei me lo offrì ed io faci segno di no con il capo, pensò che non lo volessi perché<br />
non avevo nulla da darle in cambio, allora quella povera creatura mi fece intendere<br />
che me lo avrebbe dato senza volere niente.<br />
Mi disse: “Nema, nema gleba”. Cioè: “Niente pane”. Alla fine capi perchè lo rifiu<br />
tavo; ma quando lo hanno saputo le mie compagne, avrebbero voluto mangiarmi.<br />
“Quanto sei stata stupida!” mi dissero. Perché per loro giustamente quella era una<br />
cosa rara, per averlo bisognava barattare due porzioni di pane.<br />
Per chi non riceveva pacchi o non aveva amicizie influenti era più difficile, allora<br />
si strappavano le cicorie che crescevano spontanee in campagna e alla sera si mettevano<br />
dentro la zuppa, ancora sporche di terra.<br />
Quando capitava di lavorare vicino alla stalla ci si ingegnava per afferrare qualche<br />
manciata di fave. Ma era un rischio tremendo, peggiore delle malattie che potevamo<br />
buscarci mangiando quelle erbe strane.<br />
All’inizio, durante la settimana distribuivano anche una doppia razione di pane, e<br />
comunque si riusciva sempre a rubare qualche cosa. Dopo, a mano a mano che il<br />
numero dei prigionieri aumentava, le cose peggiorarono; mi ricordo che prima dividevamo<br />
il pane in quattro, poi cominciammo a tagliarlo per sei, per otto, per dieci.<br />
Poco prima di partire lo dividevamo per ventiquattro, proprio una fettina minuscola<br />
a testa. E certe volte non ce lo davano nemmeno. Allora è cominciata la fame nera.<br />
A Ravensbrück era lo stesso.<br />
Per fortuna che ci hanno mandato a lavorare in fabbrica, dove la vita era migliore,<br />
ma quando il fronte è arrivato anche lì, è cominciata la fame. Non c’era più nulla<br />
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da mangiare, la brodaglia di un litro, che invece era sempre di tre quarti, arrivò ad<br />
essere di mezzo litro, poi, alla fine, un quarto; era appena un mestolino, senza sale,<br />
senza bucce o torsoli.<br />
Il cibo era, quindi, una specie di moneta...<br />
Sì. Ogni cosa aveva un valore di mercato: per l’aglio occorrevano due porzioni di<br />
pane, mentre per una fetta di pane ci voleva un mestolo di zuppa.<br />
Un bottone poteva valere una mezza fetta di pane o un cucchiaino di marmellata...<br />
Dipendeva molto da quello che si trovava e da ciò che si aveva.<br />
Chi riceveva pacchi da casa, come le polacche e le russe, aveva chiaramente più<br />
possibilità di chi non aveva niente.<br />
In questo le italiane sono state molto penalizzate.<br />
E’ vero che dentro la bocca si formavano dei foruncoli?<br />
A me personalmente non è successo. Però, dicono che si formassero delle piaghe<br />
ulcerose e che fosse difficile mangiare e bere. Ma i foruncoli spuntavano anche sulla<br />
pancia, del resto, con tutta la sporcizia che ci davano!<br />
In alcuni libri c’è scritto che, per bloccare le mestruazioni, i tedeschi somministravano<br />
alle detenute degli strani intrugli mischiati al mangiare...<br />
Nessuna aveva più le mestruazioni, tranne le polacche che ricevevano i pacchi da<br />
casa e che non mangiavano le nostre schifezze; loro erano delle privilegiate.<br />
Tenevano per sé una piccola parte e vendevano o regalavano il resto alle proprie<br />
amicizie per mantenersele buone.<br />
Spesso però quei pacchi subivano una serie di razzie da parte delle kapò o delle<br />
blocove o di quelle molto influenti… sì, sicuramente dovevano mettere qualcosa nel<br />
mangiare, altrimenti non si spiega come più nessuna abbia avuto il proprio ciclo.<br />
49
Il dottor Mengele<br />
Ha mai incontrato il dottor Mengele?<br />
Sì. Lui presiedeva sempre alle selezioni, sia per mandare noi o gli ebrei ai forni,<br />
sia per scegliere quelli da vendere alle fabbriche.<br />
Da lui dipendevano milioni di vite umane.<br />
Ricordo che era un bel giovane, aveva un aspetto distinto e a prima vista non sembrava<br />
un criminale.<br />
Egli non visitava i prigionieri, li guardava soltanto, e decideva così, con fare indifferente,<br />
chi poteva ancora vivere e chi, invece, doveva morire.<br />
Noi lo conoscevamo come il dottore del campo, poi abbiamo saputo chi realmente<br />
fosse. Non era lui che ci curava!! Noi eravamo “aiutate” da dottori che erano<br />
anch’essi prigionieri perché, quando arrivavano i trasporti, i tedeschi chiedevano<br />
sempre se ci fossero tra i deportati dei medici. Quei poveri disgraziati si prestavano<br />
come potevano, con coscienza ma senza niente, nemmeno il disinfettante.<br />
Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.<br />
Joseph Mengele apparteneva alle formazioni SS. Era il medico-campo a Birkenau<br />
nel periodo delle più vaste e feroci operazioni di sterminio e vi rimase fino allo<br />
sgombero del campo all’avvicinarsi delle armate sovietiche.<br />
Era lo specialista della Selezione sia all’arrivo dei convogli sia dentro i blocchi<br />
di lavoro o dell’infermeria.<br />
Alle Selezioni procedeva in modo sempre estremamente sbrigativo. Ordinava ai<br />
detenuti di denudarsi e se li faceva sfilare davanti, passandoli in rivista. Nessuna<br />
considerazione di carattere clinico sembrava presiedere a certe sue scelte che spesso<br />
erano arbitrarie. Mengele era alto e robusto ed aveva un viso dai lineamenti regolari,<br />
ma con un’espressione estremamente dura e con un’impronta di crudeltà che<br />
quasi l’alterava. Ma in fondo non doveva essere altro che un debole ed un vile, perché<br />
gli internati polacchi affermavano che quando arrivavano ordini di ridurre drasticamente<br />
i quadri delle SS del campo per sopperire alle crescenti esigenze belliche,<br />
egli ricorreva a tutte le astuzie possibili per evitare di essere spedito al fronte. Quando<br />
i gruppi di SS partivano da Auschwitz per andare a combattere, Mengele aveva<br />
sempre qualche “missione speciale” da svolgere, per cui si rendeva indispensabile<br />
la sua permanenza a Birkenau… preferiva il compito di “provveditore delle camere<br />
a gas” a quello di combattente in prima linea.<br />
Mengele avrebbe dovuto essere processato quale responsabile della morte di<br />
milioni di prigionieri, ma dopo essere stato arrestato dagli alleati nel campo di Belsen,<br />
si ammalò di tifo e, durante la convalescenza, riuscì a fuggire.<br />
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<strong>La</strong> fame<br />
Nel campo c’era del personale medico per le prigioniere? C’erano medicine?<br />
Sì, c’era un ospedale, ma per modo di dire...<br />
Ci potevamo andare solo se era proprio necessario, cioè se avevamo la dissenteria<br />
o almeno quaranta gradi di febbre.<br />
Per passare la visita bisognava chiedere il permesso alla blocova almeno la sera<br />
prima. Al mattino lei prendeva il numero delle persone che non sarebbero andate a<br />
lavorare, poi chiamava qualcuno per farle accompagnare in ospedale. Prima di entrare<br />
dentro la baracca dell’infermeria bisognava spogliarsi e aspettare nudi il proprio<br />
turno.<br />
Dopo la visita, se lo ritenevano necessario, ricoveravano. Ma il revier era<br />
l’anticamera della morte perché le selezioni avevano inizio sempre da lì.<br />
Vi si potevano curare solo le piaghe e la dissenteria, che a causa del mangiare che<br />
ci davano scorreva a fiumi.<br />
I malati venivano sistemati nei castelli 4 , sulle brandine dovevano starvi dalle due<br />
alle tre persone, e siccome tutte soffrivano di diarrea, è facile immaginarsi che cosa<br />
succedesse.<br />
Le medicine erano inesistenti, e i medici spesso erano costretti a dividere una<br />
compressa di aspirina tra più persone, ossia tra quelle che avevano possibilità di<br />
vivere, le altre erano abbandonate a sè stesse.<br />
Qualche volta riuscivano ad organizzare qualcosa grazie a quelli che lavoravano<br />
nei magazzini; frugando nelle valigie dei prigionieri, specie in quelle degli ebrei, era<br />
facile trovare aspirine, sonniferi, pomate contro i geloni e altri tipi di medicinali.<br />
Anche se era pericoloso, le addette al kommando “Canada”, cioè le persone che<br />
lavoravano nei magazzini dove depositavano ciò che veniva portato via ai prigionieri,<br />
se le mettevano in tasca e poi le facevano avere ai medici.<br />
Ma curare migliaia e migliaia di persone con così poco medicinale...<br />
In uno dei miei libri c’è la testimonianza di una dottoressa di origine russa internata<br />
ad Auschwitz: lavorava in un sanatorio a Sondrio e, dato che era ebrea,<br />
l’avevano deportata. Appena arrivò al campo, le SS chiesero se ci fossero dei medici,<br />
e lei si fece avanti.<br />
Quella povera creatura racconta di essersi trovata tante volte con una sola fiala in<br />
mano e nella condizione di dover decidere se far vivere questa o quell’ammalata, perché<br />
altrimenti la medicina non sarebbe bastata a nessuna; deve essere stata una cosa<br />
terribile.<br />
Io, grazie a Dio, non sono mai entrata nel revier. E pensare che dentro Mauthausen<br />
una SS mi fece capire che ero tanto magra e malconcia da non avere alcuna possibilità<br />
di sopravvivere. Invece non mi sono ammalata e ce l’ ho fatta.<br />
Quando cominciavo ad avere un po’ di dissenteria, per qualche tempo smettevo di<br />
mangiare, avevo la forza di farlo, tanto, con quello che ci davano...<br />
Io ho conosciuto quella dottoressa, nel suo libro lei parla di me e della <strong>mia</strong> amica.<br />
4 Le detenute dormivano su tavolati disposti verticalmente, chiamati “castelli”.<br />
53
Non cita i nostri nomi, ma quando abbiamo letto l’episodio che ci riguardava abbiamo<br />
detto: “Queste siamo noi!”.<br />
Quel giorno eravamo fuori la baracca dell’ospedale… ci voleva del coraggio per<br />
chiamarlo così; ad un certo punto abbiamo visto i barili della zuppa fuori il revier.<br />
Allora ci siamo avvicinate per vedere se c’era rimasto qualcosa sul fondo… la zuppa<br />
era spessa e nessuno la rubava; c’era qualcosa che galleggiava. Immediatamente ci<br />
siamo messe a mangiare.<br />
Evidentemente la dottoressa ci deve aver viste, perché è uscita come una furia e,<br />
strillando, si è messa le mani nei capelli e ci ha detto: “No, ragazze, non mangiate: è<br />
lo sputo dei tubercolosi!”.<br />
“Ma noi abbiamo fame!”. Quando lei si è voltata, noi abbiamo continuato a mangiare.<br />
Non c’era niente da fare: avevamo fame!<br />
Bastava... che so, una buccia di patata per terra, e subito un milione di occhi gli<br />
erano sopra. E mentre nessuna voleva far capire di averla vista, piano, piano ci si<br />
avvicinava. Finché qualcuna la mangiava.<br />
Se trovavamo un pezzetto di pane nella spazzatura 5 , anche se aveva un dito di<br />
muffa, lo pulivamo bene e lo mangiavamo.<br />
Se si trovava in due qualcosa da mangiare, si litigava come bestie… si viveva<br />
odiandosi a vicenda, quasi non ci si poteva soffrire. Ci hanno fatto diventare peggio<br />
delle bestie.<br />
C’era anche il blocco degli infetti, che era circondato da un muro altissimo; la <strong>mia</strong><br />
amica aveva qualche foruncoletto sulla pancia e l’hanno portata lì… io non potevo<br />
permettere che ci separassero, così ho cominciato a grattarmi, facendo in modo che<br />
mettessero anche me dentro il blocco. Ricordo che uscivo saltando il muro, rubavo<br />
quello che potevo e poi rientravo dalla porta, perché entrare si poteva, uscire no! Ero<br />
diventata una brava ladra, sapevo organizzare bene le cose. Anche le foglie mettevo<br />
in bocca, e dicevo che, quando saremmo tornate a casa, ci avremmo fatto una bella<br />
insalata.<br />
5 Generalmente era quella dei prominenter; i detenuti normali non avevano nulla di cui disfarsi.<br />
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Le lacrime<br />
Le persone di maggiore istruzione, come la dottoressa di cui mi ha parlato o<br />
Primo Levi, ricevevano un trattamento di favore?<br />
Mah, era tutta questione di fortuna. Primo Levi era stato scelto per lavorare in un<br />
certo modo perché era un chimico, ma poi gli hanno fatto fare un altro lavoro.<br />
Erano pochissimi quelli che potevano esercitare il proprio mestiere.<br />
I dottori, gli ingegneri e gli interpreti erano molto richiesti, anche se ebrei perché<br />
erano la razza più istruita; quando arrivava un trasporto, i tedeschi chiedevano subito<br />
se ce ne fossero.<br />
Sul treno che dall’Italia ci ha portato a Mauthausen c’era un signore che conosceva<br />
cinque lingue. Quando è arrivato al campo, i tedeschi gli hanno subito assegnato<br />
un posto importante. Mi hanno detto che poi è diventato un assassino come<br />
altri pezzi grossi, perché chi occupava una certa posizione poteva mantenerla solo<br />
ammazzando gli altri.<br />
Noi italiane eravamo quasi tutte povera gente, quei posti là toccavano sempre alle<br />
tedesche oppure alle polacche, perché originariamente il campo di Auschwitz era<br />
stato costruito per loro, quindi, finirono con l’occupare tutti i posti di capo-blocco, di<br />
kapò e di stubova.<br />
Le polacche erano cattive, anzi si può dire che erano più cattive delle tedesche:<br />
uno schiaffo dato da una SS si poteva anche tollerare, ma uno dato da una prigioniera<br />
no, assolutamente!<br />
Anche quelli che lavoravano negli uffici come impiegati di concetto avevano un<br />
trattamento a parte, lavorando gomito a gomito con i tedeschi, potevano lavarsi,<br />
indossare abiti puliti, portavano lo stesso la divisa, ma almeno era pulita; e poi si<br />
potevano permettere maglioni, mutande, calzettoni, tutto insomma, e potevano mangiare<br />
cose migliori delle nostre “prelibatezze”.<br />
Poi c’erano le kapò, cioè quelle che comandavano sul lavoro; erano tremende,<br />
organizzate e traffichine.<br />
Se per esempio arrivava un bidone con cento razioni, loro ne distribuivano solo<br />
settanta oppure ottanta; il resto lo mettevano da parte per commerciare.<br />
Invece la blocova o blockalsten comandava nei block, assieme a tre o quattro che<br />
erano le sue aiutanti, le stubove.<br />
Infine c’erano le raccomandate, amiche della blocova o di una stubova; dicevano<br />
di fare le “pulizie”, invece stavano tutto il giorno in baracca a far niente.<br />
Ogni tanto capitava di vedere in giro dei giovanetti di quindici o sedici anni ben<br />
vestiti e pasciuti, cattivi come la peste, ecco, quelli erano l’amante di un kapò. Fintanto<br />
che gli andava bene, venivano trattati con ogni riguardo e potevano permettersi<br />
ogni capriccio. Ma se il loro amico cambiava idea per loro sarebbe stata la camera<br />
a gas. Anche tra quelli che comandavano c’erano degli italiani; una volta eravamo<br />
in campagna a lavorare in un campo enorme; in mezzo c’era un grosso sasso, dove<br />
di solito si sedeva una SS con a fianco un cane. Un giorno ha chiamato noi italiane e<br />
55
ci ha detto che voleva che gli cantassimo la canzone “Mamma” in italiano.<br />
“Allora te sei italiano?”. Gli abbiamo domandato con rabbia.<br />
“Sì, perché?”.<br />
Non l’avesse mai detto, ci siamo scatenate! Le parolacce che gli abbiamo potuto<br />
dire...<br />
Di sicuro era uno che si era venduto per sopravvivere. Allora lui ci ha minacciate:<br />
“Lo sapete che cosa vi posso fare?”.<br />
Purtroppo lo sapevamo bene; se qualcuno faceva una cosa che non doveva fare,<br />
le SS lo accusavano di sabotaggio e gli prendevano il numero. E se all’appello serale<br />
lo chiamavano, era il bunker...<br />
...e da lì, difficilmente si usciva. Ma noi non abbiamo avuto paura, eravamo così<br />
abituate a guardare in faccia la morte che non ci siamo minimamente preoccupate.<br />
Anzi, certe volte quasi la si pregava, perché almeno, quella vita che non era più<br />
vita, sarebbe finita.<br />
Ricordo che ci siamo alzate la manica e gli abbiamo mostrato il braccio. “Ecco,<br />
prendi il numero se hai coraggio!”.<br />
Eravamo esasperate, non ci vedevamo più per la rabbia. Quando siamo rientrate,<br />
però, avevamo tutte paura.<br />
Invece non ci hanno chiamate.<br />
Un’altra raccomandata era la signorina Margherita. Era un triestina e conosceva<br />
ben cinque lingue. Siccome noi non capivamo quello che la blocova diceva, lei faceva<br />
da tramite. Per esempio, quando siamo arrivate in Auschwitz, la blocova ci ha<br />
fatto un discorsetto sulle regole del campo… e chi ci aveva capito qualcosa? Allora<br />
la signorina Margherita ci ha spiegato il significato di quelle parole: non si doveva<br />
bere, non si doveva pregare, non si doveva parlare durante l’appello… altrimenti si<br />
finiva al crematorio, non si doveva piangere...<br />
Invece si piangeva, e tanto! Ma le lacrime si ghiacciavano sul viso,e faceva<br />
più male... il respiro diventava una specie di barba di ghiaccio.<br />
56
Il “Kommando Canada”<br />
Indossava la divisa o abiti riciclati dai bagagli dei prigionieri?<br />
Fortunatamente, quando sono arrivata io c’erano ancora disponibili le divise;<br />
dopo, invece, hanno cominciato a distribuire gli avanzi dei vestiti rubati dalle nostre<br />
valigie o da quelle degli ebrei; le cose buone le spedivano in Germania.<br />
<strong>La</strong> divisa era costituita da una specie di camicione di cotone a righe, un paio di<br />
calze rotte e un paio di scarpe… siccome per loro non faceva differenza, poteva capitare<br />
di vedersele assegnate spaiate: due destre o due sinistre, una scarpa piccola e una<br />
grande, una da uomo e una da donna, uno stivale e un sandalo.<br />
Ogni tanto, in coincidenza con la disinfestazione, cambiavano la biancheria, nel<br />
senso che quello che levavo io lo davano ad un’altra e il suo lo davano a me… non<br />
la cambiavano certo per ridarcela pulita…<br />
Bene o male, si cercava di accontentarsi e di tenere quella roba un po’ da conto.<br />
Qualche volta si era costretti a sacrificare una fetta di pane per avere ago e filo con<br />
cui rammendarla, un laccio, un bottone... Se non si aveva niente da vendere, si rubava.<br />
Ricordo che poi l’ago con il filo attorcigliato attorno lo tenevamo infilato all’interno<br />
della divisa, solo che, siccome non era in dotazione, se non lo si nascondeva<br />
bene, alla prima ispezione ce lo avrebbero portato via.<br />
Noi non avevamo niente, ma nel campo c’era ogni ben di Dio, bastava pagare e<br />
rivolgersi alle persone giuste, cioè alle kapò e alle blocove.<br />
Quando arrivavano i nuovi prigionieri, prendevano le loro cose e le ammucchiavano<br />
in grossi magazzini, poi le controllavano con calma per vedere se nei tacchi<br />
delle scarpe o nelle cuciture dei vestiti ci fosse nascosto dell’oro, delle banconote o<br />
dei gioielli; gli ebrei avevano l’abitudine di nasconderli là per non farseli rubare.<br />
In quei magazzini lavorava un kommando che si chiamava “Canada”. Non so perché<br />
si chiamasse così. Solo le persone raccomandate potevano entrarci. Certe volte<br />
gli addetti a quel kommando allungavano le mani e rubavano qualcosa; era pericoloso,<br />
ma con quello che rubavano facevano mercato con gli altri detenuti oppure con i<br />
civili. Se per esempio si voleva un fazzoletto, bastava chiederlo a loro, sacrificando<br />
mezza razione di pane, lo davano.<br />
I tedeschi ci controllavano frequentemente, evidentemente sapevano di quei traffici;<br />
quando ci andava bene facevano finta di nulla. Altrimenti erano legnate.<br />
Ogni tanto frugavano dappertutto oppure fermavano la colonna quando rientrava<br />
dal lavoro e, mentre le SS stavano a guardare, i prigionieri che lavoravano per loro<br />
la controllavano ovunque. Se per caso si era organizzato un cencio e lo scoprivano,<br />
con quattro schiaffoni lo requisivano perché per loro significava sabotaggio.<br />
Io avevo organizzato due fazzoletti. Non ricordo dove li avevo presi… erano preziosissimi,<br />
una vera ricchezza! Ero sempre riuscita a nasconderli appallottolandoli tra<br />
i cenci, ma quando sono partita per Ravensbrück me li hanno trovati e presi.<br />
Quelli che lavoravano nelle fabbriche con i civili avevano maggiori possibilità di<br />
“organizzare” qualcosa… anche se a me non è mai capitato, forse perché non erano<br />
italiani ed io non riuscivo a farmi capire.<br />
57
“Canada” era un deposito di vestiario, scarpe,<br />
biancheria ed altri oggetti appartenenti ai deportati del<br />
<strong>La</strong>ger che venivano classificati dai detenuti, sotto la<br />
sorveglianza delle SS e dei Kapos. Tutto quello che era<br />
contenuto nel deposito era destinato alla popolazione<br />
tedesca più bisognosa, la quale dichiarò di ignorare la<br />
provenienza di questi aiuti. I prigionieri addetti al<br />
“Canada” erano privilegiati rispetto agli altri perché,<br />
oltre ad avere la possibilità di lavorare al riparo, il<br />
lavoro non era faticoso ed avevano anche modo di<br />
“organizzare”, cioè di sottrarre gli oggetti o gli indumenti<br />
di cui avevano bisogno, utilizzandoli per se, passandoli<br />
agli amici, oppure rivendendoli alla borsa<br />
nera.<br />
58<br />
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />
Oggetti appartenuti ai detenuti e immagazzinati dalle SS: catini, pettini,<br />
scarpe, occhiali...
Le baracche dei lager<br />
Che dimensioni avevano le baracche e quante persone potevano contenere?<br />
I block erano misti, un vero inferno di lingue.<br />
Di solito, ogni blocco era adibito ad un lavoro per semplificare l’attività; se si<br />
cambiava lavoro, si cambiava anche di blocco. Se si aveva la fortuna di capitare in<br />
uno dove c’era un po’ di spazio, bene, altrimenti, bisognava fare a botte. D’altra<br />
parte, su un tavolaccio già si stava in due o in tre, se arrivava un’altra persona, non<br />
ci si entrava più.<br />
I “letti” avevano un lato murato ed erano<br />
disposti lungo tutto il perimetro del blocco,<br />
formando una specie di letto a castello.<br />
C’erano castelli anche al centro della baracca,<br />
così che si formavano corridoi strettissimi.<br />
Nel lager A i castelli erano disposti su due<br />
piani, invece nel lager B su tre.<br />
Di solito si dormiva due per panca, ma<br />
alla fine si arrivò ad essere molte di più. In<br />
quarantena e durante gli ultimi mesi, quando<br />
i tedeschi sfollavano i detenuti dai campi<br />
vicino al fronte per non farli cadere in mano<br />
ai russi, si dormiva anche per terra. Le tavole<br />
erano lunghe circa mt.1,50; certo erano piccole,<br />
ma per noi l’importante era poterci<br />
sdraiare.<br />
Però, se una voleva girarsi o doveva andare<br />
in bagno, e capitava che chi avesse la diarrea<br />
doveva alzarsi anche più volte per notte,<br />
finiva con lo svegliare le compagne della<br />
branda ed anche tutta la baracca.<br />
Ogni baracca avrebbe dovuto ospitare<br />
200, 300 persone, invece ce n’erano sempre<br />
di più; alla fine della guerra siamo arrivate a 1000, 1500.<br />
Nel lager A avevamo la stufa, che non funzionava mai. Invece nel lager B si diceva<br />
che ci fosse il riscaldamento, sulle pareti correva una specie di muricciolo, dove<br />
secondo alcune dovevano esserci i tubi del gas, ma non era vero niente. Avevamo in<br />
dotazione due coperte con cui coprirci, mentre per cuscini usavamo le nostre scarpe,<br />
così non ce le rubavano.<br />
Dormivamo su un pagliericcio che ormai era fatto più di polvere che di paglia<br />
quando al mattino ci alzavamo, lo dovevamo sprimacciare e livellare, altrimenti<br />
erano legnate. Per essere sicure che lo facessimo bene, ogni mattina la blocova e le<br />
sue aiutanti facevano il giro di ispezione.<br />
Nel lager A la blocova non era cattiva. Anche una delle due stubove, Savina, non<br />
59<br />
Interno di una baracca. I prigionieri sono ammucchiati<br />
nei castelli in quattro, in uno spazio che non era più largo<br />
di 80 cm.
era malvagia; doveva essere una studentessa, perché voleva imparare l’italiano e si<br />
era fatta amica quella che conosceva molte lingue, così lei non andava a lavorare.<br />
Invece l’altra stubova era terribile. Non ricordo come si chiamasse, noi la chiamavamo<br />
Cinque, perché non faceva altro che strillare che dovevamo essere in fila per<br />
cinque. Lo strillava in tutte le lingue, e quando la sentivamo ci passavamo parola per<br />
paura che quelle dietro non l’avessero udita. Era piccola di statura, giovane, sempre<br />
con il bastone in mano: una vera belva.<br />
<strong>La</strong> blocova del lager B era tedesca e portava il triangolo verde, quindi era un<br />
avanzo di galera. Quella era un’altra belva.<br />
Un giorno non ci hanno portato la zuppa dove lavoravamo. Alla sera ci hanno dato<br />
mezza fetta di pane e quando è arrivato il bidone della zuppa, ci hanno dato solo un<br />
mestolino da un quarto invece che uno grande. Ricordo che ho rifatto la fila, ma la<br />
“blocova avanzo di galera” mi ha riconosciuta (a noi italiane ci riconoscevano sempre,<br />
chissà perché?!) e mi ha dato due legnate: una mi ha presa il collo lasciandomi<br />
il segno, l’altra l’ho parata con la mano, ma così mi ha spaccato il polso… e non ho<br />
avuto la zuppa.<br />
I gabinetti erano sistemati in un’altra baracca lunga, attraversata da un muricciolo<br />
con dei basamenti di cemento corrispondenti e un pozzo in comune, quindi, quando<br />
qualcuna aveva la diarrea... al mattino i gabinetti traboccavano. Ma si doveva<br />
stare attenti a non sporcare, perché altrimenti erano guai! Dovevamo pensarci noi<br />
detenute a pulirli.<br />
Come faceva ad andare al bagno?<br />
Non eravamo libere di andarci quando volevamo e poi mancava l’acqua. Nel<br />
lager A non c’era assolutamente, ma quello era il campo della quarantena e degli<br />
ebrei, e siccome ci doveva trasformare in bestie, non poteva esserci l’acqua.<br />
Il lager A era una cosa tremenda, significava morte certa. Invece il lager B...<br />
Oddio, al posto dei tavolacci di legno del lager A c’erano i castelli, ci si stava in<br />
due o tre, però... anche la coperta era un pò più... no, anche se mi sforzo non riesco<br />
a trovare una parola bella...<br />
Però nel lager B c’era un filo d’acqua. Allora al mattino, dopo aver fatto la fila,<br />
ci lavavamo la faccia, anche se magari non ne avevamo la forza, ma in fondo avevamo<br />
ancora un po’ di personalità che ci spingeva a dire: “Poterci lavare la faccia!”.<br />
Però non avevamo niente con cui asciugarci. Quando ci spogliavamo, mettevamo<br />
quei quattro cenci che avevamo in mezzo alle gambe, altrimenti ce li rubavano. Ma<br />
così era impossibile lavarsi.<br />
Quando andavamo a fare la doccia, invece, bene o male ci davamo una pulita.<br />
Anche per i bisogni non avevamo nulla con cui pulirci ed asciugarci; usavamo gli<br />
stracci che avevamo addosso.<br />
Quando lavoravamo in mezzo alla campagna usavamo quelle specie di baracche<br />
che si possono spostare da una parte all’altra, ma prima dovevamo chiedere il permesso,<br />
e se dicevano di no era no. <strong>La</strong> stessa cosa succedeva in fabbrica, bisognava<br />
chiedere il permesso, altrimenti ci potevano anche sparare.<br />
60
Da qui non si esce vive!<br />
Lei è stata trasferita da Auschwitz a Ravensbrück il 27 ottobre del 1944.<br />
Che atmosfera regnava nel campo all’epoca della partenza?<br />
Quelli sono stati i giorni più brutti. I tedeschi smisero di portarci a lavorare; il<br />
fronte era vicinissimo e noi eravamo sicure che da lì non saremmo uscite vive.<br />
Eravamo sballottate di qua e di là, poi un giorno ci hanno portate in un sotterraneo<br />
pieno di roba, un fatto davvero eccezionale, perché a noi prigionieri era proibito<br />
entrare in certi locali; ci hanno anche permesso di approfittare.<br />
Allora abbiamo pensato che fosse veramente finita; ricordo che non facevamo<br />
altro che ripetere: “Da qui non si esce più vive”.<br />
Poi è arrivato l’ordine di partire. Prima però, ci hanno fatte spogliare e ci hanno<br />
portate di peso a fare la doccia… eravamo terrorizzate, avevamo paura che ci volessero<br />
ammazzare gasandoci.<br />
Quando abbiamo visto uscire dai tubi acqua e non gas abbiamo tirato un sospiro<br />
di sollievo. Dopo ci hanno distribuito abiti di tela grigia a mezze maniche... eravamo<br />
in ottobre… ci diedero una specie di pastrano per coprirci.<br />
Sulla banchina in attesa del treno c’erano quattrocento donne: duecento ariane e<br />
duecento zingare, e dato che i tedeschi trattavano gli zingari come gli ebrei, è possibile<br />
immaginare che cosa abbiamo pensato in quei momenti. Inoltre, per arrivare alla<br />
ferrovia ci hanno fatto passare nel settore dove c’erano gli alloggi delle SS, una cosa<br />
impensabile, mai accaduta prima. Abbiamo persino potuto sbirciare dentro le finestre!<br />
Eravamo certe che per noi fosse arrivata la fine. Dopo un po’ sono arrivati i carri<br />
bestiame e ci hanno fatte salire.<br />
Il treno si mosse in direzione dell’uscita ma, trascorsi dieci minuti, si bloccò di<br />
colpo e tornò indietro.<br />
I pianti e gli strilli...!! Abbiamo cominciato a gridare come matte, perché eravamo<br />
sicure che ci portassero al crematorio. Eravamo là da sette mesi e avevamo visto<br />
altre volte il treno tornare indietro e sparire dietro i cancelli dei forni.<br />
Invece.. il treno si fermò in stazione, e qualche ora dopo partì veramente.<br />
Chissà se c’era stato un contrordine... se fosse successo prima, saremmo finite di<br />
sicuro al crematorio.<br />
Quando ho sentito che il treno ricominciava a camminare e ho visto il cancello<br />
della stazione, ho cominciato a pregare: “Gesù mio, perdono tutti basta che di qua<br />
esco!”… senza sapere che ci aspettava ancora il peggio.<br />
Appena siamo arrivate a Ravensbrück ci hanno messe con le zingare sotto una<br />
tenda immensa 6 . Io e la <strong>mia</strong> amica ci siamo strette per scaldarci, abbiamo buttato un<br />
pastrano per terra e un altro ce lo siamo messe addosso.<br />
Ad un certo punto una zingara è passata vicino a noi, e come se nulla fosse, quella<br />
brutta bestia ci ha fatto la pipì addosso. Io non ci ho visto più… sono saltata su,<br />
l’ho presa e le ho dato tante di quelle botte che solo Dio lo sa.<br />
Il mattino dopo ci hanno perquisite. Io avevo ancora con me una catenina<br />
6 Deve essere la stessa di cui parla Lidia Beccaria Rolfi nel suo libro.<br />
61
d’argento che ad Auschwitz ero sempre riuscita a nascondere perché, quando facevano<br />
i controlli, la mettevo sotto la lingua; là, invece, me l’ hanno portata via.<br />
A Ravensbrück ci hanno fatto anche la visita alla vagina, malgrado fossimo<br />
ragazze! I medici erano donne e ci chiesero se eravamo fraulen o frau, cioè signorine<br />
o signore. Non è stata proprio una visita approfondita... però ci hanno fatto anche<br />
questo. Infine ci hanno mandate dentro i blocchi, in baracche già strapiene e di nuovo<br />
in mezzo alle zingare. Dio, che cosa è stata la convivenza con gli zingari!<br />
Dovevamo stare attente, perché rubavano tutto, anche quella miseria che ci davano<br />
da mangiare. Dopo non so che fine abbiano fatto, perché noi siamo state mandate<br />
a lavorare in una fabbrica lontana.<br />
In alcuni libri Ravensbrück è descritta in termini qualitativamente migliori<br />
rispetto ad Auschwitz: si parla di lenzuola, di tovaglie, di tendine alle finestre...<br />
Che cosa c’è di vero in quelle testimonianze? Ravensbrück era davvero così<br />
diversa da Auschwitz?<br />
Sì, ma solo i primi tempi. Poi, è diventata uguale agli altri campi.<br />
Ricordo che la prima cosa che ci colpì entrando furono le baracche di quelle che<br />
comandavano: avevano le tendine alle finestre e le coperte a quadretti sui castelli.<br />
In ogni block c’era ancora il tavolo con gli sgabelli intorno 7 . C’era pure il gabinetto,<br />
ma non vi si poteva entrare perché gli escrementi uscivano fuori, però... i primi<br />
tempi deve essere stato sicuramente possibile. Quando abbiamo visto tutte quelle<br />
“comodità” abbiamo pensato un gran bene. Dopo le cose sono peggiorate anche lì.<br />
Come si svolgeva la vita nel lager di Ravensbrück?<br />
Sono arrivata a Ravensbrück il 29 ottobre e dopo quindici giorni sono stata selezionata<br />
per andare a lavorare in fabbrica, ma siccome distava circa 100 km, ci hanno<br />
fatte alloggiare in un piccolo campo lì vicino.<br />
Quando comandavano la selezione bisognava spogliarsi e passare nudi davanti al<br />
capo-campo, al dottore delle SS ed ai capoccioni delle fabbriche… il nudismo era di<br />
moda, nessuno sembrava farci più caso. Allora ci gonfiavamo tutte, ci sfregavamo<br />
forte la faccia per far vedere che stavamo bene.<br />
Ho partecipato a quattro o cinque selezioni: due volte a Ravensbrück, dove una<br />
volta ricordo che eravamo tornate dalla fabbrica e le nostre condizioni erano davvero<br />
pietose, due volte ad Auschwitz. Avrei dovuto esserci abituata, invece… Comunque,<br />
mi hanno scelta e sono partita.<br />
Ma ero sola, perché la <strong>mia</strong> amica Gina era stata evacuata ad agosto. Quella di<br />
Como, che era una bella ragazza, era partita a luglio. Agnese, invece... Agnese era<br />
un’operaia di mio padre, sottile come un filo.<br />
Era così emotiva che bastava che papà alzasse un po’ la voce che subito doveva<br />
correre in bagno! Ricordo che una volta le SS ci avevano messe in fila per andare a<br />
lavorare, lei si è spostata un po’ e subito ha avuto il cane addosso… l’ ha mezza divorata.<br />
E’ stata ricoverata in revier un paio di giorni, poi è partita con un kommando.<br />
Noi avevamo un comandante che non era cattivo, ma la capo-campo, che era un<br />
7 Ad Auschwitz la situazione aveva raggiunto livelli insostenibili: la gente mangiava seduta sopra o sotto i tavoli in un caos indescrivibile.<br />
62
avanzo di galera arruolata tra le SS, era la persona più abbietta che potesse esistere…<br />
da lei solo botte, appelli… Tra l’altro era l’amante del comandante, quindi...<br />
Però, quel giorno che siamo partite da Finufmark (??), mi pare che il campo si<br />
chiamasse così, lui le ha dato una lezione che avrà ricordato tutta la vita.<br />
Lei era sul tetto di una baracca e inveiva verso di noi, e mentre uscivamo abbiamo<br />
visto il comandante darle due schiaffoni… si vede che non ce la faceva più nemmeno<br />
lui.<br />
In fabbrica la vita non era disperata come nei campi grandi.<br />
Innanzi tutto lavoravamo al coperto, e per noi era una vera benedizione. Quasi<br />
tutte avevamo una cuccetta, anche se poi ci stavamo in due o in tre per scaldarci.<br />
Avevamo anche il riscaldamento… per modo di dire, naturalmente, perché nella<br />
nostra baracca passavano i tubi che dalla caldaia andavano in cucina e lasciavano un<br />
po’ di calore.<br />
Le baracche erano di legno, mentre ad Auschwitz erano di mattoni; un tempo erano<br />
state occupate da quelli che avevano lavorato per la Germania, poi le diedero a noi.<br />
Il mangiare era scarso: una fettina di pane ed un mestolino da un quarto senza sale<br />
e senza niente. Eppure, ci ritenevamo fortunate perché avevamo la possibilità di lavorare<br />
al coperto.<br />
Forse è difficile capire tanto entusiasmo, ma in Polonia il freddo è lungo e duro.<br />
Quando arrivai ad Auschwitz mancava qualche giorno alla fine del mese di marzo, la<br />
temperatura era intorno ai diciotto gradi sotto zero! Quindi è facile immaginare che<br />
sarebbe stato impossibile sopravvivere se non avessimo avuto la possibilità di ripararci.<br />
Invece noi l’inverno lo abbiamo trascorso al coperto; dovevamo fare un po’ di<br />
strada a piedi perché dal campo alla fabbrica c’era circa mezz’ora di cammino, con<br />
la pioggia o con il gelo, però... poi, almeno avevamo un tetto sopra la testa.<br />
Mi ricordo che attraversavamo sempre una bella pineta.<br />
Una volta capitammo in mezzo a un’incursione aerea. Gli aerei cozzavano gli uni<br />
con gli altri. In Auschwitz è capitato parecchie volte, perché vicino al campo c’era la<br />
contraerea. In più di un’occasione ci ha sorprese mentre eravamo in mezzo ai campi;<br />
ricordo che quando si preparava un bombardamento, i cavalli impazzivano e i cani<br />
scappavano. Anche le SS correvano a nascondersi.<br />
Noi smettevamo di lavorare, ma non potevamo andare a nasconderci perché avevano<br />
paura che scappassimo. Allora ci mettevamo in testa la gamella e ci accucciavamo<br />
a terra. Mi ricordo che dicevamo: “Mettiamoci la gamella in testa, perché se<br />
viene giù qualche scheggia almeno ci protegge”.<br />
E qualcuno rispondeva: “No, no, perché se ci bucano la gamella non possiamo più<br />
prendere la zuppa”.<br />
Ma non ci è mai successo nulla, malgrado le schegge volassero da tutte le parti.<br />
<strong>La</strong> mano di Dio ci preservava, perché certe volte, proprio quando sentivamo in<br />
lontananza il ronzìo degli aerei, sopra Auschwitz calava una nebbia così fitta che non<br />
si vedeva più niente. Gli aerei giustamente non ci vedevano, e così non abbiamo<br />
rischiato di essere bombardati e uccisi.<br />
Quando lavoravamo in fabbrica, non appena suonava l’allarme ci facevano scen-<br />
63
dere con i civili in una specie di rifugio… per noi era una gran gioia, perché per un<br />
po’ non si lavorava; se trovavamo un posto ci mettevamo a dormire, poiché laggiù<br />
c’erano delle grosse panchine.<br />
Mangiare e dormire per noi era tutto quello che contava, tanto che, quando cadevano<br />
quelle grosse bombe e la terra sussultava, noi esclamavamo: “Accidenti, mi<br />
hanno fatta svegliare!”.<br />
Le finestre delle baracche erano grandi e quando arrivava la sera, le sorveglianti<br />
le chiudevano con i lucchetti per paura che qualcuna scappasse. C’era persino il<br />
bagno, dove era possibile provare a lavarsi, con delle finestrelle piccole e piuttosto<br />
alte; quando arrivavano gli aerei, ci cacciavamo tutte lì per vedere. Che spettacolo!<br />
Arrivavano a coda di rondine, ed andavano diritti verso Berlino, che era distante una<br />
sessantina di Km; ricordo che, quando scendevano giù, quelle bombe sembravano<br />
tanti confetti! Era la nostra felicità, perché significava che presto o tardi saremmo<br />
state libere.<br />
Quei civili che lavoravano con voi in fabbrica non hanno mai provato a chiedervi<br />
chi foste?<br />
Non potevamo assolutamente parlare, nonostante noi avessimo la fortuna di avere<br />
come capo un ingegnere molto umano. Anche il comandante della <strong>mia</strong> amica era<br />
buono, però non potevamo scambiare una parola perché se ci avessero scoperti sarebbero<br />
finiti nei guai loro, i capi sarebbero finiti al nostro posto… era molto, molto<br />
pericoloso. Si lavorava a ciclo continuo secondo due turni: uno dalle sei del mattino<br />
alle sei di sera, l’altro dalle sei di sera alle sei del mattino. Quando avevamo il turno<br />
del mattino, ci dovevamo alzare alle quattro per fare prima l’appello.<br />
Si lavorava solo dodici ore, mentre ad Auschwitz si lavorava finché c’era il sole,<br />
quindi in estate si stava in piedi dalle tre del mattino alle nove di sera.<br />
C’erano ugualmente i tedeschi, ma almeno lavoravamo all’asciutto, riparate dal<br />
freddo o dal caldo e con la possibilità di guadagnare qualche pezzetto di pane in più,<br />
qualche briciola.<br />
In mezzo a tutto, io ero stata fortunata. Mi ricordo che fabbricavo i bossoli da<br />
mitraglia, ogni bossolo, che poteva essere di varie grandezze, doveva venire immerso<br />
in un bagno d’acido; secondo il calibro che aveva, si doveva infilare su di una specie<br />
di alberello ed immergerlo in varie vasche, fino ad arrivare alla macchina dov’ero<br />
io; li dovevo prendere e mettere su una ruota ad asciugare: la macchina aveva tanti<br />
buchi, e da quelli usciva aria calda. Quell’inverno non ho avuto freddo perché lavoravo<br />
al coperto e vicino a quella macchina.<br />
Quando ci davano un quarto d’ora di tempo per mangiare, a mezzogiorno o a<br />
mezzanotte, noi ne approfittavamo per dare una lavata ai nostri stracci sporchi. Poi,<br />
li mettevamo ad asciugare sopra la macchina dalla quale usciva aria calda.<br />
<strong>La</strong> nostra era una vita disperata e si regrediva sempre di più, come mangiare,<br />
come vestire, come tutto. Eravamo dei miserabili, ma in quel periodo avevamo almeno<br />
un tetto sulla testa; però, non potevamo allontanarci per andare in bagno, avevamo<br />
l’orario, e comunque bisognava chiedere il permesso. Ricordo che una notte<br />
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stavo morendo per il mal di pancia, allora sono andata dalla auseherin e piangendo<br />
le ho detto: “Io ritorno, io ritorno”… mi ha lasciata andare.<br />
Appena si rientrava in campo c’era l’appell, poi ci distribuivano quel poco di cibo<br />
e dopo si poteva andare finalmente a dormire. Ma quella vipera... magari ci si era<br />
appena sdraiati sul letto che suonava di nuovo il fischietto, era il segnale che dovevamo<br />
tornare fuori all’appello!<br />
Dovevamo stare due o tre ore in piedi a fare nulla, mentre quella disgraziata passava<br />
e faceva finta di contarci. Poi fischiava e si poteva tornare dentro. Ma non si<br />
faceva in tempo a sdraiarsi su quel pezzo di legno che ancora fischiava: “appell”.<br />
Ricordo che per quella ragione là il direttore della fabbrica dove lavoravo aveva<br />
protestato, e giustamente. Ma come si poteva pretendere che uno lavorasse bene se<br />
non aveva potuto dormire? Vinti dal sonno e dalla stanchezza, rischiavamo anche di<br />
farci male o, per loro cosa sicuramente più importante, di compromettere la produ -<br />
zione. Diceva: “Per me sono operai migliori dei civili, perché i civili dobbiamo<br />
rispettarli, mentre questi non li rispettiamo e li facciamo lavorare fino a ridurli allo<br />
stremo delle forze…! Almeno fateli vivere!”.<br />
Il direttore era un ingegnere, uno che aveva studiato e sapeva il fatto suo.<br />
Era abbastanza umano con noi… certo, rispetto agli altri… veramente una brava<br />
persona. Se per esempio si trovava a passare per l’ispezione mentre noi caricavamo<br />
sui carrelli le scatole dei bossoli da mitraglia, e ogni scatola ne poteva contenere<br />
anche tremila, si fermava e ci dava una mano.<br />
Più di una volta si è scontrato con i capi del campo per noi. Una volta ci disse:<br />
“Se va avanti così, io rischio di mettere la vostra divisa!”.<br />
Un’altra volta litigò per via del mangiare, che era scarsissimo, lui andò al campo<br />
e bisticciò con il comandante, facendoci ottenere qualcosa in più e un piccolo supplemento:<br />
un pezzetto di pane due volte la settimana. Poi, invece, quelle canaglie non<br />
ce lo hanno dato più.<br />
Era umano. Tra i civili ce n’era uno piuttosto anziano di nome Erik, si chiamava<br />
come mio padre, Enrico; se poteva, mi allungava un pezzetto di pane.<br />
Chi conosceva la lingua stava meglio, perché poteva provare a farsi dare qualcosa<br />
da mangiare e poteva anche sabotare le cose che facevano. Le russe, per esempio,<br />
sabotavano le maschere antigas bucandole con le unghie, perchè loro capivano che<br />
cosa dicevano e facevano esattamente l’opposto; noi italiane invece non conoscevamo<br />
la lingua e non capivamo nemmeno quello che dovevamo fare. Non riuscivamo<br />
a scambiare due parole, figuriamoci se potevamo sabotare! Ricordo che ci insegnavano<br />
cosa fare a gesti e che ci si parlava facendo dei segni.<br />
Quando è tornata a Ravensbrück?<br />
Nella primavera del 1945.<br />
Il fronte era vicino e noi eravamo ormai troppe rispetto alla domanda; così hanno<br />
chiuso la fabbrica ed evacuato il campo dove stavamo, rispedendoci a Ravensbrück.<br />
Però non ce lo dissero subito e così, quando ci hanno fatte salire sui carri, siccome si<br />
diceva che bruciassero tutti i trasporti, specialmente quelli conciati come noi, ci<br />
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siamo spaventate ed abbiamo pensato che ci portassero dritte al crematorio.<br />
Malgrado non ce la facessimo più, volevamo ancora vivere… poi, quando siamo<br />
arrivate, non abbiamo visto il fumo. E fuori il cancello c’erano dei camions della<br />
Croce Rossa. Noi, però, non ci siamo fidate, avevamo paura che fosse un trucco,<br />
come quello che adoperavano per bruciare gli ebrei.<br />
Mentre ci stavamo avviando al campo, ci è venuta incontro una slovena che aveva<br />
lavorato con noi in fabbrica e che era partita prima di noi. Le abbiamo chiesto se bruciavano<br />
ancora. Lei ha risposto: “No, non bruciano più”. Infatti non ci hanno bruciate.<br />
Poi abbiamo capito cosa stava succedendo.<br />
Come siamo entrate, abbiamo visto nei blocchi che comandavano delle prigioniere<br />
che stavano tranquillamente sedute a chiacchierare, in carne e con la divisa a righe<br />
nuova. Erano prigioniere francesi destinate ad essere rimpatriate, ed a noi ci è sembrata<br />
una cosa strana, ma la Francia aveva fatto davvero un accordo con la Germania.<br />
<strong>La</strong> Francia era stata la sola ad accettare di scambiare i prigionieri, il baratto era:<br />
dieci SS per ogni francese.<br />
Parecchie francesi sono state liberate così; naturalmente prima davano loro da<br />
mangiare per un po’ di giorni e le ripulivano da capo a piedi, poi avveniva lo scambio.<br />
Dopo i primi scambi, i tedeschi hanno smesso di fucilare e di bruciare la gente,<br />
perché davanti ai campi arrivavano i camions della Croce Rossa, i cui componenti<br />
evidentemente raccontavano quello che vedevano… ma allora perché non è intervenuto<br />
nessuno?<br />
Non mi ricordo dove l’ ho letto, ma persino il Vaticano sapeva.<br />
Del resto, se partivano tutte quelle persone, possibile che nessuno si domandava<br />
che fine facessero?<br />
Forse a chi comandava non importava nulla.<br />
Ricorda gli ultimi giorni di Ravensbrück?<br />
Gli ultimi giorni non si faceva più niente. Ricordo che andavamo in giro, quando<br />
invece di solito era proibito stare senza far niente; io e quella ragazza con cui ero<br />
rimasta chiedevamo se c’erano italiane. Da una delle tante baracche, da cui uscivano<br />
fuori tantissime teste, ne sono spuntate due, ed una disse: “Sì, siamo italiane”…<br />
… Erano Bianca e la sorella Bice Paganini.<br />
Poi le ho perse di nuovo di vista.<br />
Ci siamo ritrovate dentro una baracca che confinava con un campo di raccolta di<br />
militari mentre sfollavano il campo; siamo rimaste sedute tutta la notte, perché non<br />
c’era più spazio e non potevamo sdraiarci.<br />
Dopo esserci perse ancora, ci siamo ritrovate dopo libere e siamo rimaste assieme<br />
per tutti i mesi che precedettero il ritorno a casa; io e Bianca stavamo sempre insieme<br />
ed eravamo le più spericolate.<br />
66
Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare<br />
quella di qualcun’altra<br />
Bianca Paganini è autrice di una delle storie di deportazione femminile contenuta<br />
nel volume Le donne di Ravensbrück. Elisa la conobbe dopo l’evacuazione del<br />
campo presso la fabbrica di materiale bellico in cui lavorò durante l’inverno del<br />
1944.<br />
Bianca e Bice Paganini, sorelle di <strong>La</strong> Spezia, erano state arrestate nella primavera<br />
del 1943 con l’accusa di spalleggiare i partigiani. L’opinione di Elisa a proposito<br />
dei partigiani è un pochino critica, o forse sarebbe meglio dire “disincantata”.<br />
Secondo lei, rispetto alla moltitudine che dopo la fine della guerra si proclamò<br />
esponente del movimento di liberazione, solo una minima parte sarebbe stata davvero<br />
degna di fregiarsi di quel titolo, se così lo si può definire.<br />
Tante persone avrebbero sposato la causa partigiana solamente per scappare o<br />
per approfittare della confusione regnante all’indomani della liberazione. Una di<br />
quelle persone che veramente si prodigò fu, a suo giudizio, una partigiana triestina<br />
di cui conosceva e conosce solo il nome di battaglia: Itta.<br />
<strong>La</strong> conobbe ad Auschwitz insieme ad un’altra partigiana di nome Paola. Non ha<br />
mai chiesto o saputo quale fosse il suo vero nome; la prigionia toglieva la forza o<br />
la voglia di chiedere forse perché ricordare faceva troppo male.<br />
Le raccontarono però la loro <strong>storia</strong>.<br />
Itta e Paola collaboravano entrambe con i partigiani. Catturata, Paola era stata<br />
torturata brutalmente affinché rivelasse il nome del suo comandante, che altri non<br />
era che Itta. Alla fine Paola parlò e Itta venne arrestata. Ma non le portava rancore,<br />
ben sapendo che nella prigione di Trieste la poverina era stata sottoposta a torture<br />
mostruose, come le percosse inferte a viva forza nella natura con bastoni chiodati.<br />
Le tre donne si rincontrarono durante l’evacuazione di Ravensbrück.<br />
All’epoca Elisa era uno scricciolo di ventinove chili, mentre la sua amica Itta ne<br />
pesava venticinque.<br />
<strong>La</strong> partigiana triestina fu colei che incoraggiò il gruppo durante tutta la marcia<br />
di sfollamento.<br />
Da allora non l’ha più rivista, né ha idea della fine che fece; avrebbe voluto cercarla,<br />
sapere se fosse ancora viva e quindi tornata, ma conoscendo solo il nome di<br />
battaglia,” Itta di Trieste”, la cosa le parve impossibile.<br />
L’idea di conoscersi meglio non sembrava sfiorare le detenute; i racconti e le<br />
parole velate di tristezza di Elisa non sembrano ammettere repliche.<br />
In un ambiente saturo di egoismo e violenza ognuna viveva per se stessa, senza<br />
soffermarsi a pensare che la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di<br />
qualcun’altra, che il pezzo di pane rubato sarebbe poi mancato ad un’altra persona.<br />
In Auschwitz ebbe spesso l’occasione di lavorare con una donna di Monza che,<br />
piccola ma gran lavoratrice, si sforzava di “riportare a casa le ossa faticando come<br />
un mulo”.<br />
67
Quando vedeva che al suo gruppo erano assegnate Elisa e una certa Maria<br />
Colombo, dava letteralmente in escandescenza, perché le considerava fiacche, molli<br />
e inaffidabili. Lei ora se la ride, ma sembra anche essere cosciente del perché quella<br />
tizia reagisse a quel modo: era l’istintiva percezione del pericolo a cui avrebbero<br />
potuto sottoporre tutto il gruppo a farla scattare.<br />
Un altro episodio rende perfettamente l’idea del clima che aleggiava nel lager.<br />
Quando giungeva il periodo della trebbia, le detenute erano tenute a legare la<br />
paglia formando dei covoni. Il ritmo era frenetico e non sempre lei e quella Maria<br />
Colombo riuscivano a sostenerlo. Così, approfittando della confusione che regnava<br />
attorno ai camions, si nascondevano in fondo, suscitando le ire della donna di<br />
Monza.<br />
A mente fredda e a distanza di tanti anni, Elisa conviene che tutte, nessuna esclusa,<br />
erano disperatamente egoiste; chi lavorava metteva a repentaglio la vita di chi<br />
non lavorava, e chi non si prestava o non ce la faceva a tenere il ritmo aggravava la<br />
fatica di chi non si rispar<strong>mia</strong>va. Trebbiare non era solo fatica, ma anche polvere e<br />
sporcizia che durante la quarantena non potevano lavare via.<br />
<strong>La</strong> pelle cominciava a prudere, e grattarsi non sembrava alleviare assolutamente<br />
il senso di fastidio provocato dallo strato di sporcizia che la ricopriva.<br />
Se in quarantena era proibito lavarsi, successivamente il rito della doccia diventava<br />
una sottile forma di tortura. Ciclicamente i tedeschi effettuavano delle disinfestazioni:<br />
costringevano i detenuti a lavarsi, ma senza acqua calda e sapone, e sterilizzavano<br />
i vestiti. Nonostante l’accortezza di farli legare in un certo modo così da<br />
far spiccare il numero cucito sulla manica, spesso venivano restituiti alla rinfusa.<br />
I prigionieri venivano condotti alle docce di ritorno dal lavoro, fatti svestire e<br />
costretti ad aspettare all’agghiaccio, nudi, il proprio turno. Dopo di che, dovevano<br />
attendere la restituzione degli indumenti. I tempi dell’operazione di sterilizzazione<br />
erano esasperatamente lunghi, tanto che i vestiti venivano riconsegnati solo al sorgere<br />
del sole e olezzanti di gas. Nel frattempo i detenuti non potevano ritirarsi nelle<br />
baracche, dovevano restare all’aperto in piedi, nudi e completamente digiuni. Né<br />
serviva poi veramente a qualcosa, dal momento che i ledini dei pidocchi invece che<br />
morire si giovavano del calore.<br />
68
L’evacuazione di Ravensbrück<br />
Dopo che evacuarono Ravensbrück, che cosa<br />
accadde?<br />
Marciammo per giorni e giorni, riposando ogni<br />
tanto. Ricordo che quando ci sdraiavamo sentivamo<br />
la terra tremare per i bombardamenti. Le russe<br />
erano felici, perché sapevano che quei colpi erano<br />
sparati dai loro soldati e che quindi erano vicini.<br />
I tedeschi avevano intenzione di imbarcarci per<br />
poi affondarci in mezzo al mare. Per fortuna che<br />
non ci sono riusciti!<br />
Una notte le SS ci svegliarono<br />
e ci dissero che dovevamo stare<br />
pronte a partire. Ma dopo un po’<br />
scomparvero.<br />
Non sapevamo che fare, qualcuna<br />
suggeriva di scappare, ma<br />
avevamo paura che fosse un<br />
modo per ucciderci. Poi le SS<br />
sono tornate e, a forza di urla,<br />
strilli e bastonate ci hanno riunite e fatte camminare, ma poco dopo scomparvero di<br />
nuovo.<br />
A quel punto abbiamo visto le russe entrare dentro una specie di masseria. Anche<br />
noi volevamo andare dentro con loro, ma non ce lo hanno permesso. Vicino alla casa<br />
c’era uno sgabuzzino, una specie di ripostiglio per gli attrezzi; lì ci hanno fatte entrare<br />
a riposare.<br />
Eravamo venti persone, ammassate le une sulle altre; tra queste, solo io e la <strong>mia</strong><br />
amica eravamo italiane, e poi c’era qualche slovena.<br />
Le russe non avevano pace, guardavano sempre fuori la finestra. E noi, povere<br />
stupide, non capivamo che cosa avessero. Poi le abbiamo viste abbracciarsi e baciarsi,<br />
allora ci siamo affacciate anche noi.<br />
Abbiamo visto i camions tedeschi rivolti verso nord, mentre prima sfilavano<br />
davanti alla masseria dirigendosi verso il fronte cioè a sud. Inoltre molti si fermavano<br />
perché in fiamme.<br />
Piroscafo carico di deportati fatto bombardare nella rada di Lubecca:<br />
ebbero la stessa sorte il Cap Arcona, l’Athena, la nave Thielbeck e la Deutschland.<br />
69<br />
Circa 3000 deportati morirono dopo la liberazione,<br />
erano esausti ed incapaci di riprendersi nonostante<br />
le cure.
Ci siamo girate verso la casa dei contadini e abbiamo visto che c’era la bandiera<br />
bianca… allora abbiamo capito che era davvero finita. I contadini ci hanno fatte uscire<br />
dallo sgabuzzino e ci hanno fatte sistemare dentro il fienile dandoci una scodella<br />
di latte per ognuna di noi. Bontà loro, a noi ci sembrava di sognare!<br />
Quando la mattina dopo ci siamo svegliate, non c’era più nessuno. Lì, la guerra<br />
era finita. Era il 5 maggio, non avevamo mai perso la nozione del tempo, e sapevamo<br />
sempre che giorno fosse.<br />
Ci siamo incamminati assieme ad altri prigionieri.<br />
“Andiamo in su, così raggiungeremo<br />
l’Italia”, ci dissero; ma eravamo dalle parti di<br />
Stettino, e camminando verso nord non saremmo<br />
mai tornate a casa.<br />
Cammin facendo siamo arrivate in un paese e<br />
ci siamo fermate in una grande piazza… eravamo<br />
delle povere creature strascicanti un mucchietto<br />
d’ossa, quattro stracci e tanti pidocchi.<br />
In quel piazzale c’erano dei carri armati russi.<br />
Non era la prima volta che li vedevamo, ma mai<br />
così grandi! Li chiamavano “la voce di Stalin”.<br />
C’erano anche delle soldatesse; poi abbiamo<br />
visto una colonna di soldati tedeschi che passavano<br />
e gettavano le armi davanti ai carri russi,<br />
però non erano trattati male. Devo dire che la<br />
cosa ci ha fatto veramente piacere. Non so dove<br />
li abbiano messi, forse, in qualche campo.<br />
Dopo un pò, cominciarono a sfilare colonne<br />
di soldati. Noi chiedevamo se c’erano italiani e, finalmente, qualcuno ha risposto;<br />
così ci siamo uniti a loro, eravamo quattordici o quindici.<br />
Lungo la strada abbiamo anche ritrovato le due sorelle di <strong>La</strong> Spezia.<br />
<strong>La</strong> prima cosa che abbiamo<br />
fatto è stato di organizzare il<br />
mangiare. Finora ci eravamo<br />
arrangiati spolpando le carogne<br />
dei ronzini morti che avevamo<br />
incontrato lungo la strada, perché<br />
le radici e le patate non ci<br />
bastavano più. Ricordo che ci<br />
avventavamo sopra la carcassa<br />
e la scuoiavamo a furia di<br />
morsi, tanta era la fame, ma<br />
mangiare così era bestiale.<br />
I ragazzi sembravano un pò<br />
più esperti di noi, ed hanno<br />
Detenute di Auschwitz liberate dai Russi.<br />
70<br />
Aprile 1945, evacuazione del campo di Dachau.
ubato una specie di cavallo ed allestito un carretto, caricandolo con la roba dei<br />
magazzini delle case abbandonate dai tedeschi: marmellata, zucchero, farina.... Dio<br />
solo sa quanta roba hanno preso! Alla fine il carretto era così pieno che dovevamo<br />
spingerlo, sedendoci sopra a turno.<br />
Ad un certo punto “il Duce”, (è così che avevamo chiamato il ronzino), muore e<br />
ci pianta in mezzo alla strada; allora ci siamo riparati in una casa.<br />
I russi non ci dissero nulla, potevamo andare dove volevamo e, se avevamo bisogno<br />
di qualcosa, entravamo nelle case dei tedeschi ed avevamo il permesso di prenderci<br />
tutto quello che ci serviva. “Arrangiatevi, vestitevi e fate quello che volete”, era<br />
questo quello che in sintesi ci dicevano.<br />
Così noi siamo andati dentro una casa dove c’era ancora una signora. Però, siamo<br />
stati bravi perché ci siamo sistemati nelle camere al piano di sopra e non ci siamo<br />
comportati come i russi, che erano già stati lì e avevano fatto tutto quello che volevano.<br />
I russi non rubavano niente! Quando entravano dentro e vedevano piatti e<br />
argenteria, buttavano tutto giù dalla finestra, a sfregio. I tedeschi lo avevano fatto in<br />
Russia, loro lo facevano in Germania.<br />
Anche con le donne facevano la stessa cosa. A noi nessuno ha mai torto un capello,<br />
né i russi, né gli americani, né gli inglesi. Invece alle donne tedesche hanno fatto<br />
passare i guai: i tedeschi lo avevano fatto in Russia, loro lo facevano adesso in Germania.<br />
Sicuramente i proprietari erano stati dei gran signori, perché in un angolo a terra<br />
abbiamo trovato un mucchio di posate d’argento.<br />
Dentro quella casa non abbiamo trovato solo l’argenteria, c’erano anche grossi<br />
armadi a muro pieni di biancheria e lenzuola. Allora ci siamo organizzati, abbiamo<br />
aperto e rovesciato fuori tutto. C’erano anche dei vestiti, che però erano enormi.<br />
Ricordo che ho preso dall’armadio una giacca di lana verde, quando me la sono<br />
messa addosso, la signora ha esclamato: “<strong>La</strong> giacca di mio marito!”… l’ ho lasciata.<br />
Ci siamo fermati in quella casa per qualche giorno, avevamo da mangiare e potevamo<br />
dormire quanto volevamo. Poi è arrivato l’ordine di andare via. Allora abbiamo<br />
ripreso il nostro carretto e siamo partiti.<br />
Riprendemmo il cammino. Quando la colonna si fermava, le russe erano sempre<br />
le prime ad accendere un fuoco e a raschiare un po’ di radici per mangiare. Se noi italiane<br />
ci avvicinavamo, ci picchiavano di santa ragione.<br />
Spesso ci si affiancavano colonne di prigionieri militari, tra quei disgraziati<br />
c’erano anche degli italiani, quelli con i quali tentammo di scappare quando eravamo<br />
ancora in mano ai tedeschi che ci stavano evacuando da Ravensbrück per portarci<br />
verso il Baltico; il tentativo fallì e purtroppo ci ripresero, ma non ci fecero nulla<br />
grazie all’intervento di una SS...<br />
In mezzo a tante bestie, quella fu la sola che si dimostrò un po’ umana verso di<br />
noi. L’avevamo conosciuta ad Auschwitz, e la ritrovammo mentre da Ravensbrück ci<br />
evacuavano verso il Baltico. Fu lei a salvarci, perché i soldati tedeschi che ci ripresero<br />
volevano fucilarci.<br />
Quando ci rimettemmo in cammino ci trovarono gli inglesi e ci portarono via tutte<br />
71
le cibarie lasciandoci solo i vestiti; poi ci hanno portato dentro un ex campo di concentramento<br />
dove erano entrati gli americani. Eravamo solo quindici ragazze, mentre<br />
per il resto erano tutti soldati fatti prigionieri. Per prima cosa ci hanno fatte lavare.<br />
Ricordo che vicino alle docce c’erano dei barattoli pieni di una polvere bianca; lì<br />
per lì abbiamo pensato che fosse borotalco; ci facevano segno di mettercelo dappertutto<br />
e noi dicevamo: “Guarda che gentilezza, anche il talco ci hanno dato!”. Invece<br />
era DDT per i pidocchi.<br />
Ho un brutto ricordo di quelle bestie; quando ne parlo, mi viene di grattarmi dappertutto!<br />
Il comandante provvide a darci una baracca a parte, dove noi abbiamo steso a terra<br />
i pagliericci. Quella notte lì è stata fantastica, eravamo libere e pulite, finalmente dormivamo<br />
con la camicia da notte che avevamo rubato, ed in mezzo alle lenzuola, rubate<br />
anche quelle.<br />
Non avevamo un vero letto, ma eravamo felici, per me era come dormire in un<br />
letto di piume. Non ricordo dove fosse quel campo e come si chiamasse, perché i<br />
nomi erano scritti in un modo quasi illeggibile... Lì siamo rimaste parecchio; il mangiare<br />
non mancava, perché un po’ ce lo davano gli americani, un po’ si rubava, un po’<br />
ci si arrangiava. Il comando americano era fuori, e noi eravamo abbastanza libere.<br />
Con noi c’era una signorina che aveva circa quarant’anni, si chiamava Maria ed<br />
aveva lavorato in una di quelle case di tolleranza che c’erano all’epoca.<br />
Era così buona... perché poi quelle donne lì sono veramente buone. Era diventata<br />
5 maggio 1945: le truppe americane entrano nel lager di Mauthausen. I deportati sopravvissuti si affollano intorno<br />
ai liberatori.<br />
72
l’amante di un pezzo grosso americano, quindi non stava mai nel campo, ma ogni<br />
tanto veniva a trovarci e, se avevamo bisogno di qualcosa, ce lo portava.<br />
<strong>La</strong> sera bisognava stare attenti perché c’erano i soldati americani che entravano<br />
ubriachi a cercare chissà che cosa da noi... Una sera abbiamo dovuto lottare con tutta<br />
la nostra forza per sbatterne fuori uno.<br />
Nel complesso non stavamo male: avevamo organizzato la nostra sala da ballo,<br />
avevamo le nostre simpatie, abbiamo anche cominciato a bere. Avevamo ripreso a<br />
lavorare, poi, dopo qualche mese, sono arrivati i camions; ci hanno fatto prendere le<br />
nostre cose e ci hanno portate in un altro paese, dove ci hanno permesso di stare nelle<br />
case dei civili. Anche là non ci mancava nulla. Eravamo io, Bianca, Bice, Maria e<br />
un’altra che era slovena. Abbiamo occupato il primo piano di una casetta molto graziosa;<br />
sotto, c’erano dei siciliani che erano venuti in Germania a lavorare e che poi<br />
erano rimasti prigionieri.<br />
Loro erano molto più anziani rispetto a noi altre, che eravamo ragazze intorno ai<br />
venticinque anni. Adesso, se ripenso a quante gliene abbiamo fatte passare!… Perché<br />
eravamo spericolate, specialmente io e Bianca, ne abbiamo combinate di tutti i colori.<br />
Io all’epoca non avevo capito perché quegli uomini reagissero così, perché fossero<br />
così infastiditi dalla nostra vivacità, ma ora che sono anziana, riesco a comprenderli;<br />
chissà che cosa avranno pensato di noi quei siciliani!<br />
Quante volte i nostri compagni andavano per carne e ci riportavano di tutto, ci<br />
accendevano il fuoco, e quando avevamo finito di cucinare ce ne andavamo lasciando<br />
tutto in disordine! Eravamo coccolate da tutti quanti, bastava esprimere un desiderio<br />
che subito provavano ad esaudirlo. Appena cominciava a fare giorno ci affacciavamo<br />
dalle finestre e ci chiedevano che cosa volessimo mangiare. Loro andavano<br />
e riportavano di tutto: conigli, polli, galline, perfino mucche intere! Quando sono<br />
rimasta libera pesavo ventinove chili vestita, sono tornata che ne pesavo più di sessanta,<br />
non ci mancava niente.<br />
<strong>La</strong> prima volta che ha mangiato un bel piatto di pasta o una bella fetta di carne,<br />
che impressione le ha fatto?<br />
E’ stato faticoso, perché a causa della dissenteria bisognava riabituarsi poco alla<br />
volta a mangiare, altrimenti poteva essere molto pericoloso. Non ci mancava nulla:<br />
pane, pasta, frutta, mi ricordo che gli alberi erano tutti spogli! Si diceva: “Ah, se si<br />
potesse far sapere a casa quanto stiamo bene… potremmo rimanere ancora un pò!”<br />
Non lavoravamo ed avevamo tutto quello che volevamo... però, appena ci hanno<br />
chiesto se volevamo partire, nessuno ha detto di no. Mi ricordo che stavamo preparando<br />
gli gnocchi: avevamo appena ammassato un sacco di farina sulla tavola, quando<br />
sono arrivati i camions e, con gli altoparlanti, hanno avvertito che c’erano i treni<br />
pronti e chi voleva, poteva partire. Abbiamo lasciato tutto così com’era e ce ne siamo<br />
andati. Uno solo ha preso il piatto e ha detto: “Ah no, prima mangio e poi parto!”.<br />
Lo stesso succedeva mentre tornavamo a casa, ogni tanto il treno faceva delle brevissime<br />
fermate di un quarto d’ora l’una, durante le quali noi scendevamo di corsa<br />
per accendere il fuoco e cucinare qualcosa. Ci arrangiavamo, anche se ci avevano<br />
73
Scene della liberazione: la prima zuppa offerta dagli Inglesi.<br />
distribuito qualche galletta e qualche scatoletta, non venivano utilizzate, perché ci<br />
pensavano i nostri uomini a procurarci il cibo. Solo che certe volte quando stava per<br />
bollire l’acqua, il treno fischiava e dovevamo risalire di corsa per non perderlo.<br />
E’ stata un’avventura.<br />
A Bolzano volevano farmi proseguire con il treno della Croce Rossa perché ero<br />
ancora piena di piaghe; ma io non ho voluto.<br />
Le mie piaghe sono guarite quando sono tornata a casa... Ho ancora le cicatrici,<br />
ma non fa niente.<br />
Quanta gente eravamo, là!<br />
Un momento molto bello è stato quando un sacerdote francese ha detto Messa; ci<br />
ha dato l’assoluzione generale così, chi voleva, poteva fare la Comunione, d’accordo<br />
però che alla prima occasione avremmo dovuto confessarci, ma non abbiamo mantenuto<br />
la promessa perché pensavamo fosse inutile, visto che eravamo sfrenate e stavamo<br />
fuori tutta la notte… e per quei tempi non era proprio una cosa da brave ragazze.<br />
Si ballava ventiquattr’ore su ventiquattro, organizzavamo gare di ballo a non finire.<br />
Chissà dove avevano preso gli strumenti... Io, Bianca e Bice avevamo adibito la<br />
nostra cameretta a salottino; la sera si metteva giù il pagliericcio, poi la mattina si<br />
toglieva. In un angolo avevamo messo anche un tavolino. A cucinare si andava nella<br />
camera delle altre, così da noi non sporcavamo nulla. Eravamo tremende!<br />
Proprio lì di fronte c’era una casa con un bel giardino ed un laghetto, e sulla riva<br />
c’era una barca che faceva acqua da tutte le parti sulla quale salivamo in sette o in otto,<br />
74
agazzi e ragazze e, mentre ridevamo, due di noi tiravano fuori l’acqua che entrava,<br />
mentre altri due remavano... era davvero bello quel laghetto, c’erano le ninfee, quelle<br />
con il gambo lungo… non so che cosa eravamo diventati, era come se la vita per noi<br />
non avesse più senso, come se non avessimo più nessuna responsabilità...<br />
Non facevamo nulla di male, ma quando sono tornata ho detto alla mamma:<br />
“Adesso vado a confessarmi, che figurati quante ne ho da raccontare!”.<br />
Però, invece di andare dal parroco, sono andata da don Giosué e ricordo di avergli<br />
detto: “Guardi, don Giosué, io ho pregato, sì, ma ho anche imprecato, ho bestem<strong>mia</strong>to...<br />
ho fatto tutto quello che non avrei dovuto fare”.<br />
Allora lui mi ha risposto: “Se non ha comprensione il Padre Eterno in certi<br />
momenti, come faremmo a vivere?”.<br />
Io allora mi sono precipitata a casa e ho gridato: “Mamma, mamma, non mi ha<br />
strillata!”. Ero felice come una Pasqua, perché don Giosué era severo.<br />
Gli inglesi erano tremendi, ci hanno imposto il copri – fuoco, così alle otto di sera<br />
si doveva essere dentro. Stavano fuori sulle strade, che erano senza illuminazione,<br />
per controllare ogni movimento. Però, siccome lungo le strade tedesche ci sono dei<br />
grandi fossi, quando vedevamo delle luci ci buttavamo lì dentro e non ci facevamo<br />
vedere. Per rientrare non avevamo problemi, perché dormivamo in case civili e quindi<br />
non potevano dirci niente. Quante volte siamo finite dentro quei fossi per nasconderci!<br />
Eravamo piene di foruncoli e di piaghe, dappertutto, un disastro!<br />
Ricordo che mi era uscito un foruncolo proprio nella natura, e non volevo andare<br />
a farmelo medicare visto che gli infermieri erano tutti uomini… e poi ci prendevano<br />
già abbastanza in giro, ci chiamavano le “camere d’aria rotte”, perché eravamo piene<br />
di cerotti... quindi, non ci sono andata. Ma qualche giorno dopo mi è venuta la febbre<br />
molto alta così sono stata costretta a rimanere sdraiata sul pagliericcio per diversi<br />
giorni.<br />
Quando mi sono sposata ed ho cominciato a fare delle visite ginecologiche per via<br />
dei figli, il dottore mi disse che avevo una cicatrice grossa come un fosso… altro che<br />
foruncolo! Chissà che diavolo avevo. E’ guarito da solo, ma quante me ne ha fatte<br />
passare! Il gabinetto era al piano di sotto, quindi per tutto quel tempo mi ero arrangiata<br />
come potevo. Dopo qualche giorno mi sono potuta finalmente alzare e scendere<br />
giù con gli altri.<br />
Ricordo che gli uomini avevano organizzato una specie di alambicco per distillare<br />
la grappa dalla frutta, e me ne diedero un bicchiere; io non mangiavo da tre o quattro<br />
giorni ed ero ancora debole per la febbre, quindi, appena ho bevuto il distillato,<br />
mi sono sentita male ed ho fatto le scale a quattro a quattro, sono arrivata al mio<br />
pagliericcio e mi sono lasciata andare giù. Quando le mie amiche sono rientrate provarono<br />
a chiamarmi ma io non risposi… poi ho sentito una delle due sorelle di <strong>La</strong><br />
Spezia che diceva: “Oddio, ma che è morta?! Senti che è morta!”.<br />
Ed io, dal profondo della <strong>mia</strong> ubriachezza, ho risposto: “Non sono morta, sono<br />
ubriaca!”.<br />
75
“...la faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse in un angolo e rigettò. Io ero<br />
troppo sconvolto per poter parlare...”<br />
Dati raccolti dal libro “Nei lager c’ero anch’io” di Vincenzo Pappalettera - Mursia 1973<br />
Omar N. Bradley, generale americano.<br />
I <strong>La</strong>ger visti dai liberatori.<br />
<strong>La</strong> Terza Armata aveva superato Ohrdruf ( situato in Turingia, era una dipendenza<br />
del campo di Bukenwald), primo dei campi della morte nazisti, non più tardi<br />
di due giorni prima e Patton insistette perché lo visitassero.<br />
“Non immaginereste mai quanto mascalzoni possano essere questi mangiacrauti”<br />
disse “ finchè non avrete visto anche voi quella spaventevole chiavica.”<br />
Il fetore di morte ci sopraffece fin dall’istante in cui penetrammo nella palizzata.<br />
Più di 3.200 cadaveri nudi, scheletriti, erano stati gettati in fosse poco profonde.<br />
Altri giacevano là dove erano caduti. Gli insetti brulicavano sulla pelle giallastra dei<br />
cadaveri aguzzi, ossuti. Una guardia ci mostrò come il sangue si fosse congelato in<br />
nere croste dove i prigionieri affamati avevano strappato le viscere ai morti, in cerca<br />
di cibo.<br />
<strong>La</strong> faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse<br />
in un angolo e rigettò. Io ero troppo sconvolto per poter parlare, perché qui la<br />
morte era stata così insozzata dalla degradazione da stordirci e obnubilarci.<br />
Entro una settimana dovevamo passare per altri di quei campi e in breve gli orrori<br />
di Bukenwald, Erlat, Belsen, e Dachau avrebbero fatto fremere il mondo che credeva<br />
di essersi abituato agli orrori della guerra.<br />
76
Come è stata la sua accoglienza?<br />
Quando siamo tornate era opinione comune che eravamo andate a fare le donne<br />
di strada, e questa è stata la cosa che ci ha ferito di più. Quando andavo in giro con<br />
la <strong>mia</strong> amica e ci fermavano per farci delle domande, lei mi diceva di stare zitta che<br />
avrebbe parlato al posto mio, forse perché aveva paura di una <strong>mia</strong> reazione impulsiva.<br />
<strong>La</strong> prima cosa che ci chiedevano era: “Cosa vi hanno fatto i tedeschi?”.<br />
In paese c’era un dottore molto giovane e bravo che aveva detto alle nostre famiglie:<br />
“Se le ragazze tornano, se avete piacere le prendo in cura io”. Infatti come siamo<br />
tornate ci ha prese in cura, ci ha fatto parecchie visite dandoci le medicine e non<br />
volendo mai una lira. Se non avessimo avuto il suo aiuto non avremmo potuto realmente<br />
sapere se avevamo qualche malattia.<br />
Sono andata da lui assieme alla mamma ed alla <strong>mia</strong> amica Gina. Lei era tornata<br />
prima di me ed era pratica di tutto, però, visto che a diciotto anni aveva avuto un<br />
bambino, non le credevano se diceva la verità sul fatto che i tedeschi le avessero fatto<br />
o no delle violenze… è stata sfortunata, il papà era stato picchiato dai fascisti ed era<br />
finito in manicomio, perché lo avevano picchiato sulla testa, la mamma si era trovata<br />
con quattro o cinque bambini da crescere, uno è andato in Russia e non è più tornato.<br />
Gina, quando aveva diciassette anni, è stata messa incinta da uno di Lecco, una<br />
persona molto facoltosa, che però non ne ha voluto sapere né di lei né del bambino.<br />
<strong>La</strong> voleva pagare, perché allora si usava così: o ci si sposava o si pagava, ma la<br />
mamma non ha voluto, è stata una donna molto forte; ha detto: “Se la vuoi sposare,<br />
la devi sposare, altrimenti di pagarla non se ne parla. Ha sbagliato, ma il bambino<br />
crescerà”.<br />
Quando ci hanno portate nei campi di concentramento, il bambino aveva sei anni.<br />
E’ morto tre o quattro mesi fa (estate 1995). Ha pranzato con la sua mamma, poi è<br />
andato a mettere a posto la villetta che si stava costruendo. E’ andato via alle due;<br />
alle due e un quarto è salito su il nipote che le ha detto: “Nonna, papà è morto”…<br />
così, secco; poveretta, la sua vita è stata un calvario peggio della <strong>mia</strong>.<br />
Quindi, con lei non potevano verificare quale fosse la verità… poi ce n’era<br />
un’altra che era vedova… poi c’era quella che non era tornata… insomma, la verità<br />
la potevano verificare solo su di me.<br />
Il mio fidanzato era andato dalla mamma a chiedere mie notizie: “E’ sicura, signora<br />
Missaglia, che sua figlia torna ancora una brava ragazza?”.<br />
Mia madre è rimasta molto male per questa domanda, e gli ha risposto che a lei,<br />
in quanto mamma, non interessava affatto questa sua preoccupazione da povero<br />
disgraziato, perché, anche se fossi tornata con due bambini ed un altro nella pancia,<br />
le sue braccia sarebbero state tanto grandi da abbracciarci tutti. Naturalmente, poi, lo<br />
mise alla porta.<br />
Così il dottore mi fece una visita molto approfondita, e quando ebbe finito, prese<br />
le mutandine, le buttò a <strong>mia</strong> madre e le disse: “Signora Missaglia, a sua figlia non è<br />
stata fatta violenza”.<br />
<strong>La</strong> <strong>mia</strong> mamma ha risposto: “E a me che me ne importa di questa sua diagnosi?<br />
77
L’importante per me è che sia tornata a casa”.<br />
Ma il medico la fece riflettere dicendo: “Sì, è tornata, e questo è fondamentale,<br />
però capirà che caratterialmente è molto cambiata, avrà bisogno di tanto tempo e,<br />
chissà, forse non basterà nemmeno! Questa sua terribile esperienza l’ha segnata, purtroppo,<br />
e dovrete avere con lei molta pazienza”.<br />
Infatti era proprio vero, tutto quello che gli altri facevano, era come se mi stessero<br />
facendo un dispetto! Per fortuna che ho trovato mio marito, che è un sant’uomo,<br />
perché un altro in certi momenti mi avrebbe buttata giù dalla finestra. Adesso mi sono<br />
calmata un po’, ma è roba recente. Il dottore mi diede dei calmanti e mi disse: “Mi<br />
prometti che non li prenderai se non è necessario?”. Infatti ne ho preso qualcuno e<br />
basta.<br />
Ho un carattere forte, quando ero in quell’inferno mi ripetevo continuamente: “Io<br />
devo tornare”.<br />
Qualche volta faccio ancora dei brutti sogni. L’altra notte, per esempio, ho sognato<br />
di essere in un campo di concentramento. Forse è perché sono diversi giorni che<br />
sto rileggendo i miei libri. Al mattino quando mi sono svegliata ho detto: “Non è vero<br />
niente”.<br />
Mio marito mi ha detto che tante volte la notte strillavo. Quando mi sono sposata<br />
ed ho avuto la Rita 8 , i miei incubi si sono spostati su di lei. Una notte ho sognato<br />
che ero in un fosso con la bambina stretta al collo, e poi la SS passava e me la portava<br />
via. Ed io strillavo, strillavo... allora mio marito mi ha svegliata chiedendomi<br />
spaventato: “Che cosa c’è? Cosa è successo?”.<br />
Ed io: “Mi hanno portato via la Rita!”.<br />
Ma lui sempre con la sua solita calma: “Ma no, non vedi che la Rita è là?”.<br />
Poi avevo l’incubo dei pidocchi! Dormivo in una camera che prima era quella<br />
della mamma, la sera mi spogliavo completamente, infilavo la camicia da notte e mi<br />
sedevo sul letto a cercare i pidocchi. Poi magari passava la mamma e mi chiedeva<br />
che cosa stessi facendo, ed io le rispondevo che stavo cercando i pidocchi, perché<br />
nelle cuciture dei vestiti potevano passare. <strong>La</strong> mamma allora mi consolava e, dopo<br />
avermi guardata attentamente, mi diceva che non era vero niente.<br />
Mi terrorizzava l’idea di dover andare dal parrucchiere, anche se sapevo che era<br />
diventata una cosa necessaria visto che ero tornata dai campi di concentramento con<br />
una testa spaventosa. Anche il mio papà, che era una persona discreta, mi aveva chiesto<br />
quando mi sarei decisa ad andare a tagliarmi i capelli. Ormai li pettinavo a destra<br />
e a sinistra, ma proprio non andavano. Allora la mamma un giorno si è seduta vicino<br />
a me e mi ha chiesto: “Si può sapere perché non vuoi andare a tagliarti i capelli?”.<br />
“Perché io ho i pidocchi!”. Risposi<br />
Ha sorriso: ha preso un cencio bianco, l’ ha messo sulle sue ginocchia e con un<br />
pettine ha passato i capelli ad uno ad uno. Alla fine sono andata dal fidanzato della<br />
<strong>mia</strong> amica, si chiamava Mario e faceva il parrucchiere. Quando sono entrata ha esclamato:<br />
“Finalmente ti sei decisa!”.<br />
Ma io, preoccupata, gli ho chiesto: “Sì, però mi fai un piacere? Mi metti lontano<br />
dalle persone presenti?”.<br />
8 <strong>La</strong> signora Missaglia ha avuto due figlie femmine, Rita e Antonella, e un maschio, Biagio.<br />
78
E lui mi ha chiesto: “Perché?”.<br />
“Perché così, se ho i pidocchi, nessuno lo vede!”.<br />
Passati i primi momenti, i suoi famigliari le hanno mai fatto delle domande?<br />
Sapevano già tutto, perché la <strong>mia</strong> amica Gina era tornata prima di me e aveva<br />
detto quello che c’era da dire. Qualche volta se ne parlava così, vagamente. Tra<br />
l’altro, la mamma non si è più ripresa, il cuore non le funzionava bene, e cinque anni<br />
dopo che sono tornata è morta. <strong>La</strong> mamma mi raccontava che un giorno, mentre cucinava,<br />
c’era una vespa che le girava sempre attorno, così mio cognato, il marito di <strong>mia</strong><br />
sorella, ha preso uno straccio e ha fatto per ammazzarla.<br />
Ma lei ha gridato: “Non l’ammazzare! Questa è la Lisetta!”… Per dire a che punto<br />
era arrivata.<br />
Però... ricordo una volta che...<br />
Era il quindici d’agosto: quel giorno, lo rammento bene, di nascosto dalle SS<br />
abbiamo dato da bere agli ungheresi. Povera gente, dopo un viaggio massacrante li<br />
avevano lasciati sotto il sole, senza mangiare e senza un goccio d’acqua e se per caso<br />
vedevano qualcuno avvicinarsi a loro per aiutarli, gli sparavano.<br />
Noi quel giorno avevamo l’incarico schifoso di buttare acqua sul letame per farlo<br />
marcire, senza poterci lavare, vicino a quella montagna di sterco!<br />
Ad un certo punto la <strong>mia</strong> amica dice: “Oggi è il quindici agosto, il giorno dell’Assunta:<br />
dobbiamo fare una benedizione speciale”. Così abbiamo cantato tutte le<br />
preghiere, davvero con il cuore. Poi la Gina ha alzato la forca e ha impartito la benedizione:<br />
“Che il Signore ci benedica tutte”. A quel punto ci siamo dette: “Forza, chia<strong>mia</strong>mo<br />
tutte insieme la mamma”.<br />
E’ stato un solo grido: “Mamma!”. Poi ci siamo messe tutte a piangere…<br />
… <strong>La</strong> <strong>mia</strong> mamma mi ha detto che le capitava di sentire la <strong>mia</strong> voce chiamare,<br />
così si girava ma non vedeva nessuno… allora scoppiava a piangere.<br />
Poteva pregare?<br />
Sarebbe stato proibito, ma siccome io sono stata cresciuta dalle suore, allora ho<br />
fatto pregare tutti. D’altra parte, le nostre preghiere sono andate bene, perché siamo<br />
tornate. Quando avevamo un lavoro che non ci piaceva, dicevamo: “Iniziamo la<br />
novena a Sant’Antonio, che magari poi il lavoro cambia”. E infatti quel giorno lì il<br />
lavoro finiva bene. Così ripetevamo alle scettiche: “Hai visto che il lavoro ci è andato<br />
bene? Sant’Antonio ci ha fatto la grazia”.<br />
Facevamo la novena a tutti i santi. Le suore dell’ordine dove andavo io, un ordine<br />
fondato da una nobildonna molto vicina alla clausura, mi avevano detto che, quando<br />
si ha bisogno di una grazia molto grossa, si devono dire mille Ave Maria al giorno;<br />
così noi, quando lavoravamo, dicevamo queste mille Ave Maria alla Madonna e<br />
le chiedevamo la grazia.<br />
Si dicevano un po’ ciascuno, così quando ci incontravamo ci dicevamo: “Io ne ho<br />
dette cento”… “Io ne ho dette trecento”… Alla sera ne avevamo dette mille.<br />
79
Ancora adesso, quando la <strong>mia</strong> amica Gina mi chiama mi dice: “Non ti ho telefonato<br />
prima perché te vai a Messa”. Lei ce l’ha sempre con la <strong>storia</strong> della Messa. Una<br />
volta mi ha scritto che non crede più, perché Dio non avrebbe dovuto permettere tutte<br />
quelle sofferenze! Allora io le ho risposto che ognuna è libera di fare quello che vuole<br />
però… le mille Ave Maria ci hanno fatte tornare.<br />
Povera Gina! Ma lei ci andrà lo stesso in Paradiso, perché è stata sempre buona<br />
con tutti e poi ne ha passate tante! Del resto, non è solo chi dice: “Signore, Signore”<br />
che entra nel Regno dei Cieli.<br />
No, non potevamo pregare, ma lo facevamo lo stesso, anche se non avevamo né<br />
crocifissi né rosari.<br />
“Oh cieli! Ditemi perché.<br />
Qual è la ragione di tutto ciò,<br />
di una tale offesa in questo mondo.<br />
<strong>La</strong> Terra come sorda e muta chiude gli occhi…<br />
ma voi avete visto.<br />
Voi dall’alto avete visto…<br />
e restate indifferenti”.<br />
(Isaac Katzenelson)<br />
C’erano dei religiosi tra gli internati?<br />
Sì, tanto uomini che donne. I tedeschi erano particolarmente duri con quelle persone<br />
a causa delle loro convinzioni. Era estremamente pericoloso manifestare la propria<br />
fede religiosa, perché nel lager era proibito pregare, comunicarsi e dire Messa.<br />
Il campo maschile aveva la fortuna di ospitare dei religiosi che, attraverso l’aiuto<br />
degli internati e dei civili, riuscivano a comunicare, dire Messa e persino a impartire<br />
i sacramenti!<br />
Nei miei libri si dice che i religiosi conservavano le ostie dentro i barattolini della<br />
carne in scatola o del lucido da scarpe, trovati chissà come, e che le ostie erano ricavate<br />
dal pane oppure procurate dai detenuti che lavoravano con i civili.<br />
Ho anche letto che in un campo era stato internato un giovane prossimo a prendere<br />
i voti che, attraverso una speciale autorizzazione del vescovo locale, ebbe il permesso<br />
di dire Messa e impartire i sacramenti. Purtroppo noi donne non avevamo questo<br />
conforto, perché le suore non potevano arrogarsi quel diritto.<br />
80
Le urla degli ebrei<br />
E’ tornata a visitare Auschwitz e Ravensbrück?<br />
Ad Auschwitz sì, mentre a Ravensbrück no. Ad<br />
Auschwitz sono tornata una decina di anni fa, con<br />
quelli dell’associazione di Milano. Ero serena, e<br />
quando siamo andati a visitare la cella delle torture<br />
ho ringraziato Dio che non mi fosse capitato<br />
nulla.<br />
C’erano altre persone invece che bestem<strong>mia</strong>vano<br />
e imprecavano… ma a che cosa serviva, ormai?<br />
Perché farsi sangue amaro e stare male? Fare così<br />
non avrebbe certo cambiato le cose. Il bunker<br />
aveva sede nel campo di Auschwitz 1, mentre io<br />
ero ad Auschwitz 2, Birkenau, dove i tedeschi torturavano<br />
ed uccidevano le persone.<br />
Mi ricordo che c’erano dei tubi dove ci dissero<br />
che infilavano le persone per farle morire; e poi<br />
c’erano delle sale dove si veniva pigiati in molti,<br />
senza cibo né acqua… e poi l’impiccagione a testa<br />
in giù... quanti orrori!<br />
Nel blocco 11 finivano tutti quelli che avevano<br />
fatto qualche mancanza, come ad esempio chi<br />
scappava. Quando all’appello si accorgevano che<br />
qualcuno mancava, si scatenava il finimondo: le<br />
sirene urlavano come pazze, le SS correvano da<br />
tutte le parti, i cani venivano lanciati addosso a<br />
chiunque. Allora si doveva aspettare sull’attenti<br />
finché il fuggitivo non venisse ritrovato; dovevamo<br />
stare dritti, senza poterci riparare, sotto la<br />
Nelle cantine del Blocco 11 erano state costruite delle celle per i<br />
prigionieri da punire, altre volte venivano gettati in alcune segrete;<br />
in ambedue i casi venivano lasciati morire di fame.<br />
81<br />
Dachau: dopo la guerra, colonne di visitatori si<br />
affollano verso la cappella.<br />
Ohrdruf-Buchenwald: il Generale Eisenhower<br />
osserva la forca delle esecuzioni.<br />
neve, l’acqua o il sole, dovevamo stare<br />
ore ed ore ad aspettare. Se lo trovavano,<br />
lo riportavano al campo più morto che<br />
vivo e poi lo impiccavano, altrimenti<br />
prendevano a caso dieci della sua<br />
baracca e li mandavano nel blocco 11,<br />
nel bunker della morte.
Padre Massimiliano Kolbe è morto così, per salvare un padre di famiglia che avevano<br />
preso con altri dieci. Per finire nel bunker non faceva differenza se si era ariani<br />
o ebrei, bastava rubare anche solo un pezzetto di pane ed essere scoperti per finire là…<br />
dicevano che erano solo dieci giorni di punizione, ma non si usciva vivi da lì. Tra il<br />
blocco 10, a sinistra, e il blocco 11, a destra, c’era un cortile immenso con un muro<br />
nero, il muro dove giustiziavano i deportati; lo chiamavano il “muro della morte”.<br />
Sui miei libri c’è scritto che lì fucilavano i prigionieri… ma è logico che fucilare<br />
tante persone per volta non era cosa facile… si dice che fossero delle scene impossibili<br />
da vedere e che i soldati esecutori della condanna, anche se imbottiti di droga ed<br />
alcool, impazzivano. Dopo invece cominciarono a scavare grossi fossi in cui li gettavano<br />
cosparsi di nafta, poi accendevano un fiammifero e li bruciavano vivi.<br />
Quando i crematori non erano più in grado di far fronte all’incredibile numero di decessi, i cadaveri venivano<br />
ammucchiati (foto a sinistra) e bruciati in gigantesche fosse all’aperto (foto a destra).<br />
Dopo che ci hanno spostato dal campo A al campo B, ci hanno messo dentro delle<br />
baracche che avevano dei finestrini molto piccoli. Il campo B era molto vicino ai<br />
forni crematori ed alle camere a gas, e quando la notte si sentiva gridare, da quelle<br />
fessure cercavamo di vedere che cosa stesse succedendo, così vedevamo quella pove-<br />
Porta d’ngresso al campo di Birkenau (Porta della<br />
morte) vista dalla banchina dove arrivavano i treni con<br />
i prigionieri.<br />
82<br />
I forni di uno dei crematori.
a gente che si arrampicava, cercando disperatamente ed inutilmente una via di<br />
fuga… è una cosa difficile da spiegare...<br />
Quando sono tornata ad Auschwitz per la cerimonia, hanno ceduto ad ogni nazione<br />
una baracca per fare un memorial… così l’ hanno chiamato.<br />
<strong>La</strong> baracca italiana è stata allestita dall’architetto Belgioioso di Milano; vi ha<br />
costruito dentro un tunnel a forma di spirale tutto colorato di scuro, mettendo come<br />
sottofondo le grida degli ebrei. Era fatto tanto bene che io avevo chiesto alla presidentessa<br />
della sezione di Milano la cassetta, ma lei mi disse stupita: “Cosa te ne fai<br />
te, che ne hai già sentite abbastanza di grida degli ebrei!”…non me l’ ha voluta dare!?<br />
E’ vero, sono cose che non si dimenticano, quelle urla le sento ancora.<br />
Ebrei trasportati sui carri destinati ai campi di sterminio.<br />
Possiamo perdonare. Ma dimenticare no! Di fronte al blocco 11 c’era il blocco 10,<br />
quello degli esperimenti, lì non fanno ancora entrare.<br />
83
Irma Grese<br />
Cielo di ghiaccio<br />
Sopra anime perdute...<br />
Fantasmi maleodoranti<br />
E il tuo vile profumo...<br />
Norimberga ti punì,<br />
angelo biondo...<br />
non bastò la tua putrida bellezza<br />
ad ingannar la corda...<br />
Scivolò via in un attimo,<br />
la tua folle vanità...<br />
ah, quale errore fu assegnar ad un’anima brutale<br />
un apparir così poco degno...<br />
Solo i vermi ti rimpiangono,<br />
angelo biondo...<br />
e le urla delle tue vittime<br />
ti accompagnino ora e per l’eternità<br />
Michele Del Rossi<br />
84
Irma Grese, “l’angelo biondo”<br />
Ha sempre avuto la cognizione del tempo?<br />
Sempre, noi ci rendevamo sempre conto di che giorno fosse, eravamo sempre in<br />
grado di dire con esattezza la data. Sapevamo quando era Natale o Pasqua… però, in<br />
quanto a festeggiare...<br />
<strong>La</strong> prima Pasqua... il giorno preciso non me lo ricordo, ma è stato al principio di<br />
aprile, eravamo appena arrivate, e ricordo che due ragazze vennero prese a calci dai<br />
soldati. Non so per quale motivo, ma tanto non c’era bisogno che ci fosse un motivo,<br />
bastava che si passasse vicino ad uno per essere prese a calci. Se le rimpallavano<br />
come fossero dei palloni… dopo le hanno prese per i piedi e le hanno trascinate<br />
nel bunker; poverette, saranno sicuramente morte.<br />
C’era una aufseherin, un avanzo di galera... ma era così bella, così bella che la<br />
chiamavano “l’angelo biondo”… il suo nome era Irma Grese.<br />
Non molto alta di statura, ma era<br />
snella, portava la divisa in un modo!<br />
Aveva i capelli biondi legati con uno<br />
chignon e la bustina in testa, andava<br />
sempre in giro con un cane e il frustino.<br />
Un giorno l’abbiamo vista<br />
dalla finestra andare con la bicicletta…<br />
faceva freddo, per terra c’era il<br />
ghiaccio… ma come si fa a pretendere<br />
di andare in bicicletta con un<br />
tempo così? Giustamente ha scartato;<br />
in quel momento passava una<br />
prigioniera, così quella belva è scesa<br />
dalla bicicletta e l’ ha ammazzata di<br />
botte, lasciandola per terra mezza<br />
morta… non so se l’ ha ammazzata<br />
davvero.<br />
Questo per dire... che bastava la<br />
più piccola cosa, anche la più insignificante<br />
per scatenare l’ira più<br />
furibonda e senza senso!<br />
“L’angelo biondo” è stato impiccato…<br />
è stata presa e processata a<br />
Norimberga.<br />
Il vederla suscitava terrore, e lei di questo ne era orgogliosa. Era cattiva, ma di<br />
una cattiveria sottile… il profumo che emanava e la sua bellezza servivano solo ad<br />
avvilire maggiormente le povere detenute vestite di stracci e maleodoranti.<br />
Aveva un viso d’angelo, ma angelo certo non era.<br />
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />
Gli aguzzini: Herta Ehlert (8), Irma Grese (9), Ilse Lothe (10) - foto<br />
sopra; Josef Kramer (1), Fritz Klein (2), Peter Weingartener (3), <strong>La</strong>deslaw<br />
Gura (17), Otto Galesson (19) e Karl Egersdorf (21) - foto sotto.<br />
85
L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…<br />
Se non sbaglio, lei ha trascorso in prigionia due feste di Pasqua e un Natale:<br />
che cosa ricorda di quei giorni?<br />
Quando è stata la prima Pasqua eravamo ancora frastornate, non credevamo che<br />
fosse possibile una cosa simile, anche perché ci avevano fatto credere tutt’altro;<br />
infatti, appena partite siamo state scortate dai soldati austriaci fino alla frontiera, e ce<br />
n’era uno che, quando ci vedeva piangere, diceva: “Non piangete”. Ci faceva capire<br />
che, passati quaranta giorni, saremmo tornate a casa, quindi eravamo ancora sotto<br />
l’influenza di quella speranza. Invece...<br />
<strong>La</strong> prima Pasqua l’ ho passata ad Auschwitz, mentre il Natale a Ravensbrück, nel<br />
campo vicino la fabbrica; ricordo che continuavo a pregare di essere a casa per Natale…<br />
dicevo: “Gesù mio, ti prometto che, se torno a casa per Natale, possono cucinare<br />
tutto quello che vogliono, ma io non assaggerò nulla”. Speranza vana!<br />
Avevo anche fatto il voto di fare tutti gli scalini del santuario di San Gerolamo<br />
Emiliani in ginocchio. San Gerolamo era in prigione, ma la Madonna lo liberò. Allora<br />
lui si diede ai poveri, assistendo quelli che erano in prigione ed in difficoltà. Questo<br />
santuario è a Somasca, vicino Lecco, sulla strada che porta al castello dell’Innominato<br />
di Manzoni, ci sono ancora tutti i ruderi. Un tempo era una mulattiera, adesso<br />
ci hanno fatto una strada vera. Lungo questa strada c’è la scala santa, cento gradini<br />
che San Gerolamo faceva in ginocchio tutti i giorni. Da ragazza qualche volta li<br />
ho fatti anch’io. Quando sono tornata a casa, sono andata al santuario per sciogliere<br />
il voto.<br />
Tempo fa, parlando con <strong>mia</strong> figlia più grande di quando era piccola, mi ha detto<br />
riguardo al santuario: “Quanti spaventi mi hai fatto prendere, mamma, quando mi<br />
portavi a San Gerolamo con tutta quella gente!”. Quando aveva sei anni la portavo<br />
con me in pellegrinaggio al santuario di San Gerolamo.<br />
Io le rispondevo: “Ma era un santo!”.<br />
E lei: “Lo so, ma a me non andava di venire”.<br />
Il giorno di Natale non ci hanno fatto lavorare, mentre correva la voce che ci<br />
avrebbero dato chissà che... invece ci hanno dato la solita zuppa scarsa. Ma almeno<br />
non ci hanno fatto lavorare. <strong>La</strong> sera le russe hanno organizzato per ballare, alle russe<br />
piaceva, ed evidentemente avevano ancora la forza per farlo. Le loro baracche erano<br />
state un tempo gli alloggi dei soldati, quindi avevano una grande camera che riadattarono<br />
per l’occasione, poi, siccome si intendevano bene con le polacche e le slovene,<br />
hanno fatto passare parola; alla fine vennero anche delle SS, che per una volta ci<br />
lasciarono in pace.<br />
Avevano fatto in mezzo al cortile un albero di Natale… Dio, che nostalgia!<br />
<strong>La</strong> prima Pasqua l’ ho passata dentro Auschwitz, la seconda... ero a Ravensbrück,<br />
perché prima di essere trasferita nel campo vicino alla fabbrica sono rimasta una ventina<br />
di giorni (dal venti di marzo alla metà di aprile) nel campo di Ravensbrück. Forse<br />
non ce ne siamo rese conto dell’arrivo della Pasqua perché gli ultimi giorni di prigionia<br />
sono stati tremendi, non si lavorava, non c’era cibo e si viveva in mezzo agli<br />
87
escrementi. Non eravamo che povere ombre, camminavamo in mezzo alla sporcizia<br />
mentre dappertutto c’erano cataste di morti; ricordo ancora carri con montagne di<br />
morti alte al cielo… ma non riuscivano a caricarli tutti, la maggior parte era abbandonata<br />
per tutto il campo. Ormai pensavo che quella sarebbe stata anche la <strong>mia</strong> sorte<br />
quindi, inutile dire o fare qualsiasi cosa. Ma, nonostante tutto, la vita era la vita e si<br />
implorava la compagna vicina di aiutarti. Io devo ringraziare la <strong>mia</strong> grande forza di<br />
volontà, perché non mi reggevo più, ridotta pelle ed ossa.<br />
Sono sempre stata<br />
magra, ricordo che<br />
quando mi pesavo, tornavo<br />
a casa e dicevo a<br />
<strong>mia</strong> madre: “Sono<br />
diventata un colosso!”.<br />
E lei: “Perché, quanto<br />
pesi?”.<br />
“Cinquanta chili!”.<br />
Ero alta e sottile, eppure<br />
mangiavo tanto! Ero<br />
una cosa incredibile.<br />
Quando facevo il turno<br />
dalle sei alle due, mio<br />
padre era già tornato in<br />
fabbrica e mio fratello<br />
era in ufficio. Allora <strong>mia</strong><br />
madre preparava la<br />
Questo fu quello che videro coloro che, dopo la liberazione entrarono nei campi: mucchi<br />
di cadaveri e spettri umani.<br />
tavola solo per me. Quando avevo finito, trascorrevo un pò di tempo a leggere, anche<br />
se di solito si lavorava a maglia; allora vedevo <strong>mia</strong> madre che mi guardava con quel<br />
suo sorriso proprio... di santa, e mi chiedeva : “Sai quanti panini ti sei mangiata?”.<br />
“Non lo so!”.<br />
“Dodici, quattordici...” e alla sera, quando andavo a letto, mi portavo sempre due<br />
o tre panini in camera, senza niente perché non avevamo niente.<br />
C’era <strong>mia</strong> sorella, che ha sei anni più di me e che d’inverno veniva nel mio letto<br />
perché aveva freddo (non c’era il riscaldamento, avevamo solo una stufa in cucina,<br />
ma grazie a Dio le coperte non mancavano), che si lamentava perché nel letto c’erano<br />
le briciole del pane. Però ero magra, ero tutta nervi.<br />
Così, nei campi di concentramento, dimagrendo tantissimo, è difficile immaginare<br />
come fossi diventata!… Ma almeno, non essendo stata mai grassa, non perdevo la<br />
pelle come le altre.<br />
Infatti le persone che erano state grasse erano cadenti: i seni, le braccia, le gambe,<br />
Oddio che impressione! Ricordo che quando andavamo a fare la doccia e ci guardavamo<br />
dicevo: “Può essere che quella sia ancora una persona?”. Ed io, ho dovuto<br />
accettare quello stato di cose… perché era forte in me la volontà di sopravvivere, mi<br />
88
Il suicidio apparve a molti deportati come<br />
l’unico modo per porre termine alle insopportabili<br />
sofferenze.<br />
ripetevo sempre: “Io devo tornare a casa”.<br />
Se mi fossi lasciata andare… sarebbe stata la fine.<br />
Guai se sentivo qualcuno dire: “Io devo morire”.<br />
A d<br />
Auschwitz avevamo ancora la forza che ci aiutava a<br />
vivere, invece a Ravensbrück avevamo perso tutto.<br />
Vi è mai passata per la mente l’idea di farla finita?<br />
Sì, spesso. Qualche volta si diceva: “Mi ammazzo”.<br />
Ma poi l’istinto di conservazione, la speranza che<br />
tutto potesse finire aveva la meglio. Se avessimo<br />
voluto, del resto, sarebbe bastato passare accanto al<br />
filo spinato dove correva la corrente ad alta tensione e<br />
toccarlo per farla finita.<br />
“Domani mattina tocco il filo”. Si diceva, si diceva...<br />
E’ vero, ci sono stati dei casi di suicidio.<br />
Le ausiliarie e le kapò come si comportavano nei<br />
vostri confronti?<br />
Erano più cattive degli uomini. Ma forse perché la<br />
donna è provvista di una cattiveria più raffinata, mentre<br />
l’uomo è un po’ più superficiale... non so… Però,<br />
uomini o donne, erano cattivi gli uni e gli altri. Solo<br />
che da una donna, forse, non me lo aspettavo.<br />
Le prigioniere erano comandate soprattutto dalle<br />
ausiliarie; c’erano anche dei soldati, ma quelli si limitavano<br />
a seguirci sul campo quando andavamo a lavorare<br />
oppure facevano la guardia sulle torrette. Per il<br />
resto, erano tutte donne.<br />
Ad Auschwitz c’era una donna che non era cattiva…<br />
se potessi vederla, oggi, l’abbraccerei. Era piccola<br />
di statura e piuttosto grassoccia; indossava giacca<br />
e gonna a pantaloni, degli stivali enormi, una pistola<br />
lunga che le scendeva fino al ginocchio, aveva sempre<br />
vicino un cane che era alto come lei... i cani delle<br />
SS erano feroci, bastava poco per essere azzannate.<br />
Ad Auschwitz c’era la banda e noi, con gli zoccoli<br />
senza zeppa, vestite di stracci, stanche, dovevamo<br />
marciare a tempo, guai se sbagliavamo! Quando uscivamo<br />
dal campo per andare a lavorare nella campagna,<br />
dovevamo camminare in fila l’una a fianco<br />
89
all’altra e a passo di marcia, se vedevamo quella donna tiravamo un sospiro di sollievo.<br />
Dicevamo: “Meno male, oggi si lavora di meno!”. Si sedeva con il suo cane e<br />
ci strillava parolacce per tutto il giorno a voce molto alta, ma poi faceva segno di fare<br />
adagio. Urlava per farsi sentire dagli altri che comandava, però ci agevolava quando<br />
vedeva che non ce la<br />
facevamo più.<br />
Quando evacuarono<br />
il campo di<br />
Ravensbrück, e noi<br />
eravamo destinate ad<br />
essere caricate su di<br />
una nave che avrebbero<br />
dovuto affondare<br />
in mezzo al mare,<br />
ci fecero camminare<br />
per molti giorni e<br />
molte notti. Ogni<br />
tanto ci affiancavano<br />
dei gruppi di militari<br />
italiani prigionieri,<br />
Orchestre di deportati accompagnavano i loro compagni condannati a morte sul luogo delle<br />
esecuzioni: estremo oltraggio delle SS alle loro vittime.<br />
che chiedevano se ci fossero italiani e se volevamo scappare. E’ vero che le SS che<br />
ci scortavano erano male equipaggiate e che tra di loro uno era piuttosto anziano, ma<br />
noi avevamo paura ugualmente. Ad un certo punto, proprio quello più anziano si è<br />
avvicinato e si è fatto riconoscere: era un italiano, e disse di essere obbligato a fare<br />
quello che stava facendo 9 . Ci disse che, se volevamo, potevamo scappare, che lui e il<br />
suo compagno non erano armati, che l’unico tedesco armato era quello davanti alla<br />
colonna.<br />
Se fossimo rimasti indietro, con il sopraggiungere della notte avremmo potuto<br />
allontanarci, perché loro due non ci avrebbero sparato. Difatti così è stato. Eravamo<br />
sei donne: io, la Bice, Antonietta, la Bianca di <strong>La</strong> Spezia e una slava.<br />
Con i soldati italiani siamo scappati in mezzo alla boscaglia e la prima cosa che<br />
abbiamo fatto appena abbiamo trovato una cascina è stato di metterci a dormire. Al<br />
mattino i ragazzi sono usciti fuori a vedere se passavano altre colonne e ci hanno<br />
detto che avevano visto delle prigioniere vestite come noi, con il camicione a strisce<br />
e con una croce dipinta in mezzo alla schiena: erano detenute ebree, esse avevano<br />
tutte una croce, mentre le ariane avevano una riga. Stupidamente siamo uscite e,<br />
invece di camminare nella direzione opposta, siamo andate avanti. Così siamo state<br />
riprese… ci hanno puntato il mitra alla schiena e, volendo, avrebbero potuto fucilarci<br />
seduta stante. Ma avevano bisogno del permesso del più alto di grado. <strong>La</strong> sorpresa<br />
è stata grande quando abbiamo scoperto che una delle SS era proprio la donna piccola<br />
di statura e un po’ grassoccia che però non era cattiva! Non so come abbia fatto<br />
a riconoscerci… Siamo arrivate ad Auschwitz alla fine di aprile, e siamo rimaste là<br />
9 Probabilmente era un repubblichino o un altoatesino, oppure un soldato fatto prigioniero che aveva accettato di militare tra i nazifascisti in cambio della<br />
libertà.<br />
90
fino ad ottobre. Poi ci avevano mandate a lavorare in una fabbrica vicino Ravensbrück…<br />
ad Auschwitz sembravamo scheletri, a Ravensbrück spettri… eravamo irriconoscibili!<br />
Eppure, quando lei ci ha viste, ci ha guardate ed ha esclamato: “Auschwitz?!?”.<br />
Abbiamo fatto un cenno affermativo con la testa, mentre intorno quelle belve<br />
urlavano e si sbracciavano, facendoci capire che volevano fucilarci!<br />
Lei, invece, ha fatto cenno di no e ci ha ordinato di seguirla. Non ci ha fatto niente,<br />
non ci ha dato neanche uno schiaffo… no, non erano tutte cattive, le auseherin.<br />
Ricordo che poco prima di Natale una delle SS disse: “E’ Natale ed io a casa ho<br />
quattro bambini”. Perché anche loro non erano tutte volontarie, molte le rastrellavano.<br />
Sempre ad Auschwitz, tra i soldati che ci accompagnavano fuori a lavorare ce<br />
n’era uno... Era un postel 10 alto, magro, odioso! Era una vera belva. Ha fatto amicizia<br />
con una prigioniera russa; era bella quella russa… ma le russe sono tutte belle…<br />
quando arrivavamo al lavoro, lei si sedeva vicino a lui. Chissà cosa avrà trovato in<br />
quella ragazza! Era cambiato, non era più il barbaro di un tempo.<br />
Non ci ha più picchiate ed uscire con lui ci faceva meno paura. Dovevamo sempre<br />
lavorare, ma almeno senza botte.<br />
I primi giorni che eravamo ad Auschwitz dovevamo trainare dei carri molto<br />
pesanti, erano quei carri con il timone ai quali si attaccavano i buoi, ma lì i buoi eravamo<br />
noi.<br />
<strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica aveva sempre paura di prendere botte lei e di farle prendere a noi,<br />
così si metteva sempre davanti. Ad un certo punto il carro si è fermato per il ghiaccio<br />
che c’era a terra, e lei stupidamente ha messo la mano davanti, di modo che le è<br />
rimasta schiacciata tra il timone ed il carro. Chi ci accompagnava quel giorno era una<br />
SS giovane, alta, una bellezza bruna, ed è rimasta dispiaciuta quando ha visto che si<br />
era fatta male, così, quando siamo tornate, ha chiamato la blocova e le ha detto che<br />
la <strong>mia</strong> amica il giorno dopo non sarebbe dovuta andare a lavorare.<br />
Sì, ogni tanto c’era qualcuno che aveva un po’ di umanità.<br />
Le persone che avevano dei<br />
piccoli difetti, per esempio<br />
quelle che portavano gli<br />
occhiali, venivano selezionate?<br />
Se non erano ebrei, non<br />
venivano selezionati. <strong>La</strong> selezione<br />
tra gli ariani avveniva<br />
solo se si era ricoverati o se le<br />
fabbriche avevano bisogno di<br />
manodopera. Se non si rendeva<br />
più e si era ricoverati, allora si<br />
poteva essere selezionati. Ad<br />
Auschwitz le selezioni avveni-<br />
10 Postel significa “soldato” in tedesco.<br />
L’arrivo e la selezione.<br />
91
vano alla stazione (ma solo per gli ebrei) ed al revier ed erano dirette dal dottor Mengele.<br />
Le selezioni per andare a lavorare in fabbrica erano un’altra cosa: suonavano il<br />
fischietto e si usciva tutti all’aperto sull’attenti. Dovevamo passare davanti alle SS<br />
senza vestiti e sfilare nudi per mostrare i nostri “muscoli”… era una cosa pietosa…<br />
cercavamo di gonfiarci, e quando ci toccavano volevamo sembrare duri come rocce.<br />
92
Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei<br />
bruciati per festeggiare il Führer<br />
C’erano bambini?<br />
I tedeschi uccidevano subito tutti i bambini<br />
ebrei. Ve n’erano alcuni che erano figli di<br />
donne entrate nel campo già incinte e che quindi<br />
partorivano nei campi di concentramento… se<br />
però i tedeschi se ne accorgevano prima, le mandavano<br />
direttamente al crematorio; invece, se la<br />
gravidanza non era molto avanzata, e quindi riuscivano<br />
a nasconderla, le donne potevano o perdere<br />
il figlio per tutte le fatiche a cui venivano<br />
sottoposte o partorirlo… ma poi, senza nemmeno<br />
tagliargli il cordone ombelicale lo affogavano<br />
in un secchio d’acqua. Però, ci sono stati anche<br />
casi in cui sono stati salvati. Sui miei libri c’è scritto che qualcuno, dopo aver preso<br />
contatto con i civili attraverso i prigionieri che lavoravano fuori il lager, mise in<br />
salvo qualche bambino avvolgendolo negli stracci e gettandolo oltre il filo spinato.<br />
Era difficile che vi fossero bambini non ebrei perché di solito venivano al seguito dei<br />
genitori, e solo gli ebrei venivano rastrellati in quel modo, con tutta la famiglia.<br />
Ricordo che poco prima che sfollassero il campo di Ravensbrück, la direzione era<br />
allo sfascio, non andavamo a lavorare e potevamo girare dappertutto senza grosse<br />
preoccupazioni. Quella libertà ci faceva paura: tememmo che fosse la nostra fine.<br />
Proprio durante un’esplorazione in una baracca abbiamo trovato dei bambini. Sapevamo<br />
della loro esistenza perché li vedevamo all’appell, ma pensavamo che fossero<br />
morti. Invece erano ancora vivi. Era così pietoso vederli stare ritti durante le adunate,<br />
magri da far spavento! Li contava<br />
sempre una donna delle SS; una<br />
sera ha fatto una carezza ad un bambino,<br />
un pidocchio le è rimasto sulla<br />
mano, così ha massacrato di botte<br />
quella povera creatura! Brutte<br />
bestie!<br />
Ricordo che con noi, quando<br />
appena catturate eravamo in prigione<br />
a Como, c’era una famiglia ebrea<br />
composta da padre, madre, un<br />
maschietto di quattro o cinque anni<br />
e una femminuccia di dodici anni,<br />
Stellina. Gina è sempre stata molto<br />
Questi ebrei sono stati selezionati ed il loro destino è la camera a gas.<br />
93<br />
Cadavere di un feto con ancora attaccato il cordone<br />
ombelicale.<br />
dolce ed affettuosa con quella bam-
“In questo ambiente insolito i bambini piccoli si mettevano solitamente a piangere.<br />
Ma dopo essere stati consolati...si avviavano verso le camere a gas giocando<br />
e scherzando, con un giocattolo tra le mani” (Memorie di Rudolf Hoess).<br />
Schedatura di un ragazzo ad Auschwiz.<br />
Attraverso queste aperture collocate sul tetto venivano gettate nelle camere<br />
sottostanti le scatole contenenti il gas che si spandeva immediatamente.<br />
Contenitori di acido cianidrico (ZYKLON-B)<br />
destinato alla gassificazione.<br />
94<br />
bina, forse perché a casa lei aveva<br />
lasciato un bimbo piccolo.<br />
Successivamente, eravamo<br />
arrivate ad Auschwitz già da un<br />
pezzo quando abbiamo rivisto<br />
Stellina che, appena ha riconosciuto<br />
Gina, le è corsa incontro, e<br />
lei, quando eravamo chiuse nel<br />
blocco, la coccolava continuamente.<br />
Gina le chiese che fine<br />
avessero fatto i suoi genitori, e lei<br />
rispose candidamente: “Mamma<br />
è andata in un altro campo, e<br />
dopo ci andrò anch’io”.<br />
Invece noi sapevamo dov’erano<br />
finiti la sua mamma ed il suo<br />
papà… per “altro campo” i tedeschi<br />
intendevano il crematorio.<br />
Un giorno vedemmo Stellina che<br />
stava piangendo come una fontana,<br />
così la Gina le chiese che cosa<br />
avesse; lei rispose che si era fatta<br />
sotto a causa della diarrea, che<br />
l’avevano costretta a raccogliere<br />
tutto con le mani e che le proibivano<br />
di lavarsi!<br />
Poi… ricordo che nel mese di<br />
luglio c’è stata una festa in onore<br />
del Führer, noi stavamo rientrando,<br />
e sulla strada incontrammo<br />
una colonna di bambini che invece<br />
usciva… tra loro c’era anche<br />
Stellina. Gridò felice, candida ed<br />
inconsapevole: “Gina, Gina,<br />
ciao! Vado dalla mamma!”.<br />
Quella notte hanno bruciato<br />
settecentocinquanta bambini<br />
ebrei per festeggiare il Führer!<br />
Che differenze c’erano, qualitativamente,<br />
tra i kommandi?<br />
Ricordo che un mattino chiamarono<br />
la <strong>mia</strong> amica Emma e
l’assegnarono ad un altro kommando, chissà per quale miracolo. In seguito cambiò<br />
anche blocco.<br />
Qualche tempo dopo la rivedemmo e ci disse che andava a coltivare i fiori dei<br />
giardini! 11 . Non solo il lavoro era leggero, ma aveva anche la possibilità di stare a<br />
contatto con i civili, rimediando qualche cosa in più da mangiare. L’ultima volta che<br />
io, Gina e le altre l’abbiamo vista stava male, aveva la diarrea, il male più terribile<br />
che potesse esserci là dentro. Non era andata a lavorare e ogni due minuti correva al<br />
gabinetto, ma ricordo che aveva un cencio pieno di pane, e che non ce ne voleva dare<br />
neanche un pò. Era una cattiveria, perché praticamente lei stava male, e quindi non<br />
poteva mangiare, mentre noi morivamo di fame?!? Ci siamo così arrabbiate, io e la<br />
<strong>mia</strong> amica, che le abbiamo mandato un sacco di accidenti. Dopo di allora non l’ ho<br />
più vista; non è tornata, né sappiamo se è morta o se non è voluta tornare a casa. Era<br />
sposata ma aveva una vita molto infelice. Forse non se l’è sentita di farsi viva con il<br />
marito, forse si è nascosta. Nessuno sa che cosa le sia successo.<br />
I tedeschi facevano differenze tra il lavoro maschile e quello femminile?<br />
Il lavoro era lo stesso, non c’erano differenze. Quando ad Auschwitz scavavamo<br />
i fossi con noi c’erano gli uomini.<br />
E quando era periodo di zappare,<br />
noi lavoravamo la terra e loro buttavano<br />
la cenere degli ebrei sulle<br />
zolle come concime.<br />
In fabbrica c’era qualche<br />
uomo, ma nel mio reparto no.<br />
C’erano degli elettricisti italiani,<br />
prigionieri di guerra, tra cui un<br />
bel ragazzo alto e prestante; stava<br />
piuttosto bene, perché quelli che<br />
facevano quel tipo di lavoro venivano<br />
trattati meglio.<br />
Così una delle SS più feroci ha<br />
cominciato a fargli la corte. Un<br />
giorno lei si avvicinò a noi e ci<br />
chiese come si dice “mio amore”<br />
in italiano.<br />
“Tu, italianka, spreken mai liben?”.<br />
“Mio amore”.<br />
Non c’era differenza tra il lavoro maschile e quello femminile, anche le donne<br />
venivano “usate” per i lavori forzati.<br />
Glielo abbiamo dovuto dire, altrimenti… ci avrebbe riempite di bastonate…<br />
Capitava di riuscire a parlare con loro?<br />
Quando i kommandi si incrociavano chiedevamo sempre: “Ci sono italiani, ci<br />
sono italiani?”.<br />
Di prigionieri ce n’erano pochi: la maggior parte erano militari.<br />
11 Per mimetizzare l’attività dei KZ, i tedeschi ricorsero a tutta una serie di abili stratagemmi: costruirono serre, voliere, tipici villini del nord,ecc.<br />
95
C’era qualche ebreo, come quello che ripeteva sempre: “Qua moriamo tutti, qua<br />
moriamo tutti”. Tanto che alla fine nessuno gli rispondeva più. E poi ce n’era un altro<br />
che diceva: “Io ero un ingegnere”. E ripeteva continuamente: “io ero, io ero, io<br />
ero...”. Tanto che una volta gli dissi: “Ma adesso siamo qui, e quel che eravamo non<br />
lo siamo più, non contiamo più niente!”.<br />
Anche tra le donne c’era chi rifiutava di svolgere i lavori più pesanti ed umili perché<br />
prima di essere catturate erano delle persone importanti. <strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica era troppo<br />
buona, piuttosto che vederle ammazzare di botte faceva anche il loro lavoro! Io<br />
invece no.<br />
96
<strong>La</strong> sete<br />
Qual è la cosa che ricorda con maggior fastidio?<br />
Il non capirsi, quella era per me la cosa peggiore. Capitava che una russa mi rivolgesse<br />
la parola e che io interpretassi quello che diceva in un altro modo.<br />
Le russe erano affiatate e molto più forti di noi italiane, per questo sul lavoro<br />
erano trattate con un occhio di riguardo; ricordo che quando dovevamo caricare i<br />
camions di ghiaia e grossi sassi, mentre la <strong>mia</strong> forca arrivava in alto vuota, la loro era<br />
sempre piena. “Sciaiser, sciaiser”, non facevano altro che ripeterci questa parolaccia.<br />
Il problema era che non capivamo niente! Quando non si capisce la lingua, diventa<br />
faticoso vivere! Sì, qualche parola l’ ho imparata, ma il problema era che magari<br />
il comandante parlava tedesco, la lager – führer, cioè la comandante del campo, il<br />
polacco; poi, magari una parlava sloveno, un’altra il russo... era la torre di Babele,<br />
tutte le lingue e tutti i dialetti assieme. Poi eravamo anche miste nei blocchi, e visto<br />
che noi italiane eravamo poche, ed eravamo anche disperse, una in un blocco, una in<br />
un altro, ci trattavano come pezzenti.<br />
… Poi… forse non è difficile da capire… la sete era un’altra cosa terribile! Un<br />
vero tormento!<br />
Ricordo che una volta, era il mese di luglio e faceva un caldo tremendo… forse<br />
la Polonia è una terra maledetta, quando fa freddo si gela, quando fa caldo si brucia…<br />
quella mattina siamo andati a lavorare come sempre; lì vicino c’era una specie di<br />
ruscelletto ma l’acqua era ferma.<br />
I primi ad entrarvi sono stati i cani, e ci hanno sguazzato in tutti i modi possibili.<br />
Nell’intervallo ci siamo avvicinate a quella pozza e vi abbiamo sciacquato le<br />
mutande e quei quattro miseri cenci che avevamo; poi, nel pomeriggio, non ce<br />
l’abbiamo fatta più e abbiamo bevuto quell’acqua fetida.<br />
<strong>La</strong> fame è una brutta bestia, ma anche la sete non scherza! Avevamo sete da morire<br />
e faceva un caldo pazzesco.<br />
L’acqua era sporca, lurida di tutto, con dentro lunghi vermi e peli di cani.<br />
Allora abbiamo preso l’orlo del nostro cencio, abbiamo filtrato l’acqua e<br />
l’abbiamo bevuta. Quella è stata la cosa che ci ha fatto più ribrezzo in assoluto.<br />
Quando a luglio o agosto, passando vicino a qualche casetta delle SS o dei civili,<br />
vedevamo i pozzi, era una tortura indicibile non poterci avvicinare.<br />
Tutte quante sognavamo di poterci lavare con il sapone e di toglierci di dosso<br />
quella crosta sudicia che non veniva via neanche strofinandoci a sangue.<br />
Ricordo che, dopo che i russi ci hanno liberate, siamo andati dentro le case dei<br />
civili e abbiamo rubato i vestiti e le lenzuola. Quando noi e i nostri compagni siamo<br />
arrivati nel campo americano e abbiamo potuto fare un vero bagno, mi sono sentita<br />
rinascere.<br />
Quella sera, poi, abbiamo finalmente potuto dormire con una camicia da notte tra<br />
le lenzuola. E’ stata la sera più bella della nostra vita, anche se abbiamo dormito per<br />
terra.<br />
<strong>La</strong> disinfestazione...!! Quella era un’altra tortura, e poi non serviva a niente…<br />
97
Prima di entrare nella baracca della doccia, bisognava spogliarsi fuori ed attendere<br />
il proprio turno… se ci fosse il sole, la pioggia o la neve, per loro non faceva alcuna<br />
differenza.<br />
Mentre aspettavamo dovevamo tenere i nostri quattro stracci arrotolati in un certo<br />
modo, così da far vedere il numero, e una volta dentro ci facevano aspettare ore e ore,<br />
nudi, in un posto che era senza vetri e senza niente… poi, finalmente, sotto l’acqua<br />
che un momento usciva bollente e subito dopo gelata. Dopo, usando lo stesso pennello<br />
intinto nel medesimo mastello, ci davano una pennellata dicevano che serviva<br />
per non farci venire la scabbia… ma bastava uno che ce l’avesse avuta.. in quel modo<br />
avrebbe contagiato tutti gli altri.<br />
Poi dovevamo aspettare fino a quando non ci avrebbero ridato i vestiti, ma intanto<br />
era trascorsa tutta la notte ed era mattina, e quando suonava il gong, senza cena,<br />
senza dormire, senza colazione, dovevamo andare a lavorare.<br />
98
Sofferenza fisica, psicologica, morale…<br />
ma il volo di una rondine e il ricordo della mamma…<br />
Che effetto faceva vedere attorno a sé tanti morti?<br />
Non ci facevano più impressione perché non eravamo più delle persone!<br />
Quando al mattino si faceva l’appell per andare a lavorare, quelli addetti a raccogliere<br />
i morti erano già in movimento, vedevamo barelle, carretti pieni di morti...<br />
Nessuna impressione però.<br />
Anche se c’erano delle persone<br />
che conoscevamo e che non si<br />
riconoscevano più. Giustamente,<br />
come dicono anche i libri,<br />
se stavamo senza vederci<br />
anche solo una settimana, era<br />
difficile riconoscerci.<br />
Quando ci si rivedeva, ci<br />
interessava sapere dall’altro un<br />
parere sul nostro aspetto fisico…<br />
la prima cosa che si chiedeva<br />
era: “Come mi trovi?<br />
Come mi trovi?”.<br />
Sempre si mentiva a noi<br />
stesse, dicendoci tra di noi che<br />
non eravamo dimagrite… Era una menzogna! Vivere era davvero difficile, si rischiava<br />
costantemente d’impazzire.<br />
Quando si arrivava a quello<br />
stadio, era la fine, non c’era più<br />
nulla da fare, non si aveva più<br />
interesse per nessuna cosa, non<br />
interessava più lavorare per<br />
non essere ammazzate di botte,<br />
non interessava mantenere quel<br />
minimo di pulizia che si poteva<br />
tenere... interessava solo mangiare,<br />
anche se certi smettevano<br />
anche di cercare tra i rifiuti.<br />
Quando siamo andate a<br />
lavorare in fabbrica, del mio<br />
trasporto c’era solo Antonietta,<br />
che era più giovane di me.<br />
Poverina, era proprio arrivata a<br />
quel punto lì, io dovevo dirle di<br />
mangiare, di lavarsi, quasi<br />
Bergen-Belsen: le ex guardiane del campo obbligate alla rimozione e allo sgombero<br />
dei cadaveri.<br />
I vivi convivevano con i morti con una rassegnata indifferenza generale.<br />
99
l’obbligavo! Quando lavoravamo in fabbrica c’era la possibilità di poterci bagnare le<br />
mani e lavarci il viso, anche se non potevamo asciugarci, ma era sempre qualcosa, e<br />
sentivamo il bisogno di farlo.<br />
“Devo vivere, devo tenermi ancora come una persona!”… Mi ripetevo continuamente.<br />
Quando al mattino ci davano la sveglia, avere la possibilità di pettinarci, anche se<br />
erano più pidocchi che capelli, ci sembrava una cosa grande. Invece Antonietta non<br />
faceva più niente. Allora la obbligavo a vestirsi, a pulirsi, a levarsi un poco i pidocchi...<br />
era arrivata ad uno stadio che, se non ci fossi stata io, sarebbe morta, perché se<br />
le davano un comando lei non obbediva, e dai oggi, dai domani, le avrebbero dato<br />
talmente tante bastonate che sarebbe finita male. Non aveva più volontà e lì, quando<br />
cadeva quella, era la fine!<br />
Che cosa vi spingeva a farvi quelle domande sul vostro aspetto fisico: lo spirito<br />
di sopravvivenza, la volontà di affermare la propria femminilità o che?<br />
Non eravamo più donne, non eravamo più niente. Quando ci si chiedeva: “Come<br />
mi trovi?”, e ci si sentiva rispondere: ”Bene, bene”, era per pensare: “Allora non<br />
vado al crematorio, posso sperare di uscire viva da qui”. Perché la speranza era sempre<br />
quella, malgrado certe volte si pregasse la morte, tanto è vero che, quando incrociavamo<br />
il kommando dove c’era quell’ebreo che diceva sempre: “Qua non si esce<br />
più, qua non si esce più”, noi rispondevamo: “Se vuoi crepare, crepa!”.<br />
D’altra parte, chi ci avrebbe proibito di toccare i fili? Se solo lo avessimo<br />
voluto… sarebbe stato facile!<br />
Quante volte, se si doveva<br />
svolgere un lavoro superiore alle<br />
proprie forze, si diceva: “Se io<br />
domani devo fare ancora questo<br />
lavoro, tocco i fili e non se ne<br />
parla più”. Ma non era così.<br />
Quando ci facevano trasportare le<br />
rotaie per far passare quei carrelli<br />
pieni di materiale, e dovevamo<br />
fissarle in mezzo al ghiaccio o al<br />
fango... era veramente impossibile!<br />
E quando dovevamo spostare i<br />
carrelli, guai a rovesciarne uno!<br />
Era la fine del mondo! Spesso ci<br />
toccava di spostare dei grossi<br />
sassi da una parte all’altra del campo, ce li facevano mettere sopra una draga, una<br />
specie di barellatta, e poi in due dovevamo portarli via. Se capitavano sassi pesanti<br />
sessanta, ottanta chili , tanto che quando li sollevavamo si sentiva la schiena che si<br />
rompeva, allora si diceva che non avremmo più sopportato tutto ciò, ci tornava il<br />
desiderio di morire!… Anche per l’inutilità dei lavori che ci facevano svolgere… per<br />
Il suicidio, l’unico modo per porre fine alle inumane sofferenze, bastava gettarsi<br />
sui reticolati nei quali circolava la corrente ad alta tensione.<br />
100
che cosa, poi? Se un giorno ci facevano portare i sassi da una parte, il giorno dopo<br />
ce li facevano portare da un’altra. Del resto, quando non c’era più lavoro, la manodopera<br />
bisognava tenerla occupata, e allora ci facevano fare cose faticose e senza<br />
senso, che servivano solo a finire di distruggerci fisicamente.<br />
Quando sono andata alla scuola di mio nipote Davide a dare la <strong>mia</strong> testimonianza,<br />
e mi hanno chiesto che cosa mi ha aiutata ad uscire dal campo, ho risposto:<br />
“Prima di tutto la fede e il desiderio di rivedere la <strong>mia</strong> mamma, poi, quello che ci ha<br />
dato la forza e la speranza è stata una rondine”… ma come si può pensare possa vivere<br />
con 18 gradi sotto zero?<br />
Quando lavoravamo con i carri, noi dovevamo caricarli mentre gli uomini li dovevano<br />
scaricare e noi, nell’attesa, ci mettevamo dentro una baracca, forse era stata una<br />
casa, ma il tetto non c’era più. In un angolo c’era una stufa e là si mettevano le SS e<br />
le kapò che ci comandavano. Noi eravamo rattrappite le une sulle altre, ad aspettare<br />
di morire di freddo. Fin dai primi giorni, però, avevamo visto una rondine fare il nido<br />
su un ramo di un albero lì vicino. Quella è stata la nostra forza, perché dicevamo: “Se<br />
le rondini vanno via quando comincia a far freddo per cercare posti più caldi, può<br />
darsi che qui viva una rondine?!?”.<br />
Eppure l’abbiamo vista. Era primavera, io sono arrivata in Auschwitz il 28 marzo,<br />
ma lì il caldo arriva molto più tardi, infatti eravamo ancora a 18 gradi sotto zero… e<br />
pensare che, quando siamo arrivate, ci hanno detto che eravamo state fortunate, perché<br />
erano arrivati anche a 25 gradi sotto zero.<br />
Con i carri abbiamo lavorato per tutto il primo mese, fino alla fine di aprile: dovevamo<br />
trasportare tutto il marciume e la spazzatura che c’era nel campo, impregnato<br />
di tutte le sporcizie possibili, e lo dovevamo fare con le mani! Quando succedeva di<br />
tirare i carri dei pozzi neri ed i carri traboccavano, capitare davanti voleva dire essere<br />
fortunati, ma se invece capitava di stare dietro... non è difficile immaginare in che<br />
stato ci potevamo ridurre… Bisognava tirare fuori dai pozzi delle enormi cisterne che<br />
dovevamo caricare sui carri, poi trascinarli per due o tre chilometri. Per fortuna che<br />
a svuotarle ci pensavano gli uomini . Se ci si sporcava non ci si poteva né lavare né<br />
cambiare, si aspettava che piovesse e, intanto, si era maltrattati ancora di più perché<br />
si puzzava. <strong>La</strong> prima volta che sono riuscita a lavarmi erano passati quaranta giorni<br />
e le mie mani... non lo so che cosa erano diventate.<br />
No, non eravamo né donne né bestie, perché anche le bestie erano più pulite di<br />
noi.<br />
Di che cosa parlavate tra voi donne?<br />
<strong>La</strong> famiglia era l’argomento del quale si parlava di più, e per la mamma c’erano<br />
sempre le parole più belle.<br />
Nel nostro gruppo una sola era sposata, ed era quella che poi non è tornata.<br />
<strong>La</strong> bimba le era morta prima che l’arrestassero ed il marito era un tipo molto egoista!<br />
<strong>La</strong> Gina aveva il suo bambino e ne parlava continuamente, tanto che ormai lo<br />
conoscevamo tutti. Quando è partita lui aveva sei anni. Pensava sempre a lui, al suo<br />
Umberto.<br />
101
Certe volte, però, eravamo così rincretinite che non riuscivamo a pensare più a<br />
niente, nella nostra mente esisteva solo il pensiero del mangiare che non c’era. Ecco,<br />
quello che ci interessava era come trovare qualcosa da mangiare per sopravvivere.<br />
Anche una semplice radice per noi andava bene, la sete poi, era una cosa pazzesca.<br />
Così, il pensiero della casa c’era, ma eravamo diventate quasi insensibili.<br />
Eravamo bestie, se non peggio. Non riuscivamo a capirci... però al mattino, prima<br />
di iniziare l’appell, intanto che ci mettevamo in fila ci raccontavamo i sogni della<br />
notte. Sognavamo pane in quantità e le scarpe (dicono che sognare le scarpe voglia<br />
dire viaggiare). Così, al mattino, ci si diceva: “Mi sono sognata questo...mi sono<br />
sognata quello....”. Ricordo che una volta ho sognato una scala alta, ed io che, dopo<br />
essere salita su, cadevo giù. Poi, però, ero riuscita a salire e poi a scendere senza<br />
cadere.<br />
Ognuna dava ai sogni una propria spiegazione.<br />
“Ecco, sì, dobbiamo ancora soffrire, ma alla fine ce la faremo...”. Erano cose che<br />
si dicevano così, per tenerci su il morale... ma la situazione era tutt’altro.<br />
Naturalmente si parlava di mangiare. Con noi c’era una signora molto per bene di<br />
Gruppo di donne con bambini avviato alle camere a gas. Selezione effettuata dal medico delle SS dott. Thilo. Sullo sfondo un<br />
gruppo di persone che si dirige verso le camere a gas. Fotografia originale<br />
del Hauptscharführer delle SS Walter.<br />
Milano, abituata a fare grandi pranzi.<br />
Allora ogni tanto le chiedevamo:<br />
“Signora Angela ci prepari un pranzo!”.<br />
Cominciava dall’antipasto per finire al<br />
dolce, e poi descriveva la tovaglia, le<br />
posate, tutto. Dicevano che avesse un<br />
amante molto ricco. Quando siamo state<br />
divise, con il trasporto della signora<br />
Angela viaggiava la <strong>mia</strong> amica; faceva<br />
freddo, c’era la neve, ed i vagoni erano<br />
scoperti. Durante il viaggio si sono fermati<br />
ad una stazione, dove qualche<br />
anima buona dava qualcosa da mangia-<br />
102<br />
Parte dei deportati vennero rimpatriati su camions americani. In questa<br />
foto li vediamo mentre vengono riforniti di viveri dagli accompagnatori.
e. Un signore l’ ha vista e l’ ha chiamata, e lei ha detto alla <strong>mia</strong> amica che era lui il<br />
suo amante. Come l’abbia riconosciuta non lo so.<br />
Ogni tanto ci permettevano di scrivere a casa. Ma per farlo dovevamo sacrificare<br />
una mezza razione di pane per acquistare la lettera, e un’altra mezza porzione per<br />
scriverla, perché lo si doveva fare in tedesco… ma non erano vere lettere, perché<br />
dovevamo mettere delle crocette in un modulo prestampato, tipo: io sto bene, crocetta.<br />
Il lavoro va bene, crocetta.<br />
A casa <strong>mia</strong> le lettere non sono mai arrivate.<br />
Da casa potevano scrivere, ma la posta arrivava raramente. E molte volte è capitato<br />
che ci hanno dato la busta vuota, questo per noi era un colpo tremendo. Durante<br />
tutto il tempo che sono stata ad Auschwitz ho ricevuto una sola lettera, ma la<br />
mamma invece mi disse che mi scriveva tutte le settimane, aveva conosciuto una<br />
signorina che le traduceva la lettera in tedesco gratis.<br />
Mi ricordo che c’era scritto: “E’ nato il bambino di Paola e si chiama Mario. Bianchina<br />
sta bene, Sniff ti aspetta...”. Era una lettera completamente scema perché, come<br />
mi hanno spiegato poi, a parte la notizia della nascita del figlio di <strong>mia</strong> sorella non<br />
sapevano che cosa mettere, così, mi hanno parlato della <strong>mia</strong> gattina e del mio cane.<br />
Sapevano che eravamo andati in Germania a lavorare, ma non il posto dove eravamo<br />
esattamente e né che cosa ci stesse succedendo veramente. Non so se le lettere le<br />
davano al consolato. <strong>La</strong> sola cosa che hanno ricevuto è stata quel modulo di cui parlavo,<br />
ma nessuno credeva a quello che c’era scritto.<br />
Circolavano tante voci... mi hanno detto che una sera papà è rientrato ed ha trovato<br />
la mamma a piangere: “<strong>La</strong> Lisetta è morta”.<br />
“Chi te l’ha detto?”. Mio padre domandò.<br />
“Si dice che è arrivato il telegramma ai carabinieri dove c’e scritto che è morta!”.<br />
“Ma te l’hanno portato?”.<br />
“No”. Rispose mamma.<br />
Allora c’era il coprifuoco, ma quando mio fratello quella sera è rientrato dall’ufficio<br />
è ugualmente andato in giro fino alle undici per cercare di avere mie notizie,<br />
rischiando di essere preso e fucilato; c’era chi gli diceva una cosa, chi invece ne diceva<br />
un’altra… poi è tornato e ha detto: “Non crediamo alle voci perché nessuno sa la<br />
verità, ai carabinieri non è arrivato niente”.<br />
Ogni tanto arrivava una voce che eravamo tutti morti. Quando è arrivato il modulo<br />
con le crocette, i carabinieri dicevano che non dovevano credere a quello che c’era<br />
scritto.<br />
Fino al rientro dei primi sopravvissuti, i miei genitori non avevano la certezza che<br />
fossi ancora viva.<br />
Non vedevo mio fratello da prima del mio arresto. Come ci spostarono da Lecco<br />
a Bergamo, ci permisero di rivedere i genitori. Mi ricordo che sistemarono su un<br />
binario morto un vagone e ci misero lì dentro, ma non potemmo avvicinarci ai nostri<br />
familiari perché i fascisti avevano fatto un cordone attorno al vagone. Mio fratello<br />
era andato per lavoro a Milano, e la mamma mi disse di avergli comunicato l’orario<br />
e che era sicura che sarebbe tornato per salutarmi, ma purtroppo non fece in tempo.<br />
103
Lui andava sempre al sanatorio a fare volontariato, era un componente dell’Azione<br />
Cattolica e si prestava a fare assistenza ai bisognosi. Allora una dottoressa l’ ha<br />
preso in simpatia e gli ha fatto una dichiarazione in cui si diceva che era malato e così<br />
riuscì a non fare il militare; veramente mio fratello era molto delicato, era praticamente<br />
l’ombra di se stesso.<br />
Una volta partiti, i ferrovieri ci fecero capire che, appena saremmo stati vicino al<br />
confine, volendo, avremmo potuto scappare, ma il mio pensiero correva a lui, a mio<br />
fratello, perché, quando ci minacciavano, dicevano che se qualcuno di noi fosse scappato,<br />
sarebbero andati ad arrestare i nostri familiari… ed io sapevo che, se lo avessero<br />
arrestato, lui non sarebbe più tornato.<br />
Anche dal lager qualcuno è scappato, allora suonava la sirena e ci impedivano di<br />
affacciarci, oppure ci sbattevano fuori all’appell, e ci facevano restare lì fino a che<br />
non ritrovavano il fuggitivo… la maggior parte delle volte lo fucilavano o<br />
l’impiccavano.<br />
Sono stata fortunata, perché non ho mai dovuto assistere ad un’impiccagione.<br />
So che poi li lasciavano esposti per giorni e giorni, in bocca ai topi e ai corvi.<br />
Qualcuno non è stato ripreso,<br />
forse anche perché conosceva la<br />
lingua ed aveva trovato dei posti<br />
dove nascondersi.<br />
Per noi donne, noi italiane<br />
soprattutto, era più difficile scappare…<br />
dove potevamo andare?<br />
Non conoscevamo né il posto, né<br />
la lingua, e se ci avessero viste i<br />
civili, ci avrebbero uccise per la<br />
paura. Sì, ogni tanto qualcuno<br />
scappava, ma abbiamo sempre<br />
saputo che erano uomini.<br />
Detenuti che, dopo essere stati bastonati a sangue, venivano appesi a dei pali.<br />
104
Il lager, un colore morto<br />
Vi è mai stato proposto di “intrattenere” i soldati?<br />
In alcuni campi c’erano dei bordelli a cui erano addetti kommandi specifici.<br />
Una delle prime sere in cui eravamo ad Auschwitz durante l’appello la blocova ci<br />
disse qualcosa che, ovviamente, noi non capimmo. Allora ci siamo rivolte alla prigioniera<br />
che parlava cinque lingue, la signorina Margherita.<br />
Ci tradusse: “Io ve lo dico, ma tanto so che nessuna aderirà: la blocova ha chiesto<br />
se ci sono ragazze che vogliono andare a Rampuc”.<br />
Si chiamava così la casa dove si “intrattenevano” i soldati.<br />
Mentre a noi lo chiedevano, le ebree, quelle più belle ci venivano mandate direttamente.<br />
Quando capitava di andare a lavorare passando davanti a quel campo, ritornando<br />
si vedevano delle baracche abbastanza belle con delle ragazze sedute e la biancheria<br />
stesa al sole ad asciugare. I primi tempi ci chiedevamo chi fossero, dopo<br />
abbiamo saputo che quelle erano le case del piacere.<br />
Povere ragazze, sottomesse alla volgarità di quella gentaglia; e poi bastava che,<br />
dopo aver fatto tutte le porcate possibili, uscivano e dicevano che non erano stati soddisfatti,<br />
allora la ragazza sarebbe stata fucilata o mandata alle camere a gas… ma non<br />
sarà andata all’inferno quella gente là?… Ma il Signore è misericordioso, non bisogna<br />
giudicare, perché forse si sono pentiti. Se Dio ha salvato il ladrone sulla croce,<br />
salverà anche loro!<br />
C’erano piante o fiori e animali nel lager?<br />
No, niente di niente. Le sole piante che ho visto erano in campagna e, a parte i<br />
cani delle SS, non c’erano altri animali. Io personalmente non li ho visti, ma sui libri<br />
ho letto che alcuni campi di concentramento erano invasi dai topi… ho letto che scorrazzavano<br />
sulle persone che dormivano. Ringrazio Dio che io non li ho visti, ho tanta<br />
paura dei topi! Gli unici animali con i quali ho avuto a che fare sono stati le cimici<br />
ed i pidocchi. Che schifo, non appena ci stendevamo su quel tavolaccio e ci toccavamo,<br />
la mano si riempiva di quelle brutte bestie... erano anche pericolose, perché ci<br />
succhiavano quel poco sangue che ci era rimasto.<br />
<strong>La</strong> paura delle cimici e dei pidocchi me la sono portata dietro per anni… quando<br />
mettevo in ordine il letto le andavo a cercare. L’incubo dei pidocchi ce l’ ho ancora,<br />
mi basta parlarne che ho il prurito addosso.<br />
Lei ha avuto un negozio?<br />
Sì, ho aperto un negozio di generi alimentari in via Ugo Foscolo, dove adesso c’è<br />
la riscossione dei tributi. L’ ho aperto quando sono venuta a Pescara, nel 1955, e l’<br />
ho chiuso nel 1979, quando è nato mio nipote Michele. Era una lotta continua con<br />
mio marito, perché a lui il negozio non piaceva. Ma era stato lui a voler venire a<br />
Pescara per stare vicino ai suoi, perché io stavo benissimo anche a Lecco, ma siccome<br />
la moglie deve seguire il marito...<br />
105
Ricorda qualche suono particolare, qualcosa che le è rimasto scolpito nella<br />
mente e che ancora l’accompagna?<br />
Il fischietto. Era una vera tortura, una penitenza, non appena si rientrava nelle<br />
baracche, la SS fischiava e noi dovevamo uscire fuori per l’appello.<br />
Fischiavano per l’appello, sul lavoro... il suono del fischietto non significava mai<br />
niente di buono! Poi c’era il gong del mattino.<br />
… Ma il ricordo più raccapricciante sono le urla degli ebrei!<br />
Deportati in attesa della selezione che avveniva sempre all’arrivo dei convogli su una rampa della stazione di Auschwitz-<br />
Birkenau.<br />
C’è un colore che per lei possa simboleggiare il lager?<br />
Non so che dire... un colore morto, forse. Non avevamo colori, la baracca era grigia,<br />
il campo era grigio, tutto era grigio, era tutto molto brutto e triste. C’era sempre<br />
Il campo di concentramento di Auschwitz visto dall’esterno con una<br />
torretta per le sentinelle e la cinta in filo spinato nel quale circolava<br />
corrente ad alta tensione.<br />
106<br />
Carro pieno di morti che verranno bruciati nei forni crematori.
quella sensazione di morte...<br />
Il forno crematorio, quello era rosso. <strong>La</strong><br />
fiamma era di diversi colori, secondo la<br />
combustione.<br />
Quando le persone da bruciare erano<br />
poche, si vedeva solo il fumo. Altrimenti si<br />
scorgevano le fiamme che uscivano fuori…<br />
era la carne degli ebrei che bruciava!<br />
Ha mai avuto la sensazione di incontrare<br />
qualcuno che lì la comandò?<br />
Sì, un paio di volte. Uno era il proprietario del forno dove andavo a prendere il<br />
pane. <strong>La</strong> prima volta che l’ho visto ho detto: “Questo è quella SS, ne sono sicura!”.<br />
Chiedendo informazioni, ho saputo che infatti era stato con i tedeschi; mi raccontarono<br />
che quando è tornato in Italia, in divisa da tedesco, ha rubato tutto quello che<br />
ha potuto, e poi ha aperto un forno e si è comprato il palazzo.<br />
Io sono sicura che fosse una SS, perché fin dalla prima volta che l’ ho visto mi ha<br />
colpita. Ne ho avuto praticamente conferma quando un giorno sono andata a prendere<br />
il pane e l’ ho sentito che parlava con un signore decantando i tedeschi e i fascisti.<br />
In quel momento ho sentito dentro di me una rabbia tale che non ho capito più<br />
nulla…: ho tirato su la manica e gli ho gridato: “Non vi vergognate a dire queste<br />
cose! Nemmeno sopra questo numero vi vergognate?”.<br />
Sa che cosa mi ha risposto?: “Se te l’ hanno fatto, vuol dire che te lo meritavi”.<br />
Non so dire che cosa ho provato. Non ho avuto il coraggio di continuare, altrimenti<br />
lo avrei preso a schiaffi. Ho pensato che per parlare così doveva essere un<br />
delinquente, ed io avevo dei figli, che magari mi uscivano la sera e non mi sarebbero<br />
più rientrati… magari per colpa sua. Questo pensiero mi ha frenata. Però, quanto<br />
mi ha fatto male! Era lui, sicuro.<br />
Poi ce n’è stato un altro. Erano i primi giorni che stavamo in Auschwitz, e dovevamo<br />
raccogliere le fave. Io nemmeno sapevo che cosa fossero, perché a Lecco non<br />
si coltivano, mentre a Milano sì.<br />
I resti abbandonati dopo la cremazione.<br />
“Secondo la dimensione dei cadaveri, in un forno potevano esserne introdotti<br />
fino a tre... I crematori I e II potevano incenerire in 24 ore fino a duemila<br />
corpi” (Memorie di Rudolf Hoess).<br />
107
Quando abbiamo visto il campo, le milanesi si volevano avvicinare. Chi comandava<br />
era una SS giovane ma senza un braccio; appena ha capito cosa volevano fare<br />
le due di Rescaldina, una località vicina a Milano, ha puntato loro la pistola.<br />
Mi ricordo che portava la mostrina della Russia, forse era stato ferito lì.<br />
Quando il mio nipotino si è ammalato di leuce<strong>mia</strong>, io presi l’abitudine di andare<br />
a messa tutte le mattine da Padre Guglielmo alle cinque e mezza; pregavo la Madonna<br />
di farlo guarire, ma lei l’ ha voluto con sé… lei sa il perché.<br />
Alla Messa c’era un signore senza un braccio e con il portamento marziale; quando<br />
tornava giù dalla Comunione, a me sembrava di vedergli il berretto delle SS in<br />
testa.<br />
Mi faceva impressione e mi dicevo: “Questo è lui”.<br />
Così ho chiesto informazioni, e mi dissero che era stato ferito in guerra, ma non<br />
in Italia. Dopo un po’, non l’ ho più visto e mi hanno detto che era morto…<br />
Non ho mai avuto il coraggio di approfondire, di vedere se effettivamente si trattasse<br />
della stessa persona, avevo paura che in me si scatenasse dell’odio.<br />
Adesso dovrò pregare per la sua anima!<br />
108
<strong>76147</strong><br />
Qualcuno ha mai fatto osservazioni sul suo numero?<br />
Quest’estate (estate 1995), andando dal mercato allo stadio, mentre aspettavo<br />
l’autobus ho visto una signora che mi guardava e che scriveva qualcosa su un foglietto.<br />
Io portavo una camicetta a maniche corte, quindi il numero si vedeva.<br />
Lì per lì non avevo intuito cosa stesse facendo, ma quando ho capito che mi stava<br />
prendendo il numero, mi è venuta voglia di prenderla a botte...!! Ma non poteva chiedermelo?<br />
Tante persone l’ hanno giocato al lotto, poi, se hanno vinto o no, non lo so.<br />
Sono stata in pellegrinaggio a Lourdes con i sacerdoti malati; un giorno uno del<br />
gruppo Fatebenefratelli che mi conosceva mi chiese: “Adesso mi fai copiare quel<br />
numero lì? Lo voglio giocare a lotto!”. Io gli ho risposto di sì ma ad un patto, che se<br />
fossero usciti quei numeri, avrei voluto la <strong>mia</strong> parte. Si scherzava, naturalmente.<br />
Comunque, quella signora che se lo è scritto senza chiedermi niente ha sbagliato<br />
sicuramente a copiarlo perché tutti leggono gli ultimi due numeri “77”, invece di “47”.<br />
Quando negli anni passati qualcuno vedeva quei numeri, e magari era anche<br />
più giovane di lei e della guerra sapeva poco e niente, cosa diceva?<br />
Lo guardavano un po’... così.<br />
Quando hanno mandato in onda “Olocausto”, che tra l’altro a mio parere non era<br />
fatto bene e mi ha fatta un po’ arrabbiare per la misera verità dei suoi racconti, visto<br />
che era estate, la gente sull’autobus non faceva altro che guardare il mio braccio. Si<br />
tiravano le gomitate e indicavano verso di me. Mi sentivo molto umiliata…!!!<br />
Che cosa pensa<br />
dei documentari e<br />
dei film che trattano<br />
questo argomento?<br />
Spesso passano<br />
in televisione un<br />
documentario su<br />
Bergen Belsen e<br />
raccomandano di<br />
non farlo vedere ai<br />
bambini e alle persone<br />
che possono<br />
impressionarsi.<br />
A me, devo dire<br />
la verità, non ha<br />
mai fatto impressione.<br />
Comunque, è Bergen Belsen: il campo nella landa di Luneburg: Il Revier.<br />
109
un documentario ben fatto, anche se la realtà che abbiamo vissuto noi era diversa.<br />
Però ricordo che l’ultima volta che l’abbiamo visto mi ha fatto stare molto male,<br />
sono andata a letto tremando come una che ha le convulsioni, e per tutta la notte sono<br />
stata con quel tremore, senza chiudere occhio. Ricordo che cercavo di calmarmi<br />
dicendomi che erano cose passate, ma non ci riuscivo!<br />
In fondo, io quella vita l’ ho vissuta, e non era la prima volta che vedevo quel<br />
documentario. Chissà perché mi ha preso quell’ansia, quel terrore. Non so se avrei il<br />
coraggio di rivederlo.<br />
Quanti carri pieni di morti… quanti ne ho visti!<br />
Sono immagini raccapriccianti, sono immagini che documentano una impressionante sequenza di morte, sono i deceduti di<br />
Birkenau nel gennaio 1945. Uomini e donne strappati con violenza e senza motivo alcuno alle loro case, ai loro affetti, deportati,<br />
umiliati, maltrattati e uccisi...con la sola colpa forse di essere nati...!!<br />
Lei ha avuto dei figli e dei nipoti, ha mai raccontato loro questa sua esperienza?<br />
Con i miei figli non c’è stato mai molto dialogo su questo argomento. Con i miei<br />
nipoti, invece... Sergio mi ha pregata più di una volta di scrivere, ma io gli ho detto<br />
di no perché ho fatto solo la quinta elementare… scrivo male, senza grammatica,<br />
110
insomma, non ho voluto.<br />
Mi ha anche detto che me l’avrebbe corretto lui, ma io non l’ ho voluto fare lo<br />
stesso. Me lo aveva chiesto anche una <strong>mia</strong> cliente.<br />
Una volta mi sono confessata a San Giovanni Rotondo. Ero piena di ribellione<br />
perché il mio nipotino era morto, e dicevo che non era giusto, perché il mio debito<br />
l’avevo già pagato.<br />
Una frase stupida, perché i debiti a Dio non si finiscono mai di pagare.<br />
Allora quel sacerdote mi ha detto: “Signora scriva, scriva, perché se Padre Pio non<br />
avesse scritto le sue memorie, nessuno avrebbe saputo chi era”.<br />
Non me la sono mai sentita. Però, mi piace raccontare, non mi dà fastidio, ne parlo<br />
senza rancore, perché adesso non sento più niente.<br />
Questa esperienza ha pesato sui suoi rapporti con gli altri?<br />
No, ma io i primi tempi non potevo sentire i tedeschi. Quando sono venuta a trovare<br />
i familiari di mio marito (ci siamo sposati a dicembre e sono venuta a conoscere<br />
i miei suoceri in agosto) eravamo in stazione io e il mio papà. C’erano delle persone,<br />
e ho riconosciuto dalla lingua e dall’aspetto che erano dei tedeschi; ad un certo<br />
punto ho detto a mio padre: “O ce ne andiamo via oppure vado là a dirgliene quattro”.<br />
In me, non c’era odio, ma rancore sì. Al punto che se succedeva qualcosa in Germania<br />
ero contenta.<br />
A me, chi mi ha aiutata è stato Padre Guglielmo, con il suo silenzio.<br />
E’ una sopravvissuta, cosa significa questo per lei?<br />
Significa che la <strong>mia</strong> croce non è mai finita.<br />
111
Riporto solo questi dati di pochi mesi raccolti dal libro di Corrado<br />
Saralvo “Più morti più spazio”, per far capire la mostruosità di quanto<br />
è accaduto nel lungo periodo in cui si è adempiuto questo massacro.<br />
Il colonnello delle SS, Franz Ziereis,<br />
comandante del lager di Mauthausen,<br />
posa sul luogo dei suoi efferati crimini<br />
al tempo in cui aveva pieno potere di<br />
vita o di morte sui suoi prigionieri.<br />
Ziereis (al centro) non ha difficoltà a dimostrare a Himmler<br />
(a sinistra) e a Kaltenbrunner, durante una loro visita<br />
al campo, che Mauthausen funziona perfettamente come<br />
fabbrica di morti.<br />
Un altro documento fotografico dell’ispezione del campo<br />
effettuata da Himmler, l’ideatore e realizzatore dei numerosi<br />
campi di sterminio installati dai nazisti.<br />
Cifre impressionanti relative alla sorte dei deportati dall’Italia,<br />
italiani o stranieri giunti ad Auschwitz fra i mesi di maggio<br />
e settembre del 1944:<br />
Numero di deportati arrivati: 29.790<br />
Numero di deportati entrati nel lager: 6 . 6 5 0<br />
Numero di deportati eliminati all’arrivo: 23.140<br />
Da maggio a luglio, n° cadaveri arsi nei crematori: 1.314.000<br />
In un solo trimestre i nazisti di Auschwitz avevano soppresso<br />
più di un milione e trecentomila prigionieri.<br />
I dati riguardanti il numero degli ebrei italiani è:<br />
Numero degli ebrei italiani deportati: 7 . 4 9 5<br />
Numero degli ebrei italiani reduci dalla deportazione: 6 1 0<br />
Mentre la soppressione dei deportati provenienti<br />
dalle altre nazioni d’Europa era avvenuta gradualmente,<br />
quella delle molte centinaia di<br />
migliaia di ebrei ungheresi fu condotta in massa<br />
con un ritmo senza precedenti nel campo di Birkenau.<br />
Infatti, mentre fin dai primi mesi del 1944 il<br />
Governo Ungherese si era opposto alla deportazione<br />
degli ebrei dal Paese, quando entrò in<br />
carica il nuovo Governo imposto dai nazisti,<br />
venne operato un colossale sterminio con il consenso<br />
delle autorità.<br />
113<br />
Ziereis fotografato mentre procede alla pre<strong>mia</strong>zione di militi<br />
SS particolarmente distintisi nel sopprimere i deportati.
RACCONTO E TESTIMONIANZA DELLA SIGNORA ELISA<br />
MISSAGLIA SOPRAVVISSUTA AL LAGER DI AUSCHWITZ<br />
Intervista di mercoledì, 24 marzo 1999<br />
presso l’Istituto Statale d’Arte di Pescara<br />
Quando mi hanno arrestata avevo 24 anni, ero una ragazza normale e, come tutte,<br />
anch’io piena di sogni e di speranze. Ero cresciuta in una famiglia di ceto medio, con<br />
sani principi morali e religiosi; nessuno della <strong>mia</strong> famiglia aveva aderito al partito<br />
fascista ed il 7 marzo del 1944, quando per motivi abbastanza seri abbiamo avuto<br />
l’opportunità di dimostrare le nostre idee contro il regime fascista, ci è sembrata una<br />
cosa meravigliosa.<br />
In quel periodo si viveva solo con la tessera; i tedeschi stavano portando via dall’Italia<br />
macchinari ed opere d’arte e arrestavano tutti gli ebrei per deportarli nei<br />
campi di concentramento.<br />
Quel giorno fu proclamato uno sciopero e dopo due ore arrivarono i questurini<br />
fascisti che fecero una retata arrestando i più sfortunati: 5 donne e 22 uomini. (Di<br />
questi siamo tornati in 7, 4 donne e 3 uomini)<br />
Da quel momento ogni sogno svanì. Speravamo in un semplice interrogatorio,<br />
invece ci hanno portato in prigione a Como. Dopo 7 giorni ci hanno trasferiti a Bergamo<br />
dove ci hanno consegnati ai tedeschi. Dopo 3 giorni siamo partiti per la Germania.<br />
Ormai eravamo diventati tanti, perché nella prigione di Bergamo si erano<br />
uniti a noi anche molti prigionieri provenienti da altre parti d’Italia. A noi ragazze si<br />
sono unite due di Como; alla fine eravamo 7 ragazze e 700 uomini: destinazione<br />
Mauthausen.<br />
Vi lascio immaginare cosa è stato l’impatto con il campo di concentramento!<br />
115
Appena arrivate siamo state portate alle famigerate docce, spogliate nude davanti<br />
al Kommando tedesco delle SS, rivestite come pagliacci e portate in cella. Lì siamo<br />
rimaste 3 giorni, poi siamo partite di nuovo, destinazione: la prigione di Vienna… era<br />
una vera prigione. A contatto con tante altre, non avevamo la possibilità neanche di<br />
comunicare e parlare, perché eravamo di tutte nazioni diverse. Eravamo circa una<br />
trentina.<br />
Alla sera portavano in quel camerone dei luridi sacconi di paglia, pieni di bestie,<br />
che ci servivano per letto. Per i nostri bisogni personali c’era in un angolo un secchio,<br />
in vista a tutti, che poi le più sfortunate dovevano vuotare.<br />
Ma in confronto a quello che ci aspettava, questo si poteva chiamare un posto di<br />
villeggiatura.<br />
Dopo una settimana, di nuovo partenza e questa volta doveva essere definitiva,<br />
perché da quel campo dove eravamo dirette sapevamo che non saremmo uscite vive:<br />
destinazione Auschwitz, uno dei campi di sterminio più famosi.<br />
Lì è cominciato veramente il cammino della morte!<br />
Siamo arrivate di notte. Il primo impatto è stato con le alte fiamme dei forni crematori…<br />
la puzza di carne bruciata era impossibile da descrivere!!<br />
Abbiamo passato in un’immensa camera il resto della notte e la mattina del giorno<br />
dopo; si vedeva fuori un inferno di tormenta… eravamo a 20° sotto zero.<br />
Ci hanno portate nude alle docce, perquisite, rapate, spogliate di tutte le cose a noi<br />
care! Ci hanno tatuato sul braccio sinistro il numero che da quel momento è diventato<br />
il nostro nome… era ed è tuttora, perché ancora lo porto: <strong>76147</strong>. Abbiamo dovuto<br />
impararlo in tutte le lingue, perché se non si rispondeva subito erano fior di legnate!<br />
Poi ci hanno fatte entrare nella baracca che da quel momento sarebbe stata la<br />
nostra casa. Abbiamo ricevuto la prima razione di pane… uno schifo che non abbiamo<br />
potuto mangiare, ma che poi, in seguito, è diventata una grande squisitezza… ci<br />
serviva per non morire di fame.<br />
Al mattino seguente sveglia alle tre circa. Dopo aver ricevuto un quarto di uno<br />
schifoso liquido nero chiamato caffè, fuori all’appello, che c’era mattino e sera e, a<br />
secondo della SS che ci doveva contare, durava anche parecchie ore: con ghiaccio,<br />
pioggia, neve e tutto quello che la furia della natura ci voleva regalare. Se poi durante<br />
la giornata qualcuno era scappato, allora gli appelli duravano anche 24 ore, durante<br />
le quali non avevamo la possibilità di muoverci: se si cadeva ci si doveva rialzare<br />
subito, altrimenti le botte erano tante. Finito l’appello, al lavoro: per i primi tempi lo<br />
chiamavano “leggero”. Consisteva nel caricare immensi carri che poi venivano trascinati<br />
per chilometri e poi vuotarli. Erano carichi di ogni porcheria possibile da<br />
immaginare.<br />
Si lavorava in mezzo a montagne di cadaveri. Al mattino ed alla sera c’era il<br />
ghiaccio; se invece c’era fango, arrivava fino al ginocchio e non avevamo neanche la<br />
possibilità di lavarci.<br />
I cenci che ci avevano dato in dotazione erano sempre quelli, non si cambiavano<br />
mai, anche se bagnati.<br />
116
Era inutile piangere… le lacrime si ghiacciavano sul viso e si soffriva di più.<br />
Il lavoro, passato questo periodo, che era quello della quarantena, è continuato in<br />
campagna; zappare, seminare, raccogliere, tutto doveva essere fatto con la massima<br />
precisione perché, per la più piccola cosa, ma anche per niente, erano fior di schiaffi<br />
e di legnate.<br />
Di queste ho vari ricordi… i più dolorosi sono stati degli schiaffi che ho ricevuto<br />
da una SS che portava i guanti… sono stati forti che quasi svenivo… e non avevo<br />
fatto niente!<br />
Un’altra volta ho preso due legnate per aver tentato di avere altra zuppa… avevamo<br />
fame: la prima mi ha fatto sanguinare la schiena, la seconda mi ha lacerato il<br />
polso.<br />
Quando il lavoro era poco, e noi eravamo diventati troppi, allora si divertivano a<br />
farci spostare sassi grandi e pesanti molto più di noi. Oggi ce li facevano portare qua,<br />
domani li si riportavano là… ci dovevano far occupare il tempo e dovevano continuare<br />
a sfinirci, fino a che qualcuno crollava…<br />
Era proibito ammalarsi, perché anche un piccolo male portava al crematorio.<br />
Nel campo arrivavano in continuazione trasporti di ebrei che provenivano da tutte<br />
le nazioni; questi, come arrivavano, erano diretti subito alle camere a gas e poi bruciati.<br />
I tedeschi portavano subito via tutti i beni che gli ebrei avevano con loro, oro,<br />
oro a quintali, e questo permetteva alla Germania di continuare la guerra. Solo<br />
pochissimi di quei poveri disgraziati venivano salvati, erano giovani sani o belle<br />
ragazze che servivano per il piacere dei soldati. Molte di queste ragazze venivano<br />
adoperate anche per gli esperimenti: dopo che erano state torturate nelle maniere più<br />
terribili, venivano uccise.<br />
Quando il fronte cominciò ad avanzare, iniziò l’evacuazione del campo. Io sono<br />
partita da Auschwitz il 28 ottobre in treno, ma quando non ci sono stati più mezzi di<br />
trasporto, nel mese di gennaio, iniziò la famosa marcia della morte. Molte migliaia<br />
di persone sono partite, poche sono arrivate negli altri campi. Io da Auschwitz sono<br />
stata portata a Ravensbrück per essere poi mandata a lavorare in fabbrica. Si lavorava<br />
nelle fabbriche belliche: 12 ore di giorno e 12 ore di notte. In fabbrica almeno<br />
eravamo riparate dalle intemperie, ma in campo la vita peggiorava sempre di più.<br />
<strong>La</strong> rabbia dei tedeschi per la sconfitta che avanzava veniva sfogata tutta su di noi.<br />
Ormai non c’era quasi più niente da mangiare. Gli appelli si facevano sempre più lunghi<br />
e le botte aumentavano. Non si riposava più né di giorno né di notte, fino a che<br />
poi ci hanno riportate a Ravensbrück.<br />
Là eravamo tutte destinate alla camera a gas. Invece, in quel periodo, era intervenuta<br />
la Croce Rossa Internazionale e non ci hanno più potute ammazzare.<br />
<strong>La</strong> C.R.I. distribuiva dei pacchi - viveri pieni di buone cose che ormai si sognavano<br />
soltanto. Questi alimenti hanno però aggravato la situazione perché, in organismi<br />
debilitati come i nostri causavano una dissenteria molto forte che portava inesorabilmente<br />
alla morte. Si viveva ormai insieme ai cadaveri ed in mezzo agli escrementi.<br />
Il 25 aprile hanno evacuato anche questo campo. Abbiamo viaggiato nelle condizioni<br />
più disperate per dieci giorni e dieci notti. Mangiavamo quello che trovavamo:<br />
117
erba, radici e qualche rapa o patata; quando qualche cavallo dei civili cadeva morto,<br />
si assaliva quella carcassa per poter avere un pezzo di carne cruda… che schifo ripensarci…<br />
al punto che oggi anche solo l’odore della carne di cavallo mi fa sentire male.<br />
Finalmente, dopo avere patito tanto, è arrivata la fine.<br />
Il 5 maggio, dopo qualche ora di riposo, abbiamo notato che la SS di scorta era<br />
sparita… finalmente la guerra era finita e, miracolosamente, ero ancora viva!<br />
Vestita, con tutta la spazzatura che avevo addosso, pesavo 29 chili.<br />
Non ho raccontato tutto, mancano tanti e tanti episodi dolorosi; per dire tutto<br />
dovrei scrivere un libro.<br />
Dopo 4 mesi, finalmente, sono tornata a casa.<br />
In quel terribile periodo mi hanno aiutata tanto la preghiera e la fede. <strong>La</strong> preghiera<br />
è sempre stato il mio sostegno, la <strong>mia</strong> forza, con la certezza che Dio non mi avrebbe<br />
abbandonata.<br />
Ragazzi, amate la vita, la vita sana, la vita vera, non bruciate la vostra gioventù<br />
con falsi ideali, perché poi lungo il vostro cammino i guai non mancheranno mai!<br />
Durante quel lungo periodo, ha stabilito contatti con qualcuno?<br />
Fuori dal campo e con la famiglia assolutamente no perché era proibito: pena di<br />
morte avere contatti e parlare con chiunque, poi c’era il problema della lingua. Dalla<br />
famiglia niente, malgrado tutte le lettere che i nostri cari scrivevano con tanto disagio,<br />
perché dovevano scrivere in tedesco, non abbiamo mai ricevuto notizie, i polacchi<br />
ed i tedeschi, però, sì.<br />
Ha mai scritto un diario?<br />
No. I motivi sono tanti. Prima cosa l’indifferenza che ho trovato nel mondo politico<br />
ed in chi comandava. Non poteva essere diversamente… era cambiato il partito,<br />
ma non l’uomo. Spesse volte non parlavo nemmeno delle sofferenze passate, perché<br />
quasi non ero creduta. Mi hanno persino risposto che ormai erano cose vecchie…<br />
erano le persone che, a differenza di me, avevano vissuto bene, e quindi non ne volevano<br />
sentire parlare.<br />
Il diario mi è rimasto nel cuore!<br />
Sono sopravvissute altre persone oltre a lei e se sì, ha ancora dei contatti con<br />
loro?<br />
Delle persone partite con il mio trasporto non so quante ne siano sopravvissute<br />
esattamente; noi di Lecco, come ho già detto, siamo tornati in 7: 4 donne e 3 uomini.<br />
Tuttora viventi siamo 2 donne ed 1 uomo. Malgrado la lontananza, sono ancora molto<br />
unita alla <strong>mia</strong> cara amica dalla quale ricevo notizie delle compagne di sventura.<br />
Può fornirci dei particolari sulla retata?<br />
Le retate non avevano motivo né senso: bastavano poche ore di sciopero in fabbrica<br />
in Lombardia, in Piemonte e Liguria, o essere contrarie al regime, o ascoltare<br />
radio straniere, essere partigiani, trovarsi fuori dopo il coprifuoco e via dicendo. Gli<br />
118
ebrei poi erano deportati in massa ed assieme a loro anche chi li aiutava. Fra questi<br />
c’erano molte suore e frati, per cui i campi di sterminio erano sempre pieni.<br />
Nei momenti liberi che cosa faceva, e che cosa pensava quando era sola?<br />
Questi momenti erano talmente pochi che non si aveva neanche la possibilità di<br />
approfittarne, e se c’era qualche momento ci si riposava. Cosa pensavo quando ero<br />
sola? Difficilmente si poteva essere soli, infatti la convivenza giorno e notte era uno<br />
dei tanti tormenti; ma il mio pensiero era di sopravvivere ad ogni costo… il mio pensiero<br />
era continuamente rivolto alla <strong>mia</strong> adorata mamma che chissà con quanta ansia<br />
e quanto dolore mi attendeva!<br />
Ha mai assistito all’esecuzione nelle camere a gas? Secondo quale criterio sceglievano<br />
le vittime?<br />
Nessuno, se non quelli che lavoravano nelle camere a gas, poteva vederle. Erano<br />
prigionieri quelli che vi lavoravano, restavano per poco tempo e poi venivano gasati<br />
loro stessi. Erano poi sostituiti con i nuovi poiché c’erano sempre trasporti che arrivavano<br />
e la manodopera non mancava mai. Erano tutti ebrei e per paura che parlassero<br />
avevano la vita molto corta … spesse volte hanno dovuto gasare e bruciare i propri<br />
familiari. Quello che si è saputo e che è stato scritto nei libri sono tutte testimonianze<br />
salvate perché parecchie persone erano riuscite a tenere nascosti dei diari, per<br />
poi portarli alla luce dopo che il campo è stato evacuato. L’unica cosa che posso dire<br />
è di aver sentito spesse volte le urla di quella povera gente quando si rendeva conto<br />
di quello che l’aspettava.<br />
Il criterio che usavano per portare le persone alle camere a gas era semplice. Ad<br />
Auschwitz il treno entrava nel campo, lì facevano scendere i prigionieri, selezionavano<br />
i giovani per il lavoro ed incolonnavano tutti gli altri, facendo loro credere di<br />
essere portati alle docce e poi smistati nei vari campi, a seconda dell’età e delle possibilità<br />
di lavoro. Invece, spogliati di tutto, ammassando i loro beni sulla ferrovia,<br />
venivano inviati alle camere a gas, dove c’erano sì delle docce, però da esse non usciva<br />
acqua ma gas. In poco tempo morivano e poi venivano bruciati. Il peggio era<br />
quando, essendo troppi, non facevano in tempo a gasarli prima… Questo è successo<br />
nel mese di agosto del 1944 quando arrivò un fiume di ebrei, allora li lasciarono vivere<br />
per giorni e giorni, ammassati nel campo senza mangiare, senza bere, mentre<br />
aspettavano il loro turno per essere gasati e poi bruciati. Per loro, poveri miserabili,<br />
era terribile, perché ormai conoscevano la realtà, e l’attesa era disumana! Anche noi<br />
che non eravamo ebrei vivevamo sempre nel terrore, perché bastava il più piccolo<br />
male, che non ci permetteva di lavorare, per essere gasati.<br />
Ha mai pensato di togliersi la vita?<br />
A togliersi la vita ci si pensava spesso, però non è mai arrivato il momento per<br />
farlo… e pochi lo hanno fatto, anche se lo spettro della morte era il nostro compagno<br />
notte e giorno… anche se la morte sarebbe stata in fondo una liberazione… però la<br />
forza e la volontà di vivere erano più forti, nonostante la disperazione più assurda<br />
119
nella quale vivevamo continuamente! Spesse volte si diceva “Basta toccare i fili ad<br />
alta tensione che ci circondano per un attimo, e tutto è finito”. Ma quando si passava<br />
vicino ai fili si cercava di starsene il più lontano possibile… sì, la voglia di vivere<br />
era per noi più forte del desiderio di farla finita.<br />
Oggi cosa pensa dei tedeschi e dei naziskin?<br />
Oggi dei tedeschi non sento più niente, anche se contro di loro per tanti anni ho<br />
provato un grande rancore, non odio, perché sono cattolica e so che l’odio non deve<br />
esistere; però prima bastava sentissi parlare in tedesco che lo stomaco mi si rivoltava…<br />
avevo una gran voglia di prenderli a schiaffi. Ma quando sono riuscita a perdonare,<br />
in me è calata pace e serenità; ora li potrei incontrare serenamente, potrei parlare<br />
con loro… sono come noi. Con l’odio non si può vivere. Come ho detto, sono<br />
cattolica, ed allora sono sicura che chi è sopra di me giudicherà saggiamente il bene<br />
ed il male. Del Nazismo e dei giovani che condividono questi ideali penso solo che<br />
sono fanatici, che non sanno quello che fanno… forse perché non sono a conoscenza<br />
di cosa è realmente accaduto… si dovrebbero ripristinare per un po’ di tempo i<br />
campi di Mauthausen e di Auschwitz e metterli dentro per un po’, farli soffrire come<br />
abbiamo sofferto noi… forse potrebbero così rinsavire.<br />
In quale modo ha ristabilito i contatti con la sua famiglia?<br />
Ristabilire i contatti con la <strong>mia</strong> famiglia è stato meraviglioso. A casa ho ritrovato<br />
i miei cari, per loro ero diventata come un idolo. Mi hanno aiutata con il loro amore<br />
a cancellare il passato… cancellare… non dimenticare, no, non potrò mai dimenticare<br />
quello che ho vissuto in quel periodo! <strong>La</strong> vita ha ripreso come prima anche se,<br />
spesse volte, la notte avevo degli incubi. Quante volte mi hanno svegliata perché<br />
urlavo… ma il risveglio era sempre meraviglioso, ero libera ed a casa <strong>mia</strong>.Tra parentesi,<br />
devo dire che ho dovuto trovarmi anche un altro fidanzato, perché quello che<br />
avevo mi lasciò al mio ritorno.<br />
Può darci chiarimenti sul momento della liberazione?<br />
<strong>La</strong>sciate libere dai tedeschi, siamo finite con gli americani, poi con i russi ed infine<br />
con gli inglesi che, tra l’altro, non sapevano cosa fare di quella fiumana di miserabili,<br />
poveri derelitti, veri cadaveri che di umano non avevano più niente, pieni di<br />
pidocchi, sporchi da far paura e morti di fame. Ci hanno fatti rivestire ed alloggiare<br />
nelle case che requisivano. Per mangiare si utilizzava quello che si trovava… ormai<br />
eravamo in tanti, perché c’erano anche i militari. Tutto ci sembrava bello, eravamo<br />
liberi, eravamo vivi. Dopo 4 mesi di vita nomade, su un scassata tradotta, che si fermava<br />
in continuazione, siamo partiti e, questa volta, anche se molto lontana, la destinazione<br />
era l’Italia.<br />
Quanto tempo ha trascorso nei campi di concentramento?<br />
Dopo l’arresto in Italia ho passato 3 giorni a Mauthausen, 7 giorni a Vienna, 7<br />
mesi ad Auschwitz, 1 mese a Ravensbrück, 4 mesi in fabbrica. Gli altri 2 mesi, tra<br />
120
l’evacuazione del campo ed i giorni di cammino senza sapere la destinazione che ci<br />
aspettava, ma purtroppo, nel nostro cuore, lo sapevamo tutti: era la morte certa…<br />
però non hanno fatto in tempo.<br />
E’ più tornata ad Auschwitz?<br />
Qualche anno fa sono ritornata ad Auschwitz, ed ora ho un grande desiderio: ritornarci<br />
ancora prima di morire… là ho lasciato parte della <strong>mia</strong> vita, ho lasciato mesi<br />
della <strong>mia</strong> gioventù.<br />
Poesia<br />
<strong>La</strong>sciateci vivere in un mondo dove non ci siano esclusi.<br />
Voglio vivere in un mondo dove gli uomini<br />
avranno diritti solo perché sono uomini,<br />
senza altro titolo che questo,<br />
senza essere ossessionati dalle regole, dalle parole, dalle bandiere.<br />
Voglio che si possa entrare in tutte le chiese, in tutti i municipi,<br />
voglio che più nessuno tema di essere arrestato<br />
non voglio più che qualcuno sfidi il governo del suo paese,<br />
che sia inseguito, perseguitato.<br />
Voglio che l’immensa maggioranza,<br />
la sola maggioranza, tutti,<br />
possano leggere, ascoltare, realizzarsi.<br />
Pablo Neruda<br />
121
Come una pioggia di stelle, questi articoli sono stati per noi,<br />
tuoi cari, un vero regalo.<br />
Sei stata, come del resto lo siamo tutti, di passaggio su questa terra, ma<br />
sei e sarai un ricordo vivo e forte in tutti i cuori oggi, domani, sempre.<br />
Antonella<br />
123
Quando il 24 aprile del 2001 ti hanno consegnato la medaglia d’oro tu,<br />
nonostante fossi gravemente malata ed avevi già dovuto subire<br />
3 interventi nel disperato tentativo di fermare un male che era ormai<br />
inesorabilmente andato avanti, hai dato con coraggio, semplicità e<br />
124
chiarezza la tua testimonianza, e dopo aver raccontato la tua <strong>storia</strong>, hai<br />
terminato dicendo che l’essere sopravvissuta ai campi di sterminio<br />
significava che per te la tua “croce” non era ancora finita.<br />
Antonella<br />
125
Nel giorno del nostro grande dolore, quando ormai le lacrime non<br />
facevano altro che acuire la nostra sofferenza per averti<br />
irrimediabilmente perduta, siamo stati colti di sorpresa da questi<br />
IL CENTRO PESCARA VENERDI’ 1 febbraio 2002<br />
126
articoli, usciti in sordina, a nostra insaputa, nessuno di noi se li<br />
aspettava… e le nostre lacrime rimasero sul nostro viso, così come le tue<br />
parole rimangono nei nostri pensieri quotidiani… così come la tua<br />
Memoria rimarrà nei nostri cuori, sempre.<br />
Antonella<br />
IL CENTRO PESCARA SABATO 2 febbraio 2002<br />
127
128
129<br />
Il 31 gennaio del 2003 sarebbe<br />
stato il primo Anniversario della<br />
tua morte. Il 27 gennaio del<br />
2003 uscì questo bellissimo articolo<br />
su di te, dove si descrivono,<br />
in maniera sintetica e chiara, le<br />
tue sofferenze e gli orrori ai<br />
quali hai dovuto assistere<br />
durante la tua prigionia nei<br />
campi di concentramento<br />
nazisti.<br />
E’ stata per me emozione,<br />
perché quando è uscito questo<br />
articolo, era già un anno che<br />
stavo lavorando su questo libro,<br />
ed il leggerlo ha reso ancora più<br />
salda la convinzione che dovevo<br />
andare avanti.<br />
Così è stato, Mamma.<br />
Antonella
Testi dai quali sono state prese le illustrazioni riportate nel libro:<br />
NEI LAGER C’ERO ANCH’IO Vincenzo Pappalettera<br />
Mursia 1973<br />
PIU’ MORTI PIU’ S PAZIO Corrado Saralvo<br />
Baldini & Castaldi 1969<br />
TU PAS S ERAI PER IL CAMINO Vincenzo Pappalettera<br />
Mursia 1966<br />
58881 Angelo De Battista – Giuseppe Galbani<br />
Edizioni PRO.T.E.O Lombardia 1999<br />
UOMINI AD AUS CHWITZ Hermann <strong>La</strong>ngbein<br />
Mursia<br />
130
INDICE<br />
Dediche<br />
Intervista dicembre 1995:<br />
pag. 7<br />
– Una ragazza come tante pag. 1 7<br />
– 25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti pag. 2 3<br />
– L’umiliazione pag. 2 9<br />
– Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano! pag. 3 1<br />
– <strong>La</strong> selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro pag. 3 3<br />
– Gli esperimenti pag. 3 7<br />
– Le parole non possono descrivere… pag. 3 9<br />
– Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura, la distruzione morale… pag. 4 3<br />
– Il dottor. Mengele pag. 5 1<br />
– <strong>La</strong> fame pag. 5 3<br />
– Le lacrime pag. 5 5<br />
– Il “Kommando Canada” pag. 5 7<br />
– Le baracche dei lager pag. 5 9<br />
– Da qui non si esce vive!<br />
– Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di<br />
pag. 6 1<br />
qualcun’altra pag. 6 7<br />
– L’evacuazione di Ravensbrück pag. 6 9<br />
– Le urla degli ebrei pag. 8 1<br />
– Irma Grese, “l’angelo biondo” pag. 8 5<br />
– L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…<br />
– Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei bruciati per festeggiare<br />
pag. 8 7<br />
il Führer pag. 9 3<br />
– <strong>La</strong> sete<br />
– Sofferenza fisica, psicologica, morale… ma il volo di una rondine<br />
pag. 9 7<br />
e il ricordo della mamma… pag. 9 9<br />
– Il lager, un colore morto pag. 1 0 5<br />
– <strong>76147</strong> pag. 1 0 9<br />
Intervista marzo 1999 pag. 1 1 5<br />
Articoli pubblicati pag. 1 2 3<br />
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