03.06.2013 Views

76147 La mia storia - Altervista

76147 La mia storia - Altervista

76147 La mia storia - Altervista

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

Copyright© 2004 by<br />

Antonella Giurastante<br />

Via Adriatica, 60/A<br />

66023 Francavilla al Mare (Ch) - tel. 347 4736728<br />

Tutti i diritti sono riservati. All rights reserved.<br />

Ogni riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, è vietata. L’Autore può concedere<br />

autorizzazioni scritte, specie se domandate per motivi di studio e ricerca culturale,<br />

purchè si citi la fonte mediante esplicito riferimento all’Opera e all’Autore.<br />

Intervista di:<br />

Flavia Florindi<br />

Autore:<br />

Antonella Giurastante<br />

Immagine di copertina:<br />

Antonella Giurastante<br />

Davide Biondi<br />

Prima stampa Gennaio 2004<br />

Contributo offerto da:<br />

Ente Provincia di Pescara<br />

Ristampa Gennaio 2007 contributo offerto dal<br />

Comune di Francavilla al Mare (CH)<br />

Stampa MODULAR<br />

Francavilla al Mare (CH)


ELISA MISSAGLIA<br />

Pescara, 31 gennaio 2004<br />

Presentazione delle prima stampa di questo volume<br />

e secondo anniversario della morte di Elisa Missaglia.<br />

Racconto - Testimonianza<br />

delle barbarie naziste vissute nei campi di sterminio.<br />

Intervista di: Flavia Florindi Autore: Antonella Giurastante


Elisa Missaglia è nata a Lecco il 14 Ottobre del 1919. Seconda dei tre<br />

figli di Giuseppina Rusconi, casalinga, e Enrico Missaglia, caporeparto<br />

di una fabbrica di Lecco per la trafilatura fili in acciaio e tessitura di reti<br />

metalliche per gabbionate. Elisa lavorava come operaia nella stessa fabbrica<br />

del padre e fu proprio durante uno sciopero indetto dalla C.N.L. che<br />

il 7 Marzo del 1944 venne catturata dai fascisti e deportata nei campi di<br />

sterminio nazisti.<br />

Scampata alle barbarie ed ai maltrattamenti, ridotta ad una larva<br />

umana, riuscì a tornare a casa il mese di Ottobre del 1945.<br />

Dopo la fine della guerra conobbe Gabriele Giurastante, abruzzese,<br />

anche lui uscito da una forte esperienza di guerra, combattente in Albania,<br />

lì ferito gravemente in trincea dall'esplosione di un proiettile di artiglieria.<br />

Creduto in un primo momento morto, il suo corpo fu miracolosamente<br />

recuperato dal mucchio dei cadaveri. Prestate le prime cure, fu ricoverato<br />

nell'ospedale di Pietra Ligure e poi in convalescenza a Lecco dove<br />

incontrò Elisa.<br />

Elisa e Gabriele si sposarono il 28 dicembre del 1946, la loro è stata<br />

una esemplare vita di coppia, sostegno reciproco nelle tribolazioni, condivisione<br />

piena delle gioie. Dalla loro unione sono nati tre figli: Rita,<br />

Biagio e Antonella.<br />

Nel 1955 Elisa e Gabriele, con i primi due figli, si trasferirono da<br />

Lecco a Pescara.<br />

A Pescara, Elisa visse dedicandosi al lavoro, alla sua famiglia ed agli<br />

altri: il suo, il “nostro” prossimo. Dedicò, infatti, molta parte della sua<br />

esistenza alla cura ed all’assistenza dei malati e degli inabili, nonostante<br />

la sua non perfetta salute.<br />

Ha affrontato ogni problema che la vita le ha posto innanzi, con incredibile<br />

impegno e coraggio, grazie anche al grande sostegno di Gabriele.<br />

Ha accettato, senza mai cedere allo scoraggiamento, le frequenti cure<br />

mediche alle quali, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, si è dovuta<br />

forzatamente sottoporre. Spesso diceva: “Bisogna tirare avanti”.<br />

Purtroppo il cancro è stato più forte di lei. Quando lo ha scoperto, e<br />

non siamo riusciti a nasconderglielo perché lei già sapeva tutto prima di<br />

noi, era ormai in uno stadio molto avanzato, troppo tardi per poter trovare<br />

un rimedio.<br />

Anche allora, nel 1999, è stata esempio di grande coraggio. Non ha<br />

mai smesso di combattere… Sorridendo, mostrando con l'ironia la sua<br />

intenzione di non arrendersi, diceva ai medici che la curavano quando spiegavano<br />

a noi ed a lei i notevoli rischi della terapia e delle tante impegnative<br />

operazioni chirurgiche alle quali è stata poi sottoposta: “Non sono<br />

riusciti i tedeschi ad ammazzarmi…, non ci riuscirete nemmeno voi!…”<br />

Ma purtroppo, dopo due anni di ulteriori sofferenze, il cancro ha vinto<br />

su questa donna grande, forte e coraggiosa. Ha avuto la meglio e lei ha<br />

chiuso per l'ultima volta gli occhi e da essi scendevano lacrime, forse per<br />

la tristezza di dover lasciare i suoi cari, ma poi il suo viso si è disteso in<br />

un lieve sorriso di pace… la sua “croce”, era stata posta ai piedi di quel<br />

Cristo al quale non ha mai smesso di rivolgere le sue preghiere.<br />

4


Flavia Floridi, all’epoca dell’intervista era<br />

una studentessa universitaria: l’intervista qui di<br />

seguito, curata successivamente dalla figlia<br />

Antonella Giurastante, era la parte memorialistica,<br />

viva e pulsante, della sua tesi di laurea.<br />

Attualmente è insegnante di scuola media.<br />

5<br />

<strong>La</strong> Memoria è il nutrimento dell’uomo:<br />

chi dimentica avvizzisce.<br />

Dedicato ai Piccoli affinché sappiano<br />

e ai Grandi affinché ricordino.<br />

Flavia Florindi<br />

Antonella Giurastante, figlia di Elisa Missaglia<br />

e Gabriele Giurastante, ha voluto onorare<br />

la madre dando voce alla sua Memoria, affinché<br />

la sua esperienza non venisse dimenticata ma<br />

oltresì contemplata. Sulla base di una intervista,<br />

ha realizzato questo libro inserendoci ricerche,<br />

note personali ed illustrazioni, dando così maggiormente<br />

modo di comprenderne la <strong>storia</strong>.<br />

Di seguito è riportata un’altra intervista, più<br />

breve, una sorta di riassunto di quella che è stata<br />

l’esperienza di sua madre nei campi di concentramento.<br />

Ha voluto che il messaggio fosse forte e<br />

diretto, come un grido di dolore per le atrocità<br />

che sono state e che, purtroppo, in altre occasioni,<br />

continuano ad esserci. E’ per lei una Storia<br />

da meditare, anche per il modo semplice con<br />

il quale è stata raccontata da una Donna forte e<br />

coraggiosa.


DEDICATO A MAMMA<br />

E’ difficile da capire, ma soprattutto rimane difficile credere che sia veramente potuto accadere tutto<br />

questo… la verità è che ti sei trovata in situazioni di incredulità, che forse hanno smorzato in te il desiderio<br />

di creare uno spazio alla Memoria.<br />

Nonostante ciò, hai sempre voluto donare, come un vero regalo, la tua testimonianza, lasciando sopiti<br />

i tuoi sentimenti di rancore, annullando l’odio e raccontando con tanta dolcezza “<strong>La</strong> tua Storia”, avendo<br />

a volte quasi timore di poter impressionare chi, in quel momento, la ascoltava.<br />

Nei tuoi occhi, nel tuo sguardo, nei tuoi comportamenti, c’è sempre stato qualcosa, qualcosa che<br />

solo chi sapeva poteva capire. Sei stata come un fiore che ha voluto resistere al dolore ed alla sofferenza,<br />

per amore della vita, un fiore che è riuscito a crescere in tutta la sua bellezza, nonostante abbiano<br />

cercato di spezzarlo… perché tu amavi la vita… anche se questa vita, forse, non ti ha dato quanto meritavi.<br />

<strong>La</strong> tua forza ti ha salvata, la tua fede è stata per te compagna di vita, sempre… non ti sei mai lasciata<br />

andare alle carezze, non ti sei mai immersa in un abbraccio, hai sempre risolto i tuoi problemi con<br />

coraggio e dignità… sì, le tue carezze mi sono mancate, ma la tua presenza costante, imponente e certa,<br />

ha compensato questa lacuna, ed ho sempre cercato di capirti…<br />

Ho deciso che questo libro doveva essere pubblicato il giorno che tu, stanca di tutte le sofferenze che<br />

sino alla fine ti hanno tormentata, ci hai lasciati, andando in un posto bellissimo dove sicuramente e<br />

finalmente hai trovato la pace… ti si leggeva in viso… abbiamo visto finalmente il tuo volto distendersi.<br />

Vorrei che la tua “Memoria” diventi un monito per quelle atrocità che sono state e per quelle che purtroppo<br />

ancora oggi continuano ad esserci. Vorrei che la tua “Memoria” sia un elogio a te, grande Donna<br />

coraggiosa, che è stata capace, con quel suo esile corpo, a sopportare tante sofferenze, che è stata capace,<br />

con coraggio e fede, a non perdere mai la speranza di rivedere i suoi cari.<br />

Non ho mai potuto tenere la tua mano nella <strong>mia</strong>, nemmeno quando eri molto malata… tu non volevi…<br />

ho potuto farlo solo quando te ne sei andata… non avrei più voluto lasciarla!<br />

Forse per questo sei venuta a trovarmi e mi hai fatto sentire la tua mano calda nella <strong>mia</strong>… ti ho sentita,<br />

ho avuto paura prima di capire, ma poi, la certezza che eri tu, mi ha riempita di gioia e di conforto…<br />

mi hai voluto dire, prendendomi per mano, che saresti stata sempre con me… come ho potuto meritare<br />

un regalo così bello?<br />

Tu hai dato tanto, sempre, anche quando non potevi!<br />

E’ banale forse dire ti voglio bene?<br />

Te lo dico tutti i giorni… è semplicemente così: Ti voglio bene. Mamma!<br />

Antonella<br />

7


DA MICHELE<br />

Quando penso a <strong>mia</strong> nonna mi viene difficile ricordare il suo viso contratto arrendersi<br />

all’imprevedibilità di un sorriso;… tuttavia, la sua apparente severità era l’inevitabile corollario<br />

delle sofferenze della sua vita.<br />

Questa testimonianza è un dono per noi tutti, perché il tempo, purtroppo, ha il potere di<br />

annebbiare le nostre coscienze anche da grandi catastrofi… non deve succedere!!! Non possiamo<br />

pensare al sacrosanto diritto alla vita ed al rispetto reciproco solo dopo qualche umano<br />

disastro… Non deve succedere!!!<br />

Mi rimane pertanto complicato parlare delle gustosissime ciambelle di riso che la “Lisetta”<br />

preparava nelle riunioni domenicali della nostra famiglia, senza pensare a quel numero<br />

tatuato sull’avambraccio sinistro in cui vedevi la dignità inchinarsi alla follia, marchio indissolubile<br />

che aveva il suo macabro contrappasso nella cieca eliminazione di migliaia di vite<br />

umane.<br />

Grazie Nonna, perché tutti i tuoi cari hanno nel cuore un esempio, e se anche nei nostri<br />

occhi rimane solo una tomba, essa comunque conserva nel suo silenzio le urla del tuo immenso<br />

carisma che Dio ha saputo accogliere e saprà custodire gelosamente per l’Eternità… Un<br />

abbraccio forte dal tuo nipote che forse ti ha dato più pensieri … e che te li dà ancora…<br />

Il buio comparve<br />

e poi una luce<br />

che non tardò ad arrivare…<br />

capimmo dal tuo viso<br />

finalmente disteso<br />

che in realtà morì sofferenza.<br />

O Divina Fede,<br />

apri ora le bianche stanze<br />

a Colei che in vita ti ha sempre adorato<br />

e avvolgi le sue pene<br />

dalla pace a lungo cercata!<br />

O Divino Spirito,<br />

accogli la sua grazia<br />

e custodisci le nostre lacrime<br />

affinché il nostro dolore<br />

trovi ristoro nella sua Memoria.<br />

Vola Anima semplice,<br />

vola leggera,<br />

guarda le meraviglie dell’Eternità<br />

e i tuoi sorrisi spesso nascosti<br />

liberarsi ora privi di alcun turbamento.<br />

Tu,<br />

che ora vivi nel grembo più puro<br />

laddove l’umano pensier non può arrivare<br />

accogli la nostra gratitudine<br />

e da lì<br />

guida il cammino di quell’uomo così dolce<br />

che in vita fedele ti accompagnò con sì grande umiltà.<br />

Addio!<br />

Michele<br />

9


UN PENSIERO A MAMMA<br />

Un foglio bianco dinanzi e tanti pensieri nella <strong>mia</strong> testa. Una valanga di ricordi a rumoreggiare<br />

nella <strong>mia</strong> mente in maniera vorticosa e confusa come neve che, libera, precipita per il<br />

pendio di una montagna. Il desiderio di arrestare questa inconcludente massa di pensieri, di mettere<br />

ordine dove ordine non c’è.<br />

Scontata l’emozione di ripercorrere con la <strong>mia</strong> mente tutte le cose che avrei voluto dirti,<br />

mamma, e che per un motivo o per l’altro, ma spesso per quella sorta di “pudore” che tanta<br />

parte era di te e che mi hai trasmesso, non sono stato capace di dirti.<br />

Non ora, non è più necessario. Io ormai sono per te trasparente, i miei pensieri, le mie<br />

emozioni, le mie meschinità, il mio coraggio, la <strong>mia</strong> viltà, la <strong>mia</strong> cattiveria, la <strong>mia</strong> sofferenza,<br />

la <strong>mia</strong> bontà, le vivo cosciente che le vivi anche tu con me, ma so bene che dove ora<br />

sei hai una visuale di questo mondo terreno molto diversa, non hai più tempo né luogo che<br />

ti assillano.<br />

Vedi ormai l’infinito ed il tempo che ci rimane da vivere nel nostro corpo è per te più rapido<br />

di un battito di ciglia. Ti sei finalmente avvicinata alla verità, forse l’ hai già scorta, forse<br />

già la vivi e quindi non è la <strong>mia</strong> singola azione di uomo che può in qualche maniera farti sorridere<br />

o piangere, ma la tua attenzione è rivolta a quello che ho nel cuore e che, unico bagaglio,<br />

mi porterò nell’attraversare quella stessa porta che tu hai attraversato il 31 gennaio 2002.<br />

Ho scritto quella sorta di “pudore” nell’aprire il tuo cuore, che tanto ha caratterizzato il tuo<br />

comportamento, fino a farti sembrare fredda e distaccata, incapace alle volte di provare sentimenti<br />

ed emozioni.<br />

Tardi ho scoperto che non era così, quando ti ho fatto partecipe di una <strong>mia</strong> decisione che<br />

ti ha sconvolto e, scoppiata in lacrime, hai gridato al mondo quello che, sbagliando, ritenevi<br />

un tuo fallimento.<br />

Mi sono mancate le tue carezze, mamma, ma come posso fartene una colpa? <strong>La</strong> necessità<br />

di reagire alle durissime prove che la vita ti ha posto avanti non ha potuto che cucirti addosso<br />

una protezione apparentemente impenetrabile ai sentimenti. In compenso sei stata<br />

l’esempio per me di come occorre sempre guardare avanti, come reagire con fermezza, coraggio<br />

ed onestà alle avversità.<br />

<strong>La</strong> tua incrollabile fede in Dio giusto e misericordioso, da sempre e dopo il ritorno dalla<br />

prigionia in Germania, l’avere al tuo fianco un compagno di vita sul quale contare, papà, sono<br />

certo ti hanno aiutata a superare le difficoltà più ardue e solo negli ultimi mesi della tua tribolata<br />

vita, nel tentativo improbo ed estenuante di lottare contro una malattia impossibile, hai<br />

a tratti mostrato il tuo viso rigato dalle lacrime e ti sei dichiarata “stufa di vivere”.<br />

Ma sono stati attimi. Docile a chi aveva tracciato il disegno della tua vita, hai continuato<br />

a curarti e fino alla fine ho letto nei tuoi occhi la speranza.<br />

Quale sopravvissuta allo sterminio tedesco, nel racconto terrificante dei lunghissimi mesi<br />

di prigionia trascorsi in maniera disumana, descritti in questo libro – intervista e, negli ultimi<br />

anni, con la tua presenza attiva alle manifestazioni di commemorazione, ti sei fatta carico<br />

di partecipare alla “memoria” per non dimenticare, perché l’urlo di sofferenza di tutti quelli che<br />

hanno subito l’ignominia dei campi di concentramento nazisti, si elevi alto e possente, anche<br />

per tuo mezzo, ad imperituro monito per tutta l’umanità.<br />

Monito che però, sono certo mamma che sarai d’accordo con me, non deve limitarsi a che<br />

un simile genocidio non si ripeta per gli Ebrei o per i prigionieri politici quale sei stata tu,<br />

ma che deve farci guardare alle atrocità commesse anche recentemente, anche in questo esatto<br />

attimo. Deve farci guardare nelle fosse comuni scoperte che contengono i “cadaveri scomodi”<br />

di regimi dittatoriali che convivono con la nostra epoca e che non sono ancora un “imbarazzante<br />

ricordo”, ma una tristissima presente realtà.<br />

Sei con me oggi, come sempre nella <strong>mia</strong> vita. Grazie!<br />

Biagio<br />

11


Una sola parola,<br />

Mamma:<br />

GRAZIE!<br />

Rita<br />

A colei che è stata compagna ed esempio di v ita.<br />

Se il nostro matrimonio ha superato i cinquantacinque anni, non è stato per i singoli meriti,<br />

ma perché ho sposato una Donna stupenda. Non solo bellezza, ma un cuore da amare e che<br />

sapeva amare. Lei ha portato avanti i suoi doveri di mamma, moglie, lavoratrice, con grande<br />

capacità… sembrava fosse nata per questo… lei c’era per tutti, anche per i malati, per gli<br />

inabili bisognosi di aiuto sia materiale che spirituale. Per tale scopo nel 1970 si iscrisse al<br />

Centro Volontario della Sofferenza, per assisterli e curarli con tutto l’amore possibile, con<br />

tutte le sue forze; è stata con loro finchè ha potuto, finchè la sua malattia non l’ha impossibilitata<br />

a compiere quello che per lei era diventato ormai un sereno dovere.<br />

Io l’accompagnavo, ero con lei sempre… ed oggi, ancora oggi e sempre sentirò la sua<br />

mancanza.<br />

Gabriele<br />

Il 7 luglio del 2006 Gabriele Giurastante ha chiuso gli occhi per sempre davanti a noi e li ha riaperti<br />

pe l’eternità, ritrovando, dopo tanto attendere, la sua amata “Lisetta” che aveva, come lui stesso<br />

diceva, “un cuore da amare e che sapeva amare”.<br />

Voglio ricordarti come esempio di saggezza, bontà e dignitosità; hai tracciato la tua vita con una<br />

profonda linea di amore, sulla quale noi, tuoi figli, abbiamo trovato l’esempio che non dimenticheremo<br />

mai.<br />

Antonella<br />

13


Non posso nascondere la <strong>mia</strong> emozione nello scrivere questa breve nota introduttiva<br />

a “<strong>76147</strong> <strong>La</strong> <strong>mia</strong> <strong>storia</strong>”, volume che la Provincia di Pescara decise di promuoverne<br />

la pubblicazione dopo la richiesta della figlia di Elisa Missaglia all’indomani della Sua<br />

morte.<br />

Ricordo ancora la testimonianza semplice e struggente della sua prigionia nel<br />

campo di sterminio di Auschwitz, raccontata nella sala dei Marmi della Provincia, testimonianza<br />

perentoria e drammatica su un luogo dell’orrore per eccellenza.<br />

L’occasione fu allora la consegna dell’attestato che l’amministrazione provinciale<br />

volle dedicare, a lei come ad altri sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, in ricordo<br />

della pagina più buia della <strong>storia</strong> d’Italia e d’Europa, che scrissero a quattro mani la<br />

ferocia nazista e la complice assistenza che il regime fascista assicurò con le sue leggi<br />

razziali. Ci sembrò allora, e ora che Elisa Missaglia se ne è andata la convinzione si è<br />

fatta più forte e matura, che solo la conoscenza da parte delle giovani generazioni della<br />

vicenda umana di chi visse davvero questi anni terribili, possa essere l’unico baluardo<br />

contro il ripetersi di quella barbarie. L’unico vaccino<br />

contro il cancro dell’intolleranza razziale che oggi, come<br />

ieri, ancora avvelena la civile convivenza tra i popoli.<br />

L’unico antidoto a una irresponsabile pubblicistica che<br />

ancora nega l’evidenza, alimentata da un revisionismo<br />

storico che attenua le colpe di chi decise lo sterminio di<br />

un popolo intero.<br />

Aiutare la pubblicazione del volume ci è parsa anche<br />

una buona occasione, se mai risarcimento morale potrà<br />

esserci per questa pagina della <strong>storia</strong> umana, per tener<br />

viva e desta l’attenzione sull’Olocausto.<br />

Elisa Missaglia ci ha consegnato in questa intervista<br />

una significativa testimonianza di quel che fu lo sterminio<br />

degli ebrei. L’intervista consegna a noi la realtà di<br />

una Donna partecipe della vita del suo tempo, strappata<br />

alla vita quotidiana dall’orrore di Auschwitz, e a quella<br />

vita riconsegnata con il marchio indelebile di quella tragedia.<br />

Arch. Giuseppe De Dominicis<br />

Presidente della Provincia di Pescara<br />

15


Una ragazza come tante<br />

Quando è nata e dove?<br />

Sono nata a Lecco il 14 ottobre del 1919 e ho vissuto lì fino a quando non sono<br />

venuta a Pescara con mio marito. Mio marito è dell’entroterra abruzzese, l’ho conosciuto<br />

a Lecco quando sono tornata dalla Germania; aveva fatto la guerra, era ferito.<br />

Il mio fidanzato si era perso, o meglio, se n’era andato… (?!)...<br />

Lui invece, aveva bisogno di sistemarsi, e per me la vita ormai, non valeva quasi<br />

più nulla... ed allora mi sono detta: “Proviamo… se va, va; se non va... pazienza”.<br />

E invece, per fortuna, mi è andata bene. L’ ho sposato e per un po’ ho vissuto a<br />

Lecco. Poi lui è voluto tornare qui, per stare vicino ai suoi genitori così, nel 1955, ci<br />

siamo trasferiti a Pescara.<br />

Quante persone componevano la sua famiglia?<br />

Eravamo in cinque: mamma, papà e tre figli. Io ero la seconda.<br />

Mio padre era caporeparto in una fabbrica; io e <strong>mia</strong> sorella lavoravamo nella stessa<br />

industria di papà, nel reparto tessuti. Mio fratello aveva studiato e lavorava come<br />

impiegato altrove. In seguito ha aperto una sua azienda, e aveva trentacinque operai.<br />

Qualche anno fa è rimasto coinvolto in dei fallimenti, e per far fronte ai debiti ha<br />

preferito chiudere.<br />

Mia madre faceva, per sua libera scelta, la casalinga.<br />

Che scuole ha frequentato?<br />

Solo le scuole elementari. Non mi piaceva studiare,<br />

ero tremenda!<br />

Studiavo solo tre mesi all’anno per essere promossa,<br />

altrimenti erano botte.<br />

Poi ho lasciato la scuola perché allora c’era una<br />

mentalità un po’ particolare: i maschi dovevano studiare,<br />

mentre le femmine dovevano andare dalle<br />

suore per imparare a cucire e ricamare. Ho imparato<br />

bene e ho avuto modo di mettere in pratica gli<br />

insegnamenti avuti.<br />

I suoi genitori erano severi?<br />

Erano severi, ma allora in tutte le case era così.<br />

Mamma però era molto dolce, papà, invece, era<br />

davvero rigido, voleva che noi figli studiassimo e ci<br />

comportassimo in un certo modo. Per esempio, a<br />

noi donne non ci permetteva che andassimo in giro<br />

per casa con la camicia da notte, specie se c’erano<br />

lui o mio fratello.<br />

17<br />

Elisa Missaglia nel giardino della sua casa di<br />

Lecco prima della deportazione nei campi di sterminio.


Allora c’era molta serietà e poca possibilità di fare tutto quello che si fa oggi…<br />

magari la domenica si diceva che si andava all’oratorio, poi invece si andava a fare<br />

una corsa... ma la libertà che c’è adesso! Al punto che noi della nostra generazione<br />

non riusciamo sempre a capirla. Succedevano anche allora certe cose: forse non si<br />

sapevano come adesso, però... no, c’era molta più serietà.<br />

Che cosa le era permesso fare e che cosa no? (leggere, fumare, ballare, frequentare<br />

amicizie al di fuori della cerchia di conoscenze..).<br />

Niente. Oddio, qualche scappata si faceva. A me, per esempio, piaceva ballare, e<br />

se potevo...<br />

Quando sono tornata dai campi di concentramento, una sera, mentre stavo rincasando<br />

(io sono tornata ad agosto, quindi l’inverno è arrivato subito) ho incontrato un<br />

ragazzo, adocchiato da tutte le ragazze perché era il più bello del paese. Quella sera<br />

andava a ballare in un paesetto sulla collina, e siccome, appena tornata, ero coccolata<br />

un po’ da tutti, mi vede e mi fa: “Ciao. Ci verresti a ballare con me, stasera?”<br />

“Certo, certo che vengo!” Rispondo io tutta tranquilla.<br />

“Ti aspetto alla fermata del tram”.<br />

Allora si usava il tram che correva sulle rotaie, e la fermata passava proprio sotto<br />

casa <strong>mia</strong>, quindi passando per il giardino lo prendevo di corsa.<br />

Vado a casa, erano le sei e mezza, e lo dico alla mamma: “Sai, ho incontrato Paolino,<br />

mi ha invitata... stasera vado a ballare”<br />

E lei: “Che cosa hai detto?”.<br />

“Si, perché?”<br />

“Perché no”<br />

“Ma perché no?”<br />

Allora mamma mi fa: “Vai a chiedere il permesso a papà”<br />

Lì vicino c’era una specie di cantina, una grossa osteria, dove papà andava a trascorrere<br />

un pò di tempo finita la cena. A quel punto risposi: “Inutile, perché so già<br />

che mi direbbe di no. Ma quante storie! In fin dei conti, di che cosa vi devo rendere<br />

conto? Dopo tutto quello che ho passato! Sono stata fuori di casa diciotto mesi quando<br />

avevo venticinque anni. Adesso ne ho ventisette…” Pensavo che avrei potuto fare<br />

tutto quello che volevo, invece...<br />

Mia madre mi disse: “Allora noi non avevamo nessuna responsabilità su di te,<br />

perché non potevamo. Adesso è no!”<br />

In quel momento ho sentito il tram che arrivava... Ricordo che sono scappata in<br />

camera, mi sono spogliata e, senza mangiare, mi sono infilata a letto scoppiando a<br />

piangere.<br />

Ricordo anche che ho inveito contro <strong>mia</strong> madre. Lei mi ha lasciata sfogare, poi è<br />

venuta, si è seduta sul letto e mi ha detto: “Guarda, mi dispiace, dopo tutto quello che<br />

hai passato, farti ancora piangere. Ma la <strong>mia</strong> decisione è no!”.<br />

Era il modo di vivere di allora....<br />

Io penso che i genitori capivano che si diceva di andare in un posto, mentre poi<br />

si andava in un altro. Ma facevano finta di non capirlo per essere presi sul serio.<br />

18


Che persona era? (mite, espansiva, taciturna, riflessiva, ecc.).<br />

Ah, ero un maschiaccio! I giochi da femmina li ho<br />

usati solo quando ero piccola.<br />

Poi, le biglie, le bocce, la bicicletta, il pallone...<br />

Avevamo un bel giardino grande, e allora ci si riuniva<br />

tutti là. Poi papà era proprietario assieme a dei<br />

soci di una baita in montagna, per cui la domenica si<br />

partiva e si andava su. Una volta l’ ho fatta grossa:<br />

sono andata a rocciare senza dire nulla e mi sono sbucciata.<br />

Mi ricordo che sono tornata con la gonna tra le<br />

gambe e le maniche tirate giù per non far vedere i lividi.<br />

Qualche volta ci permettevano di fare una passeggiatina<br />

in bicicletta. Mi piaceva andare al cinema,<br />

quello dell’oratorio, e ascoltavo sempre la radio, perché<br />

la televisione non c’era ancora; al mattino, chi<br />

prima si alzava l’accendeva. Ricordo anche che, quando<br />

è cominciato il festival di Sanremo, ci si trovava in<br />

circolo con gli amici dell’oratorio, e una parola uno,<br />

una parola l’altro, riscrivevamo le canzoni. Potrà sembrare<br />

sciocco, ma solo il fatto di stare insieme per noi era una gioia. Una piccola cosa<br />

ci faceva piacere, ad esempio, un semplice paio di calze per noi era un regalone.<br />

Invece oggi non si dà più importanza a niente. Si può regalare ad una persona una<br />

pelliccia e quella non l’apprezza nemmeno, figurarsi delle calze! Io penso, però, che<br />

la colpa di tutto questo l’abbiamo noi genitori. Abbiamo sofferto parecchio, sia prima<br />

che durante che dopo la guerra, e questo ci ha autorizzati a dire: “Quel che ho sofferto<br />

io, non lo devono soffrire i miei figli...” Oppure: “Io non ho avuto questo, allora<br />

è giusto che mio figlio l’abbia...”. D’accordo, però forse adesso ci siamo allargati<br />

un pó troppo.<br />

Lei è diventata mamma, ha ed ha avuto delle<br />

responsabilità verso i suoi figli. Alla luce di ciò, come<br />

stima gli insegnamenti dei suoi genitori?<br />

Buoni, ancora molto buoni. Tanto che talvolta giudico<br />

male i miei figli.<br />

Volantino antifascista - Dicembre 1943<br />

Archivio di Stato di Como<br />

Nella sua famiglia si discuteva di politica, si leggevano<br />

libri o riviste apposite, si partecipava a comizi<br />

o raduni?<br />

Mio padre era contro il fascismo. All’epoca c’erano<br />

le Piccole Italiane 1 : ebbene, io e <strong>mia</strong> sorella non abbiamo<br />

mai potuto aderire a nessuna loro attività.<br />

Papà non voleva nemmeno che mettessimo la divisa<br />

fascista, avevamo il permesso di mettere solo quella per<br />

fare ginnastica perché era obbligatoria.<br />

1 Le Piccole Italiane, organizzazione giovanile fascista, venne creata da Mussolini nel 1925: composta da fanciulle in età scolare, aveva il fine di educarle secondo i valori razziali e misogini<br />

cari alla pedagogia fascista.<br />

19<br />

Elisa Missaglia all’età di venticinque anni.


Aveva la sua idea, e non si poteva discutere. Per lui il fascismo non esisteva, non<br />

aveva sostanza. Eppure, anche se la pensava così, non ha mai avuto problemi, perché<br />

lui si faceva i fatti suoi, non partecipava ad alcuna attività che potesse esporre lui o<br />

la sua famiglia. <strong>La</strong> pensava così anche un mio zio, un pezzo grosso che dirigeva una<br />

fabbrica di velluti. Quando mi hanno arrestata avrebbe potuto aiutarmi, ma nascondeva<br />

in casa due clandestini inglesi. E allora non ha potuto fare nulla. Quando la<br />

mamma andò a chiedergli di parlare con i fascisti, lui le rispose di no. “Se quelli vengono<br />

a perquisire la casa, di sicuro li troveranno, e anche loro hanno una mamma, un<br />

papà e dei diritti”. Con tutto che ero la sua nipote preferita! Ma così si pensava: sacrificare<br />

una figlia per salvare delle persone che non si conoscevano.<br />

Anche papà, se poteva, aiutava chi si trovava in difficoltà.<br />

Ne ha aiutati parecchi: li nascondeva in montagna e portava loro da mangiare.<br />

Quando sono tornata dalla Germania e mi sono sposata, uno di questi era diventato<br />

sindaco di Lecco. Io avevo bisogno di un piacere, e così sono andata da lui.<br />

Premetto che sono una a cui non piace chiedere favori. Ma si era bandito un concorso<br />

per dei posti di ferroviere aperto solo a chi già lo fosse, e siccome mio marito<br />

aveva bisogno di impiegarsi da qualche parte, mio padre mi disse: “Vai a chiedergli<br />

un favore, con tutto quello che ho fatto per lui, è obbligato ad aiutarti”.<br />

Invece....<br />

In casa si parlava di politica, anche se non eravamo aggiornati.<br />

E poi si ascoltava la radio, anche in tempo di guerra. Allora, però, si ascoltava<br />

soprattutto Radio Londra, che era proibita; per farlo, ci si chiudeva in casa e, mettendoci<br />

un panno sopra la testa la si sentiva a volume bassissimo.<br />

Era molto pericoloso farlo, perché<br />

si poteva essere denunciati e finire in<br />

prigione. Ci sono stati diversi episodi<br />

di persone denunciate dai vicini e<br />

arrestate perché sospette.<br />

A proposito di quello che stava<br />

succedendo in Europa e dei campi<br />

tedeschi non sapevamo niente.<br />

Quello che realmente stava succedendo<br />

era una cosa che nessuno si<br />

sarebbe mai sognato. Si sapeva che<br />

c’erano degli uomini prigionieri, ma<br />

si credeva che fossero i soldati presi al<br />

fronte.<br />

Mai si sarebbe pensato che i prigionieri<br />

fossero trattati peggio degli<br />

schiavi e che tra loro ci fossero tanti<br />

civili.<br />

Si è cominciato a sapere qualcosa<br />

quando hanno cominciato a tornare<br />

20


alcuni prigionieri liberati dalla Croce Rossa. Gli italiani hanno conosciuto la verità<br />

da quelli che sono stati rispediti per primi a casa. Per esempio, <strong>mia</strong> madre ha saputo<br />

dei campi dalla <strong>mia</strong> amica Gina, che è tornata prima di me. Io poi ho raccontato qualcosa,<br />

ma già si sapeva tutto.<br />

Mia madre non ha mai superato quel dispiacere lì. Chissà quanto avrà sofferto!<br />

Quante volte, dopo che sono tornata, la vedevo che mi guardava e poi scoppiava<br />

a piangere. “Ma perché piangi?” le chiedevo. E lei mi rispondeva: “Stavo pensando<br />

a quello che hai passato lì”… Mamma non si dava pace… sono tornata che aveva<br />

cinquantacinque anni, è morta che ne aveva sessanta. Papà è stato più forte, ma mi<br />

hanno detto che anche per lui è stato bruttissimo. Siccome in casa non voleva farsi<br />

vedere triste, andava su in montagna, si chiudeva dentro la baita e non c’era verso di<br />

farsi aprire. Un giorno un suo amico mi ha detto che, passando vicino la baita, aveva<br />

visto il fumo che usciva dal camino e sentito il cane abbaiare. Pensando che fosse<br />

dentro, ha bussato una, due, tre volte. Niente da fare. “<strong>La</strong>sciatemi in pace”, diceva.<br />

Chissà che cosa aveva dentro! Era un tipo molto riservato, che non diceva mai<br />

quello che provava veramente.<br />

Avevo imparato a fumare una volta libera.<br />

C’erano sigarette a volontà, sia russe che americane. Noi lavoravamo, come sarti<br />

o braccianti, e le guadagnavamo. Oh sì, posso dire che durante il viaggio di ritorno<br />

abbiamo vissuto solo di tabacco! Facevamo le sigarette con i fogli dei libri, così,<br />

dicevamo, impariamo il tedesco! Venivano fuori dei grossi rotoli e, fumandoli, ingannavamo<br />

il tempo e la fame. Abbiamo fatto più di dieci giorni di tradotta: ora era lento<br />

il treno, ora bisognava aspettare la coincidenza, poi si era rotto il cambio...<br />

Ricordo che io indossavo dei pantaloni che mi ero fatta confezionare dal sarto<br />

presso il quale lavoravo; essi furono la <strong>mia</strong> fortuna, perché erano molto comodi per<br />

salire e scendere dalle tradotte.<br />

Dicevamo un mucchio di sciocchezze, tipo: “Ah, quando arriviamo al Brennero<br />

scendiamo e baciamo la terra”.<br />

Invece, al confine abbiamo incrociato una tradotta che riportava i prigionieri tedeschi<br />

in Germania e su quei vagoni qualcuno aveva scritto bello grande: “Vogliamo<br />

donne, anche usate, che in Germania non sian state”. Pensavano che noi donne<br />

fossimo andate in Germania a fare la vita. Allora, ho levato i pantaloni, anche se<br />

avevo ancora le gambe fasciate e piene di piaghe 2 , mi sono confezionata un vestitino<br />

bianco e verde, con un abito che avevo rubato in Germania e che avevo stretto perché<br />

mi andava largo. Quel vestito aveva anche un taschino, dove mettevo le sigarette.<br />

Papà me le vide e mi chiese: “Ma che fumi te?<br />

“Si, perché?”.<br />

Non ha risposto. Povero papà, chissà che schiaffo morale ha preso!<br />

Alle sue dipendenze aveva diversi operai che andavano a Chiasso a prendere le<br />

sigarette per venderle di contrabbando. Lui le comprava e poi le metteva nel suo cassettino.<br />

Ma io sapevo dove le teneva, così andavo là e me le prendevo.<br />

Questo per dire la sua serietà. Io ho ricevuto il primo bacio da papà in prigione.<br />

Forse da piccola mi avrà baciata, ma non me lo ricordo… la prima volta che ram-<br />

2 <strong>La</strong> signora Missaglia soffriva di avitaminosi, come tutti i superstiti dei KZ, dovuta alla cattiva alimentazione.<br />

21


mento è stato in prigione.<br />

Non si era per niente sdolcinati una volta, ma questo non voleva dire che non ci<br />

si voleva bene. Questa cosa qui mi è rimasta impressa.<br />

Sono chiusa, restia a dare baci. Quando ci troviamo con gli amici, con i membri<br />

dell’associazione, i baci e gli abbracci non li voglio…<br />

Pensa che l’esperienza vissuta possa averla indurita?<br />

Non lo so… forse mi ha resa più aperta alle necessità degli altri, anche se non<br />

sono mai stata insensibile ai bisogni altrui.<br />

Però non sopporto la folla, la ristrettezza. Anche la <strong>mia</strong> amica di <strong>La</strong> Spezia 3 dice<br />

che lei non può viaggiare sull’autobus perché tutta quella folla attorno la fa diventare<br />

matta. Preferisce fare chilometri e chilometri a piedi.<br />

3 Bianca Paganini, autrice di una delle testimonianze contenute nel libro di Lidia Beccaria Rolfi Le donne di Ravensbrück.<br />

22


25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti<br />

Quando è stata arrestata e per quale motivo?<br />

Sono stata arrestata il 7 marzo del 1944 mentre lavoravo in fabbrica.<br />

<strong>La</strong> CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) aveva ordinato di scioperare per<br />

protestare contro i tedeschi che razziavano tutte le cose belle e utili dell’Italia.<br />

Alle dieci abbiamo fermato le macchine. A mezzogiorno siamo tornati a casa.<br />

Alle due siamo rientrati in fabbrica; alle due e dieci, due e un quarto c’erano già<br />

i questurini fascisti, venuti ad arrestarci. Perché, mentre nelle altre fabbriche quelli<br />

che avevano organizzato lo sciopero non erano andati via dopo aver finito il turno, a<br />

noi ci hanno lasciati soli, così sono venuti i fascisti.<br />

C’era anche il questore, e mi ricordo che gli sono andata davanti e gli ho detto<br />

tutto quello che pensavo. Ad un certo punto i questurini ci hanno puntato il mitra alla<br />

schiena e ci hanno fatto segno di seguirli. Con me e papà c’era anche <strong>mia</strong> sorella, lei<br />

era incinta ed allora l’ hanno lasciata perdere. Mentre facevano segno a papà di andare<br />

via con loro è intervenuto il direttore della fabbrica che ha detto: “Questo è il caporeparto<br />

di quattro reparti di lavorazione bellica, se lo portate via, si ferma tutto”.<br />

E così lo hanno lasciato andare. Io, invece, sono stata presa. E quando sono corse<br />

a Lecco le voci dell’arresto, <strong>mia</strong> madre ha detto subito: “<strong>La</strong> Lisetta è dentro”.<br />

E difatti ero dentro.<br />

Ci hanno portati subito a Como, dove siamo rimasti una settimana. <strong>La</strong> prigione<br />

era strapiena, così ci hanno messo dentro la palestra di una scuola. Ricordo che faceva<br />

molto freddo! C’erano spifferi d’aria dappertutto perché i vetri erano rotti, abbiamo<br />

chiesto di accendere il riscaldamento ma i questurini non hanno voluto.<br />

Poi ci hanno mandato a Bergamo, passando da Lecco. Allora ci hanno permesso<br />

di scrivere a casa per informare i nostri familiari che andavamo in Germania e per<br />

dire di portarci vestiti pesanti e roba da mangiare. Quella è stata la giornata più terribile,<br />

vedere la mamma e il papà in quelle condizioni... e poi tutte quelle urla... è<br />

stato bruttissimo. Mi ricordo che a un certo punto ho detto alla mamma: “Ma perché<br />

urli?”. E lei mi ha risposto: “No! Sei te che urli!”.<br />

I fascisti vi hanno interrogate?<br />

Non ci hanno mai chiesto niente,<br />

per loro noi eravamo rivoluzionari,<br />

alta politica! Non serviva<br />

l’interrogatorio per sapere che eravamo<br />

colpevoli. Arrivati a Bergamo ci<br />

hanno dato in mano ai tedeschi. <strong>La</strong><br />

cosa ci parve un po’ strana, ma si<br />

pensava che si andasse a scontare la<br />

pena in Germania lavorando nelle<br />

fabbriche.<br />

<strong>La</strong> prima fermata è stata<br />

Mauthausen (Austria superiore): l’ingresso al lager.<br />

23


Mauthausen.<br />

Lì abbiamo avuto la possibilità di parlare con un comandante, che ci ha detto che,<br />

se non avevamo fatto niente di male non c’era da preoccuparsi. “Vi rimanderanno di<br />

sicuro a casa”, diceva. Invece quello lo sapeva che cosa ci aspettava. Noi donne<br />

siamo state sistemate in una cella a parte. E vedevamo passare quei disgraziati, quei<br />

poveri corpi che rassomigliavano a scheletri...<br />

Qualche giorno dopo siamo partiti per Vienna, dove siamo finiti in una vera prigione<br />

fatta di mattoni. Poi da lì,<br />

un mattino, ci hanno portato<br />

alla stazione e ci hanno spediti<br />

ad Auschwitz.<br />

Auschwitz era situata a 250<br />

Km. a sud di Varsavia e lì, in<br />

un’area di 1.280.000 mq.<br />

erano distribuiti i più vasti ed<br />

affollati lager di sterminio<br />

organizzati dal Reich.<br />

Auschwitz era un luogo<br />

destinato a corsi di perfezionamento<br />

per i Kapos che sarebbero<br />

stati poi destinati ai campi<br />

di sterminio sparsi nel Reich e<br />

nelle nazioni dell’Europa occupate<br />

dai tedeschi; era il luogo della scienza e del massacro, era il luogo della<br />

morte… tutto comandato da carnefici come Hoess, Kramer, Baer, Mengele.<br />

Sul cancello di ingresso del campo principale di Auschwitz si leggeva la<br />

scritta: ARBEIT MACHT FREI (“il lavoro rende liberi”... macabra ironia)<br />

Quante persone partirono con lei?<br />

Partirono più di settecento persone. Della <strong>mia</strong> fabbrica eravamo in ventisette, ventidue<br />

uomini e cinque donne: io, la Gina, l’Agnese, la Emma e Antonietta.<br />

Poi a noi si aggiunsero tre donne di Como; ma una, furba, si è fatta venire la febbre<br />

infilandosi la paglia sotto le ascelle e dentro le scarpe, così i tedeschi l’ hanno<br />

rimandata a casa.<br />

Un’altra, invece, non ha mai lavorato. Appena siamo arrivate si è ammalata (?!?)<br />

ed è finita al revier; da lì non è più uscita. Non so come abbia fatto, forse è stata fortunata…<br />

forse si è fatta amica di qualcuno... E’ vissuta abbastanza bene ed è tornata<br />

a casa prima di noi perché quando i tedeschi hanno evacuato il campo lei si è nascosta<br />

sotto le cataste dei morti.<br />

Così, quando i russi sono arrivati ad Auschwitz, lei era lì. E mentre noi altre eravamo<br />

ancora prigioniere, lei alla fine di aprile è tornata a casa. Però ha dovuto fare<br />

un giro tortuoso, perché per tornare a Como è passata per la Sicilia occupata dagli<br />

alleati e poi ha dovuto aspettare che sfondassero il fronte settentrionale; dopo il venticinque<br />

aprile lei era a casa.<br />

24


Intanto che i russi si avvicinavano, i tedeschi evacuavano i campi vicini al fronte;<br />

è stato così anche per Auschwitz. I primi convogli sono partiti a giugno, ma la vera<br />

e propria evacuazione c’è stata nel gennaio del 1945, a piedi, senza mangiare e senza<br />

potersi riparare dal freddo,<br />

conciati in un modo... l’ hanno<br />

chiamata “la marcia della<br />

morte”.<br />

Per fortuna io sono partita<br />

prima, il 27 ottobre e, invece<br />

che a piedi come quei poveretti,<br />

abbiamo viaggiato sulle tradotte;<br />

siamo partiti al tramonto<br />

e, dopo aver viaggiato tutta la<br />

notte, siamo arrivati a Ravensbrück<br />

la sera successiva.<br />

Di tutti quelli che quel giorno<br />

partirono da Bergamo sono<br />

tornati solo quattro uomini e<br />

sei donne con l’altra ragazza di<br />

Como.<br />

Emma è scomparsa, non è<br />

tornata, però quando<br />

l’avevamo lasciata ad<br />

Auschwitz era ancora viva.<br />

Il 18 e 19 gennaio del 1945 le<br />

SS iniziarono l’evacuazione del<br />

campo. Era pieno inverno e<br />

l’inverno in Polonia vuol dire<br />

molti gradi sotto lo zero, i detenuti<br />

erano senza vestiti e senza<br />

viveri, e quando non riuscivano,<br />

stremati, a tenere il passo<br />

dei loro compagni, venivano<br />

fucilati ed i loro cadaveri erano<br />

gettati dentro fosse comuni<br />

lungo il percorso<br />

Questi prigionieri sono stati tenuti in vita solo dalla loro grande forza di volontà, ed è<br />

la stessa forza che dà loro la possibilità di sopravvivere fino al momento della liberazione<br />

Erano usuali casi di favoritismi come quello della sua compagna di Como?<br />

Cioè casi di donne che diventavano l’amante di questo o quel pezzo grosso?<br />

Sì. Comunque, non si parlava molto di queste cose, né si poteva, per partito preso,<br />

dire: “Divento amica di quello, così mi sistemo”, perché erano i tedeschi che decidevano.<br />

Quanto a lei, per un po’ la vedemmo, poi , siccome la portarono in un altro<br />

campo, la persi di vista. <strong>La</strong> sua amica, invece, ha sempre lavorato. Si chiamava Elisa<br />

ed è stata evacuata con i primi trasporti.<br />

Una bella ragazza, alta, ben disposta, così anche la carne ci ha messo un po’ a<br />

calare. Ora non ricordo se sia tornata il mese di novembre o di dicembre, però ram-<br />

25


mento che tutti dicevano che fosse morta... ricordo che non mi ha più guardata in faccia,<br />

non mi ha più voluto parlare… e dire che le ho salvato la vita!<br />

Subito dopo la liberazione la C.R.I. ci inviò dei pacchi di roba da mangiare… fu<br />

una strage. <strong>La</strong> gente cominciò a sentirsi male, scolandosi di diarrea come niente.<br />

Quando ha visto quel ben di Dio, Elisa ha avuto come un sussulto, gli si è avventata<br />

sopra e avrebbe voluto divorarsi tutto il contenuto di quei pacchi; ma io gliel’ ho<br />

impedito, anch’io mangiavo un pezzetto di cioccolata alla volta oppure un pò di margarina<br />

o di marmellata… così siamo sopravvissute.<br />

Ma lei, dopo, è cambiata, non mi ha più voluta<br />

vedere, né voleva sentire parlare di Auschwitz, ed<br />

anche il marito della <strong>mia</strong> amica Antonietta, che è tornata<br />

prima di me nel mese di giugno, non ha mai voluto<br />

parlarne; era un reduce di Mauthausen, e guai se io<br />

o l’Antonietta ci permettevamo di parlare davanti a lui<br />

di quello che ci era accaduto!<br />

Dipende da come uno la prende questa cosa; a me<br />

non mi ha mai fatto male parlarne. Sono riuscita a perdonare,<br />

e questo ha significato tanto. Devo ringraziare<br />

padre Guglielmo, che esercita alla chiesa della Madonna<br />

dei Sette Dolori, ai Colli di Pescara. Andavo da lui<br />

e mi sfogavo, tiravo fuori tutta la ribellione che avevo<br />

dentro; lui mi ascoltava, mi dava l’assoluzione ma non<br />

mi diceva mai niente.<br />

… Poi, quel generale là, Kappler, è scappato…<br />

Io quel giorno ebbi come un presentimento. Ricor-<br />

do che con i miei familiari eravamo andati fuori e che<br />

ho fatto passare i guai a tutti quanti. Siamo tornati pre-<br />

Deportati che aiutano i compagni più provati a tentare di ritornare alla<br />

vita. Però tanti di loro spesso soccomberanno nei giorni seguenti la liberazione,<br />

putroppo per loro la libertà è giunta troppo tardi<br />

26<br />

Un sopravvissuto.<br />

sto, perché avevo voluto per forza<br />

rientrare: ero intrattabile, avevo il<br />

diavolo dentro. Tanto che mio<br />

marito mi disse: “Ma che cosa ti è<br />

preso?”.<br />

“Niente, però lasciatemi in<br />

pace”.<br />

Mi sono seduta fuori, con un<br />

libro in mano, mentre dentro sono<br />

rimasti mio marito, <strong>mia</strong> figlia e il<br />

suo ragazzo. Ad un certo punto<br />

hanno acceso il televisore e ho<br />

sentito che dicevano: “Non diciamolo<br />

alla mamma”.<br />

”Che cos’è che non si deve<br />

dire alla mamma?” ho chiesto,


con la <strong>mia</strong> solita boria arrogante.<br />

Allora mio marito mi rispose: “Beh, se hai sentito... hanno fatto scappare Kappler”.<br />

Io, in quel momento lì, ho sentito come se mi cadesse giù qualcosa, mi sono sentita<br />

libera, leggera. Mi sono sentita bene. Mi ricordo che dissi: “In Italia non poteva<br />

che succedere questo”. E mi è tornato il sorriso sulle labbra, è passato tutto.<br />

Il mattino dopo sono andata da padre Guglielmo e gli ho detto: “Padre, io ho perdonato”.<br />

“E come fai ad esserne sicura?”.<br />

“Perché io non odio più”.<br />

Allora lui ha allargato le braccia e ha sospirato: “ Finalmente!”.<br />

Io non ho più portato rancore ed ho compreso il suo silenzio.<br />

Foto scattata dalle SS che riprende i deportati della Compagnia di disciplina<br />

inquadrati per cinque mentre salgono la scala della morte trasportando<br />

sulle spalle blocchi di pietra.<br />

27


L’umiliazione<br />

Facciamo un passo indietro. Ricorda di dove erano originari quelli che viaggiarono<br />

assieme a lei?<br />

Quando sono arrivata alla stazione di Bergamo, quelle settecento persone c’erano<br />

già. A parte le mie amiche e i compagni di fabbrica, non conoscevo nessun altro. Non<br />

capivo nulla, ero come stordita. Ci hanno fatto salire sulle tradotte, ammassati come<br />

bestie: le chiamavamo carri armati! Noi sette abbiamo viaggiato meglio, perché ci<br />

hanno messo in un vagone a<br />

parte.<br />

Fino al confine ci hanno<br />

accompagnato gli austriaci.<br />

L’austriaco non è cattivo, i soldati<br />

ci hanno trattato abbastanza<br />

bene, ci hanno dato il cibo<br />

della loro razione, ci facevano<br />

scendere quando il treno fermava<br />

alle stazioni. E poi, c’erano i<br />

nostri ferrovieri, che nei punti<br />

più favorevoli rallentavano<br />

l’andatura. Così, se si voleva, si<br />

poteva scappare. Però, mentre<br />

il nostro vagone non era piombato,<br />

quello degli uomini invece<br />

lo era. Quando i ferrovieri<br />

passavano, ci chiedevano: Un trasporto di deportati diretto ai campi di sterminio.<br />

“Volete scappare, volete scappare?”.<br />

I soldati che erano di guardia capivano, ma non dicevano nulla. Noi donne<br />

non abbiamo avuto il coraggio di scappare, perché avevamo paura di fare del male a<br />

chi era a casa, visto che i tedeschi ci avevano minacciate dicendo che se avessimo<br />

tentato di fuggire, avrebbero preso i nostri familiari e li avrebbero uccisi oppure che<br />

li avrebbero portati in Germania… io a Lecco avevo papà, mamma, mio fratello e<br />

<strong>mia</strong> sorella… non volevo, non potevo rischiare.<br />

Si poteva scappare ma solo prima della frontiera. Alcuni lo hanno fatto, rompendo<br />

le tavole di legno del pavimento e calandosi giù. Non so che fine abbiano fatto,<br />

né che cosa sia successo agli altri perché alla frontiera ci contarono. Non passammo<br />

per il Brennero perché avevano bombardato; ci dirottarono per il passo del Tarvisio.<br />

Là il comando austriaco ci ha lasciato in mano ai tedeschi. Le SS hanno piombato<br />

anche il nostro vagone. Morivamo dal freddo. C’era la neve, il ghiaccio. Ricordo<br />

cose confuse, non capivo nulla, ero come stupidita.<br />

29


Che cosa ricorda di<br />

Mauthausen?<br />

Gli uomini furono<br />

fatti scendere e andarono<br />

avanti a piedi, mentre<br />

noi donne fummo<br />

prelevate da un cellulare.<br />

Quando le porte<br />

della fortezza si sono<br />

aperte, i nostri uomini<br />

erano vicini al muro,<br />

coperti di neve e ghiaccio.<br />

Quel giorno nevicava<br />

a cielo aperto.<br />

Senza poter scambiare<br />

nemmeno una parola, ci<br />

hanno portate nella sala doccia e ci hanno ordinato di spogliarci: rimanemmo nude,<br />

mentre le SS di guardia ci guardavano... Dio, che umiliazione! Erano tutti uomini,<br />

perché a Mauthausen che comandavano erano solo uomini. Quando quella doccia<br />

che non finiva mai è terminata, ci diedero la divisa, pantaloni e giacca. Poi ci sistemarono<br />

in due celle: quattro in una e tre in un’altra.<br />

Il cibo ce lo passavano da<br />

una finestrella, per i bisogni<br />

avevamo un secchio.<br />

Per fortuna avevamo ancora<br />

un po’ di quella roba che ci<br />

avevano dato i nostri familiari<br />

alla stazione: un cacciatorino,<br />

qualche scatoletta... Il mangiare,<br />

comunque, non era cattivo,<br />

credo che fosse il rancio dei<br />

soldati. Ricordo che il luogo<br />

dove ci alloggiarono era fatto<br />

di mattoni: vicino c’erano le<br />

stanze di tortura, ed ogni tanto<br />

si sentivano certe urla!<br />

Dopo tre o quattro giorni ci<br />

hanno ridato i nostri vestiti e ci<br />

hanno fatte partire per Vienna.<br />

Faceva freddo, i vestiti non ci riparavano perché erano leggeri.<br />

Noi non avevamo idea di dove ci mandassero e che tempo facesse laggiù.<br />

Appena arrivavano a Mauthausen i prigionieri erano costretti a rimanere nudi,<br />

anche per giorni interi, sotto il sole o la pioggia o la neve, prima di essere destinati<br />

alle baracche.<br />

Mauthausen era una fortezza costruita dagli stessi prigionieri con spesse mura perimetrali<br />

dalle quali le SS vigilavano attentamente perché nessuno potesse fuggire. In alto a<br />

sinistra i due camini del forno crematorio.<br />

30


Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano!<br />

Com’era la prigione di Vienna?<br />

Era una vera prigione. Ci misero dentro delle celle assieme a donne di altre nazioni.<br />

Lì abbiamo trovato anche otto donne di Milano. Ma quelle non ripartirono con<br />

noi. Qualche giorno dopo ci hanno fatte risalire sul treno, destinazione<br />

Auschwitz...ma non lo sapevamo...noi stavamo attente a non sciupare i vestiti e le<br />

scarpe perché avevamo intuito che<br />

sarebbe passato molto tempo<br />

prima che ne avessimo potuto<br />

avere di nuovi.<br />

Mi ricordo che in tempo di<br />

guerra le scarpe erano molto<br />

costose, tanto che si acquistavano<br />

con la tessera.<br />

Ero così terrorizzata di rovinarle<br />

che non le mettevo mai;<br />

quando sono arrivata ad<br />

Auschwitz i miei sandali a forma<br />

di zoccolo erano nuovi. Siamo<br />

arrivate al campo dopo aver viaggiato<br />

su scomparti, siamo arrivati<br />

in stazione ad Auschwitz intorno a<br />

mezzanotte, e siccome il campo<br />

era lontano, anche se c’era la neve e faceva freddo, lo abbiamo raggiunto a piedi.<br />

Le SS ci vennero a prendere alla stazione, e per tutto il tragitto non ci maltrattarono.<br />

Mi ricordo che si vedevano in lontananza i crematori che fumavano. Allora la<br />

<strong>mia</strong> amica ha detto: “Guarda, che<br />

bello! Domani avremo il pane fresco!”.<br />

…Erano gli ebrei che bruciavano.<br />

Forni crematori del campo, funzionarono per anni, giorno e notte<br />

ininterrottamente.<br />

Binari che portavano ad Auschwitz.<br />

31<br />

Lei o le sue compagne sapevate<br />

che posto fosse Auschwitz?<br />

No. Abbiamo cominciato a capire<br />

qualcosa dalle russe durante il viaggio:<br />

erano spaventatissime! Ripetevano<br />

con terrore: “Speriamo non Auschwitz,<br />

speriamo non Auschwitz!”.<br />

Le russe erano informate più di<br />

noi perché loro erano internate da<br />

anni e le voci correvano.


Ripetevano come impazzite quella frase là,<br />

parlavano di un campo vicino, mi pare che si chiamasse<br />

Terezin, e si auguravano di finire lì perché<br />

si diceva che non si stesse poi tanto male.<br />

È la dimostrazione della<br />

sequenza usata per mettere<br />

i cadaveri nei forni crematori.<br />

Coloro che erano<br />

addetti a questo lavoro<br />

erano prigionieri costretti<br />

a volte a dover bruciare i<br />

loro stessi parenti; erano<br />

meglio nutriti rispetto agli<br />

altri, ma periodicamente<br />

venivano uccisi dalle SS e<br />

sostituiti da altri perché<br />

pericolosi testimoni.<br />

32<br />

L’ingresso ad Auschwitz e il filo spinato<br />

percorso dall’alta tensione.


<strong>La</strong> selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro<br />

Che impressione le ha fatto Auschwitz la prima volta che l’ ha vista?<br />

Il primo impatto c’era già stato a Mauthausen. Però, nessuna aveva pensato che<br />

saremmo finite in un posto simile. Il campo era tutto illuminato e circondato dal filo<br />

spinato dove correva l’alta tensione.<br />

Dopo averci fatte entrare e attraversare<br />

tutto il campo, ci hanno condotte<br />

ad un baraccone dove abbiamo<br />

passato la prima notte. Ci comandavano<br />

dei prigionieri che, appena<br />

hanno potuto, ci hanno chiesto se<br />

avevamo ancora qualcosa da mangiare<br />

e se glielo volevamo dare,<br />

facendoci capire che poi però non<br />

avremmo avuto più nulla.<br />

Quando è cominciato a farsi giorno,<br />

dalle finestre senza vetri abbia-<br />

mo visto passare delle povere donne<br />

senza età. Perché sembravano vecchiette<br />

di ottant’anni, così corrucciate<br />

da fare impressione… magari<br />

avranno avuto la nostra età…<br />

Fuori c’era una tormenta di neve<br />

ed il vento ammassava loro il ghiaccio<br />

addosso. Noi ci chiedevamo che<br />

cosa avessero fatto mai di male quelle<br />

poverette, che sembravano così<br />

vecchie, per essere trattate così.<br />

Mai avremmo potuto immaginare<br />

la verità. Eravamo tranquille, poiché<br />

eravamo sicure che non avevamo<br />

fatto nulla di male, e nello stesso<br />

tempo avevamo pena di quelle, forse<br />

anche più giovani di noi.<br />

All’arrivo chi veniva selezionato era destinato subito alle camere a<br />

gas. Questo gruppo di donne invece è scampato ad una selezione; a<br />

loro, prima davano da indossare la casacca del lager, poi sarebbero<br />

state rasate e depilate, andando incontro a pericolose infezioni per i<br />

tagli causati dalle macchinette tosa-cani che le SS usavano.<br />

Il giorno dopo, la prima cosa che ci hanno fatto è stato il numero sul braccio,<br />

tatuandocelo direttamente nella baracca.<br />

Mi tatuarono sul braccio sinistro il numero di matricola le cui cifre mi vennero<br />

impresse nella pelle con timbri a spillo immersi precedentemente in un inchiostro…<br />

da quel momento non avevo più un nome, ero solo un numero… <strong>76147</strong>.<br />

I primi tempi incidevano i numeri sull’avambraccio sinistro; negli ultimi tempi,<br />

lo facevano sulla spalla, mentre gli ebrei venivano numerati a parte. Ai bambini lo<br />

incidevano sulla coscia.<br />

33


Verso mezzogiorno ci hanno fatto fare la doccia: un vero tormento, con l’acqua<br />

che da bollente diventava di colpo fredda al di sotto dello zero, e sempre con le S.S.<br />

in giro. Finita la doccia, ci hanno condotte in un’altra stanza e ci hanno tagliato i<br />

capelli… io, che li avevo brutti, appena una sforbiciata, invece alla <strong>mia</strong> amica, che li<br />

aveva belli, li hanno massacrati. Con le russe e con le ebree erano implacabili, le<br />

rapavano completamente a zero. Poi, con le stesse macchinette che usavano per tosare<br />

i cani, ci hanno rasato i peli sotto le ascelle e in mezzo alle gambe, eravamo piene<br />

di ferite e di tagli infetti. Naturalmente tutto avveniva alla presenza delle SS, che<br />

erano tutti uomini come quelli che ci rasavano.<br />

Non vi selezionarono?<br />

I detenuti politici, cioè noi, non<br />

venivano selezionati, gli ebrei sì.<br />

Si era selezionati per andare a<br />

lavorare nelle fabbriche o per andare<br />

in un altro campo, o per far posto<br />

se c’era troppa gente… in quel caso,<br />

se eravamo diventati troppi, chi<br />

veniva selezionato, andava direttamente<br />

alle camere a gas.<br />

Quando finirono di tosarci come<br />

cani, ci rifilarono quattro stracci di<br />

corredo, cioè mutande che dicevano<br />

che erano disinfettate, invece erano<br />

sporche di tutto, le prendevano a<br />

quelli venuti prima e le davano a<br />

casaccio, un camicione a righe di<br />

cotone, un cencio da mettere in testa<br />

ed un paio di calze rotte, ci vestirono<br />

come pagliacci. Ricordo che<br />

quando la <strong>mia</strong> amica, di famiglia<br />

povera e quindi abituata alle ristrettezze<br />

le ha viste, è scoppiata a piangere<br />

dicendo: “Malgrado tutto, le<br />

calze rotte non si portavano in casa<br />

<strong>mia</strong>!”. Io ero così rincretinita che<br />

non ho provato nulla.<br />

Dopo di che ci hanno portate nella baracca. Lì c’era un’italiana, Margherita, che<br />

parlava cinque lingue ed era trattata abbastanza bene. <strong>La</strong> blocova non era cattiva, la<br />

prima cosa che ci ha detto attraverso la signorina che traduceva per noi e che anche<br />

noi trattavamo con riguardo, è stata: “Qui non si piange, non si mangia, non ci si<br />

ammala...”. Ci ha riferito i dieci comandamenti del campo. Invece le due che comandavano<br />

con lei... una, insomma, ma l’altra era una vipera; erano polacche.<br />

Stazione di Auschwitz - Birkenau. I deportati vengono suddivisi: gli<br />

uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra.<br />

L’inizio della selezione delle donne.<br />

34


Anche le kapò erano quasi<br />

tutte polacche perché, quando fu<br />

creato il campo, le prime che vi<br />

sono state rinchiuse erano polacche.<br />

In seguito vi hanno rinchiuso<br />

donne di altre nazioni, ma i<br />

posti di comando, ormai, erano<br />

stati tutti occupati da loro. Erano<br />

peggio delle belve, peggio degli<br />

stessi tedeschi. Del resto, per<br />

mantenere il posto che avevano<br />

Colonna di prigioniere avviate al lavoro.<br />

loro assegnato, dovevano diventare<br />

belve.<br />

<strong>La</strong> mattina dopo ci hanno subito mandato a lavorare nei campi, eravamo in quarantena<br />

e quindi dovevamo sgobbare.<br />

Chi è che vi comandava?<br />

I tedeschi impartivano gli ordini, ma erano alcuni dei prigionieri a farli eseguire.<br />

Le SS erano costituite da volontari reclutati anche dalle prigioni. Poi c’erano le ausiliarie,<br />

che erano cattive come la peste. Non contavano nulla, nel senso che gli ordini<br />

li davano gli uomini, ma erano più feroci delle SS.<br />

Rudolf Höss, il comandante di<br />

Auschwitz.<br />

Gerhard Palitzsch, vice comandante<br />

di Auschwitz.<br />

A fare da tramite tra le SS e le prigioniere erano delle detenute, soprattutto polacche,<br />

contrassegnate con il triangolo verde.<br />

Ad Auschwitz ognuna aveva cucito sul vestito un triangolo il cui colore indicava<br />

la provenienza della persona. Quello verde era dei criminali comuni: difatti le nostre<br />

blocove erano quasi tutte galeotte. Il viola era il colore degli omosessuali, mentre il<br />

nero delle donne di strada. Il rosso per i politici, le donne con il triangolo rosso erano<br />

pochissime.<br />

35<br />

Maria Mandel, comandante del<br />

<strong>La</strong>ger femminile di Birkenau.


Tredici ore al giorno di estenuante lavoro, compensato<br />

solo da pochissima zuppa ed un piccolo pezzo di pane<br />

spesso secco o ammuffito. Così i deportati erano ridotti<br />

in breve tempo allo stremo delle forze.<br />

Erano folli anche gli esperimenti<br />

che facevano. Cosa serviva sterilizzare<br />

la gente, mettere un pezzo d’osso ad<br />

una persona dopo averlo tolto ad<br />

un’altra, immergere la gente nell’acqua<br />

fredda e tutte quelle altre cose che<br />

facevano? Certo è che ai tedeschi<br />

faceva comodo perseguitare gli ebrei,<br />

perché è con il loro oro che hanno<br />

potuto fare la guerra. E questa è una<br />

cosa che dicono tutti.<br />

Vicino al triangolo c’erano<br />

l’iniziale del paese di provenienza e il<br />

Mi ricordo che c’erano tante che portavano<br />

il triangolo giallo di ebrea assieme a quello<br />

rosso di politica. Il motivo era che se una donna<br />

aveva sposato un ebreo, veniva accusata di aver<br />

rovinato la razza e considerata di razza mista…<br />

perché quel pazzo di un Führer voleva creare la<br />

razza pura. Però poi, nella sua folle mentalità,<br />

era capace di togliere il sangue agli ebrei e di<br />

tenerlo da parte per i tedeschi, infatti frequentemente,<br />

quando tra i nuovi arrivati c’erano<br />

persone in buone condizioni di salute, anche se<br />

ebrei, e quindi per loro di qualità inferiore,<br />

venivano effettuati dei prelievi di sangue utilizzato<br />

poi nelle trasfusioni ai feriti tedeschi.<br />

Il castello di Hartheim dove furono trasferiti migliaia di deportati<br />

usati come cavie per inumani esperimenti con pretese scientifiche.<br />

Nessun deportato riuscì ad uscirne vivo<br />

numero che bisognava tenere sempre in vista. I numeri erano progressivi: quelli che<br />

comandavano l’avevano basso. Quando i presenti sono diventati tanti, hanno cominciato<br />

a numerare gli ebrei a parte.<br />

Le persone che erano entrate tra le prime ed erano sopravvissute occupavano un<br />

posto di comando. Stavano bene, almeno rispetto a noi altre, e godevano un trattamento<br />

preferenziale: per esempio, quando si tagliava il pane la razione più grande era<br />

per loro, quando distribuivano la zuppa a loro toccava il fondo perché era più sostanzioso.<br />

Poi avevano amicizie in cucina e vestivano sempre bene, portavano lo stesso<br />

la divisa a strisce ma con una bella maglia di lana sotto, sempre impeccabili...<br />

Le stubove e le blocove avevano stanze proprie.<br />

Dormivano un paio per stanza in due camerette poste all’ingresso della baracca;<br />

quando si passava lì vicino e la porta era un pò aperta, si vedevano le imbottite e tante<br />

buone cose.<br />

36


Gli esperimenti<br />

Eravate al corrente degli esperimenti del blocco 10?<br />

Sapevamo qualcosa, ma non parlando bene la lingua era difficile chiedere e capire,<br />

e questa era un’altra tortura. Certo, le parolacce le ho imparate in tutte le lingue.<br />

Mi ricordo che le russe ci dicevano: “Tu, puttana; io, svigna”. Cioè, la stessa cosa.<br />

Si capisce però che non si poteva contare solo su quelle due parole, e che parole<br />

poi, che avevamo imparato. Era la torre di Babele, c’era chi parlava in polacco, chi<br />

in tedesco, chi in russo, sloveno, francese.... e poi, gli ordini venivano dati in tedesco,<br />

nei blocchi comandavano le polacche, mentre la maggior parte delle prigioniere<br />

erano di origine russa.<br />

Quindi è molto facile immaginare la confusione che ci poteva essere.<br />

Le italiane erano maltrattate da tutte...non conoscendo la lingua, eravamo sempre<br />

lente a fare le cose… dopo, però, con quattro legnate capivamo tutto.<br />

L’italiano era calpestato, disprezzato e calunniato. Ci gridavano continuamente:<br />

“Italianko sciaiser, ni servai: danzia, esser e liben”, cioè: “Italiano pece, non lavorare:<br />

ballare, mangiare e fare l’amore”. Invece, non era vero niente. Perché, per dirla<br />

tutta, le donne polacche erano molto più sporche, nel senso della morale.<br />

Nel Blocco 10 avevano luogo le cosiddette<br />

“esperienze scientifiche” su “cavie umane”<br />

tenute, oltre che dal dott. Mengele, anche dai<br />

professori Schumann e Clauberg.<br />

Provavano sull’organismo umano l’effetto di<br />

nuovi preparati prodotti dalle industrie farmaceutiche<br />

tedesche.<br />

Un esperimento, forse quello compiuto con<br />

più frequenza, era la sterilizzazione. Consisteva<br />

nel sottoporre il detenuto maschio a radiazioni<br />

di intensità crescente, fino a che il medico ne<br />

accertava la definitiva distruzione delle facoltà<br />

generative; il passaggio successivo era quello di<br />

condurre il prigioniero sottoposto a tale esperimento<br />

alla camera a gas.<br />

Sulle detenute donne invece l’esperimento di<br />

sterilizzazione consisteva nel sottoporle all’azione<br />

dei raggi Roentgen, i quali venivano diretti<br />

sulle ovaie, le quali venivano rapidamente<br />

distrutte, e sul ventre si formavano ulcere e piaghe<br />

dolorose.<br />

A volte venivano asportate anche le ghiandole<br />

sessuali, con la conseguente morte atroce<br />

della cavia.<br />

37<br />

Un esperimento di decompressione su una cavia<br />

umana.


Organi femminili venivano asportati<br />

per essere sostituiti con organi<br />

artificiali, oppure si effettuavano<br />

fecondazioni artificiali per poi procurare<br />

l’aborto o, come in alcuni casi, si<br />

faceva andare avanti la gravidanza<br />

per poter effettuare continui esperimenti<br />

che procuravano l’inevitabile<br />

morte del feto ed anche della mamma.<br />

Si inoculavano ai detenuti scelti<br />

per l’esperimento malattie come il tifo<br />

Bambini il cui destino è stato quello di essere usati per atroci esperimenti<br />

“scientifici” comandati dal dott. Mengele, il quale a tale<br />

scopo ha barbaramente martoriato il loro corpo.<br />

o il cancro, per poi verificare l’efficacia o l’inutilità dei nuovi metodi di cura.<br />

C’erano poi anche prove di resistenza; ad esempio: quanto tempo una cavia<br />

potesse vivere dal momento in cui le venisse somministrata esclusivamente acqua<br />

salata, oppure quale potesse essere la resistenza dell’organismo umano immerso in<br />

acqua gelata o la rapidità con cui un essere umano morisse sotto l’azione di diversi<br />

tipi di ustioni.<br />

Si verificò la resistenza umana al digiuno o all’alimentazione forzata, portando<br />

le cavie a nutrirsi ingozzandole fino a farle scoppiare.<br />

Il dott. Mengele salvava regolarmente al loro arrivo le coppie di gemelli assieme<br />

alle loro madri. Essi venivano poi sottoposti a speciali studi sulla procreazione con<br />

l’intento di trovare un sistema per rendere<br />

prolifica la razza germanica, “razza eletta”,<br />

visto che era stata decimata dalla<br />

guerra. I continui prelievi di sangue ai<br />

quali venivano sottoposti, così come le<br />

iniezioni e gli esami clinici, avevano spesso<br />

per loro esito letale.<br />

Ma quale poteva essere lo scopo di<br />

questi esperimenti… ed altri… così atroci,<br />

se non quello dello sterminio?<br />

cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />

Baldini & Castoldi - Milano 1969.<br />

E quale la ragione di tutto ciò su povera<br />

gente completamente ed assolutamente<br />

innocente?… Ed anche se fosse stata mai<br />

colpevole di qualcosa… avrebbe potuto<br />

meritare tutto questo? O ciò non sarebbe<br />

mai dovuto e potuto essere inferto nemmeno<br />

al peggior criminale di questa<br />

terra?<br />

38<br />

Coppie di gemelli selezionati dal dott. Mengele.


Le parole non possono descrivere…<br />

Che cosa ricorda dei primi giorni di permanenza<br />

ad Auschwitz?<br />

E’ difficile trovare le parole... è difficile da spiegare…<br />

non riesco ancora a capire come abbiamo<br />

fatto ad accettare quella situazione; il nostro “io” era<br />

completamente annientato, umiliato… non ci rendevamo<br />

conto di quello che ci stava accadendo e perché...<br />

I primi giorni... forse…, dopo non eravamo più<br />

persone, non eravamo più niente.<br />

Mi ricordo che ci chiedevamo: “Cosa abbiamo<br />

fatto? Che cosa ci aspetta?”. Ma non trovavamo<br />

risposta alle nostre domande… no! Non riesco proprio<br />

a spiegarmi come abbiamo potuto accettare<br />

quella situazione.<br />

In seguito, siete riuscite a farlo? Nessuna ha<br />

provato a ribellarsi, a resistere alla regressione a<br />

cui eravate sottoposte?<br />

Eravamo diventate.... è difficile trovare la parola<br />

adatta... non eravamo più gente, non avevamo più la<br />

nostra personalità, non avevamo la forza e la voglia<br />

necessarie per batterci, e poi, come avremmo potuto<br />

farlo?<br />

Eravamo bestie,<br />

ragionavamo come<br />

asini: “Questo ci<br />

tocca e questo dobbiamo<br />

fare”. E guai se<br />

si aveva vicino una<br />

che non faticava, la si<br />

odiava. Perché sape-<br />

Cavalletto usato per le bastonature inferte per<br />

ogni futile mancanza da parte dei prigionieri. Il<br />

numero ufficiale di colpi per la punizione era<br />

25 ma spesso ne venivano inferte anche 75 causando<br />

la morte del punito.<br />

vamo che avremmo dovuto fare anche la sua parte,<br />

altrimenti ci avrebbero massacrato di botte.<br />

Dopo la quarantena, che lavoro ha svolto?<br />

Ho continuato a lavorare nei campi. Ma era faticosissimo.<br />

Per esempio, quando si trebbiava dovevamo<br />

fare le cose in una certa maniera, lavorare con macchine<br />

apposite… e chi le aveva viste mai? Chi<br />

l’aveva fatto mai?<br />

39<br />

Quando le SS non facevano in tempo a bruciare<br />

nei forni crematori i prigionieri morti nelle<br />

camere a gas, i loro cadaveri venivano ammucchiati<br />

all’esterno... così i vivi camminavano in<br />

mezzo a montagne di morti...


Dovevamo trebbiare, poi zappare e infine appianare il campo in un certo modo,<br />

e guai se la superficie non era liscia, una briciola fuori posto e facevano finire il<br />

mondo!<br />

Ma a che cosa serviva, poi, appianare la terra come un foglio?! Non era una tortura<br />

quella?<br />

Poi, quando le piantine seminate cominciavano a crescere, bisognava stare lì per<br />

tirare via le erbacce, ma Santo Dio, anche nel Vangelo c’è scritto che bisogna far crescere<br />

assieme la zizzania e il grano! Invece no, noi dovevamo separare le piantine<br />

dalla zizzania, e non eravamo neppure capaci!<br />

Ci avevano fatto vedere come dovevamo fare, ma quando si strappava si portava<br />

via tutto. Dovevamo farlo stando chine sulle gambe, guai ad accovacciarsi! Ma dopo<br />

ore e ore in quella posizione...<br />

Una volta, ero più avanti rispetto alla <strong>mia</strong> amica e, siccome ero stanca, ho provato<br />

ad accovacciarmi… quante botte ho preso!<br />

Ho fatto appena in tempo a vedere la kapò venire verso di me che già menava<br />

sberle con il bastone. Mi ha colpita proprio sotto la faccia e in un modo...<br />

Insomma, mi ha fatto capire che così non dovevo lavorare.<br />

Dietro di me c’era la <strong>mia</strong> amica Gina. Con la <strong>mia</strong> amica si divideva tutto, anche<br />

le botte. Se lavoravamo assieme, bene, ma se eravamo a lavorare in kommandi diversi,<br />

la sera ci chiedevamo: “Le hai buscate te?”.<br />

“E te?”.<br />

Allora il giorno dopo quella che non le aveva prese doveva prenderle perché si<br />

doveva pareggiare il conto.<br />

Quando ha visto la kapò picchiarmi, la <strong>mia</strong> amica mi ha detto: “Non piangere, eh,<br />

non piangere”.<br />

Visto che le brutte parole là si dicevano, ho risposto: “Per una puttana così, non<br />

piango”. Pensavamo che la Kapò non avesse capito, ma lì le parolacce si imparavano<br />

in tutte le lingue, così me ne diede un’altra razione, ed anche la <strong>mia</strong> amica fu riempita<br />

di botte, così eravamo pari!<br />

Dividevamo tutto, anche le cose più insensate. Quando si trebbiava, se si lavorava<br />

accanto agli uomini si era fortunate, ma se si lavorava dietro le macchine, che tortura!<br />

Perché le macchine erano veloci e noi, che dovevamo raccogliere subito il grano<br />

e poi legarlo, non ce la facevamo. Poi guai a lasciar fuori un filo: finiva il mondo! I<br />

covoni dovevano essere belli precisi, allineati diritti uno dietro l’altro. Quando potevamo,<br />

però, qualche spiga ce la mettevamo in tasca, oppure l’ingoiavamo direttamente<br />

così.<br />

In Auschwitz appena potevamo rubavamo qualcosa da mangiare. Ad esempio, le<br />

rape o le patate che conservavamo dentro i canali che scavavamo noi; quando i sorveglianti<br />

erano voltati, afferravamo qualche rapa e, dopo averla pulita un po’, la mangiavamo<br />

così, cruda e ancora sporca di terra. Meno male che non ci siamo buscate<br />

nulla!<br />

Si vede che avevamo dei buoni anticorpi, altrimenti...<br />

Una cosa devo ammetterla: qui da noi non sanno come conservare le patate, inve-<br />

40


ce in Germania sì. Scavavamo un fosso, poi mettevamo uno strato di patate, uno di<br />

paglia, poi ancora di patate, concludendo con la terra. A primavera, quando le tiravamo<br />

fuori, le patate erano ancora buone.<br />

Scusi la banalità della domanda, ma che cosa la spingeva a rubare?<br />

<strong>La</strong> fame e la necessità. Non si poteva vivere con quella miseria che ci davano,<br />

dovevamo per forza organizzarci, dovevamo rubare.<br />

Chi non era capace vendeva una porzione di zuppa, di margarina o di salame e si<br />

procurava un cucchiaio, una fetta di pane, carta, spago...<br />

Quando lavoravo in campagna, dove ho scavato fossi per interrare le patate e<br />

canali di scolo per dragare Auschwitz di tutto il fango che la sommergeva, poichè<br />

Auschwitz era una vera palude, mi ingegnavo per rubare le patate, le rape bianche,<br />

le fave secche, perfino la cicoria selvatica.<br />

Qualche volta nascondevamo il bottino tra le pieghe del grembiule, ma per paura<br />

di essere scoperte o derubate mangiavamo subito quello che avevamo preso. Nel<br />

lager, invece, si rubava la zuppa. Solo che bisognava stare attenti. I barili di zuppa<br />

erano portati dal kommando addetto, scortato quasi sempre dalle SS.<br />

Capitava però a volte che passavano sette o otto barili con una sola SS di guardia<br />

così, se lei andava avanti, si poteva organizzare qualcosa. Bisognava però stare attenti<br />

agli addetti al trasporto; se il bidone era portato da quattro persone, era difficilissimo<br />

rubare, ma se lo portavano in due, e uno lasciava la presa, allora...<br />

Quelle del kommando della zuppa erano quasi tutte raccomandate, non facevano<br />

lavori pesanti e godevano di trattamenti di favore. Erano quasi tutte polacche, magari<br />

dello stesso trasporto o dello stesso paese; si intendevano a meraviglia, e così facevano<br />

il comodo loro.<br />

Io avevo “organizzato” una latta, e mi appostavo nel punto giusto, magari in un<br />

fosso; se fossi stata scoperta, e quelle del kommando avessero strillato per fare accorrere<br />

le SS, non avrei avuto scampo, per me ci sarebbe stato il bunker, dove lasciavano<br />

morire i prigionieri di fame, di sete, di stenti.<br />

Un giorno siamo rientrate presto; mentre parlavo con la <strong>mia</strong> amica, che non era<br />

capace di rubare nemmeno un filo d’erba, ho visto passare la zuppa delle SS.<br />

Ho riconosciuto subito il bidone, perché quelli delle SS erano piccoli e di solito<br />

venivano portati da due persone soltanto. <strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica ha visto i miei occhi che<br />

seguivano le addette e la SS, così mi ha detto preoccupata: “Non ti permettere, guai<br />

a te. Se ti ammazzano io non piango mica, sai?”<br />

Forse era il Signore che mi rendeva invisibile quando facevo quelle cose, chissà...<br />

fatto sta che quando sono passata vicina al barile, la tentazione è stata troppo forte,<br />

così ho cacciato la mano dentro.<br />

Le SS si sono messe a strillare: “Svigna! Curva!”, tutte le parolacce possibili ed<br />

immaginabili.<br />

Ma io ero già dentro il fosso, uno di quelli che anch’io avevo scavato.<br />

<strong>La</strong> SS, quando si è voltata, non mi ha vista.<br />

Così quel giorno abbiamo mangiato una bella zuppa bianca, perché le SS man-<br />

41


giavano bene, era zuppa di orzo bianco, una vera specialità.<br />

<strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica strillava, però, poi l’ha mangiata con me, perché sapeva che altrimenti<br />

non l’avrei mangiata nemmeno io.<br />

Mi è sempre andata bene: si vede che il mio Angelo Custode mi proteggeva, o che<br />

forse, semplicemente, doveva andare così.<br />

Ma non rubavamo solo il mangiare... eravamo sprovviste di tutto, non avevamo<br />

niente. Per esempio, la zuppa la mangiavamo come fanno le bestie. Per avere il cucchiaio<br />

bisognava sacrificare una mezza razione di pane; si andava da chi lo rubava o<br />

lo fabbricava e lo si comprava; poi, raschiando il manico sui sassi, lo rendevamo affilato<br />

e lo usavamo come coltello.<br />

Anche la gamella era “organizzata”, e se serviva un bottone per aggiustare la divisa<br />

lo rubavamo, oppure vendevamo una razione di zuppa o di margarina. <strong>La</strong> stessa<br />

cosa accadeva per il mangiare; se si voleva un altro po’ di zuppa, bisognava rivolgersi<br />

alle blocove e sacrificare qualche altra cosa.<br />

42


Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura,<br />

la distruzione morale…<br />

Mi può descrivere il campo?<br />

Io e le mie amiche siamo state a Birkenau, era Auschwitz 2,un campo più piccolo<br />

all’interno del territorio di Auschwitz, in cui c’erano molte donne.<br />

Anche le SS che ci comandavano erano quasi tutte donne, mentre quelle che sorvegliavano<br />

il campo e che ci scortavano al lavoro erano uomini.<br />

Il campo di Auschwitz era immenso, una cosa pazzesca; quando si doveva andare<br />

dal lager A al lager B, c’era da fare una bella scarpinata. C’erano i lager A, B e<br />

C, il revier, la ferrovia, il campo degli zingari...<br />

Quando sono tornata ad Auschwitz con l’associazione di Milano, le baracche del<br />

lager A c’erano tutte; invece, quelle del lager B e C erano state bruciate.<br />

Ogni lager era recintato dal filo spinato; se una voleva andare da un campo all’altro<br />

doveva attraversare i reticolati. Però, siccome i fili erano attraversati dall’alta tensione<br />

giorno e notte, non era possibile scavalcarli, bisognava per forza passare dai<br />

cancelli. Ma quelli erano sorvegliati dalle SS e dai cani.<br />

I selezionati sulla rampa della stazione di Birkenau<br />

stanno per salire sugli autocarri che li porteranno<br />

alle camere a gas.<br />

Nel momento in cui il numero dei<br />

deportati aveva raggiunto cifre elevate,<br />

dovettero suddividere il territorio<br />

di Auschwitz in 3 grandi unità:<br />

Auschwitz 1, che era il Campo<br />

Base.<br />

Auschwitz 2, chiamato Birkenau,<br />

che si può dire fosse un campo di<br />

smistamento e di sterminio dove i<br />

prigionieri non svolgevano alcun<br />

lavoro utile alla guerra, ma in esso i<br />

Questa foto illustra la tragedia che si svolgeva all’arrivo di<br />

ogni convoglio di deportati alla stazione di Auschwitz-Birkenau.<br />

I crematori IV e V di Birkenau durante la loro costruzione.<br />

43


detenuti servivano solo a mantenere<br />

in funzione il campo che era<br />

una vera e propria fucina di<br />

morte.<br />

Auschwitz 3, che comprendeva<br />

altri sotto-campi di lavori forzati<br />

dove c’erano fabbriche di<br />

prodotti industriali ed armamenti;<br />

qui almeno i prigionieri erano al<br />

riparo dalle intemperie, anche se<br />

erano costretti a lavorare dodici<br />

ore al giorno.<br />

Come si svolgeva la vita ad<br />

Auschwitz?<br />

Filo spinato percorso dall’alta tensione.<br />

<strong>La</strong> sveglia era verso le tre, le<br />

tre e mezza. Dopo che la blocova ci aveva sbattute giù dal pagliericcio a maleparole,<br />

dovevamo riordinare quel giaciglio che avevamo per letto, e che non avrei dato<br />

per dormire nemmeno al mio cane, facendo bene attenzione agli angoli che dovevano<br />

essere squadrati al millimetro. Poi, si faceva la fila al gabinetto; certe mattine era<br />

così freddo che si rinunciava volentieri a lavarsi.<br />

Infine dovevamo metterci in fila per l’appello.<br />

L’appello era una vera tortura, perché non finiva mai; ore e ore immobili, fisse,<br />

con il sole, la neve o la pioggia, senza la possibilità di muoversi o di scambiare una<br />

parola con le altre.<br />

Giustamente, dopo un po’ i muscoli delle gambe si indolenzivano. Ma non ci si<br />

poteva mica abbassare per massaggiarsi, erano guai! Erano botte! Poi, ci davano un<br />

mestolino di caffè, almeno ci scaldavamo.<br />

Prima di uscire, però, ci contavano un’altra volta. Poi, a passo di marcia ci avviavamo<br />

verso il cancello, gonfiando i muscoli e cercando di assumere un’aria marziale,<br />

era una cosa pietosa, viste le nostre condizioni.<br />

A mezzogiorno circa ci fermavamo per mangiare, avevamo solo un quarto d’ora<br />

di tempo, ma per quello che ci davano era più che sufficiente.<br />

<strong>La</strong> zuppa era immangiabile, magari l’avevano portata quelle del kommando alle<br />

sette del mattino, perciò alle dodici era fredda e indigesta.<br />

Rientravamo prima che tramontasse il sole, quindi d’estate lavoravamo più dell’inverno.<br />

Appena rientrate, dovevamo andare all’appell serale; certe volte stavamo lì per<br />

ore, stanche, intirizzite dal freddo, senza neanche poter mangiare. Poi, la sola cosa<br />

che volevamo fare era dormire, così ci buttavamo esauste sul pagliericcio.<br />

Anche la disinfestazione era una tortura, per farla ci facevano saltare la “cena”.<br />

Una volta alla settimana ci facevano fare il bagno e ci sterilizzavano i vestiti per<br />

paura che scoppiassero delle epidemie, ma dovevamo aspettare ore prima che ce li<br />

44


estituissero, e non sempre erano quelli che avevamo dato loro; quando li indossavamo<br />

erano ancora caldi e puzzavano di disinfettante, una cosa stomachevole.<br />

Se i conti non tornavano, era scappato qualcuno; allora bisognava restare in piedi<br />

finché le cose non fossero andate a posto; una volta, mi pare che fosse il mese di gennaio,<br />

i conti appunto non tornavano. Allora ci hanno fatto restare fuori, senza vestiti<br />

e senza mangiare, finché non hanno trovato quelli che mancavano.<br />

Ho letto su alcuni libri che certi appelli duravano anche giorni interi!<br />

Quando si voleva punire qualcuno, di solito si costringeva tutta la baracca a stare<br />

fuori all’aperto; era un supplizio, una cosa tremenda. Erano dei barbari!<br />

Ad Auschwitz faceva freddo e pioveva continuamente. Spesso capitava che diluviava<br />

e, mentre eravamo dentro al coperto, suonava il fischietto: “Appell!”. Così<br />

dovevamo uscire ed aspettare sotto l’acqua che facessero l’appello…<br />

Oppure facevamo appena in<br />

tempo a tornare dal lavoro e a fare<br />

l’appello che l’acqua cominciava a<br />

scendere giù a catinelle, e quando<br />

pensavamo di essercela scampata,<br />

suonava di nuovo il fischietto, così<br />

dovevamo tornare tutti fuori, e<br />

rimanerci anche due o tre ore.<br />

Spesso dovevamo lavorare sotto<br />

la pioggia, bagnati fin dentro le<br />

ossa... poi, appena si rientrava, si<br />

strizzava il cencio che avevamo<br />

addosso e ci si sdraiava sopra di<br />

esso per farlo asciugare... guai se lo<br />

avessero visto le SS, sarebbero<br />

state botte a non finire!<br />

Adesso soffro terribilmente di<br />

dolori; ne soffrivo anche là, un<br />

<strong>La</strong> drammatica cerimonia dell’appello.<br />

giorno mi sono svegliata e non mi potevo muovere, ma ho pensato che per fortuna<br />

era domenica e non si doveva andare a lavorare… non ho fatto in tempo a pensarlo<br />

che proprio quella domenica ci chiamarono e ci incolonnarono per andare a lavorare<br />

fuori.<br />

Fino al cancello mi hanno aiutata le mie compagne, perché da sola non ce l’ avrei<br />

fatta, ma davanti alle SS dovevamo sfilare a passo di marcia, diritte e marziali. Quando<br />

siamo uscite, ci hanno fatto fare qualche giro e poi ci hanno fatte rientrare; allora<br />

sono andata dalla blocova, le ho cercato di spiegare che non stavo bene e lei mi ha<br />

messa in lista per le visite del giorno dopo, costringendomi, anche se stavo malissimo,<br />

ad andare a lavorare ugualmente! Sono andata al revier, dove mi hanno fatta spogliare<br />

e mi hanno dato un termometro che avrei dovuto mettere nell’ano… ma io non<br />

avevo capito e l’ ho tenuto in mano, poi gliel’ho restituito; la blocova mi ha dato un<br />

biglietto dicendomi che la sera dopo sarei dovuta tornare. Quando sono tornata, mi<br />

45


hanno fatto segno che avrei dovuto stendermi dentro una cassa da morto piena di<br />

lampadine. Io ero spaventata, e non ci sono più voluta andare.<br />

Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.<br />

<strong>La</strong> parte più amara e più tragica della terribile esperienza dei campi<br />

d’internamento era senza dubbio quella toccata alle donne ed ai bambini.<br />

Il campo femminile di Auschwitz-Birkenau, sorto per volere di Himmler nell’anno<br />

1942, doveva accogliere tutte le donne ebree deportate, comprese quelle che già<br />

si trovavano nel <strong>La</strong>ger di Ravensbrück, poi vi vennero internate anche donne non<br />

ebree.<br />

Anche per esse la Selezione si svolgeva all’arrivo, nel consueto modo brutale. In<br />

presenza di numerose SS che continuamente dicevano frasi sarcastiche e volgari,<br />

dovevano spogliarsi interamente e subire un minuzioso controllo genitale e rettale<br />

per accertare che non vi avessero nascosto oggetti preziosi. Poi le scampate alla<br />

Selezione venivano tatuate e rapate ma in modo così irregolare da rendere il loro<br />

aspetto grottesco e pietoso. Ricevevano poi dei vestiti laceri e sudici, in uno stato tale<br />

da farle sembrare spaventapasseri. Così entravano nel <strong>La</strong>ger.<br />

Se tutte le donne del mondo civile meditassero su quale dovesse essere lo stato<br />

d’animo di quelle povere sventurate, strappate alla loro vita familiare e sottoposte<br />

ad un trattamento così umiliante che feriva i loro intimi sentimenti di pudore e le<br />

riduceva a fantasmi cenciosi!<br />

Venivano stipate in tetre baracche puzzolenti, conducendo una vita d’inferno.<br />

Nelle cuccette dei “castelli” giacevano strette una all’altra in un sudiciume indescrivibile<br />

e le “installazioni igieniche” loro riservate erano ancora più scarse e forse<br />

peggiori di quelle esistenti nel campo maschile.<br />

Il loro ciclo mensile spariva per effetto di misteriose medicine mescolate al cibo,<br />

e come conseguenza di ciò, il loro corpo si ricopriva di pustole, foruncoli ed ascessi.<br />

Avevano l’interno della bocca pieno di<br />

vesciche.<br />

Per quanto riguarda il loro impiego nel<br />

lavoro, le detenute che non venivano scelte<br />

per essere trasferite nelle industrie e nei servizi<br />

dell’organizzazione del campo erano sottoposte<br />

a compiti gravosi che comportavano<br />

fatiche e sforzi cui, per la maggior parte,<br />

erano assolutamente inadatte… ed a volte,<br />

recandosi al lavoro o tornando da esso,<br />

erano costrette a cantare altrimenti erano<br />

riempite di botte.<br />

Le Kapos destinate alla disciplina erano<br />

quasi sempre giovani e robuste, ben vestite e<br />

con un frustino tra le mani. Venivano inviate<br />

espressamente a Birkenau da altri campi, ed<br />

46<br />

Donne e bambini ebrei incolonnati mentre attendono di<br />

essere condotti al loro triste destino.


erano generalmente “triangoli verdi”, cioè rifiuti di galera, capaci di superare i loro<br />

colleghi uomini in fatto di crudeltà e depravazione.<br />

I tormenti e le sevizie fisiche e morali cui sottoponevano le prigioniere abbandonate<br />

al loro arbitrio erano quanto di più atroce potrebbe escogitare la mente di un<br />

pazzo sanguinario.<br />

Schiaffi, pugni, calci, frustate, venivano distribuiti abitualmente per ogni futile<br />

motivo ed anche senza motivo. Le Kapos si scatenavano per niente, si scagliavano<br />

come furie sulle prigioniere e strappavano loro le vesti, le graffiavano, le mordevano…<br />

a volte le facevano correre all’aperto, nude, seguite da una Kapo che con un<br />

frustino le colpiva nelle parti intime.<br />

Molte prigioniere, troppo prostrate dall’avvilimento e dalla disperazione, si<br />

lasciavano morire per finirla con quell’inferno.<br />

In un punto appartato del campo era stato installato un luogo ad uso delle SS del<br />

<strong>La</strong>ger e dei militari di passaggio. Sceglievano le donne più giovani e belle fra le<br />

internate e queste povere ragazze, dopo aver ricevuto un corredo nuovo di biancheria<br />

che potevano cambiare frequentemente, avevano l’obbligo di intrattenere le SS<br />

del campo ed i soldati tedeschi diretti al fronte… il “cliente” che rimaneva insoddisfatto<br />

delle prestazioni di una ragazza poteva fare rapporto al Comando, così che la<br />

donna veniva mandata alle camere a gas.<br />

Le donne in stato interessante venivano destinate all’arrivo alle camere a gas.<br />

A causa della denutrizione e delle pessime condizioni igieniche del campo qualsiasi malattia era pericolosa.<br />

Quando il medico di servizio alla Selezione non riusciva a riconoscere lo stato di<br />

gravidanza delle deportate, esse venivano giudicate valide al lavoro ed entravano<br />

nel campo.<br />

Esse facevano l’impossibile per mascherare le loro condizioni e spesso riuscivano<br />

a non farsi scoprire fino al sopraggiungere delle doglie… ma, al verificarsi del<br />

parto, sia la mamma che il neonato finivano al crematorio.<br />

Cosa le davano da mangiare?<br />

Ah, per carità! Al mattino ci avrebbero dovuto dare mezzo litro, ma non era nemmeno<br />

un quarto, di un liquido sporco che chiamavano caffè; se non altro, smorzava<br />

47


la sete, perché non avevamo la possibilità di bere niente.<br />

A mezzogiorno ci davano della zuppa, una specie di brodaglia con dentro di tutto:<br />

bucce di patata oppure torsoli di rapa, magari raccolti dalla spazzatura. Qualche volta<br />

c’era un filo di pasta, ma uno di numero, oppure un pezzettino di carne che, a ripensarci<br />

adesso, chissà che carne fosse...non riuscivo a mangiarla perché si diceva che<br />

fosse la carne degli ebrei.<br />

<strong>La</strong> sera, dopo che eravamo rientrate dall’appello, ci davano un pane tipo panecarré.<br />

Noi lo dividevamo in quattro, e poi ci spalmavamo sopra un cucchiaino di marmellata<br />

o un pezzettino di margarina. Oppure ci davano una fettina di salame sottile<br />

come l’ostia… alcune dicevano che fosse fatto con la carne degli ebrei.<br />

Una volta mi ricordo che ci hanno dato un semolino grigio e puzzolente; era così<br />

strano che qualcuna ha detto che era fatto con la cenere dei morti.<br />

Quelle che lavoravano nelle baracche, le raccomandate, prendevano per sé o per<br />

le loro clienti la parte migliore della zuppa, la parte finale, che era sempre più densa<br />

perché non si rimescolava mai il bidone. Quelle brutte bestie avevano le loro clienti<br />

che, per un mestolino di zuppa in più, cedevano la fettina di salame o la margarina;<br />

quello era il modo di vivere lì. Ognuna si organizzava come poteva.<br />

C’erano alcune prigioniere, come le russe o le polacche, che ricevevano dei pacchi<br />

da casa. Una russa una volta mi venne vicina e mi fece vedere che aveva dell’aglio,<br />

una cosa preziosissima perché lo si poteva strusciare sul pane facendogli cambiare<br />

quel brutto sapore che aveva. Premetto che io ho sempre odiato l’aglio, quindi<br />

quando lei me lo offrì ed io faci segno di no con il capo, pensò che non lo volessi perché<br />

non avevo nulla da darle in cambio, allora quella povera creatura mi fece intendere<br />

che me lo avrebbe dato senza volere niente.<br />

Mi disse: “Nema, nema gleba”. Cioè: “Niente pane”. Alla fine capi perchè lo rifiu<br />

tavo; ma quando lo hanno saputo le mie compagne, avrebbero voluto mangiarmi.<br />

“Quanto sei stata stupida!” mi dissero. Perché per loro giustamente quella era una<br />

cosa rara, per averlo bisognava barattare due porzioni di pane.<br />

Per chi non riceveva pacchi o non aveva amicizie influenti era più difficile, allora<br />

si strappavano le cicorie che crescevano spontanee in campagna e alla sera si mettevano<br />

dentro la zuppa, ancora sporche di terra.<br />

Quando capitava di lavorare vicino alla stalla ci si ingegnava per afferrare qualche<br />

manciata di fave. Ma era un rischio tremendo, peggiore delle malattie che potevamo<br />

buscarci mangiando quelle erbe strane.<br />

All’inizio, durante la settimana distribuivano anche una doppia razione di pane, e<br />

comunque si riusciva sempre a rubare qualche cosa. Dopo, a mano a mano che il<br />

numero dei prigionieri aumentava, le cose peggiorarono; mi ricordo che prima dividevamo<br />

il pane in quattro, poi cominciammo a tagliarlo per sei, per otto, per dieci.<br />

Poco prima di partire lo dividevamo per ventiquattro, proprio una fettina minuscola<br />

a testa. E certe volte non ce lo davano nemmeno. Allora è cominciata la fame nera.<br />

A Ravensbrück era lo stesso.<br />

Per fortuna che ci hanno mandato a lavorare in fabbrica, dove la vita era migliore,<br />

ma quando il fronte è arrivato anche lì, è cominciata la fame. Non c’era più nulla<br />

48


da mangiare, la brodaglia di un litro, che invece era sempre di tre quarti, arrivò ad<br />

essere di mezzo litro, poi, alla fine, un quarto; era appena un mestolino, senza sale,<br />

senza bucce o torsoli.<br />

Il cibo era, quindi, una specie di moneta...<br />

Sì. Ogni cosa aveva un valore di mercato: per l’aglio occorrevano due porzioni di<br />

pane, mentre per una fetta di pane ci voleva un mestolo di zuppa.<br />

Un bottone poteva valere una mezza fetta di pane o un cucchiaino di marmellata...<br />

Dipendeva molto da quello che si trovava e da ciò che si aveva.<br />

Chi riceveva pacchi da casa, come le polacche e le russe, aveva chiaramente più<br />

possibilità di chi non aveva niente.<br />

In questo le italiane sono state molto penalizzate.<br />

E’ vero che dentro la bocca si formavano dei foruncoli?<br />

A me personalmente non è successo. Però, dicono che si formassero delle piaghe<br />

ulcerose e che fosse difficile mangiare e bere. Ma i foruncoli spuntavano anche sulla<br />

pancia, del resto, con tutta la sporcizia che ci davano!<br />

In alcuni libri c’è scritto che, per bloccare le mestruazioni, i tedeschi somministravano<br />

alle detenute degli strani intrugli mischiati al mangiare...<br />

Nessuna aveva più le mestruazioni, tranne le polacche che ricevevano i pacchi da<br />

casa e che non mangiavano le nostre schifezze; loro erano delle privilegiate.<br />

Tenevano per sé una piccola parte e vendevano o regalavano il resto alle proprie<br />

amicizie per mantenersele buone.<br />

Spesso però quei pacchi subivano una serie di razzie da parte delle kapò o delle<br />

blocove o di quelle molto influenti… sì, sicuramente dovevano mettere qualcosa nel<br />

mangiare, altrimenti non si spiega come più nessuna abbia avuto il proprio ciclo.<br />

49


Il dottor Mengele<br />

Ha mai incontrato il dottor Mengele?<br />

Sì. Lui presiedeva sempre alle selezioni, sia per mandare noi o gli ebrei ai forni,<br />

sia per scegliere quelli da vendere alle fabbriche.<br />

Da lui dipendevano milioni di vite umane.<br />

Ricordo che era un bel giovane, aveva un aspetto distinto e a prima vista non sembrava<br />

un criminale.<br />

Egli non visitava i prigionieri, li guardava soltanto, e decideva così, con fare indifferente,<br />

chi poteva ancora vivere e chi, invece, doveva morire.<br />

Noi lo conoscevamo come il dottore del campo, poi abbiamo saputo chi realmente<br />

fosse. Non era lui che ci curava!! Noi eravamo “aiutate” da dottori che erano<br />

anch’essi prigionieri perché, quando arrivavano i trasporti, i tedeschi chiedevano<br />

sempre se ci fossero tra i deportati dei medici. Quei poveri disgraziati si prestavano<br />

come potevano, con coscienza ma senza niente, nemmeno il disinfettante.<br />

Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.<br />

Joseph Mengele apparteneva alle formazioni SS. Era il medico-campo a Birkenau<br />

nel periodo delle più vaste e feroci operazioni di sterminio e vi rimase fino allo<br />

sgombero del campo all’avvicinarsi delle armate sovietiche.<br />

Era lo specialista della Selezione sia all’arrivo dei convogli sia dentro i blocchi<br />

di lavoro o dell’infermeria.<br />

Alle Selezioni procedeva in modo sempre estremamente sbrigativo. Ordinava ai<br />

detenuti di denudarsi e se li faceva sfilare davanti, passandoli in rivista. Nessuna<br />

considerazione di carattere clinico sembrava presiedere a certe sue scelte che spesso<br />

erano arbitrarie. Mengele era alto e robusto ed aveva un viso dai lineamenti regolari,<br />

ma con un’espressione estremamente dura e con un’impronta di crudeltà che<br />

quasi l’alterava. Ma in fondo non doveva essere altro che un debole ed un vile, perché<br />

gli internati polacchi affermavano che quando arrivavano ordini di ridurre drasticamente<br />

i quadri delle SS del campo per sopperire alle crescenti esigenze belliche,<br />

egli ricorreva a tutte le astuzie possibili per evitare di essere spedito al fronte. Quando<br />

i gruppi di SS partivano da Auschwitz per andare a combattere, Mengele aveva<br />

sempre qualche “missione speciale” da svolgere, per cui si rendeva indispensabile<br />

la sua permanenza a Birkenau… preferiva il compito di “provveditore delle camere<br />

a gas” a quello di combattente in prima linea.<br />

Mengele avrebbe dovuto essere processato quale responsabile della morte di<br />

milioni di prigionieri, ma dopo essere stato arrestato dagli alleati nel campo di Belsen,<br />

si ammalò di tifo e, durante la convalescenza, riuscì a fuggire.<br />

51


<strong>La</strong> fame<br />

Nel campo c’era del personale medico per le prigioniere? C’erano medicine?<br />

Sì, c’era un ospedale, ma per modo di dire...<br />

Ci potevamo andare solo se era proprio necessario, cioè se avevamo la dissenteria<br />

o almeno quaranta gradi di febbre.<br />

Per passare la visita bisognava chiedere il permesso alla blocova almeno la sera<br />

prima. Al mattino lei prendeva il numero delle persone che non sarebbero andate a<br />

lavorare, poi chiamava qualcuno per farle accompagnare in ospedale. Prima di entrare<br />

dentro la baracca dell’infermeria bisognava spogliarsi e aspettare nudi il proprio<br />

turno.<br />

Dopo la visita, se lo ritenevano necessario, ricoveravano. Ma il revier era<br />

l’anticamera della morte perché le selezioni avevano inizio sempre da lì.<br />

Vi si potevano curare solo le piaghe e la dissenteria, che a causa del mangiare che<br />

ci davano scorreva a fiumi.<br />

I malati venivano sistemati nei castelli 4 , sulle brandine dovevano starvi dalle due<br />

alle tre persone, e siccome tutte soffrivano di diarrea, è facile immaginarsi che cosa<br />

succedesse.<br />

Le medicine erano inesistenti, e i medici spesso erano costretti a dividere una<br />

compressa di aspirina tra più persone, ossia tra quelle che avevano possibilità di<br />

vivere, le altre erano abbandonate a sè stesse.<br />

Qualche volta riuscivano ad organizzare qualcosa grazie a quelli che lavoravano<br />

nei magazzini; frugando nelle valigie dei prigionieri, specie in quelle degli ebrei, era<br />

facile trovare aspirine, sonniferi, pomate contro i geloni e altri tipi di medicinali.<br />

Anche se era pericoloso, le addette al kommando “Canada”, cioè le persone che<br />

lavoravano nei magazzini dove depositavano ciò che veniva portato via ai prigionieri,<br />

se le mettevano in tasca e poi le facevano avere ai medici.<br />

Ma curare migliaia e migliaia di persone con così poco medicinale...<br />

In uno dei miei libri c’è la testimonianza di una dottoressa di origine russa internata<br />

ad Auschwitz: lavorava in un sanatorio a Sondrio e, dato che era ebrea,<br />

l’avevano deportata. Appena arrivò al campo, le SS chiesero se ci fossero dei medici,<br />

e lei si fece avanti.<br />

Quella povera creatura racconta di essersi trovata tante volte con una sola fiala in<br />

mano e nella condizione di dover decidere se far vivere questa o quell’ammalata, perché<br />

altrimenti la medicina non sarebbe bastata a nessuna; deve essere stata una cosa<br />

terribile.<br />

Io, grazie a Dio, non sono mai entrata nel revier. E pensare che dentro Mauthausen<br />

una SS mi fece capire che ero tanto magra e malconcia da non avere alcuna possibilità<br />

di sopravvivere. Invece non mi sono ammalata e ce l’ ho fatta.<br />

Quando cominciavo ad avere un po’ di dissenteria, per qualche tempo smettevo di<br />

mangiare, avevo la forza di farlo, tanto, con quello che ci davano...<br />

Io ho conosciuto quella dottoressa, nel suo libro lei parla di me e della <strong>mia</strong> amica.<br />

4 Le detenute dormivano su tavolati disposti verticalmente, chiamati “castelli”.<br />

53


Non cita i nostri nomi, ma quando abbiamo letto l’episodio che ci riguardava abbiamo<br />

detto: “Queste siamo noi!”.<br />

Quel giorno eravamo fuori la baracca dell’ospedale… ci voleva del coraggio per<br />

chiamarlo così; ad un certo punto abbiamo visto i barili della zuppa fuori il revier.<br />

Allora ci siamo avvicinate per vedere se c’era rimasto qualcosa sul fondo… la zuppa<br />

era spessa e nessuno la rubava; c’era qualcosa che galleggiava. Immediatamente ci<br />

siamo messe a mangiare.<br />

Evidentemente la dottoressa ci deve aver viste, perché è uscita come una furia e,<br />

strillando, si è messa le mani nei capelli e ci ha detto: “No, ragazze, non mangiate: è<br />

lo sputo dei tubercolosi!”.<br />

“Ma noi abbiamo fame!”. Quando lei si è voltata, noi abbiamo continuato a mangiare.<br />

Non c’era niente da fare: avevamo fame!<br />

Bastava... che so, una buccia di patata per terra, e subito un milione di occhi gli<br />

erano sopra. E mentre nessuna voleva far capire di averla vista, piano, piano ci si<br />

avvicinava. Finché qualcuna la mangiava.<br />

Se trovavamo un pezzetto di pane nella spazzatura 5 , anche se aveva un dito di<br />

muffa, lo pulivamo bene e lo mangiavamo.<br />

Se si trovava in due qualcosa da mangiare, si litigava come bestie… si viveva<br />

odiandosi a vicenda, quasi non ci si poteva soffrire. Ci hanno fatto diventare peggio<br />

delle bestie.<br />

C’era anche il blocco degli infetti, che era circondato da un muro altissimo; la <strong>mia</strong><br />

amica aveva qualche foruncoletto sulla pancia e l’hanno portata lì… io non potevo<br />

permettere che ci separassero, così ho cominciato a grattarmi, facendo in modo che<br />

mettessero anche me dentro il blocco. Ricordo che uscivo saltando il muro, rubavo<br />

quello che potevo e poi rientravo dalla porta, perché entrare si poteva, uscire no! Ero<br />

diventata una brava ladra, sapevo organizzare bene le cose. Anche le foglie mettevo<br />

in bocca, e dicevo che, quando saremmo tornate a casa, ci avremmo fatto una bella<br />

insalata.<br />

5 Generalmente era quella dei prominenter; i detenuti normali non avevano nulla di cui disfarsi.<br />

54


Le lacrime<br />

Le persone di maggiore istruzione, come la dottoressa di cui mi ha parlato o<br />

Primo Levi, ricevevano un trattamento di favore?<br />

Mah, era tutta questione di fortuna. Primo Levi era stato scelto per lavorare in un<br />

certo modo perché era un chimico, ma poi gli hanno fatto fare un altro lavoro.<br />

Erano pochissimi quelli che potevano esercitare il proprio mestiere.<br />

I dottori, gli ingegneri e gli interpreti erano molto richiesti, anche se ebrei perché<br />

erano la razza più istruita; quando arrivava un trasporto, i tedeschi chiedevano subito<br />

se ce ne fossero.<br />

Sul treno che dall’Italia ci ha portato a Mauthausen c’era un signore che conosceva<br />

cinque lingue. Quando è arrivato al campo, i tedeschi gli hanno subito assegnato<br />

un posto importante. Mi hanno detto che poi è diventato un assassino come<br />

altri pezzi grossi, perché chi occupava una certa posizione poteva mantenerla solo<br />

ammazzando gli altri.<br />

Noi italiane eravamo quasi tutte povera gente, quei posti là toccavano sempre alle<br />

tedesche oppure alle polacche, perché originariamente il campo di Auschwitz era<br />

stato costruito per loro, quindi, finirono con l’occupare tutti i posti di capo-blocco, di<br />

kapò e di stubova.<br />

Le polacche erano cattive, anzi si può dire che erano più cattive delle tedesche:<br />

uno schiaffo dato da una SS si poteva anche tollerare, ma uno dato da una prigioniera<br />

no, assolutamente!<br />

Anche quelli che lavoravano negli uffici come impiegati di concetto avevano un<br />

trattamento a parte, lavorando gomito a gomito con i tedeschi, potevano lavarsi,<br />

indossare abiti puliti, portavano lo stesso la divisa, ma almeno era pulita; e poi si<br />

potevano permettere maglioni, mutande, calzettoni, tutto insomma, e potevano mangiare<br />

cose migliori delle nostre “prelibatezze”.<br />

Poi c’erano le kapò, cioè quelle che comandavano sul lavoro; erano tremende,<br />

organizzate e traffichine.<br />

Se per esempio arrivava un bidone con cento razioni, loro ne distribuivano solo<br />

settanta oppure ottanta; il resto lo mettevano da parte per commerciare.<br />

Invece la blocova o blockalsten comandava nei block, assieme a tre o quattro che<br />

erano le sue aiutanti, le stubove.<br />

Infine c’erano le raccomandate, amiche della blocova o di una stubova; dicevano<br />

di fare le “pulizie”, invece stavano tutto il giorno in baracca a far niente.<br />

Ogni tanto capitava di vedere in giro dei giovanetti di quindici o sedici anni ben<br />

vestiti e pasciuti, cattivi come la peste, ecco, quelli erano l’amante di un kapò. Fintanto<br />

che gli andava bene, venivano trattati con ogni riguardo e potevano permettersi<br />

ogni capriccio. Ma se il loro amico cambiava idea per loro sarebbe stata la camera<br />

a gas. Anche tra quelli che comandavano c’erano degli italiani; una volta eravamo<br />

in campagna a lavorare in un campo enorme; in mezzo c’era un grosso sasso, dove<br />

di solito si sedeva una SS con a fianco un cane. Un giorno ha chiamato noi italiane e<br />

55


ci ha detto che voleva che gli cantassimo la canzone “Mamma” in italiano.<br />

“Allora te sei italiano?”. Gli abbiamo domandato con rabbia.<br />

“Sì, perché?”.<br />

Non l’avesse mai detto, ci siamo scatenate! Le parolacce che gli abbiamo potuto<br />

dire...<br />

Di sicuro era uno che si era venduto per sopravvivere. Allora lui ci ha minacciate:<br />

“Lo sapete che cosa vi posso fare?”.<br />

Purtroppo lo sapevamo bene; se qualcuno faceva una cosa che non doveva fare,<br />

le SS lo accusavano di sabotaggio e gli prendevano il numero. E se all’appello serale<br />

lo chiamavano, era il bunker...<br />

...e da lì, difficilmente si usciva. Ma noi non abbiamo avuto paura, eravamo così<br />

abituate a guardare in faccia la morte che non ci siamo minimamente preoccupate.<br />

Anzi, certe volte quasi la si pregava, perché almeno, quella vita che non era più<br />

vita, sarebbe finita.<br />

Ricordo che ci siamo alzate la manica e gli abbiamo mostrato il braccio. “Ecco,<br />

prendi il numero se hai coraggio!”.<br />

Eravamo esasperate, non ci vedevamo più per la rabbia. Quando siamo rientrate,<br />

però, avevamo tutte paura.<br />

Invece non ci hanno chiamate.<br />

Un’altra raccomandata era la signorina Margherita. Era un triestina e conosceva<br />

ben cinque lingue. Siccome noi non capivamo quello che la blocova diceva, lei faceva<br />

da tramite. Per esempio, quando siamo arrivate in Auschwitz, la blocova ci ha<br />

fatto un discorsetto sulle regole del campo… e chi ci aveva capito qualcosa? Allora<br />

la signorina Margherita ci ha spiegato il significato di quelle parole: non si doveva<br />

bere, non si doveva pregare, non si doveva parlare durante l’appello… altrimenti si<br />

finiva al crematorio, non si doveva piangere...<br />

Invece si piangeva, e tanto! Ma le lacrime si ghiacciavano sul viso,e faceva<br />

più male... il respiro diventava una specie di barba di ghiaccio.<br />

56


Il “Kommando Canada”<br />

Indossava la divisa o abiti riciclati dai bagagli dei prigionieri?<br />

Fortunatamente, quando sono arrivata io c’erano ancora disponibili le divise;<br />

dopo, invece, hanno cominciato a distribuire gli avanzi dei vestiti rubati dalle nostre<br />

valigie o da quelle degli ebrei; le cose buone le spedivano in Germania.<br />

<strong>La</strong> divisa era costituita da una specie di camicione di cotone a righe, un paio di<br />

calze rotte e un paio di scarpe… siccome per loro non faceva differenza, poteva capitare<br />

di vedersele assegnate spaiate: due destre o due sinistre, una scarpa piccola e una<br />

grande, una da uomo e una da donna, uno stivale e un sandalo.<br />

Ogni tanto, in coincidenza con la disinfestazione, cambiavano la biancheria, nel<br />

senso che quello che levavo io lo davano ad un’altra e il suo lo davano a me… non<br />

la cambiavano certo per ridarcela pulita…<br />

Bene o male, si cercava di accontentarsi e di tenere quella roba un po’ da conto.<br />

Qualche volta si era costretti a sacrificare una fetta di pane per avere ago e filo con<br />

cui rammendarla, un laccio, un bottone... Se non si aveva niente da vendere, si rubava.<br />

Ricordo che poi l’ago con il filo attorcigliato attorno lo tenevamo infilato all’interno<br />

della divisa, solo che, siccome non era in dotazione, se non lo si nascondeva<br />

bene, alla prima ispezione ce lo avrebbero portato via.<br />

Noi non avevamo niente, ma nel campo c’era ogni ben di Dio, bastava pagare e<br />

rivolgersi alle persone giuste, cioè alle kapò e alle blocove.<br />

Quando arrivavano i nuovi prigionieri, prendevano le loro cose e le ammucchiavano<br />

in grossi magazzini, poi le controllavano con calma per vedere se nei tacchi<br />

delle scarpe o nelle cuciture dei vestiti ci fosse nascosto dell’oro, delle banconote o<br />

dei gioielli; gli ebrei avevano l’abitudine di nasconderli là per non farseli rubare.<br />

In quei magazzini lavorava un kommando che si chiamava “Canada”. Non so perché<br />

si chiamasse così. Solo le persone raccomandate potevano entrarci. Certe volte<br />

gli addetti a quel kommando allungavano le mani e rubavano qualcosa; era pericoloso,<br />

ma con quello che rubavano facevano mercato con gli altri detenuti oppure con i<br />

civili. Se per esempio si voleva un fazzoletto, bastava chiederlo a loro, sacrificando<br />

mezza razione di pane, lo davano.<br />

I tedeschi ci controllavano frequentemente, evidentemente sapevano di quei traffici;<br />

quando ci andava bene facevano finta di nulla. Altrimenti erano legnate.<br />

Ogni tanto frugavano dappertutto oppure fermavano la colonna quando rientrava<br />

dal lavoro e, mentre le SS stavano a guardare, i prigionieri che lavoravano per loro<br />

la controllavano ovunque. Se per caso si era organizzato un cencio e lo scoprivano,<br />

con quattro schiaffoni lo requisivano perché per loro significava sabotaggio.<br />

Io avevo organizzato due fazzoletti. Non ricordo dove li avevo presi… erano preziosissimi,<br />

una vera ricchezza! Ero sempre riuscita a nasconderli appallottolandoli tra<br />

i cenci, ma quando sono partita per Ravensbrück me li hanno trovati e presi.<br />

Quelli che lavoravano nelle fabbriche con i civili avevano maggiori possibilità di<br />

“organizzare” qualcosa… anche se a me non è mai capitato, forse perché non erano<br />

italiani ed io non riuscivo a farmi capire.<br />

57


“Canada” era un deposito di vestiario, scarpe,<br />

biancheria ed altri oggetti appartenenti ai deportati del<br />

<strong>La</strong>ger che venivano classificati dai detenuti, sotto la<br />

sorveglianza delle SS e dei Kapos. Tutto quello che era<br />

contenuto nel deposito era destinato alla popolazione<br />

tedesca più bisognosa, la quale dichiarò di ignorare la<br />

provenienza di questi aiuti. I prigionieri addetti al<br />

“Canada” erano privilegiati rispetto agli altri perché,<br />

oltre ad avere la possibilità di lavorare al riparo, il<br />

lavoro non era faticoso ed avevano anche modo di<br />

“organizzare”, cioè di sottrarre gli oggetti o gli indumenti<br />

di cui avevano bisogno, utilizzandoli per se, passandoli<br />

agli amici, oppure rivendendoli alla borsa<br />

nera.<br />

58<br />

cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />

Oggetti appartenuti ai detenuti e immagazzinati dalle SS: catini, pettini,<br />

scarpe, occhiali...


Le baracche dei lager<br />

Che dimensioni avevano le baracche e quante persone potevano contenere?<br />

I block erano misti, un vero inferno di lingue.<br />

Di solito, ogni blocco era adibito ad un lavoro per semplificare l’attività; se si<br />

cambiava lavoro, si cambiava anche di blocco. Se si aveva la fortuna di capitare in<br />

uno dove c’era un po’ di spazio, bene, altrimenti, bisognava fare a botte. D’altra<br />

parte, su un tavolaccio già si stava in due o in tre, se arrivava un’altra persona, non<br />

ci si entrava più.<br />

I “letti” avevano un lato murato ed erano<br />

disposti lungo tutto il perimetro del blocco,<br />

formando una specie di letto a castello.<br />

C’erano castelli anche al centro della baracca,<br />

così che si formavano corridoi strettissimi.<br />

Nel lager A i castelli erano disposti su due<br />

piani, invece nel lager B su tre.<br />

Di solito si dormiva due per panca, ma<br />

alla fine si arrivò ad essere molte di più. In<br />

quarantena e durante gli ultimi mesi, quando<br />

i tedeschi sfollavano i detenuti dai campi<br />

vicino al fronte per non farli cadere in mano<br />

ai russi, si dormiva anche per terra. Le tavole<br />

erano lunghe circa mt.1,50; certo erano piccole,<br />

ma per noi l’importante era poterci<br />

sdraiare.<br />

Però, se una voleva girarsi o doveva andare<br />

in bagno, e capitava che chi avesse la diarrea<br />

doveva alzarsi anche più volte per notte,<br />

finiva con lo svegliare le compagne della<br />

branda ed anche tutta la baracca.<br />

Ogni baracca avrebbe dovuto ospitare<br />

200, 300 persone, invece ce n’erano sempre<br />

di più; alla fine della guerra siamo arrivate a 1000, 1500.<br />

Nel lager A avevamo la stufa, che non funzionava mai. Invece nel lager B si diceva<br />

che ci fosse il riscaldamento, sulle pareti correva una specie di muricciolo, dove<br />

secondo alcune dovevano esserci i tubi del gas, ma non era vero niente. Avevamo in<br />

dotazione due coperte con cui coprirci, mentre per cuscini usavamo le nostre scarpe,<br />

così non ce le rubavano.<br />

Dormivamo su un pagliericcio che ormai era fatto più di polvere che di paglia<br />

quando al mattino ci alzavamo, lo dovevamo sprimacciare e livellare, altrimenti<br />

erano legnate. Per essere sicure che lo facessimo bene, ogni mattina la blocova e le<br />

sue aiutanti facevano il giro di ispezione.<br />

Nel lager A la blocova non era cattiva. Anche una delle due stubove, Savina, non<br />

59<br />

Interno di una baracca. I prigionieri sono ammucchiati<br />

nei castelli in quattro, in uno spazio che non era più largo<br />

di 80 cm.


era malvagia; doveva essere una studentessa, perché voleva imparare l’italiano e si<br />

era fatta amica quella che conosceva molte lingue, così lei non andava a lavorare.<br />

Invece l’altra stubova era terribile. Non ricordo come si chiamasse, noi la chiamavamo<br />

Cinque, perché non faceva altro che strillare che dovevamo essere in fila per<br />

cinque. Lo strillava in tutte le lingue, e quando la sentivamo ci passavamo parola per<br />

paura che quelle dietro non l’avessero udita. Era piccola di statura, giovane, sempre<br />

con il bastone in mano: una vera belva.<br />

<strong>La</strong> blocova del lager B era tedesca e portava il triangolo verde, quindi era un<br />

avanzo di galera. Quella era un’altra belva.<br />

Un giorno non ci hanno portato la zuppa dove lavoravamo. Alla sera ci hanno dato<br />

mezza fetta di pane e quando è arrivato il bidone della zuppa, ci hanno dato solo un<br />

mestolino da un quarto invece che uno grande. Ricordo che ho rifatto la fila, ma la<br />

“blocova avanzo di galera” mi ha riconosciuta (a noi italiane ci riconoscevano sempre,<br />

chissà perché?!) e mi ha dato due legnate: una mi ha presa il collo lasciandomi<br />

il segno, l’altra l’ho parata con la mano, ma così mi ha spaccato il polso… e non ho<br />

avuto la zuppa.<br />

I gabinetti erano sistemati in un’altra baracca lunga, attraversata da un muricciolo<br />

con dei basamenti di cemento corrispondenti e un pozzo in comune, quindi, quando<br />

qualcuna aveva la diarrea... al mattino i gabinetti traboccavano. Ma si doveva<br />

stare attenti a non sporcare, perché altrimenti erano guai! Dovevamo pensarci noi<br />

detenute a pulirli.<br />

Come faceva ad andare al bagno?<br />

Non eravamo libere di andarci quando volevamo e poi mancava l’acqua. Nel<br />

lager A non c’era assolutamente, ma quello era il campo della quarantena e degli<br />

ebrei, e siccome ci doveva trasformare in bestie, non poteva esserci l’acqua.<br />

Il lager A era una cosa tremenda, significava morte certa. Invece il lager B...<br />

Oddio, al posto dei tavolacci di legno del lager A c’erano i castelli, ci si stava in<br />

due o tre, però... anche la coperta era un pò più... no, anche se mi sforzo non riesco<br />

a trovare una parola bella...<br />

Però nel lager B c’era un filo d’acqua. Allora al mattino, dopo aver fatto la fila,<br />

ci lavavamo la faccia, anche se magari non ne avevamo la forza, ma in fondo avevamo<br />

ancora un po’ di personalità che ci spingeva a dire: “Poterci lavare la faccia!”.<br />

Però non avevamo niente con cui asciugarci. Quando ci spogliavamo, mettevamo<br />

quei quattro cenci che avevamo in mezzo alle gambe, altrimenti ce li rubavano. Ma<br />

così era impossibile lavarsi.<br />

Quando andavamo a fare la doccia, invece, bene o male ci davamo una pulita.<br />

Anche per i bisogni non avevamo nulla con cui pulirci ed asciugarci; usavamo gli<br />

stracci che avevamo addosso.<br />

Quando lavoravamo in mezzo alla campagna usavamo quelle specie di baracche<br />

che si possono spostare da una parte all’altra, ma prima dovevamo chiedere il permesso,<br />

e se dicevano di no era no. <strong>La</strong> stessa cosa succedeva in fabbrica, bisognava<br />

chiedere il permesso, altrimenti ci potevano anche sparare.<br />

60


Da qui non si esce vive!<br />

Lei è stata trasferita da Auschwitz a Ravensbrück il 27 ottobre del 1944.<br />

Che atmosfera regnava nel campo all’epoca della partenza?<br />

Quelli sono stati i giorni più brutti. I tedeschi smisero di portarci a lavorare; il<br />

fronte era vicinissimo e noi eravamo sicure che da lì non saremmo uscite vive.<br />

Eravamo sballottate di qua e di là, poi un giorno ci hanno portate in un sotterraneo<br />

pieno di roba, un fatto davvero eccezionale, perché a noi prigionieri era proibito<br />

entrare in certi locali; ci hanno anche permesso di approfittare.<br />

Allora abbiamo pensato che fosse veramente finita; ricordo che non facevamo<br />

altro che ripetere: “Da qui non si esce più vive”.<br />

Poi è arrivato l’ordine di partire. Prima però, ci hanno fatte spogliare e ci hanno<br />

portate di peso a fare la doccia… eravamo terrorizzate, avevamo paura che ci volessero<br />

ammazzare gasandoci.<br />

Quando abbiamo visto uscire dai tubi acqua e non gas abbiamo tirato un sospiro<br />

di sollievo. Dopo ci hanno distribuito abiti di tela grigia a mezze maniche... eravamo<br />

in ottobre… ci diedero una specie di pastrano per coprirci.<br />

Sulla banchina in attesa del treno c’erano quattrocento donne: duecento ariane e<br />

duecento zingare, e dato che i tedeschi trattavano gli zingari come gli ebrei, è possibile<br />

immaginare che cosa abbiamo pensato in quei momenti. Inoltre, per arrivare alla<br />

ferrovia ci hanno fatto passare nel settore dove c’erano gli alloggi delle SS, una cosa<br />

impensabile, mai accaduta prima. Abbiamo persino potuto sbirciare dentro le finestre!<br />

Eravamo certe che per noi fosse arrivata la fine. Dopo un po’ sono arrivati i carri<br />

bestiame e ci hanno fatte salire.<br />

Il treno si mosse in direzione dell’uscita ma, trascorsi dieci minuti, si bloccò di<br />

colpo e tornò indietro.<br />

I pianti e gli strilli...!! Abbiamo cominciato a gridare come matte, perché eravamo<br />

sicure che ci portassero al crematorio. Eravamo là da sette mesi e avevamo visto<br />

altre volte il treno tornare indietro e sparire dietro i cancelli dei forni.<br />

Invece.. il treno si fermò in stazione, e qualche ora dopo partì veramente.<br />

Chissà se c’era stato un contrordine... se fosse successo prima, saremmo finite di<br />

sicuro al crematorio.<br />

Quando ho sentito che il treno ricominciava a camminare e ho visto il cancello<br />

della stazione, ho cominciato a pregare: “Gesù mio, perdono tutti basta che di qua<br />

esco!”… senza sapere che ci aspettava ancora il peggio.<br />

Appena siamo arrivate a Ravensbrück ci hanno messe con le zingare sotto una<br />

tenda immensa 6 . Io e la <strong>mia</strong> amica ci siamo strette per scaldarci, abbiamo buttato un<br />

pastrano per terra e un altro ce lo siamo messe addosso.<br />

Ad un certo punto una zingara è passata vicino a noi, e come se nulla fosse, quella<br />

brutta bestia ci ha fatto la pipì addosso. Io non ci ho visto più… sono saltata su,<br />

l’ho presa e le ho dato tante di quelle botte che solo Dio lo sa.<br />

Il mattino dopo ci hanno perquisite. Io avevo ancora con me una catenina<br />

6 Deve essere la stessa di cui parla Lidia Beccaria Rolfi nel suo libro.<br />

61


d’argento che ad Auschwitz ero sempre riuscita a nascondere perché, quando facevano<br />

i controlli, la mettevo sotto la lingua; là, invece, me l’ hanno portata via.<br />

A Ravensbrück ci hanno fatto anche la visita alla vagina, malgrado fossimo<br />

ragazze! I medici erano donne e ci chiesero se eravamo fraulen o frau, cioè signorine<br />

o signore. Non è stata proprio una visita approfondita... però ci hanno fatto anche<br />

questo. Infine ci hanno mandate dentro i blocchi, in baracche già strapiene e di nuovo<br />

in mezzo alle zingare. Dio, che cosa è stata la convivenza con gli zingari!<br />

Dovevamo stare attente, perché rubavano tutto, anche quella miseria che ci davano<br />

da mangiare. Dopo non so che fine abbiano fatto, perché noi siamo state mandate<br />

a lavorare in una fabbrica lontana.<br />

In alcuni libri Ravensbrück è descritta in termini qualitativamente migliori<br />

rispetto ad Auschwitz: si parla di lenzuola, di tovaglie, di tendine alle finestre...<br />

Che cosa c’è di vero in quelle testimonianze? Ravensbrück era davvero così<br />

diversa da Auschwitz?<br />

Sì, ma solo i primi tempi. Poi, è diventata uguale agli altri campi.<br />

Ricordo che la prima cosa che ci colpì entrando furono le baracche di quelle che<br />

comandavano: avevano le tendine alle finestre e le coperte a quadretti sui castelli.<br />

In ogni block c’era ancora il tavolo con gli sgabelli intorno 7 . C’era pure il gabinetto,<br />

ma non vi si poteva entrare perché gli escrementi uscivano fuori, però... i primi<br />

tempi deve essere stato sicuramente possibile. Quando abbiamo visto tutte quelle<br />

“comodità” abbiamo pensato un gran bene. Dopo le cose sono peggiorate anche lì.<br />

Come si svolgeva la vita nel lager di Ravensbrück?<br />

Sono arrivata a Ravensbrück il 29 ottobre e dopo quindici giorni sono stata selezionata<br />

per andare a lavorare in fabbrica, ma siccome distava circa 100 km, ci hanno<br />

fatte alloggiare in un piccolo campo lì vicino.<br />

Quando comandavano la selezione bisognava spogliarsi e passare nudi davanti al<br />

capo-campo, al dottore delle SS ed ai capoccioni delle fabbriche… il nudismo era di<br />

moda, nessuno sembrava farci più caso. Allora ci gonfiavamo tutte, ci sfregavamo<br />

forte la faccia per far vedere che stavamo bene.<br />

Ho partecipato a quattro o cinque selezioni: due volte a Ravensbrück, dove una<br />

volta ricordo che eravamo tornate dalla fabbrica e le nostre condizioni erano davvero<br />

pietose, due volte ad Auschwitz. Avrei dovuto esserci abituata, invece… Comunque,<br />

mi hanno scelta e sono partita.<br />

Ma ero sola, perché la <strong>mia</strong> amica Gina era stata evacuata ad agosto. Quella di<br />

Como, che era una bella ragazza, era partita a luglio. Agnese, invece... Agnese era<br />

un’operaia di mio padre, sottile come un filo.<br />

Era così emotiva che bastava che papà alzasse un po’ la voce che subito doveva<br />

correre in bagno! Ricordo che una volta le SS ci avevano messe in fila per andare a<br />

lavorare, lei si è spostata un po’ e subito ha avuto il cane addosso… l’ ha mezza divorata.<br />

E’ stata ricoverata in revier un paio di giorni, poi è partita con un kommando.<br />

Noi avevamo un comandante che non era cattivo, ma la capo-campo, che era un<br />

7 Ad Auschwitz la situazione aveva raggiunto livelli insostenibili: la gente mangiava seduta sopra o sotto i tavoli in un caos indescrivibile.<br />

62


avanzo di galera arruolata tra le SS, era la persona più abbietta che potesse esistere…<br />

da lei solo botte, appelli… Tra l’altro era l’amante del comandante, quindi...<br />

Però, quel giorno che siamo partite da Finufmark (??), mi pare che il campo si<br />

chiamasse così, lui le ha dato una lezione che avrà ricordato tutta la vita.<br />

Lei era sul tetto di una baracca e inveiva verso di noi, e mentre uscivamo abbiamo<br />

visto il comandante darle due schiaffoni… si vede che non ce la faceva più nemmeno<br />

lui.<br />

In fabbrica la vita non era disperata come nei campi grandi.<br />

Innanzi tutto lavoravamo al coperto, e per noi era una vera benedizione. Quasi<br />

tutte avevamo una cuccetta, anche se poi ci stavamo in due o in tre per scaldarci.<br />

Avevamo anche il riscaldamento… per modo di dire, naturalmente, perché nella<br />

nostra baracca passavano i tubi che dalla caldaia andavano in cucina e lasciavano un<br />

po’ di calore.<br />

Le baracche erano di legno, mentre ad Auschwitz erano di mattoni; un tempo erano<br />

state occupate da quelli che avevano lavorato per la Germania, poi le diedero a noi.<br />

Il mangiare era scarso: una fettina di pane ed un mestolino da un quarto senza sale<br />

e senza niente. Eppure, ci ritenevamo fortunate perché avevamo la possibilità di lavorare<br />

al coperto.<br />

Forse è difficile capire tanto entusiasmo, ma in Polonia il freddo è lungo e duro.<br />

Quando arrivai ad Auschwitz mancava qualche giorno alla fine del mese di marzo, la<br />

temperatura era intorno ai diciotto gradi sotto zero! Quindi è facile immaginare che<br />

sarebbe stato impossibile sopravvivere se non avessimo avuto la possibilità di ripararci.<br />

Invece noi l’inverno lo abbiamo trascorso al coperto; dovevamo fare un po’ di<br />

strada a piedi perché dal campo alla fabbrica c’era circa mezz’ora di cammino, con<br />

la pioggia o con il gelo, però... poi, almeno avevamo un tetto sopra la testa.<br />

Mi ricordo che attraversavamo sempre una bella pineta.<br />

Una volta capitammo in mezzo a un’incursione aerea. Gli aerei cozzavano gli uni<br />

con gli altri. In Auschwitz è capitato parecchie volte, perché vicino al campo c’era la<br />

contraerea. In più di un’occasione ci ha sorprese mentre eravamo in mezzo ai campi;<br />

ricordo che quando si preparava un bombardamento, i cavalli impazzivano e i cani<br />

scappavano. Anche le SS correvano a nascondersi.<br />

Noi smettevamo di lavorare, ma non potevamo andare a nasconderci perché avevano<br />

paura che scappassimo. Allora ci mettevamo in testa la gamella e ci accucciavamo<br />

a terra. Mi ricordo che dicevamo: “Mettiamoci la gamella in testa, perché se<br />

viene giù qualche scheggia almeno ci protegge”.<br />

E qualcuno rispondeva: “No, no, perché se ci bucano la gamella non possiamo più<br />

prendere la zuppa”.<br />

Ma non ci è mai successo nulla, malgrado le schegge volassero da tutte le parti.<br />

<strong>La</strong> mano di Dio ci preservava, perché certe volte, proprio quando sentivamo in<br />

lontananza il ronzìo degli aerei, sopra Auschwitz calava una nebbia così fitta che non<br />

si vedeva più niente. Gli aerei giustamente non ci vedevano, e così non abbiamo<br />

rischiato di essere bombardati e uccisi.<br />

Quando lavoravamo in fabbrica, non appena suonava l’allarme ci facevano scen-<br />

63


dere con i civili in una specie di rifugio… per noi era una gran gioia, perché per un<br />

po’ non si lavorava; se trovavamo un posto ci mettevamo a dormire, poiché laggiù<br />

c’erano delle grosse panchine.<br />

Mangiare e dormire per noi era tutto quello che contava, tanto che, quando cadevano<br />

quelle grosse bombe e la terra sussultava, noi esclamavamo: “Accidenti, mi<br />

hanno fatta svegliare!”.<br />

Le finestre delle baracche erano grandi e quando arrivava la sera, le sorveglianti<br />

le chiudevano con i lucchetti per paura che qualcuna scappasse. C’era persino il<br />

bagno, dove era possibile provare a lavarsi, con delle finestrelle piccole e piuttosto<br />

alte; quando arrivavano gli aerei, ci cacciavamo tutte lì per vedere. Che spettacolo!<br />

Arrivavano a coda di rondine, ed andavano diritti verso Berlino, che era distante una<br />

sessantina di Km; ricordo che, quando scendevano giù, quelle bombe sembravano<br />

tanti confetti! Era la nostra felicità, perché significava che presto o tardi saremmo<br />

state libere.<br />

Quei civili che lavoravano con voi in fabbrica non hanno mai provato a chiedervi<br />

chi foste?<br />

Non potevamo assolutamente parlare, nonostante noi avessimo la fortuna di avere<br />

come capo un ingegnere molto umano. Anche il comandante della <strong>mia</strong> amica era<br />

buono, però non potevamo scambiare una parola perché se ci avessero scoperti sarebbero<br />

finiti nei guai loro, i capi sarebbero finiti al nostro posto… era molto, molto<br />

pericoloso. Si lavorava a ciclo continuo secondo due turni: uno dalle sei del mattino<br />

alle sei di sera, l’altro dalle sei di sera alle sei del mattino. Quando avevamo il turno<br />

del mattino, ci dovevamo alzare alle quattro per fare prima l’appello.<br />

Si lavorava solo dodici ore, mentre ad Auschwitz si lavorava finché c’era il sole,<br />

quindi in estate si stava in piedi dalle tre del mattino alle nove di sera.<br />

C’erano ugualmente i tedeschi, ma almeno lavoravamo all’asciutto, riparate dal<br />

freddo o dal caldo e con la possibilità di guadagnare qualche pezzetto di pane in più,<br />

qualche briciola.<br />

In mezzo a tutto, io ero stata fortunata. Mi ricordo che fabbricavo i bossoli da<br />

mitraglia, ogni bossolo, che poteva essere di varie grandezze, doveva venire immerso<br />

in un bagno d’acido; secondo il calibro che aveva, si doveva infilare su di una specie<br />

di alberello ed immergerlo in varie vasche, fino ad arrivare alla macchina dov’ero<br />

io; li dovevo prendere e mettere su una ruota ad asciugare: la macchina aveva tanti<br />

buchi, e da quelli usciva aria calda. Quell’inverno non ho avuto freddo perché lavoravo<br />

al coperto e vicino a quella macchina.<br />

Quando ci davano un quarto d’ora di tempo per mangiare, a mezzogiorno o a<br />

mezzanotte, noi ne approfittavamo per dare una lavata ai nostri stracci sporchi. Poi,<br />

li mettevamo ad asciugare sopra la macchina dalla quale usciva aria calda.<br />

<strong>La</strong> nostra era una vita disperata e si regrediva sempre di più, come mangiare,<br />

come vestire, come tutto. Eravamo dei miserabili, ma in quel periodo avevamo almeno<br />

un tetto sulla testa; però, non potevamo allontanarci per andare in bagno, avevamo<br />

l’orario, e comunque bisognava chiedere il permesso. Ricordo che una notte<br />

64


stavo morendo per il mal di pancia, allora sono andata dalla auseherin e piangendo<br />

le ho detto: “Io ritorno, io ritorno”… mi ha lasciata andare.<br />

Appena si rientrava in campo c’era l’appell, poi ci distribuivano quel poco di cibo<br />

e dopo si poteva andare finalmente a dormire. Ma quella vipera... magari ci si era<br />

appena sdraiati sul letto che suonava di nuovo il fischietto, era il segnale che dovevamo<br />

tornare fuori all’appello!<br />

Dovevamo stare due o tre ore in piedi a fare nulla, mentre quella disgraziata passava<br />

e faceva finta di contarci. Poi fischiava e si poteva tornare dentro. Ma non si<br />

faceva in tempo a sdraiarsi su quel pezzo di legno che ancora fischiava: “appell”.<br />

Ricordo che per quella ragione là il direttore della fabbrica dove lavoravo aveva<br />

protestato, e giustamente. Ma come si poteva pretendere che uno lavorasse bene se<br />

non aveva potuto dormire? Vinti dal sonno e dalla stanchezza, rischiavamo anche di<br />

farci male o, per loro cosa sicuramente più importante, di compromettere la produ -<br />

zione. Diceva: “Per me sono operai migliori dei civili, perché i civili dobbiamo<br />

rispettarli, mentre questi non li rispettiamo e li facciamo lavorare fino a ridurli allo<br />

stremo delle forze…! Almeno fateli vivere!”.<br />

Il direttore era un ingegnere, uno che aveva studiato e sapeva il fatto suo.<br />

Era abbastanza umano con noi… certo, rispetto agli altri… veramente una brava<br />

persona. Se per esempio si trovava a passare per l’ispezione mentre noi caricavamo<br />

sui carrelli le scatole dei bossoli da mitraglia, e ogni scatola ne poteva contenere<br />

anche tremila, si fermava e ci dava una mano.<br />

Più di una volta si è scontrato con i capi del campo per noi. Una volta ci disse:<br />

“Se va avanti così, io rischio di mettere la vostra divisa!”.<br />

Un’altra volta litigò per via del mangiare, che era scarsissimo, lui andò al campo<br />

e bisticciò con il comandante, facendoci ottenere qualcosa in più e un piccolo supplemento:<br />

un pezzetto di pane due volte la settimana. Poi, invece, quelle canaglie non<br />

ce lo hanno dato più.<br />

Era umano. Tra i civili ce n’era uno piuttosto anziano di nome Erik, si chiamava<br />

come mio padre, Enrico; se poteva, mi allungava un pezzetto di pane.<br />

Chi conosceva la lingua stava meglio, perché poteva provare a farsi dare qualcosa<br />

da mangiare e poteva anche sabotare le cose che facevano. Le russe, per esempio,<br />

sabotavano le maschere antigas bucandole con le unghie, perchè loro capivano che<br />

cosa dicevano e facevano esattamente l’opposto; noi italiane invece non conoscevamo<br />

la lingua e non capivamo nemmeno quello che dovevamo fare. Non riuscivamo<br />

a scambiare due parole, figuriamoci se potevamo sabotare! Ricordo che ci insegnavano<br />

cosa fare a gesti e che ci si parlava facendo dei segni.<br />

Quando è tornata a Ravensbrück?<br />

Nella primavera del 1945.<br />

Il fronte era vicino e noi eravamo ormai troppe rispetto alla domanda; così hanno<br />

chiuso la fabbrica ed evacuato il campo dove stavamo, rispedendoci a Ravensbrück.<br />

Però non ce lo dissero subito e così, quando ci hanno fatte salire sui carri, siccome si<br />

diceva che bruciassero tutti i trasporti, specialmente quelli conciati come noi, ci<br />

65


siamo spaventate ed abbiamo pensato che ci portassero dritte al crematorio.<br />

Malgrado non ce la facessimo più, volevamo ancora vivere… poi, quando siamo<br />

arrivate, non abbiamo visto il fumo. E fuori il cancello c’erano dei camions della<br />

Croce Rossa. Noi, però, non ci siamo fidate, avevamo paura che fosse un trucco,<br />

come quello che adoperavano per bruciare gli ebrei.<br />

Mentre ci stavamo avviando al campo, ci è venuta incontro una slovena che aveva<br />

lavorato con noi in fabbrica e che era partita prima di noi. Le abbiamo chiesto se bruciavano<br />

ancora. Lei ha risposto: “No, non bruciano più”. Infatti non ci hanno bruciate.<br />

Poi abbiamo capito cosa stava succedendo.<br />

Come siamo entrate, abbiamo visto nei blocchi che comandavano delle prigioniere<br />

che stavano tranquillamente sedute a chiacchierare, in carne e con la divisa a righe<br />

nuova. Erano prigioniere francesi destinate ad essere rimpatriate, ed a noi ci è sembrata<br />

una cosa strana, ma la Francia aveva fatto davvero un accordo con la Germania.<br />

<strong>La</strong> Francia era stata la sola ad accettare di scambiare i prigionieri, il baratto era:<br />

dieci SS per ogni francese.<br />

Parecchie francesi sono state liberate così; naturalmente prima davano loro da<br />

mangiare per un po’ di giorni e le ripulivano da capo a piedi, poi avveniva lo scambio.<br />

Dopo i primi scambi, i tedeschi hanno smesso di fucilare e di bruciare la gente,<br />

perché davanti ai campi arrivavano i camions della Croce Rossa, i cui componenti<br />

evidentemente raccontavano quello che vedevano… ma allora perché non è intervenuto<br />

nessuno?<br />

Non mi ricordo dove l’ ho letto, ma persino il Vaticano sapeva.<br />

Del resto, se partivano tutte quelle persone, possibile che nessuno si domandava<br />

che fine facessero?<br />

Forse a chi comandava non importava nulla.<br />

Ricorda gli ultimi giorni di Ravensbrück?<br />

Gli ultimi giorni non si faceva più niente. Ricordo che andavamo in giro, quando<br />

invece di solito era proibito stare senza far niente; io e quella ragazza con cui ero<br />

rimasta chiedevamo se c’erano italiane. Da una delle tante baracche, da cui uscivano<br />

fuori tantissime teste, ne sono spuntate due, ed una disse: “Sì, siamo italiane”…<br />

… Erano Bianca e la sorella Bice Paganini.<br />

Poi le ho perse di nuovo di vista.<br />

Ci siamo ritrovate dentro una baracca che confinava con un campo di raccolta di<br />

militari mentre sfollavano il campo; siamo rimaste sedute tutta la notte, perché non<br />

c’era più spazio e non potevamo sdraiarci.<br />

Dopo esserci perse ancora, ci siamo ritrovate dopo libere e siamo rimaste assieme<br />

per tutti i mesi che precedettero il ritorno a casa; io e Bianca stavamo sempre insieme<br />

ed eravamo le più spericolate.<br />

66


Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare<br />

quella di qualcun’altra<br />

Bianca Paganini è autrice di una delle storie di deportazione femminile contenuta<br />

nel volume Le donne di Ravensbrück. Elisa la conobbe dopo l’evacuazione del<br />

campo presso la fabbrica di materiale bellico in cui lavorò durante l’inverno del<br />

1944.<br />

Bianca e Bice Paganini, sorelle di <strong>La</strong> Spezia, erano state arrestate nella primavera<br />

del 1943 con l’accusa di spalleggiare i partigiani. L’opinione di Elisa a proposito<br />

dei partigiani è un pochino critica, o forse sarebbe meglio dire “disincantata”.<br />

Secondo lei, rispetto alla moltitudine che dopo la fine della guerra si proclamò<br />

esponente del movimento di liberazione, solo una minima parte sarebbe stata davvero<br />

degna di fregiarsi di quel titolo, se così lo si può definire.<br />

Tante persone avrebbero sposato la causa partigiana solamente per scappare o<br />

per approfittare della confusione regnante all’indomani della liberazione. Una di<br />

quelle persone che veramente si prodigò fu, a suo giudizio, una partigiana triestina<br />

di cui conosceva e conosce solo il nome di battaglia: Itta.<br />

<strong>La</strong> conobbe ad Auschwitz insieme ad un’altra partigiana di nome Paola. Non ha<br />

mai chiesto o saputo quale fosse il suo vero nome; la prigionia toglieva la forza o<br />

la voglia di chiedere forse perché ricordare faceva troppo male.<br />

Le raccontarono però la loro <strong>storia</strong>.<br />

Itta e Paola collaboravano entrambe con i partigiani. Catturata, Paola era stata<br />

torturata brutalmente affinché rivelasse il nome del suo comandante, che altri non<br />

era che Itta. Alla fine Paola parlò e Itta venne arrestata. Ma non le portava rancore,<br />

ben sapendo che nella prigione di Trieste la poverina era stata sottoposta a torture<br />

mostruose, come le percosse inferte a viva forza nella natura con bastoni chiodati.<br />

Le tre donne si rincontrarono durante l’evacuazione di Ravensbrück.<br />

All’epoca Elisa era uno scricciolo di ventinove chili, mentre la sua amica Itta ne<br />

pesava venticinque.<br />

<strong>La</strong> partigiana triestina fu colei che incoraggiò il gruppo durante tutta la marcia<br />

di sfollamento.<br />

Da allora non l’ha più rivista, né ha idea della fine che fece; avrebbe voluto cercarla,<br />

sapere se fosse ancora viva e quindi tornata, ma conoscendo solo il nome di<br />

battaglia,” Itta di Trieste”, la cosa le parve impossibile.<br />

L’idea di conoscersi meglio non sembrava sfiorare le detenute; i racconti e le<br />

parole velate di tristezza di Elisa non sembrano ammettere repliche.<br />

In un ambiente saturo di egoismo e violenza ognuna viveva per se stessa, senza<br />

soffermarsi a pensare che la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di<br />

qualcun’altra, che il pezzo di pane rubato sarebbe poi mancato ad un’altra persona.<br />

In Auschwitz ebbe spesso l’occasione di lavorare con una donna di Monza che,<br />

piccola ma gran lavoratrice, si sforzava di “riportare a casa le ossa faticando come<br />

un mulo”.<br />

67


Quando vedeva che al suo gruppo erano assegnate Elisa e una certa Maria<br />

Colombo, dava letteralmente in escandescenza, perché le considerava fiacche, molli<br />

e inaffidabili. Lei ora se la ride, ma sembra anche essere cosciente del perché quella<br />

tizia reagisse a quel modo: era l’istintiva percezione del pericolo a cui avrebbero<br />

potuto sottoporre tutto il gruppo a farla scattare.<br />

Un altro episodio rende perfettamente l’idea del clima che aleggiava nel lager.<br />

Quando giungeva il periodo della trebbia, le detenute erano tenute a legare la<br />

paglia formando dei covoni. Il ritmo era frenetico e non sempre lei e quella Maria<br />

Colombo riuscivano a sostenerlo. Così, approfittando della confusione che regnava<br />

attorno ai camions, si nascondevano in fondo, suscitando le ire della donna di<br />

Monza.<br />

A mente fredda e a distanza di tanti anni, Elisa conviene che tutte, nessuna esclusa,<br />

erano disperatamente egoiste; chi lavorava metteva a repentaglio la vita di chi<br />

non lavorava, e chi non si prestava o non ce la faceva a tenere il ritmo aggravava la<br />

fatica di chi non si rispar<strong>mia</strong>va. Trebbiare non era solo fatica, ma anche polvere e<br />

sporcizia che durante la quarantena non potevano lavare via.<br />

<strong>La</strong> pelle cominciava a prudere, e grattarsi non sembrava alleviare assolutamente<br />

il senso di fastidio provocato dallo strato di sporcizia che la ricopriva.<br />

Se in quarantena era proibito lavarsi, successivamente il rito della doccia diventava<br />

una sottile forma di tortura. Ciclicamente i tedeschi effettuavano delle disinfestazioni:<br />

costringevano i detenuti a lavarsi, ma senza acqua calda e sapone, e sterilizzavano<br />

i vestiti. Nonostante l’accortezza di farli legare in un certo modo così da<br />

far spiccare il numero cucito sulla manica, spesso venivano restituiti alla rinfusa.<br />

I prigionieri venivano condotti alle docce di ritorno dal lavoro, fatti svestire e<br />

costretti ad aspettare all’agghiaccio, nudi, il proprio turno. Dopo di che, dovevano<br />

attendere la restituzione degli indumenti. I tempi dell’operazione di sterilizzazione<br />

erano esasperatamente lunghi, tanto che i vestiti venivano riconsegnati solo al sorgere<br />

del sole e olezzanti di gas. Nel frattempo i detenuti non potevano ritirarsi nelle<br />

baracche, dovevano restare all’aperto in piedi, nudi e completamente digiuni. Né<br />

serviva poi veramente a qualcosa, dal momento che i ledini dei pidocchi invece che<br />

morire si giovavano del calore.<br />

68


L’evacuazione di Ravensbrück<br />

Dopo che evacuarono Ravensbrück, che cosa<br />

accadde?<br />

Marciammo per giorni e giorni, riposando ogni<br />

tanto. Ricordo che quando ci sdraiavamo sentivamo<br />

la terra tremare per i bombardamenti. Le russe<br />

erano felici, perché sapevano che quei colpi erano<br />

sparati dai loro soldati e che quindi erano vicini.<br />

I tedeschi avevano intenzione di imbarcarci per<br />

poi affondarci in mezzo al mare. Per fortuna che<br />

non ci sono riusciti!<br />

Una notte le SS ci svegliarono<br />

e ci dissero che dovevamo stare<br />

pronte a partire. Ma dopo un po’<br />

scomparvero.<br />

Non sapevamo che fare, qualcuna<br />

suggeriva di scappare, ma<br />

avevamo paura che fosse un<br />

modo per ucciderci. Poi le SS<br />

sono tornate e, a forza di urla,<br />

strilli e bastonate ci hanno riunite e fatte camminare, ma poco dopo scomparvero di<br />

nuovo.<br />

A quel punto abbiamo visto le russe entrare dentro una specie di masseria. Anche<br />

noi volevamo andare dentro con loro, ma non ce lo hanno permesso. Vicino alla casa<br />

c’era uno sgabuzzino, una specie di ripostiglio per gli attrezzi; lì ci hanno fatte entrare<br />

a riposare.<br />

Eravamo venti persone, ammassate le une sulle altre; tra queste, solo io e la <strong>mia</strong><br />

amica eravamo italiane, e poi c’era qualche slovena.<br />

Le russe non avevano pace, guardavano sempre fuori la finestra. E noi, povere<br />

stupide, non capivamo che cosa avessero. Poi le abbiamo viste abbracciarsi e baciarsi,<br />

allora ci siamo affacciate anche noi.<br />

Abbiamo visto i camions tedeschi rivolti verso nord, mentre prima sfilavano<br />

davanti alla masseria dirigendosi verso il fronte cioè a sud. Inoltre molti si fermavano<br />

perché in fiamme.<br />

Piroscafo carico di deportati fatto bombardare nella rada di Lubecca:<br />

ebbero la stessa sorte il Cap Arcona, l’Athena, la nave Thielbeck e la Deutschland.<br />

69<br />

Circa 3000 deportati morirono dopo la liberazione,<br />

erano esausti ed incapaci di riprendersi nonostante<br />

le cure.


Ci siamo girate verso la casa dei contadini e abbiamo visto che c’era la bandiera<br />

bianca… allora abbiamo capito che era davvero finita. I contadini ci hanno fatte uscire<br />

dallo sgabuzzino e ci hanno fatte sistemare dentro il fienile dandoci una scodella<br />

di latte per ognuna di noi. Bontà loro, a noi ci sembrava di sognare!<br />

Quando la mattina dopo ci siamo svegliate, non c’era più nessuno. Lì, la guerra<br />

era finita. Era il 5 maggio, non avevamo mai perso la nozione del tempo, e sapevamo<br />

sempre che giorno fosse.<br />

Ci siamo incamminati assieme ad altri prigionieri.<br />

“Andiamo in su, così raggiungeremo<br />

l’Italia”, ci dissero; ma eravamo dalle parti di<br />

Stettino, e camminando verso nord non saremmo<br />

mai tornate a casa.<br />

Cammin facendo siamo arrivate in un paese e<br />

ci siamo fermate in una grande piazza… eravamo<br />

delle povere creature strascicanti un mucchietto<br />

d’ossa, quattro stracci e tanti pidocchi.<br />

In quel piazzale c’erano dei carri armati russi.<br />

Non era la prima volta che li vedevamo, ma mai<br />

così grandi! Li chiamavano “la voce di Stalin”.<br />

C’erano anche delle soldatesse; poi abbiamo<br />

visto una colonna di soldati tedeschi che passavano<br />

e gettavano le armi davanti ai carri russi,<br />

però non erano trattati male. Devo dire che la<br />

cosa ci ha fatto veramente piacere. Non so dove<br />

li abbiano messi, forse, in qualche campo.<br />

Dopo un pò, cominciarono a sfilare colonne<br />

di soldati. Noi chiedevamo se c’erano italiani e, finalmente, qualcuno ha risposto;<br />

così ci siamo uniti a loro, eravamo quattordici o quindici.<br />

Lungo la strada abbiamo anche ritrovato le due sorelle di <strong>La</strong> Spezia.<br />

<strong>La</strong> prima cosa che abbiamo<br />

fatto è stato di organizzare il<br />

mangiare. Finora ci eravamo<br />

arrangiati spolpando le carogne<br />

dei ronzini morti che avevamo<br />

incontrato lungo la strada, perché<br />

le radici e le patate non ci<br />

bastavano più. Ricordo che ci<br />

avventavamo sopra la carcassa<br />

e la scuoiavamo a furia di<br />

morsi, tanta era la fame, ma<br />

mangiare così era bestiale.<br />

I ragazzi sembravano un pò<br />

più esperti di noi, ed hanno<br />

Detenute di Auschwitz liberate dai Russi.<br />

70<br />

Aprile 1945, evacuazione del campo di Dachau.


ubato una specie di cavallo ed allestito un carretto, caricandolo con la roba dei<br />

magazzini delle case abbandonate dai tedeschi: marmellata, zucchero, farina.... Dio<br />

solo sa quanta roba hanno preso! Alla fine il carretto era così pieno che dovevamo<br />

spingerlo, sedendoci sopra a turno.<br />

Ad un certo punto “il Duce”, (è così che avevamo chiamato il ronzino), muore e<br />

ci pianta in mezzo alla strada; allora ci siamo riparati in una casa.<br />

I russi non ci dissero nulla, potevamo andare dove volevamo e, se avevamo bisogno<br />

di qualcosa, entravamo nelle case dei tedeschi ed avevamo il permesso di prenderci<br />

tutto quello che ci serviva. “Arrangiatevi, vestitevi e fate quello che volete”, era<br />

questo quello che in sintesi ci dicevano.<br />

Così noi siamo andati dentro una casa dove c’era ancora una signora. Però, siamo<br />

stati bravi perché ci siamo sistemati nelle camere al piano di sopra e non ci siamo<br />

comportati come i russi, che erano già stati lì e avevano fatto tutto quello che volevano.<br />

I russi non rubavano niente! Quando entravano dentro e vedevano piatti e<br />

argenteria, buttavano tutto giù dalla finestra, a sfregio. I tedeschi lo avevano fatto in<br />

Russia, loro lo facevano in Germania.<br />

Anche con le donne facevano la stessa cosa. A noi nessuno ha mai torto un capello,<br />

né i russi, né gli americani, né gli inglesi. Invece alle donne tedesche hanno fatto<br />

passare i guai: i tedeschi lo avevano fatto in Russia, loro lo facevano adesso in Germania.<br />

Sicuramente i proprietari erano stati dei gran signori, perché in un angolo a terra<br />

abbiamo trovato un mucchio di posate d’argento.<br />

Dentro quella casa non abbiamo trovato solo l’argenteria, c’erano anche grossi<br />

armadi a muro pieni di biancheria e lenzuola. Allora ci siamo organizzati, abbiamo<br />

aperto e rovesciato fuori tutto. C’erano anche dei vestiti, che però erano enormi.<br />

Ricordo che ho preso dall’armadio una giacca di lana verde, quando me la sono<br />

messa addosso, la signora ha esclamato: “<strong>La</strong> giacca di mio marito!”… l’ ho lasciata.<br />

Ci siamo fermati in quella casa per qualche giorno, avevamo da mangiare e potevamo<br />

dormire quanto volevamo. Poi è arrivato l’ordine di andare via. Allora abbiamo<br />

ripreso il nostro carretto e siamo partiti.<br />

Riprendemmo il cammino. Quando la colonna si fermava, le russe erano sempre<br />

le prime ad accendere un fuoco e a raschiare un po’ di radici per mangiare. Se noi italiane<br />

ci avvicinavamo, ci picchiavano di santa ragione.<br />

Spesso ci si affiancavano colonne di prigionieri militari, tra quei disgraziati<br />

c’erano anche degli italiani, quelli con i quali tentammo di scappare quando eravamo<br />

ancora in mano ai tedeschi che ci stavano evacuando da Ravensbrück per portarci<br />

verso il Baltico; il tentativo fallì e purtroppo ci ripresero, ma non ci fecero nulla<br />

grazie all’intervento di una SS...<br />

In mezzo a tante bestie, quella fu la sola che si dimostrò un po’ umana verso di<br />

noi. L’avevamo conosciuta ad Auschwitz, e la ritrovammo mentre da Ravensbrück ci<br />

evacuavano verso il Baltico. Fu lei a salvarci, perché i soldati tedeschi che ci ripresero<br />

volevano fucilarci.<br />

Quando ci rimettemmo in cammino ci trovarono gli inglesi e ci portarono via tutte<br />

71


le cibarie lasciandoci solo i vestiti; poi ci hanno portato dentro un ex campo di concentramento<br />

dove erano entrati gli americani. Eravamo solo quindici ragazze, mentre<br />

per il resto erano tutti soldati fatti prigionieri. Per prima cosa ci hanno fatte lavare.<br />

Ricordo che vicino alle docce c’erano dei barattoli pieni di una polvere bianca; lì<br />

per lì abbiamo pensato che fosse borotalco; ci facevano segno di mettercelo dappertutto<br />

e noi dicevamo: “Guarda che gentilezza, anche il talco ci hanno dato!”. Invece<br />

era DDT per i pidocchi.<br />

Ho un brutto ricordo di quelle bestie; quando ne parlo, mi viene di grattarmi dappertutto!<br />

Il comandante provvide a darci una baracca a parte, dove noi abbiamo steso a terra<br />

i pagliericci. Quella notte lì è stata fantastica, eravamo libere e pulite, finalmente dormivamo<br />

con la camicia da notte che avevamo rubato, ed in mezzo alle lenzuola, rubate<br />

anche quelle.<br />

Non avevamo un vero letto, ma eravamo felici, per me era come dormire in un<br />

letto di piume. Non ricordo dove fosse quel campo e come si chiamasse, perché i<br />

nomi erano scritti in un modo quasi illeggibile... Lì siamo rimaste parecchio; il mangiare<br />

non mancava, perché un po’ ce lo davano gli americani, un po’ si rubava, un po’<br />

ci si arrangiava. Il comando americano era fuori, e noi eravamo abbastanza libere.<br />

Con noi c’era una signorina che aveva circa quarant’anni, si chiamava Maria ed<br />

aveva lavorato in una di quelle case di tolleranza che c’erano all’epoca.<br />

Era così buona... perché poi quelle donne lì sono veramente buone. Era diventata<br />

5 maggio 1945: le truppe americane entrano nel lager di Mauthausen. I deportati sopravvissuti si affollano intorno<br />

ai liberatori.<br />

72


l’amante di un pezzo grosso americano, quindi non stava mai nel campo, ma ogni<br />

tanto veniva a trovarci e, se avevamo bisogno di qualcosa, ce lo portava.<br />

<strong>La</strong> sera bisognava stare attenti perché c’erano i soldati americani che entravano<br />

ubriachi a cercare chissà che cosa da noi... Una sera abbiamo dovuto lottare con tutta<br />

la nostra forza per sbatterne fuori uno.<br />

Nel complesso non stavamo male: avevamo organizzato la nostra sala da ballo,<br />

avevamo le nostre simpatie, abbiamo anche cominciato a bere. Avevamo ripreso a<br />

lavorare, poi, dopo qualche mese, sono arrivati i camions; ci hanno fatto prendere le<br />

nostre cose e ci hanno portate in un altro paese, dove ci hanno permesso di stare nelle<br />

case dei civili. Anche là non ci mancava nulla. Eravamo io, Bianca, Bice, Maria e<br />

un’altra che era slovena. Abbiamo occupato il primo piano di una casetta molto graziosa;<br />

sotto, c’erano dei siciliani che erano venuti in Germania a lavorare e che poi<br />

erano rimasti prigionieri.<br />

Loro erano molto più anziani rispetto a noi altre, che eravamo ragazze intorno ai<br />

venticinque anni. Adesso, se ripenso a quante gliene abbiamo fatte passare!… Perché<br />

eravamo spericolate, specialmente io e Bianca, ne abbiamo combinate di tutti i colori.<br />

Io all’epoca non avevo capito perché quegli uomini reagissero così, perché fossero<br />

così infastiditi dalla nostra vivacità, ma ora che sono anziana, riesco a comprenderli;<br />

chissà che cosa avranno pensato di noi quei siciliani!<br />

Quante volte i nostri compagni andavano per carne e ci riportavano di tutto, ci<br />

accendevano il fuoco, e quando avevamo finito di cucinare ce ne andavamo lasciando<br />

tutto in disordine! Eravamo coccolate da tutti quanti, bastava esprimere un desiderio<br />

che subito provavano ad esaudirlo. Appena cominciava a fare giorno ci affacciavamo<br />

dalle finestre e ci chiedevano che cosa volessimo mangiare. Loro andavano<br />

e riportavano di tutto: conigli, polli, galline, perfino mucche intere! Quando sono<br />

rimasta libera pesavo ventinove chili vestita, sono tornata che ne pesavo più di sessanta,<br />

non ci mancava niente.<br />

<strong>La</strong> prima volta che ha mangiato un bel piatto di pasta o una bella fetta di carne,<br />

che impressione le ha fatto?<br />

E’ stato faticoso, perché a causa della dissenteria bisognava riabituarsi poco alla<br />

volta a mangiare, altrimenti poteva essere molto pericoloso. Non ci mancava nulla:<br />

pane, pasta, frutta, mi ricordo che gli alberi erano tutti spogli! Si diceva: “Ah, se si<br />

potesse far sapere a casa quanto stiamo bene… potremmo rimanere ancora un pò!”<br />

Non lavoravamo ed avevamo tutto quello che volevamo... però, appena ci hanno<br />

chiesto se volevamo partire, nessuno ha detto di no. Mi ricordo che stavamo preparando<br />

gli gnocchi: avevamo appena ammassato un sacco di farina sulla tavola, quando<br />

sono arrivati i camions e, con gli altoparlanti, hanno avvertito che c’erano i treni<br />

pronti e chi voleva, poteva partire. Abbiamo lasciato tutto così com’era e ce ne siamo<br />

andati. Uno solo ha preso il piatto e ha detto: “Ah no, prima mangio e poi parto!”.<br />

Lo stesso succedeva mentre tornavamo a casa, ogni tanto il treno faceva delle brevissime<br />

fermate di un quarto d’ora l’una, durante le quali noi scendevamo di corsa<br />

per accendere il fuoco e cucinare qualcosa. Ci arrangiavamo, anche se ci avevano<br />

73


Scene della liberazione: la prima zuppa offerta dagli Inglesi.<br />

distribuito qualche galletta e qualche scatoletta, non venivano utilizzate, perché ci<br />

pensavano i nostri uomini a procurarci il cibo. Solo che certe volte quando stava per<br />

bollire l’acqua, il treno fischiava e dovevamo risalire di corsa per non perderlo.<br />

E’ stata un’avventura.<br />

A Bolzano volevano farmi proseguire con il treno della Croce Rossa perché ero<br />

ancora piena di piaghe; ma io non ho voluto.<br />

Le mie piaghe sono guarite quando sono tornata a casa... Ho ancora le cicatrici,<br />

ma non fa niente.<br />

Quanta gente eravamo, là!<br />

Un momento molto bello è stato quando un sacerdote francese ha detto Messa; ci<br />

ha dato l’assoluzione generale così, chi voleva, poteva fare la Comunione, d’accordo<br />

però che alla prima occasione avremmo dovuto confessarci, ma non abbiamo mantenuto<br />

la promessa perché pensavamo fosse inutile, visto che eravamo sfrenate e stavamo<br />

fuori tutta la notte… e per quei tempi non era proprio una cosa da brave ragazze.<br />

Si ballava ventiquattr’ore su ventiquattro, organizzavamo gare di ballo a non finire.<br />

Chissà dove avevano preso gli strumenti... Io, Bianca e Bice avevamo adibito la<br />

nostra cameretta a salottino; la sera si metteva giù il pagliericcio, poi la mattina si<br />

toglieva. In un angolo avevamo messo anche un tavolino. A cucinare si andava nella<br />

camera delle altre, così da noi non sporcavamo nulla. Eravamo tremende!<br />

Proprio lì di fronte c’era una casa con un bel giardino ed un laghetto, e sulla riva<br />

c’era una barca che faceva acqua da tutte le parti sulla quale salivamo in sette o in otto,<br />

74


agazzi e ragazze e, mentre ridevamo, due di noi tiravano fuori l’acqua che entrava,<br />

mentre altri due remavano... era davvero bello quel laghetto, c’erano le ninfee, quelle<br />

con il gambo lungo… non so che cosa eravamo diventati, era come se la vita per noi<br />

non avesse più senso, come se non avessimo più nessuna responsabilità...<br />

Non facevamo nulla di male, ma quando sono tornata ho detto alla mamma:<br />

“Adesso vado a confessarmi, che figurati quante ne ho da raccontare!”.<br />

Però, invece di andare dal parroco, sono andata da don Giosué e ricordo di avergli<br />

detto: “Guardi, don Giosué, io ho pregato, sì, ma ho anche imprecato, ho bestem<strong>mia</strong>to...<br />

ho fatto tutto quello che non avrei dovuto fare”.<br />

Allora lui mi ha risposto: “Se non ha comprensione il Padre Eterno in certi<br />

momenti, come faremmo a vivere?”.<br />

Io allora mi sono precipitata a casa e ho gridato: “Mamma, mamma, non mi ha<br />

strillata!”. Ero felice come una Pasqua, perché don Giosué era severo.<br />

Gli inglesi erano tremendi, ci hanno imposto il copri – fuoco, così alle otto di sera<br />

si doveva essere dentro. Stavano fuori sulle strade, che erano senza illuminazione,<br />

per controllare ogni movimento. Però, siccome lungo le strade tedesche ci sono dei<br />

grandi fossi, quando vedevamo delle luci ci buttavamo lì dentro e non ci facevamo<br />

vedere. Per rientrare non avevamo problemi, perché dormivamo in case civili e quindi<br />

non potevano dirci niente. Quante volte siamo finite dentro quei fossi per nasconderci!<br />

Eravamo piene di foruncoli e di piaghe, dappertutto, un disastro!<br />

Ricordo che mi era uscito un foruncolo proprio nella natura, e non volevo andare<br />

a farmelo medicare visto che gli infermieri erano tutti uomini… e poi ci prendevano<br />

già abbastanza in giro, ci chiamavano le “camere d’aria rotte”, perché eravamo piene<br />

di cerotti... quindi, non ci sono andata. Ma qualche giorno dopo mi è venuta la febbre<br />

molto alta così sono stata costretta a rimanere sdraiata sul pagliericcio per diversi<br />

giorni.<br />

Quando mi sono sposata ed ho cominciato a fare delle visite ginecologiche per via<br />

dei figli, il dottore mi disse che avevo una cicatrice grossa come un fosso… altro che<br />

foruncolo! Chissà che diavolo avevo. E’ guarito da solo, ma quante me ne ha fatte<br />

passare! Il gabinetto era al piano di sotto, quindi per tutto quel tempo mi ero arrangiata<br />

come potevo. Dopo qualche giorno mi sono potuta finalmente alzare e scendere<br />

giù con gli altri.<br />

Ricordo che gli uomini avevano organizzato una specie di alambicco per distillare<br />

la grappa dalla frutta, e me ne diedero un bicchiere; io non mangiavo da tre o quattro<br />

giorni ed ero ancora debole per la febbre, quindi, appena ho bevuto il distillato,<br />

mi sono sentita male ed ho fatto le scale a quattro a quattro, sono arrivata al mio<br />

pagliericcio e mi sono lasciata andare giù. Quando le mie amiche sono rientrate provarono<br />

a chiamarmi ma io non risposi… poi ho sentito una delle due sorelle di <strong>La</strong><br />

Spezia che diceva: “Oddio, ma che è morta?! Senti che è morta!”.<br />

Ed io, dal profondo della <strong>mia</strong> ubriachezza, ho risposto: “Non sono morta, sono<br />

ubriaca!”.<br />

75


“...la faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse in un angolo e rigettò. Io ero<br />

troppo sconvolto per poter parlare...”<br />

Dati raccolti dal libro “Nei lager c’ero anch’io” di Vincenzo Pappalettera - Mursia 1973<br />

Omar N. Bradley, generale americano.<br />

I <strong>La</strong>ger visti dai liberatori.<br />

<strong>La</strong> Terza Armata aveva superato Ohrdruf ( situato in Turingia, era una dipendenza<br />

del campo di Bukenwald), primo dei campi della morte nazisti, non più tardi<br />

di due giorni prima e Patton insistette perché lo visitassero.<br />

“Non immaginereste mai quanto mascalzoni possano essere questi mangiacrauti”<br />

disse “ finchè non avrete visto anche voi quella spaventevole chiavica.”<br />

Il fetore di morte ci sopraffece fin dall’istante in cui penetrammo nella palizzata.<br />

Più di 3.200 cadaveri nudi, scheletriti, erano stati gettati in fosse poco profonde.<br />

Altri giacevano là dove erano caduti. Gli insetti brulicavano sulla pelle giallastra dei<br />

cadaveri aguzzi, ossuti. Una guardia ci mostrò come il sangue si fosse congelato in<br />

nere croste dove i prigionieri affamati avevano strappato le viscere ai morti, in cerca<br />

di cibo.<br />

<strong>La</strong> faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse<br />

in un angolo e rigettò. Io ero troppo sconvolto per poter parlare, perché qui la<br />

morte era stata così insozzata dalla degradazione da stordirci e obnubilarci.<br />

Entro una settimana dovevamo passare per altri di quei campi e in breve gli orrori<br />

di Bukenwald, Erlat, Belsen, e Dachau avrebbero fatto fremere il mondo che credeva<br />

di essersi abituato agli orrori della guerra.<br />

76


Come è stata la sua accoglienza?<br />

Quando siamo tornate era opinione comune che eravamo andate a fare le donne<br />

di strada, e questa è stata la cosa che ci ha ferito di più. Quando andavo in giro con<br />

la <strong>mia</strong> amica e ci fermavano per farci delle domande, lei mi diceva di stare zitta che<br />

avrebbe parlato al posto mio, forse perché aveva paura di una <strong>mia</strong> reazione impulsiva.<br />

<strong>La</strong> prima cosa che ci chiedevano era: “Cosa vi hanno fatto i tedeschi?”.<br />

In paese c’era un dottore molto giovane e bravo che aveva detto alle nostre famiglie:<br />

“Se le ragazze tornano, se avete piacere le prendo in cura io”. Infatti come siamo<br />

tornate ci ha prese in cura, ci ha fatto parecchie visite dandoci le medicine e non<br />

volendo mai una lira. Se non avessimo avuto il suo aiuto non avremmo potuto realmente<br />

sapere se avevamo qualche malattia.<br />

Sono andata da lui assieme alla mamma ed alla <strong>mia</strong> amica Gina. Lei era tornata<br />

prima di me ed era pratica di tutto, però, visto che a diciotto anni aveva avuto un<br />

bambino, non le credevano se diceva la verità sul fatto che i tedeschi le avessero fatto<br />

o no delle violenze… è stata sfortunata, il papà era stato picchiato dai fascisti ed era<br />

finito in manicomio, perché lo avevano picchiato sulla testa, la mamma si era trovata<br />

con quattro o cinque bambini da crescere, uno è andato in Russia e non è più tornato.<br />

Gina, quando aveva diciassette anni, è stata messa incinta da uno di Lecco, una<br />

persona molto facoltosa, che però non ne ha voluto sapere né di lei né del bambino.<br />

<strong>La</strong> voleva pagare, perché allora si usava così: o ci si sposava o si pagava, ma la<br />

mamma non ha voluto, è stata una donna molto forte; ha detto: “Se la vuoi sposare,<br />

la devi sposare, altrimenti di pagarla non se ne parla. Ha sbagliato, ma il bambino<br />

crescerà”.<br />

Quando ci hanno portate nei campi di concentramento, il bambino aveva sei anni.<br />

E’ morto tre o quattro mesi fa (estate 1995). Ha pranzato con la sua mamma, poi è<br />

andato a mettere a posto la villetta che si stava costruendo. E’ andato via alle due;<br />

alle due e un quarto è salito su il nipote che le ha detto: “Nonna, papà è morto”…<br />

così, secco; poveretta, la sua vita è stata un calvario peggio della <strong>mia</strong>.<br />

Quindi, con lei non potevano verificare quale fosse la verità… poi ce n’era<br />

un’altra che era vedova… poi c’era quella che non era tornata… insomma, la verità<br />

la potevano verificare solo su di me.<br />

Il mio fidanzato era andato dalla mamma a chiedere mie notizie: “E’ sicura, signora<br />

Missaglia, che sua figlia torna ancora una brava ragazza?”.<br />

Mia madre è rimasta molto male per questa domanda, e gli ha risposto che a lei,<br />

in quanto mamma, non interessava affatto questa sua preoccupazione da povero<br />

disgraziato, perché, anche se fossi tornata con due bambini ed un altro nella pancia,<br />

le sue braccia sarebbero state tanto grandi da abbracciarci tutti. Naturalmente, poi, lo<br />

mise alla porta.<br />

Così il dottore mi fece una visita molto approfondita, e quando ebbe finito, prese<br />

le mutandine, le buttò a <strong>mia</strong> madre e le disse: “Signora Missaglia, a sua figlia non è<br />

stata fatta violenza”.<br />

<strong>La</strong> <strong>mia</strong> mamma ha risposto: “E a me che me ne importa di questa sua diagnosi?<br />

77


L’importante per me è che sia tornata a casa”.<br />

Ma il medico la fece riflettere dicendo: “Sì, è tornata, e questo è fondamentale,<br />

però capirà che caratterialmente è molto cambiata, avrà bisogno di tanto tempo e,<br />

chissà, forse non basterà nemmeno! Questa sua terribile esperienza l’ha segnata, purtroppo,<br />

e dovrete avere con lei molta pazienza”.<br />

Infatti era proprio vero, tutto quello che gli altri facevano, era come se mi stessero<br />

facendo un dispetto! Per fortuna che ho trovato mio marito, che è un sant’uomo,<br />

perché un altro in certi momenti mi avrebbe buttata giù dalla finestra. Adesso mi sono<br />

calmata un po’, ma è roba recente. Il dottore mi diede dei calmanti e mi disse: “Mi<br />

prometti che non li prenderai se non è necessario?”. Infatti ne ho preso qualcuno e<br />

basta.<br />

Ho un carattere forte, quando ero in quell’inferno mi ripetevo continuamente: “Io<br />

devo tornare”.<br />

Qualche volta faccio ancora dei brutti sogni. L’altra notte, per esempio, ho sognato<br />

di essere in un campo di concentramento. Forse è perché sono diversi giorni che<br />

sto rileggendo i miei libri. Al mattino quando mi sono svegliata ho detto: “Non è vero<br />

niente”.<br />

Mio marito mi ha detto che tante volte la notte strillavo. Quando mi sono sposata<br />

ed ho avuto la Rita 8 , i miei incubi si sono spostati su di lei. Una notte ho sognato<br />

che ero in un fosso con la bambina stretta al collo, e poi la SS passava e me la portava<br />

via. Ed io strillavo, strillavo... allora mio marito mi ha svegliata chiedendomi<br />

spaventato: “Che cosa c’è? Cosa è successo?”.<br />

Ed io: “Mi hanno portato via la Rita!”.<br />

Ma lui sempre con la sua solita calma: “Ma no, non vedi che la Rita è là?”.<br />

Poi avevo l’incubo dei pidocchi! Dormivo in una camera che prima era quella<br />

della mamma, la sera mi spogliavo completamente, infilavo la camicia da notte e mi<br />

sedevo sul letto a cercare i pidocchi. Poi magari passava la mamma e mi chiedeva<br />

che cosa stessi facendo, ed io le rispondevo che stavo cercando i pidocchi, perché<br />

nelle cuciture dei vestiti potevano passare. <strong>La</strong> mamma allora mi consolava e, dopo<br />

avermi guardata attentamente, mi diceva che non era vero niente.<br />

Mi terrorizzava l’idea di dover andare dal parrucchiere, anche se sapevo che era<br />

diventata una cosa necessaria visto che ero tornata dai campi di concentramento con<br />

una testa spaventosa. Anche il mio papà, che era una persona discreta, mi aveva chiesto<br />

quando mi sarei decisa ad andare a tagliarmi i capelli. Ormai li pettinavo a destra<br />

e a sinistra, ma proprio non andavano. Allora la mamma un giorno si è seduta vicino<br />

a me e mi ha chiesto: “Si può sapere perché non vuoi andare a tagliarti i capelli?”.<br />

“Perché io ho i pidocchi!”. Risposi<br />

Ha sorriso: ha preso un cencio bianco, l’ ha messo sulle sue ginocchia e con un<br />

pettine ha passato i capelli ad uno ad uno. Alla fine sono andata dal fidanzato della<br />

<strong>mia</strong> amica, si chiamava Mario e faceva il parrucchiere. Quando sono entrata ha esclamato:<br />

“Finalmente ti sei decisa!”.<br />

Ma io, preoccupata, gli ho chiesto: “Sì, però mi fai un piacere? Mi metti lontano<br />

dalle persone presenti?”.<br />

8 <strong>La</strong> signora Missaglia ha avuto due figlie femmine, Rita e Antonella, e un maschio, Biagio.<br />

78


E lui mi ha chiesto: “Perché?”.<br />

“Perché così, se ho i pidocchi, nessuno lo vede!”.<br />

Passati i primi momenti, i suoi famigliari le hanno mai fatto delle domande?<br />

Sapevano già tutto, perché la <strong>mia</strong> amica Gina era tornata prima di me e aveva<br />

detto quello che c’era da dire. Qualche volta se ne parlava così, vagamente. Tra<br />

l’altro, la mamma non si è più ripresa, il cuore non le funzionava bene, e cinque anni<br />

dopo che sono tornata è morta. <strong>La</strong> mamma mi raccontava che un giorno, mentre cucinava,<br />

c’era una vespa che le girava sempre attorno, così mio cognato, il marito di <strong>mia</strong><br />

sorella, ha preso uno straccio e ha fatto per ammazzarla.<br />

Ma lei ha gridato: “Non l’ammazzare! Questa è la Lisetta!”… Per dire a che punto<br />

era arrivata.<br />

Però... ricordo una volta che...<br />

Era il quindici d’agosto: quel giorno, lo rammento bene, di nascosto dalle SS<br />

abbiamo dato da bere agli ungheresi. Povera gente, dopo un viaggio massacrante li<br />

avevano lasciati sotto il sole, senza mangiare e senza un goccio d’acqua e se per caso<br />

vedevano qualcuno avvicinarsi a loro per aiutarli, gli sparavano.<br />

Noi quel giorno avevamo l’incarico schifoso di buttare acqua sul letame per farlo<br />

marcire, senza poterci lavare, vicino a quella montagna di sterco!<br />

Ad un certo punto la <strong>mia</strong> amica dice: “Oggi è il quindici agosto, il giorno dell’Assunta:<br />

dobbiamo fare una benedizione speciale”. Così abbiamo cantato tutte le<br />

preghiere, davvero con il cuore. Poi la Gina ha alzato la forca e ha impartito la benedizione:<br />

“Che il Signore ci benedica tutte”. A quel punto ci siamo dette: “Forza, chia<strong>mia</strong>mo<br />

tutte insieme la mamma”.<br />

E’ stato un solo grido: “Mamma!”. Poi ci siamo messe tutte a piangere…<br />

… <strong>La</strong> <strong>mia</strong> mamma mi ha detto che le capitava di sentire la <strong>mia</strong> voce chiamare,<br />

così si girava ma non vedeva nessuno… allora scoppiava a piangere.<br />

Poteva pregare?<br />

Sarebbe stato proibito, ma siccome io sono stata cresciuta dalle suore, allora ho<br />

fatto pregare tutti. D’altra parte, le nostre preghiere sono andate bene, perché siamo<br />

tornate. Quando avevamo un lavoro che non ci piaceva, dicevamo: “Iniziamo la<br />

novena a Sant’Antonio, che magari poi il lavoro cambia”. E infatti quel giorno lì il<br />

lavoro finiva bene. Così ripetevamo alle scettiche: “Hai visto che il lavoro ci è andato<br />

bene? Sant’Antonio ci ha fatto la grazia”.<br />

Facevamo la novena a tutti i santi. Le suore dell’ordine dove andavo io, un ordine<br />

fondato da una nobildonna molto vicina alla clausura, mi avevano detto che, quando<br />

si ha bisogno di una grazia molto grossa, si devono dire mille Ave Maria al giorno;<br />

così noi, quando lavoravamo, dicevamo queste mille Ave Maria alla Madonna e<br />

le chiedevamo la grazia.<br />

Si dicevano un po’ ciascuno, così quando ci incontravamo ci dicevamo: “Io ne ho<br />

dette cento”… “Io ne ho dette trecento”… Alla sera ne avevamo dette mille.<br />

79


Ancora adesso, quando la <strong>mia</strong> amica Gina mi chiama mi dice: “Non ti ho telefonato<br />

prima perché te vai a Messa”. Lei ce l’ha sempre con la <strong>storia</strong> della Messa. Una<br />

volta mi ha scritto che non crede più, perché Dio non avrebbe dovuto permettere tutte<br />

quelle sofferenze! Allora io le ho risposto che ognuna è libera di fare quello che vuole<br />

però… le mille Ave Maria ci hanno fatte tornare.<br />

Povera Gina! Ma lei ci andrà lo stesso in Paradiso, perché è stata sempre buona<br />

con tutti e poi ne ha passate tante! Del resto, non è solo chi dice: “Signore, Signore”<br />

che entra nel Regno dei Cieli.<br />

No, non potevamo pregare, ma lo facevamo lo stesso, anche se non avevamo né<br />

crocifissi né rosari.<br />

“Oh cieli! Ditemi perché.<br />

Qual è la ragione di tutto ciò,<br />

di una tale offesa in questo mondo.<br />

<strong>La</strong> Terra come sorda e muta chiude gli occhi…<br />

ma voi avete visto.<br />

Voi dall’alto avete visto…<br />

e restate indifferenti”.<br />

(Isaac Katzenelson)<br />

C’erano dei religiosi tra gli internati?<br />

Sì, tanto uomini che donne. I tedeschi erano particolarmente duri con quelle persone<br />

a causa delle loro convinzioni. Era estremamente pericoloso manifestare la propria<br />

fede religiosa, perché nel lager era proibito pregare, comunicarsi e dire Messa.<br />

Il campo maschile aveva la fortuna di ospitare dei religiosi che, attraverso l’aiuto<br />

degli internati e dei civili, riuscivano a comunicare, dire Messa e persino a impartire<br />

i sacramenti!<br />

Nei miei libri si dice che i religiosi conservavano le ostie dentro i barattolini della<br />

carne in scatola o del lucido da scarpe, trovati chissà come, e che le ostie erano ricavate<br />

dal pane oppure procurate dai detenuti che lavoravano con i civili.<br />

Ho anche letto che in un campo era stato internato un giovane prossimo a prendere<br />

i voti che, attraverso una speciale autorizzazione del vescovo locale, ebbe il permesso<br />

di dire Messa e impartire i sacramenti. Purtroppo noi donne non avevamo questo<br />

conforto, perché le suore non potevano arrogarsi quel diritto.<br />

80


Le urla degli ebrei<br />

E’ tornata a visitare Auschwitz e Ravensbrück?<br />

Ad Auschwitz sì, mentre a Ravensbrück no. Ad<br />

Auschwitz sono tornata una decina di anni fa, con<br />

quelli dell’associazione di Milano. Ero serena, e<br />

quando siamo andati a visitare la cella delle torture<br />

ho ringraziato Dio che non mi fosse capitato<br />

nulla.<br />

C’erano altre persone invece che bestem<strong>mia</strong>vano<br />

e imprecavano… ma a che cosa serviva, ormai?<br />

Perché farsi sangue amaro e stare male? Fare così<br />

non avrebbe certo cambiato le cose. Il bunker<br />

aveva sede nel campo di Auschwitz 1, mentre io<br />

ero ad Auschwitz 2, Birkenau, dove i tedeschi torturavano<br />

ed uccidevano le persone.<br />

Mi ricordo che c’erano dei tubi dove ci dissero<br />

che infilavano le persone per farle morire; e poi<br />

c’erano delle sale dove si veniva pigiati in molti,<br />

senza cibo né acqua… e poi l’impiccagione a testa<br />

in giù... quanti orrori!<br />

Nel blocco 11 finivano tutti quelli che avevano<br />

fatto qualche mancanza, come ad esempio chi<br />

scappava. Quando all’appello si accorgevano che<br />

qualcuno mancava, si scatenava il finimondo: le<br />

sirene urlavano come pazze, le SS correvano da<br />

tutte le parti, i cani venivano lanciati addosso a<br />

chiunque. Allora si doveva aspettare sull’attenti<br />

finché il fuggitivo non venisse ritrovato; dovevamo<br />

stare dritti, senza poterci riparare, sotto la<br />

Nelle cantine del Blocco 11 erano state costruite delle celle per i<br />

prigionieri da punire, altre volte venivano gettati in alcune segrete;<br />

in ambedue i casi venivano lasciati morire di fame.<br />

81<br />

Dachau: dopo la guerra, colonne di visitatori si<br />

affollano verso la cappella.<br />

Ohrdruf-Buchenwald: il Generale Eisenhower<br />

osserva la forca delle esecuzioni.<br />

neve, l’acqua o il sole, dovevamo stare<br />

ore ed ore ad aspettare. Se lo trovavano,<br />

lo riportavano al campo più morto che<br />

vivo e poi lo impiccavano, altrimenti<br />

prendevano a caso dieci della sua<br />

baracca e li mandavano nel blocco 11,<br />

nel bunker della morte.


Padre Massimiliano Kolbe è morto così, per salvare un padre di famiglia che avevano<br />

preso con altri dieci. Per finire nel bunker non faceva differenza se si era ariani<br />

o ebrei, bastava rubare anche solo un pezzetto di pane ed essere scoperti per finire là…<br />

dicevano che erano solo dieci giorni di punizione, ma non si usciva vivi da lì. Tra il<br />

blocco 10, a sinistra, e il blocco 11, a destra, c’era un cortile immenso con un muro<br />

nero, il muro dove giustiziavano i deportati; lo chiamavano il “muro della morte”.<br />

Sui miei libri c’è scritto che lì fucilavano i prigionieri… ma è logico che fucilare<br />

tante persone per volta non era cosa facile… si dice che fossero delle scene impossibili<br />

da vedere e che i soldati esecutori della condanna, anche se imbottiti di droga ed<br />

alcool, impazzivano. Dopo invece cominciarono a scavare grossi fossi in cui li gettavano<br />

cosparsi di nafta, poi accendevano un fiammifero e li bruciavano vivi.<br />

Quando i crematori non erano più in grado di far fronte all’incredibile numero di decessi, i cadaveri venivano<br />

ammucchiati (foto a sinistra) e bruciati in gigantesche fosse all’aperto (foto a destra).<br />

Dopo che ci hanno spostato dal campo A al campo B, ci hanno messo dentro delle<br />

baracche che avevano dei finestrini molto piccoli. Il campo B era molto vicino ai<br />

forni crematori ed alle camere a gas, e quando la notte si sentiva gridare, da quelle<br />

fessure cercavamo di vedere che cosa stesse succedendo, così vedevamo quella pove-<br />

Porta d’ngresso al campo di Birkenau (Porta della<br />

morte) vista dalla banchina dove arrivavano i treni con<br />

i prigionieri.<br />

82<br />

I forni di uno dei crematori.


a gente che si arrampicava, cercando disperatamente ed inutilmente una via di<br />

fuga… è una cosa difficile da spiegare...<br />

Quando sono tornata ad Auschwitz per la cerimonia, hanno ceduto ad ogni nazione<br />

una baracca per fare un memorial… così l’ hanno chiamato.<br />

<strong>La</strong> baracca italiana è stata allestita dall’architetto Belgioioso di Milano; vi ha<br />

costruito dentro un tunnel a forma di spirale tutto colorato di scuro, mettendo come<br />

sottofondo le grida degli ebrei. Era fatto tanto bene che io avevo chiesto alla presidentessa<br />

della sezione di Milano la cassetta, ma lei mi disse stupita: “Cosa te ne fai<br />

te, che ne hai già sentite abbastanza di grida degli ebrei!”…non me l’ ha voluta dare!?<br />

E’ vero, sono cose che non si dimenticano, quelle urla le sento ancora.<br />

Ebrei trasportati sui carri destinati ai campi di sterminio.<br />

Possiamo perdonare. Ma dimenticare no! Di fronte al blocco 11 c’era il blocco 10,<br />

quello degli esperimenti, lì non fanno ancora entrare.<br />

83


Irma Grese<br />

Cielo di ghiaccio<br />

Sopra anime perdute...<br />

Fantasmi maleodoranti<br />

E il tuo vile profumo...<br />

Norimberga ti punì,<br />

angelo biondo...<br />

non bastò la tua putrida bellezza<br />

ad ingannar la corda...<br />

Scivolò via in un attimo,<br />

la tua folle vanità...<br />

ah, quale errore fu assegnar ad un’anima brutale<br />

un apparir così poco degno...<br />

Solo i vermi ti rimpiangono,<br />

angelo biondo...<br />

e le urla delle tue vittime<br />

ti accompagnino ora e per l’eternità<br />

Michele Del Rossi<br />

84


Irma Grese, “l’angelo biondo”<br />

Ha sempre avuto la cognizione del tempo?<br />

Sempre, noi ci rendevamo sempre conto di che giorno fosse, eravamo sempre in<br />

grado di dire con esattezza la data. Sapevamo quando era Natale o Pasqua… però, in<br />

quanto a festeggiare...<br />

<strong>La</strong> prima Pasqua... il giorno preciso non me lo ricordo, ma è stato al principio di<br />

aprile, eravamo appena arrivate, e ricordo che due ragazze vennero prese a calci dai<br />

soldati. Non so per quale motivo, ma tanto non c’era bisogno che ci fosse un motivo,<br />

bastava che si passasse vicino ad uno per essere prese a calci. Se le rimpallavano<br />

come fossero dei palloni… dopo le hanno prese per i piedi e le hanno trascinate<br />

nel bunker; poverette, saranno sicuramente morte.<br />

C’era una aufseherin, un avanzo di galera... ma era così bella, così bella che la<br />

chiamavano “l’angelo biondo”… il suo nome era Irma Grese.<br />

Non molto alta di statura, ma era<br />

snella, portava la divisa in un modo!<br />

Aveva i capelli biondi legati con uno<br />

chignon e la bustina in testa, andava<br />

sempre in giro con un cane e il frustino.<br />

Un giorno l’abbiamo vista<br />

dalla finestra andare con la bicicletta…<br />

faceva freddo, per terra c’era il<br />

ghiaccio… ma come si fa a pretendere<br />

di andare in bicicletta con un<br />

tempo così? Giustamente ha scartato;<br />

in quel momento passava una<br />

prigioniera, così quella belva è scesa<br />

dalla bicicletta e l’ ha ammazzata di<br />

botte, lasciandola per terra mezza<br />

morta… non so se l’ ha ammazzata<br />

davvero.<br />

Questo per dire... che bastava la<br />

più piccola cosa, anche la più insignificante<br />

per scatenare l’ira più<br />

furibonda e senza senso!<br />

“L’angelo biondo” è stato impiccato…<br />

è stata presa e processata a<br />

Norimberga.<br />

Il vederla suscitava terrore, e lei di questo ne era orgogliosa. Era cattiva, ma di<br />

una cattiveria sottile… il profumo che emanava e la sua bellezza servivano solo ad<br />

avvilire maggiormente le povere detenute vestite di stracci e maleodoranti.<br />

Aveva un viso d’angelo, ma angelo certo non era.<br />

cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”<br />

Gli aguzzini: Herta Ehlert (8), Irma Grese (9), Ilse Lothe (10) - foto<br />

sopra; Josef Kramer (1), Fritz Klein (2), Peter Weingartener (3), <strong>La</strong>deslaw<br />

Gura (17), Otto Galesson (19) e Karl Egersdorf (21) - foto sotto.<br />

85


L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…<br />

Se non sbaglio, lei ha trascorso in prigionia due feste di Pasqua e un Natale:<br />

che cosa ricorda di quei giorni?<br />

Quando è stata la prima Pasqua eravamo ancora frastornate, non credevamo che<br />

fosse possibile una cosa simile, anche perché ci avevano fatto credere tutt’altro;<br />

infatti, appena partite siamo state scortate dai soldati austriaci fino alla frontiera, e ce<br />

n’era uno che, quando ci vedeva piangere, diceva: “Non piangete”. Ci faceva capire<br />

che, passati quaranta giorni, saremmo tornate a casa, quindi eravamo ancora sotto<br />

l’influenza di quella speranza. Invece...<br />

<strong>La</strong> prima Pasqua l’ ho passata ad Auschwitz, mentre il Natale a Ravensbrück, nel<br />

campo vicino la fabbrica; ricordo che continuavo a pregare di essere a casa per Natale…<br />

dicevo: “Gesù mio, ti prometto che, se torno a casa per Natale, possono cucinare<br />

tutto quello che vogliono, ma io non assaggerò nulla”. Speranza vana!<br />

Avevo anche fatto il voto di fare tutti gli scalini del santuario di San Gerolamo<br />

Emiliani in ginocchio. San Gerolamo era in prigione, ma la Madonna lo liberò. Allora<br />

lui si diede ai poveri, assistendo quelli che erano in prigione ed in difficoltà. Questo<br />

santuario è a Somasca, vicino Lecco, sulla strada che porta al castello dell’Innominato<br />

di Manzoni, ci sono ancora tutti i ruderi. Un tempo era una mulattiera, adesso<br />

ci hanno fatto una strada vera. Lungo questa strada c’è la scala santa, cento gradini<br />

che San Gerolamo faceva in ginocchio tutti i giorni. Da ragazza qualche volta li<br />

ho fatti anch’io. Quando sono tornata a casa, sono andata al santuario per sciogliere<br />

il voto.<br />

Tempo fa, parlando con <strong>mia</strong> figlia più grande di quando era piccola, mi ha detto<br />

riguardo al santuario: “Quanti spaventi mi hai fatto prendere, mamma, quando mi<br />

portavi a San Gerolamo con tutta quella gente!”. Quando aveva sei anni la portavo<br />

con me in pellegrinaggio al santuario di San Gerolamo.<br />

Io le rispondevo: “Ma era un santo!”.<br />

E lei: “Lo so, ma a me non andava di venire”.<br />

Il giorno di Natale non ci hanno fatto lavorare, mentre correva la voce che ci<br />

avrebbero dato chissà che... invece ci hanno dato la solita zuppa scarsa. Ma almeno<br />

non ci hanno fatto lavorare. <strong>La</strong> sera le russe hanno organizzato per ballare, alle russe<br />

piaceva, ed evidentemente avevano ancora la forza per farlo. Le loro baracche erano<br />

state un tempo gli alloggi dei soldati, quindi avevano una grande camera che riadattarono<br />

per l’occasione, poi, siccome si intendevano bene con le polacche e le slovene,<br />

hanno fatto passare parola; alla fine vennero anche delle SS, che per una volta ci<br />

lasciarono in pace.<br />

Avevano fatto in mezzo al cortile un albero di Natale… Dio, che nostalgia!<br />

<strong>La</strong> prima Pasqua l’ ho passata dentro Auschwitz, la seconda... ero a Ravensbrück,<br />

perché prima di essere trasferita nel campo vicino alla fabbrica sono rimasta una ventina<br />

di giorni (dal venti di marzo alla metà di aprile) nel campo di Ravensbrück. Forse<br />

non ce ne siamo rese conto dell’arrivo della Pasqua perché gli ultimi giorni di prigionia<br />

sono stati tremendi, non si lavorava, non c’era cibo e si viveva in mezzo agli<br />

87


escrementi. Non eravamo che povere ombre, camminavamo in mezzo alla sporcizia<br />

mentre dappertutto c’erano cataste di morti; ricordo ancora carri con montagne di<br />

morti alte al cielo… ma non riuscivano a caricarli tutti, la maggior parte era abbandonata<br />

per tutto il campo. Ormai pensavo che quella sarebbe stata anche la <strong>mia</strong> sorte<br />

quindi, inutile dire o fare qualsiasi cosa. Ma, nonostante tutto, la vita era la vita e si<br />

implorava la compagna vicina di aiutarti. Io devo ringraziare la <strong>mia</strong> grande forza di<br />

volontà, perché non mi reggevo più, ridotta pelle ed ossa.<br />

Sono sempre stata<br />

magra, ricordo che<br />

quando mi pesavo, tornavo<br />

a casa e dicevo a<br />

<strong>mia</strong> madre: “Sono<br />

diventata un colosso!”.<br />

E lei: “Perché, quanto<br />

pesi?”.<br />

“Cinquanta chili!”.<br />

Ero alta e sottile, eppure<br />

mangiavo tanto! Ero<br />

una cosa incredibile.<br />

Quando facevo il turno<br />

dalle sei alle due, mio<br />

padre era già tornato in<br />

fabbrica e mio fratello<br />

era in ufficio. Allora <strong>mia</strong><br />

madre preparava la<br />

Questo fu quello che videro coloro che, dopo la liberazione entrarono nei campi: mucchi<br />

di cadaveri e spettri umani.<br />

tavola solo per me. Quando avevo finito, trascorrevo un pò di tempo a leggere, anche<br />

se di solito si lavorava a maglia; allora vedevo <strong>mia</strong> madre che mi guardava con quel<br />

suo sorriso proprio... di santa, e mi chiedeva : “Sai quanti panini ti sei mangiata?”.<br />

“Non lo so!”.<br />

“Dodici, quattordici...” e alla sera, quando andavo a letto, mi portavo sempre due<br />

o tre panini in camera, senza niente perché non avevamo niente.<br />

C’era <strong>mia</strong> sorella, che ha sei anni più di me e che d’inverno veniva nel mio letto<br />

perché aveva freddo (non c’era il riscaldamento, avevamo solo una stufa in cucina,<br />

ma grazie a Dio le coperte non mancavano), che si lamentava perché nel letto c’erano<br />

le briciole del pane. Però ero magra, ero tutta nervi.<br />

Così, nei campi di concentramento, dimagrendo tantissimo, è difficile immaginare<br />

come fossi diventata!… Ma almeno, non essendo stata mai grassa, non perdevo la<br />

pelle come le altre.<br />

Infatti le persone che erano state grasse erano cadenti: i seni, le braccia, le gambe,<br />

Oddio che impressione! Ricordo che quando andavamo a fare la doccia e ci guardavamo<br />

dicevo: “Può essere che quella sia ancora una persona?”. Ed io, ho dovuto<br />

accettare quello stato di cose… perché era forte in me la volontà di sopravvivere, mi<br />

88


Il suicidio apparve a molti deportati come<br />

l’unico modo per porre termine alle insopportabili<br />

sofferenze.<br />

ripetevo sempre: “Io devo tornare a casa”.<br />

Se mi fossi lasciata andare… sarebbe stata la fine.<br />

Guai se sentivo qualcuno dire: “Io devo morire”.<br />

A d<br />

Auschwitz avevamo ancora la forza che ci aiutava a<br />

vivere, invece a Ravensbrück avevamo perso tutto.<br />

Vi è mai passata per la mente l’idea di farla finita?<br />

Sì, spesso. Qualche volta si diceva: “Mi ammazzo”.<br />

Ma poi l’istinto di conservazione, la speranza che<br />

tutto potesse finire aveva la meglio. Se avessimo<br />

voluto, del resto, sarebbe bastato passare accanto al<br />

filo spinato dove correva la corrente ad alta tensione e<br />

toccarlo per farla finita.<br />

“Domani mattina tocco il filo”. Si diceva, si diceva...<br />

E’ vero, ci sono stati dei casi di suicidio.<br />

Le ausiliarie e le kapò come si comportavano nei<br />

vostri confronti?<br />

Erano più cattive degli uomini. Ma forse perché la<br />

donna è provvista di una cattiveria più raffinata, mentre<br />

l’uomo è un po’ più superficiale... non so… Però,<br />

uomini o donne, erano cattivi gli uni e gli altri. Solo<br />

che da una donna, forse, non me lo aspettavo.<br />

Le prigioniere erano comandate soprattutto dalle<br />

ausiliarie; c’erano anche dei soldati, ma quelli si limitavano<br />

a seguirci sul campo quando andavamo a lavorare<br />

oppure facevano la guardia sulle torrette. Per il<br />

resto, erano tutte donne.<br />

Ad Auschwitz c’era una donna che non era cattiva…<br />

se potessi vederla, oggi, l’abbraccerei. Era piccola<br />

di statura e piuttosto grassoccia; indossava giacca<br />

e gonna a pantaloni, degli stivali enormi, una pistola<br />

lunga che le scendeva fino al ginocchio, aveva sempre<br />

vicino un cane che era alto come lei... i cani delle<br />

SS erano feroci, bastava poco per essere azzannate.<br />

Ad Auschwitz c’era la banda e noi, con gli zoccoli<br />

senza zeppa, vestite di stracci, stanche, dovevamo<br />

marciare a tempo, guai se sbagliavamo! Quando uscivamo<br />

dal campo per andare a lavorare nella campagna,<br />

dovevamo camminare in fila l’una a fianco<br />

89


all’altra e a passo di marcia, se vedevamo quella donna tiravamo un sospiro di sollievo.<br />

Dicevamo: “Meno male, oggi si lavora di meno!”. Si sedeva con il suo cane e<br />

ci strillava parolacce per tutto il giorno a voce molto alta, ma poi faceva segno di fare<br />

adagio. Urlava per farsi sentire dagli altri che comandava, però ci agevolava quando<br />

vedeva che non ce la<br />

facevamo più.<br />

Quando evacuarono<br />

il campo di<br />

Ravensbrück, e noi<br />

eravamo destinate ad<br />

essere caricate su di<br />

una nave che avrebbero<br />

dovuto affondare<br />

in mezzo al mare,<br />

ci fecero camminare<br />

per molti giorni e<br />

molte notti. Ogni<br />

tanto ci affiancavano<br />

dei gruppi di militari<br />

italiani prigionieri,<br />

Orchestre di deportati accompagnavano i loro compagni condannati a morte sul luogo delle<br />

esecuzioni: estremo oltraggio delle SS alle loro vittime.<br />

che chiedevano se ci fossero italiani e se volevamo scappare. E’ vero che le SS che<br />

ci scortavano erano male equipaggiate e che tra di loro uno era piuttosto anziano, ma<br />

noi avevamo paura ugualmente. Ad un certo punto, proprio quello più anziano si è<br />

avvicinato e si è fatto riconoscere: era un italiano, e disse di essere obbligato a fare<br />

quello che stava facendo 9 . Ci disse che, se volevamo, potevamo scappare, che lui e il<br />

suo compagno non erano armati, che l’unico tedesco armato era quello davanti alla<br />

colonna.<br />

Se fossimo rimasti indietro, con il sopraggiungere della notte avremmo potuto<br />

allontanarci, perché loro due non ci avrebbero sparato. Difatti così è stato. Eravamo<br />

sei donne: io, la Bice, Antonietta, la Bianca di <strong>La</strong> Spezia e una slava.<br />

Con i soldati italiani siamo scappati in mezzo alla boscaglia e la prima cosa che<br />

abbiamo fatto appena abbiamo trovato una cascina è stato di metterci a dormire. Al<br />

mattino i ragazzi sono usciti fuori a vedere se passavano altre colonne e ci hanno<br />

detto che avevano visto delle prigioniere vestite come noi, con il camicione a strisce<br />

e con una croce dipinta in mezzo alla schiena: erano detenute ebree, esse avevano<br />

tutte una croce, mentre le ariane avevano una riga. Stupidamente siamo uscite e,<br />

invece di camminare nella direzione opposta, siamo andate avanti. Così siamo state<br />

riprese… ci hanno puntato il mitra alla schiena e, volendo, avrebbero potuto fucilarci<br />

seduta stante. Ma avevano bisogno del permesso del più alto di grado. <strong>La</strong> sorpresa<br />

è stata grande quando abbiamo scoperto che una delle SS era proprio la donna piccola<br />

di statura e un po’ grassoccia che però non era cattiva! Non so come abbia fatto<br />

a riconoscerci… Siamo arrivate ad Auschwitz alla fine di aprile, e siamo rimaste là<br />

9 Probabilmente era un repubblichino o un altoatesino, oppure un soldato fatto prigioniero che aveva accettato di militare tra i nazifascisti in cambio della<br />

libertà.<br />

90


fino ad ottobre. Poi ci avevano mandate a lavorare in una fabbrica vicino Ravensbrück…<br />

ad Auschwitz sembravamo scheletri, a Ravensbrück spettri… eravamo irriconoscibili!<br />

Eppure, quando lei ci ha viste, ci ha guardate ed ha esclamato: “Auschwitz?!?”.<br />

Abbiamo fatto un cenno affermativo con la testa, mentre intorno quelle belve<br />

urlavano e si sbracciavano, facendoci capire che volevano fucilarci!<br />

Lei, invece, ha fatto cenno di no e ci ha ordinato di seguirla. Non ci ha fatto niente,<br />

non ci ha dato neanche uno schiaffo… no, non erano tutte cattive, le auseherin.<br />

Ricordo che poco prima di Natale una delle SS disse: “E’ Natale ed io a casa ho<br />

quattro bambini”. Perché anche loro non erano tutte volontarie, molte le rastrellavano.<br />

Sempre ad Auschwitz, tra i soldati che ci accompagnavano fuori a lavorare ce<br />

n’era uno... Era un postel 10 alto, magro, odioso! Era una vera belva. Ha fatto amicizia<br />

con una prigioniera russa; era bella quella russa… ma le russe sono tutte belle…<br />

quando arrivavamo al lavoro, lei si sedeva vicino a lui. Chissà cosa avrà trovato in<br />

quella ragazza! Era cambiato, non era più il barbaro di un tempo.<br />

Non ci ha più picchiate ed uscire con lui ci faceva meno paura. Dovevamo sempre<br />

lavorare, ma almeno senza botte.<br />

I primi giorni che eravamo ad Auschwitz dovevamo trainare dei carri molto<br />

pesanti, erano quei carri con il timone ai quali si attaccavano i buoi, ma lì i buoi eravamo<br />

noi.<br />

<strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica aveva sempre paura di prendere botte lei e di farle prendere a noi,<br />

così si metteva sempre davanti. Ad un certo punto il carro si è fermato per il ghiaccio<br />

che c’era a terra, e lei stupidamente ha messo la mano davanti, di modo che le è<br />

rimasta schiacciata tra il timone ed il carro. Chi ci accompagnava quel giorno era una<br />

SS giovane, alta, una bellezza bruna, ed è rimasta dispiaciuta quando ha visto che si<br />

era fatta male, così, quando siamo tornate, ha chiamato la blocova e le ha detto che<br />

la <strong>mia</strong> amica il giorno dopo non sarebbe dovuta andare a lavorare.<br />

Sì, ogni tanto c’era qualcuno che aveva un po’ di umanità.<br />

Le persone che avevano dei<br />

piccoli difetti, per esempio<br />

quelle che portavano gli<br />

occhiali, venivano selezionate?<br />

Se non erano ebrei, non<br />

venivano selezionati. <strong>La</strong> selezione<br />

tra gli ariani avveniva<br />

solo se si era ricoverati o se le<br />

fabbriche avevano bisogno di<br />

manodopera. Se non si rendeva<br />

più e si era ricoverati, allora si<br />

poteva essere selezionati. Ad<br />

Auschwitz le selezioni avveni-<br />

10 Postel significa “soldato” in tedesco.<br />

L’arrivo e la selezione.<br />

91


vano alla stazione (ma solo per gli ebrei) ed al revier ed erano dirette dal dottor Mengele.<br />

Le selezioni per andare a lavorare in fabbrica erano un’altra cosa: suonavano il<br />

fischietto e si usciva tutti all’aperto sull’attenti. Dovevamo passare davanti alle SS<br />

senza vestiti e sfilare nudi per mostrare i nostri “muscoli”… era una cosa pietosa…<br />

cercavamo di gonfiarci, e quando ci toccavano volevamo sembrare duri come rocce.<br />

92


Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei<br />

bruciati per festeggiare il Führer<br />

C’erano bambini?<br />

I tedeschi uccidevano subito tutti i bambini<br />

ebrei. Ve n’erano alcuni che erano figli di<br />

donne entrate nel campo già incinte e che quindi<br />

partorivano nei campi di concentramento… se<br />

però i tedeschi se ne accorgevano prima, le mandavano<br />

direttamente al crematorio; invece, se la<br />

gravidanza non era molto avanzata, e quindi riuscivano<br />

a nasconderla, le donne potevano o perdere<br />

il figlio per tutte le fatiche a cui venivano<br />

sottoposte o partorirlo… ma poi, senza nemmeno<br />

tagliargli il cordone ombelicale lo affogavano<br />

in un secchio d’acqua. Però, ci sono stati anche<br />

casi in cui sono stati salvati. Sui miei libri c’è scritto che qualcuno, dopo aver preso<br />

contatto con i civili attraverso i prigionieri che lavoravano fuori il lager, mise in<br />

salvo qualche bambino avvolgendolo negli stracci e gettandolo oltre il filo spinato.<br />

Era difficile che vi fossero bambini non ebrei perché di solito venivano al seguito dei<br />

genitori, e solo gli ebrei venivano rastrellati in quel modo, con tutta la famiglia.<br />

Ricordo che poco prima che sfollassero il campo di Ravensbrück, la direzione era<br />

allo sfascio, non andavamo a lavorare e potevamo girare dappertutto senza grosse<br />

preoccupazioni. Quella libertà ci faceva paura: tememmo che fosse la nostra fine.<br />

Proprio durante un’esplorazione in una baracca abbiamo trovato dei bambini. Sapevamo<br />

della loro esistenza perché li vedevamo all’appell, ma pensavamo che fossero<br />

morti. Invece erano ancora vivi. Era così pietoso vederli stare ritti durante le adunate,<br />

magri da far spavento! Li contava<br />

sempre una donna delle SS; una<br />

sera ha fatto una carezza ad un bambino,<br />

un pidocchio le è rimasto sulla<br />

mano, così ha massacrato di botte<br />

quella povera creatura! Brutte<br />

bestie!<br />

Ricordo che con noi, quando<br />

appena catturate eravamo in prigione<br />

a Como, c’era una famiglia ebrea<br />

composta da padre, madre, un<br />

maschietto di quattro o cinque anni<br />

e una femminuccia di dodici anni,<br />

Stellina. Gina è sempre stata molto<br />

Questi ebrei sono stati selezionati ed il loro destino è la camera a gas.<br />

93<br />

Cadavere di un feto con ancora attaccato il cordone<br />

ombelicale.<br />

dolce ed affettuosa con quella bam-


“In questo ambiente insolito i bambini piccoli si mettevano solitamente a piangere.<br />

Ma dopo essere stati consolati...si avviavano verso le camere a gas giocando<br />

e scherzando, con un giocattolo tra le mani” (Memorie di Rudolf Hoess).<br />

Schedatura di un ragazzo ad Auschwiz.<br />

Attraverso queste aperture collocate sul tetto venivano gettate nelle camere<br />

sottostanti le scatole contenenti il gas che si spandeva immediatamente.<br />

Contenitori di acido cianidrico (ZYKLON-B)<br />

destinato alla gassificazione.<br />

94<br />

bina, forse perché a casa lei aveva<br />

lasciato un bimbo piccolo.<br />

Successivamente, eravamo<br />

arrivate ad Auschwitz già da un<br />

pezzo quando abbiamo rivisto<br />

Stellina che, appena ha riconosciuto<br />

Gina, le è corsa incontro, e<br />

lei, quando eravamo chiuse nel<br />

blocco, la coccolava continuamente.<br />

Gina le chiese che fine<br />

avessero fatto i suoi genitori, e lei<br />

rispose candidamente: “Mamma<br />

è andata in un altro campo, e<br />

dopo ci andrò anch’io”.<br />

Invece noi sapevamo dov’erano<br />

finiti la sua mamma ed il suo<br />

papà… per “altro campo” i tedeschi<br />

intendevano il crematorio.<br />

Un giorno vedemmo Stellina che<br />

stava piangendo come una fontana,<br />

così la Gina le chiese che cosa<br />

avesse; lei rispose che si era fatta<br />

sotto a causa della diarrea, che<br />

l’avevano costretta a raccogliere<br />

tutto con le mani e che le proibivano<br />

di lavarsi!<br />

Poi… ricordo che nel mese di<br />

luglio c’è stata una festa in onore<br />

del Führer, noi stavamo rientrando,<br />

e sulla strada incontrammo<br />

una colonna di bambini che invece<br />

usciva… tra loro c’era anche<br />

Stellina. Gridò felice, candida ed<br />

inconsapevole: “Gina, Gina,<br />

ciao! Vado dalla mamma!”.<br />

Quella notte hanno bruciato<br />

settecentocinquanta bambini<br />

ebrei per festeggiare il Führer!<br />

Che differenze c’erano, qualitativamente,<br />

tra i kommandi?<br />

Ricordo che un mattino chiamarono<br />

la <strong>mia</strong> amica Emma e


l’assegnarono ad un altro kommando, chissà per quale miracolo. In seguito cambiò<br />

anche blocco.<br />

Qualche tempo dopo la rivedemmo e ci disse che andava a coltivare i fiori dei<br />

giardini! 11 . Non solo il lavoro era leggero, ma aveva anche la possibilità di stare a<br />

contatto con i civili, rimediando qualche cosa in più da mangiare. L’ultima volta che<br />

io, Gina e le altre l’abbiamo vista stava male, aveva la diarrea, il male più terribile<br />

che potesse esserci là dentro. Non era andata a lavorare e ogni due minuti correva al<br />

gabinetto, ma ricordo che aveva un cencio pieno di pane, e che non ce ne voleva dare<br />

neanche un pò. Era una cattiveria, perché praticamente lei stava male, e quindi non<br />

poteva mangiare, mentre noi morivamo di fame?!? Ci siamo così arrabbiate, io e la<br />

<strong>mia</strong> amica, che le abbiamo mandato un sacco di accidenti. Dopo di allora non l’ ho<br />

più vista; non è tornata, né sappiamo se è morta o se non è voluta tornare a casa. Era<br />

sposata ma aveva una vita molto infelice. Forse non se l’è sentita di farsi viva con il<br />

marito, forse si è nascosta. Nessuno sa che cosa le sia successo.<br />

I tedeschi facevano differenze tra il lavoro maschile e quello femminile?<br />

Il lavoro era lo stesso, non c’erano differenze. Quando ad Auschwitz scavavamo<br />

i fossi con noi c’erano gli uomini.<br />

E quando era periodo di zappare,<br />

noi lavoravamo la terra e loro buttavano<br />

la cenere degli ebrei sulle<br />

zolle come concime.<br />

In fabbrica c’era qualche<br />

uomo, ma nel mio reparto no.<br />

C’erano degli elettricisti italiani,<br />

prigionieri di guerra, tra cui un<br />

bel ragazzo alto e prestante; stava<br />

piuttosto bene, perché quelli che<br />

facevano quel tipo di lavoro venivano<br />

trattati meglio.<br />

Così una delle SS più feroci ha<br />

cominciato a fargli la corte. Un<br />

giorno lei si avvicinò a noi e ci<br />

chiese come si dice “mio amore”<br />

in italiano.<br />

“Tu, italianka, spreken mai liben?”.<br />

“Mio amore”.<br />

Non c’era differenza tra il lavoro maschile e quello femminile, anche le donne<br />

venivano “usate” per i lavori forzati.<br />

Glielo abbiamo dovuto dire, altrimenti… ci avrebbe riempite di bastonate…<br />

Capitava di riuscire a parlare con loro?<br />

Quando i kommandi si incrociavano chiedevamo sempre: “Ci sono italiani, ci<br />

sono italiani?”.<br />

Di prigionieri ce n’erano pochi: la maggior parte erano militari.<br />

11 Per mimetizzare l’attività dei KZ, i tedeschi ricorsero a tutta una serie di abili stratagemmi: costruirono serre, voliere, tipici villini del nord,ecc.<br />

95


C’era qualche ebreo, come quello che ripeteva sempre: “Qua moriamo tutti, qua<br />

moriamo tutti”. Tanto che alla fine nessuno gli rispondeva più. E poi ce n’era un altro<br />

che diceva: “Io ero un ingegnere”. E ripeteva continuamente: “io ero, io ero, io<br />

ero...”. Tanto che una volta gli dissi: “Ma adesso siamo qui, e quel che eravamo non<br />

lo siamo più, non contiamo più niente!”.<br />

Anche tra le donne c’era chi rifiutava di svolgere i lavori più pesanti ed umili perché<br />

prima di essere catturate erano delle persone importanti. <strong>La</strong> <strong>mia</strong> amica era troppo<br />

buona, piuttosto che vederle ammazzare di botte faceva anche il loro lavoro! Io<br />

invece no.<br />

96


<strong>La</strong> sete<br />

Qual è la cosa che ricorda con maggior fastidio?<br />

Il non capirsi, quella era per me la cosa peggiore. Capitava che una russa mi rivolgesse<br />

la parola e che io interpretassi quello che diceva in un altro modo.<br />

Le russe erano affiatate e molto più forti di noi italiane, per questo sul lavoro<br />

erano trattate con un occhio di riguardo; ricordo che quando dovevamo caricare i<br />

camions di ghiaia e grossi sassi, mentre la <strong>mia</strong> forca arrivava in alto vuota, la loro era<br />

sempre piena. “Sciaiser, sciaiser”, non facevano altro che ripeterci questa parolaccia.<br />

Il problema era che non capivamo niente! Quando non si capisce la lingua, diventa<br />

faticoso vivere! Sì, qualche parola l’ ho imparata, ma il problema era che magari<br />

il comandante parlava tedesco, la lager – führer, cioè la comandante del campo, il<br />

polacco; poi, magari una parlava sloveno, un’altra il russo... era la torre di Babele,<br />

tutte le lingue e tutti i dialetti assieme. Poi eravamo anche miste nei blocchi, e visto<br />

che noi italiane eravamo poche, ed eravamo anche disperse, una in un blocco, una in<br />

un altro, ci trattavano come pezzenti.<br />

… Poi… forse non è difficile da capire… la sete era un’altra cosa terribile! Un<br />

vero tormento!<br />

Ricordo che una volta, era il mese di luglio e faceva un caldo tremendo… forse<br />

la Polonia è una terra maledetta, quando fa freddo si gela, quando fa caldo si brucia…<br />

quella mattina siamo andati a lavorare come sempre; lì vicino c’era una specie di<br />

ruscelletto ma l’acqua era ferma.<br />

I primi ad entrarvi sono stati i cani, e ci hanno sguazzato in tutti i modi possibili.<br />

Nell’intervallo ci siamo avvicinate a quella pozza e vi abbiamo sciacquato le<br />

mutande e quei quattro miseri cenci che avevamo; poi, nel pomeriggio, non ce<br />

l’abbiamo fatta più e abbiamo bevuto quell’acqua fetida.<br />

<strong>La</strong> fame è una brutta bestia, ma anche la sete non scherza! Avevamo sete da morire<br />

e faceva un caldo pazzesco.<br />

L’acqua era sporca, lurida di tutto, con dentro lunghi vermi e peli di cani.<br />

Allora abbiamo preso l’orlo del nostro cencio, abbiamo filtrato l’acqua e<br />

l’abbiamo bevuta. Quella è stata la cosa che ci ha fatto più ribrezzo in assoluto.<br />

Quando a luglio o agosto, passando vicino a qualche casetta delle SS o dei civili,<br />

vedevamo i pozzi, era una tortura indicibile non poterci avvicinare.<br />

Tutte quante sognavamo di poterci lavare con il sapone e di toglierci di dosso<br />

quella crosta sudicia che non veniva via neanche strofinandoci a sangue.<br />

Ricordo che, dopo che i russi ci hanno liberate, siamo andati dentro le case dei<br />

civili e abbiamo rubato i vestiti e le lenzuola. Quando noi e i nostri compagni siamo<br />

arrivati nel campo americano e abbiamo potuto fare un vero bagno, mi sono sentita<br />

rinascere.<br />

Quella sera, poi, abbiamo finalmente potuto dormire con una camicia da notte tra<br />

le lenzuola. E’ stata la sera più bella della nostra vita, anche se abbiamo dormito per<br />

terra.<br />

<strong>La</strong> disinfestazione...!! Quella era un’altra tortura, e poi non serviva a niente…<br />

97


Prima di entrare nella baracca della doccia, bisognava spogliarsi fuori ed attendere<br />

il proprio turno… se ci fosse il sole, la pioggia o la neve, per loro non faceva alcuna<br />

differenza.<br />

Mentre aspettavamo dovevamo tenere i nostri quattro stracci arrotolati in un certo<br />

modo, così da far vedere il numero, e una volta dentro ci facevano aspettare ore e ore,<br />

nudi, in un posto che era senza vetri e senza niente… poi, finalmente, sotto l’acqua<br />

che un momento usciva bollente e subito dopo gelata. Dopo, usando lo stesso pennello<br />

intinto nel medesimo mastello, ci davano una pennellata dicevano che serviva<br />

per non farci venire la scabbia… ma bastava uno che ce l’avesse avuta.. in quel modo<br />

avrebbe contagiato tutti gli altri.<br />

Poi dovevamo aspettare fino a quando non ci avrebbero ridato i vestiti, ma intanto<br />

era trascorsa tutta la notte ed era mattina, e quando suonava il gong, senza cena,<br />

senza dormire, senza colazione, dovevamo andare a lavorare.<br />

98


Sofferenza fisica, psicologica, morale…<br />

ma il volo di una rondine e il ricordo della mamma…<br />

Che effetto faceva vedere attorno a sé tanti morti?<br />

Non ci facevano più impressione perché non eravamo più delle persone!<br />

Quando al mattino si faceva l’appell per andare a lavorare, quelli addetti a raccogliere<br />

i morti erano già in movimento, vedevamo barelle, carretti pieni di morti...<br />

Nessuna impressione però.<br />

Anche se c’erano delle persone<br />

che conoscevamo e che non si<br />

riconoscevano più. Giustamente,<br />

come dicono anche i libri,<br />

se stavamo senza vederci<br />

anche solo una settimana, era<br />

difficile riconoscerci.<br />

Quando ci si rivedeva, ci<br />

interessava sapere dall’altro un<br />

parere sul nostro aspetto fisico…<br />

la prima cosa che si chiedeva<br />

era: “Come mi trovi?<br />

Come mi trovi?”.<br />

Sempre si mentiva a noi<br />

stesse, dicendoci tra di noi che<br />

non eravamo dimagrite… Era una menzogna! Vivere era davvero difficile, si rischiava<br />

costantemente d’impazzire.<br />

Quando si arrivava a quello<br />

stadio, era la fine, non c’era più<br />

nulla da fare, non si aveva più<br />

interesse per nessuna cosa, non<br />

interessava più lavorare per<br />

non essere ammazzate di botte,<br />

non interessava mantenere quel<br />

minimo di pulizia che si poteva<br />

tenere... interessava solo mangiare,<br />

anche se certi smettevano<br />

anche di cercare tra i rifiuti.<br />

Quando siamo andate a<br />

lavorare in fabbrica, del mio<br />

trasporto c’era solo Antonietta,<br />

che era più giovane di me.<br />

Poverina, era proprio arrivata a<br />

quel punto lì, io dovevo dirle di<br />

mangiare, di lavarsi, quasi<br />

Bergen-Belsen: le ex guardiane del campo obbligate alla rimozione e allo sgombero<br />

dei cadaveri.<br />

I vivi convivevano con i morti con una rassegnata indifferenza generale.<br />

99


l’obbligavo! Quando lavoravamo in fabbrica c’era la possibilità di poterci bagnare le<br />

mani e lavarci il viso, anche se non potevamo asciugarci, ma era sempre qualcosa, e<br />

sentivamo il bisogno di farlo.<br />

“Devo vivere, devo tenermi ancora come una persona!”… Mi ripetevo continuamente.<br />

Quando al mattino ci davano la sveglia, avere la possibilità di pettinarci, anche se<br />

erano più pidocchi che capelli, ci sembrava una cosa grande. Invece Antonietta non<br />

faceva più niente. Allora la obbligavo a vestirsi, a pulirsi, a levarsi un poco i pidocchi...<br />

era arrivata ad uno stadio che, se non ci fossi stata io, sarebbe morta, perché se<br />

le davano un comando lei non obbediva, e dai oggi, dai domani, le avrebbero dato<br />

talmente tante bastonate che sarebbe finita male. Non aveva più volontà e lì, quando<br />

cadeva quella, era la fine!<br />

Che cosa vi spingeva a farvi quelle domande sul vostro aspetto fisico: lo spirito<br />

di sopravvivenza, la volontà di affermare la propria femminilità o che?<br />

Non eravamo più donne, non eravamo più niente. Quando ci si chiedeva: “Come<br />

mi trovi?”, e ci si sentiva rispondere: ”Bene, bene”, era per pensare: “Allora non<br />

vado al crematorio, posso sperare di uscire viva da qui”. Perché la speranza era sempre<br />

quella, malgrado certe volte si pregasse la morte, tanto è vero che, quando incrociavamo<br />

il kommando dove c’era quell’ebreo che diceva sempre: “Qua non si esce<br />

più, qua non si esce più”, noi rispondevamo: “Se vuoi crepare, crepa!”.<br />

D’altra parte, chi ci avrebbe proibito di toccare i fili? Se solo lo avessimo<br />

voluto… sarebbe stato facile!<br />

Quante volte, se si doveva<br />

svolgere un lavoro superiore alle<br />

proprie forze, si diceva: “Se io<br />

domani devo fare ancora questo<br />

lavoro, tocco i fili e non se ne<br />

parla più”. Ma non era così.<br />

Quando ci facevano trasportare le<br />

rotaie per far passare quei carrelli<br />

pieni di materiale, e dovevamo<br />

fissarle in mezzo al ghiaccio o al<br />

fango... era veramente impossibile!<br />

E quando dovevamo spostare i<br />

carrelli, guai a rovesciarne uno!<br />

Era la fine del mondo! Spesso ci<br />

toccava di spostare dei grossi<br />

sassi da una parte all’altra del campo, ce li facevano mettere sopra una draga, una<br />

specie di barellatta, e poi in due dovevamo portarli via. Se capitavano sassi pesanti<br />

sessanta, ottanta chili , tanto che quando li sollevavamo si sentiva la schiena che si<br />

rompeva, allora si diceva che non avremmo più sopportato tutto ciò, ci tornava il<br />

desiderio di morire!… Anche per l’inutilità dei lavori che ci facevano svolgere… per<br />

Il suicidio, l’unico modo per porre fine alle inumane sofferenze, bastava gettarsi<br />

sui reticolati nei quali circolava la corrente ad alta tensione.<br />

100


che cosa, poi? Se un giorno ci facevano portare i sassi da una parte, il giorno dopo<br />

ce li facevano portare da un’altra. Del resto, quando non c’era più lavoro, la manodopera<br />

bisognava tenerla occupata, e allora ci facevano fare cose faticose e senza<br />

senso, che servivano solo a finire di distruggerci fisicamente.<br />

Quando sono andata alla scuola di mio nipote Davide a dare la <strong>mia</strong> testimonianza,<br />

e mi hanno chiesto che cosa mi ha aiutata ad uscire dal campo, ho risposto:<br />

“Prima di tutto la fede e il desiderio di rivedere la <strong>mia</strong> mamma, poi, quello che ci ha<br />

dato la forza e la speranza è stata una rondine”… ma come si può pensare possa vivere<br />

con 18 gradi sotto zero?<br />

Quando lavoravamo con i carri, noi dovevamo caricarli mentre gli uomini li dovevano<br />

scaricare e noi, nell’attesa, ci mettevamo dentro una baracca, forse era stata una<br />

casa, ma il tetto non c’era più. In un angolo c’era una stufa e là si mettevano le SS e<br />

le kapò che ci comandavano. Noi eravamo rattrappite le une sulle altre, ad aspettare<br />

di morire di freddo. Fin dai primi giorni, però, avevamo visto una rondine fare il nido<br />

su un ramo di un albero lì vicino. Quella è stata la nostra forza, perché dicevamo: “Se<br />

le rondini vanno via quando comincia a far freddo per cercare posti più caldi, può<br />

darsi che qui viva una rondine?!?”.<br />

Eppure l’abbiamo vista. Era primavera, io sono arrivata in Auschwitz il 28 marzo,<br />

ma lì il caldo arriva molto più tardi, infatti eravamo ancora a 18 gradi sotto zero… e<br />

pensare che, quando siamo arrivate, ci hanno detto che eravamo state fortunate, perché<br />

erano arrivati anche a 25 gradi sotto zero.<br />

Con i carri abbiamo lavorato per tutto il primo mese, fino alla fine di aprile: dovevamo<br />

trasportare tutto il marciume e la spazzatura che c’era nel campo, impregnato<br />

di tutte le sporcizie possibili, e lo dovevamo fare con le mani! Quando succedeva di<br />

tirare i carri dei pozzi neri ed i carri traboccavano, capitare davanti voleva dire essere<br />

fortunati, ma se invece capitava di stare dietro... non è difficile immaginare in che<br />

stato ci potevamo ridurre… Bisognava tirare fuori dai pozzi delle enormi cisterne che<br />

dovevamo caricare sui carri, poi trascinarli per due o tre chilometri. Per fortuna che<br />

a svuotarle ci pensavano gli uomini . Se ci si sporcava non ci si poteva né lavare né<br />

cambiare, si aspettava che piovesse e, intanto, si era maltrattati ancora di più perché<br />

si puzzava. <strong>La</strong> prima volta che sono riuscita a lavarmi erano passati quaranta giorni<br />

e le mie mani... non lo so che cosa erano diventate.<br />

No, non eravamo né donne né bestie, perché anche le bestie erano più pulite di<br />

noi.<br />

Di che cosa parlavate tra voi donne?<br />

<strong>La</strong> famiglia era l’argomento del quale si parlava di più, e per la mamma c’erano<br />

sempre le parole più belle.<br />

Nel nostro gruppo una sola era sposata, ed era quella che poi non è tornata.<br />

<strong>La</strong> bimba le era morta prima che l’arrestassero ed il marito era un tipo molto egoista!<br />

<strong>La</strong> Gina aveva il suo bambino e ne parlava continuamente, tanto che ormai lo<br />

conoscevamo tutti. Quando è partita lui aveva sei anni. Pensava sempre a lui, al suo<br />

Umberto.<br />

101


Certe volte, però, eravamo così rincretinite che non riuscivamo a pensare più a<br />

niente, nella nostra mente esisteva solo il pensiero del mangiare che non c’era. Ecco,<br />

quello che ci interessava era come trovare qualcosa da mangiare per sopravvivere.<br />

Anche una semplice radice per noi andava bene, la sete poi, era una cosa pazzesca.<br />

Così, il pensiero della casa c’era, ma eravamo diventate quasi insensibili.<br />

Eravamo bestie, se non peggio. Non riuscivamo a capirci... però al mattino, prima<br />

di iniziare l’appell, intanto che ci mettevamo in fila ci raccontavamo i sogni della<br />

notte. Sognavamo pane in quantità e le scarpe (dicono che sognare le scarpe voglia<br />

dire viaggiare). Così, al mattino, ci si diceva: “Mi sono sognata questo...mi sono<br />

sognata quello....”. Ricordo che una volta ho sognato una scala alta, ed io che, dopo<br />

essere salita su, cadevo giù. Poi, però, ero riuscita a salire e poi a scendere senza<br />

cadere.<br />

Ognuna dava ai sogni una propria spiegazione.<br />

“Ecco, sì, dobbiamo ancora soffrire, ma alla fine ce la faremo...”. Erano cose che<br />

si dicevano così, per tenerci su il morale... ma la situazione era tutt’altro.<br />

Naturalmente si parlava di mangiare. Con noi c’era una signora molto per bene di<br />

Gruppo di donne con bambini avviato alle camere a gas. Selezione effettuata dal medico delle SS dott. Thilo. Sullo sfondo un<br />

gruppo di persone che si dirige verso le camere a gas. Fotografia originale<br />

del Hauptscharführer delle SS Walter.<br />

Milano, abituata a fare grandi pranzi.<br />

Allora ogni tanto le chiedevamo:<br />

“Signora Angela ci prepari un pranzo!”.<br />

Cominciava dall’antipasto per finire al<br />

dolce, e poi descriveva la tovaglia, le<br />

posate, tutto. Dicevano che avesse un<br />

amante molto ricco. Quando siamo state<br />

divise, con il trasporto della signora<br />

Angela viaggiava la <strong>mia</strong> amica; faceva<br />

freddo, c’era la neve, ed i vagoni erano<br />

scoperti. Durante il viaggio si sono fermati<br />

ad una stazione, dove qualche<br />

anima buona dava qualcosa da mangia-<br />

102<br />

Parte dei deportati vennero rimpatriati su camions americani. In questa<br />

foto li vediamo mentre vengono riforniti di viveri dagli accompagnatori.


e. Un signore l’ ha vista e l’ ha chiamata, e lei ha detto alla <strong>mia</strong> amica che era lui il<br />

suo amante. Come l’abbia riconosciuta non lo so.<br />

Ogni tanto ci permettevano di scrivere a casa. Ma per farlo dovevamo sacrificare<br />

una mezza razione di pane per acquistare la lettera, e un’altra mezza porzione per<br />

scriverla, perché lo si doveva fare in tedesco… ma non erano vere lettere, perché<br />

dovevamo mettere delle crocette in un modulo prestampato, tipo: io sto bene, crocetta.<br />

Il lavoro va bene, crocetta.<br />

A casa <strong>mia</strong> le lettere non sono mai arrivate.<br />

Da casa potevano scrivere, ma la posta arrivava raramente. E molte volte è capitato<br />

che ci hanno dato la busta vuota, questo per noi era un colpo tremendo. Durante<br />

tutto il tempo che sono stata ad Auschwitz ho ricevuto una sola lettera, ma la<br />

mamma invece mi disse che mi scriveva tutte le settimane, aveva conosciuto una<br />

signorina che le traduceva la lettera in tedesco gratis.<br />

Mi ricordo che c’era scritto: “E’ nato il bambino di Paola e si chiama Mario. Bianchina<br />

sta bene, Sniff ti aspetta...”. Era una lettera completamente scema perché, come<br />

mi hanno spiegato poi, a parte la notizia della nascita del figlio di <strong>mia</strong> sorella non<br />

sapevano che cosa mettere, così, mi hanno parlato della <strong>mia</strong> gattina e del mio cane.<br />

Sapevano che eravamo andati in Germania a lavorare, ma non il posto dove eravamo<br />

esattamente e né che cosa ci stesse succedendo veramente. Non so se le lettere le<br />

davano al consolato. <strong>La</strong> sola cosa che hanno ricevuto è stata quel modulo di cui parlavo,<br />

ma nessuno credeva a quello che c’era scritto.<br />

Circolavano tante voci... mi hanno detto che una sera papà è rientrato ed ha trovato<br />

la mamma a piangere: “<strong>La</strong> Lisetta è morta”.<br />

“Chi te l’ha detto?”. Mio padre domandò.<br />

“Si dice che è arrivato il telegramma ai carabinieri dove c’e scritto che è morta!”.<br />

“Ma te l’hanno portato?”.<br />

“No”. Rispose mamma.<br />

Allora c’era il coprifuoco, ma quando mio fratello quella sera è rientrato dall’ufficio<br />

è ugualmente andato in giro fino alle undici per cercare di avere mie notizie,<br />

rischiando di essere preso e fucilato; c’era chi gli diceva una cosa, chi invece ne diceva<br />

un’altra… poi è tornato e ha detto: “Non crediamo alle voci perché nessuno sa la<br />

verità, ai carabinieri non è arrivato niente”.<br />

Ogni tanto arrivava una voce che eravamo tutti morti. Quando è arrivato il modulo<br />

con le crocette, i carabinieri dicevano che non dovevano credere a quello che c’era<br />

scritto.<br />

Fino al rientro dei primi sopravvissuti, i miei genitori non avevano la certezza che<br />

fossi ancora viva.<br />

Non vedevo mio fratello da prima del mio arresto. Come ci spostarono da Lecco<br />

a Bergamo, ci permisero di rivedere i genitori. Mi ricordo che sistemarono su un<br />

binario morto un vagone e ci misero lì dentro, ma non potemmo avvicinarci ai nostri<br />

familiari perché i fascisti avevano fatto un cordone attorno al vagone. Mio fratello<br />

era andato per lavoro a Milano, e la mamma mi disse di avergli comunicato l’orario<br />

e che era sicura che sarebbe tornato per salutarmi, ma purtroppo non fece in tempo.<br />

103


Lui andava sempre al sanatorio a fare volontariato, era un componente dell’Azione<br />

Cattolica e si prestava a fare assistenza ai bisognosi. Allora una dottoressa l’ ha<br />

preso in simpatia e gli ha fatto una dichiarazione in cui si diceva che era malato e così<br />

riuscì a non fare il militare; veramente mio fratello era molto delicato, era praticamente<br />

l’ombra di se stesso.<br />

Una volta partiti, i ferrovieri ci fecero capire che, appena saremmo stati vicino al<br />

confine, volendo, avremmo potuto scappare, ma il mio pensiero correva a lui, a mio<br />

fratello, perché, quando ci minacciavano, dicevano che se qualcuno di noi fosse scappato,<br />

sarebbero andati ad arrestare i nostri familiari… ed io sapevo che, se lo avessero<br />

arrestato, lui non sarebbe più tornato.<br />

Anche dal lager qualcuno è scappato, allora suonava la sirena e ci impedivano di<br />

affacciarci, oppure ci sbattevano fuori all’appell, e ci facevano restare lì fino a che<br />

non ritrovavano il fuggitivo… la maggior parte delle volte lo fucilavano o<br />

l’impiccavano.<br />

Sono stata fortunata, perché non ho mai dovuto assistere ad un’impiccagione.<br />

So che poi li lasciavano esposti per giorni e giorni, in bocca ai topi e ai corvi.<br />

Qualcuno non è stato ripreso,<br />

forse anche perché conosceva la<br />

lingua ed aveva trovato dei posti<br />

dove nascondersi.<br />

Per noi donne, noi italiane<br />

soprattutto, era più difficile scappare…<br />

dove potevamo andare?<br />

Non conoscevamo né il posto, né<br />

la lingua, e se ci avessero viste i<br />

civili, ci avrebbero uccise per la<br />

paura. Sì, ogni tanto qualcuno<br />

scappava, ma abbiamo sempre<br />

saputo che erano uomini.<br />

Detenuti che, dopo essere stati bastonati a sangue, venivano appesi a dei pali.<br />

104


Il lager, un colore morto<br />

Vi è mai stato proposto di “intrattenere” i soldati?<br />

In alcuni campi c’erano dei bordelli a cui erano addetti kommandi specifici.<br />

Una delle prime sere in cui eravamo ad Auschwitz durante l’appello la blocova ci<br />

disse qualcosa che, ovviamente, noi non capimmo. Allora ci siamo rivolte alla prigioniera<br />

che parlava cinque lingue, la signorina Margherita.<br />

Ci tradusse: “Io ve lo dico, ma tanto so che nessuna aderirà: la blocova ha chiesto<br />

se ci sono ragazze che vogliono andare a Rampuc”.<br />

Si chiamava così la casa dove si “intrattenevano” i soldati.<br />

Mentre a noi lo chiedevano, le ebree, quelle più belle ci venivano mandate direttamente.<br />

Quando capitava di andare a lavorare passando davanti a quel campo, ritornando<br />

si vedevano delle baracche abbastanza belle con delle ragazze sedute e la biancheria<br />

stesa al sole ad asciugare. I primi tempi ci chiedevamo chi fossero, dopo<br />

abbiamo saputo che quelle erano le case del piacere.<br />

Povere ragazze, sottomesse alla volgarità di quella gentaglia; e poi bastava che,<br />

dopo aver fatto tutte le porcate possibili, uscivano e dicevano che non erano stati soddisfatti,<br />

allora la ragazza sarebbe stata fucilata o mandata alle camere a gas… ma non<br />

sarà andata all’inferno quella gente là?… Ma il Signore è misericordioso, non bisogna<br />

giudicare, perché forse si sono pentiti. Se Dio ha salvato il ladrone sulla croce,<br />

salverà anche loro!<br />

C’erano piante o fiori e animali nel lager?<br />

No, niente di niente. Le sole piante che ho visto erano in campagna e, a parte i<br />

cani delle SS, non c’erano altri animali. Io personalmente non li ho visti, ma sui libri<br />

ho letto che alcuni campi di concentramento erano invasi dai topi… ho letto che scorrazzavano<br />

sulle persone che dormivano. Ringrazio Dio che io non li ho visti, ho tanta<br />

paura dei topi! Gli unici animali con i quali ho avuto a che fare sono stati le cimici<br />

ed i pidocchi. Che schifo, non appena ci stendevamo su quel tavolaccio e ci toccavamo,<br />

la mano si riempiva di quelle brutte bestie... erano anche pericolose, perché ci<br />

succhiavano quel poco sangue che ci era rimasto.<br />

<strong>La</strong> paura delle cimici e dei pidocchi me la sono portata dietro per anni… quando<br />

mettevo in ordine il letto le andavo a cercare. L’incubo dei pidocchi ce l’ ho ancora,<br />

mi basta parlarne che ho il prurito addosso.<br />

Lei ha avuto un negozio?<br />

Sì, ho aperto un negozio di generi alimentari in via Ugo Foscolo, dove adesso c’è<br />

la riscossione dei tributi. L’ ho aperto quando sono venuta a Pescara, nel 1955, e l’<br />

ho chiuso nel 1979, quando è nato mio nipote Michele. Era una lotta continua con<br />

mio marito, perché a lui il negozio non piaceva. Ma era stato lui a voler venire a<br />

Pescara per stare vicino ai suoi, perché io stavo benissimo anche a Lecco, ma siccome<br />

la moglie deve seguire il marito...<br />

105


Ricorda qualche suono particolare, qualcosa che le è rimasto scolpito nella<br />

mente e che ancora l’accompagna?<br />

Il fischietto. Era una vera tortura, una penitenza, non appena si rientrava nelle<br />

baracche, la SS fischiava e noi dovevamo uscire fuori per l’appello.<br />

Fischiavano per l’appello, sul lavoro... il suono del fischietto non significava mai<br />

niente di buono! Poi c’era il gong del mattino.<br />

… Ma il ricordo più raccapricciante sono le urla degli ebrei!<br />

Deportati in attesa della selezione che avveniva sempre all’arrivo dei convogli su una rampa della stazione di Auschwitz-<br />

Birkenau.<br />

C’è un colore che per lei possa simboleggiare il lager?<br />

Non so che dire... un colore morto, forse. Non avevamo colori, la baracca era grigia,<br />

il campo era grigio, tutto era grigio, era tutto molto brutto e triste. C’era sempre<br />

Il campo di concentramento di Auschwitz visto dall’esterno con una<br />

torretta per le sentinelle e la cinta in filo spinato nel quale circolava<br />

corrente ad alta tensione.<br />

106<br />

Carro pieno di morti che verranno bruciati nei forni crematori.


quella sensazione di morte...<br />

Il forno crematorio, quello era rosso. <strong>La</strong><br />

fiamma era di diversi colori, secondo la<br />

combustione.<br />

Quando le persone da bruciare erano<br />

poche, si vedeva solo il fumo. Altrimenti si<br />

scorgevano le fiamme che uscivano fuori…<br />

era la carne degli ebrei che bruciava!<br />

Ha mai avuto la sensazione di incontrare<br />

qualcuno che lì la comandò?<br />

Sì, un paio di volte. Uno era il proprietario del forno dove andavo a prendere il<br />

pane. <strong>La</strong> prima volta che l’ho visto ho detto: “Questo è quella SS, ne sono sicura!”.<br />

Chiedendo informazioni, ho saputo che infatti era stato con i tedeschi; mi raccontarono<br />

che quando è tornato in Italia, in divisa da tedesco, ha rubato tutto quello che<br />

ha potuto, e poi ha aperto un forno e si è comprato il palazzo.<br />

Io sono sicura che fosse una SS, perché fin dalla prima volta che l’ ho visto mi ha<br />

colpita. Ne ho avuto praticamente conferma quando un giorno sono andata a prendere<br />

il pane e l’ ho sentito che parlava con un signore decantando i tedeschi e i fascisti.<br />

In quel momento ho sentito dentro di me una rabbia tale che non ho capito più<br />

nulla…: ho tirato su la manica e gli ho gridato: “Non vi vergognate a dire queste<br />

cose! Nemmeno sopra questo numero vi vergognate?”.<br />

Sa che cosa mi ha risposto?: “Se te l’ hanno fatto, vuol dire che te lo meritavi”.<br />

Non so dire che cosa ho provato. Non ho avuto il coraggio di continuare, altrimenti<br />

lo avrei preso a schiaffi. Ho pensato che per parlare così doveva essere un<br />

delinquente, ed io avevo dei figli, che magari mi uscivano la sera e non mi sarebbero<br />

più rientrati… magari per colpa sua. Questo pensiero mi ha frenata. Però, quanto<br />

mi ha fatto male! Era lui, sicuro.<br />

Poi ce n’è stato un altro. Erano i primi giorni che stavamo in Auschwitz, e dovevamo<br />

raccogliere le fave. Io nemmeno sapevo che cosa fossero, perché a Lecco non<br />

si coltivano, mentre a Milano sì.<br />

I resti abbandonati dopo la cremazione.<br />

“Secondo la dimensione dei cadaveri, in un forno potevano esserne introdotti<br />

fino a tre... I crematori I e II potevano incenerire in 24 ore fino a duemila<br />

corpi” (Memorie di Rudolf Hoess).<br />

107


Quando abbiamo visto il campo, le milanesi si volevano avvicinare. Chi comandava<br />

era una SS giovane ma senza un braccio; appena ha capito cosa volevano fare<br />

le due di Rescaldina, una località vicina a Milano, ha puntato loro la pistola.<br />

Mi ricordo che portava la mostrina della Russia, forse era stato ferito lì.<br />

Quando il mio nipotino si è ammalato di leuce<strong>mia</strong>, io presi l’abitudine di andare<br />

a messa tutte le mattine da Padre Guglielmo alle cinque e mezza; pregavo la Madonna<br />

di farlo guarire, ma lei l’ ha voluto con sé… lei sa il perché.<br />

Alla Messa c’era un signore senza un braccio e con il portamento marziale; quando<br />

tornava giù dalla Comunione, a me sembrava di vedergli il berretto delle SS in<br />

testa.<br />

Mi faceva impressione e mi dicevo: “Questo è lui”.<br />

Così ho chiesto informazioni, e mi dissero che era stato ferito in guerra, ma non<br />

in Italia. Dopo un po’, non l’ ho più visto e mi hanno detto che era morto…<br />

Non ho mai avuto il coraggio di approfondire, di vedere se effettivamente si trattasse<br />

della stessa persona, avevo paura che in me si scatenasse dell’odio.<br />

Adesso dovrò pregare per la sua anima!<br />

108


<strong>76147</strong><br />

Qualcuno ha mai fatto osservazioni sul suo numero?<br />

Quest’estate (estate 1995), andando dal mercato allo stadio, mentre aspettavo<br />

l’autobus ho visto una signora che mi guardava e che scriveva qualcosa su un foglietto.<br />

Io portavo una camicetta a maniche corte, quindi il numero si vedeva.<br />

Lì per lì non avevo intuito cosa stesse facendo, ma quando ho capito che mi stava<br />

prendendo il numero, mi è venuta voglia di prenderla a botte...!! Ma non poteva chiedermelo?<br />

Tante persone l’ hanno giocato al lotto, poi, se hanno vinto o no, non lo so.<br />

Sono stata in pellegrinaggio a Lourdes con i sacerdoti malati; un giorno uno del<br />

gruppo Fatebenefratelli che mi conosceva mi chiese: “Adesso mi fai copiare quel<br />

numero lì? Lo voglio giocare a lotto!”. Io gli ho risposto di sì ma ad un patto, che se<br />

fossero usciti quei numeri, avrei voluto la <strong>mia</strong> parte. Si scherzava, naturalmente.<br />

Comunque, quella signora che se lo è scritto senza chiedermi niente ha sbagliato<br />

sicuramente a copiarlo perché tutti leggono gli ultimi due numeri “77”, invece di “47”.<br />

Quando negli anni passati qualcuno vedeva quei numeri, e magari era anche<br />

più giovane di lei e della guerra sapeva poco e niente, cosa diceva?<br />

Lo guardavano un po’... così.<br />

Quando hanno mandato in onda “Olocausto”, che tra l’altro a mio parere non era<br />

fatto bene e mi ha fatta un po’ arrabbiare per la misera verità dei suoi racconti, visto<br />

che era estate, la gente sull’autobus non faceva altro che guardare il mio braccio. Si<br />

tiravano le gomitate e indicavano verso di me. Mi sentivo molto umiliata…!!!<br />

Che cosa pensa<br />

dei documentari e<br />

dei film che trattano<br />

questo argomento?<br />

Spesso passano<br />

in televisione un<br />

documentario su<br />

Bergen Belsen e<br />

raccomandano di<br />

non farlo vedere ai<br />

bambini e alle persone<br />

che possono<br />

impressionarsi.<br />

A me, devo dire<br />

la verità, non ha<br />

mai fatto impressione.<br />

Comunque, è Bergen Belsen: il campo nella landa di Luneburg: Il Revier.<br />

109


un documentario ben fatto, anche se la realtà che abbiamo vissuto noi era diversa.<br />

Però ricordo che l’ultima volta che l’abbiamo visto mi ha fatto stare molto male,<br />

sono andata a letto tremando come una che ha le convulsioni, e per tutta la notte sono<br />

stata con quel tremore, senza chiudere occhio. Ricordo che cercavo di calmarmi<br />

dicendomi che erano cose passate, ma non ci riuscivo!<br />

In fondo, io quella vita l’ ho vissuta, e non era la prima volta che vedevo quel<br />

documentario. Chissà perché mi ha preso quell’ansia, quel terrore. Non so se avrei il<br />

coraggio di rivederlo.<br />

Quanti carri pieni di morti… quanti ne ho visti!<br />

Sono immagini raccapriccianti, sono immagini che documentano una impressionante sequenza di morte, sono i deceduti di<br />

Birkenau nel gennaio 1945. Uomini e donne strappati con violenza e senza motivo alcuno alle loro case, ai loro affetti, deportati,<br />

umiliati, maltrattati e uccisi...con la sola colpa forse di essere nati...!!<br />

Lei ha avuto dei figli e dei nipoti, ha mai raccontato loro questa sua esperienza?<br />

Con i miei figli non c’è stato mai molto dialogo su questo argomento. Con i miei<br />

nipoti, invece... Sergio mi ha pregata più di una volta di scrivere, ma io gli ho detto<br />

di no perché ho fatto solo la quinta elementare… scrivo male, senza grammatica,<br />

110


insomma, non ho voluto.<br />

Mi ha anche detto che me l’avrebbe corretto lui, ma io non l’ ho voluto fare lo<br />

stesso. Me lo aveva chiesto anche una <strong>mia</strong> cliente.<br />

Una volta mi sono confessata a San Giovanni Rotondo. Ero piena di ribellione<br />

perché il mio nipotino era morto, e dicevo che non era giusto, perché il mio debito<br />

l’avevo già pagato.<br />

Una frase stupida, perché i debiti a Dio non si finiscono mai di pagare.<br />

Allora quel sacerdote mi ha detto: “Signora scriva, scriva, perché se Padre Pio non<br />

avesse scritto le sue memorie, nessuno avrebbe saputo chi era”.<br />

Non me la sono mai sentita. Però, mi piace raccontare, non mi dà fastidio, ne parlo<br />

senza rancore, perché adesso non sento più niente.<br />

Questa esperienza ha pesato sui suoi rapporti con gli altri?<br />

No, ma io i primi tempi non potevo sentire i tedeschi. Quando sono venuta a trovare<br />

i familiari di mio marito (ci siamo sposati a dicembre e sono venuta a conoscere<br />

i miei suoceri in agosto) eravamo in stazione io e il mio papà. C’erano delle persone,<br />

e ho riconosciuto dalla lingua e dall’aspetto che erano dei tedeschi; ad un certo<br />

punto ho detto a mio padre: “O ce ne andiamo via oppure vado là a dirgliene quattro”.<br />

In me, non c’era odio, ma rancore sì. Al punto che se succedeva qualcosa in Germania<br />

ero contenta.<br />

A me, chi mi ha aiutata è stato Padre Guglielmo, con il suo silenzio.<br />

E’ una sopravvissuta, cosa significa questo per lei?<br />

Significa che la <strong>mia</strong> croce non è mai finita.<br />

111


Riporto solo questi dati di pochi mesi raccolti dal libro di Corrado<br />

Saralvo “Più morti più spazio”, per far capire la mostruosità di quanto<br />

è accaduto nel lungo periodo in cui si è adempiuto questo massacro.<br />

Il colonnello delle SS, Franz Ziereis,<br />

comandante del lager di Mauthausen,<br />

posa sul luogo dei suoi efferati crimini<br />

al tempo in cui aveva pieno potere di<br />

vita o di morte sui suoi prigionieri.<br />

Ziereis (al centro) non ha difficoltà a dimostrare a Himmler<br />

(a sinistra) e a Kaltenbrunner, durante una loro visita<br />

al campo, che Mauthausen funziona perfettamente come<br />

fabbrica di morti.<br />

Un altro documento fotografico dell’ispezione del campo<br />

effettuata da Himmler, l’ideatore e realizzatore dei numerosi<br />

campi di sterminio installati dai nazisti.<br />

Cifre impressionanti relative alla sorte dei deportati dall’Italia,<br />

italiani o stranieri giunti ad Auschwitz fra i mesi di maggio<br />

e settembre del 1944:<br />

Numero di deportati arrivati: 29.790<br />

Numero di deportati entrati nel lager: 6 . 6 5 0<br />

Numero di deportati eliminati all’arrivo: 23.140<br />

Da maggio a luglio, n° cadaveri arsi nei crematori: 1.314.000<br />

In un solo trimestre i nazisti di Auschwitz avevano soppresso<br />

più di un milione e trecentomila prigionieri.<br />

I dati riguardanti il numero degli ebrei italiani è:<br />

Numero degli ebrei italiani deportati: 7 . 4 9 5<br />

Numero degli ebrei italiani reduci dalla deportazione: 6 1 0<br />

Mentre la soppressione dei deportati provenienti<br />

dalle altre nazioni d’Europa era avvenuta gradualmente,<br />

quella delle molte centinaia di<br />

migliaia di ebrei ungheresi fu condotta in massa<br />

con un ritmo senza precedenti nel campo di Birkenau.<br />

Infatti, mentre fin dai primi mesi del 1944 il<br />

Governo Ungherese si era opposto alla deportazione<br />

degli ebrei dal Paese, quando entrò in<br />

carica il nuovo Governo imposto dai nazisti,<br />

venne operato un colossale sterminio con il consenso<br />

delle autorità.<br />

113<br />

Ziereis fotografato mentre procede alla pre<strong>mia</strong>zione di militi<br />

SS particolarmente distintisi nel sopprimere i deportati.


RACCONTO E TESTIMONIANZA DELLA SIGNORA ELISA<br />

MISSAGLIA SOPRAVVISSUTA AL LAGER DI AUSCHWITZ<br />

Intervista di mercoledì, 24 marzo 1999<br />

presso l’Istituto Statale d’Arte di Pescara<br />

Quando mi hanno arrestata avevo 24 anni, ero una ragazza normale e, come tutte,<br />

anch’io piena di sogni e di speranze. Ero cresciuta in una famiglia di ceto medio, con<br />

sani principi morali e religiosi; nessuno della <strong>mia</strong> famiglia aveva aderito al partito<br />

fascista ed il 7 marzo del 1944, quando per motivi abbastanza seri abbiamo avuto<br />

l’opportunità di dimostrare le nostre idee contro il regime fascista, ci è sembrata una<br />

cosa meravigliosa.<br />

In quel periodo si viveva solo con la tessera; i tedeschi stavano portando via dall’Italia<br />

macchinari ed opere d’arte e arrestavano tutti gli ebrei per deportarli nei<br />

campi di concentramento.<br />

Quel giorno fu proclamato uno sciopero e dopo due ore arrivarono i questurini<br />

fascisti che fecero una retata arrestando i più sfortunati: 5 donne e 22 uomini. (Di<br />

questi siamo tornati in 7, 4 donne e 3 uomini)<br />

Da quel momento ogni sogno svanì. Speravamo in un semplice interrogatorio,<br />

invece ci hanno portato in prigione a Como. Dopo 7 giorni ci hanno trasferiti a Bergamo<br />

dove ci hanno consegnati ai tedeschi. Dopo 3 giorni siamo partiti per la Germania.<br />

Ormai eravamo diventati tanti, perché nella prigione di Bergamo si erano<br />

uniti a noi anche molti prigionieri provenienti da altre parti d’Italia. A noi ragazze si<br />

sono unite due di Como; alla fine eravamo 7 ragazze e 700 uomini: destinazione<br />

Mauthausen.<br />

Vi lascio immaginare cosa è stato l’impatto con il campo di concentramento!<br />

115


Appena arrivate siamo state portate alle famigerate docce, spogliate nude davanti<br />

al Kommando tedesco delle SS, rivestite come pagliacci e portate in cella. Lì siamo<br />

rimaste 3 giorni, poi siamo partite di nuovo, destinazione: la prigione di Vienna… era<br />

una vera prigione. A contatto con tante altre, non avevamo la possibilità neanche di<br />

comunicare e parlare, perché eravamo di tutte nazioni diverse. Eravamo circa una<br />

trentina.<br />

Alla sera portavano in quel camerone dei luridi sacconi di paglia, pieni di bestie,<br />

che ci servivano per letto. Per i nostri bisogni personali c’era in un angolo un secchio,<br />

in vista a tutti, che poi le più sfortunate dovevano vuotare.<br />

Ma in confronto a quello che ci aspettava, questo si poteva chiamare un posto di<br />

villeggiatura.<br />

Dopo una settimana, di nuovo partenza e questa volta doveva essere definitiva,<br />

perché da quel campo dove eravamo dirette sapevamo che non saremmo uscite vive:<br />

destinazione Auschwitz, uno dei campi di sterminio più famosi.<br />

Lì è cominciato veramente il cammino della morte!<br />

Siamo arrivate di notte. Il primo impatto è stato con le alte fiamme dei forni crematori…<br />

la puzza di carne bruciata era impossibile da descrivere!!<br />

Abbiamo passato in un’immensa camera il resto della notte e la mattina del giorno<br />

dopo; si vedeva fuori un inferno di tormenta… eravamo a 20° sotto zero.<br />

Ci hanno portate nude alle docce, perquisite, rapate, spogliate di tutte le cose a noi<br />

care! Ci hanno tatuato sul braccio sinistro il numero che da quel momento è diventato<br />

il nostro nome… era ed è tuttora, perché ancora lo porto: <strong>76147</strong>. Abbiamo dovuto<br />

impararlo in tutte le lingue, perché se non si rispondeva subito erano fior di legnate!<br />

Poi ci hanno fatte entrare nella baracca che da quel momento sarebbe stata la<br />

nostra casa. Abbiamo ricevuto la prima razione di pane… uno schifo che non abbiamo<br />

potuto mangiare, ma che poi, in seguito, è diventata una grande squisitezza… ci<br />

serviva per non morire di fame.<br />

Al mattino seguente sveglia alle tre circa. Dopo aver ricevuto un quarto di uno<br />

schifoso liquido nero chiamato caffè, fuori all’appello, che c’era mattino e sera e, a<br />

secondo della SS che ci doveva contare, durava anche parecchie ore: con ghiaccio,<br />

pioggia, neve e tutto quello che la furia della natura ci voleva regalare. Se poi durante<br />

la giornata qualcuno era scappato, allora gli appelli duravano anche 24 ore, durante<br />

le quali non avevamo la possibilità di muoverci: se si cadeva ci si doveva rialzare<br />

subito, altrimenti le botte erano tante. Finito l’appello, al lavoro: per i primi tempi lo<br />

chiamavano “leggero”. Consisteva nel caricare immensi carri che poi venivano trascinati<br />

per chilometri e poi vuotarli. Erano carichi di ogni porcheria possibile da<br />

immaginare.<br />

Si lavorava in mezzo a montagne di cadaveri. Al mattino ed alla sera c’era il<br />

ghiaccio; se invece c’era fango, arrivava fino al ginocchio e non avevamo neanche la<br />

possibilità di lavarci.<br />

I cenci che ci avevano dato in dotazione erano sempre quelli, non si cambiavano<br />

mai, anche se bagnati.<br />

116


Era inutile piangere… le lacrime si ghiacciavano sul viso e si soffriva di più.<br />

Il lavoro, passato questo periodo, che era quello della quarantena, è continuato in<br />

campagna; zappare, seminare, raccogliere, tutto doveva essere fatto con la massima<br />

precisione perché, per la più piccola cosa, ma anche per niente, erano fior di schiaffi<br />

e di legnate.<br />

Di queste ho vari ricordi… i più dolorosi sono stati degli schiaffi che ho ricevuto<br />

da una SS che portava i guanti… sono stati forti che quasi svenivo… e non avevo<br />

fatto niente!<br />

Un’altra volta ho preso due legnate per aver tentato di avere altra zuppa… avevamo<br />

fame: la prima mi ha fatto sanguinare la schiena, la seconda mi ha lacerato il<br />

polso.<br />

Quando il lavoro era poco, e noi eravamo diventati troppi, allora si divertivano a<br />

farci spostare sassi grandi e pesanti molto più di noi. Oggi ce li facevano portare qua,<br />

domani li si riportavano là… ci dovevano far occupare il tempo e dovevano continuare<br />

a sfinirci, fino a che qualcuno crollava…<br />

Era proibito ammalarsi, perché anche un piccolo male portava al crematorio.<br />

Nel campo arrivavano in continuazione trasporti di ebrei che provenivano da tutte<br />

le nazioni; questi, come arrivavano, erano diretti subito alle camere a gas e poi bruciati.<br />

I tedeschi portavano subito via tutti i beni che gli ebrei avevano con loro, oro,<br />

oro a quintali, e questo permetteva alla Germania di continuare la guerra. Solo<br />

pochissimi di quei poveri disgraziati venivano salvati, erano giovani sani o belle<br />

ragazze che servivano per il piacere dei soldati. Molte di queste ragazze venivano<br />

adoperate anche per gli esperimenti: dopo che erano state torturate nelle maniere più<br />

terribili, venivano uccise.<br />

Quando il fronte cominciò ad avanzare, iniziò l’evacuazione del campo. Io sono<br />

partita da Auschwitz il 28 ottobre in treno, ma quando non ci sono stati più mezzi di<br />

trasporto, nel mese di gennaio, iniziò la famosa marcia della morte. Molte migliaia<br />

di persone sono partite, poche sono arrivate negli altri campi. Io da Auschwitz sono<br />

stata portata a Ravensbrück per essere poi mandata a lavorare in fabbrica. Si lavorava<br />

nelle fabbriche belliche: 12 ore di giorno e 12 ore di notte. In fabbrica almeno<br />

eravamo riparate dalle intemperie, ma in campo la vita peggiorava sempre di più.<br />

<strong>La</strong> rabbia dei tedeschi per la sconfitta che avanzava veniva sfogata tutta su di noi.<br />

Ormai non c’era quasi più niente da mangiare. Gli appelli si facevano sempre più lunghi<br />

e le botte aumentavano. Non si riposava più né di giorno né di notte, fino a che<br />

poi ci hanno riportate a Ravensbrück.<br />

Là eravamo tutte destinate alla camera a gas. Invece, in quel periodo, era intervenuta<br />

la Croce Rossa Internazionale e non ci hanno più potute ammazzare.<br />

<strong>La</strong> C.R.I. distribuiva dei pacchi - viveri pieni di buone cose che ormai si sognavano<br />

soltanto. Questi alimenti hanno però aggravato la situazione perché, in organismi<br />

debilitati come i nostri causavano una dissenteria molto forte che portava inesorabilmente<br />

alla morte. Si viveva ormai insieme ai cadaveri ed in mezzo agli escrementi.<br />

Il 25 aprile hanno evacuato anche questo campo. Abbiamo viaggiato nelle condizioni<br />

più disperate per dieci giorni e dieci notti. Mangiavamo quello che trovavamo:<br />

117


erba, radici e qualche rapa o patata; quando qualche cavallo dei civili cadeva morto,<br />

si assaliva quella carcassa per poter avere un pezzo di carne cruda… che schifo ripensarci…<br />

al punto che oggi anche solo l’odore della carne di cavallo mi fa sentire male.<br />

Finalmente, dopo avere patito tanto, è arrivata la fine.<br />

Il 5 maggio, dopo qualche ora di riposo, abbiamo notato che la SS di scorta era<br />

sparita… finalmente la guerra era finita e, miracolosamente, ero ancora viva!<br />

Vestita, con tutta la spazzatura che avevo addosso, pesavo 29 chili.<br />

Non ho raccontato tutto, mancano tanti e tanti episodi dolorosi; per dire tutto<br />

dovrei scrivere un libro.<br />

Dopo 4 mesi, finalmente, sono tornata a casa.<br />

In quel terribile periodo mi hanno aiutata tanto la preghiera e la fede. <strong>La</strong> preghiera<br />

è sempre stato il mio sostegno, la <strong>mia</strong> forza, con la certezza che Dio non mi avrebbe<br />

abbandonata.<br />

Ragazzi, amate la vita, la vita sana, la vita vera, non bruciate la vostra gioventù<br />

con falsi ideali, perché poi lungo il vostro cammino i guai non mancheranno mai!<br />

Durante quel lungo periodo, ha stabilito contatti con qualcuno?<br />

Fuori dal campo e con la famiglia assolutamente no perché era proibito: pena di<br />

morte avere contatti e parlare con chiunque, poi c’era il problema della lingua. Dalla<br />

famiglia niente, malgrado tutte le lettere che i nostri cari scrivevano con tanto disagio,<br />

perché dovevano scrivere in tedesco, non abbiamo mai ricevuto notizie, i polacchi<br />

ed i tedeschi, però, sì.<br />

Ha mai scritto un diario?<br />

No. I motivi sono tanti. Prima cosa l’indifferenza che ho trovato nel mondo politico<br />

ed in chi comandava. Non poteva essere diversamente… era cambiato il partito,<br />

ma non l’uomo. Spesse volte non parlavo nemmeno delle sofferenze passate, perché<br />

quasi non ero creduta. Mi hanno persino risposto che ormai erano cose vecchie…<br />

erano le persone che, a differenza di me, avevano vissuto bene, e quindi non ne volevano<br />

sentire parlare.<br />

Il diario mi è rimasto nel cuore!<br />

Sono sopravvissute altre persone oltre a lei e se sì, ha ancora dei contatti con<br />

loro?<br />

Delle persone partite con il mio trasporto non so quante ne siano sopravvissute<br />

esattamente; noi di Lecco, come ho già detto, siamo tornati in 7: 4 donne e 3 uomini.<br />

Tuttora viventi siamo 2 donne ed 1 uomo. Malgrado la lontananza, sono ancora molto<br />

unita alla <strong>mia</strong> cara amica dalla quale ricevo notizie delle compagne di sventura.<br />

Può fornirci dei particolari sulla retata?<br />

Le retate non avevano motivo né senso: bastavano poche ore di sciopero in fabbrica<br />

in Lombardia, in Piemonte e Liguria, o essere contrarie al regime, o ascoltare<br />

radio straniere, essere partigiani, trovarsi fuori dopo il coprifuoco e via dicendo. Gli<br />

118


ebrei poi erano deportati in massa ed assieme a loro anche chi li aiutava. Fra questi<br />

c’erano molte suore e frati, per cui i campi di sterminio erano sempre pieni.<br />

Nei momenti liberi che cosa faceva, e che cosa pensava quando era sola?<br />

Questi momenti erano talmente pochi che non si aveva neanche la possibilità di<br />

approfittarne, e se c’era qualche momento ci si riposava. Cosa pensavo quando ero<br />

sola? Difficilmente si poteva essere soli, infatti la convivenza giorno e notte era uno<br />

dei tanti tormenti; ma il mio pensiero era di sopravvivere ad ogni costo… il mio pensiero<br />

era continuamente rivolto alla <strong>mia</strong> adorata mamma che chissà con quanta ansia<br />

e quanto dolore mi attendeva!<br />

Ha mai assistito all’esecuzione nelle camere a gas? Secondo quale criterio sceglievano<br />

le vittime?<br />

Nessuno, se non quelli che lavoravano nelle camere a gas, poteva vederle. Erano<br />

prigionieri quelli che vi lavoravano, restavano per poco tempo e poi venivano gasati<br />

loro stessi. Erano poi sostituiti con i nuovi poiché c’erano sempre trasporti che arrivavano<br />

e la manodopera non mancava mai. Erano tutti ebrei e per paura che parlassero<br />

avevano la vita molto corta … spesse volte hanno dovuto gasare e bruciare i propri<br />

familiari. Quello che si è saputo e che è stato scritto nei libri sono tutte testimonianze<br />

salvate perché parecchie persone erano riuscite a tenere nascosti dei diari, per<br />

poi portarli alla luce dopo che il campo è stato evacuato. L’unica cosa che posso dire<br />

è di aver sentito spesse volte le urla di quella povera gente quando si rendeva conto<br />

di quello che l’aspettava.<br />

Il criterio che usavano per portare le persone alle camere a gas era semplice. Ad<br />

Auschwitz il treno entrava nel campo, lì facevano scendere i prigionieri, selezionavano<br />

i giovani per il lavoro ed incolonnavano tutti gli altri, facendo loro credere di<br />

essere portati alle docce e poi smistati nei vari campi, a seconda dell’età e delle possibilità<br />

di lavoro. Invece, spogliati di tutto, ammassando i loro beni sulla ferrovia,<br />

venivano inviati alle camere a gas, dove c’erano sì delle docce, però da esse non usciva<br />

acqua ma gas. In poco tempo morivano e poi venivano bruciati. Il peggio era<br />

quando, essendo troppi, non facevano in tempo a gasarli prima… Questo è successo<br />

nel mese di agosto del 1944 quando arrivò un fiume di ebrei, allora li lasciarono vivere<br />

per giorni e giorni, ammassati nel campo senza mangiare, senza bere, mentre<br />

aspettavano il loro turno per essere gasati e poi bruciati. Per loro, poveri miserabili,<br />

era terribile, perché ormai conoscevano la realtà, e l’attesa era disumana! Anche noi<br />

che non eravamo ebrei vivevamo sempre nel terrore, perché bastava il più piccolo<br />

male, che non ci permetteva di lavorare, per essere gasati.<br />

Ha mai pensato di togliersi la vita?<br />

A togliersi la vita ci si pensava spesso, però non è mai arrivato il momento per<br />

farlo… e pochi lo hanno fatto, anche se lo spettro della morte era il nostro compagno<br />

notte e giorno… anche se la morte sarebbe stata in fondo una liberazione… però la<br />

forza e la volontà di vivere erano più forti, nonostante la disperazione più assurda<br />

119


nella quale vivevamo continuamente! Spesse volte si diceva “Basta toccare i fili ad<br />

alta tensione che ci circondano per un attimo, e tutto è finito”. Ma quando si passava<br />

vicino ai fili si cercava di starsene il più lontano possibile… sì, la voglia di vivere<br />

era per noi più forte del desiderio di farla finita.<br />

Oggi cosa pensa dei tedeschi e dei naziskin?<br />

Oggi dei tedeschi non sento più niente, anche se contro di loro per tanti anni ho<br />

provato un grande rancore, non odio, perché sono cattolica e so che l’odio non deve<br />

esistere; però prima bastava sentissi parlare in tedesco che lo stomaco mi si rivoltava…<br />

avevo una gran voglia di prenderli a schiaffi. Ma quando sono riuscita a perdonare,<br />

in me è calata pace e serenità; ora li potrei incontrare serenamente, potrei parlare<br />

con loro… sono come noi. Con l’odio non si può vivere. Come ho detto, sono<br />

cattolica, ed allora sono sicura che chi è sopra di me giudicherà saggiamente il bene<br />

ed il male. Del Nazismo e dei giovani che condividono questi ideali penso solo che<br />

sono fanatici, che non sanno quello che fanno… forse perché non sono a conoscenza<br />

di cosa è realmente accaduto… si dovrebbero ripristinare per un po’ di tempo i<br />

campi di Mauthausen e di Auschwitz e metterli dentro per un po’, farli soffrire come<br />

abbiamo sofferto noi… forse potrebbero così rinsavire.<br />

In quale modo ha ristabilito i contatti con la sua famiglia?<br />

Ristabilire i contatti con la <strong>mia</strong> famiglia è stato meraviglioso. A casa ho ritrovato<br />

i miei cari, per loro ero diventata come un idolo. Mi hanno aiutata con il loro amore<br />

a cancellare il passato… cancellare… non dimenticare, no, non potrò mai dimenticare<br />

quello che ho vissuto in quel periodo! <strong>La</strong> vita ha ripreso come prima anche se,<br />

spesse volte, la notte avevo degli incubi. Quante volte mi hanno svegliata perché<br />

urlavo… ma il risveglio era sempre meraviglioso, ero libera ed a casa <strong>mia</strong>.Tra parentesi,<br />

devo dire che ho dovuto trovarmi anche un altro fidanzato, perché quello che<br />

avevo mi lasciò al mio ritorno.<br />

Può darci chiarimenti sul momento della liberazione?<br />

<strong>La</strong>sciate libere dai tedeschi, siamo finite con gli americani, poi con i russi ed infine<br />

con gli inglesi che, tra l’altro, non sapevano cosa fare di quella fiumana di miserabili,<br />

poveri derelitti, veri cadaveri che di umano non avevano più niente, pieni di<br />

pidocchi, sporchi da far paura e morti di fame. Ci hanno fatti rivestire ed alloggiare<br />

nelle case che requisivano. Per mangiare si utilizzava quello che si trovava… ormai<br />

eravamo in tanti, perché c’erano anche i militari. Tutto ci sembrava bello, eravamo<br />

liberi, eravamo vivi. Dopo 4 mesi di vita nomade, su un scassata tradotta, che si fermava<br />

in continuazione, siamo partiti e, questa volta, anche se molto lontana, la destinazione<br />

era l’Italia.<br />

Quanto tempo ha trascorso nei campi di concentramento?<br />

Dopo l’arresto in Italia ho passato 3 giorni a Mauthausen, 7 giorni a Vienna, 7<br />

mesi ad Auschwitz, 1 mese a Ravensbrück, 4 mesi in fabbrica. Gli altri 2 mesi, tra<br />

120


l’evacuazione del campo ed i giorni di cammino senza sapere la destinazione che ci<br />

aspettava, ma purtroppo, nel nostro cuore, lo sapevamo tutti: era la morte certa…<br />

però non hanno fatto in tempo.<br />

E’ più tornata ad Auschwitz?<br />

Qualche anno fa sono ritornata ad Auschwitz, ed ora ho un grande desiderio: ritornarci<br />

ancora prima di morire… là ho lasciato parte della <strong>mia</strong> vita, ho lasciato mesi<br />

della <strong>mia</strong> gioventù.<br />

Poesia<br />

<strong>La</strong>sciateci vivere in un mondo dove non ci siano esclusi.<br />

Voglio vivere in un mondo dove gli uomini<br />

avranno diritti solo perché sono uomini,<br />

senza altro titolo che questo,<br />

senza essere ossessionati dalle regole, dalle parole, dalle bandiere.<br />

Voglio che si possa entrare in tutte le chiese, in tutti i municipi,<br />

voglio che più nessuno tema di essere arrestato<br />

non voglio più che qualcuno sfidi il governo del suo paese,<br />

che sia inseguito, perseguitato.<br />

Voglio che l’immensa maggioranza,<br />

la sola maggioranza, tutti,<br />

possano leggere, ascoltare, realizzarsi.<br />

Pablo Neruda<br />

121


Come una pioggia di stelle, questi articoli sono stati per noi,<br />

tuoi cari, un vero regalo.<br />

Sei stata, come del resto lo siamo tutti, di passaggio su questa terra, ma<br />

sei e sarai un ricordo vivo e forte in tutti i cuori oggi, domani, sempre.<br />

Antonella<br />

123


Quando il 24 aprile del 2001 ti hanno consegnato la medaglia d’oro tu,<br />

nonostante fossi gravemente malata ed avevi già dovuto subire<br />

3 interventi nel disperato tentativo di fermare un male che era ormai<br />

inesorabilmente andato avanti, hai dato con coraggio, semplicità e<br />

124


chiarezza la tua testimonianza, e dopo aver raccontato la tua <strong>storia</strong>, hai<br />

terminato dicendo che l’essere sopravvissuta ai campi di sterminio<br />

significava che per te la tua “croce” non era ancora finita.<br />

Antonella<br />

125


Nel giorno del nostro grande dolore, quando ormai le lacrime non<br />

facevano altro che acuire la nostra sofferenza per averti<br />

irrimediabilmente perduta, siamo stati colti di sorpresa da questi<br />

IL CENTRO PESCARA VENERDI’ 1 febbraio 2002<br />

126


articoli, usciti in sordina, a nostra insaputa, nessuno di noi se li<br />

aspettava… e le nostre lacrime rimasero sul nostro viso, così come le tue<br />

parole rimangono nei nostri pensieri quotidiani… così come la tua<br />

Memoria rimarrà nei nostri cuori, sempre.<br />

Antonella<br />

IL CENTRO PESCARA SABATO 2 febbraio 2002<br />

127


128


129<br />

Il 31 gennaio del 2003 sarebbe<br />

stato il primo Anniversario della<br />

tua morte. Il 27 gennaio del<br />

2003 uscì questo bellissimo articolo<br />

su di te, dove si descrivono,<br />

in maniera sintetica e chiara, le<br />

tue sofferenze e gli orrori ai<br />

quali hai dovuto assistere<br />

durante la tua prigionia nei<br />

campi di concentramento<br />

nazisti.<br />

E’ stata per me emozione,<br />

perché quando è uscito questo<br />

articolo, era già un anno che<br />

stavo lavorando su questo libro,<br />

ed il leggerlo ha reso ancora più<br />

salda la convinzione che dovevo<br />

andare avanti.<br />

Così è stato, Mamma.<br />

Antonella


Testi dai quali sono state prese le illustrazioni riportate nel libro:<br />

NEI LAGER C’ERO ANCH’IO Vincenzo Pappalettera<br />

Mursia 1973<br />

PIU’ MORTI PIU’ S PAZIO Corrado Saralvo<br />

Baldini & Castaldi 1969<br />

TU PAS S ERAI PER IL CAMINO Vincenzo Pappalettera<br />

Mursia 1966<br />

58881 Angelo De Battista – Giuseppe Galbani<br />

Edizioni PRO.T.E.O Lombardia 1999<br />

UOMINI AD AUS CHWITZ Hermann <strong>La</strong>ngbein<br />

Mursia<br />

130


INDICE<br />

Dediche<br />

Intervista dicembre 1995:<br />

pag. 7<br />

– Una ragazza come tante pag. 1 7<br />

– 25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti pag. 2 3<br />

– L’umiliazione pag. 2 9<br />

– Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano! pag. 3 1<br />

– <strong>La</strong> selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro pag. 3 3<br />

– Gli esperimenti pag. 3 7<br />

– Le parole non possono descrivere… pag. 3 9<br />

– Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura, la distruzione morale… pag. 4 3<br />

– Il dottor. Mengele pag. 5 1<br />

– <strong>La</strong> fame pag. 5 3<br />

– Le lacrime pag. 5 5<br />

– Il “Kommando Canada” pag. 5 7<br />

– Le baracche dei lager pag. 5 9<br />

– Da qui non si esce vive!<br />

– Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di<br />

pag. 6 1<br />

qualcun’altra pag. 6 7<br />

– L’evacuazione di Ravensbrück pag. 6 9<br />

– Le urla degli ebrei pag. 8 1<br />

– Irma Grese, “l’angelo biondo” pag. 8 5<br />

– L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…<br />

– Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei bruciati per festeggiare<br />

pag. 8 7<br />

il Führer pag. 9 3<br />

– <strong>La</strong> sete<br />

– Sofferenza fisica, psicologica, morale… ma il volo di una rondine<br />

pag. 9 7<br />

e il ricordo della mamma… pag. 9 9<br />

– Il lager, un colore morto pag. 1 0 5<br />

– <strong>76147</strong> pag. 1 0 9<br />

Intervista marzo 1999 pag. 1 1 5<br />

Articoli pubblicati pag. 1 2 3<br />

131

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!