ri-tratta - marcello carlotti

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03.06.2013 Views

RITRATTA

RITRATTA


è inizio ottobre del 2008, il mio amico<br />

nicola mi chiama per propormi un progetto.<br />

io sono un antropologo, lui ha da poco<br />

cominciato il percorso che lo porterà in breve<br />

a diventare un fotoreporter professionista.<br />

a tutti e due piace andare d<strong>ri</strong>tti al sodo,<br />

dunque la telefonata è concisa: pane al pane,<br />

vino al vino.<br />

“stavo pensando” mi dice “perché non fare<br />

un lavoro assieme sul razzismo? del tipo:<br />

fotografare persone di minoranze etniche a<br />

caglia<strong>ri</strong>, mentre parlano di razzismo. mi<br />

spiego: tu le fai parlare di razzismo, da<br />

antropologo, e io semplicemente scatto<br />

mentre loro parlano. potremmo tirar fuo<strong>ri</strong><br />

una buona mostra, maga<strong>ri</strong> addi<strong>ri</strong>ttura un<br />

libro. che ne pensi?”


lì per lì non so cosa pensare, però qualcosa<br />

non mi torna.<br />

“penso che ci devo pensare meglio”<br />

<strong>ri</strong>spondo “dammi qualche giorno, perché il<br />

mio cervello mi dice che così qualcosa non<br />

torna. ti <strong>ri</strong>chiamo quando avrò capito cosa.”<br />

e metto giù.<br />

prendo la macchina e mi faccio un giro –<br />

rotta villasimius; lo faccio spesso quando<br />

qualcosa non mi quadra e devo stirare i<br />

pensie<strong>ri</strong> per dare a<strong>ri</strong>a alle mie sinapsi: le<br />

curve e il mare che sale e scende al mio<br />

fianco mi aiutano a <strong>ri</strong>flettere. quel giorno,<br />

però, non ho bisogno di ar<strong>ri</strong>vare fino alla<br />

spiaggia. giro e torno in uf icio. ho avuto una<br />

piccola illuminazione e capito cosa, di quel<br />

progetto, finirebbe per non funzionare.<br />

scalo a piedi le rampe squadrate della<br />

facoltà, l’ascensore oggi è troppo lento, apro<br />

la porta dello studio, raggiungo la cornetta e


compongo il numero di nicola.<br />

“pronto caro, dimmi.” mi fa lui col suo<br />

italiano del nord.<br />

“ciao nichi” gli <strong>ri</strong>mando col mio impasto<br />

di accenti “ho capito cosa non quadra. stai a<br />

sentire”<br />

***<br />

“dunque” dico senza preamboli “noi<br />

vogliamo realizzare un lavoro che demolisca i<br />

presupposti del razzismo, ma se per<br />

realizzarlo fotografiamo solo persone di<br />

minoranze etniche o razzializzate mentre<br />

parlano del razzismo e delle disc<strong>ri</strong>minazioni<br />

subite… beh, come dire? staremmo facendo<br />

<strong>ri</strong>entrare il razzismo dalla finestra, no?<br />

sarebbe un progetto che nella pratica<br />

argomenta contro se stesso.”<br />

“e allora cosa proponi?”


“propongo di andare in giro a far parlare<br />

chiunque di razzismo e fotografarlo mentre<br />

ne parla.”<br />

“quando iniziamo?”<br />

“domenica”<br />

“dove?”<br />

“la maddalena”<br />

“io finisco il concerto alle 19 sabato”<br />

“bene, ti passo a prendere in teatro dopo il<br />

calcetto e poi partiamo; per le 22 dobbiamo<br />

essere assolutamente a tempio”<br />

“perché?”<br />

“c’è da chiederlo?”<br />

“e questa cosa fa? sopratutto: cosa fa a


tempio?”<br />

“se non ho capito male, dovrebbe essere<br />

un’attice, comunque è a tempio per cantare<br />

col suo gruppo.”<br />

“canta bene?”<br />

“non lo so, però…”<br />

“…”<br />

“… ci siamo scambiati delle mails e mi<br />

dice che se per caso dovessi essere nel nord<br />

sardegna… perché non raggiungerla a<br />

tempio…”<br />

“no comment.”<br />

“ti giro un link… e vediamo se capisci<br />

qual è”<br />

“…”


http://www.youtube.com/watch?<br />

v=pekKdY0vXPw<br />

***<br />

il razzismo non è così vecchio come si<br />

potrebbe pensare, e sopratutto non si basa<br />

sulla mera desc<strong>ri</strong>zione oggettiva di un chiaro<br />

fenomeno naturale. quando è nato, figlio<br />

dell’elan di linneo di classificare e ordinare<br />

gerarchicamente tutto il creato, era ben lungi<br />

dal conoscere e fomentare tutti i disordini, le<br />

disc<strong>ri</strong>minazioni e le atrocità che ha suscitato<br />

o giustificato negli ultimi tre secoli. linneo,<br />

fedele tanto al libro della genesi quanto ad<br />

a<strong>ri</strong>stotele, era convinto che l’universo<br />

naturale fosse stato creato da dio per servire<br />

l’uomo. da qui la sua idea di classificare<br />

sistemicamente e gerarchicamente la natura,<br />

con l’uomo in cima alla piramide. ma cosa<br />

avrebbe comportato la distinzione in classi di<br />

appartenenza diverse della specie umana? se<br />

l’umanità, infatti, è distinta (o distinguibile)


in differenti razze, ciascuna <strong>ri</strong>conoscibile in<br />

base a caratte<strong>ri</strong> morfologici prop<strong>ri</strong>, queste<br />

razze come si relazionano fra loro? ogni<br />

uomo è, come recita la bibbia, fatto a<br />

immagine e somiglianza di dio, oppure<br />

alcune razze son passate attraverso una<br />

degenerazione che le ha infe<strong>ri</strong>o<strong>ri</strong>zzate? il<br />

gotha intellettuale eurocent<strong>ri</strong>co, in particolar<br />

modo quello legato alla chiesa, ha avuto il<br />

suo bel daffare per dist<strong>ri</strong>care una simile<br />

matassa. una confusione fondamentale,<br />

legata alla cacciata dall’eden e alla<br />

conseguente caduta in disgrazia dell’umanità,<br />

ap<strong>ri</strong>va infatti un duplice scena<strong>ri</strong>o. per un<br />

verso, gli uomini erano figli di un medesimo<br />

padre, per altro entravano a pieno titolo nella<br />

sto<strong>ri</strong>a, e gli europei, ignorando quel che<br />

accadeva realmente nel resto dell’ecumene, si<br />

sentivano in qualche modo i paladini di quel<br />

processo che, poco a poco, si è andato<br />

configurando, in modo sempre più<br />

inest<strong>ri</strong>cabile, come progresso, teleologia ed<br />

evoluzione. tuttavia, il progresso (e ancor più<br />

l’evoluzione, se intesa come allontanamento


dallo status quo della creazione divina<br />

o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>a) aveva in se un forte gradiente di<br />

distanziamento dalle condizioni o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>e e<br />

dallo stato di (equilib<strong>ri</strong>o con la) natura.<br />

dunque, se l’uomo occidentale (ovvero la<br />

razza bianca) progrediva, al contempo si<br />

allontanava dallo stato di grazia o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>o<br />

nel quale, invece, permanevano i selvaggi (e<br />

tutte le altre razze, ciascuna incasellata in una<br />

specifica e differente tappa della marcia verso<br />

l’uomo bianco e il suo progresso tecnicoscientifico).<br />

questa, a grattare sotto la crosta<br />

superficiale, appare come<br />

un’autocontraddizione. infatti, se le razze<br />

selvagge son quelle più vicine alle condizioni<br />

del paradiso terrestre, perché salvarle? in base<br />

a quale p<strong>ri</strong>ncipio colonizzarle e sfruttarle?<br />

come quasi sempre accade nella sto<strong>ri</strong>a degli<br />

uomini, per mettere ordine ad una<br />

confusione, non c’è mai nulla di più ef icace<br />

di una nuova confusione creata ad hoc. in<br />

fondo, recitava il libro, l’uomo è stato<br />

scacciato dal paradiso terrestre per aver<br />

disobbedito, e da quel momento si sarebbe


dovuto procacciare il cibo col sudore della<br />

fronte. questo passo, in modo più o meno<br />

cosciente, ha dato il là all’idea stessa di<br />

progresso e di salvezza terrena. dio parla solo<br />

di sudore della fronte, ma non dice nulla<br />

sulle modalità lavorative che avrebbero<br />

dovuto suscitarlo. dunque, un modo di<br />

onorare il signore era dedicarsi al lavoro, e un<br />

modo di dedicarsi al lavoro era migliorarne la<br />

prolificità e le applicazioni tecniche. un<br />

modo accesso<strong>ri</strong>o di lodarlo era, poi, quello di<br />

innalzare edifici sempre più complessi in suo<br />

onore. del resto, gli egiziani avevano<br />

costruito le piramidi, e, pare, i babilonesi<br />

una torre tanto alta quanto sfortunata.<br />

questo sviluppo <strong>ri</strong>solve il problema<br />

o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>o? certo che no, eppure ha<br />

l’eccezionale capacità di distogliere<br />

l’attenzione.<br />

in fondo, le razze erano là, davanti agli<br />

occhi di tutti: bianchi, ne<strong>ri</strong>, gialli, etc. perché


stare a parlarne? era più importante trovare<br />

una giustificazione agli sfruttamenti ed alla<br />

schiavizzazione. il razzismo, da solo, non<br />

bastava, per quanti vanno in giro<br />

professando che siamo tutti figli del<br />

medesimo dio. d’altro canto, la maggior<br />

parte dei discendenti delle dodici t<strong>ri</strong>bù<br />

o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>e aveva perso il contatto col vero<br />

verbo e questo fomentava il compito di<br />

portare la buona novella, <strong>ri</strong>p<strong>ri</strong>stinandone il<br />

valore di ve<strong>ri</strong>tà e fedeltà. la luce nelle tenebre.<br />

tuttavia, razzismo e spinta missiona<strong>ri</strong>a,<br />

che non convissero ab o<strong>ri</strong>gine, non hanno<br />

mai avuto una sintonia pacifica e sinergica,<br />

per quanto, in molti casi, essi abbiano,<br />

purtroppo, cooperato.<br />

ma allora cos’è il razzismo? e soprattutto<br />

perché fare qualcosa per decostruirlo? perché<br />

prendere parte contro di esso e tutto quel che<br />

ne consegue?


fin da piccolo, non ho mai sopportato le<br />

bugie e chi, tramite esse, si approfittava del<br />

prossimo; dire le bugie, recita un proverbio, è<br />

rubare ad alt<strong>ri</strong> il di<strong>ri</strong>tto alla ve<strong>ri</strong>tà.<br />

***<br />

in termini strettamente scientifici, il<br />

razzismo è una bugia, una dott<strong>ri</strong>na che si<br />

fonda su una se<strong>ri</strong>e di dati ed elementi<br />

inconsistenti, e la cui finalità è<br />

p<strong>ri</strong>ncipalmente reto<strong>ri</strong>ca. certo, se <strong>ri</strong>penso ai<br />

miei giorni da studente, non posso non<br />

<strong>ri</strong>cordare la netta divisione tra le due grandi<br />

branche dell’antropologia: culturale e fisica.<br />

se il mito del razzismo si è <strong>ri</strong>velato tale<br />

abbastanza presto per gli antropologi<br />

culturali – la cui maggior difficoltà consiste<br />

nel capire cosa sia la cultura e come la si<br />

possa trasc<strong>ri</strong>vere, tradurre o anche solo<br />

evocare – ancora oggi l’antropologia fisica ha<br />

qualche dif icoltà di più a sfatarlo.<br />

in fondo, diceva qualcuno, da certi<br />

problemi è possibile venirne fuo<strong>ri</strong> soltanto


uscendone. è inutile tentare di <strong>ri</strong>solverli,<br />

perché ad ogni passo in avanti, le loro spire ci<br />

avvinceranno sempre più, al punto da<br />

lasciarci esanimi. mi rendo conto che questa<br />

è una <strong>ri</strong>proposizione del nodo gordiano, ma<br />

talvolta un colpo secco di spada vale più di<br />

mille argomentazioni, se lo scopo è quello di<br />

recidere dalla radice le catego<strong>ri</strong>e epistemiche<br />

che fanno funzionare una certa forma<br />

politica di vivere e rappresentarsi la realtà.<br />

se non fossi uno scienziato sociale, infatti,<br />

cercherei di vivere evitando di usare le<br />

catego<strong>ri</strong>e del razzismo: il solo parlarne infatti<br />

le rende attive.<br />

ma cosa deve fare un antropologo che,<br />

invece, vuole immischiarsi per cercare di dare<br />

una mano a disingarbugliare il mondo?<br />

***<br />

“scusa il <strong>ri</strong>tardo, caro. hanno chiesto un


paio di bis” nicola è abbastanza in forma<br />

“dobbiamo p<strong>ri</strong>ma passare da casa che lascio il<br />

fagotto e prendo la macchina fotografica”<br />

“sai caro” mi fa sedendosi con la borsa e il<br />

treppiede “sono un po’ nervoso per l’inizio<br />

del progetto. ho chiesto a p<strong>ri</strong>amo molti<br />

consigli, ad esempio se meglio scattare con il<br />

20mm, con il 50 o con il 35.” ma notando il<br />

<strong>ri</strong>tardo accumulato, taglio corto e gli dico:<br />

“beh, mettiti la cintura, dobbiamo<br />

recuperare più di mezz’ora, fare circa 300<br />

km, non mi <strong>ri</strong>cordo la strada, dobbiamo<br />

essere là entro le 22, e soprattutto devo<br />

comprarmi i siga<strong>ri</strong>!”<br />

nicola conosce il mio modo di guidare e<br />

non sembra granché preoccupato dal fatto<br />

che siano quasi le otto e abbiamo due ore<br />

scarse per ar<strong>ri</strong>vare a tempio. di contro io, che<br />

non <strong>ri</strong>cordo di esserci mai stato, sono<br />

abbastanza preoccupato, anche perché non<br />

ho una ferra<strong>ri</strong> ma una normalissima ka


dell’anno del pero e, contra<strong>ri</strong>amente a lui,<br />

conosco fin troppo bene le strade sarde.<br />

presi i siga<strong>ri</strong>, partiamo che sono le 19:53.<br />

ci immettiamo sulla 131 e, passati cineworld<br />

e semaforo, posso affondare sull’acceleratore:<br />

il tachimetro segna quasi 180 km/h, per<br />

buona parte del viaggio non scenderà sotto i<br />

160. siamo due pazzi incoscienti: io che<br />

corro dietro ad una gonnella e lui che si fida<br />

di me.<br />

tengo sempre a tavoletta, grazie al cielo<br />

non c’è traf ico, purtroppo ci sono decine di<br />

fossi e buche e la macchina è sempre più<br />

simile ad un toro da rodeo. supe<strong>ri</strong>amo di<br />

slancio chiunque: nicola si diverte e io mi<br />

diverto a vederlo divertito.<br />

superato il bivio per sanlu<strong>ri</strong> prendo in<br />

pieno una buca, la macchina si imbizzar<strong>ri</strong>sce,<br />

quasi spicca il volo e poi <strong>ri</strong>atterra con un bel<br />

botto.


“caro” mi dice nicola “cos’è questo<br />

rumore?”<br />

“niente, porca puttana,” <strong>ri</strong>spondo<br />

frenando “si è staccata la marmitta!”<br />

***<br />

accosto, scendo, impreco e mi chiedo che<br />

cazzo ci fanno tanti lavo<strong>ri</strong> in corso perenni<br />

sulla 131, se poi la strada è sempre piena di<br />

deviazioni e i pezzi libe<strong>ri</strong> sono colmi di<br />

buche. mentre smadonno, nicola <strong>ri</strong>mane<br />

tranquillo, con la cintura ancora agganciata.<br />

questo ragazzo, penso, si fida troppo di me.<br />

in questi casi, si hanno due opzioni: o si<br />

<strong>ri</strong>nuncia e si chiama un carroattrezzi, oppure<br />

si fa quel che si può.<br />

indosso due belle scarpe da basket. non so<br />

se la cosa possa funzionare o reggere a lungo,<br />

però ci posso provare. mi sfilo i lacci. nicola,<br />

che dallo specchietto mi vede togliermi le


scarpe in piena 131 con le macchine che ci<br />

scorrono rapide di fianco, da i p<strong>ri</strong>mi segni di<br />

nervosismo, si slaccia la cintura e si avvicina.<br />

“cosa fai?”<br />

“mi sto cambiando i calzini… secondo<br />

te? sto cercando di <strong>ri</strong>solvere il problema”<br />

“bene, non avevo dubbi”<br />

“beato te, io invece ne ho parecchi.<br />

spe<strong>ri</strong>amo funzioni”<br />

intreccio alla meglio i lacci, li lego alla<br />

marmitta e poi uso il fermo del cofano come<br />

perno. sembra funzionare: se non<br />

prenderanno fuoco, il problema della<br />

marmitta dovrebbe essere, almeno per il<br />

momento, <strong>ri</strong>solto. <strong>ri</strong>partiamo che sono unto<br />

di grasso e olio. non c’è male per un p<strong>ri</strong>mo,<br />

fantomatico, appuntamento con una ragazza:<br />

calzoni macchiati (nelle operazioni di


legatura della marmitta mi è esplosa una<br />

montblanc in tasca), mani sporche e scarpe<br />

senza lacci. se non scappa, le chiedo di<br />

sposarmi.<br />

“se non scappa al vederti conciato in quel<br />

modo” mi dice nicola“<br />

“allora è meglio che scappi tu”<br />

“perché?”<br />

“perché vuol dire che ha più di qualche<br />

problema”<br />

incasso lo spi<strong>ri</strong>to, pensando che<br />

comunque nel mio zainetto le sto portando<br />

anche un piccolo regalo: il quinto passo è<br />

l’addio. mi ha detto di non averlo mai letto.<br />

“nico” dico mentre ci avviciniamo al bivio<br />

con la 131 bis “dato che non stai facendo un<br />

cazzo, potresti almeno cercare tempio sulla


cartina e dirmi da dove ci conviene passare?<br />

giro per nuoro-olbia o procedo per sassa<strong>ri</strong> e<br />

taglio allo svincolo per saccargia?”<br />

non è una domanda dificile, mi pare.<br />

invece, la realtà è sempre un passo più in là:<br />

nicola, che non ha mai dovuto, in circa 24<br />

anni di vita, controllare una cartina, trova la<br />

questione particolarmente spinosa. mi<br />

confessa di non saperla leggere, però può<br />

chiamare il suo amico p<strong>ri</strong>amo e chiedere a<br />

lui: prop<strong>ri</strong>o la settimana scorsa è stato a<br />

tempio.<br />

“che dice?”<br />

“ci conviene passare da olbia.”<br />

“da olbia?” obietto sorpreso <strong>ri</strong>membrando<br />

la geografia dell’isola. “mi sembra strano.”<br />

ma nicola mi dice che p<strong>ri</strong>amo è sicuro,<br />

dunque non insisto e, ad abbasanta, gi<strong>ri</strong>amo:


sono le 21:15, non ar<strong>ri</strong>veremo mai in tempo.<br />

la macchina sfreccia e sobbalza, e io st<strong>ri</strong>ngo<br />

tanto forte il volante che quasi non sento più<br />

le dita.<br />

passata nuoro, noto che siamo in <strong>ri</strong>serva.<br />

ottimo.<br />

***<br />

“cos’è quella spia?”<br />

“siamo in <strong>ri</strong>serva”<br />

“…”<br />

“non preoccuparti, conosco un trucco per<br />

<strong>ri</strong>sparmiare.”<br />

la ve<strong>ri</strong>tà è che non conosco nessun trucco.<br />

è ovvio che se si viaggia a tavoletta, la<br />

macchina beve il doppio. l’unica è sperare di<br />

trovare presto un dist<strong>ri</strong>butore: eccone uno!<br />

entro di filato e vado d<strong>ri</strong>tto alla<br />

macchinetta: bancomat fuo<strong>ri</strong> uso.<br />

“hai del contante?”


“tieni caro” mi dice nicola allungandomi 5<br />

euro appallottolati.<br />

“non ne hai alt<strong>ri</strong>?”<br />

“no”<br />

bene. cerco di <strong>ri</strong>dare alla palletta una<br />

forma che sia accettabile. ma è tutto inutile:<br />

banconota non <strong>ri</strong>conosciuta. do una pedata<br />

alla ruota e mi faccio male. mr bean in<br />

confronto è un dilettante.<br />

<strong>ri</strong>salgo in macchina. nicola è perplesso,<br />

vorrebbe farmi delle domande ma non si<br />

avventura. per tutta <strong>ri</strong>sposta, <strong>ri</strong>metto in<br />

moto. sono le 21:45. <strong>ri</strong>parto piano e faccio<br />

tutte le discese in folle. p<strong>ri</strong>ma o poi un<br />

dist<strong>ri</strong>butore salterà fuo<strong>ri</strong>. dopo 10 km circa<br />

eccone uno; ma l’illusione dura poco: è<br />

nell’altra carreggiata. ti<strong>ri</strong>amo avanti<br />

ammosciati. è raro che supe<strong>ri</strong> gli 80 km/h.<br />

io, poi, che ho sentito l’att<strong>ri</strong>ce solo via mail e


non ho il suo numero, vorrei che almeno<br />

sapesse del culo che mi son fatto. invece sono<br />

in macchina, ho le mani sporche, i calzoni<br />

macchiati di inchiostro blu e le scarpe senza<br />

lacci. nicola, almeno, ha smesso di <strong>ri</strong>dermi in<br />

faccia e simpatizza. andando in folle in<br />

discesa e pianissimo nei restanti tratti, la<br />

<strong>ri</strong>serva ci porta fino a siniscola. finalmente,<br />

facciamo il pieno e ci <strong>ri</strong>ngalluzziamo. nicola,<br />

ateo da sempre, mi <strong>ri</strong>vela le ragioni del suo<br />

prolungato e desueto silenzio: stava<br />

pregando.<br />

“ora posso dirtelo: mi stavo letteralmente<br />

cagando in mano”<br />

al dist<strong>ri</strong>butore ci hanno spiegato dove<br />

tagliare per ar<strong>ri</strong>vare a tempio, aggiungendo<br />

che solo uno del posto e con una macchina<br />

decente potrebbe ar<strong>ri</strong>varci in circa 45 minuti.<br />

“lei dice così perché non ha mai visto<br />

guidare lui” dice nicola, tornato ateo.


“beh” dico dandomi più a<strong>ri</strong>e del solito<br />

“ora cominciamo a fare sul se<strong>ri</strong>o. se non<br />

ar<strong>ri</strong>viamo a tempio in meno di 45 minuti, ti<br />

pago la cena.”<br />

ma, in effetti, che senso ha correre così<br />

visto che le dieci son passate da un pezzo?<br />

nessuno; è solo una questione di p<strong>ri</strong>ncipio. e<br />

gli uomini, per questioni di p<strong>ri</strong>ncipio, son<br />

capaci di fare cazzate immani: io per ora mi<br />

limito a provare ad ar<strong>ri</strong>vare a tempio con i<br />

calzoni sporchi e le scarpe senza lacci. le<br />

mani le ho lavate mentre facevo il pieno.<br />

le curve per tempio, ad avere una moto,<br />

sarebbero uno spasso. ma le stesse curve, fatte<br />

con una ka e uno af ianco che ti chiede se<br />

non potresti farle più forte, possono<br />

diventare pe<strong>ri</strong>colose. incredibilmente (era la<br />

mia paura) non incont<strong>ri</strong>amo anima viva che<br />

ci rallenti, e ar<strong>ri</strong>viamo a tempio in 40<br />

minuti. sono le 23:30, e, dati tutti gli<br />

incidenti e gli imprevisti, posso essere fiero


del <strong>ri</strong>sultato: non pagherò nessuna cena! né<br />

all’att<strong>ri</strong>ce (che se ne sarà andata da un pezzo)<br />

e neppure a nicola (che alla fine si era messo<br />

a gufare cronometro in mano).<br />

***<br />

invece, l’att<strong>ri</strong>ce è ancora là, nella chiesa<br />

della cattedrale, che <strong>ri</strong>tira le sue cose, col<br />

resto della sua compagnia. le vado incontro<br />

che sembro la copia sfigata di un idiota. mi<br />

sor<strong>ri</strong>de e si avvicina. è prop<strong>ri</strong>o un gran bel<br />

pezzo di figa, penso. comincio a sudare e le<br />

parole mi si accartocciano in bocca: mi<br />

esp<strong>ri</strong>mo in modo t<strong>ri</strong>bale con monosillabi.<br />

realizzo di essere vestito come peggio non<br />

potrei per una simile occasione.<br />

all’improvviso ho il colpo di genio. mentre<br />

siamo uno di fronte all’altra senza sapere che<br />

cazzo dirci, e mentre lei si chiede cosa ci<br />

faccia uno così a tempio e, soprattutto, come<br />

possa essersi infilata in una simile,<br />

imbarazzante situazione, io tiro fuo<strong>ri</strong> il libro<br />

che le avevo portato e, con sommo


divertimento di nicola, scado ancora più in<br />

basso: assieme al libro le regalo anche un<br />

segnalib<strong>ri</strong> disegnato e costruito da me<br />

medesimo. per tutta <strong>ri</strong>sposta lei, dopo essersi<br />

messa prontamente il libro in borsa, mi trae<br />

d’impiccio. mi chiede di scambiarci i nume<strong>ri</strong><br />

di cellulare. tiro fuo<strong>ri</strong> il mio e le chiedo di<br />

dettarmi il suo, ma non faccio a tempo a<br />

finire la frase che lei esplode: “non ci posso<br />

credere!” esclama come chi avesse appena<br />

scoperto che ma<strong>ri</strong>a maddalena e la madonna<br />

son la stessa persona. “dai!” prosegue,<br />

lasciando me e nicola (che intanto sogghigna<br />

come un vero amico sul latte versato delle<br />

mie disgrazie) impiet<strong>ri</strong>ti.<br />

la causa di tanta sorpresa è presto detta:<br />

“abbiamo lo stesso cellulare!! identico!! anche<br />

il mio è rosso!!!” e mentre parla fruga con<br />

foga nella sua borsa.<br />

ora, per un attimo, mettetevi nei miei<br />

panni.<br />

ho infranto quasi tutte le leggi del codice


stradale, <strong>ri</strong>schiato di sbrodare, legato la<br />

marmitta con i lacci delle scarpe, speso 70<br />

euro di benzina (correre costa), progettato e<br />

realizzato un segnalibro personalizzato,<br />

portato in dono un bel libro, mi sono<br />

esposto al perenne pubblico ludib<strong>ri</strong>o col mio<br />

migliore amico, mi è esplosa una penna da<br />

800 euro in tasca… per cosa?<br />

mentre realizzo, lei va a cambiarsi ma mi<br />

chiede di aspettarla cinque minuti: tornerà<br />

subito!<br />

nicola non dice nulla, non potrebbe: sta<br />

<strong>ri</strong>dendo senza soluzione di continuità da<br />

circa 20 minuti. e io sono quantomeno<br />

accartocciato su me stesso. aspetto per pura<br />

educazione, ma vorrei essere già a la<br />

maddalena. “a questo punto neppure se<br />

tornasse in topless potrebbe <strong>ri</strong>scattarsi” mi<br />

dice nicola gettando sale grosso nel solco<br />

della fe<strong>ri</strong>ta.


“già” concordo<br />

torna con tutto l’entourage della sua<br />

compagnia. ci presentiamo, e quello che<br />

sembrerebbe il loro capocomico mi chiede<br />

cosa ci faccio io a tempio: “semplice”<br />

<strong>ri</strong>spondo “son qui per lei” dico indicando<br />

con lo sguardo l’att<strong>ri</strong>ce che, spaventata dalla<br />

mia franchezza, si nasconde dietro una sua<br />

collega. “ma evidentemente” concludo “mi<br />

devo essere sbagliato” e nel dirlo mi alzo<br />

dallo scalino sul quale mi ero seduto e mi<br />

avvio.<br />

“dai, <strong>marcello</strong>” dice lei “allora mi<br />

chiami?”<br />

“per fare che? buonanotte”<br />

uno può farsi calpestare l’orgoglio, ma<br />

mai la dignità, mi <strong>ri</strong>peteva mia nonna.<br />

<strong>ri</strong>saliamo in macchina e puntiamo verso


palau. ar<strong>ri</strong>viamo mogi e stanchi che son<br />

quasi le due, la reception di un piccolo,<br />

costoso hotel nei pressi del porto ci accoglie e<br />

ci sfama. l’indomani il p<strong>ri</strong>mo traghetto parte<br />

alle 7. lo prenderemo.<br />

***<br />

nicola si addormenta subito. io invece<br />

faccio fatica a prendere sonno. nella scia del<br />

suo respiro pesante, con barlumi di luci che<br />

filtrano dalla veneziana chiusa, vedo le mie<br />

solite ombre notturne <strong>ri</strong>ncorrersi sul sof itto.<br />

anche in questa estemporanea doppia di<br />

palau. sono i miei fantasmi che mi seguono<br />

ovunque. per scacciarli, quando non <strong>ri</strong>esco a<br />

prendere sonno subito, quando non posso<br />

ap<strong>ri</strong>re un libro e leggere, è solo esercitando il<br />

<strong>ri</strong>cordo che <strong>ri</strong>esco a quietarli.<br />

allora mi faccio tornare in mente, con<br />

prepotenza, alcuni pezzi del mio passato. mi<br />

concentro ed eccomi in af<strong>ri</strong>ca, di nuovo in<br />

una stanza d’albergo che non <strong>ri</strong>esco a<br />

prendere sonno. ma quella volta stavo da solo


e potevo leggere senza svegliare nessuno. lessi<br />

d’un fiato il terzo scimpanzé di diamond. un<br />

bel saggio. con un inizio forte e una fine<br />

notevole. un lavoro ca<strong>ri</strong>co di spinta morale.<br />

<strong>ri</strong>cordo soprattutto un passaggio, a proposito<br />

di razzismo, nel quale l’autore, basandosi su<br />

dati genetici, provocava il lettore: gli uomini<br />

credono di essere una specie a parte, a lungo<br />

(e in alcune realtà tuttora) hanno creduto alle<br />

razze, fino all’ar<strong>ri</strong>vo della genetica delle<br />

popolazioni e degli studi di genetica. è solo<br />

da qualche decennio che si è scoperto che la<br />

va<strong>ri</strong>anza genetica tra uomo e uomo di una<br />

stessa “razza” nominale può essere maggiore<br />

della distanza genetica tra uomini di “razze”<br />

nominali distinte: ovvero un bianco può<br />

condividere con un nero una porzione di dna<br />

supe<strong>ri</strong>ore a quella tra due bianchi. il concetto<br />

di fondo, che regge la genetica delle<br />

popolazioni, è che ogni popolazione ha, nel<br />

suo pat<strong>ri</strong>monio genetico, l’intera gamma di<br />

va<strong>ri</strong>azioni e possibilità di qualunque altra<br />

popolazione, a cambiare allora sarebbe, da<br />

popolazione a popolazione, la <strong>ri</strong>correnza con


cui questa va<strong>ri</strong>anza si manifesta in geni<br />

dominanti. di più, a volte, la va<strong>ri</strong>anza di dna<br />

tra uomo e uomo, è supe<strong>ri</strong>ore alla va<strong>ri</strong>anza<br />

tra un uomo e uno scimpanzé, specie con la<br />

quale, del resto, condividiamo circa il 97%<br />

del nostro pat<strong>ri</strong>monio eredita<strong>ri</strong>o.<br />

sulla base di questi <strong>ri</strong>sultati, allora, come è<br />

possibile il razzismo?<br />

il sonno non ne vuole sapere di prendermi<br />

nel suo abbraccio e, allora, mentalmente<br />

prendo nota dei miei pensie<strong>ri</strong>. appena avrò<br />

un momento, mi dico, li metterò su carta.<br />

non tutti sanno che il concetto di razza,<br />

congiuntamente a quello di darwinismo<br />

sociale, ha avuto una forte eco anche a livello<br />

scientifico, sfociando in una disciplina, la<br />

razziologia, che, troppo a lungo, è stata in<br />

auge. ma se è relativamente facile smontare<br />

una bufala mediatico-scientifica, è molto più<br />

complesso, per gli addetti ai lavo<strong>ri</strong>,<br />

decostruire il <strong>ri</strong>verbero che, certe teo<strong>ri</strong>e,


producono sul senso comune. alle dif icoltà<br />

di argomentare contro una teo<strong>ri</strong>a scientifica,<br />

si sommano, infatti, le dif icoltà di portare<br />

l’opinione anonima del “si dice” a <strong>ri</strong>flettere<br />

c<strong>ri</strong>ticamente su se stessa, a prendere il peso<br />

delle responsabilità esistenziali e politiche<br />

che, ogni atto di locuzione, porta con se. le<br />

parole, i discorsi non sono mai neut<strong>ri</strong>,<br />

oggettivi e naturalistici soprattutto quando<br />

partono dal presupposto di esserlo. penso che<br />

non è passato molto tempo dal nazifascismo<br />

che promulgava le leggi razziali; l’apartheid è,<br />

relativamente, finito da poco; gli<br />

afroame<strong>ri</strong>cani hanno subito disc<strong>ri</strong>minazioni<br />

fino a tempi molto prossimi a noi; gli indiani<br />

d’ame<strong>ri</strong>ca, la schiavitù, la <strong>tratta</strong> non sono<br />

fenomeni remoti; il colonialismo non è mai<br />

realmente finito; i pogrom, le guerre di<br />

pulizia etnica, le deportazioni sono ancora<br />

parte integrante del nostro mondo – sia che<br />

lo si pensi globale, sia che lo si voglia locale.<br />

il razzismo è solo uno dei modi attraverso i<br />

quali si è cercato di dare un ordine al caos.<br />

ma che tipo di ordine? mi chiedo, in effetti,


se esso non sia solo una va<strong>ri</strong>azione sul tema<br />

del vecchio quesito alla base di tutta la<br />

filosofia politica: cosa legittima un uomo a<br />

comandare su un altro uomo?<br />

forse sì. l’ideologia della razza ha senz’altro<br />

avuto il t<strong>ri</strong>ste me<strong>ri</strong>to di aver messo a tacere<br />

un sacco di dubbi in proposito e, nonostante<br />

il peso di morte di cui si è ca<strong>ri</strong>cata, è dura a<br />

mo<strong>ri</strong>re.<br />

nonostante? o forse prop<strong>ri</strong>o perché la<br />

morte si nutre di morte?<br />

ma la morte non può nut<strong>ri</strong>rsi di morte! la<br />

vita si nutre di vita, e la morte si nutre di<br />

vita. senza vita, non ci sarebbero né vita né<br />

morte.<br />

il razzismo, allora, è una forma di vita che<br />

ci porta comunque alla morte. ma c’è vita e<br />

vita. e questo è un punto d’ordine morale.<br />

almeno credo.


***<br />

nonostante abbia dormito vestito, la<br />

macchia blu non è spa<strong>ri</strong>ta come un brutto<br />

sogno al <strong>ri</strong>sveglio, ma continua a starsene là.<br />

parte dalla tasca e ar<strong>ri</strong>va poco sopra il<br />

ginocchio. e, ovviamente, non ho <strong>ri</strong>cambio.<br />

meno male che almeno il mare è<br />

clemente; la brezza ci <strong>ri</strong>nfresca gli occhi<br />

arrossati e l’odore salmastro ci tonifica lo<br />

spi<strong>ri</strong>to.<br />

“ho capito” dice nicola interrompendo la<br />

tregua<br />

“…”<br />

“hai scelto di venire a la maddalena perché<br />

qui c’erano gli ame<strong>ri</strong>cani!”<br />

beata ingenuità, penso. ho scelto di venire<br />

a la maddalena perché c’è una tizia che mi


interessa e che sta lavorando alla<br />

preparazione del g8. lo penso, ma evito di<br />

dirglielo. mi limito a sor<strong>ri</strong>dere e, sperando di<br />

<strong>ri</strong>sultare indecifrabile, faccio un enorme giro<br />

di parole.<br />

“dai!” mi <strong>ri</strong>mprovera.<br />

“da qualche parte dovevamo pur iniziare”<br />

cerco di tagliar corto. “ma” mi incalza senza<br />

pietà “e la se<strong>ri</strong>età dove sarebbe?”<br />

“quale se<strong>ri</strong>età?” <strong>ri</strong>spondo.<br />

“beh, quella del nostro lavoro!”<br />

“quella la dobbiamo dimostrare sul<br />

campo, e un campo vale l’altro.” eccola, la<br />

se<strong>ri</strong>età: una macchina con la marmitta tenuta<br />

da dei lacci e un uomo di 33 anni coi<br />

pantaloni chiazzati di inchiostro.<br />

sbarchiamo e nicola vorrebbe cominciare


subito la caccia: per lui, questo lavoro, è una<br />

sorta di safary fotografico. fiutate le prede,<br />

vorrebbe stenderle al p<strong>ri</strong>mo click. no, gli<br />

dico. anzitutto perché sono le 8 del mattino<br />

e chi vuoi che ci sia in giro a la maddalena a<br />

quest’ora di domenica? p<strong>ri</strong>ma cosa, da buoni<br />

antropologi, tracciamo e sentiamo il terreno.<br />

ci facciamo il giro, ovviamente in macchina,<br />

dell’isola. dobbiamo cercare di intuirla. la<br />

maddalena mi <strong>ri</strong>corda carloforte. un isola<br />

dell’isola, un’isola che si sente staccata dal<br />

continente sardegna. un mondo a se. chiuso<br />

al limite dell’endogamia. la noia è sospesa<br />

nell’a<strong>ri</strong>a manco fosse lo smog di pechino.<br />

alle 10 siamo di <strong>ri</strong>torno. parcheggiamo a<br />

due passi dalla banchina.<br />

“iniziamo?”<br />

***<br />

“no, ora facciamo colazione, e poi una


passeggiata: il paese è piccolo e, se ci vedono<br />

in giro, cominciamo a fare tappezze<strong>ri</strong>a e<br />

destiamo minore ir<strong>ri</strong>tazione” mentre lo dico,<br />

penso a malinowski, dal quale ho imparato,<br />

se non altro, a mentire sul mio lavoro. certo,<br />

con esiti diversi. lui è diventato il padre della<br />

<strong>ri</strong>cerca sul campo con cattera ad oxford e io<br />

ho un contratto preca<strong>ri</strong>o a caglia<strong>ri</strong>. ma quelli<br />

erano alt<strong>ri</strong> tempi. nicola però ha troppa<br />

fretta, e io mi sento un cacciatore che deve<br />

tenere i cani.<br />

“nico” gli dico, mentre lui si mette mezza<br />

bomba alla crema in bocca “questo è un<br />

lavoro delicato. le persone devono parlare,<br />

ap<strong>ri</strong>rsi, raccontare e pensare. se non si<br />

sentono comode, il lavoro <strong>ri</strong>sulterebbe un<br />

fallimento, mancherebbe della giusta, densa<br />

profondità. dunque” concludo, mentre lui si<br />

affanna a mandar giù per <strong>ri</strong>spondermi “be<br />

quiet, please”<br />

dopo aver dato un lungo sguardo distratto<br />

ai giornali, dico a nicola: “pronti, possiamo


andare”<br />

“come procediamo?”<br />

“beh, anzitutto andiamo in giro e vediamo<br />

se percepiamo qualcosa di interessante<br />

nell’a<strong>ri</strong>a”<br />

a pochi met<strong>ri</strong> dal bar, troviamo quello che<br />

sembrerebbe un centro sociale. dentro una<br />

mostra di disegni di bambini e foto su la<br />

maddalena. ci accoglie un uomo sulla<br />

cinquantina, dice di chiamarsi lino, è un<br />

professore di sto<strong>ri</strong>a dell’arte. ha vissuto per<br />

un paio di decenni a firenze, ma ora è<br />

tornato a la maddalena. ha voglia di<br />

comunicare, e io lo metto a suo agio. gli<br />

esponiamo rapidamente il progetto, e dice di<br />

non aver nulla in contra<strong>ri</strong>o a parlare. è più<br />

dubbioso per quel che concerne le foto, ma<br />

nicola è un mastino. ad un certo punto,<br />

mentre noi parliamo, si alza e comincia a<br />

scattare. dopo un iniziale ir<strong>ri</strong>gidimento, lino


comincia a prenderci gusto. lo noto da come<br />

si atteggia verso l’obiettivo. cerca di parlare<br />

con espressioni e pause teatrali. click, click,<br />

click. parlare con uno che ci scatta in faccia,<br />

ci fa sentire più importanti, a quanto pare.<br />

caro mcluhan non è più il medium ad essere<br />

il messaggio, oggi ci accontentiamo della<br />

forma. sant’otturatore. l’impressione è che<br />

lino non parlasse da almeno due anni. ci<br />

racconta tutta la sto<strong>ri</strong>a della sua vita, e ogni<br />

volta che si distanzia troppo, io devo<br />

inca<strong>ri</strong>carmi di <strong>ri</strong>portarlo sul pezzo senza che<br />

se ne accorga. gli chiedo del razzismo a la<br />

maddalena. sulle p<strong>ri</strong>me è molto abbottonato,<br />

ma poco a poco si lascia andare. al punto da<br />

farci intendere di esserne stato, in qualche<br />

modo, vittima lui stesso: non lo dice<br />

chiaramente, ma nelle sue parole, e<br />

soprattutto nei suoi gesti, prende<br />

rapidamente forma una confessione. dopo<br />

quasi 50 minuti di conversazione più<br />

prossima a telefono amico che ad un<br />

reportage antropologico, ci salutiamo. lino<br />

ha firmato le liberato<strong>ri</strong>e. nicola ha scattato


oltre 250 foto.<br />

“figa” dice nicola che non ha mai troppi<br />

peli sulla lingua “dev’essere duro essere culani<br />

da queste parti”<br />

“già”<br />

***<br />

sono le undici passate, la gente comincia<br />

ad affollare le vie, e nicola ed io procediamo<br />

come due strani marziani verso il centro del<br />

centro sto<strong>ri</strong>co. a pochi passi dalla chiesa,<br />

manco a farlo a posta, incont<strong>ri</strong>amo un prete.<br />

è il cappellano militare. tutto nero sotto il<br />

colletto bianco e la calva prominente. <strong>ri</strong>cordo<br />

che i manuali di <strong>ri</strong>cerca sul campo, datati<br />

forse agli anni ‘50, sugge<strong>ri</strong>vano di agganciare<br />

sindaco, maestro, prete e, talvolta, il<br />

farmacista. dunque, lo fermiamo. esponiamo<br />

anche a lui il progetto. ci dice che tornerà<br />

subito. nicola non è contento della scelta.


fotograficamente non è un soggetto<br />

interessante. eppure, gli dico io, se la gente ci<br />

vede che intervistiamo il prete, dovrebbe<br />

prendere maggior confidenza e fiducia circa<br />

la nostra presenza e il nostro lavoro. o<br />

almeno così assicurano i manuali. il prete<br />

torna. partiamo. in effetti, ci dice, non <strong>ri</strong>esce<br />

a capire il razzismo. siamo tutti figli di uno<br />

stesso dio, fatti a sua immagine e<br />

somiglianza. dovremmo vivere d’amore e<br />

fratellanza, comprensione e <strong>ri</strong>spetto. provo a<br />

scalfire questa f<strong>ri</strong>ttura mista di luoghi<br />

comuni, per grattarci la realtà sottostante, ma<br />

il prete, in quello che dice, ci crede sul se<strong>ri</strong>o.<br />

dunque tanto di cappello: non ci sta<br />

intortando nessuna sto<strong>ri</strong>ella. mentre<br />

racconta, come sempre, la chiacchiera<br />

assume altre coordinate e inizia a focalizzarsi<br />

sull’io di colui che parla: l’intervista diviene<br />

dialogo, e questo scivola rapidamente in<br />

narrazione. in tal modo, mi si fà c<strong>ri</strong>stallino il<br />

perché lui creda con tanta serenità in quel<br />

che ci dice: fino a qualche anno fa, infatti,<br />

era un impiegato postale. ha cambiato vita a


cinquant’anni suonati. meglio tardi, gli dico.<br />

no, mi <strong>ri</strong>sponde, non è mai tardi,<br />

semplicemente era giunto il momento.<br />

l’intelligenza serena delle cose che dice, st<strong>ri</strong>de<br />

con il suo aspetto da lino banfi e la sua voce,<br />

ad un tempo roca e argentina. nicola<br />

frattanto scatta come un ossesso. d’un tratto,<br />

forse a causa del sole a picco sulla sua<br />

generosa pelata, il prete ci liquida con una<br />

rapida stretta di mano, e va. parlare, in<br />

fondo, stanca.<br />

ci <strong>ri</strong>mettiamo in caccia di informato<strong>ri</strong>, e<br />

proseguiamo verso il cuore del paesello.<br />

strada facendo, incrociamo i nost<strong>ri</strong> passi con<br />

quelli di un gatto nero. non essendo nessuno<br />

di noi due eccessivamente superstizioso (e<br />

poi, peggio di così cosa potrebbe accaderci?)<br />

lo seguiamo. sornione si mette in posa e io<br />

chiedo a nicola di immortalarlo: non capita<br />

tutti i giorni un felino nero che si mette in<br />

posa. mentre ci sollazziamo col gatto, una<br />

voce mi chiama. “e tu che ci fai qui?” mi<br />

giro. è la tipa a causa della quale sono qui.<br />

vorrei dirglielo, ma ho imparato che con le


donne è sempre meglio tacere. soprattutto se<br />

si fanno accompagnare, come lei ora, da uno<br />

che sembra una via di mezzo tra jerry lewis e<br />

jerry calà. ha tanti di quei colo<strong>ri</strong> nel<br />

maglioncino che c’è da sorprendersi che le<br />

api non gli abbiano nidificato fra i capelli.<br />

forse è l’abbondanza del gel ad averle<br />

scoraggiate. mentre mi parla, lui tace e<br />

acconsente. “allora? come mai qui?”<br />

dopo un iniziale silenzio, la guardo e, con<br />

finto candore, dico: “stiamo facendo un<br />

reportage sui gatti de la maddalena”<br />

“ah, interessante”<br />

“no, la ve<strong>ri</strong>tà è che stiamo facendo un<br />

lavoro fotoantropologico sul razzismo e<br />

abbiamo iniziato da qui.”<br />

“ah, interessante” <strong>ri</strong>badisce, forse<br />

<strong>ri</strong>ntronata dallo sgargio cromatico del suo<br />

accompagnatore.


“beh, allora ci becchiamo dopo, se<br />

<strong>ri</strong>manete” e va.<br />

***<br />

“ma così non vale” mi fa nicola appena<br />

soli<br />

“cosa?”<br />

“mi avevi detto che era un gran figa…”<br />

“…”<br />

“e invece è solo una figa media…”<br />

“…”<br />

“…”<br />

“hai fatto col gatto? allora andiamo<br />

avanti”<br />

***<br />

cosa vuol dire andare avanti? in termini<br />

strettamente podistici, andare avanti significa<br />

mettere un piede davanti all’altro, con la<br />

direzione di marcia indicata dalla punta.<br />

tuttavia, forse benjamin in angelus novus,


aveva parlato di un arretramento verso il<br />

futuro… se la memo<strong>ri</strong>a non m’inganna, un<br />

angelo, venuto a visitare il tempo presente,<br />

or<strong>ri</strong>pilato da quel che ci trovò, arretrò nella<br />

sua direzione. insomma, andava avanti di<br />

spalle. arretrare verso il futuro, in effetti, è<br />

cosa ben diversa dal girare sui tacchi. la<br />

potenza di quell’immagine, ai miei occhi, sta<br />

prop<strong>ri</strong>o in questo non <strong>ri</strong>uscire a dare le spalle<br />

al presente. benjamin era ebreo. dovette<br />

fuggire dalla germania, poi dalla francia,<br />

quando questa cadde sotto il dominio<br />

nazista, per mo<strong>ri</strong>re suicida in spagna, da dove<br />

sperava di imbarcarsi per gli stati uniti. non<br />

ce la fece. la sua, in effetti, è una sto<strong>ri</strong>a<br />

singolare ma allo stesso tempo plurale,<br />

archetipica e paradigmatica. penso che dovrei<br />

pensare che essa potrebbe essere eletta a<br />

simbolo di <strong>ri</strong>-<strong>tratta</strong>. benjamin, filosofo,<br />

saggista, c<strong>ri</strong>tico e, soprattutto, uomo<br />

intelligente, preferì il sonno nichilistico della<br />

morfina, piuttosto che correre il <strong>ri</strong>schio di<br />

essere <strong>ri</strong>consegnato dalle milizie franchiste a<br />

quelle naziste. quando decise di togliersi la


vita, egli aveva con sé una valigia nera che,<br />

con ogni probabilità, conteneva tutti i suoi<br />

sc<strong>ri</strong>tti più preziosi. i suoi compagni di<br />

viaggio, anche loro ebrei, vennero <strong>ri</strong>lasciati il<br />

giorno dopo, e, facendo una colletta,<br />

poterono pagargli un loculo a port bou, per<br />

cinque anni. dal 1945 non si sa dove<br />

<strong>ri</strong>posino le spoglie di benjamin. stesso<br />

destino per la valigia nera. oggi viene da dire<br />

che se avesse avuto la pazienza di aspettare<br />

un giorno di più, avrebbe scoperto che la<br />

vita, ogni tanto, <strong>ri</strong>serva anche delle buone<br />

sorprese. ma il solo pensarlo mi fa<br />

rabb<strong>ri</strong>vidire di banalità. l’angelo arretra verso<br />

il futuro, un tacco davanti all’altro,<br />

rompendo la resistenza del tempo, col fruscio<br />

candido delle sue ali.<br />

di fronte a tali immaginosi pensie<strong>ri</strong>, nicola<br />

e io semb<strong>ri</strong>amo due granchi. procediamo<br />

infatti gof i e saltellanti. mentre io cerco di<br />

ficcare i miei occhi in quelli di tutti per<br />

captarne e carpirne l’energia, nicola<br />

giochicchia con la macchina fotografica e si<br />

interroga se 24 giga di memo<strong>ri</strong>a fotografica


gli basteranno. “dipende” gli faccio<br />

“è che ho già quasi <strong>ri</strong>empito una scheda” c’è<br />

un’altra cosa che lo preoccupa molto: il<br />

sensore della macchina. cambiando<br />

costantemente ottica il sensore <strong>ri</strong>schia di<br />

sporcarsi. niente di percepibile ad occhio<br />

nudo. ma basta un grumetto di umidità, o<br />

un po’ di micropulviscolo per rovinare<br />

l’eventuale mostra che nicola già pregusta.<br />

dunque, fra le tante altre cose che fa, e che<br />

sembrano tic da maniaco, ogni tanto alza la<br />

macchina e scatta una foto al cielo. dopo di<br />

che, ingrandisce la foto nello schermetto lcd,<br />

per ve<strong>ri</strong>ficare che il sensore sia ancora pulito.<br />

nel frattempo io, che ho la barba lunga, i<br />

capelli lunghi e i pantaloni macchiati, potrei<br />

passare per il fratello sfigato di lenny kravitz.<br />

eppure, prop<strong>ri</strong>o per il nostro aspetto<br />

schizoide e il nostro atteggiamento<br />

completamente svagato, <strong>ri</strong>usciamo a fermare<br />

e intervistare parecchia gente.<br />

***


ad esempio, mentre io vado a comprarmi<br />

una bottiglietta d’acqua, nicola si avvicina ad<br />

un gruppo di vendito<strong>ri</strong> ambulanti.<br />

dapp<strong>ri</strong>ncipio, temo, ci hanno preso per<br />

poliziotti in borghese, o più probabilmente<br />

per due coglioni. mentre mi avvicino, sento<br />

nicola parlare in inglese e dunque mi accodo.<br />

parliamo tutti in inglese, ma ognuno ha un<br />

diverso livello. ci capiamo relativamente poco<br />

e gesticoliamo tanto. cerco di spiegare il<br />

progetto, ma, dalle loro espressioni, mi rendo<br />

conto che probabilmente neppure io<br />

comprendo bene quel che sto dicendo.<br />

dunque chiedo loro da dove vengano e se<br />

hanno qualche problema a parlare inglese. in<br />

effetti, mi fa il più sveglio, vengono dal<br />

senegal e prefe<strong>ri</strong>rebbero il francese. e qui<br />

entra in scena nicola, dato che lui, nei suoi<br />

tre anni svizze<strong>ri</strong>, ha parlato solo francese.<br />

Dopo qualche minuto, però, ho la netta<br />

sensazione che capissero di più p<strong>ri</strong>ma,<br />

quando si parlava in inglese.<br />

“nicola” gli faccio “mi sembra che qui ci<br />

sia un problema di comunicazione” per la


p<strong>ri</strong>ma volta da quando è iniziata la<br />

conversazione, qualcuno ha parlato in<br />

italiano.<br />

“ma parlate italiano?” sbotta il senegalese<br />

sveglio. “certo, siamo italiani”<br />

“e allora perché avete parlato in inglese?”<br />

francamente me lo chiedo anch’io. vorrei<br />

<strong>ri</strong>dere del malinteso, ma mi rendo conto che<br />

non sarebbe la mossa più azzeccata. i nost<strong>ri</strong><br />

amici sono tesi e insospettiti. dunque faccio<br />

notare che quando sono ar<strong>ri</strong>vato loro stavano<br />

parlando in inglese e per questo ho pensato<br />

che non sapessero ancora parlare in italiano,<br />

maga<strong>ri</strong> erano appena ar<strong>ri</strong>vati.<br />

“ma quale appena ar<strong>ri</strong>vati!” fa il più<br />

anziano. “sono in italia da 25 anni!”<br />

fatto un rapido calcolo, il pat<strong>ri</strong>arca del<br />

gruppo calca il suolo italiano da un pe<strong>ri</strong>odo<br />

assoluto supe<strong>ri</strong>ore a quello di nicola. in<br />

termini relativi, tuttavia, la questione<br />

cambia: per lui, infatti, quei 25 anni sono<br />

solo mezza vita; per nicola, invece, i suoi 24


sono tutta la vita.<br />

mentre ascolto la sto<strong>ri</strong>a del suo ar<strong>ri</strong>vo in<br />

italia, penso queste cose e faccio questi<br />

calcoli, con la vaga, ma non confermata,<br />

sensazione che non siano esattamente<br />

pensie<strong>ri</strong> sprecati.<br />

***<br />

non tutti vogliono farsi fotografare. così<br />

nicola scatta solo alcuni dei loro volti – ne<strong>ri</strong> e<br />

segnati. i più giovani, dalle illusioni di<br />

raggiungere uno status connesso alle marche<br />

dei brands che indossano (o<strong>ri</strong>ginali) e<br />

vendono (contraffatti). il più anziano, dai 25<br />

anni trascorsi vendendo in strada. mentre<br />

parliamo e nicola continua a scattare, io mi<br />

chiedo se questi giovani di colore non siano<br />

una buona metafora della nostra società<br />

postmoderna. sono disposti a spendere tanto<br />

per indossare dei capi o<strong>ri</strong>ginali e incarnarne<br />

lo status symbol, ma al contempo vendono<br />

in strada gli stessi capi tarocchi a tutti gli<br />

alt<strong>ri</strong>, ovvero a quelli che aspirano ma non


possono. quanti sac<strong>ri</strong>fici! questa schizofrenia<br />

mi preoccupa, perché mi sembra una delle<br />

patologie sociali più diffuse e pe<strong>ri</strong>colose del<br />

nostro mondo. avere per appa<strong>ri</strong>re o appa<strong>ri</strong>re<br />

nell’avere? o far appa<strong>ri</strong>re d’avere per dare e<br />

vivere nell’illusione d’essere? l’unica cosa che<br />

mi pare più o meno certa è che cor<strong>ri</strong>amo<br />

sempre dietro ai miraggi sbagliati. a volte,<br />

basta <strong>ri</strong>manere fermi e provare a scavare. le<br />

<strong>ri</strong>sposte, spesso, son già dentro di noi. anzi,<br />

ognuno di noi è la sua <strong>ri</strong>sposta. ognuno è,<br />

infatti.<br />

fffffffffrrrrrrrrrrr a <strong>ri</strong>svegliarmi da questa<br />

mistica silenziosa è prop<strong>ri</strong>o il mio di dentro:<br />

lo stomaco si lamenta. abbiamo fame.<br />

ognuno di noi è, fintanto che si nutre. per<br />

questioni di bilanciamento del bianco, le<br />

foto ai senegalesi alla una sotto al sole,<br />

<strong>ri</strong>sultano o sovraesposte o sottoesposte. ma<br />

per ora ci limitiamo a fermarci e a cercare un<br />

posto dove mettere qualcosa sotto ai denti.<br />

cosa si può mangiare a la maddalena di


domenica? ovviamente pizza<br />

***<br />

mangiamo la pizza circondati da israeliani,<br />

ame<strong>ri</strong>cani e francesi. qui, però, di stranie<strong>ri</strong>, e<br />

di extracomunita<strong>ri</strong>, se ne intendono, anche<br />

se la giunta soru, sembrerebbe, ha ottenuto<br />

di svuotare la base nato restituendo la piena<br />

sovranità dell’isola ai civili.<br />

finiamo di mangiare in pochi, famelici<br />

bocconi: nicola ha fretta di tornare in azione.<br />

ma io lo stoppo con suo grande ramma<strong>ri</strong>co: è<br />

domenica.<br />

“e quindi?”<br />

“e quindi sono quasi le tre”<br />

“non capisco, caro”<br />

“a parte il fatto che, come puoi ben<br />

vedere, non c’è nessuno in giro… oggi è


giornata di campionato”<br />

la faccia di nicola si contorce. è chiaro che<br />

vorrebbe darmi dell’italiano qualunque, ma è<br />

talmente perplesso che si frena, <strong>ri</strong>ncula e<br />

<strong>ri</strong>mugina.<br />

“ora ci cerchiamo un bar” dico io, con fare<br />

che non ammette repliche “ci prendiamo un<br />

buon caffé e, visto che tu sei astemio, io mi<br />

prendo un unicum per mandar giù la pizza.”<br />

non lo dico, ma scelgo un bar che mandi<br />

in diretta una partita: milan-samp. gioca<br />

ronaldinho. sono cu<strong>ri</strong>oso di vederlo alle prese<br />

col calcio italiano. nella liga in spagna,<br />

eccetto l’anno scorso, ha fatto faville. ma el<br />

calcio è un’altra cosa. il nostro è un gioco<br />

meno a<strong>ri</strong>oso, più tattico, che assilla i creativi<br />

fino al soffocamento. devi essere uno<br />

veramente tosto per emergere qui. nicola,<br />

che non è interessato, passa. io, che tifo<br />

milan dai tempi di blisset e joe squalo


jordan, mi piazzo davanti allo schermo con la<br />

conclamata intenzione di alzarmi solo al<br />

t<strong>ri</strong>plice fischio.<br />

“è meglio se ti trovi qualcosa da fare per le<br />

prossime due ore” dico a nicola con tono<br />

vagamente gaglioffo.<br />

e lui tira fuo<strong>ri</strong> dalla borsa il suo portatile<br />

per analizzare le foto fatte. sca<strong>ri</strong>ca le memory<br />

card e apre photoshop. mentre sono<br />

totalmente assorto nelle giocate delle due<br />

compagini, equamente diviso fra cassano e<br />

ronaldinho, da lontano odo il mio socio<br />

delucidarmi su dati ed erro<strong>ri</strong> finora<br />

commessi. vorrei mozzargli la lingua: per me<br />

è inconcepibile vedere una partita con uno<br />

che ti parla tutto il tempo di p<strong>ri</strong>o<strong>ri</strong>tà di<br />

diaframmi, tempi di esposizione,<br />

micromossi, bilanciamento del bianco in<br />

spot e tipologia delle ottiche. voglio vedere la<br />

partita e, da buon galletto, distrarmi solo se<br />

le ragazze antistanti valgono davvero la pena.


come quella <strong>ri</strong>ccioluta che sfila là fuo<strong>ri</strong>.<br />

“nico” gli faccio d’improvviso animandolo<br />

“ma hai visto anche tu quella che è appena<br />

passata?”<br />

dentro di me, avrei giurato che nicola non<br />

avesse occhi che per le foto, ma, come dire, il<br />

<strong>ri</strong>chiamo della carne è possente anche in lui.<br />

“quella coi <strong>ri</strong>cci?” mi <strong>ri</strong>manda senza<br />

apparentemente staccare gli occhi dallo<br />

schermo<br />

“già”<br />

“me<strong>ri</strong>ta, eh?”<br />

guardiamo di fuo<strong>ri</strong> come due coglioni, e,<br />

<strong>ri</strong>cordandomi dei miei pantaloni chiazzati di<br />

blu, penso che non dobbiamo essere un<br />

grande spettacolo.


vorrei avere un potere telepatico per<br />

comunicare a tutti: nonostante noi due,<br />

prendete sul se<strong>ri</strong>o ciò che cerchiamo di fare e<br />

dateci una mano a farlo meglio.<br />

***<br />

mentre nicola continua a bombardarmi,<br />

dicendomi che fotografare, per cartierbresson,<br />

significava “sc<strong>ri</strong>vere con la luce per<br />

disegnare una meditazione e catturare un<br />

frammento di realtà con un’azione<br />

immediata”, io provo, dentro di me, a<br />

chiedermi se sia possibile, evitando di scadere<br />

nella superficialità, catturare una forma<br />

antropologica di desc<strong>ri</strong>zione densa del ed<br />

attorno al razzismo, <strong>ri</strong>levando l’intreccio dei<br />

fili dietro all’arazzo; come possa, se mai<br />

<strong>ri</strong>uscirò a cogliere una parte di<br />

quell’intreccio, sc<strong>ri</strong>verne, evocando il<br />

percorso di scoperta ed analisi; e, soprattutto,<br />

dove diavolo sia andata a finire la <strong>ri</strong>ccioluta.<br />

uscendo dal bar, nicola le si è avvicinato per<br />

chiederle un’intervista, ma la sua compagna


di chiacchiere ha detto no per entrambe.<br />

il resto del pome<strong>ri</strong>ggio corre di intervista<br />

in intervista, ma i miei dubbi fondamentali<br />

proseguono tutti e tre, come tarli. in fondo la<br />

maddalena è un’isola; dovrebbe esser<br />

possibile cercare di coglierne il modo,<br />

maddalenino, di strutturare e significare il<br />

razzismo; del resto, james clifford, leggendo<br />

amitav ghosh, ci <strong>ri</strong>corda che i luoghi della<br />

postmodernità, più che isole isolate, sono<br />

talvolta più simili alle sale d’attesa di<br />

aeroporti internazionali, e che, dunque, il<br />

concetto di campo antropologico, e quello di<br />

cultura di una comunità, andrebbero un<br />

attimo <strong>ri</strong>tarati. tuttavia, se la maddalena è<br />

un’isola, neanche troppo grande, e io tengo<br />

costantemente d’occhio i traghetti, quali<br />

stradine starà mettendo sotto i suoi agili<br />

piedi la donna coi <strong>ri</strong>cci?<br />

a fine serata, la tipa del g8, forse annoiata<br />

dall’omino bianco colorato col cui gel<br />

s’accompagnava al mattino, fa t<strong>ri</strong>llare il mio


cellulare, che è ancora uguale a quello<br />

dell’att<strong>ri</strong>ce.<br />

“dove sei? sei ancora a maddalena?”<br />

parla, ormai, come una nativa e dice a<br />

maddalena. soprattutto, ha realizzato la<br />

trasformazione linguistica che il cellulare ha<br />

portato con se. p<strong>ri</strong>ma, quando si usava il<br />

telefono fisso, si soleva chiedere, consci di<br />

sapere dove l’altro si trovasse, come stai; ora,<br />

forse colpiti dalla mobilità che il mezzo<br />

consente, alla questione modale dell’essere, si<br />

è sostituita una propensione logistica: i mezzi<br />

cambiano e <strong>ri</strong>strutturano anche le formule<br />

della nostra cu<strong>ri</strong>osità.<br />

“siamo in piazza umberto 1, davanti al<br />

porticciolo, tu?”<br />

“dai raggiungetemi, sono in un bar in<br />

corso vitto<strong>ri</strong>o emanuele, sono seduta fuo<strong>ri</strong>.”


“che si fa?” chiedo a nicola che sta ancora<br />

pensando a come la d700 bilancia il bianco<br />

in condizioni di luce estreme.<br />

“ovvio” <strong>ri</strong>sponde senza staccare gli occhi<br />

dallo schermetto nel quale si fa scorrere le<br />

foto, “si va”<br />

dunque andiamo.<br />

“eccovi! ma che fine avevi fatto?”<br />

“stavamo lavorando in giro per il<br />

progetto” dico mentre ci sediamo al tavolino.<br />

“lui è <strong>marcello</strong> e fa l’antropologo” questa<br />

ragazza, penso mentre parla e presenta, mi<br />

perplime: perché cazzo deve apporre dietro al<br />

nome di ognuno la professione che questo<br />

svolge? a che pro quest’etichetta? sembra<br />

quasi che voglia assorbirne la luce: visto che<br />

gente figa conosco!


“sono qui a maddalena perché stanno<br />

facendo un progetto di <strong>ri</strong>cerca sul razzismo<br />

per l’università” e prosegue, parlando di e per<br />

noi, come fosse a parte dell’intera impresa,<br />

come fosse un’antropologa vitto<strong>ri</strong>ana che<br />

parla al mondo al posto dei suoi nativi: che<br />

egocent<strong>ri</strong>smo!<br />

mentre sorbiamo tea, birra e fanta, nicola<br />

tira fuo<strong>ri</strong> il portatile e sca<strong>ri</strong>ca le foto per<br />

lavorarci in cs3. non potendo resistere alla<br />

cu<strong>ri</strong>osità, la nostra anfit<strong>ri</strong>ona, chiede di poter<br />

vedere il lavoro finora svolto.<br />

nicola apre i files, e mostra i lavo<strong>ri</strong> portati<br />

a casa: le 6 foto selezionate sulle oltre 700<br />

scattate.<br />

ma prop<strong>ri</strong>o in quel momento, una delle<br />

mie domande fondamentali trova <strong>ri</strong>sposta: la<br />

<strong>ri</strong>ccioluta sta sfilando, a braccetto dell’amica,<br />

prop<strong>ri</strong>o davanti a noi!


“chiudi tutto,” dico a nicola “dobbiamo<br />

andare”<br />

e lui non si fa pregare: chiude di colpo il<br />

portatile e d’un balzo siamo sulle tracce della<br />

donna coi <strong>ri</strong>cci.<br />

ma dove diavolo è finita di nuovo!?<br />

***<br />

per essere buoni antropologi e parlare di<br />

razzismo oggi, serve ef icacia. ma visti i<br />

<strong>ri</strong>sultati finora raggiunti da chi ne ha parlato,<br />

essere eficaci dovrebbe significare novità.<br />

dunque l’idea alla base di <strong>ri</strong>-<strong>tratta</strong> si<br />

declina nei termini della freschezza.<br />

il p<strong>ri</strong>mo dei problemi è allora: come si<br />

intervista il razzismo?<br />

quest’interrogativo si coniuga con un<br />

altro, metodologico ed altrettanto scottante:


come si documenta la migrazione senza<br />

cadere nell’a<strong>ri</strong>dità dei nume<strong>ri</strong> e delle<br />

statistiche?<br />

se è l’eficacia che cerchiamo, di certo,<br />

quando lavoro sul campo, non penso a quella<br />

burocratica.<br />

può, allora, la narrazione, col supporto<br />

della fotografia, costituire un mezzo capace<br />

di introdurre alla questione, di modo che la<br />

dignità di ciascuno dei soggetti in gioco non<br />

debba abdicare?<br />

quali sono, poi, i soggetti in gioco?<br />

quali i codici a nostra disposizione per<br />

incardinare e scardinare le pratiche<br />

preferenziali e disc<strong>ri</strong>minato<strong>ri</strong>e?<br />

senza dubbio, la narrazione – ma anche la<br />

mediata immediatezza delle fotografie –<br />

costituisce una pratica-di-linguaggio, una –


per così dire – messa in opera; ogni autentica<br />

messa in opera, innescando momenti di<br />

dubbio, di <strong>ri</strong>cerca e di scelta, comporta una<br />

tensione volta alla crescita, un’uscita dai<br />

limiti momentanei, sto<strong>ri</strong>ci e immaginifici del<br />

se in quel momento: una creazione.<br />

ma ogni creazione è, in quanto tale,<br />

portata alla di-versione – una rotta,<br />

tracciabile solo ex-post, destinata all’oltre, ma<br />

anche all’altrove.<br />

in tal modo, laddove la messa in opera si<br />

concretizzi realizzando la diversione e<br />

l’eccent<strong>ri</strong>cità, ci troveremo innanzi ad una<br />

pratica di linguaggio che ci schiude la<br />

possibilità di oltrepassare l’istanza del<br />

codificato e del detto fino a quel momento.<br />

sfruttando quella che è nota come<br />

universalità semantica, secondo me, il dovere<br />

di un <strong>ri</strong>cercatore è <strong>ri</strong>cordare che il ponte fra<br />

un se e un altro se è sempre edificabile, oltre


che edificante.<br />

infatti, teo<strong>ri</strong>camente, il dialogo è sempre<br />

plausibile ed auspicabile.<br />

allora, mi chiedo, come mai nella realtà<br />

questa possibilità è spesso tradita e scartata?<br />

forse per paura e desuetudine.<br />

temo, infatti, che pratiche come quella<br />

razzista e razzializzante prolifichino per<br />

quella strana miscela che collega,<br />

intimamente e incoscientemente, la scarsa<br />

abilità-a e la paura-di. in tal modo, forse,<br />

queste forme di pensare e di pensiero sono<br />

violentemente incorporate e innervate nella<br />

nostra visione di noi nel nostro mondo.<br />

***<br />

della ragazza <strong>ri</strong>ccia, purtroppo, non c’è<br />

più traccia. ormai è tardi, e se perdiamo


anche questo traghetto, ci toccherà dormire a<br />

la maddalena. così torniamo alla ka e ci<br />

di<strong>ri</strong>giamo verso la banchina. parcheggio e,<br />

visto che il traghetto è in lieve <strong>ri</strong>tardo,<br />

usciamo a prendere una me<strong>ri</strong>tata boccata<br />

d’a<strong>ri</strong>a. nicola è stanco, ma io lo sono di più,<br />

schiacciato dall’idea di dover guidare ancora<br />

tutti i km che ci separano da casa.<br />

pensando che, male che vada, schiaccerò<br />

un pisolino in macchina, mi guardo attorno.<br />

guardo meglio. faccio due passi avanti.<br />

sgrano gli occhi più che posso. si, prop<strong>ri</strong>o lì,<br />

davanti al mare del porto. quella silhouette. è<br />

la ragazza coi <strong>ri</strong>cci!<br />

senza capire bene cosa sto facendo, i miei<br />

piedi coprono la distanza che mi separa dalle<br />

sue spalle. sono a due met<strong>ri</strong>. si gira. le<br />

sor<strong>ri</strong>do.<br />

“beh, ora non ci puoi mica dire di no<br />

all’intervista…”


***<br />

visto che il traghetto è in <strong>ri</strong>tardo, iniziamo<br />

l’intervista fuo<strong>ri</strong>; la luce, dorata, è quella più<br />

giusta: ammorbidisce i tratti e desatura i<br />

colo<strong>ri</strong>. si dice che ansel adams, l’inventore<br />

del sistema zonale, andasse a scattare solo<br />

all’alba e al tramonto e, dato che fotografava<br />

paesaggi, a volte, con la sua hasselblad medio<br />

formato e le ottiche, camminava anche per<br />

trenta km sui monti, tra gole e foreste, in<br />

cerca del luogo più poetico.<br />

per fortuna, nicola usa nikon e nessuno<br />

dei due, temo, sarebbe in grado di<br />

camminare per più di un km con trenta chili<br />

sulle spalle. dunque, eccoci qui, sulla<br />

banchina del porto de la maddalena a fare<br />

l’intervista alla donna coi <strong>ri</strong>cci: gab<strong>ri</strong>ella.<br />

abbiamo fatto qualche scatto che,<br />

finalmente, il traghetto da segni di vita:<br />

<strong>ri</strong>saliamo in macchina e andiamo tutti e tre a<br />

infilarci nella pancia di questo pesce<br />

metallico. nel corso delle operazioni


d’imbarco, la luce del tramonto è andata<br />

definitivamente giù: nicola dovrà afidarsi<br />

alle luci artificiali. e in una piattaforma a<br />

inizio scalette la resistenza giallognola di una<br />

lampada è perfetta nel creare giochi di luci e<br />

di ombre.<br />

“cara puoi stare qui sotto? questa luce è<br />

perfetta”<br />

“eh, ma allora bisogna sb<strong>ri</strong>garci” dice<br />

gab<strong>ri</strong>ella “perché appena il traghetto parte,<br />

queste luci le spengono”<br />

detto fatto. appena mossi, hanno spento le<br />

luci. ma noi, pur incapaci di camminare<br />

all’alba sotto la neve per trenta km con trenta<br />

chili sulle spalle, siamo, a modo nostro, dei<br />

tipi tosti. mentre io <strong>ri</strong>mango a chiacchierare<br />

con gab<strong>ri</strong>ella, nicola parte a parlare col<br />

capitano. e dopo due minuti, magicamente,<br />

le luci si <strong>ri</strong>accendono sul ponte.


“che gli hai detto?”<br />

“niente”<br />

“mmm”<br />

“e vabbé gli ho detto che siamo due del<br />

national geographic e che stiamo facendo un<br />

servizio”<br />

“beh, potevi puntare più in alto. solo il<br />

national?”<br />

gab<strong>ri</strong>ella ci guarda, divertita, come<br />

fossimo due matti. come darle torto?<br />

“hai una figlia!? beh, complimenti, non si<br />

direbbe!”<br />

l’intervista procede sotto sguardi cu<strong>ri</strong>osi:<br />

non capita tutti i giorni di vedere il national<br />

geographic in azione!


circondati da tanta, morbosa, attenzione,<br />

nicola scatta a raf ica e gab<strong>ri</strong>ella si dimostra<br />

una donna molto speciale, piena di poesia e<br />

di emozioni. ci son dei momenti in cui mi<br />

sento un arpista messo davanti ad un’arpa<br />

magica, ma con uno spartito tarmato: se<br />

pizzico la corda giusta, il suono è<br />

meraviglioso. dopo un po’ di tergiversare,<br />

però, tocco un affondo.<br />

***<br />

“ma tu, il razzismo, come lo racconteresti<br />

a tua figlia?” mentre formulo lentamente la<br />

domanda, nicola è inginocchiato che scatta:<br />

va<strong>ri</strong>ando rapidamente esposizione, iso e<br />

p<strong>ri</strong>o<strong>ri</strong>tà dei diaframmi, cerca di mettere in<br />

p<strong>ri</strong>mo piano la poesia che scorre sul volto di<br />

gab<strong>ri</strong>ella, che si ferma e piange.<br />

forse non avrei dovuto toccare questa<br />

corda. mi viene voglia di abbracciarla, ma mi<br />

pare un passo deontologicamente<br />

sconveniente. così, le faccio sentire la mia<br />

vicinanza col calore del mio sguardo.


nicola, invece, continua a scattare come<br />

nulla fosse. vorrei fermarlo, ma al limite ne<br />

parleremo dopo: davanti agli intervistati deve<br />

regnare l’armonia!<br />

i due minuti successivi si allungano come<br />

da tempo non mi capitava, ma, alla fine, lei<br />

fa l’unica cosa che ci permette di uscire dal<br />

tunnel: una domanda. la sua voce ha<br />

recuperato chiarezza e colore.<br />

“e tu, a tuo figlio, il razzismo come lo<br />

racconteresti?”<br />

ho sempre pensato a quei lib<strong>ri</strong> tipo il<br />

corano spiegato a mia figlia, etc. ma non<br />

avevo mai pensato che qualcuno potesse<br />

farmi questa domanda. dunque mi<br />

sorprendo io stesso per le parole che<br />

fluiscono dalle mie labbra, perché è la p<strong>ri</strong>ma<br />

volta che sento questo mio pensiero.<br />

“io non ho figli” <strong>ri</strong>spondo guardandola


negli occhi “non ne ho anche perché non<br />

saprei come spiegare loro cose come il<br />

razzismo”<br />

fino a questo momento, ho sempre<br />

pensato al tema dei figli in termini tanto<br />

astratti quanto gene<strong>ri</strong>ci: io, figlio di figli, di<br />

figli non voglio averne per scelta e protesta,<br />

dissi tempo fa. ma questa è davvero la p<strong>ri</strong>ma<br />

volta che penetro la cifra di quelle parole.<br />

certo, maga<strong>ri</strong> il mio è un concetto banale,<br />

però è prop<strong>ri</strong>o così che lo sento. avere dei<br />

figli, secondo me, implica una enorme<br />

responsabilità, non solo educativa ma anche<br />

esplicativa: com’è possibile, mi chiedo,<br />

spiegare a dei figli delle cose che io stesso<br />

non <strong>ri</strong>esco a spiegarmi?<br />

“mmm” borbotto per <strong>ri</strong>acciuffare i miei<br />

pensie<strong>ri</strong> “e allora facciamo così… che<br />

immagine useresti per sintetizzare il<br />

razzismo?”


“un bambino” mi <strong>ri</strong>sponde di getto<br />

gab<strong>ri</strong>ella “un bambino nudo che piange e<br />

scappa”<br />

e mentre lei lo dice, io penso ad un<br />

bambino che cerca di sfuggire l’ingresso<br />

dell’inferno.<br />

***<br />

secondo manuale, tra gli strumenti e le<br />

pratiche a disposizione, l’antropologo nel<br />

corso della <strong>ri</strong>cerca sul campo dovrebbe<br />

svolgere un’osservazione partecipante. a dar<br />

credito ai titoli <strong>ri</strong>conosciutimi, sarei un<br />

antropologo, ma francamente ho se<strong>ri</strong><br />

problemi a capire come realizzare<br />

l’osservazione partecipante e come si possa<br />

delimitare un campo sul quale praticare la<br />

<strong>ri</strong>cerca. dovrei dunque pensare che sono un<br />

pessimo antropologo. secondo i diziona<strong>ri</strong><br />

l’osservazione partecipante è una “tecnica di<br />

<strong>ri</strong>cerca antropologica inaugurata


uf icialmente da malinowski (1922), fondata<br />

sulla presunta neutralità dell’osservatore<br />

partecipante. implica l’immersione nelle<br />

attività quotidiane della comunità da<br />

studiare, attraverso prolungati pe<strong>ri</strong>odi di<br />

lavoro sul campo e la padronanza della<br />

lingua […] fondata sul concetto di empatia,<br />

mira a minimizzare il problema della<br />

reattività e l’effetto distorcente della<br />

partecipazione dell’antropologo, dissolvendo<br />

la presenza dell’osservatore fra gli osservati.”<br />

o anche, per gli amanti dell’inglese a tutti i<br />

costi: “term used for the most basic<br />

technique of anthropological fieldwork,<br />

participation in everyday activities, working<br />

in the native language and observing events<br />

in their everyday context.”<br />

perché mai dovrei dissolvermi fra gli<br />

osservati? sembra una tecnica da romanzo<br />

spionistico d’appendice!


e il campo? cosa mai è questo campo sul<br />

quale dovrei piazzare la mia tenda?<br />

l’idea di fondo è di uno spazio chiuso e<br />

ter<strong>ri</strong>to<strong>ri</strong>almente pe<strong>ri</strong>metrabile. non a caso,<br />

fabian parla di orti culturali, per metterne in<br />

<strong>ri</strong>salto l’assurdo. se il campo è il luogo<br />

dell’incontro, allora l’unico campo che<br />

<strong>ri</strong>conosco è il linguaggio, che è ciò che ci<br />

permette di entrare o <strong>ri</strong>manere in contatto<br />

con noi stessi, con gli alt<strong>ri</strong> e con le<br />

intenzioni, recondite o meno, personali ma<br />

anche culturali.<br />

certo, gli antropologi dovrebbero mettere<br />

in atto una loro peculiare forma di<br />

comunicazione, e parlare anche un loro<br />

specifico linguaggio. ma secondo me, sia la<br />

p<strong>ri</strong>ma che il secondo, evitando tanto la<br />

chiusura elita<strong>ri</strong>a quanto l’eccessiva<br />

semplificazione, dovrebbero dedicarsi<br />

all’inclusione ed all’apertura.


più che dissolvere la nostra presenza, forse<br />

dovremmo imparare a comunicare uno<br />

scambio e scambiare una comunicazione –<br />

densi, profondi, stratificati e ovviamente<br />

antropologicamente aperti a tutti, per quanto<br />

sempre parziali, perfettibili e soggettivamente<br />

costruiti.<br />

quando abbiamo iniziato con <strong>ri</strong>-<strong>tratta</strong>, mi<br />

son interrogato una volta di più<br />

sull’osservazione partecipante e sul campo: il<br />

campo del razzismo comprende la sto<strong>ri</strong>a<br />

degli ultimi secoli del nostro pianeta. per<br />

quel che concerne la pratica dell’osservazione<br />

partecipante, che avrei dovuto fare? viaggiare<br />

in container? fare la fila in questura<br />

fingendomi straniero?<br />

la <strong>ri</strong>sposta che mi son dato è che queste<br />

sono domande malposte. il mio compito non<br />

era la desc<strong>ri</strong>zione della fruizione culturale o<br />

individuale del problema del razzismo e della<br />

disc<strong>ri</strong>minazione, ma suscitare un interesse


antropologico relativo alle questioni <strong>tratta</strong>te.<br />

un interesse vivo, e non uno imbalsamato.<br />

insomma, una pru<strong>ri</strong>ginosa cu<strong>ri</strong>osità.<br />

***<br />

sono passati alcuni mesi dall’abbraccio<br />

con gab<strong>ri</strong>ella, perché alla fine un abbraccio<br />

c’è stato, e con nicola abbiamo deciso di<br />

o<strong>ri</strong>entare meglio il progetto. dopo esser stati<br />

tutto un giorno sotto la pioggia di carloforte,<br />

durante il <strong>ri</strong>entro in macchina, abbiamo<br />

decretato una <strong>ri</strong>duzione logistica del campo,<br />

con conseguente <strong>ri</strong>modulazione dell’oggetto<br />

di <strong>ri</strong>cerca.<br />

è per questo che siamo ar<strong>ri</strong>vati in questa<br />

scuola di italiano per stranie<strong>ri</strong>, nel cuore di<br />

ma<strong>ri</strong>na. è sempre per questo che ho preso<br />

contatto con anna ma<strong>ri</strong>a carta e che ora<br />

stiamo salendo questi vecchi scalini.


tuttavia, il mio dubbio non mi<br />

abbandona: sono un buon antropologo?<br />

***<br />

j. l. amselle sc<strong>ri</strong>ve: “è partendo dal<br />

postulato dell’esistenza di identità culturali<br />

distinte dette culture che si giunge alla<br />

concezione di un mondo postocoloniale o<br />

poste<strong>ri</strong>ore alla guerra fredda visto come<br />

entità ib<strong>ri</strong>da. per sfuggire a questa idea di<br />

mescolanza per omogeneizzazione e<br />

ib<strong>ri</strong>dazione, occorre postulare, al contra<strong>ri</strong>o,<br />

che ogni società è meticciata e quindi che il<br />

meticciato è il prodotto di entità già<br />

mescolate, che <strong>ri</strong>nviano all’infinito l’idea di<br />

una purezza o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>a.”<br />

è dificile che io <strong>ri</strong>cordi qualcosa a<br />

memo<strong>ri</strong>a, ma ci sono delle frasi, dei passaggi<br />

che mi restano perché esp<strong>ri</strong>mono<br />

esattamente quello che penso anche io, solo<br />

detto meglio.


per la mia maestra e per mia madre, era<br />

un incubo farmi imparare a memo<strong>ri</strong>a le<br />

poesie, facevo sempre enormi va<strong>ri</strong>azioni sul<br />

tema e solo negli anni ho scoperto che<br />

esistono due tipi di memo<strong>ri</strong>a: a indi<strong>ri</strong>zzo e a<br />

contenuto. io sono quasi inesistente sulla<br />

p<strong>ri</strong>ma, ma sono imbattibile sulla seconda.<br />

eppure, ci sono casi in cui quello che leggo,<br />

prop<strong>ri</strong>o perché sembra fuo<strong>ri</strong>uscire da me<br />

stesso, mi <strong>ri</strong>mane come sc<strong>ri</strong>tto dietro gli<br />

occhi e, ogni tanto, me lo <strong>ri</strong>trovo. come<br />

l’orazion picciola: fatti non foste a viver<br />

come bruti ma per seguir virtute e<br />

conoscenza.<br />

***<br />

mentre <strong>ri</strong>mugino dante ib<strong>ri</strong>dandolo con<br />

amselle, nicola, macchinone a tracolla, bussa<br />

alla porta della scuola. nessuna <strong>ri</strong>sposta, ma<br />

la porta è aperta e dentro si sente rumore.<br />

“caro, che facciamo?”


“ent<strong>ri</strong>amo”<br />

non siamo dei bruti sebbene la purezza<br />

o<strong>ri</strong>gina<strong>ri</strong>a dev’essere <strong>ri</strong>nviata all’infinito. mica<br />

male come immagine!<br />

“è permesso?” chiedo avventurandomi nel<br />

polveroso cor<strong>ri</strong>doio di questo vecchio<br />

appartamento. il prete, don ma<strong>ri</strong>o cugusi, lo<br />

af itta a quest’associazione, fatta quasi per<br />

intero di volonta<strong>ri</strong> e maestre, che sente il<br />

bisogno di integrare ed integrarsi.<br />

mentre avanzo a marce <strong>ri</strong>dotte, sono<br />

emozionato e molto contento di<br />

quest’occasione di incontro e confronto. al<br />

telefono e via mail, anna ma<strong>ri</strong>a carta mi ha<br />

lasciato un’ottima scia di energia e<br />

motivazione.<br />

“buongiorno”<br />

“e voi chi siete?” ci <strong>ri</strong>manda secca una


donna bionda dalla voce tagliente e il braccio<br />

ingessato.<br />

***<br />

“salve” dico spostando il mio sguardo sugli<br />

occhi della donna “stiamo cercando la<br />

presidentessa dell’associazione cosas, la<br />

signora anna ma<strong>ri</strong>a carta. dobbiamo parlare<br />

con lei a proposito di un progetto di <strong>ri</strong>cerca<br />

sul razzismo, lavo<strong>ri</strong>amo per l’università di<br />

caglia<strong>ri</strong>.”<br />

“guardi che qui non si possono fare<br />

fotografie” <strong>ri</strong>sponde la donna ignorandomi e<br />

di<strong>ri</strong>gendo le sue attenzioni sul macchinone<br />

che nicola porta appeso al collo.<br />

“immagino” faccio per cavarlo<br />

dall’impiccio “che lei non sia l’anna ma<strong>ri</strong>a<br />

con cui ho parlato per proporre una<br />

partecipazione al nostro progetto di <strong>ri</strong>cerca.”<br />

evidentemente questa donna, chiunque


sia, non ha gradito che io abbia fatto il nome<br />

di anna ma<strong>ri</strong>a carta, ed arguisco subito che,<br />

neppure in questo posto di apertura al<br />

prossimo, le cose procedano tanto lisce.<br />

capita, penso. meglio, dunque, cercare di<br />

circumnavigare lo scoglio. però il fatto mi<br />

tocca e mi sorprende: prop<strong>ri</strong>o qui, queste<br />

cose?<br />

“io sono carlotta, ma tutti mi chiamano<br />

lotti” dice mentre si siede “di che progetto si<br />

<strong>tratta</strong>? la signora anna ma<strong>ri</strong>a carta non ci ha<br />

detto nulla e oggi non sarà qui.”<br />

nicola sta facendo la sua faccia da mmm<br />

annamo bene. bisogna cercare di arginare e<br />

proporre. certo i presupposti erano alt<strong>ri</strong>. al<br />

telefono e per mail avevo incontrato una<br />

strada spianata, piena di stimoli e<br />

disposizione allo scambio. p<strong>ri</strong>ma ancora di<br />

parlare, sento già che oggi non sarà giornata,<br />

ma non posso non provarci.


“comunque trovo molto maleducato<br />

entrare in casa d’alt<strong>ri</strong> e fotografare senza<br />

permesso”<br />

“come scusi?”<br />

“sì, prop<strong>ri</strong>o quel che ho detto”<br />

“ma scusi, signora” fa nicola che si è<br />

<strong>ri</strong>scosso “le giuro che non ho scattato nulla,<br />

vede che l’obiettivo ha il tappo?”<br />

“senta, carlotta” intervengo anche io “forse<br />

c’è stato un malinteso e siamo partiti col<br />

piede sbagliato. il nostro interesse è di<br />

collaborare con voi. stiamo cercando di<br />

sviluppare un progetto sui temi di<br />

migrazione, diversità e razzismo. abbiamo<br />

concentrato il nostro raggio d’azione su<br />

caglia<strong>ri</strong>, in particolare sul quartiere della<br />

ma<strong>ri</strong>na, e così siamo ar<strong>ri</strong>vati fin qui. quale<br />

posto migliore di una scuola che insegna<br />

gratuitamente l’italiano agli extracomunita<strong>ri</strong>?


al contra<strong>ri</strong>o di alt<strong>ri</strong> non vogliamo suscitare<br />

nessun senso di colpa, nessuna pena.<br />

piuttosto cerchiamo la magia. la dignità. il<br />

<strong>ri</strong>spetto. forse siamo ingenui, ma cos’altro<br />

vale la pena?”<br />

“certo, certo, bellezza ed amore… intanto<br />

però dovreste imparare un po’ di<br />

educazione.”<br />

tutti la chiamano lotti. nomen omen.<br />

***<br />

tanti anni fa, appena iniziai gli studi<br />

universita<strong>ri</strong>, paola tabet pubblicò un libro, la<br />

pelle giusta, nato da un’idea semplice e acuta.<br />

in poche parole, le era venuto in mente di<br />

indagare su come i bambini di elementa<strong>ri</strong> e<br />

medie avrebbero affrontato un tema di<br />

fantasia. invece di chiedere loro desc<strong>ri</strong>vi la<br />

tua famiglia, veniva chiesto: se i tuoi genito<strong>ri</strong><br />

fossero ne<strong>ri</strong>…


a parte tutte le altre considerazioni (ad<br />

esempio, solo pochi bambini si sono<br />

dimostrati in grado di pensare che, se i loro<br />

genito<strong>ri</strong> fossero ne<strong>ri</strong>, anche loro lo<br />

sarebbero…), la <strong>ri</strong>cerca, fra le <strong>ri</strong>ghe, è un<br />

vero e prop<strong>ri</strong>o j’accuse nei confronti dei<br />

meccanismi (familia<strong>ri</strong>, istituzionali e<br />

mediatici) con cui il razzismo viene instillato<br />

nelle menti dei neo-nati, fino a propagarsi e<br />

replicarsi nel corpo sociale. quell’indagine,<br />

insomma, ha il notevole pregio di denudare<br />

la macchina di questa reto<strong>ri</strong>ca e di questo<br />

ac<strong>ri</strong>tico consenso, mostrando gli effetti della<br />

sua eficacia e della sua pervasività.<br />

dopo un’opportuna analisi teo<strong>ri</strong>ca, paola<br />

tabet lascia la parola ad un campione scelto<br />

fra le migliaia di temi sc<strong>ri</strong>tti, raccolti e<br />

analizzati.<br />

se gli effetti sono quelli che emergono dal<br />

testo di quella <strong>ri</strong>cerca, verrebbe da chiedersi<br />

di che cibo nut<strong>ri</strong>amo la nostra mente. che


parole lasciamo entrare nelle teste dei nost<strong>ri</strong><br />

figli? che scena<strong>ri</strong>, che immaginazione<br />

permettiamo vengano loro confezionati?<br />

in fondo, c’è una ragione se la tabet scelse<br />

come campione i bambini più piccoli: son<br />

quelli meno difesi e meno abili a mascherarsi<br />

e mascherare. come dire? in bimbo ve<strong>ri</strong>tas…<br />

i bambini, specie i più piccini, sono i più<br />

spietati, i più diretti. insomma, sono lo<br />

specchio meno distorto di quel che facciamo.<br />

ora, quel testo è stato pubblicato nel 1997,<br />

cosa sia accaduto in questi dodici lunghi<br />

anni, mi pare, è sotto gli occhi di tutti.<br />

molti anni p<strong>ri</strong>ma, quando andavo all’asilo,<br />

le mie cugine mi avevano convinto che i miei<br />

genito<strong>ri</strong> mi avessero adottato, che non ero in<br />

realtà figlio di mia madre e mio padre, e che<br />

in ve<strong>ri</strong>tà io ero un bambino af<strong>ri</strong>cano: un<br />

negretto! la mia pelle, molto scura, e i miei<br />

capelli, <strong>ri</strong>cci e corvini, corroboravano


inconfutabilmente le loro confidenze.<br />

il loro racconto era così credibile, e loro<br />

me lo raccontarono così bene, che ho finito<br />

per crederci per anni. forse questa è la p<strong>ri</strong>ma<br />

volta che ne parlo. per molto tempo, infatti,<br />

ho cercato foto di mia madre incinta di me<br />

(senza mai trovarne), o, in alternativa, i<br />

documenti dell’adozione.<br />

***<br />

“caro” mi dice nicola, mentre scendiamo<br />

le scale “ma, secondo te, dove abbiamo<br />

sbagliato?”<br />

la conversazione con carlotta, in effetti,<br />

non è stata tanto proficua. ma non sempre<br />

dobbiamo farci ca<strong>ri</strong>co dell’iste<strong>ri</strong>a altrui.<br />

“non lo so” <strong>ri</strong>spondo.<br />

“perché in qualcosa dobbiamo aver


sbagliato” insiste “se le cose sono andate così,<br />

non sei d’accordo?”<br />

“non so neppure questo, ci devo pensare”<br />

talvolta, non basta l’amore con cui noi<br />

facciamo le cose per suscitarne altrettanto.<br />

***<br />

non saprei trovare una <strong>ri</strong>sposta, non una<br />

soddisfacente almeno, a quel che ci è<br />

successo oggi. sicuramente siamo stati<br />

incauti. forse anche un pò ingenui.<br />

“perché ingenui?” mi chiede nicola, al<br />

quale non basta mai una sola <strong>ri</strong>sposta.<br />

“beh” dico a lui per chia<strong>ri</strong>re anche a me<br />

“ingenui nel senso che abbiamo dato per<br />

scontate molte cose. ad esempio, che bastasse<br />

venire qui con la nostra buona volontà per<br />

trovare disponibilità, mentre la nostra sola<br />

presenza distorce gli equilib<strong>ri</strong> sui quali si


eggono le dinamiche di questa scuola.”<br />

allontanandoci, la rabbia nei confronti di<br />

carlotta, chiunque ella sia e quali che siano le<br />

ragioni profonde del suo comportamento,<br />

comincia a stemperarsi, lasciando spazio ad<br />

un’ampia gamma di <strong>ri</strong>flessioni.<br />

***<br />

“parlo col dottor <strong>carlotti</strong>?”<br />

“un attimo che sto parcheggiando”<br />

<strong>ri</strong>spondo senza aver capito bene con chi sto<br />

parlando<br />

“…”<br />

“eccomi, chi parla?”<br />

“buongiorno, sono anna ma<strong>ri</strong>a carta, ho<br />

saputo che ie<strong>ri</strong> avete avuto un incontro,<br />

come dire? non prop<strong>ri</strong>o sereno, con la mia


collega. ma cosa è successo?”<br />

racconto ad anna ma<strong>ri</strong>a la mia versione, e<br />

lei, per fortuna, mi rassicura. il progetto<br />

andrà avanti.<br />

***<br />

“e cosa ti ha detto?”<br />

“niente, che capisce l’incidente, e che è<br />

dispiaciuta. ma che non ci sono vere ragioni<br />

per non procedere con la collaborazione”<br />

“dunque, per quando abbiamo<br />

appuntamento?”<br />

“per mercoledì prossimo, di pome<strong>ri</strong>ggio.<br />

vuole che esponiamo il progetto davanti a<br />

tutto il corpo docente.”<br />

“bene, no?”


***<br />

è mercoledì. piove. la mia ragazza deve<br />

prendere il treno per olbia ed essere ad<br />

arzachena entro le 16.30. ci svegliamo<br />

relativamente presto. il treno è alle 9.20.<br />

insomma, oggi è il gran giorno. nicola ed<br />

io, alle 19, dobbiamo parlare alle maestre<br />

della scuola d’italiano per stranie<strong>ri</strong>: lo stato<br />

maggiore si <strong>ri</strong>unirà per concederci udienza.<br />

nicola mi ha bombardato di chiamate,<br />

ie<strong>ri</strong>. cosa diremo, come faremo, dove<br />

andremo.<br />

è nervoso. vuole che parli io. che presenti<br />

io. che convinca io.<br />

ma non c’è molto da dire. ancor meno da<br />

presentare. e direi che nulla e nessuno da<br />

convincere.<br />

o ci si ar<strong>ri</strong>va da soli, a capire quanto è


importante che questo progetto <strong>ri</strong>esca in<br />

modo eficace, oppure meglio perdere subito<br />

eventuali fardelli. il progetto è giovane, e non<br />

può permettersi pesi, per ora. solo<br />

entusiasmo e iniezioni di vitalità.<br />

dunque, si <strong>tratta</strong> di parlare e dialogare per<br />

crescere.<br />

***<br />

“come sarebbe che il treno è già partito??”<br />

mai sentito di treni che partono in<br />

anticipo!<br />

e ora che si fa?<br />

ora si fa una seconda colazione. poi<br />

facciamo la spesa. e poi partiamo per olbia in<br />

macchina. dovrei essere di <strong>ri</strong>torno per le 19<br />

se partiamo alle 11.


“sicuro? sono circa 600 km…”<br />

“tranquilla”<br />

ca<strong>ri</strong>chiamo la spesa nel cofano e partiamo.<br />

alle 15 in punto siamo ad olbia. nicola mi<br />

chiama ogni 30 minuti per avere<br />

aggiornamenti.<br />

“oh, mi raccomando” si preoccupa “<strong>ri</strong>parti<br />

subito che se no, non ar<strong>ri</strong>vi in tempo”<br />

“tranquillo”<br />

“ma sei sicuro di ar<strong>ri</strong>vare in tempo?”<br />

“sì” gli <strong>ri</strong>spondo mentre azzanno un<br />

trancio di pizza “andando ad una media di<br />

100 km/h in tre ore sono a caglia<strong>ri</strong>. sono le<br />

15, dunque sarò là per le 18 circa”<br />

“ma poi devi cercare parcheggio, e tutto il<br />

resto”


“tranquillo, alle 19 sarò là”<br />

***<br />

l’orologio della ka segna le 18.55 e il<br />

telefono squilla da circa mezz’ora a intervalli<br />

sempre più stretti. evito di <strong>ri</strong>spondere. sono<br />

impantanato nel peggior nubifragio della mia<br />

vita all’altezza di budoni. procedo a circa<br />

trenta km ora<strong>ri</strong>, coi fa<strong>ri</strong> sparati, le ruote<br />

(troppo lisce) che slittano e la cortina<br />

d’acqua che si apre con enorme dif icoltà.<br />

qualche pazzo mi supera e scompare, così<br />

com’era apparso, nell’ignoto della 131 bis,<br />

ingoiato dal nero di cielo ed asfalto.<br />

“pronto caro” mi fa nicola con la voce<br />

st<strong>ri</strong>dula e preoccupata “hai parcheggiato? stai<br />

ar<strong>ri</strong>vando?”<br />

“non direi prop<strong>ri</strong>o”<br />

“cioè?”


“sono a più di duecento km da caglia<strong>ri</strong>.<br />

poi ti racconto. in bocca al lupo con le<br />

maestre.”<br />

“ma..”<br />

“te la caverai benissimo” dico e metto giù.<br />

***<br />

non c’è modo di vedere la strada: pioggia<br />

a fiotti, mista a grandine. la macchina ha<br />

scarso controllo e mi duole la testa, gli occhi<br />

ipnotizzati dal tergic<strong>ri</strong>stallo.<br />

l’appuntamento è saltato da un pezzo. son<br />

le 19, perché <strong>ri</strong>schiare?<br />

meglio fermarsi. aspetto solo di essere in<br />

una zona dove radio e telefono abbiano<br />

copertura.<br />

spengo il motore, tiro giù il sedile e<br />

ascolto il rombo della natura. la macchina è<br />

così malmessa che temo possa filtrarci dentro


l’acqua che il cielo ci scaglia contro. vedo il<br />

mio respiro appannare il vetro,<br />

stratificandoci sopra vapore ed umidità. ma<br />

non sono veramente spaventato. intanto, a<br />

nicola farà bene prendere possesso, anche<br />

verbale, del progetto.<br />

se <strong>ri</strong>usciamo, ne verrà fuo<strong>ri</strong> un libro<br />

corredato da fotografie. forse una mostra.<br />

sicuramente una mostra, caro – mi direbbe<br />

nicola se sentisse questi miei pensie<strong>ri</strong>. sarebbe<br />

il caso di mettere tutto in rete. ecco, questo<br />

può essere uno strumento per provare a<br />

raggiungere più persone e stabilire con loro<br />

un dialogo. potremmo costruire un sito, un<br />

blog, una pagina su flickr… e vedere e<br />

sentire gli umo<strong>ri</strong>. io, di sicuro, devo cambiare<br />

modo di sc<strong>ri</strong>vere. devo cercare un linguaggio<br />

meno raf inato e più aperto. non solo devo<br />

farmi capire, ma devo anche abbracciare le<br />

fotografie senza soffocarle e, soprattutto,<br />

contenere, nel mio, i linguaggi dei nost<strong>ri</strong><br />

intervistati. non tutti parlano un italiano


forbito, ad esempio.<br />

la pioggia continua, radiotre m’inonda di<br />

musica classica, il mio sigaro evapora nei<br />

cerchietti che non sono mai <strong>ri</strong>uscito a fare e<br />

il mio cervello pensa a <strong>ri</strong><strong>tratta</strong>: obiettivi, stile<br />

e <strong>ri</strong>schi. secondo me, il razzismo oggi non<br />

può essere scisso dal fenomeno migrato<strong>ri</strong>o.<br />

certo, la mobilità umana non lo spiega, ma<br />

ne costituisce alcune delle p<strong>ri</strong>ncipali<br />

possibilità di esercizio. basta concentrarsi su<br />

un tg per capire ciò di cui sto parlando. ma<br />

se analizzare razzismo e migrazione è il<br />

nostro cammino, allora quel che ne<br />

caveremo, qualunque cosa sia, <strong>ri</strong>entrerà, in<br />

qualche modo, nella letteratura e nei<br />

prodotti della scienza della migrazione.<br />

questa mi <strong>ri</strong>porta ad abdelmalek sayad,<br />

autore de la doppia assenza, e uno dei più<br />

grandi esperti di sempre in mate<strong>ri</strong>a, essendo<br />

stato lui stesso un migrante. significativo ed<br />

ironico anche che questo lavoro sia stato


composto postumo, a partire da una raccolta<br />

di articoli e appunti, da uno dei suoi miglio<strong>ri</strong><br />

amici: pierre bourdieu.<br />

sayad ammoniva sempre dal <strong>ri</strong>schio di<br />

essere coinvolti nella logica normalizzante del<br />

committente di questa scienza: lo stato che,<br />

nell’affermazione di una prop<strong>ri</strong>a forma di<br />

dominio, ancora legata ai valo<strong>ri</strong> ed alle<br />

reto<strong>ri</strong>che dello stato-nazione, avrebbe da<br />

sempre o<strong>ri</strong>entato la scienza della migrazione.<br />

da un lato, le considerazioni circa<br />

l’emigrazione e le ragioni che motivano lo<br />

spostamento e la mobilitazione di centinaia<br />

di migliaia di persone – i migranti, insomma<br />

– sarebbero visti sempre e solo dal punto di<br />

vista razzizzante di coloro che sono cittadini<br />

dello stato che accoglie.<br />

dall’altro, questo punto di vista e questo<br />

o<strong>ri</strong>entare, avrebbero un doppio intento:<br />

classificare il migrante come estraneo e


diverso, e spiarlo per sapere come meglio<br />

controllarlo, sfruttarlo e disfarsene<br />

celermente, se dovesse diventare superfluo o<br />

scomodo. di qui, chi aiuta queste persone,<br />

questi esse<strong>ri</strong> umani, marchiati e macchiati, si<br />

trova in una posizione quantomeno<br />

scomoda: <strong>ri</strong>schia di passare per sospetto e<br />

traficante.<br />

l’immagine di me e nicola come sospetti e<br />

traficanti è quasi divertente.<br />

la pioggia è diventata tollerabile. si son<br />

fatte le 21. il sigaro ha bruciato per metà e io<br />

<strong>ri</strong>schio l’asfissia. non mi <strong>ri</strong>mane che<br />

accendere il condizionatore per disappannare<br />

il parabrezza e <strong>ri</strong>partire.<br />

se tutto va bene, sarò a casa p<strong>ri</strong>ma di<br />

mezzanotte.<br />

e invece non va bene nulla, porca puttana.<br />

il condizionatore non funziona. esce solo a<strong>ri</strong>a


gelida! mi devo togliere un calzino, usarlo per<br />

asciugare il parabrezza, fare il resto del<br />

viaggio con un finest<strong>ri</strong>no semiaperto nella<br />

pioggia, per evitare che si appanni di nuovo.<br />

ora sì, penso, che sembro sospetto.<br />

sospetto e pronto per l’ospedale psichiat<strong>ri</strong>co.<br />

ci mancava pure il telefono.<br />

chi sarà mai?<br />

***<br />

ogni volta che dormiamo, per un paio di<br />

lunghi minuti, i nost<strong>ri</strong> occhi fremono sotto<br />

le palpebre. il sogno, come il sonno, è<br />

fondamentale per l’essere umano. molti si<br />

chiedono se gli animali sognino. il delfino,<br />

pare, dorme con un emisfero per volta. non<br />

facesse così, dormisse come noi, beh…<br />

affogherebbe nell’oceano. non sappiamo se<br />

sogni. forse lo fanno le scimmie supe<strong>ri</strong>o<strong>ri</strong>.


ma anche questo è dubbio. cosa potrebbe<br />

sognare un delfino? e un go<strong>ri</strong>lla? e uno<br />

scimpanzé?<br />

secondo me, i miei gatti sognano. rudi, il<br />

più piccolo, dopo che si addormenta, si<br />

mette pancia in su e, all’improvviso,<br />

comincia ad agitare le zampe, si contorce, si<br />

allunga. e io mi chiedo sempre cosa sogni<br />

quando fa così e a volte, in barba alla<br />

ragione, gli domando: rudi, che sogni?<br />

***<br />

ci sono sogni che sai essere sogni.<br />

ci sono sogni che pensi siano realtà.<br />

poi… c’è l’oni<strong>ri</strong>co – che non sai mai cos’è.<br />

la coscienza e l’immaginazione, il percetto<br />

e la fantasia, in questi casi, si sospendono a<br />

vicenda, lasciandoci interdetti – forse<br />

addi<strong>ri</strong>ttura contaminati. non si <strong>tratta</strong> più,


come direbbe a<strong>ri</strong>stotele nella sua poetica, di<br />

distinguere vero e falso, e verosimile da<br />

inverosimile. il nostro p<strong>ri</strong>ncipio di realtà<br />

muta e semplicemente ci troviamo sospesi<br />

sull’o<strong>ri</strong>zzonte di un altro mondo, la nostra<br />

coscienza espansa sull’abisso della possibilità,<br />

ai bordi dell’universo.<br />

il vero è anche falso, l’inverosimile<br />

possibile.<br />

quando sogni così, non ti <strong>ri</strong>svegli mai del<br />

tutto. la memo<strong>ri</strong>a ti lascia il dubbio. non c’è<br />

l’amarezza da sogno interrotto. né la gioia<br />

che l’incubo era solo quello, un incubo.<br />

semplicemente, una parte di noi, non saprei<br />

dire quale, <strong>ri</strong>mane affacciata. come in attesa.<br />

non si torna. non si <strong>ri</strong>torna. si può solo<br />

andare con un passo diverso.<br />

se la catarsi dell’incubo anestetizza le<br />

nostre paure, se il sogno orgasmico, per<br />

qualche momento, ci spalanca alla felicità,


allora tanto i bei sogni che gli incubi, per<br />

chiamarli in qualche modo, <strong>ri</strong>spondono a<br />

degli insoluti. o, per dirla con freud, si può<br />

tentare una spiegazione funzionale che<br />

razionalizza il fenomeno: i sogni, e gli incubi,<br />

sublimano i deside<strong>ri</strong> più reconditi, le<br />

ambizioni ed aspirazioni più <strong>ri</strong>poste, le<br />

pulsioni più segrete e dolorose.<br />

tuttavia, queste spiegazioni non spiegano<br />

l’oni<strong>ri</strong>co.<br />

se sogni e incubi danno <strong>ri</strong>sposte a<br />

domande già poste, forse l’oni<strong>ri</strong>co pone<br />

nuove domande, trasformandoci.<br />

ma cos’è una domanda?<br />

ci sono sogni e sogni, insomma.<br />

ma c’è anche un sonno senza sogni.<br />

pesante. che non <strong>ri</strong>stora, che non drena, né<br />

sublima, né pu<strong>ri</strong>fica. ti lascia esattamente


com’e<strong>ri</strong>: senza domande, senza <strong>ri</strong>sposte.<br />

***<br />

ho passato gran parte della mia infanzia a<br />

sentir mia madre che mi parlava di un uomo<br />

chiamato martin luther king. tuttavia io,<br />

nato appena sette anni dopo la sua morte,<br />

ero troppo piccolo per capire bene chi fosse e<br />

cosa volesse.<br />

oggi, che sono un uomo, so che nel 1964<br />

è stato insignito del premio nobel, il più<br />

giovane nobel per la pace di sempre. so che<br />

era un pastore protestante, un politico, un<br />

pacifista, il leader di uno dei più importanti<br />

movimenti per i di<strong>ri</strong>tti civili. quando ero<br />

bambino, dai racconti di mia madre, avevo<br />

capito solo che era nero e che questo aveva a<br />

che fare col suo assassinio: erano le 18:01 del<br />

4 ap<strong>ri</strong>le del 1968, martin luther king aveva<br />

appena 39 anni, e, mentre si affacciava al<br />

balcone della sua stanza al secondo piano di


un hotel di memphis, una sola pallottola,<br />

sparata da un fucile di precisione, gli ha<br />

trapassato il cranio.<br />

martin luther king aveva un sogno. un<br />

sogno semplice, quasi naturale. non saprei<br />

dire che tipo di sogno fosse.<br />

forse il suo era solo un sogno giusto. tanto<br />

da me<strong>ri</strong>tare il silenzio.<br />

bang<br />

***<br />

in un articolo contenuto in la cultura del<br />

romanzo, e intitolato dall’oralità alla<br />

sc<strong>ri</strong>ttura, l’antropologo jack goody, esperto di<br />

culture orali, sc<strong>ri</strong>ve: la forma narrativa del<br />

caso clinico non si produce spontaneamente,<br />

ma viene sollecitata, e di conseguenza creata<br />

su misura: si <strong>tratta</strong> inoltre del prodotto di<br />

una società dotata di sc<strong>ri</strong>ttura e di procedure


connesse alla sc<strong>ri</strong>ttura; essa rappresenta… un<br />

assemblaggio di frammenti montati in modo<br />

da creare una continuità narrativa che non si<br />

presenta mai (o molto di rado) al <strong>ri</strong>cercatore.<br />

a noi sembra naturale fornire un compendio<br />

narrativo delle nostre vite per un cur<strong>ri</strong>culum<br />

o per esporlo a un analista, per un dia<strong>ri</strong>o o<br />

un’autobiografia. ma siamo sicu<strong>ri</strong> che sia così<br />

per le culture orali?… direi piuttosto che<br />

sono io, l’antropologo, lo psicologo, lo<br />

sto<strong>ri</strong>co, a cercare di costruire sto<strong>ri</strong>e di vita (o<br />

sto<strong>ri</strong>e di altro tipo) a partir dai frammenti di<br />

conoscenza che incontro sul mio cammino, o<br />

dall’ardua lotta per far sì che l’informatore<br />

<strong>ri</strong>sponda alle mie domande, articolando<br />

dunque per me un discorso che non farebbe<br />

in nessun’altra occasione. le sto<strong>ri</strong>e di tipo<br />

biografico non emergono spontaneamente,<br />

sono pesantemente costruite. la sto<strong>ri</strong>a non si<br />

limita a <strong>ri</strong>portare i “fatti”, ma fornisce loro<br />

una forma narrativa a partire da frammenti<br />

di espe<strong>ri</strong>enza che si presentano in modo<br />

molto differente.


***<br />

“bene” dico alle tante maestre ed all’unico<br />

maschio “dato che non ci sono domande,<br />

avrei finito. ci vediamo la settimana<br />

prossima.”<br />

***<br />

siamo tornati a la maddalena. giusto un<br />

anno dopo. è un <strong>ri</strong>torno all’inizio. con<br />

sorprese, ovviamente. l’acqua, usa dire, non è<br />

mai la stessa. anzitutto, scop<strong>ri</strong>amo che al<br />

posto del centro di aggregazione culturale<br />

dove abbiamo cominciato scatti e interviste,<br />

son stati trasfe<strong>ri</strong>ti gli uf ici dell’anagrafe. lo<br />

sportello è praticamente sulla strada, e la<br />

gente, in fila, si confonde con passanti e<br />

tu<strong>ri</strong>sti. non c’è bisogno, fra me e nicola, di<br />

parole. <strong>ri</strong>niziamo da qui. dalla sc<strong>ri</strong>tta<br />

stranie<strong>ri</strong> sul cartello dell’anagrafe. mentre io<br />

mi metto in fila, nicola si allontana per far<br />

qualche foto.


iprendere da qui, da questo posto<br />

trasformato, è una buona occasione per<br />

ve<strong>ri</strong>ficare e testare tutte le metamorfosi,<br />

penso mentre aspetto. e <strong>ri</strong>cordo anche il<br />

nervosismo da p<strong>ri</strong>ma volta di giusto un anno<br />

fa. sembrano passate un paio di vite.<br />

nicola torna giusto quando l’impiegata mi<br />

saluta.<br />

“buongiorno, lavo<strong>ri</strong>amo per l’università di<br />

caglia<strong>ri</strong> e giusto un anno fa, in questa stanza,<br />

abbiamo iniziato un progetto su razzismo e<br />

migrazione. abbiamo fatto la p<strong>ri</strong>ma fotointervista<br />

prop<strong>ri</strong>o dove ora lei si trova<br />

seduta.”<br />

l’impiegata mi stoppa. lei e i suoi colleghi<br />

son solo dei semplici impiegati. c’è la legge<br />

sulla p<strong>ri</strong>vacy. per anche anche poche<br />

domande, dobbiamo p<strong>ri</strong>ma ottenere il<br />

lasciapassare dal loro di<strong>ri</strong>gente: il dottor<br />

mallu.


“bene, dove lo possiamo trovare?”<br />

per raggiungerlo, saliamo delle scalette<br />

kafkiane. siamo nei piani alti dell’anagrafe<br />

maddalenina. il caposettore dottor mallu è in<br />

<strong>ri</strong>unione. mentre attendiamo, un uomo, che<br />

non so chi sia, mi parla contento e mi da una<br />

pacca sulla spalla. potrebbe essere mio padre,<br />

che però è sempre molto parco di effusioni.<br />

prende a raccontarmi di quando era studente<br />

universita<strong>ri</strong>o a caglia<strong>ri</strong>: scienze politiche.<br />

<strong>ri</strong>corda per noi l’università.<br />

“è sempre uguale?” mi chiede, e poi<br />

aggiunge “ai miei tempi c’erano pochi<br />

lumina<strong>ri</strong> e molti coglioni!”<br />

lo guardo, e gli dico: “beh, dipende da<br />

quanti pochi fossero, ai suoi tempi, i<br />

lumina<strong>ri</strong>.”<br />

“eccomi tutto per voi.” ci interrompe la<br />

voce di un uomo b<strong>ri</strong>zzolato sulla sessantina. è


il dottor mallu, che ci cava dall’impaccio di<br />

parlare dell’accademia.<br />

ent<strong>ri</strong>amo in un uf icio che sa di<br />

bugigattolo, e parliamo. dato che lo<br />

immagino molto impegnato, vado subito al<br />

sodo. gli racconto del progetto che è iniziato<br />

qua sotto giusto un anno fa. mentre parlo, fa<br />

perennemente di sì con la testa. poi alza il<br />

telefono e chiama i suoi dabbasso. le nostre<br />

<strong>ri</strong>chieste, a quanto pare, sollevano parecchie<br />

obiezioni e perplessità: che tipo di domande<br />

vogliono farci?<br />

“bah,” <strong>ri</strong>sponde il dottor mallu, p<strong>ri</strong>ma di<br />

mettere giù “domande gene<strong>ri</strong>che.”<br />

poi torna a noi. ci dice che la maddalena,<br />

sto<strong>ri</strong>camente, ha conosciuto e conosce una<br />

discreta presenza extracomunita<strong>ri</strong>a: rumeni,<br />

senegalesi soprattutto. ma anche pakistani,<br />

indiani, cingalesi, gente del bangladesh. ah,<br />

ovviamente non mancano gli immancabili


cinesi e qualche sudame<strong>ri</strong>cano – conclude<br />

soddisfatto come avesse snocciolato un intero<br />

rosa<strong>ri</strong>o. lo guardo sorpreso e dico “e i<br />

nordame<strong>ri</strong>cani, no? non sono<br />

extracomunita<strong>ri</strong> anche loro a stretto <strong>ri</strong>gor di<br />

legge?”<br />

nei suoi occhi, <strong>ri</strong>esco a leggere un<br />

frammento di dubbio, come non ci avesse<br />

mai pensato p<strong>ri</strong>ma. poi, <strong>ri</strong>scuotendosi, mi dà<br />

ragione e conferma: già a stretto <strong>ri</strong>gor di<br />

legge.<br />

comunque, ora sono molti meno, con la<br />

chiusura della base militare.<br />

cominciamo a <strong>ri</strong>troso le scalette, e<br />

varchiamo la porta dell’anagrafe. gli<br />

impiegati, un uomo e una donna entrambi<br />

sulla quarantina, sono visibilmente tesi e<br />

infastiditi. l’uomo, poi, guarda nicola e gli<br />

dice cosa abbia mai intenzione di fotografare.<br />

“guardi” fa nicola “intendiamoci, io se non


ho delle liberato<strong>ri</strong>e, non scatto nulla”<br />

“beh, allora qui non scatterai nulla”<br />

<strong>ri</strong>sponde l’uomo compiaciuto.<br />

io nel frattempo, mentre faccio cenno di<br />

sedermi, guardo la donna e le dico che il<br />

dottor mallu ci ha dato l’ok.<br />

“se per voi non costituisce un peso,<br />

vorremmo solo fare qualche semplice<br />

domanda sulla presenza extracomunita<strong>ri</strong>a a la<br />

maddalena.”<br />

“beh” fa la donna che si è ulte<strong>ri</strong>ormente<br />

ir<strong>ri</strong>gidita quando ho pronunciato la parola<br />

razzismo, “non c’è molto da dire.”<br />

“ah” le <strong>ri</strong>spondo senza terminare di<br />

sedermi e <strong>ri</strong>mettendomi del tutto in piedi.<br />

“bene, se è così, noi possiamo andare. grazie.<br />

ar<strong>ri</strong>vederci.”


mentre i nost<strong>ri</strong> piedi sono già in strada, da<br />

dentro l’uficio ci raggiunge la voce della<br />

donna: saranno 607, forse 608.<br />

***<br />

sono le sei e mezzo del pome<strong>ri</strong>ggio, siamo<br />

a quartu e pioviggina; il 31 ci lascia in via<br />

b<strong>ri</strong>gata sassa<strong>ri</strong>: abbastanza distanti da casa di<br />

timoty, che abita nei pressi del cimitero.<br />

dato che a caglia<strong>ri</strong> c’era il sole, non<br />

abbiamo ombrello. cappuccio tirato sulla<br />

fronte, macchina fotografica e taccuini al<br />

sicuro, camminiamo in fila silenziosi come<br />

indiani.<br />

timoty è un ragazzo nige<strong>ri</strong>ano di 24 anni,<br />

in italia da circa due per giocare ad hockey<br />

nel cus caglia<strong>ri</strong>: fa il centrocampista. avrebbe<br />

prefe<strong>ri</strong>to giocare a calcio in inghilterra, ma le<br />

leggi inglesi, a tutela del talento e<br />

dell’identità pedato<strong>ri</strong>a b<strong>ri</strong>tannica,<br />

ammettono solo l’ingresso di calciato<strong>ri</strong>


extracomunita<strong>ri</strong> minorenni, o che abbiano<br />

giocato almeno una partita nella loro<br />

nazionale. dunque timoty si deve<br />

accontentare.<br />

non saprei dire come fosse p<strong>ri</strong>ma del suo<br />

ar<strong>ri</strong>vo, ma qui la sua vita sociale non è molto<br />

attiva. eccetto allenamenti e partite, e tolte le<br />

due lezioni settimanali d’italiano al co.sa.s,<br />

passa il resto della giornata in casa a guardare<br />

la tv e chiacchierare con il suo coinquilino,<br />

pure lui nige<strong>ri</strong>ano, che fa il venditore<br />

ambulante.<br />

troviamo il portone aperto, e saliamo<br />

direttamente al secondo piano. suoniamo al<br />

campanello e dopo alcuni secondi timoty<br />

viene ad ap<strong>ri</strong>rci. la porta da su un secondo<br />

ingresso: probabilmente, il padrone di casa<br />

ha diviso un vecchio appartamento. a<br />

sinistra, vivono timoty e il suo coinquilino.<br />

ma giusto davanti a noi c’è un altro ingresso,<br />

la cui porta, in questo momento, è


totalmente spalancata. dietro il nostro amico,<br />

sedute su due sedie molto basse, ci sono due<br />

donne di colore. sono praticamente nude e si<br />

stanno passando lo smalto sulle unghie dei<br />

piedi. non sollevano neppure lo sguardo, non<br />

si scompongono, ma continuano placide le<br />

loro operazioni di maquillage. dietro di me,<br />

sento nicola fremere. anche io, penso, vorrei<br />

capire come fare ad intervistarle. ma come?<br />

come evitare di offendere e bruciarci?<br />

mettendo per il momento da parte la<br />

nostra cu<strong>ri</strong>osità, seguiamo timoty fin dentro<br />

il soggiorno di una casa minuscola. sulla<br />

parete a sinistra dell’entrata, impe<strong>ri</strong>osa,<br />

troneggia una tv sony al plasma<br />

ultramoderna da 62 pollici. le casse<br />

sottostanti sono bose, una delle miglio<strong>ri</strong><br />

marche. e la card della pay per view è una sky<br />

hd. timoty, che aspetta il <strong>ri</strong>torno del suo<br />

coinquilino per cenare, sta guardando una<br />

partita del campionato spagnolo. io, che di<br />

certo non sono uno sprovveduto, <strong>ri</strong>mango


allibito dalle sue conoscenze. è talmente<br />

informato sul calcio a livello planeta<strong>ri</strong>o che<br />

vorrei sugge<strong>ri</strong>rgli di sc<strong>ri</strong>vere un almanacco.<br />

tuttavia, mi fa notare, il calcio non è il suo<br />

sport prefe<strong>ri</strong>to, segue infatti con lo stesso<br />

interesse anche tennis, pallavolo, basket,<br />

moto, f1 e dio solo sa cos’altro.<br />

mentre il plasma della tv c’illumina, nicola<br />

si prepara a scattare. ma lo schermo, ci<br />

comunica, rovina l’effetto scenico: è<br />

necessa<strong>ri</strong>o trovare un nuovo contesto, farsi<br />

venire una buona idea.<br />

“ho trovato,” dice all’improvviso nicola “e<br />

se ci spostassimo nella tua camera da letto?”<br />

timoty non ha nulla in contra<strong>ri</strong>o, così<br />

lasciamo il soggiorno e la tv accesa e, in<br />

ordine, percor<strong>ri</strong>amo due met<strong>ri</strong>.<br />

fuo<strong>ri</strong> è tornato un po’ di sole e dalla<br />

veneziana filtra una luce sporca e polverosa:


la stanza è abbastanza scarna. non ci sono<br />

foto, solo due letti.<br />

“non hai foto di quando e<strong>ri</strong> piccolo?”<br />

chiede nicola.<br />

“sì, ne ho una” <strong>ri</strong>sponde timoty con il suo<br />

accento pesante e impastato “è l’unica che mi<br />

hanno fatto da bambino”<br />

si avvicina ad un armadio e prende una<br />

classica scatola da scarpe da cui tira fuo<strong>ri</strong> una<br />

dozzina di foto, alcune in bianco e nero, altre<br />

a colo<strong>ri</strong>.<br />

mentre ce le mostra, ne scarta una molto<br />

bella di una bambina.<br />

“tim, quella chi è?”<br />

“questa?” dice impassibile “sai, non è<br />

molto importante. è mia sorella morta”


l’indifferenza con cui parla della sorella<br />

morta ci colpisce al punto che non <strong>ri</strong>usciamo<br />

a dissimulare.<br />

“cazzo” fa nicola “mi spiace!”<br />

“e perché?”<br />

“beh… come perché? tua sorella! morta!”<br />

“bah, da noi è normale che ci sia almeno<br />

un fratello o una sorella morti. sapete, credo<br />

che una grande differenza tra la cultura<br />

af<strong>ri</strong>cana e quella europea sia il rapporto con<br />

la morte. per noi è naturale. per voi no” dice<br />

timoty con un sor<strong>ri</strong>so serafico, mentre porge<br />

a nicola quell’unica foto della sua infanzia<br />

che lo <strong>ri</strong>trae bambino, con una giacca troppo<br />

grande, e il volto e lo sguardo smar<strong>ri</strong>ti.<br />

torniamo in strada che è quasi l’una. non<br />

ci sono più autobus, così chiamiamo un taxi.<br />

mentre aspettiamo, nicola ha


un’illuminazione.<br />

“caro, sai cosa manca al nostro progetto?”<br />

“dovremmo viaggiare!” dico come gli<br />

avessi letto il pensiero.<br />

“esatto! dovremmo <strong>ri</strong>percorrere le tratte<br />

che fanno i migranti per ar<strong>ri</strong>vare fin qui, o<br />

per tornare a casa”<br />

ma cos’è casa per un migrante?<br />

***<br />

da bambino, sebbene allora mi<br />

mancassero le parole per dirlo, ho sempre<br />

creduto che ciascuno attorno a me fosse una<br />

sto<strong>ri</strong>a. soprattutto, pensavo che ognuno ne<br />

avesse una da raccontare – non<br />

necessa<strong>ri</strong>amente la sua - e che narrarla<br />

equivalesse a dire “eccomi, ci sono”.<br />

ho passato gran parte della mia


adolescenza a fare i conti con l’ansia di sto<strong>ri</strong>e<br />

altrui, proponendo in cambio la mia.<br />

sbagliavo. nessuno narra la sua sto<strong>ri</strong>a in uno<br />

scambio. non c’è mercato. non ancora<br />

almeno.<br />

serve l’occasione, si necessita di spazio. ma<br />

quando questa ar<strong>ri</strong>va o quello ci si apre<br />

dinnanzi, è raro che uno non racconti, anche<br />

solo per cedere un poco di peso. comunicare<br />

in fondo è condividere, dicono gli esperti,<br />

ma condividere, verrebbe da pensare, è<br />

crescere.<br />

e quando capita, quando ci sentiamo<br />

protetti e sicu<strong>ri</strong>, è raro che qualcuno <strong>ri</strong>nunci.<br />

la mia sto<strong>ri</strong>a è anche il mio lavoro: narrare<br />

le sto<strong>ri</strong>e che trovo.<br />

***<br />

vale<strong>ri</strong>a ha quasi quarant’anni, vive in italia


praticamente da sempre.<br />

di suo padre non ci dice molto.<br />

“era un legiona<strong>ri</strong>o” ci racconta “da guasila,<br />

dove è nato, ha finito per essere scaraventato<br />

nella guerra di liberazione del vietnam dalla<br />

francia, ha disertato, è stato catturato, messo<br />

in un campo di concentramento e poi,<br />

liberato, è <strong>ri</strong>masto a vivere là per qualche<br />

tempo. è così che ha conosciuto mia madre.<br />

ho due sorelle e due fratelli, mia madre è<br />

vietnamita. io sono la più piccola.”<br />

quando era ancora piccola, molto piccola,<br />

suo padre, d’accordo con sua moglie, ha<br />

deciso di chiudere il cerchio: è tornato a<br />

guasila, a casa dei genito<strong>ri</strong>. vale<strong>ri</strong>a e i suoi<br />

fratelli son cresciuti coi cugini.<br />

“hai mai subito delle disc<strong>ri</strong>minazioni?” le<br />

chiedo a bruciapelo.


la mia domanda la sorprende, non se<br />

l’aspettava: nonostante i tratti o<strong>ri</strong>entali, si<br />

sente italiana.<br />

“per cosa?” <strong>ri</strong>sponde<br />

“beh, disc<strong>ri</strong>minazioni razziali,<br />

intendevo…”<br />

“no, certo che no” si stizzisce, poi <strong>ri</strong>flette e<br />

aggiunge “non in italia, almeno. mi è<br />

capitato di subirne a londra. sai volevo<br />

imparare l’inglese e allora mi sono trasfe<strong>ri</strong>ta a<br />

vivere là e ho trovato lavoro in un albergo. il<br />

lavoro mi piaceva, ma il resto meno, così,<br />

imparato l’inglese, sono tornata a casa.”<br />

mentre parla, sottolineo la parola casa: per<br />

lei qui è casa, penso.<br />

a disc<strong>ri</strong>minarla erano gli arabi, per lo più.<br />

nulla di nuovo sotto al sole: è la guerra tra


i più pove<strong>ri</strong>, come sempre.<br />

vale<strong>ri</strong>a ha un diploma universita<strong>ri</strong>o – è<br />

un’informatica – e ora, a parte il lavoro, si è<br />

isc<strong>ri</strong>tta in scienze politiche.<br />

“cosa <strong>ri</strong>cordi della tua vita in vietnam?”<br />

non <strong>ri</strong>corda molto, eppure, l’anno scorso,<br />

è tornata anche lei alle o<strong>ri</strong>gini, a quelle sue<br />

radici sospese, come un rampicante. è andata<br />

per accompagnare sua madre, ormai avanti<br />

con gli anni, e a trovare i suoi parenti.<br />

e là si sentiva europea.<br />

il sole cala e nicola, profittando delle luci<br />

del bar, comincia a scattare.<br />

il clima si fa di colpo più disteso, e vale<strong>ri</strong>a,<br />

poco a poco, si apre.<br />

“dunque, sei nata in vietnam, ma poi vi


siete trasfe<strong>ri</strong>ti a guasila e ora vivi a caglia<strong>ri</strong>,<br />

un paio di appartamenti sopra tua madre,<br />

nello stesso palazzo. come mai?”<br />

il paese, ad un certo punto, ha cominciato<br />

ad andar stretto.<br />

“perché?”<br />

“c’era di mezzo anche il lavoro, mia madre<br />

lavorava a caglia<strong>ri</strong>.”<br />

quell’anche mi sembra una porta<br />

interessante da varcare.<br />

“una donna vietnamita a guasila non<br />

doveva essere prop<strong>ri</strong>o normale, negli anni<br />

settanta?” dico, cercando di ap<strong>ri</strong>re senza fare<br />

rumore.<br />

“in effetti, mia zia, la sorella di mio padre,<br />

non vedeva tanto di buon occhio mia madre,<br />

era molto dura con lei. e anche con noi, ci


<strong>tratta</strong>va un po’ come fossimo stranie<strong>ri</strong>.”<br />

oggi vale<strong>ri</strong>a è un’impiegata amministrativa<br />

che lavora con contratti a progetto.<br />

to be continued

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