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Volume 3 - MAC Francesco Bartoli

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F R A N C E S C O<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A R T E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

t e r z o v o l u m e 1 9 8 7 - 1 9 9 7


Ho impressa la “Malinconia” del Fetti,<br />

vista da ragazzo; e fin da allora credetti bene<br />

non abbandonarmi a quel sublime abbandono.<br />

Renato Birolli


Questa pubblicazione è stata possibile grazie al concreto sostegno<br />

del Comune di Mantova, della Provincia di Mantova<br />

e della Fondazione Banca Agricola Mantovana.<br />

Un particolare ringraziamento è dovuto a Palazzo Te, alla Casa del Mantegna<br />

e alla Camera di Commercio che hanno permesso<br />

l’utilizzazione di alcune immagini di opere delle loro collezioni.<br />

Si ringrazia inoltre, per la disponibilità, l’Archivio Sartori<br />

che ha reso possibile reperire alcuni “scritti”<br />

che qui vengono pubblicati.<br />

Per la loro competenza e disponibilità un grande apprezzamento è rivolto a<br />

Claudio Antoniazzi, Annarosa Enzi Baratta, Pierluigi <strong>Bartoli</strong>, Sonia Costantini, Susanna Sassi<br />

e a Gianluigi Arcari per il prezioso supporto.<br />

Artefice fondamentale di questo lavoro, Ester Mantovani <strong>Bartoli</strong>,<br />

con grande competenza e affetto, ha ricostruito, passo passo,<br />

il lavoro di <strong>Francesco</strong>.<br />

La disponibilità degli artisti e dei famigliari ha contribuito alla ricchezza delle informazioni<br />

contenute in questo lavoro. Un ringraziamento particolare è rivolto a Franco Bassignani,<br />

Edoardo Bassoli, Carla Bernardelli, Claudio Bondioli Bettinelli, Anna Bolognesi, Carlo Bonfà,<br />

Ferdinando Capisani, Adriano Castelli, Sonia Costantini, <strong>Francesco</strong> Dalmaschio,<br />

Gabriella Facciotto, Italo Lanfredini, Ernesto Lojero, Gianni Madella, Augusto Morari,<br />

Luigi Mutti, Giorgio Nenci, Teresa Noto, Roberto Pedrazzoli, Concetto Pozzati,<br />

Maria Rosa Schirolli, Sergio Sermidi, Gianluigi Troletti, Valentino Vago.<br />

Un ringraziamento particolare è rivolto a Giorgio Fasol per aver messo a disposizione<br />

le immagini delle opere di Rodolfo Aricò, a Gianfranco Ferlisi per il testo<br />

“L’Area Mantovana: primo approccio ad un’ipotesi di attivazione”.<br />

Ad Enrica Zacchi un grazie per la fattiva collaborazione.<br />

Progetto grafico e coordinamento editoriale<br />

Eristeo Banali<br />

Stampa<br />

Publi Paolini, Mantova


FRANCESCO<br />

B A R T O L I<br />

S C R I T T I D ’ A RT E<br />

1 9 6 7 - 1 9 9 7<br />

Un viaggio lungo trent’anni<br />

a cura di<br />

Eristeo Banali<br />

3° volume<br />

1987-1997


Per una lettura delle arti: gli scritti<br />

Eristeo Banali<br />

Da Mario Lipreri a I tre tempi di Rodolfo Stranieri<br />

(dal primo volume: Presentazione)<br />

[...] Nel Settantanove, alla Casa del Mantegna, il mondo incantato di Giosetta Fioroni, la fiaba, la dimensione fantastica sono argomenti<br />

di affascinamento: i Teatrini come case e teche, sarcofaghi e stanze, ipogei della memoria, presenze senza tempo, capaci d’incantare<br />

e sorprendere, dormienti, quasi fossero sulla soglia del nascere e, situate nella lontananza, macchinassero un incanto, nascondessero<br />

un segreto; o come se, al contrario, fossero state recise da una falsa vita e tesaurizzate in uno scrigno protettivo, in una<br />

stanza – ripostiglio.<br />

All’inizio degli anni Ottanta, con un articolo sulla Gazzetta di Mantova, ritorna su Giulio Perina e alla sua “Pittura en plain air”; scrive di<br />

Gianni Del Bue e della sua distrazione… dalla terra, dal suolo, dalla linea dell’orizzonte … dalla superficie e, in occasione della mostra<br />

di Defendi Semeghini, a Palazzo Ducale a Mantova nella primavera dell’Ottantuno, pubblica “Dai sogni alla scena metropolitana”.<br />

Per Giordano Di Capi, in occasione della mostra antologica a Palazzo Te, nell’ottobre Ottantadue, scrive un saggio dal titolo Ai confini<br />

dell’astratto, che risulterà fondamentale per la conoscenza del lavoro dell’artista. Nell’Ottantuno, su “artecentro”, sul lavoro di Carlo<br />

Cioni ancora un saggio dal titolo La forma dell’invisibile. Nell’Ottantacinque, per la mostra di Palazzo Vecchio a Firenze, approfondisce<br />

ulteriormente lo studio dell’opera di Carlo Cioni nel testo dal titolo Racconto sul nero. Per Osvaldo Licini scrive: Pittura come ornamento<br />

e irrealtà. La natura la iena e l’equilibrista e Il personaggio liciniano: un invito al silenzio. Nell’Ottanta, con Presagi della scena, scritto<br />

per la mostra alla Casa del Mantegna, ritorna su Rodolfo Aricò, e le sue architetture armoniche e con Irrealtà del naturale, ritorna<br />

sull’opera di Giuseppe Facciotto, in occasione della mostra di Palazzo Te. In questo periodo, per Renzo Schirolli scrive tre interventi: Materie<br />

e cerniere per la mostra alla Galleria d’Arte Contemporanea di Suzzara, Risanare l’ombra per la mostra Renzo Schirolli negli anni<br />

Cinquanta alla Galleria Einaudi di Mantova e un breve testo, dedicato a artificio e ascolto del naturale scritto per la mostra Arte contemporanea<br />

in Palazzo Ducale a Mantova, nell’ottobre Ottantanove.<br />

Sul lavoro di Ferruccio Bolognesi scrive due saggi: Un sistema magico, testo contenuto in Vestire i sogni, rassegna di bozzetti e di costumi<br />

teatrali, Centro di Documentazione Arti Contemporanee, quaderno 1, aprile1982, uscito in occasione della mostra Simulazione<br />

d’ombre, fili lamiera pittura teatro, tenutasi alla Casa del Mantegna nell’Ottantacinque; mentre il secondo, senza titolo, viene redatto<br />

appositamente per la mostra Simulazione d’ombre.<br />

Scrive di Valentino Vago Ritmiche dell’ascesa in occasione della mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano; Svolte e ritorni<br />

per la mostra Giovanni Bernardelli opere 1935-1982 a Suzzara nell’Ottantatre, e a Ferrara l’anno successivo; Sulla soglia delle figure<br />

per la mostra di Sonia Costantini alla Galleria “Einaudi”; Ad occhi chiusi, Sculture di Enzo Nenci in un articolo comparso sulla Gazzetta<br />

di Mantova.<br />

Nell’Ottantatre alla Casa del Mantegna, viene presentato il libro Dopo il tutto di Concetto Pozzati, relatore con <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> l’amico<br />

Gino Baratta. La conversazione che ne nasce diventa l’argomento di uno scritto sul parlare e il fare di Pozzati. Sempre per Pozzati<br />

727


nell’Ottantotto scrive A che punto siamo con i fiori per la mostra tenutasi alla Galleria “Il chiodo”, a Mantova, e poi L’angelo, la modella<br />

dove la domanda emblematica Ma il gioco non è cieco? diventa consonanza irrinunciabile al viaggiare verso orizzonti ineluttabili,<br />

dimensioni che contemplano i suoi Tempi di piacere residuo. Dell’Ottantaquattro è il saggio Kandinskij tra apocalisse e astrazione,<br />

pubblicato da Umberto Artioli in Il ritmo e la voce.<br />

In questi anni per la Gazzetta di Mantova scrive Sensazione di uno scultore chiarista in occasione della mostra di Ezio Mutti alla Galleria<br />

Arcari di Mantova; per la mostra Disegno mantovano del ‘900 scrive del [...] disegno, quasi mai posto al servizio della scultura<br />

[...], di Aurelio Nordera e pubblica sul catalogo Nudo seduto; per Carlo Bondioli Bettinelli scrive Echi riflessi e per Ernesto Treccani, Il<br />

volto rinato, pubblicato nel catalogo della mostra La fiaba di Narciso, allestita alla Casa del Mantegna nel 1987. Scrive un articolo sulla<br />

Gazzetta di Mantova dal titolo Dall’immagine alla luce: la ricerca di Sergio Sermidi. Di Gianni Madella registra un mutamento di rotta<br />

del flusso di energie, che orienta la sua ricerca verso …lo spazio comune di oggi della vita di relazione, dei percorsi della civiltà tecnologica,<br />

dell’assembramento urbano.<br />

Per Vasco Bendini, in occasione della mostra Sette stanze – un giardino, tenutasi alla Casa del Mantegna, scrive Nel silenzio della<br />

scienza, dove s’addentra nelle stazioni bendiniane indicandole come ragioni tematiche del lavoro dell’artista: il sentimento come storia,<br />

la formalità organica del mondo, lo storicismo interrogante, il vedere altro e più a fondo; nell’Ottantasei, in Venti disegni erotici<br />

(1956 – 1984), con una dichiarazione di poetica, Gianluigi Arcari Editore, pubblica Paesaggio con Baubo.<br />

In occasione della mostra Pino Castagna 1964-1985, tenutasi a Palazzo Te nell’ottobre dell’Ottantacinque, scrive un saggio leggendo<br />

l’attenzione dello scultore quando è …rivolta a scandire i dinamismi delle materie lavorate, quel che in termini scenici potremmo<br />

chiamare gestualità e fors’anche recitazione, e l’altra intesa a sondare le potenze intime dell’universo naturale, le forze latenti sotto<br />

la pelle dei corpi e nelle masse, nella pietra e nel metallo, per estrarne emergenze, personaggi appunto (e ancor meglio “persone”,<br />

forme che risuonano, per-sonant), cariche di un’aura incantata e inattesa. [...]<br />

(N.d.r. Molte immagini poste a corredo dei testi sono state “prese” dalle pubblicazioni seguite direttamente da <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong>. Nel compilare le didascalie non sempre<br />

è stato possibile reperire tutti i dati tecnici e dare qualità alle riproduzioni).<br />

728


[...] Negli ultimi anni Ottanta ritorna a scrivere di Sandro Bini per la mostra Disegno Mantovano del ‘900 e sul catalogo pubblica<br />

“Architetture”, mentre di Roberto Pedrazzoli, per la mostra Leggero come l’aria, allo studio “Toni de Rossi” di Verona, scrive Pittura<br />

come vocativo.<br />

Di Carlo Bonfà parla ne I passatempi del voyeur, appunti di una conversazione, dove vivo è il compiacimento nel constatare che<br />

Il divertimento e l’ironia, non di rado accompagnati dal sarcasmo e da un’aerea svagatezza, permeano in modo massiccio quasi<br />

tutti i recenti montaggi di Carlo Bonfà.<br />

Nell’Ottantotto per la mostra “Albino Galvano Gino Gorza, Sincronie”, a Palazzo Te, scrive un saggio insinuando per la lettura dell’opera<br />

diversi ambiti possibili, attivando per questo l’attenzione su lo scarto, …. fra icona e figura, o l’incompimento.<br />

Sempre in quest’anno scrive per la mostra Luana Trapè, interesse nelle fiabe alla galleria “Massari” di Ferrara e per Carol Rama,<br />

Come in un cabaret, in occasione della mostra alla Casa del Mantegna nell’Ottantotto. Dell’anno successivo sono gli appunti sul<br />

Catalogo delle donne sceme di Cuniberti; il saggio su Giovanni Battista Ambrosini, Una via secca della pittura, scritto per la mostra<br />

al Palazzo degli Alessandri di Viterbo e il saggio dal titolo Picasso, il desiderio preso per la coda: autobiografia di un picaro,<br />

dove parla di Picasso e del teatro.<br />

Per Adriano Castelli, in occasione della mostra alla Casa del Rigoletto, scrive dell’importanza della emozionata tessitura di bianchi<br />

nei suoi lavori come riferimento plausibile, se non esplicito, anche quando superata o negata; per Ferdinando Capisani scrive “Una<br />

ghirlanda di tavole di doni”, in occasione della mostra “Lo spazio del tempo e delle misure 1977 – 1987”, condensando l’attenzione<br />

su l’abbandono al visibile e la caducità…arrestata nel naturalismo del suo lavoro.<br />

Il Novantanove è anche l’anno di Natura e artificio, scritto in occasione della mostra di Palazzo Ducale a Mantova, una esposizione<br />

che per la cultura figurativa mantovana rappresentò un momento fondamentale di crescita. Vi presero parte, e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong><br />

di loro scrisse, affrontando il tema da uno dei tanti percorsi possibili ossia dalla minore o maggiore vicinanza al corpo e all’idea<br />

della natura, artisti come Roberto Pedrazzoli, Ferdinando Capisani, <strong>Francesco</strong> Dalmaschio, Gianluigi Troletti, Franco Bassignani,<br />

Renzo Margonari, Ferruccio Bolognesi, Carlo Bonfà, Sergio Sermidi, Sonia Costantini, Renzo Schirolli, Augusto Morari, Gianni<br />

Madella, Vasco Bendini e Aurelio Nordera. Il saggio, sviluppato seguendo il lavoro degli artisti, nella sequenza individuata, chiude<br />

in questo modo: porre in frizione due maniere dell’artificio e due ritualità tra loro avverse: una ancora vicina al sentimento sacro<br />

della natura, l’altra incline ai protocolli rappresentativi, a dare spettacolo, facendo delle immagini e dei gesti una parata di compiaciute<br />

apparenze.<br />

La Casa del Mantegna, nel Novanta, ospita la mostra di Regina e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> scrive Carte e disegni: un giardino di essenze,<br />

un saggio che attraversa l’esperienza artistica e poetica dell’artista, alla ricerca de il grande ornamento. Per le edizioni Corraini,<br />

sempre nel Novanta, pubblica Il giardino quadrato della poesia - poetry box, affrontando il tema della scrittura nel lavoro di Giosetta<br />

Fioroni.<br />

Per Renzo Schirolli scrive quattro nuovi interventi: Giardini d’inverno per la mostra all’ “Atelier Ducale” a Mantova; nel Novantuno<br />

Un notturno di Bazzani nei pastelli di Schirolli, che presenta la mostra “Pastelli” al Centro Einaudi a Mantova; mentre è del Novantatre<br />

la nota di appunti Renzo Schirolli, pastelli (1992) e disegni colorati con la quale ordina il percorso seguito da Schirolli nell’affrontare<br />

il tema bazzaniano, tema indicato all’artista dallo stesso <strong>Bartoli</strong>, pensando all’opera del Bazzani in generale ma, soprattutto,<br />

alle due Orazioni di Cristo nell’orto.<br />

Del Novantasei è un breve saggio Le pitture nere (dialogo con Renzo Schirolli), scritto per la mostra Opere informali 1956 – 1959<br />

tenutasi al Centro d’Arte San Sebastiano a Mantova, dove conversa con l’artista, in maniera acuta e appassionata.<br />

Di questi anni sono anche due testi dedicati a Carlo Bondioli Bettinelli: Carlo Bondioli Bettinelli acquetinte, pubblicato nel catalogo<br />

della mostra e Chiarismo in giardino, pubblicato sulla Gazzetta di Mantova in occasione della mostra tenutasi, come la prima,<br />

al Centro Einaudi.<br />

Scrive Slittamenti di figure per l’antologica di Albano Seguri, opere 1940-1990 e La realtà magica di <strong>Francesco</strong> Vaini per l’esposizione<br />

<strong>Francesco</strong> Vaini, opere 1917-1957, due eventi realizzati alla Casa del Mantegna.


Per Aurelio Nordera, nel Novantatre, per la mostra alla Sala Novanta di Palazzo Ducale a Mantova, scrive Il corpo, l’ala, il vento. Dello<br />

stesso anno è Bestiario - Quaranta disegni di Ferruccio Bolognesi, pubblicato in Medioevalia, tradizioni suoni e sapori dell’epoca medioevale,<br />

scritto per la mostra di Ponti sul Mincio.<br />

Nell’autunno del Novantatre lavora alla mostra di Giuseppe Fierino Lucchini Figure e paesaggi di Goito, che aprirà a Goito nel maggio<br />

successivo. Per questa mostra scrive il saggio Campi di grano, acque e fantasie moderne, pubblicato nel catalogo.<br />

Per la mostra di Sergio Sermidi a Palazzo Ducale, nel Novantacinque, scrive per il catalogo un saggio dal titolo Nel mito della genesi.<br />

L’anno dopo a Renato Birolli dedica un saggio dal titolo L’età felice e il primo viaggio a Parigi, scritto per la mostra alla Galleria “Lo scudo”<br />

di Verona. Sempre nel Novantasette, a Nene Nodari dedica una riflessione pubblicando un testo sul trimestrale Non capovolgere, ripercorrendo<br />

il suo viaggio artistico dal Chiarismo al …fluire metamorfico della materia. Per Motivi di scultura mantovana del ‘900 scrive Note<br />

critiche, scritture nere e dorate parlando della sfida all’immediatezza e ai miti felici dell’invenzione nel lavoro di Carlo Bonfà.<br />

Di Fausto Melotti, per la mostra tenutasi alla Galleria “Lo scudo” di Verona scrive un saggio dal titolo Fausto Melotti, scultore angelico,<br />

musiche della creazione in un straordinario ciclo di teatrini.<br />

Nell’aprile del Novantasette la Casa del Mantegna ospita la mostra Umberto Mario Baldassarri, opere 1922-1982, a cura di <strong>Francesco</strong><br />

<strong>Bartoli</strong>, che nel catalogo pubblica un saggio dal titolo Un pittore puro, il testo più completo scritto sull’artista.<br />

Nello stesso anno la Casa di Rigoletto ospita la mostra Rodolfo Stranieri, fotografie 1938-1986 e <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> scrive il saggio in<br />

catalogo dal titolo I tre tempi di Rodolfo Stranieri, incompiuto.<br />

La mostra inaugura il 17 maggio del 1997 e <strong>Francesco</strong> morirà il 19 [...].


“Un Pierrot si volta verso Arlecchino<br />

indicandogli il compagno che suona uno strumento<br />

musicale ma mostra i segni d’una debolezza<br />

crescente, inclina il capo con tristezza,<br />

mentre sotto di loro altri due Pierrot giacciono<br />

già accasciati sulle sedie e inerti, simili a marionette<br />

abbattute.”<br />

F. <strong>Bartoli</strong>, da “Un pittore del ‘puro’” (pag. 990)


1987<br />

Da Mario Lipreri<br />

a Luana Trapè<br />

Origini<br />

Mario Lipreri<br />

Il volto rinato<br />

Ernesto Treccani<br />

I passatempi del voyeur<br />

Carlo Bonfà<br />

Notizia biografica<br />

Sandro Bini<br />

Corporeità<br />

Gino Salvarani<br />

Immagini scritte<br />

Danilo Guidetti<br />

Immagine cercata e chiamata<br />

Luana Trapè


Origini<br />

Mario Lipreri (1)<br />

La prima analogia che viene alla mente esaminando le immagini<br />

conglomerate e misteriose di Mario Lipreri è di ordine naturalistico<br />

e più esattamente mineralogico. Si ha l’impressione che<br />

egli abbia raccolto delle memorie antichissime, quasi tracce di<br />

vita primordiale, abbandonandosi alla suggestione delle rocce sedimentarie,<br />

dei fossili e dei calcari. Da quando ha abbandonato,<br />

dopo l’insegnamento mantovano di Minuti, il tema della natura<br />

morta, pare essersi immerso in una sorta di fantasticheria all’interno<br />

della materia, nel sottosuolo delle vecchie figure. Al centro<br />

dei quadri si addensano corpi ameboidi, ovulari, filamentosi, sfiorati<br />

da luci velate di cripta o di camera segreta. Non colori netti,<br />

ma pestati e incerti, tirati sui paglierini, gli zolfi e gli olivastri. Oppure<br />

gli azzurri. Come macinati e confusi nelle sabbie, venati e<br />

corrosi dagli acidi.<br />

Più che di un pittore nel senso stretto del termine, si può parlare<br />

M. Lipreri, Origine della terra, 1986, olio su masonite, cm 90x75.<br />

732<br />

di un raccoglitore e di un orafo che si affida alla pittura per modellare<br />

gli elementi del suo archivio di sogni. Con passaggi infinitesimali<br />

segue il cagliarsi delle cromie in configurazioni serpentinate,<br />

radiolari e labirintiche; l’andirivieni dei motivi in cui scopriamo,<br />

sia pure per un momento, qualche somiglianza con gli universi<br />

rivelati dai microscopi, con le forme delle ammoniti, degli<br />

“occhi di tigre” o dei quarzi. Anche le sorprese contenute nei detriti<br />

e nei secreti.<br />

Cominciata quest’esplorazione (ed è ormai passato più di un<br />

quinquennio), l’autore ha lavorato in orizzontale, allargando la topografia<br />

dell’immagine, variandola, operando per aggiunte. Una<br />

volta afferrato l’univoco dato di ispirazione, non l’ha sottoposto a<br />

svolte e ripensamenti. Semmai l’ha riproposto attraverso successivi<br />

smorzamenti materici, alleggerendo la pressione dei segni e<br />

insistendo su tonalità delicate e trasparenti, vicine all’acquarello.<br />

La progressiva levità delle forme ha indotto una maggiore risonanza<br />

immaginativa; vibrazioni morbide, cellulari, cigliate in una<br />

materia sempre meno arida e scistosa. Un alito forse di vita organica<br />

nelle penombre del suolo. Che può essere, per metafora,<br />

uno scandaglio gettato nei territori della psiche travestiti da paesaggi.<br />

Illazione, questa, non nuova, poiché ha suggerito in passato una<br />

lettura intimistica del campionario metamorfico e ibrido di Lipreri.<br />

Sequenza di tele – si può aggiungere – da avvicinare come<br />

un’antologia privata di piccole meraviglie.<br />

E se il pensiero che le informa è introverso, talora fragilmente<br />

concluso in se stesso, non si può non apprezzarne in ogni caso il<br />

proposito di decantazione esecutiva e stilistica che lo sostiene: la<br />

più vera garanzia a favore dell’onestà pittorica di una ricerca decennale.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra personale al “Don Mazzolari”,<br />

Mantova.


Il volto rinato<br />

Ernesto Treccani (1)<br />

Circolare questo racconto di Treccani, ma forse neppure un racconto nel senso stretto<br />

del termine. È circolare perché s’apre e chiude con la medesima immagine (quella<br />

del fiore, del fanciullo-fiore) che si ripete e, nell’atto di raddoppiarsi, contemporaneamente<br />

cresce e si trasforma nell’intimo di se stessa. In fondo la metamorfosi,<br />

la vicenda di Narciso, per il pittore si condensa tutta qui. Si accentra, voglio dire, in<br />

un unico punto immaginario, in quell’esiguo segmento della narrazione mitologica<br />

col quale finiva e ora si inaugura il circuito dei segni. Potrei anzi dire che egli comincia<br />

a dipingere a storia finita, nel cono d’ombra proiettato dal mito, dopo aver<br />

raccolto l’ultima e splendida immagine cantata da Ovidio.<br />

Il corpo era scomparso: al suo posto trovarono un fiore, colore di croco nel mezzo<br />

E. Treccani, Metamorfosi, 1986, acrilico su tela, cm 160x160 (particolare).<br />

733<br />

e cinto di petali bianchi.<br />

Il resto, tutta la precedente sequenza dell’episodio,<br />

dal momento in cui era esplosa la<br />

bellezza abbagliante del giovane all’innamoramento<br />

di Eco, fino all’incantesimo<br />

dell’acqua, più che essere descritti, appaiono<br />

a lampi e in flash back, rievocati a partire<br />

da quella fine che è diventata un inizio.<br />

Si collocano nello spazio generato dal punto<br />

cruciale, fra i due istanti del fiore, dentro la<br />

sua trasmutazione.<br />

Stanno raccolti fra i battiti e in doppia stratificazione,<br />

prolungando, su un piano, la memoria<br />

della cultura (poiché la parola e l’iconografia<br />

dovevano pur farsi avanti per rendere<br />

perspicuo il tema), e alimentandosi, su<br />

un altro, di nuovi sensi. Anche in epoca lontana<br />

dalla nostra, quando larghe suggestioni<br />

scaturivano dalle fonti latine, Narciso<br />

mutò assetto visivo, riplasmato nel tratto finale<br />

della storia. Non più fiore funebre né<br />

inganno nuziale della terra dei giacinti, ma<br />

verde e nobilissimo mandorlo che, secondo<br />

la celebre pagina del Novellino, “prima fa<br />

frutto e rinnovella l’amore”.<br />

Ottica cristiana, scrive la Kristeva citata dal pittore.<br />

Il cammino ex terminis sembra lo stesso.<br />

Anch’egli afferra l’epifania dopo il compimento.<br />

Eppure c’è da registrare anche il fatto curioso<br />

di un discorso pittorico che, mentre trae<br />

spunti dal modello più prevedibile, rende<br />

omaggio non del tutto marginale ad un poeta<br />

dell’età isabelliana, Giovanni Muzzarelli da Gazoldo,<br />

la cui Fabula di Narciso restò interrotta<br />

al di qua dell’epifania, offrendo in certo modo<br />

l’occasione di far risuonare sulla tela un luogo<br />

mancato della parola.<br />

Ho poi l’impressione (e l’idea si rafforza mentre<br />

torno a osservare le opere) che il motivo<br />

favoloso abbia fatto girare all’indietro lo


sguardo del pittore, spingendolo a rivedere taluni momenti del<br />

suo lavoro e a coniugarli intorno al germe luminoso custodito dal<br />

simbolo; che gli abbia chiarito insomma una trama latente.<br />

I quadri infatti non mi prendono alla sprovvista. In qualche modo<br />

li ho già visti, devo averli incontrati altrove. Riconosco gli scenari,<br />

le siepi, i volti; se non tutte e non proprio le stesse, altre immagini<br />

assai somiglianti e vicine a queste. Mi sorprende invece<br />

la rete di riverberi che, stando una accanto all’altra, le tele mandano<br />

insieme: il nodo da cui sono allacciate e che le unisce nel<br />

fascio di Narciso.<br />

Ecco i frammenti parlano nell’alveo della fiaba.<br />

Come decifrarla?<br />

Dal secondo quadro (Nel bosco dovunque è Narciso) rimbalza il<br />

vecchio leit-motiv, il tema del volto moltiplicato che, se per un<br />

verso può far ricordare una strofa del Muzzarelli (l’eccitazione<br />

tattile e visiva di Eco, il suo delirio amoroso: “Basa i fiori e la<br />

terra, che toccata / fu nel passar da il delicato piede. / Abbraccia<br />

l’aura e chiamala beata, / ché vien da il loco ove Narciso<br />

crede”, con quel che segue), per un’altra e più sostanziale ragione<br />

agita il fantasma, ampiamente presente nella pittura di Treccani,<br />

di un’icona che prolifera su se stessa e popola la mente, il<br />

paesaggio, i dipinti.<br />

In passato erano i sembianti e i volti amati, i riflessi accolti e difesi<br />

contro il fluire del tempo. Apparenze quasi sempre tuffate nella<br />

tenerezza dei gesti pittorici, dentro la vibrante motilità degli impasti<br />

rugiadosi e filiformi del colore; nei velari delle grafie.<br />

Ma ora? Chi è questo Narciso?<br />

Una risposta, parziale certo, ma non inutile, può venire da uno<br />

degli archetipi della seconda (o, se si vuole, terza) fase della ricerca<br />

dell’artista, dal grande olio del ’65, che Vittorio Fagone ha<br />

letto come l’inizio di una immersione panica nel naturale e che<br />

(guarda caso!) si intitola Ragazzo/fiore. Un secondo indizio, a mio<br />

avviso ricco di suggestione, lo ricavo invece dal cuore stesso della<br />

serie, dal quadro in cui Narciso appare in ombra con il sole alle<br />

spalle. Chi raffigura? Mi vien da pensare che il giovane vestito<br />

modernamente, il personaggio che ha camminato tra gli alberi e<br />

s’arresta davanti alla fonte, sia un autoritratto ideale. Un jeune<br />

poéte o peintre. Me lo fanno supporre, sia le analogie con gli autoritratti<br />

che conosco (e le tante fotografie sparse nei cataloghi),<br />

sia, per restare su un terreno più generale, le iconografie del-<br />

734<br />

E. Treccani, Narciso è diventato un fiore, 1986, acrilico su tela, cm 160x160.<br />

l’amicizia, le figure di poeti e di pensatori che alcuni artisti (Birolli<br />

innanzitutto) avevano dipinto negli anni Trenta e Quaranta.<br />

Poi osservo la quinta tela, quella del fanciullo che crea la sua immagine<br />

nello specchio della sorgente. Il corpo, sullo sfondo,<br />

sembra sciogliersi (quasi come Eco nella terza tappa del ciclo).<br />

Non solo è in ombra, come recita il titolo, ma è ombra: tenue<br />

sagoma dissanguata dalla potenza dell’imago da lei stessa<br />

‘creata’, partorita. Tanto ardente, quest’ultima, e accesa di rossi,<br />

quanto diafana quella, al di là della fonte.<br />

Probabilmente manifesta il vero segreto (per Treccani) della metamorfosi.<br />

Quel che per lui conta del Narciso. Anziché precipitare<br />

la figura nel gorgo mortale dell’oblio, la consegna ad una nascita<br />

chiara, di cui è metafora lo specchio della pittura. Si veda l’ultima<br />

tela: non solo e non tanto il corpo scompare per dar vita a un fiore,<br />

ma la natura, a sua volta fecondata, fa germogliare un volto.<br />

Andata e ritorno: dall’uomo alla natura e da questa all’uomo.<br />

Come non vedervi una parabola della poesia?<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “La fiaba di Narciso”, Casa del Mantegna,<br />

Mantova, maggio 1987.


I passatempi del voyeur<br />

Carlo Bonfà (1)<br />

Il divertimento e l’ironia, non di rado accompagnati dal sarcasmo<br />

e da un’aerea svagatezza, permeano in modo massiccio quasi<br />

tutti i recenti montaggi di Carlo Bonfà. Le materie delle costruzioni<br />

sono secche, aride, ridipinte di nero e profilate con tagli<br />

netti. Quando il colore compare, non ha nessuna tenerezza naturale,<br />

sposandosi perfettamente con la metallica aridità dei<br />

supporti prosciugati. È una cosmesi applicata su taluni punti salienti<br />

come il belletto sul volto d’una bambola. Pochi tratti di<br />

rosso e di giallo, delle picchiettature di acrilici e di smalti, qualche<br />

minuscola emergenza della forma. Nient’altro.<br />

Sembra un giocoso divertimento con la finzione del lutto in una<br />

bottega di oggetti irreali.<br />

Ma in che cosa consiste precisamente il gioco? Chi riguarda e<br />

dove tende?<br />

Qualche anno fa, in un suo intervento sulle opere composte all’inizio<br />

degli anni Ottanta (i Viaggi, le Comete e le Galassie), Gino<br />

Baratta si era trovato davanti al medesimo interrogativo e aveva<br />

considerato la nuova inclinazione di Bonfà come una forma di gaiezza,<br />

di quella speciale disponibilità all’avventura che caratterizza<br />

gli osservatori disinteressati e aperti a tutte le sorprese. Per<br />

questo evocava in un primo momento il Giannozzo di Jean Paul,<br />

che si era staccato dal mondo per sorvolarlo in aerostato, ma trovandolo<br />

poi ancora toccato dal disgusto per ciò che aveva lasciato,<br />

finiva col suggerire l’analogia con certe figure di Italo Calvino,<br />

in particolare col Marco Polo delle città invisibili e soprattutto con<br />

Qfwfq, il personaggio battezzato con la retorica del palindromo,<br />

che percorre in tutte le direzioni gli spazi siderali ed è diventato<br />

una pura corrente di elettroni, un gas cosmico.<br />

La gaiezza di Qfwfq era per lui anche la qualità dell’ artista dopo<br />

il diluvio, il nono peccato compiuto dall’uomo che si sospende al<br />

di sopra delle epoche catastrofiche, ma un peccato per modo di<br />

dire, perchè non comporta più alcun rischio mortale per il mondo,<br />

già in procinto di finire per l’effetto letale dei precedenti otto peccati<br />

che, secondo Lorenz, sono responsabili della catastrofe.<br />

È semmai una colpa estetica, non immorale ma eventualmente<br />

al di là della morale, consistente nella gioia della vaporizzazione<br />

succeduta alla perdita del centro.<br />

735<br />

Infatti, una volta dissolto il nucleo che un tempo aveva tenuto<br />

insieme gli orizzonti, che cosa resta? Nient’altro che materia gassosa<br />

in espansione, molecole alla deriva, “galassie caudate” e<br />

comete. Per tutti questi motivi, volendo indicare un’ opera dalla<br />

quale aveva inequivocabilmente preso a sprigionarsi, nel caso di<br />

Bonfà, un simile stato giocoso, Baratta non aveva dubbi e invitava<br />

a considerare una grande tela dell’82 ricoperta di trasferelli<br />

che, certamente non a caso, era intitolata Galassia.<br />

Proprio in quella tela (e Bonfà oggi lo conferma) si è decisa la<br />

svolta che lascia alle spalle il precedente periodo e tutta la fase<br />

introversa delle compressioni, la melanconia della inchiesta su<br />

Pontormo, le amputazioni delle forme organiche, contribuendo<br />

ad allontanare (anche se gli itinerari finiscono sempre per riaprirsi)<br />

l’epoca “povera” e comportamentistica, mitizzante e romantica,<br />

della prima autobiografia, quando l’artista tesseva legami<br />

simbolici tra il proprio corpo e i ritmi delle costellazioni.<br />

Bonfà accompagna il termine gioco, che accetta in pieno, con un<br />

aggettivo, cinico, che serve a colorire di una indiscutibile nota di<br />

spassionatezza i procedimenti ludici del suo lavoro. Vuol dirci che<br />

c’è distacco, separatezza, lontananza. Ma lontananza da chi? Soltanto<br />

dall’oggetto che egli rappresenta?<br />

Se osserviamo globalmente quel che è avvenuto dopo la svolta,<br />

scopriamo che qualcosa retrocede e qualcos’altro avanza. Lo spazio<br />

esterno dell’io si espande e dilaga, mentre l’io si nasconde<br />

progressivamente nell’ombra.<br />

Resta la vista senza il corpo, senza peso. E per di più una vista in<br />

uscita. L’io guarda, osserva, combina le immagini. In tal senso è<br />

attivissimo, ma, rispetto al passato, l’io ha messo tra parentesi<br />

se stesso, non si guarda più. Si è rifugiato su un’isola e da lì spia<br />

quale sia il senso dell’attuale gioco del mondo.<br />

Dunque ha assunto la posizione del perfetto voyeur. Cattura e allestisce<br />

visioni. Gode a inventare spettacoli.<br />

Si direbbe che lo attragga il decentramento di un mondo, magari<br />

quello dei resti da lui stesso espulsi, delle sue medesime emanazioni,<br />

della combinatoria delle forme esistenti e possibili.<br />

Talora anche l’habitat che gli sta attorno sembra ispirargli dei<br />

giochi di fantasia, come suggerisce un arredo in forma di paesaggio,<br />

sormontato da un’ esigua falce gialla, che dovrebbe essergli<br />

stato dettato dalla visione notturna del quartiere in cui<br />

abita, la “Lunetta”. E forse nemmeno dal quartiere, dall’immagi-


nazione sul nome.<br />

Nelle sue mani, ma sarebbe meglio dire ‘nel suo sguardo’, tutto<br />

diventa motivo di allestimento fantasioso. Decorazione e fantasia.<br />

Quasi sempre una scenografia fittissima, zeppa di elementi<br />

a incastro, montata nel vuoto tendenzialmente impercorribile dal<br />

C. Bonfà, La sedia della sposa, 1986.<br />

736<br />

corpo, proibita all’organico. Selvaggia nella sua totale artificialità.<br />

Così vengono fuori idee di manufatti in crescita e progetti per<br />

l’ostruzione completa degli spazi espositivi, grandi ingorghi di<br />

elementi. Centinaia di frecce che trafiggono forme, migliaia di<br />

palline da ping pong cresciute su steli acuminati.<br />

In tal modo si vieta l’uso dello spazio. Lo si sospende, lo si mantiene<br />

inafferrabile perchè, se non lo fosse, contraddirebbe il principio<br />

(e il privilegio) che lo rendono possibile, cioè il voyeurismo.<br />

Evidentemente si tratta di una faccenda di seduzioni e di adescamenti<br />

da mantenere vivi, castigando le pulsioni corporee e<br />

lavorando sul piacere della distanza. La forma illude, dev’essere<br />

simile a un trabocchetto, pericolosa come una tagliola, una freccia<br />

che potrebbe infilzare chi non afferra quale sia il senso dei<br />

miraggi e delle illusioni.<br />

Si capisce allora perchè tante opere siano congegnate come<br />

strumenti ingannevoli, falsi bersagli, animali e prede artificiali,<br />

insomma come delle prove che sfidano l’occhio ad affrontare il<br />

subdolo incanto delle fate morgane. Prove d’iniziazione al voyeurismo<br />

cinico, a scapito degli sguardi ingenui e delle creature<br />

troppo impulsive.<br />

Credo che per tali ragioni si chiamino trappole e assumano<br />

l’aspetto di archi tesi, balestre, porte pericolose, scatole senza via<br />

d’uscita, marchingegni pronti a colpire. Tutti mezzi per provare se<br />

gli sguardi sanno reggere il gioco, tenersi a distanza dalle seduzioni<br />

e dalla forza magnetica, pur coltivandole.<br />

In qualche allestimento risuona la nota di una attrazione primaria,<br />

quella dell’eros, e allora si dà l’inscenamento dei sessi: la<br />

trappola per voyeur e, con un omaggio trasversale a Duchamp,<br />

una irridente sedia per la sposa.<br />

Poi altre note, altri desideri. Qualche immagine cade nel trabocchetto.<br />

Ci casca dentro e urla, come lo stupido King-Kong e gli<br />

animali moltiplicabili, varianti di tanti eroi dei trasferelli.<br />

Così Bonfà si prende qualche vendetta sull’inautentico senza<br />

spargere sangue.<br />

Per il resto, nella forma, simula il gioco degli stili, modellando la<br />

materia del kitsch con il design postmodernista.<br />

(1) Appunti del 13 settembre 1987, editi in occasione della mostra<br />

“Motivi di scultura Mantovana del ’900”, tenutasi presso Palazzo Te,<br />

Mantova, 16 maggio-10 agosto 1997.


Notizia biografica<br />

Sandro Bini (1)<br />

Frequentati e poi interrotti gli studi all’Accademia «Cignaroli»<br />

(studi che concluderà più tardi a Brera), Bini pratica per breve<br />

tempo il disegno, l’incisione e la pittura. Di quest’attività anteriore<br />

alla militanza critica non restano oggi che frammentari e disomogenei<br />

documenti, qualche rapido appunto di un gusto in formazione,<br />

nei quali almeno un punto fermo appare tuttavia evidente:<br />

ed è la consonanza con Giuseppe De Luigi e Giordano Di<br />

Capi, pittori d’indole diversissima, ma accomunati dal proposito di<br />

trar partito dalla forza costruttiva del colore per cavarne immagini<br />

robuste e serrate. «Mescolanze di colore + emergenze plastiche»<br />

sarà la formula con la quale il critico condenserà futuristicamente<br />

di lì a poco il «ritratto» di De Luigi. Anche Bini insegue un solido<br />

impianto spaziale nelle sue prove più riuscite (alcuni oli e disegni<br />

di paesaggio), bloccando le forme intorno a rilevati perni visivi e<br />

tentando qualche robusta abbreviazione stilistica. I motivi vi sono<br />

come ritagliati, tradotti in solidi, ribaditi nell’assetto ortogonale e<br />

con intento chiaramente dimostrativo.<br />

Che si trattasse di esercizi di orientamento, utili comunque a<br />

prendere posizione e a dichiarare principi, è provato anche da<br />

un’uscita pubblica, una mostra di disegni con lo stesso Di Capi, fatta<br />

a Mantova nel ’30. Pros semeiòn, ossia «verso il bersaglio», è<br />

l’eclatante locuzione retorica xilografata dall’autore sul biglietto<br />

Arturo Cavicchini, Ritratto di Sandro Bini, 1926, china su carta (particolare).<br />

737<br />

d’invito: una pronuncia certo volontaristica, anche aggressiva com’era<br />

nella natura di Bini, ma per nulla acritica se è vero che il bersaglio<br />

cambia subito di segno, con l’irrevocabile decisione di applicarsi<br />

nella scrittura.<br />

Qual è stato il senso, allora, di una simile esperienza? «Lo scopo<br />

ultimo che egli perseguiva - ha osservato E. Faccioli - era quello<br />

di procacciarsi uno strumento ausiliario della memoria formale, di<br />

affinare e integrare la sua ricerca che era di ordine critico - con un<br />

esercizio perpetuo di riproduzioni interpretanti, raccolte tempestivamente<br />

dai modelli dell’arte contemporanea».<br />

La cosa è tanto vera che, due anni dopo, nel volumetto Artisti pubblicato<br />

dalla «Libreria del Milione», Bini torna proprio a commentare<br />

sui testi degli autori-modello le medesime opzioni formali<br />

nelle quali s’era personalmente implicato, per via di transfert,<br />

disegnando e dipingendo. Dei sette autori presentati ben cinque<br />

appartengono, di fatto o per accidente, all’area veronese-mantovana<br />

(giacchè i coetanei Manzù e Tomea, allineati accanto a<br />

Giorgi Lorenzetti e De Luigi, gli erano stati compagni d’Accademia),<br />

mentre gli altri due segnalano già la svolta verso l’orbita di Persico,<br />

cadendo tanto Sassu quanto lo scultore Luigi Grosso nel giro<br />

dei nuovi primitivi sostenuto dal teorico napoletano.<br />

Poco prima era andato a vuoto, fin dal primo approccio, il collegamento<br />

con «Frontespizio» e Papini, mentre Bini si trovava a Firenze<br />

per il servizio militare, sicchè diventa naturale, su insistenza<br />

di Birolli, il trasferimento a Milano, dove si impiega come<br />

correttore di bozze presso «L’Ambrosiano».<br />

Prende corpo da questo momento, nell’eccezionale sodalizio con<br />

Birolli, la sua avventura centrale. Bini entra nel vivo del dibattito<br />

antinovecentista, segue fin dalle prime prove autori come Fontana,<br />

Valenti, gli astrattisti del Milione, commenta assiduamente e dall’interno<br />

la ricerca birolliana, confluendo infine in “Corrente”, di cui<br />

diventa uno dei protagonisti.<br />

Sposatosi, insegna per qualche tempo a Fano dopo lo scoppio della<br />

guerra. Richiamato per l’ennesima volta in servizio militare, muore<br />

alla stazione di Bologna sotto un bombardamento, mentre viene<br />

tradotto con altri prigionieri su un convoglio sorvegliato dai tedeschi,<br />

il 25 settembre 1943. Alcuni dei suoi maggiori scritti sono<br />

stati raccolti nel volume Responsabilità della forma, Milano-Mantova,<br />

1971.<br />

(1) Scritto contenuto in “Un critico di ’Corrente’. Artisti di Sandro Bini”,<br />

Mantova, Palazzo Te, aprile-maggio 1987.


Corporeità<br />

Gino Salvarani (1)<br />

Volendo ricapitolare per sommi capi l’itinerario di Salvarani,<br />

potrei dire che egli va oggi percorrendo un’ulteriore tappa<br />

della sua lunga e meditata indagine della corporeità: una<br />

fase che, rispetto a certe articolazioni plastiche precedenti,<br />

appare connotata dalla purezza estrema del dettato e da un<br />

nuovo concetto di superficie. Un momento quasi astratto e<br />

tuttavia non immemore delle ragioni di fondo, di carattere fenomenologico,<br />

che avevano sorretto le prove dell’esordio, a<br />

Bologna e a Mantova, tra il ’59 e il ’62.<br />

Il corpo ha rappresentato e continua ad essere per l’artista un<br />

luogo centrale di riflessione. E’ lì e soltanto a partire da esso,<br />

cioè dalla forma-nucleo e dalla forma-limite, che lo spazio<br />

può essere conosciuto, portato alla vita, modellato nella dialettica<br />

del chiuso e del non-più-sigillato (mai del totalmente<br />

aperto), dello statico e del virtualmente dinamico.<br />

Dopo i bellissimi torsi della prima epoca, tutti giocati sulle<br />

diagonalità e sulle promesse di movimento, contenuti e tesi<br />

come misteriosi grumi di forza, egli aveva dato fiato, ma passando<br />

prima attraverso l’esercizio prismatico della carne e<br />

della pelle della scultura (i “cementi”), ad una larga sequenza<br />

di emergenze “fiorite” e barocche, intrise di scaglie di luce<br />

e d’ombra, per approdare infine ad una rinnovata astanza del<br />

blocco plastico nei modellati rotondi, per avvolgimento e germinazione,<br />

delle figure composte intorno all’80.<br />

Ed ecco che l’unità riconquistata e, per di così, riguadagnata<br />

dopo aver patito il moto intermittente delle superfici, mentre<br />

annoda da un lato il filo rosso dell’intero percorso, propone<br />

da un altro una inedita nozione della figura. Più rarefatta appunto,<br />

e soprattutto più mentale e mitica.<br />

Mi colpisce subito, mentre osservo le immagini, il silenzio da<br />

cui sono avvolte. Sono figure, queste, che stanno nello spazio<br />

come se incontrassero per la prima volta l’enigma dell’essere<br />

e dell’apparire. Raccolte in sé stesse, vivono stabilmente<br />

in cavo, nei pieni e nei vuoti circoscritti (e quasi non-vuoti)<br />

di cui è fatta la loro intimità, tanto che la percezione può coglierle<br />

a pieno soprattutto a distanza, più nell’aura dello<br />

sguardo che nella provocazione tattile dei sensi.<br />

738<br />

G. Salvarani, Momento d’attesa, s.d., legno dorato, cm 168.


Che è avvenuto allora dell’approccio fenomenologico?<br />

Si direbbe che, sollecitando le analogie tra il corpo proprio e<br />

le cose, fra sé e mondo, lo scultore voglia ora incentivare la<br />

coincidenza, anzi il trasferimento del tatto nella visione, spostando<br />

sul piano spirituale i dati fisici e matrici. Gli spessori<br />

della vita.<br />

Resta in ogni caso ben salda la fedeltà ad alcuni gesti fondamentali<br />

della presenza, perché è su di loro che viene in definitiva<br />

garantita la verità della rappresentazione. Lo stare e<br />

l’erigersi (per i quali si scandisce un doppio segmento plastico<br />

nel circuito dell’uno), il reclinarsi, l’aprirsi o il chiudersi<br />

delle braccia, infine lo stendersi e il riprendere contatto col<br />

suolo suggeriscono una grammatica essenziale, tanto misurata<br />

quanto disponibile alle varianti. Per di più la figura rimanda<br />

sempre alla esperienza primaria dell’esserci, ossia al<br />

corpo silente (tronco e membra), all’acefalo. Tranne rarissime<br />

eccezioni, per altro risolte con le effigi della maschera e dell’idolo,<br />

il volto è infatti costantemente assente. E dunque, se<br />

di spiritualità si tratta, essa riguarda il sapere non intellettualizzato.<br />

Tocca un pensiero-visione che è solidale con la struttura<br />

corporea. Con le cose.<br />

G. Salvarani, Selene, 1987, bronzo, diametro cm 38.<br />

739<br />

Si guardino le superfici, i tagli secchi, i confini delle forme.<br />

Sono tersi, levigati, lucidi, molto spesso riflettenti. Ora hanno<br />

la configurazione dello specchio (“Selene”) ed ora quella del<br />

fantasma (i gessi in particolare). A seconda dei materiali impiegati,<br />

della qualità dei metalli e dei marmi, dei legni e<br />

delle crete, mutano i trattamenti e le risonanze. In qualche<br />

caso il modellato inclina verso il piatto e il lamellare, proprio<br />

come nella oggettistica della oreficeria classica. Altre volte invece<br />

il curvo e il diritto, l’ovale e lo sferico si alternano (con<br />

risonanze d’eco e di sogno in Dama), anche in positivo e negativo,<br />

ma senza strappi, seguendo un tracciato sereno e ieratico<br />

che finisce col farli riposare all’infinito nel loro alveo,<br />

dentro la protezione del contorno.<br />

Va osservato inoltre che una forte pronuncia del simmetrico<br />

(la cui origine è ancora una volta il pensiero del corpo) attraversa<br />

tutta la serie. Ma il riflesso che ne deriva (il gusto del<br />

raddoppiamento e dello speculare) rischia talvolta, quando<br />

eccede in eleganza ed arabesco formalistico, di restare nei limiti<br />

del puro piacevole, specie se prevale la tentazione della<br />

mimica e della zoomorfia. Ben altro fortunatamente accade<br />

sotto la spinta immaginaria delle strutture profonde. La simmetria<br />

esce dallo schema degli uguali. Diventa cadenza, andata<br />

e ritorno ritmico degli elementi: battuta e numero, che<br />

le distonie e le torsioni più lievi esaltano grazie all’inquietamento<br />

prodotto nell’equilibrio.<br />

Proliferano anche i simboli indotti dal materico redento e<br />

dalle immagini. Ed è un effetto potenziato dalla memoria<br />

dell’antico e del moderno.<br />

Fantasmi trepidi circolano intorno ai legni e ai gessi. Ci riportano<br />

il ricordo di Moore o dell’Hera di Samo, di una imagerie<br />

singolarmente viva nello stupore tardoarcaico delle forme.<br />

Qui, nel biancore prosciugato dell’opera, lo scultore vive, più<br />

che altrove, la sua metafisica.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra tenutasi alla Galleria Civica di<br />

Castiglione delle Stiviere nel maggio 1987. Riproposto con lievi modifiche<br />

sul catalogo della mostra “Motivi di scultura mantovana del<br />

‘900”, Palazzo Te di Mantova, 16 maggio-10 agosto 1997.


Immagini scritte<br />

Danilo Guidetti (1)<br />

L’esordio di Guidetti avvenne intorno al ‘45 nell’ambito della pittura chiarista<br />

e il chiarismo, com’è noto, fu soprattutto una avventura della luce:<br />

luce di cui erano intrisi paesaggi, oggetti, persone, cose. Fatti e disfatti<br />

sulla tela quegli elementi finivano per bruciarsi, divenendo fantasmi e figure<br />

fluide per sola diffrazione atmosferica. Non so se il colore sia subito<br />

intervenuto nelle prove dell’artista. Di quell’epoca conosco soltanto i disegni,<br />

ma ho l’impresssione che tutto, in lui, sia cominciato proprio dal<br />

segno, dal nero e dal bianco, dai tracciati impressi sulla carta, per lo più<br />

teneri, un po’ franti e spesso interrotti per rinforzarne la qualità allusiva,<br />

prolungarli nell’aria, verso l’occhio, e rifrangerli emotivamente in un pensiero<br />

che si faceva contemplazione.<br />

740<br />

D. Guidetti, Senza titolo, s.d., collage e china.


Se è così, se è vero che il disegnare (lo scrivere immagini) è<br />

la sorgente prima di questo lavoro, gli eventi cromatici, proprio<br />

perché ne rappresentano la conseguenza, non possono<br />

che essere un dono e una rivelazione del segno. Né possono<br />

mai vantare una distaccata autonomia o appartarsi dalla scrittura,<br />

dato che vi sono incarnati.<br />

Una scrittura colorata? O una scrittura-colore?<br />

Direi invece, per stare vicino alla matrice, che la luce fa da<br />

supporto ad entrambi, segno e cromia, mostrandosi e generandosi<br />

in loro per gradi e scale diverse.<br />

Certo Guidetti è un autore di “carte”. Ma lo è non solo e non<br />

tanto perché il foglio sveglia l’immaginazione, quanto per la<br />

sua disponibilità ad accoglierla. Diversamente da altri artisti<br />

che ne subiscono l’incantesimo, traendo dalla carta, come<br />

dalle macchie, da trame e spessori, le promesse immaginifiche<br />

da portare in chiaro, qui v’è ben poco dell’ “automatico”<br />

surrealista. Non solo: le carte non valgono neppure, al pari<br />

degli altri lacerti incollati e ricombinati, per le tracce di eventuali<br />

vissuti che esse conservano. Non hanno memorie da rilanciare<br />

muovendo ansie collezionistiche. La memoria sta<br />

eventualmente altrove, anche se dubito che essa abbia qualcosa<br />

da esprimere, qualcosa voglio dire di oscuro, nell’alveo<br />

del comporre.<br />

Tant’è vero che le materie acquistano senso nei montaggi e<br />

nei costrutti, devono essere intenerite, accartocciate, ridisposte,<br />

incollate e dipinte; soltanto allora cominciamo a percepire<br />

luoghi e itinerari. A intravedere figure. C’è un sogno nelle<br />

opere. Una fantasia di paesaggi filiformi, di scale, di ponti e<br />

forse anche di giardini incantati. Ma sono sempre orizzonti<br />

aerei e scenari velati, che si producono per trasparenza e sovrapposizione.<br />

Nulla di opaco e di greve li fa precipitare verso<br />

il basso. La terra, quasi, non esiste o resiste come frammento<br />

e “spezzato”, come quinta che si ritaglia e ondeggia nelle<br />

folate dei segni.<br />

Il sogno avviene ad occhi aperti, in ore di veglia. Riguarda il<br />

possibile, lontano da incubi, larve, demoni. Ciò nondimeno<br />

può essere drammatico, scosso all’interno da moti divergenti;<br />

perfino da esplosioni. Ha a che fare con la meraviglia, lo<br />

stupore, l’agitazione di un’ “infanzia” poetica, con un’alba di<br />

emozioni. Sta nell’alto insomma e naviga col vento.<br />

741<br />

I rossi, quando appaiono, sono brevi note e squilli. Richiamano<br />

il fuoco o il rubino, ma il sangue. E tutt’attorno vi dilaga la<br />

gamma dei bianchi, insieme a gialli, rosati e azzurri. Tinture<br />

sempre temperate e tali da accogliere il vibrare delle stagnole,<br />

delle tessere d’argento, delle garze e degli effetti di<br />

seta. Al più corrono fumi o scorie disseccate e volanti.<br />

Dalle parti e dall’insieme un tema centrale prende forma. Ed<br />

è, mi pare, la nube. Una struttura soffice, cangiante, permeabile,<br />

metaforica. Mobile e architettata per aggiunte e agglutinazioni,<br />

secondo le leggi in apparenza inesatte dei fiati e<br />

dei vapori, ma in realtà costringenti e precise.<br />

Si considerino a riprova le campiture e i contorni. Nelle opere<br />

in mostra (le grandi carte appuntate sui telai) i bordi sono<br />

sfrangiati e irregolari, come orli di nuvole. E al di là di essi,<br />

quel poco che compare è neutrale. Fa da letto per il ritaglio.<br />

Non significa. Quanto alle stesure (e tali sono pittoricamente<br />

i brani di carta incollata) hanno la natura del dilavato, del<br />

“bozzetto” in grande. Eppure risultano eleganti, preziose,<br />

aderenti alla fragilità (fecondatrice) che le fonda: preziosità,<br />

questa, fatta per sua essenza di indeterminato: un prodotto<br />

delle correnti, che non si coglie con la geometria dell’angolare<br />

e del chiuso, benché possa ospitare (ma sono aggiunte di<br />

castelli in aria) una linea retta o un triangolo.<br />

Mentre si esalta nel giro lievissimo delle trasparenze interne,<br />

con velari, sipari e cortine che imbozzolano senza fine lo spazio,<br />

in un altro riquadro (forse il più bello della serie) il processo<br />

della luce è drammatico. Ci sono lampi, frantumazioni<br />

e forme in aggetto. Una sorta di esplosione bianca convoglia<br />

crolli di materie e folate di gialli: colori chiari e rotanti intorno<br />

ad un corpo ottenebrato. Così il buio appare per quel che<br />

è: un effetto celeste. Un addensamento di oscuro nell’alto.<br />

I libri infine (impaginazioni-immaginazioni parallele a nove<br />

scrittori) coordinano le immagini nella fantasia della nuvola.<br />

Il libro è una nube sfogliata e cucita in cui si direbbe venga<br />

riassunto l’universo a partire dagli elementi.<br />

Acqua, Aria, fuoco e l’asteroide Terra.<br />

(1) Testo pubblicato su “Artisti a Mantova nei sec. XIX-XX”, Archivio<br />

Sartori Editore.


Immagine cercata e chiamata<br />

Luana Trapè (1)<br />

Luana Trapè intesse delle fiabe plastiche e pittoriche, nelle quali<br />

ciò che più conta, almeno credo, è l’istante nativo delle immagini,<br />

voglio dire il primo apparire del fantasma, il suo affiorare<br />

tra luce e ombra, lo stare a metà tra l’emergenza e la definizione<br />

descrittiva. Ma ciò non implica affatto un’incòndita irruenza<br />

L. Trapè, Vocali, refrattario smaltato, cm 45 h (particolare).<br />

742<br />

dello stile. Non significa che l’elemento impulsivo venga pronunciato<br />

allo scoperto, in maniera irriflessa e informe, poichè è<br />

facile constatare che l’aggallamento delle figure non avviene<br />

mai nell’incontrollato abbandono all’estatico e all’irrazionale. Di<br />

mezzo ci sta la consapevolezza dell’espressione, quel che si potrebbe<br />

chiamare il filtro della finzione e dell’ironia, il sapere cioè<br />

- e il saperlo in ogni momento - che i sogni si comunicano soltanto<br />

facendo loro attraversare il regno delle forme. Per di più<br />

ogni figura, in apparenza sorgiva e così immediata, è in realtà<br />

preceduta da lunghe fasi di appostamento, in modo da depositarsi,<br />

quando infine appare, in un largo alveo di attese.<br />

L’immagine è insomma cercata e chiamata, anzi invocata, come<br />

ci assicura una parola tematica che talora risuona nei commenti<br />

o nei titoli delle opere, ad esempio in quel Castello delle invo-<br />

L. Trapè, Castello dell’attesa, terracotta smaltata, cm 78 h.


L. Trapè, Vocali, refrattario smaltato, cm 16x23x18 (particolare). L. Trapè, L’isola, refrattario e smalti, cm 52x23x16.<br />

cazioni, dove personaggi enigmatici, volti, maschere e animali<br />

fantastici si affacciano agli oculi e tra i battenti socchiusi di un triplice<br />

cilindro augurale, che riporta alla memoria l’idea di un antico<br />

osservatorio e di una ruota delle predizioni.<br />

Ed è una citazione, quest’ultima dai lavori dell’85, che subito ci<br />

fa sostare su una importate matrice del figurare, su quel mondo<br />

di favoloso primitivismo, per metà culto e per metà popolare,<br />

che i medioevi fantastici di un Graf o di un Baltrusaitis ci hanno<br />

abituati a riconoscere. Gli universi degli ibridi, delle congiunzioni<br />

impossibili e dei lacerti viventi, delle montagne magiche e dei<br />

paesaggi metamorfici. Mondo, occorre aggiungere, che vive contemporaneamente<br />

nelle parole e negli spazi pittorici, ma anche<br />

nella natura e nell’ambiente stesso in cui abita la Trapè: nelle<br />

Marche incantate delle Sibille.<br />

Doppia virtù: avvolgente suggestione della cultura e della natura,<br />

per cui lo sguardo trama catene di metafore personali e intraprende<br />

la singolare impresa di comporre, tra cime, antri e avvallamenti,<br />

una sottile autobiografia immaginaria. Una autobiografia,<br />

lo si è detto, in forma di fiaba.<br />

Nell’usare questo termine, nel dire che si tratta di una scrittura<br />

743<br />

che interpreta la vita, non voglio indurre chi legge ad alcuna riduzione<br />

qualitativa. Basta pensarci un momento e ci si convince.<br />

L’autoritratto non è forse uno dei luoghi più frequentati dalla<br />

fantasia?<br />

Mediante una pratica polivalente, che non solo alterna la pittura<br />

alla terracotta e al disegno, ma spesso li conglutina nelle tecniche<br />

miste e nella dialettica del rilievo e della superficie, l’artista<br />

compone i capitoli e i cicli di una esistenza rimontata nei labirinti<br />

della réverie.<br />

Si di-verte (si distrae per ritrovarsi) nell’esercizio delle fantasticherie<br />

primarie, primarie al punto che il gioco dell’eros e della<br />

aggressione, del maschile e del femminile, configura alcune stazioni<br />

ricorrenti. E nello stesso tempo sottopone l’occhio all’attraversamento<br />

delle geografie artistiche dell’Anno Mille, fra gli echi<br />

del romanico, dei primitivi catalani e, probabilmente tra poco,<br />

visti certi esercizi incipienti, dell’iconografia bizantina, greca e<br />

macedone.<br />

La Trapè ha iniziato nell’ ‘84 modellando il suo primo volto d’ombra:<br />

una pietra ovoidale in ceramica sulla quale una mano candida<br />

dischiude, con levissimo cenno, una bianca cortina. Lo ha chia-


mato Enigma ed è il mistero della profondità, del buio insondato<br />

di una sfinge. Forse l’archetipo del viso femminile riportato alla<br />

elementarità della terra e della maschera, in un viluppo di rinvii<br />

silenziosi dall’oscurità al candore, dall’interno all’esterno, dalla incombenza<br />

silenziosa alla attrazione seducente.<br />

Immediatamente dopo viene la terracotta smaltata Dama drago<br />

cavaliere, titolo che in una lettura seconda varrebbe la pena di<br />

proferire d’un fiato, senza cesure fra le parole, poichè i motivi<br />

conduttori confluiscono e si confondono l’uno nell’altro rendendo<br />

impraticabile la segmentazione narrativa in unità separate. Penso<br />

che vi si debba vedere una inconsueta versione, o meglio una<br />

versione ritirata alle origini (ecco che qui spunta il Narciso primario<br />

con la sua voglia di onnipotenza!) della leggenda cristiana di<br />

San Giorgio, della principessa e del drago. Perchè ritirata alle origini?<br />

il fatto è che, mentre la cultura, di cui l’ordo finale della leggenda<br />

si fa portatore, si affanna a porre delle distinzioni e a rassicurarci<br />

sulla vittoria dell’attante glorioso, l’artista al contrario rituffa<br />

il mito all’indietro, dentro il gorgo anteriore della indistinzione.<br />

Lo riporta nel Nero, là dove le forze vitali sono ancora confuse<br />

e ambivalenti, dove il cavaliere (per altro inscritto e fuso nella<br />

L. Trapè, La risposta dell’ombra, 1987, terracotta, cm 73x64x1 (particolare).<br />

744<br />

voluta d’un pastorale) è la dama; e il drago il cavaliere.<br />

Già si capisce da questi pochi cenni che se la Trapè ha la vocazione<br />

al racconto e al ‘diario’, una propensione che la porta a stilare<br />

sequenze di fogli come materiali di un ciclo (a proposito del<br />

quale sono eloquenti e tutti da vedere gli acquarelli), spesso riformula<br />

tuttavia il racconto sulla soglia della metafora, come se<br />

si proponesse di bruciarlo in un tempo brevissimo, appunto nell’istante.<br />

E oltre a ciò viene fuori una seconda caratteristica formale,<br />

quella per cui la stessa fiaba si snoda in una biforcazione,<br />

è anfibologica, equivoca, attraente-repulsiva. Si badi, a questo<br />

punto, sia alla declinazione dei temi sia alla struttura delle immagini.<br />

In genere l’opera si articola in poche batture essenziali,<br />

due o tre al massimo, da cui dipendono tanto le direttrici visive<br />

che le conseguenze cromatiche. Elenchiamone alcune: il chiaro<br />

e la gamma dei grigi, il blu e il giallo, il rosso e il bianco. Oppure:<br />

l’ovale e l’ellittico, il rotondo e l’acuminato, la diagonale e<br />

l’orizzontale, il murato e il socchiuso. E tanto basti per non raggelare<br />

in piccoli schemi quel che viceversa agisce nel calore<br />

delle emozioni.<br />

Quanto poi ai significati, producono anch’essi l’effetto di un cangiante<br />

rimescolamento di contrari o di una sorta di percezione<br />

contrastata, a zig-zag, frizzante, dolce e acre. Vi trovi il veleno e<br />

insieme l’antidoto. La dolcezza e la crudeltà. Naturalmente una<br />

crudeltà temperata, fatta levitare dal gioco dei mascheramenti e<br />

abbastanza ironizzata per capovolgersi nel suo opposto. In certi<br />

casi avviene che un versante di senso finisca per prevalere sull’altro<br />

e lo induca temporaneamente a eclissarsi. Allora il puro<br />

mostruoso, l’orripilante, l’ignoto lasciano in ombra i loro usuali<br />

complementari, come si vede in un’altra opera dell’ ‘84, la Chimera,<br />

raffigurante un pesce gonfio dalle pinne puntute, fors’anche<br />

alato, ma con ali d’abisso.<br />

Da simili nuclei prende quota una galleria di effigi che si alternano<br />

nel racconto sferico del Castello che ho già ricordato, fantasmi<br />

che sono teste d’antefissa e balene di Giona, ceffi e corpi<br />

caudati, sirene, mentre in cima alla torre una mano invita ad assistere<br />

allo spettacolo delle apparizioni e a stupirci dell’inattesa<br />

Wunderkammer.<br />

Concluso il giro d’ispezione, possiamo ormai disporre delle cifre<br />

e dei semi di base, per dir così, del racconto. Abbiamo un glossario<br />

sufficiente per seguire nell’intimo i montaggi e in partico-


L. Trapè<br />

Achille e la tartaruga, 1987, terracotta smaltata, cm 21x30x20.<br />

lare la costruzione dell’autoritratto sotto le speci dell’albero e<br />

della montagna. Né sarà il caso di commentare la rilevanza dei<br />

motivi esoterici, junghiani soprattutto, consegnati alla presenza<br />

di uccelli, pavoni, rami spezzati e innumerevoli altri talismani,<br />

giacché, oltre ad essere decriptabili con un po’ di pazienza, invoglierebbero<br />

ad inseguire soltanto una vicenda combinatoria di<br />

contenuti. Interessa molto di più tener conto dell’estrema libertà<br />

con cui vengono manipolati, una variabilità grazie alla quale gli<br />

elementi in gioco sono funzionalizzati all’obiettivo della fabula.<br />

Quale fiaba?<br />

È una sequenza di microstorie e di episodi immaginari in cui un<br />

posto rilevante è occupato dai sortilegi endo ed eterodiretti, da<br />

‘piccole’ vendette narcisistiche, da offerte compensatorie e autoriflessioni.<br />

Il volto muta, è in preda alla metamorfosi. Era pietra<br />

e pianta. Ora appare perfino divinizzato, animalizzato in accezione<br />

sacra, elevato a cometa. Memore dell’Amalassunta liciniana<br />

(questo ricordo non poteva certo mancare), che volava fra<br />

Monte Vidon Corrado e Fermo, per correre fino a Recanati e trasmigrare<br />

nei cieli del Veneto, la Trapè riafferra la luna e vi si immedesima<br />

con sublime improntitudine. Guarda verso il basso e<br />

allunga una mano nell’offerta d’un dono.<br />

Qui, viene da pensare, fra le cime ascolane, non sussistono ancora<br />

le tracce di antichi incantesimi?<br />

Parrebbe di sì, se questa nuova Sibilla-Luna s’è decisa a compiere<br />

un rito di assassinio e, credo, di trasformazione. Una sorcellerie,<br />

un atto di spossessamento e di stregoneria estetica.<br />

745<br />

Il sogno ambivalente, ambivalente perchè si tratta di un corto<br />

circuito di andata e ritorno, si coglie bene nel confronto fra due<br />

opere dell’86, il Sortilegio e il dittico verticale di Occorre sporgersi<br />

nel vuoto. Mentre in uno il volto della ‘maga’ osserva dall’alto,<br />

impassibile e contemporaneamente in attesa, l’artista trafitto<br />

sulla curvatura della terra da una penna cerimoniale, il secondo<br />

configura l’unione o quanto meno un’ipotesi-desiderio di<br />

redenzione, uno speculum pacis, così come si vede anche nel<br />

particolare dipinto di un Istante prima.<br />

L’idea dello specchio e del riflesso, cioè dell’immagine dipinta e<br />

non di un fatto plastico (e, direi, della pre-figurazione al posto<br />

del compimento), si concreta nella relazione fra due ‘piattezze’:<br />

fra la superficie, trattata in modo da ottenere effetti da affresco,<br />

di alcune tavole di terracotta sagomata, e la tela dipinta. Cosa<br />

che ribadisce, se ancora ce ne fosse bisogno, la libertà sperimentale<br />

dell’autrice, che non si lascia certo imprigionare nelle<br />

consuetudini artigianali dei ceramisti.<br />

È una questione di attese, di porte, di soglie da varcare.<br />

Perciò ha potuto scrivere, parlando di sé e del piccolo gruppo di<br />

cui fa parte, Il basilisco, una dichiarazione rivelatrice: "Siamo orfani<br />

di Tapiès e di Nanni Valentini. Non innalziamo un monumento<br />

aere perennius: cerchiamo l’Ego in un pagliaio".<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Luana Trapè. Interesse nelle<br />

fiabe”, Galleria d’Arte “Massari”, Ferrara, 1987-1988.


1988<br />

Da Carol Rama<br />

a Concetto Pozzati<br />

Come in un cabaret<br />

Carol Rama<br />

Mitogramma<br />

Gino Gorza<br />

Il personaggio liciniano:<br />

un invito al silenzio<br />

Osvaldo Licini<br />

Il pensiero dell’antico<br />

Aurelio Nordera<br />

A che punto siamo con i fiori<br />

Concetto Pozzati


Come in un cabaret<br />

Carol Rama (1)<br />

Come parlarne? Come parlare di un’artista che si dichiara analfabeta<br />

nella storia ‘illustre’ della pittura e i cui referenti sembrano<br />

stare prima dell’arte e toccare la vita? Un’artista che asserisce di<br />

dipingere servendosi dei segni di tutti, che di fatto rilancia le<br />

principali figure dell’immaginazione infantile (quelle ’fissate’ in<br />

un vocabolario anteriore alle grammatiche: lingua, bocca, occhi,<br />

sesso, corpo...) e non di rado preleva o ricopia, come altrettante<br />

onomatopee, le immagini del bazar domestico e, in tempi piu<br />

recenti, dell’inferno roseo, sulfureo, nero, dorato della città?<br />

Occorre seguirla in affermazioni così nemiche ai programmi e<br />

alle teorie del fare?<br />

C. Rama, Nuove seduzioni, 1985, carta intelata, cm 48,5x33,4.<br />

748<br />

Non lo crediamo; o meglio pensiamo che Carol abbia interesse<br />

a non voler saper nulla di teorie, di progetti e costruzioni dell’arte.<br />

Non sa che farsene di significati e di funzioni della pittura. Se<br />

l’immagine minaccia di tradursi (tradirsi) nelle frasi di un pensiero<br />

classificatorio, subito avverte il falso in agguato ed è presa<br />

da sospetti di infedeltà. Non perché respinga la finzione (che<br />

ama), quanto perché fra le sue molteplici forme persegue ostinatamente<br />

quelle che riescono a darsi, a diventare vere, non calcolate:<br />

le menzogne, per così dire, che si possono indossare. Nel<br />

vestirsene e abitarle (allora si trasformano in invenzioni), il falso<br />

scompare e subentra la verità dell’azione.<br />

Come? Per cancellazione e aggiunta, mutilazione e potenziamento.<br />

Facendo leva sul più e sul meno, l’insignificante viene<br />

annientato a favore dell’espressivo. Buona parte dell’opera è<br />

nata dalla abilità prestidigitatoria della maschera che ha saputo<br />

far fruttare le attrezzerie nascoste della casa, gli oggetti-démoni<br />

meno rassicuranti e, proprio per questo, più ricchi di animazione.<br />

Oggetti in genere (ma non sempre) inferi, nascosti, pericolosi,<br />

denigratori; i motivi da cui far scaturire una catena di choc amorosi<br />

e rivendicativi: il rasoio, ad esempio, con cui viene decollato<br />

l’Amabile (che è poi il padre detentore del Simbolico), o la coroncina<br />

per la madre-sorella.<br />

Tutto recita. E recita ininterrottamente il Narciso che, uscito dal<br />

grembo, si incontra con la propria sfinge e metamorfosa il<br />

mondo seguendo una volontà di totalizzazione. Decostruisce<br />

l’Edipo e riplasma la madre-figlia infelice.<br />

Poco importa che le immagini siano ingenue, popolari, ricavate dai<br />

libricini dei barbieri o da Vogue. E meno decisiva di quel che sembri<br />

è l’eteroclita radice dei motivi, l’in-coerenza delle ‘fonti’. Storicamente<br />

ha funzionato un clima, l’atmosfera artistica d’una città più<br />

d’ogni altra, in Italia, vicina ai sogni surrealisti. Sono contate le musiche,<br />

il piacere del canto e del palcoscenico, i poeti.<br />

Frequentatrice di un mondo lunare e traumatico, poeticamente restituito<br />

mediante una grafia aggressiva e al tempo stesso dolcissima,<br />

luciferina e impulsiva, tenera e angelica, Carol ha percorso le<br />

notti di Torino e ascoltato i segnali della pittura e della parola.<br />

Ma se l’artista sta nel suo tempo fino in fondo, contemporaneamente<br />

coltiva un’ostinata passione per i segni tabulizzati, negletti e<br />

nascosti che vuol rendere splendenti. E questi segni ripudiati, pescati<br />

nelle stanze segrete e per lo più circolanti nelle complicità de-


C. Rama, Seduzione, 1984, tempera e acquerello su carta intelata, cm 43x73.<br />

C. Rama, Fuochi fatui, 1985, tecnica mista su carta intelata, cm 45,3x59.<br />

749


moniache e amorose, li articola con ostentata eleganza, con la<br />

forza di un esplosivo ornamento, senza pudori ed eufemismi.<br />

Insegue l’avventura dentro lo specchio, nella cornice di una ininterrotta<br />

teatralizzazione virtuale in cui i segni rimbalzano per la<br />

loro carica conoscitiva e poetica, perfino ‘terapeutica’. L’atemporale<br />

che si legge sulle tele è in realtà l’intromissione di un universo<br />

censurato, cacciato fuori dal tempo, che si prende la rivincita<br />

in mezzo alle cifre della storia, intendendo riconoscersi<br />

C. Rama, Venezie, 1983, carta intelata, cm 36,8x30.<br />

750<br />

senza ombre, come si vede negli esercizi di sovraimpressione<br />

perseguiti nei Sortilegi, in Afrodisiaca o nei Lari cancellati: mondi<br />

inediti che s’inarcano al di sopra dei “disegni tecnici”, ‘dentro’ le<br />

macchine e i progetti di edifici, derisoriamente assunti come<br />

supporto da trasgredire con una divergente ed espansiva concezione<br />

dello spazio.<br />

A considerar bene la genesi di certe figure sbeffeggianti o esibizionistiche,<br />

si sente che esse nascono in uno stato, sia pure


torvo, di innocenza che non può essere confuso con la fantasticheria<br />

da seppellire nella solitudine. Ciò che sentiamo premere<br />

sotto i segni e dietro le cose che quei segni richiamano, è una<br />

vicenda di struggimenti e di empiti attoriali. C’è il gioco dell’inganno<br />

e del travestimento, del recitativo lirico, con tutto un rimescolamento<br />

di memorie, paure e cortocircuiti esistenziali<br />

reimmaginati sulla scena.<br />

Il vecchio mondo dei crepuscolari pare rovesciarsi come un<br />

guanto e rivelare il sottomondo saturnino in ebollizione su cui<br />

era caduta la tela dei poeti ironici e gentili. Certo questa pittura<br />

può apparire estravagante e sradicata. Ma non è cosi. Alle sue<br />

spalle sta una cultura che la spiega, almeno a distanza; quella<br />

temperie non solo torinese ma europea che, dopo aver assorbito<br />

i miraggi della Secessione e dell’ Art Nouveau, sul finire del<br />

Trenta macinava istanze di rinnovamento. Si sente che fra i Gozzano<br />

e Carol Rama c’è stata di mezzo un’altra generazione. Dopo<br />

Casorati altre muse inquietanti. E non per nulla scopriamo, fra gli<br />

amici e interpreti della pittrice, Galvano, Mila, l’autore di Laborintus,<br />

di cui vengono in mente le “strutturali complessioni della<br />

Palus Putredinis”.<br />

“Sono convinta di abitare bene le mie paure”, dichiara Carol.<br />

“Appena sono felice penso alla morte". Ma per comprenderne<br />

bene le ragioni d’immagine, c’è voluta, per noi, una scoperta.<br />

Alla fine del Settanta l’artista si decise finalmente ad esporre un<br />

ciclo giovanile di acquerelli, dipinti fra i diciotto e ventiquattro<br />

anni: tutto un fascio di carte sulle quali aveva raffigurato le proprie<br />

recitazioni ossessive. Oggetti perturbanti della genealogia<br />

familiare e irriducibili oggetti di identificazione: girocolli, scarpe,<br />

scopini, pennelli, protesi, occhi di vetro, letti, sedie a rotelle, dentiere.<br />

E mentre dava vita ad un suo struggente armamentario, vi<br />

poneva al centro una figura mutilata e irridente, la madre rivendicata,<br />

se stessa, Proserpina in forma di Kore, colpita da sincope<br />

tranne che nel volto e nel sesso: l’Appassionata, forse il proprio<br />

Narciso con attitudine eroticamente offensiva, il mimo autosufficiente<br />

e provocatorio.<br />

Era la scoperta delle risorse del corpo e delle sue arti teatrali.<br />

Nonostante le innumerevoli ferite, tutte quelle mutilazioni e<br />

quei reperti esibivano un’irresistibile carica vitale. Apparivano<br />

ilari, sulfurei, eccitati e eccitanti. Più cresceva il cumulo dei frammenti<br />

e più quei frammenti germinavano motilità.<br />

751<br />

Squallore e perdita si ribaltavano nel loro contrario, irraggiando<br />

splendori rosati madreperlacei, quasi un principio di luce nei neri<br />

e grigi delle figure, nei gialli, ocra e verdi teneri. Una luce in cui<br />

l’effigie proibita dell’incoronata, quale che fosse lo spazio in cui<br />

era colta, dai “Due pini” alla vetrina del macellaio, era lo scrigno<br />

e l’emblema più intenso.<br />

È indubbio che da lì, da quel lontano paragrafo di immagini, è<br />

venuto il senso dell’itinerario successivo: l’attraversamento obliquo<br />

del <strong>MAC</strong>, la fase astratta e materica, e l’attuale ritorno all’<br />

attrezzeria fantasmagorica, con l’aggiunta del bestiario, che articola<br />

stazioni simili alle tappe di un mistero romanico. Solo che il<br />

paesaggio si è allargato fino a comprendere l’intero corpo di una<br />

casa, di un cantiere o di una vita, escrementi industriali e viscere<br />

tecnologiche; le mappe catastali e gli alzati di palazzi antichi<br />

ricoperti dalle deiezioni dorate delle Afrodisiache.<br />

I recenti allegati delle Seduzioni si capiscono in questa frenesia di<br />

declinazione al plurale, animati, come sono, da una moltitudine di<br />

angeli cadenti dalle piume d’unghie finte, da porcospini, upupe,<br />

barche d’anime, membra aggallanti su acque d’Acheronte, rospi,<br />

tori e donne purpuree. Si ha l’impressione di una dilatazione di<br />

tracce che fa pensare alla Nadja bretoniana. Ma è il Narciso rosso<br />

che si rifrange sulle onde-eco d’una geografia sempre più ampia<br />

che gli consenta di dominare lo stagno dell’aldiquà.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Carol Rama”, Casa del Mantegna,<br />

12 marzo-10 aprile 1988.


Mitogramma<br />

Gino Gorza (1)<br />

L’ultimo ciclo di opere si intitola Mitogrammi e ogni dipinto - lo si<br />

vede subito - costituisce una visione a sè, un accadimento precipitato<br />

al momento ‘giusto’ all’interno della serie. Ciascuno di essi<br />

porta il sigillo di un numero, quasi ad aprire delle spaziature tra i<br />

grani della collana. I, II, III... fino a Luna e Acropoli, che a differenza<br />

dei precedenti sbocciano su un nome e concludono. Al loro<br />

fianco vengono esposti lavori degli anni Sessanta, Impronte e Panoplie,<br />

ai quali s’apparentano per la comune tessitura araldica<br />

delle superfici, per il monocromatismo sfibrato dei segni e lo<br />

scavo di rifratti motivi scritturali e chimerici nell’incisione delle<br />

materie. Si apparentano ma anche si distinguono in ragione di<br />

una sottigliezza maggiore, essendo ora ancor più alitante e velato<br />

il distendersi dei temi ornamentali sulla piattezza delle tavole.<br />

"Mitogramma - dichiara l’artista - è scrittura iconica di cui il tempo<br />

ha disperso il codice e la cifra. Residui d’una referenzialità indelimitabile<br />

e, quali si trovino, prestigi della pittura".<br />

La definizione è talmente densa che ogni parola andrebbe commentata,<br />

ma ci basta sostare su un punto, osservando che non<br />

il mito nella sua interezza le opere espongono, ma un ‘nome’<br />

parziale, un segnale spezzato, poiché il dipingere configura<br />

campi simbolici incipienti che rinviano ad una quiddità non soltanto<br />

abscondita come il divino della mistica, ma disattesa ed<br />

eclissata. Un duplice ordine di cadute è così responsabile della<br />

perdita. Se per un verso lo sguardo patisce l’insufficienza di un<br />

mondo in cui le forme (figure) appaiono instabili e discontinue,<br />

incerte e ottenebrate, sempre distanziate dalle energie (il mito,<br />

l’Imago) dalle quali promanano, per un altro si tratta anche di<br />

una lontananza ingigantita da un’epoca senza memoria. Colpa di<br />

un’età che, se è innamorata dell’intensivo, lo interpreta in modo<br />

meccanico e combinatorio. Il pittore si richiama invece (e qui risulta<br />

palese il suo resistente aggancio all’inchiesta primonovecentesca<br />

sul simbolo) alle sotterranee acque della visione, cerca<br />

prototipi e archetipi sotto lo fantasmagoria del visibile. Soprattutto<br />

interroga l’intimità della coscienza. Un’astrazione? Per certi<br />

aspetti sì, dato il desiderio dei puri nomi. E tuttavia non il rigetto<br />

delle cose, quanto un cercare nei corpi i calchi del nascosto,<br />

un attendere che gli atti essenziali si incidano nella pasta del-<br />

752<br />

l’esperienza. Ma quando e fin dove? Come giocare il merito della<br />

pittura? Pratica concreta, impasto di tinture e di forme, il dipingere<br />

è chiamato ad accogliere la carezza residua del mito, i suoi<br />

ultimi lembi.<br />

Figura, cioè incompiuta e difforme rifrazione dell’Imago, è allora<br />

ogni tema pittorico. Un ‘frangente’, un’incisione dell’immaginale.<br />

A garantirne lo reciprocità v’è l’intuizione poetica del lega-<br />

G. Gorza, Airone, 1961, tecnica mista su tela, cm 170x90.


me, l’idea rilkiana della mano automatica che "scriverà parole" indipendenti dalla<br />

volontà. Ma oltre ai suggerimenti sottesi ai Quaderni di Malte, ai quali si ispira una<br />

tela del ’61, interviene un’altra convinzione. Come per gli esegeti della Scrittura (e<br />

Gorza, occorre ricordarlo, è stato in giovinezza un lettore accanito di Dionigi Areopagita),<br />

il mondo fornisce le metafore e i sostantivi tramite i quali la creazione rinvia<br />

a chi l’ha prodotta; ed il pittore, cantore dell’Artifex, celebra l’irradiazione della<br />

bellezza divina decorando gli spazi di trame vegetali e zoomorfe. Dalla pietra alla<br />

piuma, dalle effigi ferine all’uomo, dalla pinna al serafino, l’occhio percorre una<br />

scala di affinità e si installa attivamente nella genesi con l’artificio della sua alta<br />

mimesi. "La materia - si legge nella Gerarchia celeste -, avendo ricevuto l’esistenza<br />

da chi è veramente bello, possiede secondo tutta lo sua disposizione materiale<br />

alcune tracce della bellezza spirituale; ed è possibile risalire da queste verso gli<br />

archetipi immateriali, a condizione di accogliere le somiglianze in modo dissimile<br />

e definirle non nella stessa maniera".<br />

G. Gorza, Araldica, 1963, pasta alta su legno, cm 116x90.<br />

753<br />

Non si faccia carico al pittore di questa (fin<br />

troppo esplicita) citazione, ma il concetto<br />

della dissomiglianza che declina la similitudine<br />

ci è sembrato così vicino ad un risvolto di<br />

mito-gramma da non potervi rinunciare. Né<br />

trascurabile il nesso della figuralità con un’ornamentazione<br />

intesa a ribattere metricamente<br />

i passi dell’Opera. Ma bisogna subito precisare<br />

che la scrittura di Gorza procede in parallelo<br />

nei confronti della tradizione. Come in<br />

altri autori e senza enfasi profetiche lo sua<br />

pittura si lascia leggere su un duplice livello.<br />

Informali sono i costrutti delle "paste alte",<br />

dal ’57 circa fino alla metà del Sessanta. Neoliberty<br />

gli esercizi attuali. Dialetticamente antighestaltiche<br />

le Cronache del Settanta. Tutte<br />

fomentatrici dunque di interrogazioni e problemi<br />

attuali. Leggibili nell’oggi. Contemporaneamente,<br />

però, i dipinti contengono un secondo<br />

strato di motivi, lo scarto, ad esempio,<br />

fra icona e figura; o l’incompimento), una<br />

falda di tropi, che l’interprete è libero di cogliere,<br />

se vuole, ma che in ogni caso l’opera<br />

conserva quale nucleo più interno. Più che un<br />

dipingere difficile, quello di Gorza è un fare<br />

complesso, articolato su piani sovrapposti per<br />

incastro e analogia.<br />

Nei Mitogrammi lo spoglio degli strumenti<br />

rappresentativi è di una essenzialità (e scabrosità)<br />

sconcertanti. Sottoposta alla decolorazione<br />

totale, la superficie si organizza in<br />

pulsazioni d’ombre su una materia gessosa ricoperta<br />

di bianco. Un chiaro che sa di benda<br />

e di mummia, di velario rituale. E non per<br />

nulla il fondo ligneo ha la consistenza, oltreché<br />

la configurazione, di un pannello lapideo,<br />

di una porta o di un’anta. Per lo più rettangolare,<br />

talvolta lunato o composto nella misura<br />

equilatera del triangolo, il campo d’intervento<br />

preclude fughe verso l’esterno. Come la piat-


taforma designa l’area di una danza, così il supporto recinge lo<br />

spazio delle figure, l’oscillare dei segni. Se si cercano paragoni e<br />

metafore, li si trova allusi nelle idee e nelle virtù delle cose; nei<br />

movimenti e nella gestica del corpo riassunti nelle vibrazioni<br />

della calligrafia. Si ha l’impressione che il frammento segmentato<br />

di un’icona sia esploso e immediatamente raggelato, bruci per<br />

tramutarsi in fossile sotto la cortina di cenere chiara. In più il tracciato<br />

si snoda visibilizzando frequenze timbriche e grafemi sonori,<br />

una sorta di vocalità riportata ai moti della mano. L’animato<br />

vive lo spazio di un istante, allontanato non appena è accaduto.<br />

È lecito parlare di vuoto? Di spazio mortale fra l’oggetto e lo spettatore?<br />

Certo è che un effetto auratico avvolge chi osserva, portandolo<br />

a distanza contemplativa. L’adesione intima nasce dal<br />

contraccolpo di un senso ignoto e stampato in negativo che,<br />

mentre appare irrigidito, confinante col nulla, sprigiona echi psichici<br />

profondi. L’imago, o meglio quel che dell’imago si è iscritto<br />

sul quadro, tocca ora la mente e la spaesa continuando il suo<br />

cammino silenzioso. L’occhio non domina più il raffigurato, non<br />

può metterlo in prospettiva monocentrica, poiché una geometria<br />

deviante, a più fuochi, si irradia verso di lui. Perciò si capisce l’attaccamento<br />

di Gorza alla mise en cadre ribaltata di cui parla Flo-<br />

G. Gorza, Spina, 1965, pasta materica, cm 25x22,5.<br />

754<br />

renskij, ai pittori delle Maestà e delle icone religiose, dove l’apparente<br />

staticità dei moduli visivi ospita percorsi geroglifici; quadri<br />

dove l’io affronta l’Impersonale e la pittura annoda exempla.<br />

Un rarefatto corteo di metafore privilegia grafie da cogliere in<br />

controcanto, nell’alveo delle ombre portate, come brevi emanazioni.<br />

Sono tratteggi visivi prossimi all’alito e al velo, sigillamenti<br />

di fiamme e di chiome, dell’ala e del vento. Fioriscono senza<br />

essere progettati, decifrabili soltanto a posteriori come qualità<br />

inconsapevoli della mano che si è abbandonata alle direzioni ipnagogiche<br />

del vedere: le stesse che affioravano nelle “Impronte”<br />

irrompendo dallo scuro. Faremmo tuttavia torto all’autore se<br />

insistessimo sulla inconsapevolezza del dettato, perché le metafore<br />

portate alla luce sono l’esito di un filtro severissimo. Quand’egli<br />

si abbandona al fluire della sequenza figurale, tiene sveglio<br />

il senso della misura e della cadenza. Ed è questo battito ritmato,<br />

stretto e largo, acuto e circolare, che gli consente di sposare<br />

l’ornato, assorbendo nel giro coreutico delle forme i segni allusivi.<br />

Non un’intera danza, ma un incipit, un segmento, un primo<br />

accordo e forse un’apice o una conclusione. Sineddochi del<br />

mondo, tropi della mutazione si impastano di materia ferita. È il<br />

segno della sintonia-simpatia dell’artificio con l’immagine che si<br />

dà e sottrae. Il dipinto rifà e commenta l’evento nella frase metrica<br />

ed eletta. "Esemplarmente la danza, gesta intese alla cupola,<br />

esecutore della leggerezza nella petrosità dell’elemento, affronta<br />

l’alleanza della durezza e del peso. Il contrasto una scultura<br />

d’aria". Il proposito è chiaro: trascinare la percezione nella logica<br />

decorativa mediante "tracciati pantomimici" significa percorrere<br />

delle scale (quelle del ritmo, quelle della creazione) assoggettando<br />

lo pittura alla fluida retorica degli ossimori, richiamare l’alto<br />

e il basso, l’animale come l’angelo, la Gorgone e la Medusa<br />

come la volta stellata. "Dall’apodo al polipo al corpo-luce". Nel fitoteriomorfismo<br />

delle scaglie e delle gessate nervature si espongono<br />

memorie paniche di animali favolosi e di spiriti alati.<br />

Una pittura-cantico? O soltanto la promessa del commento?<br />

Come rispondere, se non con l’insofferenza dell’ombra che si fa<br />

disegno della luce?<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Albino Galvano - Gino Gorza. Sincronie”,<br />

Palazzo Te, Mantova, 1988.


Il personaggio liciniano: un invito al silenzio<br />

Osvaldo Licini (1)<br />

Pittore di stati sospesi ed estatici, esploratore di zone marginali e<br />

di confine dell’esistenza (“sono capace di tutto, anche di parlare<br />

dall’orlo della tomba, anzi, dell’oltretomba”, scrive nel ’47 a Maria<br />

Ghiringhelli occultandosi come di consueto sotto gli impalpabili<br />

ghiribizzi dell’uomo di fumo), Licini autorizza a seguire anche percorsi<br />

sinuosi e laterali per avvicinare i nuclei della sua opera. Violentissimo<br />

ed esplosivo, insofferente di attese e incapace di adottare<br />

il registro del distacco ironico quando si tratta di investire un<br />

rancoroso bersaglio polemico, sia esso un versante nemico della<br />

milizia artistica o l’ufficialità della cultura di regime, diventa all’opposto<br />

riservato nei confronti di ogni atto poetico. Nel timore di<br />

scalfire il miracolo della creazione, preferisce addentrarsi nei labirinti<br />

delle ambivalenze, accendendo paradossi e ossimori, anziché<br />

placarsi su una certezza, quasi a dire che proprio negli esercizi di<br />

spostamento del senso si mantiene intatta quella riserva di significati<br />

in cui maturano i prodigi delle metafore.<br />

All’artista (e a chi lo avvicina) tocca così camminare con passo leggero,<br />

facendo tesoro di dettagli in apparenza venuti per caso, come<br />

della numinosa accidentalità delle distrazioni, poiché il gioco al rinvio<br />

costituisce un elemento necessario per far funzionare le infernali<br />

macchine della fantasia. E se egli è (e rimane irrevocabilmente)<br />

tuffato nell’avventura del segno e del colore, della “volontà” -<br />

755<br />

ci ha voluto spiegare - e della “magia”, quale ufficio attribuire allora<br />

ai differenti universi espressivi, come il comporre racconti e il<br />

far versi, periodicamente frequentati durante tutta la vita, se non<br />

quello di compulsare scritture parallele in cui, per analogia e affinità,<br />

per ‘simpatia’ fra i diversi, si riverberano taluni fantasmi del<br />

pensiero pittorico? E non certo i semi o le cause germinali, ma i<br />

rimbalzi della sua principale meditazione? Che dire di certe propensioni<br />

alla performance del gesto e della parola, o della ciclica<br />

esperienza del silenzio? Forse occorre intenderli soprattutto come i<br />

luoghi propizi in cui letteralmente cadono, precipitano e fermentano<br />

i principi della ispirazione figurale, sì che potremmo definirli pretesti:<br />

incentivanti ‘occasioni’ per la produzione delle immagini.<br />

Di una di esse ci importa ora particolarmente. Vogliamo dire l’ ‘occasione’<br />

del teatro, l’idea (ma un’idea da traslare in pittura) che il<br />

passaggio dall’evidenza naturale delle cose alla ‘irrealtà’ del personaggio<br />

sia rinvenibile esemplarmente nell’arte trasfiguratrice<br />

della scena. D’altronde, più che una semplice impressione, è un<br />

fatto che non pochi dipinti liciniani appaiono intrisi fin dalla prima<br />

stagione di umori teatrali.<br />

Osservando gli olii del’ 17, noti come “Episodi di guerra” (così li intitola<br />

l’autore compilando dodici anni dopo il Questionario di Giovanni<br />

Scheiwiller), si scoprono figure di sapore clownesco e cabarettistico,<br />

modulate secondo principi vagamente coreutici. Non<br />

soltanto vi compaiono gli elementi imprescindibili della scenicità<br />

tipica dell’avanspettacolo, pattinatori e ballerine, sipari, luci di ri-<br />

O. Licini, Münchhausen, 1955. Pablo Picasso, Gli zupoli, ovvero la danza sulla spiaggia (Antipolis), 1946.


alta, quinte e fondali, ma gli stessi “soldati” ritratti in una notte<br />

lunare, distinti in aggruppamenti di scena e agitati da una motilità<br />

che coinvolge l’intera attrezzeria in un fervoroso raddoppiamento<br />

di ombre, battono frizzanti ritmi di danza. Per di più la fantasia<br />

scenica, lungi dall’esaurirsi nell’accidentale testimonianza del<br />

gusto modernista, quasi in ‘cartolina’ del tempo, ospita un evento<br />

fantasmatico, carico di conseguenze. Si affaccia qui infatti per la<br />

prima volta, in singolare anticipo sull’Arcangelo Gabriele e sull’Angelo<br />

del ’19, rielaborati un decennio più avanti, l’immagine topica<br />

di un crollo celeste. Come un Icaro scomposto, frana un corpo<br />

precipite nella vertigine del vuoto, non si saprebbe dire se angelico<br />

o demoniaco (pare perfino doppio, una coppia che sguaina<br />

O. Licini, Angelo color ciclamino, 1956, olio su carta, cm 20,5x27.<br />

756<br />

un’unica spada), forse il simbolo stesso dell’anthropos perduto. In<br />

ogni caso si configura un esilio, l’inizio di un’erranza di cui la scena<br />

è ora il campo rivelatore. Le notti lunari rimarranno poi in controcanto<br />

nei cicli ‘realistici’ (di un realismo però magico) durante gli<br />

anni Venti, finché il dettato pittorico sarà di nuovo sospinto a investigare<br />

l’interrogativo innescato da quel crollo.<br />

Come riassestare il cammino dell’esilio?, pare chiedersi Licini.<br />

Quale via intraprendere per invertire la stazione di caduta? Ciò che<br />

l’autore interpella quando riprende l’angelo e l’arcangelo è la potenza<br />

dell’aurora, l’ascesa di un’alba che “farà impallidire la luna”.<br />

E tuttavia un’aurora per nulla avversa al mondo notturno, quanto<br />

piuttosto energia aurorale e fecondante della notte medesima, co-


O. Licini, Marina, 1932, olio su tela, cm 27x20.<br />

757


me recita una poesia del ’33, in cui femminilità, notte e alba cooperano<br />

a innervare insieme una costellazione salvifica: “Nuda nel<br />

mistero / Da me fuggente/ Al sogno breve / Notte sei tu / La<br />

nostra alba”.<br />

Che la suggestione della teatralità svolga un ruolo nient’affatto secondario<br />

nel sollecitare la mitografia liciniana non è a suo tempo<br />

sfuggito a G. Marchiori, che già nelle battute iniziali dei Cieli segreti<br />

segnala nelle tele del ’17 il riecheggiamento di costumi e di<br />

temi coreografici dei balletti russi, accanto alla ironica e scoppiettante<br />

vivacità rappresentativa nel figurare “automi, che si muovono<br />

fra gli alberi di una foresta di cartone, al suono delle musiche<br />

di Strawinsky e di Satie”. Chiaro il riferimento alle immagini arlecchinesche<br />

e funamboliche della Parade di Cocteau e Picasso, vista<br />

allora a Parigi, ma operante sullo sfondo anche la temperie futurista<br />

che, per quanto eterodossa e tramata di una varietà di fili liberamente<br />

sdipananti dalle prime proposte dell’avanguardia, oltreché<br />

dagli scrittori paradossistici e satirici del gruppo fiorentino,<br />

O. Licini, Figura T3, 1932-45.<br />

758<br />

il pittore non disconoscerà mai fra le proprie motivazioni d’origine.<br />

È anzi da ribadire che tutta una parte dei brevi racconti di Bruto,<br />

stesi rapidamente nel ’13 e subito affidati al musicista Pratella perché<br />

li convogliasse su “Lacerba”, riattizza i dinamismi raccomandati<br />

da Marinetti nel Teatro di varietà. “Erano gli anni in cui<br />

un monologante Pierrot poteva fondersi al superuomo e al donchisciotte<br />

di marca fiorentina, Lemmonio Boreo; i tempi in cui i girovaghi<br />

e amanti delle stelle andavano cantando le loro cocottesche:<br />

Licini ascoltava e si nutriva di questa linfa” (G. Baratta). Risolto<br />

in una pura funzione del movimento, il protagonista è un<br />

grumo di forze esplosive, un pantomimo scatenato da cui erompono<br />

traiettorie gestuali che sconvolgono i rassicuranti interni del<br />

sentimento, salotti borghesi, boudoir e stanze dell’anima, in una<br />

sorta di anarchica chirurgia purificatoria. Bruto disarticola il suo<br />

stesso corpo strappandosi il cuore e trasformandolo in un oggetto<br />

da sketch spettacolare. E se Marinetti predica la “scomposizione<br />

ironica di tutti i prototipi sciupati” della Bellezza, anche Licini si<br />

produce in un fuoco di fila di dissociazioni fulminanti per immergere<br />

l’intensivo nella molecolare fluidità degli elementi, praticando<br />

lo sterminio del noto in nome di una visione antinaturalistica e<br />

rinnovata dell’uomo.<br />

Da Lautréamont a Jarry assume cadenze ‘sataniche’, predadaiste,<br />

disumanizzanti, facendone i preamboli di inediti protocolli formativi.<br />

A ben considerare i miti negativi con i quali si scontra, il vero<br />

oggetto della sua polemica è la cattiva effigie dell’umano, questa<br />

la essenziale ragione per cui gli par lecito far leva sulla decostruzione.<br />

Perciò solidarizza con chi intende smontare l’enfasi antropocentrica.<br />

Con buone ragioni si può anzi sostenere che un simile<br />

combattimento alimenta la molla che gli fa imboccare, sulla soglia<br />

del ’30, la via dell’ astrazione e della “geometria”, la molla, potremmo<br />

dire, dell’odio verso l’apparenza in nome dell’amore, essendo<br />

l’astratto, per lui, una grammatica per attingere la cosmicità<br />

della raffigurazione.<br />

In questa prospettiva tutte le alleanze, purché preventivamente<br />

sottratte ai rischi dell’ottimismo, sono possibili. “Non sopporteremo<br />

mai - dichiara - la soperchieria stupida che l’arte sia la riproduzione<br />

dell’uomo vestito o ignudo, cioè dell’uomo copiante eternamente<br />

la sua immagine esteriore in una specie di narcisismo<br />

idiota.” E con Carlo Belli, appena pubblicato Kn, concorderà su tutti<br />

quei punti in cui si denuncia l’antropomorfismo come una “profa-


nazione, un atto di prepotenza e di barbarie”.<br />

Ma fin dove si spinge e a cosa porta la volatilizzazione dell’uomocentro?<br />

VaI la pena di ricordare che in taluni autori, e nei poetidrammaturghi<br />

che egli aduna sotto la sigla congeniale dell’ispirazione<br />

ermetica, il sovvertimento dei sembianti naturali nel mettere<br />

a fuoco la dramatis persona fa appello all’astratto. Un’astrazione<br />

inusuale, parente dell’araldica e dell’enigma, intessuta di cifre e di<br />

imprese simboliche, tramite la quale l’apparenza ottica viene dissolta<br />

in una galleria di figure impersonali. Un gusto, questo, che nei<br />

casi più macroscopici si manifesta in teatro ancor prima che in pittura.<br />

“Chi è Amleto?”, si chiedeva Jarry nell’ atto di sovvertire il tutto<br />

pieno del soggetto tradizionale. “È più vivo di un uomo che passa,<br />

perché è più complicato, con più sintesi, è anzi il solo vivo, perché<br />

è una astrazione che cammina”. E da lui, come da altri (e con maggior<br />

evidenza nella linea che sfocerà nell’assurdo), la lezione del<br />

baraccone, con pantomimi, maschere, marionette, doppi e strenui<br />

costrutti artificializzanti, è rilanciata per portare alla luce un perso-<br />

O. Licini, Fili astratti su fondo bianco, 1930-31, olio su tavola, cm 26,5x20,5.<br />

759<br />

naggio nuovo, un attante doppio e insieme sintetico (si pensi al<br />

sotterraneo androginismo di Tiresia-Teresa nelle Mamelles di Apollinaire),<br />

una figura che cresce per aggregazione di elementi. Nascono<br />

presenze sceniche inquietanti, creature della combinatoria e<br />

montaggi fantastici, la cui ‘artificialità’ si sposa a motivi di sapore<br />

alchemico anziché inclinare verso il meccanico. Arte nel significato<br />

di trasmutazione, come accade di vedere anche nella Kunstfigur<br />

dei laboratori scenici al Bauhaus. Senso che è poi non troppo lontano<br />

da quello con cui il tema dell’ artificialità ricompare in Licini<br />

quando celebra, nel sodalizio con gli amici del Milione, trucco, frode<br />

e menzogna quali ingredienti della “volontà” artistica.<br />

Senza gli inganni del colore e della forma, egli sostiene, la “bellezza”<br />

non può nascere. Solo ricorrendo alle produttive invenzioni<br />

dello stile astratto può essere forgiato un mondo poetico più avvincente<br />

della faccia dell’uomo, un mondo che i “segni” e non gli<br />

informi magmi del sogno sono in grado di assicurare. Che sia in<br />

campo una stilistica tutta speciale, orientata a privilegiare le figure<br />

acentriche dello sdoppiamento e dell’ossimoro, del chiasmo e<br />

della sineddoche, lo si constata nelle prove coeve e successive, il<br />

cui geometrismo è ben altro che una razionalistica e ‘cerebrale’<br />

applicazione di principi come certe estremistiche dichiarazioni di<br />

poetica indurrebbero a credere.<br />

Vogliamo un esempio di un simile inganno? Pur di stroncare l’antropomorfismo<br />

di maniera Licini annichilisce il senso di superficie<br />

(“Quadri - scrive – che non rappresentano nulla”). E, adottando sistematicamente<br />

termini scanditi sul versante della costruttività,<br />

parla di azzeranti “costruzioni”, di “schemi astratti” e di “capricci”,<br />

come se, tranne la forma, tutto fosse davvero cancellato. Invece<br />

non è così. L’astratto ospita, in prima istanza occultandolo, il rinnovamento<br />

di un tema, e più precisamente una cosmicizzazione<br />

dell’umano. Così avviene infatti nel volto-maschera maliziosamente<br />

intitolato Composizione (coll. Giovanardi), dove la retorica<br />

dell’asimmetrico in funzione della crescita espressiva dell’immagine<br />

ripartisce obliquamente gli attributi del viso: il naso, la bocca,<br />

gli occhi, condensandoli in segni prosciugati che però si intensificano<br />

grazie all’andamento altalenante delle grafie. A un occhiocroce<br />

fa da contrappeso un’orbita-stella, a una guancia a scacchiera<br />

un “capriccio” astrale, secondo un’idea di mutabilità per cui una<br />

porzione speculare dell’immagine non ricalca, ma cambia e variamente<br />

combina un tratto precedente, come esemplarmente di-


mostrano i ‘mitici’ sviluppi delle “Amalassunte” e degli “Angeli”,<br />

le avventure grafematiche degli occhi e delle mani. Ma quel<br />

che più preme, ai fini di questa nota, è che una metafora teatrale,<br />

la maschera, si sia prestata a far da supporto alla menzogna<br />

efficace.<br />

Altre volte è un intero ‘personaggio’ o un ruolo a comparire. In genere<br />

un ‘corpo’ acrobatico, una forma in cerca d’equilibrio, una marionetta<br />

filiforme (Il drago, L’incostante). Gli stessi “Notturni” sono<br />

grandi scenari cosmici con vele, quinte e aquiloni. E qui l’incastro<br />

metaforico procede per sfogliamento interno, anzi per gemmazione<br />

senza fine. Dentro uno sviluppo a T si scopre l’albero, un corno<br />

lunare, un corpo con le braccia spiegate, una croce, un fiore. Potrà<br />

diventare un missile o una coppia di “amanti”, una lettera imma-<br />

O. Licini, Volare, 1956, olio su faesite, cm 24x31.<br />

760<br />

ginaria o una combinazione di numeri.<br />

Colpisce che nessuna parte stia isolata, dominante sulle altre; e<br />

che, se anche si tratta di una figura individua, le forme concorrenti<br />

a costituirla si annodino in una coralità. E tanti fiati spirino. Si dirà<br />

che è la luna-Amalassunta a danzare in cielo o l’Angelo a solcare<br />

gli spazi. Il che è vero, ma riduttivo. Tutte le parti si esibiscono,<br />

avanzano e al tempo stesso si sottraggono: il piede e la mano, i<br />

seni e il cuore, la coda-cometa, la bocca, le pupille e via di seguito.<br />

Si slacciano e si legano senza tregua in una specie di battito totale,<br />

sicché anche un elemento a suo modo circoscritto sfocia in<br />

altro da sé. Allude e rimanda. Torna a chiamare. Non si capirebbe<br />

altrimenti perché le parole-portafortuna tengano e non tengano,<br />

abbiano bisogno di sparpagliarsi in lettere, e cerchino la ‘combi-


nazione magica’ di un’inedita posizione o di una inattesa cromia<br />

per riproporsi, sì che ciascun segno riarticola lo spazio, compie<br />

un’azione, promuove un gesto. Gesto naturalmente scandito in un<br />

‘teatro’ puramente psichico, abitato da personaggi mentali per i<br />

quali la tridimensionale flagranza della reale scatola scenica, per<br />

non dire la stessa misura bidimensionale del quadro, risultano inadeguate<br />

a contenerne l’irradiazione. Anche dalle velature e dalle<br />

ripetizioni di segni scritti e dipinti si ricava, ha osservato Z. Birolli,<br />

“un annullamento del valore di superficie e di spazio e una sorta<br />

di cancellatura del tempo”, tale da “rendere vana ogni costruzione<br />

di immagini tridimensionali”. E, dunque, se di scenicità come<br />

‘occasione’ si può parlare, essa ha di mira personaggi senza storia<br />

e parabole calate nell’indeterminato.<br />

O. Licini, Castello in aria, 1932, olio su tela, cm 67x90.<br />

761<br />

Ora ci si chiede: se lo statuto del personaggio sulla scena reale<br />

esige che abbia commercio con la verbalità (non il mimo, certo);<br />

se esso vuole che i suoi comportamenti e le sue emozioni intrattengano<br />

uno stretto rapporto con quanto le parole, magari degradate<br />

e senza senso, vanno suggerendo, quale relazione si instaura<br />

qui fra i personaggi liciniani e il linguaggio dei segni alfabetici? Essendo<br />

in causa la pittura, non si tratta di riconoscere banalmente<br />

che le figure delle tele non parlano perché i quadri sono muti. La<br />

domanda si giustifica invece a partire dalla considerazione che il<br />

pittore introduce, sia nei disegni sia nei campi cromatici, delle<br />

brevi iscrizioni, quando non depone anche, fra tante cifre, un misteriosissimo<br />

5 sulla bocca delle “Amalassunte”. Talora sono molecole<br />

di parole, vocali e consonanti isolate. E se da un certo punto


O. Licini, Ritornano le sirene, 1950, olio su tela, cm 66x99.<br />

di vista egli recupera, rallentandone però il tempo mediante spaziature<br />

e distanziamenti, l’uso antico di cartigli, di leggende e scritte<br />

all’interno dei dipinti, una pratica - ha fatto notare M. Butor -<br />

diventata più rara da quando “l’évolution [...] vers un illusionisme<br />

de plus en plus poussé a rendu bientòt difficile le placement des<br />

inscriptions dans les tableaux” (Les mots dans la peinture), per un<br />

altro verso egli non fa che riprendere il gusto vulgato da chi, fra<br />

Otto e Novecento, era tornato a riversare sulle tele una enorme<br />

quantità di textures scritturali.<br />

Licini, però, non si limita a impiegare lettere e caratteri, calligrafie<br />

e monogrammi per restaurarne il valore plastico in una distesa<br />

pronuncia visiva. C’è infatti qualcosa di estatico e di visionario nel<br />

modo in cui, assumendo una parola scritta, la articola in sincopi o<br />

la condensa in emblemi, la fa ruotare o la segmenta, senza mai<br />

tuttavia cancellarla del tutto, analogamente a come non annulla e<br />

lascia trasparire i segni di un vecchio quadro allorché gli sovrappone<br />

la pelle di un nuovo dipinto. E giacché questa condotta stilistica<br />

(che varrebbe la pena di sondare radiografando gli strati na-<br />

762<br />

scosti, il palinsesto delle trasformazioni) appare sufficientemente<br />

sistematica per non essere considerata casuale, una ragione deve<br />

pur esserci che la spieghi. La più plausibile (e qualche critico l’ha<br />

osservato) è che, crescendo le immagini per stratificazione e rimontando<br />

le une sulle altre nel corso delle stesure, l’opera cerchi<br />

l’intensità corrodendo i confini semantici, ivi compresa la leggibilità<br />

unidirezionale delle iscrizioni. In un continuo andirivieni fra l’essere<br />

mostrata e nascosta, velata e dipinta, la scrittura è resa circolarmente<br />

intermittente, come fatta rientrare in se stessa e sospesa<br />

nella pronunciabilità. Resta insomma il suo fantasma, una R<br />

irradiante o una C, un gramma in bilico e senza suono, erratico e<br />

non più dicibile. Il che equivale a riconoscere un regime del segno<br />

in cui una forma appare non per riferire, bensì per suggerire e indicare;<br />

in cui una lettera si carica di forza perché tace ed è costretta<br />

a fare i conti col silenzio. Lì sta il suo portato ironico e poetico,<br />

l’alone di sensi che, rimanendo in sospensione, gli si possono attribuire<br />

decifrando scritti e dipinti. E ancora viene da chiedersi: è<br />

questo un ‘originario’ silenzio? Un silenzio prima-delle-parole, an-


teriore alla verbalità? È l’in-fans a mostrarsi? Se Licini parla di un<br />

“segreto primitivo del nostro significato nel cosmo”, un segreto da<br />

riattingere mediante “i segni rari che non hanno nome”, a quale<br />

profondo vuole discendere? A un primario che sta alle spalle, oppure<br />

nel futuro? L’errare va all’indietro o si spinge in avanti?<br />

Si è visto che la scrittura viene ammutolita e fatta tacere, educata<br />

a convivere con una notte dove si arrestano i sensi diurni e personaggi<br />

‘alfabetici’ difesi dalla falce lunare dirigono i propri battelli.<br />

Partendo dalla parola ‘com’è’, ci si spinge oltre i suoni, verso un<br />

‘post’ che tende a configurarsi come un rinnovato ‘ante’, un prima<br />

che sigilli la storia alla sua conclusione. A intravedersi è così una<br />

O. Licini, Assaggiare, 1933, olio su tela, cm 23x28.<br />

763<br />

stazione post-verbale, meta di un viaggio che conserva la memoria<br />

dell’esperienza e che, non sfuggendo all’arsura dei sensi, alla<br />

duplice complessione dell’“angelo” e della “iena”, della materia e<br />

dello spirito, tenta l’abbraccio con l’ombra. Questione non da poco<br />

se proprio sul motivo del silenzio Licini polemizzava con l’“incauto”<br />

che si era azzardato a leggere “la polvere che ricopre le cose<br />

di Morandi” citando Leopardi e l’Ecclesiaste, Platone e Piero della<br />

Francesca. Una polvere che era per lui invece deposito del quotidiano,<br />

grigia materia di deiezione, affatto lontana dalla luminosità<br />

del silenzio cui pensava.<br />

Notte e silenzio - ha ricordato di recente R. Tessari - erano le condi-


O. Licini, Amalassunta su fondo giallo, 1946, olio su tela, cm 21x26,5.<br />

O. Licini, Luna su fondo blu, 1943 ca., olio su tela, cm 20x26.<br />

764<br />

O. Licini, Personaggio, 1946, olio su tela, cm 20x26.


O. Licini, Amalassunta su fondo nero, 1949, olio su tela, cm 80,5x100.<br />

zioni inaugurali del perduto teatro del corpo, di un pantomimo<br />

operante nella comunione con la Physis, che un inno pseudopitagorico<br />

chiama “veneranda madre del mondo, notte e luce e silenzio”.<br />

Qui, citiamo, “l’alto silenzio di una notte lunare è la tonalità in cui<br />

si cela e si svela l’essenza che precede ogni inizio. [...] Il silenzio<br />

è ancora il suggello emblematico, l’impronta espressiva con cui<br />

si offre all’uomo l’icona della prima epifania. Arpocrate - quarta<br />

ipostasi dell’Horus egizio (unica ben nota ai Greci) - è raffigurato<br />

come un fanciullo divino assiso sul fiore di loto emergente<br />

dall’acqua primordiale, l’indice della mano destra poggiato sulle<br />

labbra chiuse. I silenzi di Physis e di Arpocrate sono due parentesi<br />

che fanno argine al mistero del passaggio dal non-essere all’essere,<br />

dall’oceano notturno dell’indistinzione al fiore solare del<br />

cosmo”.<br />

Quanto ha a che fare tutto questo con Licini? Quel che crediamo<br />

di scorgere è una sintonia di emozione e d’immagine involontaria<br />

ma non per questo poco suggestiva. Licini, senz’avere coscienza<br />

delle sorgenti mitiche ricordate da Tessari, disegna fantasticamente<br />

una condizione assai simile per i suoi personaggi.<br />

La Natura, come l’arte, è maestra di fecondanti metamorfosi. E a<br />

ribadirlo ci sono i gesti scanditi nel silenzio del cosmo dalle figure<br />

volanti: le cadenzate ostensioni delle mani e dei cuori, le ali e i<br />

765<br />

O. Licini, Amalassunta bella, 1952, olio su tela, cm 18,5x25.<br />

volti, i triangoli e i fiori astrali.<br />

E tuttavia occorre tener conto dell’ironia. Essa è forse un modo per<br />

interpellare un mito di fusione sapendo che è soltanto una meta<br />

incerta e un miraggio coltivato nelle finzioni dell’arte. Una ‘irrealtà’.<br />

Ciò nondimeno il pantomimo si mette alla prova e inscena con<br />

estravagante leggerezza una fosforica mappa di cenni. Sa bene<br />

che il disincanto si consola con la fantasia. Perciò Amalassunta può<br />

anche fumare, essere ilare, sbeffeggiare, sfidandoci a osservare la<br />

notte da una grande M issata sull’orlo concavo della terra.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Osvaldo Licini”, Galleria Fondazione<br />

“Bevilacqua La Masa”, Venezia, 1988.


Il pensiero dell’antico<br />

Aurelio Nordera (1)<br />

La porta modellata di Aurelio Nordera per la chiesa parrocchiale<br />

di Marengo fa pensare che lo scultore abbia voluto bagnarla nella<br />

luce diffusa del luogo. Forse lo stesso edificio, costruito da poco<br />

con disadorna modestia e con i semplici materiali che si impiegano<br />

oggi comunemente nelle abitazioni, gli ha suggerito d’immergersi<br />

senza enfasi nella chiarezza della campagna virgiliana.<br />

Tutt’intorno il giro dell’orizzonte è piano, alieno tanto dai contrasti<br />

d’ombre quanto dai forti riverberi, sì che la luce arriva dolcemente<br />

sull’abitato e piovendo s’appoggia ai muri come fossero<br />

quinte traslucide. E poiché anche la facciata della chiesa è un<br />

piano che l’accoglie e la rimanda, lo sguardo non si sente imprigionato<br />

nelle pur secche cadenze dei cementi sagomati e dei<br />

mattoni, ma cerca altrove, fuori dell’edificio e dentro l’atmosfera<br />

aperta, le occasioni per accendersi. Per effetto d’una cercata fu-<br />

A. Nordera, Vesti, 1989, terracotta, installazione.<br />

766<br />

sione, la porta e le sue figure gettate in bronzo, oltre a svolgere<br />

la funzione decorativa cui simili opere sono chiamate a rispondere,<br />

creano la suggestione luminosa, la sosta che fa da cerniera fra<br />

il paesaggio e il costrutto edilizio; anzi un nodo di condensazione<br />

in cui la smorzata verticalità della facciata, appena suggerita dal<br />

timido aggetto dell’edicola e subito contrastata dall’ampia gradinata<br />

d’accesso che tira verso il basso, prende fiato per rilevarsi.<br />

Chi lo conosce, sa che Nordera è artista di gusti misurati, amante<br />

di calibri essenziali e di pacate corrispondenze. Alla trama delle<br />

sue figure è sottesa una ricerca di sobri equilibri, una castigatezza<br />

sorvegliata dall’aspirazione, un timore d’eccedere negli slanci,<br />

e così lievi sono i crepitii dell’ombra nelle materie da far immaginare<br />

il fantasma plastico della luce che fruscia sulle epidermidi.<br />

Nelle opere recenti i corpi si disfano in mezze ombre e quasi svaniscono<br />

nell’ordito velato dei panneggi ospitando figure che l’autore<br />

chiama “del vento”, immagini accampate per sè sole, involucri<br />

e vesti che delle carne hanno solo il ricordo e lasciano intravvedere<br />

sotto il trasalimento un sogno di aeree e armoniche<br />

geometrie.<br />

Scultore tendenzialmente antisperimentale, Nordera ha il culto<br />

del mestiere, ma anche la tristezza, nei momenti migliori, di chi,<br />

stando nella modernità, vi cerca il pensiero dell’antico. E se talora<br />

lo inciampa la fede nella regola, riesce anche a variarla e a fare<br />

delle immagini qualcosa di inatteso puntando sul pittoricismo e<br />

sulla valenza allusiva della linea. Ribattendo a suo modo la memoria<br />

della tradizione, ha ricostruito a Marengo una metrica di<br />

spazi consonanti e di figure geometriche ideali. Alleggerendo i<br />

pesi ha modulato una visione ascensiva (la storia della Vergine) in<br />

cui il racconto comincia dall’alto, cala, per così dire, e alita nell’icona<br />

sospesa dell’angelo annunciante, mentre nei pannelli inferiori<br />

ha invertito il movimento, e i segni disegnano una scala di passaggi<br />

verticalizzanti, di modo che i quattro momenti delle predelle<br />

(Annunciazione, Maternità, Discesa dello Spirito Santo e Ascensione<br />

della Vergine) vengono ad alimentare una narrativa di natura<br />

circolare, data spesso per sottrazione e per via di assenze<br />

poeticamente efficaci: assenze perchè il mito religioso viene sfoltito<br />

di numerosi personaggi e le stesse figure cardinali affondano<br />

nel vuoto. Palpiti e attitudini, gesti e brevi bagliori: ecco quel che<br />

conta. Soprattutto il muto gioco degli sguardi, le reti delle visioni,<br />

da cui viene, benché i volti siano talora invisibili e quasi sottratti


A. Nordera, Porta bronzea, 1989<br />

chiesa di Marengo (Mantova).<br />

nella cavità dei panneggi, il suggerimento alla lettura. Seguendoli<br />

e insieme incrociandoli con l’andamento dei vuoti, si vede come<br />

le forme nascano e svaniscano, riappaiano e infine tornino ad annodarsi<br />

nei punti chiave della oscillazione visiva, anche ai bordi<br />

dell’ordito come per un interno richiamo di traiettorie. Così, come<br />

767<br />

si diceva, si calamita quel lume atmosferico che costituisce la<br />

molla segreta dell’intera modulazione figurale.<br />

(1) Articolo scritto sulla “Gazzetta di Mantova” del 20 novembre 1988.


A che punto siamo con i fiori<br />

Concetto Pozzati (1)<br />

Da qualche anno Pozzati va percorrendo in maniera esplicita una serie di raids sul fiume del<br />

tempo alla ricerca di segni che, com’egli avverte, vengono "da lontano". Segni e immagini di<br />

varia consistenza, situati negli anfratti della storia personale e collettiva, talora evanescenti e<br />

altre volte gravi come pietre. Quel che in molti casi li accomuna è il motivo delle origini, l’essere<br />

riferibili a una sorgente biografica o a una matrice culturale (la casa di Vo’, il padre, l’arte<br />

classica), oppure il nostos sotteso all’interpellanza di una materia alimentare (il pane, per<br />

esempio) o generativa, di sboccio e infiorescenza. A spingerlo verso simili incontri che avvengono<br />

soprattutto sotto il segno del linguaggio è una implacata passione ermeneutica che,<br />

mentre lo porta a sondare il destino dei nomi, intende ridare corpo e sangue a quanto il<br />

tempo sopravanza e lascia in secca sulla riva. Quest’occhio combattivo vuol fare i conti con le<br />

immagini traducendole nel vivo d’un arte che afferra, traduce, commenta, spossessa e a sua<br />

volta si trasforma nell’atto stesso di prendere e donarsi. Proprio in virtù di tanti emozionati at-<br />

C. Pozzati, A che punto siamo con i fiori, 1987, olio su tela, cm 175x200.<br />

768<br />

traversamenti, egli scriveva<br />

nell’82, a suggello d’un ciclo dedicato<br />

al confronto con i segni del<br />

padre pittore, che nel tradurre<br />

"amoroso" il "colore rivive, la pittura<br />

si fa più carnosa e si presenta<br />

rappresentando". E tuttavia, nonostante<br />

il pulsare della forma<br />

sotto la cadenza d’una mano che<br />

sa essere anche impietosa, compare<br />

Medusa, lo sguardo pietrificante,<br />

forse l’arte stessa con i suoi<br />

protocolli analitici e la sua intima<br />

malinconia, che inietta cristalli gelati<br />

nella carne delle immagini. Il<br />

racconto si frange così in scheggiati<br />

andirivieni di fogli strappati e<br />

ricuciti, di riquadri e stazioni, dove<br />

le immagini aggallano come fantasmi<br />

pellicolari in una luce di crepuscolo<br />

lattescente, una di fianco<br />

all’altra, nuda e racchiusa ciascuna<br />

nel proprio contorno. Cade allora<br />

opportuno un titolo riassuntivo di<br />

tutti gli altri, certamente baudelairiano<br />

(con quel che segue nell’esegesi<br />

successiva), fantasmagorie,<br />

impiegato per designare<br />

l’effetto gorgonico delle colorate<br />

apparenze e lo spettacolo di elementi<br />

sradicati, tutto derma e superficie.<br />

Rarefatte per lo sfogliarsi pellicolare<br />

della memoria, prive di centro<br />

eppure consecutive e resistenti,<br />

le ‘radici’ continuano a testimoniare<br />

di sè, si mescolano, coabitano,<br />

s’intrecciano con altro affrontando<br />

il tarlo della sottigliezza fino<br />

al rischio dello svanimento.


Sempre più spoglie ed erose, sempre più ombre di ombre. Qualcosa<br />

di inatteso avviene però nella loro tessitura, una metamorfosi<br />

del segno che non so definire altrimenti che come passaggio<br />

allo stato sfingeo del geroglifico; come volontà di segreto. Se<br />

lo stare solitario d’ogni immagine, quel suo intimo ritrarsi nel<br />

proprio sigillo pur nell’affollamento di segni eterocliti, enuncia da<br />

un lato l’agghiacciato esilio del frammento, d’altro lato l’impietrata<br />

fissità sprigiona un insolito fulgore. Ritagliando sagome e<br />

arabeschi, la mano delinea una sorta di ricamo, come a risarcire<br />

il fantasma superstite col nitore della linea e delle cromie. La<br />

grafia infatti incide, ritaglia, lavora come un bulino e marca a<br />

fuoco, mentre di concerto i colori laccano e smaltano, verniciano<br />

e tingono di iridescenze la maglia disegnata. Detto in altri termini,<br />

la pittura riscopre l’emblema, la via dei simboli spezzati. Solidarizza<br />

con la scrittura allegorica degli enigmi, fa del pane e del<br />

fiore una cifra artificiale, una gemma fredda e lucente. Plasmati<br />

in sagome, custoditi nelle teche delle carte, i fiori - lo si vede subito<br />

- mancano di un sostegno. Simili a marionette sospese, perfino<br />

hors de la table come vorrebbe una natura morta tradizionale,<br />

sono creature irreali e senza patria, sottratte ai succhi nutritizi<br />

della terra, icone che l’inventio configura in una recita di<br />

personaggi senza peso. Scarnificate e ancor più astratte, girano<br />

tutt’attorno acuminate forme monocrome, elementi di scena,<br />

quinte d’uno smaterializzato teatro di ombre.<br />

Considerandone la fattura, vien anche da chiedersi quale sia il<br />

ruolo giocato dalle materie pittoriche, acquarelli acrilici e smalti,<br />

variamente mescolati nel cangiare di lacche e trasparenze, di<br />

scaglie e fruscianti velature. È probabile che rispondano al complesso<br />

movimento dell’immaginazione nel cuore dell’immagine,<br />

temperando, addolcendo o al contrario incrudendo la resa dell’emblema,<br />

quell’interna dialettica tra diafanità e durezza, chiarore<br />

e buio, che i rapporti colorati innescano dentro il fiore e le<br />

sue ombre. E se molto accade, come s’è detto, nell’intimità delle<br />

figure, dove di colpo s’accendono fasci di petali e grumi di tessere<br />

smaltate, occorre anche badare al commento, anzi all’attivissima<br />

regia delle quinte. Dato che scandiscono i gradi della<br />

luce e del buio ad uno stato di purezza che solo una eterea geometria<br />

può consentire, guidano le icone pencolanti fra due soglie<br />

opposte di perdita. Stando nel colore e avvalendosi dell’iride,<br />

lo sguardo dà sensibilmente la misura del dramma. In caso<br />

769<br />

contrario neppure i nomi riuscirebbero a sopravvivere alla forza<br />

dell’accecamento e del silenzio.<br />

Dove si trovino i fiori lo si può indovinare. Sull’orlo dello svanimento<br />

Pozzati dipinge il miraggio del giardino e chiama, tramite<br />

l’artificio e alle spalle della sua splendida finzione, la terra assente;<br />

quell’organico che nei primi oli del ciclo, I fiori neri, pareva<br />

ancora fuggevolmente affiorare nel tremito materico delle<br />

paste sopra le sagome. Sicché aveva ragione Alberto Boatto ad<br />

avvertirvi "un soffio rabbioso di vita", una promessa di profumo,<br />

magari "l’odore stesso della decomposizione" capace di scongelare<br />

la memoria allontanando la maschera medusea.<br />

Qui invece il colore ha consistenza piuttosto adamantina che materica.<br />

Mancano grovigli, folate e colature. Sembra perciò che<br />

l’autore, nel fare il punto sulla sorte dei fiori abbia nelle ultime<br />

carte privilegiato la conclusione del dissanguamento e della pellucida<br />

trasparenza. Scriveva Licini, un maestro di emblemi che<br />

l’artista conosce molto bene, di voler riapparire sulla terra "con<br />

diafanità sovressenziale e senz’ombra", per mostrare le sue<br />

"prede, i segni rari che non hanno nome" in grado di procurare<br />

"una vera gioia allo spirito".<br />

Ma i suoi fiori astrali sono marcati da una differenza, dallo scarto<br />

che Pozzati stesso ci dice concludendo in questo modo una<br />

sua premessa all’attraversamento di Licini: “Sono libero, fluido,<br />

errante, un po’ eretico, dalla mano più erotica ma non sono felice”.<br />

(1) Testo introduttivo a “A che punto siamo con i fiori”, Maurizio Corraini<br />

editore, Mantova, novembre 1988.


1989<br />

Da Defendi Semeghini<br />

a Lucia Pescador<br />

Dai “sogni” alla scena metropolitana<br />

Defendi Semeghini (1852-1891)<br />

I tre passi di Pirro<br />

Pirro Cuniberti<br />

Natura e artificio<br />

Mostra collettiva<br />

Una via secca della pittura<br />

Giovanni Battista Ambrosini<br />

Una ghirlanda di tavole, dei doni<br />

Ferdinando Capisani<br />

Dalle cose in frammenti al vortice<br />

della natura<br />

Lucia Pescador


Dai “sogni” alla scena metropolitana<br />

Defendi Semeghini (1852-1891) (1)<br />

1. Primi studi<br />

Dovette essere sensibilissimo il sismografo mentale di Defendi<br />

Semeghini, se nel giro di pochi anni, non più di dieci-dodici per<br />

quel che concerne la pittura, riuscì a determinare una coerente<br />

e ben riconoscibile fisionomia, depositando nel contempo, nelle<br />

tappe del suo bruciante cammino, numerose tracce di come egli<br />

sapesse attentamente assorbire e ridurre alle proprie esigenze<br />

taluni dei più vitali (per non dire già gli essenziali) orientamenti<br />

dell’epoca, almeno in rapporto all’ambiente italiano. C’è in lui, infatti,<br />

nonostante l’esiguità dei documenti salvati dal naufragio<br />

dell’ultima fase1 , una folla di rinvii interni, rinvenibili in certi corollari<br />

della grafia e del colore, ad un largo spettro della cultura<br />

artistica contemporanea che, se era in primo luogo milanese e<br />

toscana, appare anche ragionata sugli apporti di diverse pronunce<br />

e “scuole”. Né si tratta soltanto di questo. Considerandone<br />

l’opera, colpisce la prontezza nell’assumere, press’a poco tra il<br />

1875 e l’80, la prospettiva e, per dir così, l’occhio della modernità:<br />

vogliamo dire un’attitudine che lo convinse rapidamente a<br />

confrontarsi con i nuovi media, a convivere con le operazioni<br />

giornalistiche, per esempio, e con la stampa educativa, sì da trarne<br />

partito, diretto o indiretto che fosse, nel campo del disegno,<br />

e a tuffarsi, senza i distanziati trasalimenti di altri autori, nel crogiuolo<br />

variegato e non di rado contradditorio della vita metropolitana.<br />

Il fatto stesso di affrontare in poco tempo, allontanandosi dalla<br />

Lombardia, due spostamenti in altrettante capitali, a Roma<br />

prima e a Parigi poi, sta a significare il vivace proposito di tenersi<br />

vicino al cuore del nuovo: ed erano spostamenti, si badi, che non<br />

traevano spunto dal piacere del petit tour o dalla sola ansia di<br />

istruzione, ma intendevano proprio stringere dei legami duraturi<br />

con quei centri. Tant’è vero che per due volte vi pose dimora<br />

stabile aprendovi uno studio professionale.<br />

Nato a Santa Maria di Quistello (Mantova) nel 1852, Defendi mise<br />

molto presto in chiaro dove lo dirigesse la sua vocazione. A<br />

sfogliarne i primi, acerbi quaderni infantili, gli esercizi di calligrafia<br />

e disegno, vengono in mente alcune righe autobiografiche di<br />

Silvestro Lega, là dove il caposcuola di Pergentina, rivolgendosi<br />

772<br />

a Diego Martelli per illustrargli “la tiritera del [suo] passato in<br />

arte”, ricordava che da fanciullo, “scarabocchiando sempre nei<br />

muri, o scartafacci”, gli “si dava a credere che avesse genio per<br />

la Pittura”. Talché - aggiungeva – “arrivai al punto che ci credetti<br />

sul serio e costrinsi mio Padre a strascinarmi” all’Accademia2 .<br />

Per Semeghini avviene qualcosa di analogo ed il salto non è da<br />

meno, visto che il padre, agricoltore, lo porta a Milano da una<br />

provincia ancora soggetta agli Asburgo e lo iscrive a Brera mentre<br />

ha all’incirca 15 anni3 .<br />

“Fece Semeghini Defendi / D’anni 10. 1862” recita il frontespizio<br />

di un superstite album di calligrafia, non bello eppure pieno<br />

di presagi per l’artista futuro, dove non compaiono tanto dei piccoli<br />

testi in buona copia scolastica, ma vien fuori tutta una serie,<br />

si direbbe quasi ossessiva, di capilettera e alfabeti che dovranno<br />

tornargli buoni, per la varietà dei caratteri modellati, dal gotico<br />

al romano all’egizio, quando comporrà più avanti l’Alphabet. Oltretutto<br />

alcuni aggruppamenti corsivi paiono prestargli il destro<br />

per qualche intervento figurale, grazie all’intrusione d’una scenetta<br />

o all’elaborazione di lettere di fantasia nella sequenza<br />

usuale dei segni. Nulla di particolarmente originale, ma intanto,<br />

sia pure a livello elementare e nei termini di un ornato di maniera<br />

come avveniva in tanta stampa popolare dell’Ottocento, si<br />

capisce che per lui giovanissimo la parola scritta rientra nei giochi<br />

disegnativi e che lo scrivere lo attrae unicamente per gli<br />

spunti grafici, per le associazioni e combinazioni di forme.<br />

Col che non si vuol certo sopravvalutare una esperienza tanto<br />

gracile e arretrata nel tempo. Il considerarla serve solo a stabilire<br />

un punto di partenza, un momento in cui vengono emergendo,<br />

in maniera oscura, tendenze ed orientamenti istintivi.<br />

L’imperizia è anzi macroscopica, poiché le figure, sdipanandosi<br />

con fatica sulla superficie, rivelano carenza di maestri; buttate<br />

giù infantilmente senza gerarchie di piani e spessori, assaporano<br />

l’incidere della penna sulla carta. Fatto salvo qualche raro episodio,<br />

le fonti delle immagini sono i libri, le illustrazioni e non<br />

l’osservazione del reale: con ogni probabilità i volumi di scuola, i<br />

calendari e qualche enciclopedia popolare. Cadono suppergiù<br />

nella medesima stagione alcuni stentati appunti di animali,<br />

copie e schizzi di rapaci, uccelli del paradiso, leoni e linci, accompagnati<br />

dalle loro esatte denominazioni, che danno se non<br />

altro conto dell’abitudine mai smessa negli anni maturi di pren-


der nota di tutto prima di congegnare una tavola. Forse, alle soglie<br />

della partenza per Milano, Defendi segue un corso di insegnamento<br />

locale, non precisato da alcuna testimonianza, poiché<br />

abbiamo trovato delle decorazioni floreali stilizzate, datate inequivocabilmente<br />

1864, che denunciano un primo apprendistato,<br />

senza dire che da quest’anno in avanti il magazzino dei temi si<br />

ingrossa in modo notevole: un repertorio giocato per un verso<br />

sulle copie di soggetti accademici e per un altro sulla ripresa di<br />

oleografie intrecciate con elementi, i primi, di rilievo dal vero.<br />

D. Semeghini, Nudo maschile, s.d., olio su tela, cm 46x26.<br />

773<br />

Non è certo facile distinguere in simili prove se si tratti subito di<br />

lettura delle cose o di traduzione, dove e come si insinui il segno<br />

direttamente afferrato dalla realtà, ma è indubbio che, nella convivenza<br />

dei due registri, il secondo dettato vien facendosi largo<br />

rapidamente.<br />

A dirlo sono soprattutto un paio di paesaggi d’acque, sbozzati a<br />

veloce tratto di matita: un grande capanno fluviale (1866) e la<br />

riva d’un lago montano, dove con istintiva disinvoltura vien subito<br />

centrata la nervatura tonale dei luoghi, senza indulgenza alcuna<br />

per il color locale.<br />

Nel periodo della prima frequenza all’accademia, oltre al severo<br />

tirocinio nelle diverse tecniche del disegno (penna, carboncino,<br />

conté lumeggiato, gessetto ecc.), prendono il via collaterali assaggi<br />

di scenette libere, traduzioni di stampe, note di fantasia,<br />

balli campestri in miniatura sotto alberi giganteschi. Tutti schizzati<br />

in velocità e non sempre finiti. Compare qualche fugace idillio:<br />

un giovane di spalle che osserva l’orizzonte durante una caccia<br />

e una figura analoga sulla riva di un fiume, segnata 1869. E<br />

qui val già la pena di anticipare l’osservazione fatta dal Puerari<br />

per il dipinto delle Cacciatrici, allorché annotava il prevalere, in<br />

taluni quadri di costume alla Bouvier, della emozione paesistica<br />

sulle figure, e il modellarsi di un sensitivo tema atmosferico accanto<br />

alla “dura materia” pittorica delle vesti. Cosa ravvisabile in<br />

questi medesimi disegni, a loro modo vibranti negli spessori e<br />

fughe d’aria e non, certo, per l’irrigidita silhouette ritratta in<br />

avanscena.<br />

È un mondo in formazione che ci sforziamo di adunare raccogliendo<br />

segnali dispersi, brani di fogli e altri reperti, nel tentativo<br />

di sorprendere una ricerca che non si è curata di lasciare che<br />

qualche rarissima data.<br />

Compatto, per fortuna, è invece il corpo delle esercitazioni di<br />

Brera, i cui risultati più fertili si affidano, dopo l’addestramento<br />

intorno alla prospettiva e agli oggetti di gipsoteca (con belle tavole<br />

alla maniera neoclassica di frammenti del volto), specialmente<br />

ai nudi maschili. Nella serie conservata saltano subito all’occhio<br />

pose ed atteggiamenti costruiti sugli schemi, vecchi e<br />

nuovi moduli di convenzione, sui quali tuttavia non è il caso di<br />

insistere più di tanto, qualora si consideri che anche negli ateliers<br />

privati gli artisti persistevano nella posa eroica o comunque<br />

“decorosa” dei modelli in vista del comporre eloquente. Ed il


D. Semeghini, Autoritratto (incompiuto), s.d., olio su tela.<br />

D. Semeghini, Autoritratto, s.d., olio su tela, cm 38x27.<br />

774<br />

puntiglio con cui Semeghini non soltanto disegna, ma torna sulla<br />

figura e la varia, va oltre la pura e semplice diligenza, perché alcune<br />

immagini sono davvero riuscite. Quello era un tema che<br />

avrebbe potuto prestarsi a liberi svolgimenti, magari a considerazioni<br />

larvatamente metapittoriche, come per altro farà di lì a<br />

poco Favretto con una tela celebre, La lezione di anatomia, che<br />

sarà al centro della Esposizione di Brera del 1873, ammiratissima,<br />

pare, dai giovani pittori. Per limitarci a due prove di sicura<br />

datazione, rispettivamente del ’69 e del ’71 (l’epoca del corso di<br />

nudo), il biennio che le separa segna un sensibile passaggio alla<br />

densità plastica. Se il soggetto e gli arredi sono gli stessi, il tratto<br />

si ispessisce, stemperandosi sulle carte grosse e colorate, fatte<br />

apposta per aggiunger tinta al disegno. Sicché vien da dire che<br />

stanno all’incirca qui gli inizi del dipingere per Semeghini. Nel<br />

foglio del ’71 compare inoltre un’aggiunta personale, una sorta<br />

di manifesto ideologico, per intendere il quale occorre far capo<br />

alla passione patriottica del dopo-Digione e alla memoria d’una<br />

battaglia cui Defendi aveva partecipato diciottenne. La figura esibisce<br />

infatti un sintetico ritratto di Garibaldi, con la firma e la data<br />

schizzate con energia. Che è un modo - lo si vedrà anche in seguito<br />

- con cui l’artista rinvia alle proprie convinzioni civili e politiche.<br />

Per ora il nudo riguarda soggetti maschili ripresi in stazioni<br />

ferme, museali e bloccate, con qualche cenno, di tanto in<br />

tanto, ad un breve moto, ad un gesto incipiente. Ed allora le<br />

forme un poco si addolciscono, danno sul repertorio giovanile e<br />

tardoromantico. Così avviene, per portare un esempio, nel nudo<br />

atteggiato a pittore: figura da tener presente, perché verrà in seguito<br />

abbigliata in panni rinascimentali, come i paggi di Faruffini,<br />

Cremona o Grandi, nei taccuini e negli acquerelli.<br />

Ogni tanto salta fuori qualche saggio di lettura dei volti.<br />

Ma è schema rigido e gelato, identikit folkloristico, per dir così,<br />

più che vero ritratto il profilo di Contadina del ’69, laddove, col<br />

passar del tempo, le teste maschili acquistano un prospettamento<br />

sensibile nella viva annotazione plastica dei caratteri.<br />

E che, arrivati a questo punto, prenda finalmente quota il noviziato<br />

pittorico (dovremmo essere all’incirca, stando ai confronti<br />

tematici, intorno al ’71-’72), lo si riscontra da un cartone dipinto<br />

(Nudo) che ha l’aria di svolgere in chiave chiaroscurale le pagine<br />

di Brera: o, al più, un allegato strettamente successivo.<br />

Nella figura s’avverte come un iniziale scioglimento. La curva


d’una gamba, riecheggiata dal giro delle braccia dietro il capo,<br />

alleggerisce la verticalità del modello, mentre il colore fa la spola<br />

fra i registri semibui dell’interno: fra l’incarnato del corpo, pur<br />

sempre smorzato, e la penombra della parte, dalla quale affiorano<br />

- al solito - i rimandi e i cartigli statuari delle esercitazioni.<br />

Non si tratta ancora di buio scavato con energia, dentro le sorgenti<br />

dell’ombra, quanto di un principio d’indagine chiaroscurale<br />

nell’andirivieni di poche quinte. Sfondo-figura.<br />

Mentre è agevole far rifluire nel gruppo appena commentato le<br />

immagini virili, vien da proporre lo scarto di non meno un triennio<br />

per una sparuta serie di corpi femminili e di adolescenti. Lo<br />

consiglia per un verso lo svincolamento dagli spartiti grammaticali<br />

fin qui seguiti nella messa in posa e, per un altro, l’analogia<br />

con tre piccole tele, le due versioni dello Studio del pittore (o altrimenti<br />

intitolate Atelier, Composizione) e la Tentazione, che<br />

fuor di dubbio sono dipinti ben inoltrati nel decennio. Notevole<br />

in ispecie appare l’affinità d’uno d’essi col fanciullo degli Studi,<br />

reso in pittura con fare disinibito e recitante, se non spavaldo,<br />

alla maniera dei protervi scugnizzi di Gemito.<br />

Ma, a parte le spavalderie, vi si coglie una naturalezza che sorprende<br />

e per la quale sarebbe inutile cercarvi qualche pregiudizio<br />

prospettico. Evidenza ancor più lampante nei nudi delle giovani,<br />

dove solo il corpo importa, con le sue luci e rapide accensioni<br />

e cadute d’ombra. Per cui appare legittimo pensarli come<br />

una tappa significativa sulla via delle tele più avanzate. Non vi<br />

traspare, è vero, una epifania “forte” dei sensi. Tolto questo,<br />

però, gli accarezzamenti non-finiti delle carni una rivelazione, a<br />

modo loro, la sprigionano, suggerendo in chiave scapigliata - trasalimenti<br />

e pause, scandagli crepuscolari. Se tempo dopo, con i<br />

ritratti della moglie, la pittura farà tutt’uno col pensiero della grazia<br />

muliebre (piena e tuttavia “mai pagana”, come è stato osservato)<br />

5 , nei disegni vien colta una coscienza incipiente, ma<br />

non meno intensa, della femminilità. Caratteristica che, con la risentita<br />

disinvoltura della grafia, persuade a collocarli oltre il<br />

primo (e breve) ciclo degli “amanti” e dunque nell’atto di superare<br />

la tenera convenzione cremoniana degli innamorati giovani<br />

e giovanissimi, addirittura fanciulli.<br />

2. Scapigliatura e visioni<br />

C’è un nodo tematico che non dico imbroglia, ma stringe i tra-<br />

775<br />

slati della forma nella prima metà del Settanta. Differenti e compositi<br />

fili vengono ad avvilupparsi nel medesimo frangente. Fili<br />

sentimentali, politici e dimostrativi. Si accoppiano, stanno fianco<br />

a fianco e talora paiono fondersi in un tentativo di competizione.<br />

Forse la cifra unitaria entro la quale spiegarli è una idea di<br />

messa in posa e di ‘costume’ ideale, da cui far sortire come un<br />

volto riscattato del vivere. Insomma un sogno dell’esistenza.<br />

Ed il fatto curioso è che in un simile “sogno” confluiscono elementi<br />

eterogenei ed opposti: la storia e la cronaca, al pari della<br />

fantasmagoria e della memoria. Il dramma e l’idillio6 .<br />

Abbiamo appena notato la dichiarazione di fede affidata al ritrattino<br />

di Garibaldi tracciato nel disegno del nudo maschile, ma<br />

ecco che essa non sta sola. Si impagina con altre fantasie storiche<br />

ed amorose.<br />

Un punto di convergenza sembra essere, tra gli altri, la piccola<br />

tavola Amanti della collezione privata di Cecina. Uno splendido<br />

D. Semeghini, Figura (la cognata), s.d., olio su tela, cm 65x45.


idillio fluviale con le due figurine dei giovani in primo piano che<br />

passeggiano sulla riva: opera solare nella piena orchestrazione<br />

della luce, diffusa e traslucida nelle dominanti azzurre e giallochiare,<br />

paglierine delle erbe. Accenti e toni cromatici, linea d’orizzonte,<br />

imbevuta d’acque e di cielo, funzionano come cassa di<br />

risonanza nell’intenerito avanzare dei protagonisti. Ed è una<br />

doppia nota, la loro, bianca e rossa, che esalta, concentrando in<br />

battuta sonora, il volume chiaro e altrimenti diffuso dell’aria. Lo<br />

esalta perché il bianco della veste femminile porta all’acuto il respiro<br />

degli azzurri, così come, a sua volta, il rosso non è che un<br />

accordo finale, al diapason, delle ocre dorate.<br />

Composizione schiettamente pittorica, ancorché connotata - non<br />

lo si può trascurare - da un garbato messaggio simbolico nei co-<br />

D. Semeghini, Modella nello studio, s.d..<br />

776<br />

lori centrali e nei costumi. Colori e vesti (il cappello piumato, la<br />

mantellina, la gonna della dama e la giubba repubblicana dell’amante),<br />

che tutti insieme mostrano a quale intreccio immaginario<br />

tendessero le fantasie cortesi e patriottiche.<br />

Tali componenti magnetizzate verso un centro ideale hanno<br />

certo le loro radici nella cultura di una pre-avanguardia (o terzoromantica)<br />

che torna ad interrogarsi, ed in parte raccoglie i suoi<br />

frutti maturi, allo scadere del primo decennio sperimentale. A<br />

Milano corrono - ormai lo si è chiarito - sommerse parentele fra<br />

tradizione e dissenso, norma e trasgressione. E non per nulla un<br />

critico attento come Dante Isella ha potuto sorprendere matrici<br />

accademiche, perfino “libresche”, in tante pagine degli scapigliati,<br />

quando poi la molla profonda del rinnovamento non consista<br />

nella ripresa al calor bianco dei primi semi del Romanticismo,<br />

saltando a pie’ pari gli afflosciamenti successivi. Il che capita<br />

di rado in modo esplosivo, ma capita, per citare un caso straordinario,<br />

nella scrittura del Dossi, tuffata nei vortici della “prosa<br />

umorosamente lombarda della prima redazione dei Promessi<br />

Sposi, scovata dietro la stesura ‘risciacquata’ del ’40” 7 .<br />

In tal caso s’intende anche il ritornante amore per il “pittoresco”,<br />

rimescolato in tante maniere, da Ruysdaël a Raffaello, da Salvator<br />

Rosa a Philipp Hackert agli inglesi del Settecento8 .<br />

Stando ai fatti figurativi, neppure Brera è una roccaforte. I maggiori<br />

scapigliati, fin dal ’62-’63, escono da lì, dopo aver attraversato<br />

quasi senza eccezione il “crocevia” di un grande maestro<br />

come Giuseppe Bertini9 . È anzi da lui che viene promosso il ripensamento<br />

del quadro storico in parallelo con la riflessione, in<br />

campo letterario, sulle strutture e finalità del romanzo. E Semeghini,<br />

assieme al coetaneo Giovanni Beltrami, ne frequenta l’insegnamento:<br />

quel corso di pittura ben noto, se non seguito, dal<br />

secondo amico di Defendi, l’onnipresente “Vespa”, più anziano di<br />

dieci anni, ossia Vespasiano Bignami. Brera, si diceva. Ed attorno<br />

ad essa le associazioni e i clubs artistici, i “pellegrinaggi” fuori<br />

porta, le feste e le campagne giornalistiche.<br />

Chiuso da tempo il circolo della Forbice, la Foresetta, ed imparruccatisi<br />

altri aggruppamenti, Bignami, intronandosi col fratello<br />

del “professore” Pompeo Bertini, lancia una girandola di inziative,<br />

dibattiti e serate in costume (compreso un “repertorio non<br />

più veduto di pantomime, drammi religiosi, balletti, concerti, ed<br />

altra roba inverosimile”) 10 , finché mette in piedi nel ’73 la Fami-


glia Artistica, “un misto” di scolari e docenti, “di anime pacifiche<br />

e di rivoluzionari”, con lezioni serali di nudo e ritratto ed altre sedute<br />

all’aria aperta.<br />

Tutti inoltre partecipano alle annuali mostre di Brera ed ai concorsi<br />

che aggiornano sulle svolte delle scuole regionali e rivelano<br />

i nuovi talenti. Per due volte il Premio Mylius raggiunge “Vespa”<br />

e Beltrami.<br />

Un album, conservato al Te, riflette questo clima agitato e composito.<br />

Le pagine non sono molte, ma gli schizzi si accavallano<br />

l’uno sull’altro, in molteplici direzioni, dalla caricatura al soggetto<br />

di costume alla storia antica e contemporanea, dal paesaggio<br />

all’appunto di fantasia ai moduli proporzionali, con caselle, numeri<br />

e titoli di dipinti11 . Una congerie talmente eterogenea da far<br />

sospettare che in qualche caso le immagini (che non abbiamo<br />

raccolto nell’elenco, tanta e tale è la diversità di stile) siano state<br />

aggiunte più tardi, per occupare le pagine vuote.<br />

In particolare interessa far conto d’un foglio, formalmente omogeneo<br />

e in punto pastellato, dove la veduta d’una rupe sormonta<br />

una battaglia antica e un nudo classicheggiante (una canefora):<br />

stessa rupe dell’eroe solitario e stesso taglio, all’incirca, che<br />

confluirà in una tela dell’epopea moderna12 . Segno che v’è intercambiabilità<br />

d’epoche e soggetti. Il tempo storico rifluisce in<br />

quello circolare e mitico. O meglio: la storia è posta fuori del<br />

tempo. Cade appunto nel “sogno” e si tinge d’allegoria.<br />

Basta mettere insieme le date per cogliere certe coincidenze;<br />

appurare, ad esempio, come la “maniera nuova” del Cremona,<br />

inaugurata nel ’73 con i Due cugini (Il bacio), si ripercuota sul primo<br />

repertorio formale del giovane mantovano, attento a sfregare<br />

gli oli sulla tela come fossero pastelli ed a ribattere gli accordi<br />

al centro del quadro. Contemporaneamente egli inscena la recita<br />

dei luoghi canonici, non solo cremoniani, del sentimento: le<br />

coppie, i paggi, le fornarine, i cantori piumati. Eros e Psiche.<br />

Nasce così lo schema della piccola Allegoria (Coll. Cecina), ancora<br />

vicina ad Hayez, stracarica di segni romantici nella figurazione<br />

alata dell’amor fatale (forse Paolo e Francesca). E su quest’attacco<br />

cala la gravitazione del non-finito, sempre nell’intreccio<br />

degli emblemi aerei, nella redazione maggiore di Allegoria. Ne<br />

esce un bel quadro, sogno - su ciò non v’è dubbio - modulato<br />

sulla verticale fra vapori azzurri, verdi chiari e perla.<br />

Eppure sbaglieremmo a considerarlo un approdo. È piuttosto uno<br />

777<br />

zibaldone, una pagina di laboratorio. Semeghini reinterviene, ferisce<br />

la superficie con una pioggia di disegni tracciati in punta di<br />

pennello: schizzi che, se non si discostano dal tema, lo frantumano<br />

nella ripetizone di un’immagine che non arriva, di un<br />

corpo cercato e non risolto. Caleidoscopizzato 13 .<br />

Vi addossa una seconda pelle, una sorta di trasparente disegnato.<br />

Perché?<br />

Il gesto segnala un’insofferenza, uno stare e non stare nel motivo.<br />

La nuova stesura si sovrappone al testo, più che cancellarlo,<br />

perché la tela, comunque, preme all’autore, che non mancherà<br />

di ribadirlo nella minuta replica alle spalle della Modella nello<br />

studio. Autocitazione nell’ atelier.<br />

Questo andare e tornare, toccare e discutere l’impianto, produce<br />

un effetto selettivo. Gli orpelli cadono; svaniscono i drappi, le<br />

piume, i corpi volanti. L’allegoria vien cacciata ai margini del sogno<br />

ed infine espunta. La stessa esibita e simbolica verticalità<br />

del comporre lascierà posto a riquadrature più sobrie.<br />

Nel riprendere l’argomento (le stesure di Amanti), l’occhio riporta<br />

a terra le metafore celesti e le trasmuta in idillî, dando respiro<br />

a sfondi naturali, boschi, fiumi e giardini, che palpitano in scaglie<br />

all’unisono con le figure. Ed è il massimo punto di convergenza<br />

con l’ “impalpabile” di Cremona, con una pronuncia svaporata<br />

fin che si vuole, ma pur sempre sorretta da un telaio plastico,<br />

costruttivo.<br />

Là dove invece si insinua un’eco fantasmatica, dove il colore<br />

porta al visionario e fa a meno delle quinte di chiaroscuro, modellandosi<br />

in sé e per sé, la composizione si intride di sensi ranzoniani.<br />

Quelli, ci sembra, del Ranzoni sgargiante e non ancora<br />

disperato.<br />

A margine sta il ricordo del Piccio. Alcuni segnali molto interni dicono<br />

ad ogni modo che la riflessione su di lui c’è stata. Lo suggerisce<br />

per certi dettagli il bozzetto d’una Battaglia, da porre in<br />

rapporto, come s’è detto, con una fantasia compositiva dell’album:<br />

bozzetto sfioccato in controluce, con immagini aggruppate<br />

e in fuga, frecciate di colore rapidissime e un centro mobile, sonoro,<br />

roteato sui marroni, rossi, arancioni, e gialli (si pensa al Carnovali<br />

delle scenette mitologiche e bibliche). Memoria pittorica<br />

incrociata con altre, che serve a dar giusta prospettiva, nella indagine<br />

di Defendi, al problema cromatico: una chiave essenziale<br />

per azzerare i pannelli chiaroscurali e farla finita con i con-


D. Semeghini, Ritratto della moglie, s.d., olio su tela.<br />

778


trappesi, le ombre disegnate e le risposte quantitative alla luce.<br />

Di sogni è intrisa, lo ripetiamo, la stagione milanese, con qualche<br />

rimbalzo di tenebrismo scapigliato. L’occhio soppesa la<br />

forma, ora scrutando nei contrasti, ora - all’opposto - stemperando<br />

radianze e chiarezze armoniche, squillanti. Spessori e superficie.<br />

E mentre da un lato l’intento sintetico esclude di per sé<br />

l’indugio sulle cose, spingendo a drammatizzare lo spazio tramite<br />

le ombre che avviluppano e avanzano (Seicento, Tentazione),<br />

dall’altro si sdipana il montaggio analitico, calibrato punto per<br />

punto, della composizione.<br />

Quando l’autore dipinge la Modella nello studio, dichiara in che<br />

cosa consista il suo breve, personale retroterra: un “nudo” di<br />

Brera, l’Allegoria, un paesaggio “pittoresco” costellato di figure<br />

ed un fascio di fiori acquerellati. Che ci possa essere altro, di diverso<br />

e non detto, l’immagine lo ammette con una reticenza:<br />

una tela rovesciata contro il muro, finzione significante - ad un<br />

primo livello di senso - l’interno dell’atelier.<br />

A convincerci che gli esercizi sull’ombra procedono in parallelo o<br />

con uno scarto minimo di tempo rispetto agli altri è il doppio<br />

progetto di Seicento contenuto nell’album (foglio n. 48), che abbiamo<br />

richiamato, così pieno di figurini neoromantici, scenette<br />

ed appunti.<br />

Uguale grafia (e calibro) degli Amanti, di modo che, da tutto<br />

questo insieme vien fuori un quadro polivalente, i cui estremi<br />

puntano verso l’agitazione o il riposo. Nell’un caso si racconta,<br />

nell’altro, il tempo si ferma nella contemplazione della cosa.<br />

Il dato mitologizzante e scenico, tanto da far pensare come stimolo<br />

ad una suggestione teatrale o romanzesca, lo si coglie in<br />

Tentazione, dove la dialettica del guardare e dell’esser guardati<br />

vien tematizzata (e raccontata) nel sapiente snodo dei temi figurali:<br />

il giovane di spalle, il bruciare della fiaccola e l’irruzione<br />

del “meraviglioso”: un nudo fantasticato, tra l’esotico e il favolistico,<br />

da collocare nella galleria delle Veneri magiche della bohème.<br />

Quelle bianche, s’intende, e non ancora le “nere” e fosche<br />

donne-vampiro di un Tarchetti14 .<br />

È mito-logia, pittura-racconto, storia reimmaginata, allo stesso<br />

modo di Seicento e di qualche istantanea garibaldina: tutti avvenimenti<br />

intorno ai quali si esercita l’invenzione degli scorci, dei<br />

chiari improvvisi, dei tagli a forbice, dei controluce (e che la cronaca<br />

sia recente non importa, tanto il mito interviene lo stesso).<br />

779<br />

Vi si scorge l’azione, con un principio di dramma. Rapportata al<br />

montaggio della piccola tela storica, Seicento appunto, la pronuncia<br />

di Tentazione balza più intensa. L’imago sta ben insediata<br />

nel cuore dell’ombra, in un interno curvo, lenticolare, avvolgente.<br />

I lumi battono dentro, in una scala di segmenti e lampi,<br />

senza più rinvii a cubi prospettici e scenografici. Il grande ‘notturno’<br />

di Semeghini, l’Autoritratto, non si capirebbe senza questi<br />

precedenti, senza la doppia pratica dello sfioccare i toni (alla<br />

Ranzoni), o di addensarli, accorpando il colore.<br />

Far avanzare e animare la forma, cercarla nel proprio elemento<br />

pittorico è anche la preoccupazione della Modella. Solo che ora<br />

la si afferra dal di fuori, nella evidenza traslucida degli oggetti.<br />

Quadro-mosaico, tutto in luce: più in luce e più splendido, significativamente,<br />

nella zona di proscenio, sulla quale viene steso un<br />

dono visivo mediante lo sventagliamento di fiori dipinti. E donata<br />

allo sguardo è anche la giovane seduta, con la veste cangiante<br />

d’azzurro, disposta a ruota per far girare la trama illustrativa.<br />

Tutto lavora sugli accordi che quell’azzurro e il rosso del tappeto<br />

damascato stringono con le tessere del dipinto.<br />

Qui Defendi opera uno spostamento linguistico nell’azzardo della<br />

pittura di genere e lo paga in moneta descrittiva. Un pagare,<br />

però, ripagato dall’effervescenza del colore e dall’incontro, sia<br />

pure nel calcolo della posa, con la verità ottica.<br />

3. Maturità pittorica ed elegia.<br />

C’è da pensare che in questo momento (la metà del Settanta)<br />

l’artista guardi con decisione oltre l’orizzonte di Milano e della<br />

Lombardia. Già “Favretto più che Induno15 ” sta all’origine della<br />

Modella; e in Soldato (l’olio) agisce il sentimento della energia<br />

fattoriana, nel rapporto secco, d’angolo, tra il corpo caduto e la figura<br />

eretta, grande macchia contro il cielo chiaro.<br />

Non che il succo profondo della pittura lombarda si attenui, ma<br />

altri semi ed innesti vengono avvertiti con urgenza.<br />

Vien fatto allora un passo importante che porta Semeghini, sposatosi<br />

nel frattempo con la cugina Nina, a Roma.<br />

Forse sono anche un mito e una moda a far decidere per la capitale:<br />

il mito della “terza Roma” e della missione che dovrebbe<br />

esercitare nelle arti (idea che risuona con qualche ingenuità in<br />

una lettera al padre: “quivi è il centro dove si deve riescire artisti,<br />

non già tra popoli che in arte sono ancora bambini”); e una


moda per l’adesione al neosettecentismo, alle frizzanti scenette<br />

e agli spagnolismi di Fortuny, che del resto incantano più di un<br />

pittore di vaglia, come Mosé Bianchi, che deve anzi ad essi lo<br />

slancio brioso del suo stile giovanile, mentre scatenano le ire di<br />

Nino Costa e dei Macchiaioli16 .<br />

Certo che, a voler osservare il cammino dell’artista con occhio totalmente<br />

conseguente, saremmo indotti a lasciar da parte le<br />

prove minori, i dubbi, le concessioni. Quasi certamente (ed è la<br />

prospettiva assunta da Adolfo Puerari in una serie di letture attentissime<br />

al dato formale) l’avvicinamento a Lega e Fattori matura<br />

a poco a poco nella stessa traversata della iconografia di genere,<br />

del quadro storico e addirittura oleografico.<br />

La scena continua ad attrarre Semeghini, perché c’è in lui anche<br />

una natura fatta di ‘nervi’ oltreché di cuore. La scena della città<br />

e della moda. Ma con quali modelli?<br />

Se Costa o Signorini vogliono cogliere lo spirito delle vie e delle<br />

piazze moderne, debbono andare in Gran Bretagna. Zandomeneghi,<br />

De Nittis, Boldini a Parigi. E altri di seguito. A Milano lo<br />

spirito borghese, la quintessenza della città, vien presa negli interni.<br />

Il vedutismo inclina spesso sul regionale ed è più profeticamente<br />

metropolitana la novella di Verga, Il bastione di Monforte17<br />

di molti plein air coevi; più avanti, su questo piano, la fo-<br />

D. Semeghini, L’atelier (studio dell’antico), s.d., olio su tela, cm 18x38.<br />

780<br />

tografia della pittura. Si vuol dire cioè che il travestimento, complice<br />

il “bovarismo”, suggerisce dei surrogati di moda a chi vuol<br />

allargare gli orizzonti. Si inventa una festa per gli occhi, aristocratica,<br />

galante; la recita del diverso nei teatrini di casa, mentre<br />

il vero panottico è la folla. Più che altrove l’arte romana manovra<br />

sipari. Finzioni che Semeghini svolge con garbo straordinario,<br />

riscattando il fortunismo (Cacciatrici) con la levità del tocco nervoso<br />

e le annotazioni fini d’erbe e animali. Sa bene che si tratta<br />

di panneggi, di un sogno da fondale, di una fantasia da far crepitare<br />

sul filo del rasoio. Sicché alimenta, dove può, in una Roma<br />

che lo illude, la febbre di Cremona e Ranzoni. E qualche volta ne<br />

ricava episodi luccicanti, momenti di lusso per il colore, come<br />

nella Composizione, mentre nella incompiuta Donna col ventaglio,<br />

sbozzata alla brava nella tramatura libera e goduta della<br />

pennellata, prevale un décor già di approssimazione verista; e<br />

con felicità assai maggiore per gli arredi che nella figura scherzosa<br />

della modella.<br />

“Travestimento”, abbiamo detto. E lo è di fatto quando il pittore,<br />

preso dall’ansia di piantare “barbe” e radici nel suolo romano, rivanga<br />

(in qualche tavola illustrativa) l’imagerie ultradatata di<br />

Bartolomeo Pinelli, figurando sonate all’osteria e fanciulle danzanti<br />

con nacchere e tamburelli; oppure acquerella tripodi, bot-


teghe d’artigiani ed altri aggeggi dell’archivio accademico, uscendo<br />

dalle aule di S. Luca.<br />

Le conseguenze, tuttavia, non sono da sottovalutare. Da un lato<br />

questo lessico porta ad elaborare uno stile illustrativo (tratto continuo<br />

di contorno e campi colorati), che darà risultati vivacissimi<br />

nelle vignette francesi per l’infanzia. Inoltre, siccome i fogli sono<br />

destinati alla divulgazione, aprono l’accesso all’officina della<br />

stampa e da lì alla cronaca grande del reportage.<br />

E neppure va dimenticato che sotto il rimestamento dei costumi<br />

locali, buoni al più per l’insegna turistica, si agita un vero problema,<br />

ossia il confronto col “pittoresco” centro-meridionale,<br />

parte non trascurabile del dibattito che mette in moto ragioni<br />

antiche e moderne, e leitmotiv dell’aspirazione al diverso, alla<br />

bellezza ‘irregolare’ ed esotica.<br />

Che nel caso di Fortuny sia in gioco un mondo di pose, pur fini<br />

e seducenti, e che un tal gioco scontenti a lungo andare l’artista,<br />

lo si riscontra nella sterzata impressa agli oli che voltan faccia al<br />

salotto e si dirigono sul vero: Bambina, Ragazzo con medaglia,<br />

Ritratto d’uomo o Due giovanetti tra i fiori.<br />

Di questa iconografia rimangono pochi disegni e quei pochi perdono<br />

velocità. Appaiono fermi, attenti alla presa del reale e a<br />

rinchiuderlo in un’icona compiuta, come se si imbrigliasse la fantasia<br />

nelle proporzioni delle cose (si può vedere, uno per tutti, il<br />

bambino seduto davanti al portone).<br />

Tacciono su tale versante i punteggianti colpi di matita cui ci avevano<br />

abituato gli schizzi dei quadri d’immaginazione; le elettriche<br />

nebulose di figurine, le virgole e i rabeschi milanesi. Contano<br />

i corpi, le evidenze che pesano.<br />

Almeno per un momento l’occhio è bloccato e dovremo aspettare<br />

che si imbeva d’aria, che lieviti tra il vicino e il lontano, e<br />

corra, perché la mano riprenda il suo abbrivio naturale. Solo allora<br />

(1878/79 c.) farà ribollire minute e taccuini, dai quali nasceranno<br />

le provocazioni per i paesaggi mantovani.<br />

Dato il peso dell’esperienza che si sta preparando, ci si consenta<br />

di seguire in linea diretta il cammino della pittura. Dopodiché riprenderemo<br />

il filo del disegno riagganciandoci al momento innovatore<br />

del reportage.<br />

Nei primi ritratti della moglie, tra cui l’incompiuto (’75-’76), è<br />

ancora evidente la scia operativa della Modella, ma con sintesi<br />

e levità maggiori, in un’aria di rasi e cristalli, di lucentezze tene-<br />

781<br />

D. Semeghini, Ritratto della moglie con fiiori, s.d., olio su tela, cm 76x59.<br />

re e pellicolari, che permettono di svolgere, forse per l’ultima<br />

volta, con trasognata invenzione, il gran tema dei fiori (quasi<br />

un’immagine votiva e nuziale per la moglie-cugina).<br />

Nelle effigi che va poi dipingendo, l’autore raddensa la materia,<br />

insiste sulla plasticità; ed il particolare, anziché librarsi in metafora,<br />

serve ai volumi, alle paste, alla sodezza dell’impianto. Volto,<br />

corpo, panneggio fan parte di un’unica, solida e prolungata interpretazione,<br />

di cui il volto è la ragione portante, il vero centro<br />

magnetico. E difatti accade che quando esso non attragga a sé<br />

ogni elemento, il dipinto perda tensione e ricada un po’ nel mosaico<br />

(Bambina in abito regionale).<br />

Tra gli altri, un segno di mutamento può essere l’eclissi degli azzurri<br />

e dei colori distillati, astrattizzanti. La cromia, per così dire<br />

si incarna e s’interra, dando sugli impasti profondi di verdi, rossi<br />

mattone, ocre e neri; impasti che fanno da matrice su cui lavo-


ano i bianchi e i chiari in uscita. Da alveo per la luce.<br />

Tra la fine dei secondi studi all’Accademia di San Luca e l’80 si<br />

delinea il vertice pittorico di Defendi; e cresce, questo culmine,<br />

nel crollo progressivo dei miti e delle speranze romane, nonostante<br />

gli incarichi giornalistici e qualche riconoscimento. A ciò si<br />

aggiunga il vuoto lasciato dalla morte di Nina. La chiusura dello<br />

studio. Il pittore resiste. Tenta di non perdere il giro, ma la crisi<br />

affettiva e materiale spiega anche il calare dello sguardo verso<br />

un mondo riservato di immagini: una galleria intima (ma non intimisticamente<br />

annebbiata) di fisionomie e ritratti. Vengono a<br />

nudo le origini e gli affetti familiari, con i soprassalti che quelle<br />

origini incentivano e senz’altra eloquenza che non sia lo spoglio<br />

irrompere dei sembianti.<br />

Sappiamo che dipinge altre opere, ma nei quadri che restano un<br />

dato inedito e decisivo è che finisce ogni tipo di storia. Niente<br />

D. Semeghini, Doppio ritratto di fanciullo, s.d., olio su tela, cm 40x58.<br />

782<br />

più racconto, narratività, sequenza. Fine della scena nella pittura.<br />

Il tempo interiore acquista peso, un tempo fatto forma.<br />

E l’Autoritratto che è prova straordinariamente anticipata, (difficilmente<br />

inseribile negli anni romani e quasi una meditazione al<br />

termine di Brera), sigilla una dimensione psicologica di scavo che<br />

mette in chiave tutto il ciclo. Porta a maturità il luminismo, il sentimento<br />

della comunione luce/ombra (linfa della cultura lombarda),<br />

cercando i legami organici che uniscono gli opposti.<br />

La palpitante onda continua del volto fiotta in un chiarore figlio anch’esso<br />

del buio, ma senza folgori e fantasmi. Al posto di un eccitato<br />

rapporto di forze antagonistiche, una frenata dolcezza. Invece<br />

di calcare sulla burrascosa alterità dell’artista as a young man,<br />

quel vibrar radente convoglia un proposito conoscitivo e rilevatore<br />

dell’anima. L’aiuta l’ombra a manifestarsi. Le è solidale18 .<br />

Osservi lo sguardo e lo trovi trepido, morbido. Il concentrato di una


attitudine meditativa, al tempo stesso penetrante e temperata.<br />

Un apice “milanese” nell’epoca della maturità.<br />

In seguito, nel tirar fuori dal fondo i volti amati, Semeghini ne<br />

calibra la vicinanza con la compostezza di un gesto essenziale di<br />

conoscenza che quello sguardo trepido contribuisce a far intendere.<br />

Volti che prepara lentamente, operando in progressione su<br />

una base sfumata di disegno e stemperando con materia sottile<br />

gli accordi fondamentali. Dopodiché modella a stesure rapide e<br />

a macchie, in vista del volume definitivo, come dicono il versante<br />

in matita e quello appena abbozzato del doppio Ritratto di<br />

giovanetto, che può fare da certificato interno del suo lavoro.<br />

L’impostazione dell’Autoritratto vien sciolta in circuito luminoso.<br />

Il fondo acquista colore e diviene il sostegno plastico per l’immagine<br />

centrale.<br />

Gli ultimi Ritratti della moglie, viventi in questo amalgama di toni<br />

pieni e rilevati, hanno fatto pensare ad un originale incontro<br />

con i maggiori macchiaioli in virtù dello stile. Né si vede riscontro<br />

più idoneo per dar conto, tramite Lega, di una permanente<br />

solidità della forma in un ordito di innovazione. L’occhio definisce,<br />

direi classicamente, una misura, un campo cromatico, per<br />

poi liberarvi, senza far mostra d’acuti, anche i più forti passaggi<br />

di bianchi e neri, magari su un accordo sotterraneo di blu nelle<br />

miscele di fondo (il Ritratto della moglie con la sciarpa, i rintocchi<br />

di viola).<br />

L’esito infine non è più ottico. Sentiamo sovrimprimersi il tempo<br />

della selezione e della memoria, in raccolta stratificazione. O<br />

meglio: verità dell’esterno assestata dal sentimento. Ecco perché<br />

gli sguardi fuggono spesso lateralmente, ci sfiorano appena,<br />

specie quelli femminili, quasi per difendere uno spazio appartato.<br />

Sicché l’obiettivo, se vuoi seguirli, dev’essere mentale e pensarli<br />

nella lontananza. Leggermente altrove.<br />

Talora un breve cenno del collo, una minima pendenza delle<br />

spalle assecondano l’inclinazione. Nella Cognata, il più sobrio e<br />

intenso forse di tutti i ritratti, un simile riserbo ha modo di esprimersi<br />

doppiamente nell’abbandono del viso e delle braccia, delle<br />

pupille e del corpo. Impercettibilmente.<br />

Quasi Corot.<br />

Anche nella sintesi più pura, il pittore libera lunghi respiri in dialogo<br />

tra loro, in corrispondenza d’eco. L’uno chiama l’altro, lo riprende<br />

e conclude19 . Nelle cromie e nelle strutture disegnate,<br />

783<br />

nella lingua silenziosa dei gesti, e con equilibrio tanto maggiore<br />

quanto più profondo è il suono dei colori.<br />

Neri, terre bruciate ed olivastre. Profondità assai densa nei Volti<br />

incompiuti dei suoceri (doppio ritratto), dove i vuoti stessi e i varchi<br />

aperti tra campitura e campitura mostrano come la chiarezza<br />

germini dal tono; e sia luce del colore, della pittura, non un<br />

fatto esterno d’illuminazione.<br />

In alcuni casi tener scoperta la tela genera aloni espressivi. Volutamente<br />

sospese, del resto, e dunque non incompiute sono altre<br />

immagini. Il Paesaggio lacustre, per esempio, o la Testa di<br />

giovane di temperie una volta di più lombarda: una testa fermata<br />

nell’apice dello sguardo febbrile, mentre tocchi di verde,<br />

grigioperla e rosati tremano nervosamente in levitazione. Nel<br />

geloso circuito dei volti, ripiegato su sé stesso alle soglie dell’Ottanta,<br />

l’arresto d’un tracciato mobilita gli echi. Prolunga mentalmente<br />

gli spazi. Non una, ma due tre volte si affaccia una medesima<br />

fisionomia, variata, lasciata a mezzo o approfondita. La<br />

moglie, i vecchi di casa, i fanciulli (taluni acquerelli fanno pensare<br />

al figlioletto) animano l’iconografia delle ‘radici’, il lessico familiare<br />

tanto caro a Defendi. Ed è un tòpos, la casa, carico di<br />

pause liriche calanti da ultimo sui luoghi. Il pittore che aveva<br />

mobilitato boschi e giardini per creare uno sfondo ai suoi personaggi<br />

giovanili, si concentra nella visione brumale di tronchi<br />

mozzi e spogli, di nebbie ed aria velate, così intensi, nella elegia,<br />

da tradurli in correlativo oggettivo del suo spirito; in volto<br />

delle cose e pagina interiore. E non deve essere lontano il ricordo<br />

della piena con i campi allagati del ’79. Cancellate le presenze<br />

umane, si esilia nella natura. Vi si addentra. Ecco il moto<br />

ascendente, nel lunghissimo primo piano (il proscenio deserto!)<br />

di Paesaggio invernale, verso gli alberi aggruppati al centro e<br />

preparati da una breve nota laterale; e di nuovo verso l’alto, a<br />

perdersi in uno spazio ancor più inquieto di grigi. Ogni motivo è<br />

composto, calibrato in modo da trascinare l’occhio nella fatica<br />

dell’avanzamento, con una articolazione infrequente nella pittura<br />

italiana del tempo, che può trovare corrispondenza di spunti<br />

solo con i larghi, coinvolgenti piani d’appoggio di Fattori; o, in<br />

altro contesto, di Cammarano. Quanto all’Altalena, tela non di<br />

molto anteriore all’ “elegia”, il rapporto con Lega (Il pergolato<br />

del ’65, il bozzetto, e la redazione maggiore), appare non soltanto<br />

stringente20 , ma ribadito dalla somiglianza di timbri con un


D. Semeghini, Nudo femminile, s.d., matita, cm 28x18.<br />

olio di due anni più tardo, Monte alle Croci21 , per il modo col<br />

quale i piani della rappresentazione vengono articolati in tre<br />

gradi consecutivi di luce, con l’ultimo d’un azzurro terso, che si<br />

staglia fra la griglia della pergola e il profilo del paese oltre l’argine.<br />

La scena staziona in avanti, fra le ombre calde del terreno<br />

e l’arcata di foglie che le figure commentano con un ulteriore<br />

giro di posizioni. Canto e controcanto. Ed anche in questo caso la<br />

scena non è un’azione, ma un bilanciato corrispondersi di macchie<br />

e toni nell’assetto complessivo. Anch’essa, in fondo, griglia<br />

e finestra come la pergola. Evitato il bozzettismo, l’opera, che per<br />

comodità di discorso abbiamo proposto in appendice alla galle-<br />

784<br />

ria dei ritratti, mostra dove tenda la ricerca dell’autore. Il realismo<br />

(o verismo) per lui non si attiene a ragioni sociali, nonostante<br />

gli ardori democratici (di tono risorgimentale) della prima<br />

giovinezza. Non le disconosce, certo. Esplora la verità umana dell’immagine<br />

e un linguaggio moderno per comporla.<br />

Attratto dallo spettacolo della città, in cui intuisce germinare - altro<br />

portato della Scapigliatura - il nucleo propulsore del costume<br />

europeo, non per questo dimentica le sorgenti da cui proviene.<br />

Lì vi innesta anzi il suo maggior capitolo pittorico. Poi con un<br />

salto, dopo le intermittenze del silenzio, respinge in una nuova<br />

direzione l’equivoco del “particolare”, il genericismo in cui s’era<br />

in parte impigliato. Vuol vedere, orientarsi da lontano. Ed è il secondo<br />

balzo, macinato da tempo nella mente, verso Parigi.<br />

4. Avventure del disegno.<br />

La metropoli.<br />

A motivare la risoluzione è plausibile concorrano un fascio di<br />

pensieri (l’impasse dell’arte romana fra tardonaturalismo, slanci<br />

mistici e retorica nazionale; la dibattuta sconfitta della pittura italiana<br />

alla Esposizione universale di Parigi del ’78, cui egli stesso<br />

aveva partecipato con l’Odalisca, oggi perduta; la controversia e<br />

tutto il seguito dilacerante di mostre a Torino, Milano, Roma, che<br />

ne erano derivate; le notizie trasmesse dagli artisti; il dramma<br />

per la scomparsa della consorte), e soprattutto le esperienze recenti<br />

di reporter ed illustratore.<br />

Da quando collabora a L’Illustrazione Italiana, il ’78 se non prima,<br />

i taccuini riportano indirizzi francesi e l’anno dopo, in virtù<br />

degli scambi con la stampa d’oltralpe, Monde Illustré pubblica<br />

nel supplemento un suo servizio sulla “rotta” nel basso mantovano.<br />

All’arrivo (è l’80), va ricordato che il clima dei salons è già profondamente<br />

diverso da quello registrato da Martelli nella celebre<br />

conferenza livornese sugli Impressionisti; e sopravanzato dagli<br />

avvenimenti ogni accordo fra i toscani e il gruppo lanciato da<br />

Nadar22 .<br />

Invendibile Fattori.<br />

Per stare a Parigi, per immergersi nel suo “vero entusiasmo”<br />

(come ammette a denti stretti Cecioni), occorre vincere la repulsione<br />

dell’artificiale, la nausea del très joli e della civilisation. In<br />

qualche misura sradicarsi.


Qual è l’itinerario di Semeghini? Egli vi approda sorretto da una<br />

doppia vocazione: è reporter e artista, interprete del flusso della<br />

vita e pittore riflessivo. I due aspetti convivono senza contraddirsi<br />

grazie alla complessa intersezione con la realtà. Nelle premesse<br />

almeno.<br />

Nel 1882 lo troviamo iscritto alla “Société de Prévoyance des Artistes<br />

Dessinateurs et Graveurs sur bois”, attestato che, pur precisando,<br />

non aggiunge nulla a quel che già sappiamo. E quel che<br />

sappiamo è poco e per di più frammentario, composito, privo di<br />

una direttrice dominante che non sia quella del giornalismo. Un<br />

mazzo di indizi: schizzi dal vero, qualche figurino di moda e<br />

prova di stampa, servizi per riviste e libri, riprese (reportages?)<br />

D. Semeghini, Donna con ventaglio, s.d., olio su tela, cm 71x90.<br />

785<br />

di messe in scene e costumi (Varieté), una manciata di caricature.<br />

L’ultimo lavoro datato con certezza cade nell’85: la locandina<br />

pubblicitaria del Magasin Illustré (“D’éducation et de récréation”),<br />

diretto dalla firma prestigiosa di Jules Verne.<br />

Sembra da qualche scarabocchio d’appunto che Defendi continuasse<br />

ad esporre e mantenesse collegamenti con l’Italia (“Caro<br />

Borghi, (...) nel caso che tu o amici comuni artisti aveste l’idea<br />

di esporre al salon di quest’anno, (...) avrei il piacere di presentarti<br />

l’amico Hector Merlins (...) al quale potreste accordare la<br />

V/a rappresentanza e con fiducia come se si trattasse di me<br />

stesso. Tutti noi qui amici lo conosciamo assai bene (...). L’ultimo<br />

giorno di consegna è il 30 marzo. / Possono spedire a me”). Con


un cenno significativo ai toscani: “parecchi artisti Italiani Scultori<br />

specialmente di Firenze”.<br />

A sfogliare le pagine illustrate di grande tiratura si ha l’impressione<br />

che l’incarico presso L’Illustration non duri più di un triennio<br />

(’80-82) e che in seguito la carriera prosegua nell’editoria<br />

specializzata per l’infanzia, con commissioni saltuarie in altri settori,<br />

come i cataloghi di moda. “Su tutti gli avvenimenti della<br />

mia vita - scrive Zandomeneghi intorno ad un’analoga situazione<br />

- tiro per quanto posso un velo filosofico (...). Il mio vecchio<br />

giornale di mode, il mio solo rifugio durante tanti anni sta per<br />

sparire o per dir meglio passa venduto in altre mani e tutta la<br />

vecchia direzione se ne va per sempre. Per fortuna fui chiamato<br />

dal nuovo direttore (...) Così ora con 3 o 400 franchi al mese pro-<br />

D. Semeghini, Paesaggio, s.d., olio su tela.<br />

786<br />

curerò di camparmela e di pagare i miei modelli” 23 .<br />

Ma non precipitiamo.<br />

Intorno alla ricerca pittorica, non più che deboli segnali possono<br />

venire dalle fotografie di due quadri, venduti o inviati, stando al<br />

Pro-memoria degli eredi, alla mostra torinese dell’80: una coppia<br />

in visita al marmo di Michelangelo, Mosè, e Salvator Rosa,<br />

che rappresenta una leggenda24 sicuramente cara all’artista, se<br />

si considerano le antiche e rinnovate affezioni per l’insolito, i<br />

temi fantastici ed esotici25 . Di essi non v’è traccia nelle maggiori<br />

recensioni del tempo (pensiamo a Boito, Costa, Martelli). D’altra<br />

parte è tutta da verificare l’ipotesi che, dopo il capitolo straordinario<br />

dei volti, dopo accenti tanto discreti e ‘silenziosi’, Defendi<br />

abbia continuato a scandirvi in parallelo una simile mitografia,<br />

mentre persuade maggiormente l’idea che vi si attenesse<br />

ancora intorno al ’78, l’anno dell’Esposizione Universale.<br />

Conclusi senza esito alcuni sondaggi, l’interrogativo dev’essere<br />

giocoforza sospeso.<br />

Restano i disegni, le prove grafiche ed è su di essi che conviene<br />

concludere. Soprattutto i taccuini riservano la sorpresa di un<br />

nuovo ed eccitato momento, che rivela un colpo d’occhio strepitoso<br />

nelle decine e decine di foglietti tracciati febbrilmente. All’artista<br />

non corre più l’obbligo di star fermo sul tema, indagarne<br />

psicologia e moti segreti. Tuffato nell’impressione, si abbandona<br />

all’impulso dei nervi e tratteggia con slancio squarci d’atmosfera,<br />

oggetti, movimenti di folla.<br />

Quel che avevamo visto fermentare oscuramente nelle carte precoci<br />

del ’66 e crescere sui fogli milanesi, finalmente prorompe. Lo<br />

sguardo gira a pieno orizzonte, talvolta digrada in verticale, a volo<br />

d’uccello, per cogliere d’infilata un’immagine che s’allontana.<br />

Non si creda, però, che sia stato l’incontro con la cultura francese<br />

a favorirne l’atto di nascita: non l’Impressionismo, col quale,<br />

pure, si istituisce una sintonia d’istinto, e neppure la sola pittura<br />

verista. Si tratta invece di un esito più generale, maturato in una<br />

molteplicità di esperienze.<br />

Ecco la prova: il taccuino del ’79, metà fatto di schizzi sulla piena<br />

del Po e metà di appunti su una prima visita a Parigi. Tra le due<br />

sezioni non c’è salto, casomai svolgimento, accelerazione del<br />

passo esecutivo. Una velocità, per di più, che si spiega con la differente<br />

funzione delle immagini, orientate le prime a raccogliere<br />

note per il servizio giornalistico (e perciò puntigliose, dialo-


ganti tra loro), e liberamente personali le seconde: intente a fissare<br />

il ricordo dei luoghi, in certo senso una mappa della città<br />

con gli occhi di chi vi è appena sbarcato26 e passeggia dalla banlieu<br />

alla P.te St. Martin e di nuovo a Sèvres. Insomma un cahier<br />

de route incastrato nel reportage della tragedia mantovana;<br />

come un predestinato incontro, nell’animo di Defendi, di due<br />

mondi ugualmente decisivi per lui. Campagna e metropoli.<br />

Fin dalla prima pagina l’attacco, con le lunghe fila dei pioppi e le<br />

rive, è orbitante, panoramico, totale. Si susseguono i tagli lunghi,<br />

a doppia pagina, con note che insistono sull’ampiezza dell’osservazione:<br />

“Dappertutto fiaccole”, “gran moltitudine”, “orizzonte”.<br />

L’occhio riprende, sviluppa, chiarisce. Immagine dopo immagine,<br />

segno sopra segno, parole sovrapposte alla visione.<br />

Viene in luce il dramma corale27 . Il reporter corre dal fiume al<br />

paese, passa sugli argini, segna e risegna i limiti di guardia. Comincia<br />

dal “tempo piovoso” della “Domenica - 1 giugno” precedente<br />

l’alluvione, per passare al “sole” degli altri giorni; tiene nota<br />

delle ore e dei movimenti. Infine condensa tutto, natura, uomini,<br />

cose, in sette quadri (quelli ripresi da Monde Illustré) di<br />

grande efficacia, specie nelle tavole preparatorie, dove raddensa<br />

e slarga alternativamente l’immagine, con un suo tipico modo<br />

di incitarla, distendendola ad arco nel primo piano e riannodandola<br />

su un fuoco dell’orizzonte.<br />

Nel seguito parigino del quaderno la mano sembra scossa dall’elettricità.<br />

I boulevards, i corsi e gli interni dei caffè fomentano<br />

una trama crepitante di bagliori. Segni-suono e segni-colore.<br />

Tant’è che, disegnando un’immagine, l’artista non può trattenersi<br />

dal commentare: “Rumore infernale”.<br />

Dal croquis al bozzetto per il litografo, da questo alla prova di<br />

stampa è un susseguirsi di aggiustamenti (anche censure), di<br />

passaggi, di cui abbiamo qualche esempio significativo, mentre<br />

rimangono introvabili campioni di tavole, magari rifiutate, messe<br />

in sesto sulle fotografie dei corrispondenti. Eppure il fatto stesso<br />

di avvalersi di un medium meccanico getta luce sulla posizione<br />

di Defendi nel travagliato ‘combattimento’ fra i pittori e la<br />

camera oscura. Se si fanno scorrere gli album, l’istantanea appare<br />

vicina ai suoi interessi, per i tagli in potenza fotografici. Campi<br />

ultrarapidi, piani allargati, focali corte e lunghe fanno parte del<br />

loro linguaggio. Certo non risolvono ‘tutto’ il disegno, del quale<br />

rappresentano tuttavia una procedura affiancata ed intensiva.<br />

787<br />

D. Semeghini, L’altalena, s.d., olio su tela, cm 48x38.<br />

Nella paginetta romana di un altro taccuino la matita ha depositato<br />

una nebulosa di tratti, sottili e forti, lasciando affiorare il movimento<br />

e gli umori della folla nello spazio aperto della città.<br />

Pare un battito di ciglia ed è il nocciolo da cui viene il bel disegno<br />

preparatorio per il corteo funebre di Vittorio Emanuele II<br />

(L’Illustrazione Italiana, 1878): “istantanea” ricalibrata in temperie<br />

pittorica, secondo lo schema avanzata-arresto, mezza ruotacentro.<br />

Con lumeggiature, sfumati e chiaroscuri disposti intorno<br />

al perno visivo dell’obelisco in Piazza del Popolo, che è situato in<br />

posizione eccentrica in modo da accrescere l’effetto rotatorio.<br />

Se poco o molto si perde nella traduzione congegnata dallo xilografo<br />

per la stampa (ed è così nel “corteo”); se spesso il primo<br />

progetto viene gravemente alterato, altre volte l’illustrazione definitiva<br />

lascia trasparire un sostrato di montaggi riqualificanti.<br />

Conversioni, modi di vedere e riprese dalla lingua dei pittori: segni<br />

del passato e del presente. Lasciando da parte ovviamente i<br />

riverberi obbligati nelle stampe di traduzione.<br />

E poiché ciò serve a dare, tra le righe, un corpo alla cultura del<br />

‘cronista’, segnaliamo qualche esempio: gli echi da Mosè Bian-


chi e forse dai grandi spagnoli nel Viatico di Pio IX, per quella<br />

barriera di ceri accesi che rinselvano più di metà della tavola;<br />

l’inquadratura fattoriana per il Combat de Bazeilles, sull’lIIustration<br />

del maggio 1881, malgrado il referente di M. Sergent; i risentimenti<br />

da Cammarano nel Tremblement de terre de Casamicciola;<br />

i rilanci neo romantici nell’inscenamento delle feste<br />

patriottiche franco-belghe; sapori impressionisti per le Regate su<br />

lago di Como; motivi esotici nelle cronache della battaglia di Pyrgos<br />

e della spedizione francese in Tunisia; elementi del pittoresco<br />

nelle incisioni per le cartelle divulgative dell’ “École de Dessin.”:<br />

L’aqueduc rustique, o la veduta fluviale28 .<br />

Altri echi arrivano dai paragrafi degli acquerelli e dei carboncini,<br />

frammentate testimonianze che non sappiamo a volte dove col-<br />

D. Semeghini, Alberi, s.d., matita, cm 29x37.<br />

788<br />

locare, se alla fine della stagione italiana o nelle riprese degli<br />

anni francesi. Giacché una precisazione va fatta ed è che spesso,<br />

nel corrispondere alle richieste editoriali, si rimescolano le<br />

carte riattivando correnti iconografiche ormai alle spalle. Non abbiamo<br />

dubbi, però, nel suggerire l’accostamento di due splendidi<br />

carboncini lumeggiati (Albero e Bosco) alla temperie romana<br />

e in ultima istanza al clima del Salvator Rosa, per quel che lascia<br />

indovinare un documento così labile come la fotografia di<br />

un’opera da ritrovare.<br />

Osservandoli, pensiamo di primo acchito al gusto del paesaggio<br />

‘drammatico’ alla Théodore Rousseau29 , trasmesso anche dai fratelli<br />

Palizzi e dalle scuole settentrionali. Ma nulla vieta di vedervi<br />

altri risentimenti: un prolungamento personale dei “sogni”


della natura (e di sogni, come s’è visto, era costellata l’opera semeghiniana<br />

fin oltre le Dame), incrociato col gran “pittoresco” e<br />

i miraggi delle foreste di Nino Costa (nel ciclo assediante della<br />

“Ninfa”).<br />

Senza dubbio è la natura vista, ma immediatamente rifantasticata<br />

ed elevata a mito. Portata al sublime. L’immagine sottolinea<br />

la lotta dell’ albero con gli elementi, il suo contorto resistere<br />

sulla cima di un picco. E l’associazione si ripete nel secondo disegno,<br />

albero-roccia, bosco-pietra, in una solitudine che, se qui<br />

è selvaggia e favolosa, si tramuterà poco dopo nella pacata malinconia<br />

delle visioni mantovane composte al declinare del Settanta<br />

(alludiamo all’olio e al carboncino Paesaggio, oltre che alla<br />

redazione ‘invernale’).<br />

D. Semeghini, Costumi teatrali, s.d., matita, cm 12x19.<br />

789<br />

Dal che si vede (e concluderemo subito la digressione) come<br />

l’artista mantenga fermi nel tempo taluni soggetti, trasferendoli<br />

sui piani differenti della fantasia e dello stile; e come, nel corso<br />

di tali trapassi, discuta e filtri i tempi della figurazione contemporanea.<br />

Quale valore attribuire allora ai taccuini se non quello (anche) di<br />

testimoniare i nuclei in formazione di nuove immagini? Di offrire<br />

qualche traccia di eventuali dipinti?<br />

In un album parigino ecco venirci incontro, dopo una prolungata,<br />

minuziosa e divertita registrazione teatrale (con saporosi colpi<br />

d’occhio sui palchi e i finali di scena, che son le cose - pittoricamente<br />

- più interessanti), un’immagine avvolgente, la più<br />

emozionata - a nostro vedere - di tutta la serie. Ha un titolo:


Printemps, e una misura annotata di fianco, idonea per una<br />

grande stampa, 31 x 49. Il disegno è pieno di luce. Vi irrompe<br />

dall’alto la vita del boulevard, nello scorcio dei tetti e dei palazzi.<br />

Panorama in fuga da entrambi i lati, sfolgorante, pregno di<br />

virtù cromatiche che irraggiano alla maniera (con la gioia visiva),<br />

questa volta sì, degli impressionisti.<br />

Le pagine successive prolungano il tema andando dritto sulla<br />

strada per cogliere l’episodio di un incendio: c’è l’incrocio fulminato<br />

in pochi tratti di lapis; la promenade sotto gli alberi, gli<br />

schizzi e le macchine dei pompieri. Nuovo titolo ed incastro di<br />

suggestioni: Incendie-Printemps. Poi cavalli, vetture, l’edicola del<br />

giornale. Macchie, grafie, scorci. Infine un interno. Potrebbe essere<br />

un quadro: A Casa Tofani - La Signora è al piano, con l’indicazione<br />

“Più piccolo”.<br />

Non più che indizi, qui e in altri punti dei quaderni, dove in un<br />

labirinto di indirizzi, pro-memoria, minute di lettere e poche date<br />

D. Semeghini, Veduta di Parigi, s.d., matita, cm 12x39.<br />

D. Semeghini, Per le strade di Parigi, s.d., matita, cm 12x39.<br />

790<br />

(1882, 1883), vediamo alternarsi gli schizzi più avanzati (qualcuno<br />

va ben citato: signora che legge, una dormiente, interno di<br />

caffè, conversazione) con antichi modi di progettar quadri.<br />

Intermittente quanto si vuole, un volto della città riusciamo a coglierlo.<br />

Una mappa pubblica e privata. È la quotidianità di Parigi<br />

vista nei risonanti luoghi d’incontro, alla stazione, lungo i corsi, a<br />

teatro, nelle piazze e “dietro la facciata”. Un pulviscolo di sensazioni<br />

e una galleria di tipi. Né val la pena di continuare, se non<br />

per soffermarci un istante su un altro frammento di quel caleidoscopio.<br />

Un momento comico. È L’affaire du pot de Chambre<br />

riassunto nello schizzo d’una investitura beffarda. Di che si tratta?<br />

Idea per un vaudeville o vignetta per il giornale?<br />

Qualche pagina dopo scoppia un secondo lazzo ai danni di un<br />

personaggio celebre della cronaca politica, Léon Gambetta. Là<br />

un vaso da notte, qui un’enorme siringa, manovrata post tergum<br />

da un istrione nasutissimo, fan vedere come l’illustratore pratichi


lo humour all’antica, mediante il “caricamento”, l’esagerazione<br />

dei tipi e la recita degli oggetti. Classico topos di mimi e comédiens,<br />

la cerimonia grottesca del clistere è un lacerto carnevalesco;<br />

e volutamente teatrale, poiché il naso adunco del “medico”<br />

ricalca alla perfezione una maschera iperfallica di Pulcinella, irridente<br />

scongiuro contro l’impotenza e la peste.<br />

Anti-intronizzazione sanzionata anche dal motivo scatologico. Da<br />

quel che si conosce (ed al mazzo va aggiunta l’intensa caricatura<br />

del giudice in toga nell’album italiano, insieme all’altra ‘parigina’,<br />

della “disperazione d’un artista”), il disegnatore appare incline<br />

a quella speciale maniera del comico che, facendo leva<br />

sulla beffa, lo scherzo e i divertissement30 , sostiene la prodezza<br />

esilarante del gesto. Lontano dunque dagli ingorghi psichici del<br />

comico perturbante che pochissimi (Daumier o Grandville)<br />

vanno tingendo di zolfo sulla scia di Hogarth e di Goya.<br />

Se la caricatura, linguaggio che innova in profondità la cultura<br />

moderna, costituisce - ha osservato C. Maltese – “uno dei più dolenti<br />

punti critici (...) di tutto il movimento realista in Italia”, occorre<br />

marcare, nel caso di Defendi, il trait d’union con gli umoristi<br />

legati ai principi del Carracci, ad una cifra cioè consanguinea<br />

alla Commedia dell’Arte e alle discendenze presenti tra gli scapigliati.<br />

D’altronde una vena di scherzo attraversa la relativamente ampia<br />

produzione semeghiniana per l’infanzia.<br />

Basti vedere il foglio dei giochi con animali, le illustrazione dei<br />

libri31 , oppure la sequenza acquerellata dell’Alphabet pour Papa<br />

et Maman, dove ogni lettera fa scattare l’affettuosa associazione<br />

con le figure dello zoo. Ci si sente trasportati sotto le tende di un<br />

circo, in cui l’alfabeto, autentico directeur de troupe, regola i<br />

‘quadri’ e porta in campo le scenette di un esotico spettacolo domenicale.<br />

Un viaggio geografico ai bordi della barrière.<br />

Si dirà che è una miniatura, un microcosmo addomesticato e<br />

scolastico, eppure rientra anch’esso nella cronaca urbana, racconta<br />

l’avventura ‘a programma’ degli incontri e delle uscite in<br />

periferia: didattica della città borghese, come si ricava dal bell’acquerello<br />

(frontespizio o “cul de lampe”) della visita al museo<br />

di storia naturale.<br />

Il pittore si eclissa nell’illustratore. Lo avvertiamo arretrare in una<br />

regione imprendibile, in un silenzio sempre più denso che sol-<br />

791<br />

tanto la mostra del 193932 riuscirà provvisoriamente a rompere,<br />

dimostrandone la grandezza nell’avaro panorama dell’Ottocento.<br />

Interprete tra i più ispirati del realismo lombardo, da lui declinato<br />

con accenti di sobria elegia e singolare compostezza formale;<br />

sguardo nel medesimo tempo aperto ai fermenti della modernità<br />

in un’epoca di trapassi e lacerazioni, egli resta ancora, per servirci<br />

di un suo appunto33 , il “pallido viaggiatore” da riconoscere<br />

nel quadro complessivo della pittura italiana.<br />

1. Attualmente le opere di S. sono suddivise in quattro depositi principali, tre<br />

presso gli eredi di Cecina, Vicenza e Virgilio (Mantova), ed uno al Museo Civico<br />

di Palazzo Te (donazione Mario Semeghini). Quasi nulla si trova nella Raccolta<br />

Bertarelli di Milano: due xilografie (di cui una molto dubbia) e tre illustrazioni<br />

(nel volume Il Re Galantuomo Ricordo della vita e delle esequie di Vittorio Emanuele,<br />

Treves, Milano 1878). Singoli dipinti, disegni e stampe appartengono a<br />

collezionisti privati. Sulla donazione alla Città di Mantova, v.: ANONIMO, Le opere<br />

di Defendi Semeghini donate al nostro Comune dal nipote dell’Artista, “La Voce<br />

di Mantova”, 12 settembre 1942; R. MARGONARI, Semeghini torna a Mantova,<br />

“Gazzetta di Mantova”, 7 agosto 1964; A. ANTONIOLI, 24 tele di Defendi Semeghini:<br />

dalle opere al personaggio. Invito per una ricerca critica, “Città di Mantova”<br />

n, 10/11, settembre 1964; un cenno in F. BARTOLI (a c. di), catalogo Defendi<br />

Semeghini, Ente Manifestazioni Mantovane, settembre-ottobre 1971.<br />

2. L. VITALI (a c. di), Lettere dei Macchiaioli, Einaudi, Torino 1953, p, 125.<br />

3. Cfr. il Pro-memoria biografico del pittore D.S. (allegato alla donazione alla Città<br />

di Mantova), che riferisce precocemente alla metà del Sessanta l’iscrizione a<br />

Brera. Vista la scarsità davvero disperante di notizie cronologicamente certe, non<br />

possiamo fare a meno di considerare assai preziose le rare date autografe segnate<br />

in margine ai disegni. Non sembri perciò inutile darne subito un rapido<br />

ragguaglio. Nel 1864 cadono due esili esercizi ornamentali con la dicitura Defendi<br />

Semeghini d’anni 12, nel ’65 una sanguigna raffigurante il calco di un grande<br />

occhio e lo schizzo a matita di un paeaggio fluviale (il Po?), nel ’66 altre due<br />

vedute fluviali e il sommario bozzetto geometrico di un monumento funerario.<br />

Dopodiché passano tre anni prima di trovare nuovi fogli firmati e datati, un paio<br />

di paesaggi, figure accademiche in posa di notevole abilità esecutiva e un ritratto<br />

femminile visto di profilo. Altre date si leggono in analoghi disegni del triennio<br />

1870-72 (pochissimi, quattro), poi nuovamente un lungo silenzio fino ai taccuini<br />

italiani e francesi redatti fra il 1879 e l’83. Dato che gli oli non portano indicazioni<br />

cronologiche di mano dell’autore, la ricostruzione dell’itinerario pittorico<br />

non può che procedere per via di elementi stilisticamente indiziari e interni<br />

all’opera nella direzione indicata a suo tempo da A. Puerari. Tra le questioni aperte<br />

v’è, ad esempio, la datazione di opere “bifronti”, quali Atelier o Due fanciulli,<br />

tele che si prestano contemporaneamente a connessioni con la cultura milanese<br />

e quella romana degli anni Settanta (dal Mosè Bianchi ‘scapigliato’ del Bagno<br />

pompeiano ai cultori di esotismi classicheggianti dell’ Accademia di San Luca). Il<br />

fatto è che talora i confronti non danno l’esito sperato, poiché quel che potrebbe<br />

apparire un riflesso è in realtà una anticipazione o un risultato autonomo,<br />

come avviene nel caso dell’Autoritratto (e nel sicuramente coevo Ritratto di giovane<br />

della Coll. eredi, Vicenza), che tutta una serie di motivi, ivi compreso il dato<br />

fisiognomico, consigliano di datare a metà del Settanta, quando l’artista aveva<br />

poco più di vent’anni.<br />

Quanto all’attività grafica documentata nei taccuini, la scoperta di nuove acquisizioni<br />

appare subito evidente e tuttavia, anche qui, altre ombre finiscono per addensarsi.<br />

Sicché pare fatale che si debba ancora una volta procedere per indizi e<br />

pochi spiragli, lasciando solo intuire quale possa essere stata l’attività di Semeghini<br />

negli ultimi sette-otto anni di vita.<br />

4. Cosa che già si poteva osservare nella raffigurazione di un grande occhio di


gesso del ’65 (ed analoghi esercizi), con la differenza che allora il motivo era<br />

svolto in punta di grafite e lievi tocchi di lume bianco, mentre adesso la matita<br />

indugia, sfuma e s’impasta.<br />

5. L’antisensuosità coloristica degli ultimi ritratti è più volte segnalata nello scritto<br />

principale di A. PUERARI, Artisti italiani: Defendi Semeghini (1852-1890), “Il<br />

Frontespizio”, n. 8, Firenze 1939.<br />

6. Ci sono disegni di immaginazione, vedute neogotiche e rinascimentali, castelli<br />

sulle rocce, rupi sul mare con qualche raro profilo di veliero, che - per atmosfera<br />

e tipologia architettonica - fanno pensare agli album di Luca Beltrami ed ai<br />

suoi ‘restauri’ in chiave tardoromantica dell’antico.<br />

Culturalmente intrigato con l’iconografia dei grandi repertori di incisione diffusi<br />

nell’Ottocento è, tra gli altri, un foglio raffigurante un traghetto fluviale sullo<br />

sfondo di alberi giganteschi e di ruderi. Immagine da riportare alla lontana matrice<br />

del fantastico secentesco (il cosiddetto preromanticismo, per intenderci, di<br />

Salvator Rosa e di Ruysdaël). Tali elementi ritornano nella raffigurazione di una<br />

piazzetta e di altre vedute di pura fantasia combinatoria e rammemorante, per<br />

le quali si può ancora una volta ipotizzare l’intento conoscitivo desunto dall’amore<br />

per le stampe.<br />

In alcuni di questi disegni (i più acerbi, ché gli altri si debbono situare almeno<br />

dopo la metà del Settanta) si scorgono già attive alcune predilezioni formali,<br />

certe speciali inquadrature, come nelle prode e paesi visti dal basso, che preludono<br />

o sono comunque vicini al punto di vista dello Zatterone (acquarello) e alla<br />

prospettiva ‘drammatica’ del personaggio solitario sulla rupe (l’olio denominato<br />

nel lascito Napoleone a S. Elena).<br />

L’analogia con Luca Beltrami ci è stata suggerita da G. Arcari, che desideriamo ringraziare<br />

per questa ed altre sollecitanti indicazioni intorno ai testi del Semeghini<br />

illustratore e reporter.<br />

7. D. ISELLA, La Scapigliatura letteraria lombarda: un nome, una definizione, nel<br />

catalogo Mostra della Scapigliatura (a c. di A.M. BRIZIO), Palazzo della Permanente,<br />

Milano, 1966, p. 27.<br />

8. Cfr. E. PICENI e M. CINOTTI, La pittura a Milano dal 1815 al 1915, in AA.VV.,<br />

Storia di Milano, XV Fondaziane Treccani, Milano, 1961, pp. 514 ss.; M. DALAI<br />

EMILIANI, in catalogo Milano 70/70, Milano 1970, pp. 50 ss.; M. MONTEVERDI, La<br />

pittura italiana dell’Ottocento, Bramante, Milano 1975, pp. 201 ss.<br />

9. E. PICENI e M. CINOTTI, op. cit., pp. 522, 536 e passim.<br />

10. V. BIGNAMI, Club, società e ritrovi, “Media lanum”, II Vallardi, Milano 1881,<br />

p. 123. Dello stesso v. anche lo scritto introduttivo al catalago della mostra La pittura<br />

lombarda del secolo XIX, Milano 1900, dove l’età scapigliata viene riassunta<br />

nei grandi esiti dei paesisti; cfr. anche S. PAGANI, La pittura lombarda della<br />

Scapigliatura, S.E.L., Milano, 1955, passim.<br />

Dallo spoglio dei cataloghi delle Esposizioni di Brera (in cui per altro compaiono<br />

quasi regolarmente i nomi degli amici di Semeghini) non si ricava, salvo errore,<br />

il nome dell’autore mantovano. La qual cosa, per gli anni 1868-1880, ci lascia<br />

davvero sorpresi. Come interpretare questo silenzio nei documenti ufficiali delle<br />

rassegne? La pittura fu per Il Nostro un esercizio privato negli anni milanesi?<br />

11. Trascriviamo i titoli appuntati su una pagina: Cambise uccide il figlio di Pressaspe,<br />

Battaglia di Maratona, Aristide esiliato, Battaglia delle Termopili, Benvenuto<br />

Cellini a Mantava.<br />

La difformità stilistica (e non sola tematica) degli schizzi contenuti negli altri fogli<br />

del medesimo album fa pensare che Semeghini tenesse una sorta di brogliaccio<br />

sperimentale in cui annotava le idee che via via gli si presentavano alla mente<br />

nell’atto di confrontarsi con la cultura disegnativa e pittorica dei primi anni Settanta.<br />

Ed è curioso che accanto a tante ‘inquadrature’ compaiano schemi grafici<br />

che già presentano preoccupazioni di carattere tipografico-impaginativo. Alcuni<br />

soggetti; come la bella caricatura d’un magistrato tracciata in retrocopertina,<br />

sembrano interamente calati nel clima delle stampe satiriche così care agli autori<br />

della Scapigliatura.<br />

12. Napoleone a S. Elena: mera figurina quella dipinta a tratti veloci in cima al<br />

grande scoglio oceanico, mentre tutto l’interesse è concentrato sul paesaggio immaginario,<br />

proposto anche mediante i segnali eloquenti dei gabbiani e delle nu-<br />

792<br />

bi. Una tempesta visualizzata.<br />

13. Allegato del ripensamento pittorico è un bel disegno della Collezione di Cecina:<br />

disegno che pare fare il punto sull’immagine tanto indagata sulla pelle del<br />

dipinto della collezione del Museo Civico di Palazzo Te.<br />

14. v. R. TESSARI, La Scapigliatura, Paravia, Torino 1975, p. 195 (per il suggerimento<br />

contenuto nel “microsaggio”: “Venere nera” ed esotismo).<br />

15. A. PUERARI, op. cit., p. 523.<br />

16. Cfr. P. FRANDINI, Nino Costa e l’ambiente artistico romamo tra il 1870 e il<br />

1890, catalago Aspetti dell’arte a Roma dal 1870 al 1914, De Luca, Roma 1972,<br />

pp. XIX-XXXIII; A.M. DAMIGELLA, La pittura simbolista in Italia, Einaudi, Torino<br />

1981, pp. 21-84; E. SAMORÈ, Pittura italiana dell’Ottocento, Milano 1928, passim.<br />

17. V. S. ROMAGNOLl, Spazio pittorico e spazio letterario da Parini a Gadda, in<br />

Storia d’Italia - Annali, V, Einaudi, Torino 1982, p. 500. Ma è da tener presente,<br />

all’interno del nostro proposito, tutta la seconda parte del saggio (La ricerca della<br />

realtà), specie da p. 489 in poi, per le fini osservazioni intorno all’affiorante coscienza<br />

della città moderna in un paesaggio che resta ancora e per molti versi<br />

connotato in senso locale. Altri spunti si colgono in alcuni interventi critici nel catalogo<br />

Paesaggio - Immagine e realtà (Mostra alla Galleria d’Arte Moderna di<br />

Bologna), Electa, Milano 1981 (ci riferiamo in particolare agli scritti di A. Andreoli,<br />

N. Lorenzini e I. Zannier).<br />

18. V. su questo punto il convincente cenno ad un’anticipata sintonia con Medardo,<br />

fatto da C. PERINA nel suo profilo della pittura mantovana (cap. VIII della sezione<br />

Pittura, p. 646), in E. MARANI e C. PERINA, Mantova - Le Arti, voI. III, t. l,<br />

Istituto Carlo D’Arco, Mantova 1965.<br />

19. Costruzione per echi, puntualmente annotata dagli interpreti: A. PUERARI, op.<br />

cit., p. 525; C. PERINA, op. cit., p. 647.<br />

20. V. A. PUERARI, op. cit., p. 525.<br />

21. Il dipinto si trova presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma. Cfr. P. DINI, Silvestro<br />

Lega. Gli anni di Piagentina, U. Allemandi & C., Torino, 1984, tavola XIV e<br />

n. 52 del catalogo.<br />

22. D. MARTELLI, Corrispondenza inedita, a c. di A. Marabottini e V. Quercioli, De<br />

Luca, Roma 1978.<br />

23. L. VITALI, op. cit., p. 298.<br />

Il quadro illustra un episodio della vita di Rosa, vulgato tra gli altri in età romantica<br />

dalla biografia di LADY SIDNEY MORGAN, The life and the time of Salvador<br />

Rosa, London 1824, che rielaborava con piglio romanzesco le fonti storiche; ecco<br />

uno stralcio: ”L’avvenimento più notevole di queste escursioni ardite del Rosa<br />

nelle montagne è la sua prigionia fra i banditi che ne erano gli unici abitanti, e la<br />

sua associazione temporanea (e perfino, si dice, volontaria) con quegli uomini terribili.<br />

24. v. L. SALERNO, Salvator Rosa, Rizzoli, Milano, 1975, p. 11.<br />

25. Oriente, esotismo e pittoresco sono variamente presenti nella delineazione<br />

di interni, suppellettili e particolari d’abbigliamento. A parte l’inverificabile Odalisca,<br />

ricordiamo l’Atelier e Due fanciulli (oli della coll. civica e variante della coll.<br />

S. di Vicenza), gli acquerelli Turco e Autoritratto con copricapo turco (coll. Cecina<br />

e Vicenza).<br />

26. Il taccuino cui alludiamo (un piccolo album tascabile di cm. 10 x 15,5, con 44<br />

fogli disegnati, ora nella coll. Riccardo Semeghini) contiene fino alla pag. 48 (f.<br />

24) una impressionante sequenza di appunti visivi commentati da didascalie che<br />

richiederebbe una analisi dettagliata dei punti di vista, degli spostamenti e delle<br />

scelte operate dall’illustratore. Oltre alla qualità grafica, va poi considerata l’importanza<br />

documentaria dell’album, per la cui analisi è auspicabile la lettura di<br />

uno storico attento ai valori testimoniali dell’iconografia: lettura che andrebbe<br />

condotta tenendo conto anche delle grandi tavole disegnate da Semeghini sul<br />

medesimo avvenimento e delle traduzioni litografiche, in parte conservate al<br />

Museo Civico di Palazzo Te.<br />

Ricordiamo a questo punto che nelle collezioni degli eredi Semeghini (di Cecina,<br />

Vicenza e Virgilio), gli album superstiti sono in tutto dieci, quasi totalmente riferibili<br />

agli anni del soggiorno parigino. Ma se di tutti abbiamo preso visione all’epoca<br />

della mostra di Semeghini alla Loggia di Giulio Romano (Mantova, 1971),


non ci è stato tuttavia consentito di recente che la consultazione dettagliata di<br />

cinque di essi (Coll. Cecina e Virgilio). La strettissima connessione fra le immagini<br />

della rotta del Po e le registrazioni parigine nel medesimo album, assieme ad<br />

altri indizi collegati a nomi ed indirizzi, rende molto probabile l’ipotesi che Defendi<br />

si fosse recato a Parigi nel giugno del 1879 per stringere un primo rapporto<br />

con la redazione di Monde Illustré. Nel supplemento della rivista dedicato alla<br />

piena i dessins vengono attribuiti a M. Scott e a D. Semeghini. In realtà qui occorre<br />

distinguere tra croquis e dessin, cioè tra schizzo e tavola preparatoria. Infatti<br />

tutte le immagini appartengono senza eccezione al carnet dell’artista mantovano<br />

(e lo dimostra il riscontro con esso), mentre Scott, che pure firma da solo<br />

alcune inquadrature, non ne è che il rifacitore, colui che le traduce nella formula<br />

del giornale. Ad ogni modo il fatto stesso che l’album sia il testo base per le<br />

illustrazioni induce a supporre che qualcuno lo avesse portato a Parigi. E chi può<br />

averlo portato se non lo stesso Defendi, visto il ‘seguito’ di mappe e figure della<br />

città?<br />

27. Val la pena di ricordare che L’Illustrazione Italiana del 22 giugno 1879 pubblica<br />

anch’essa un nutrito corpo di immagini sullo stesso argomento, attribuendo<br />

gli schizzi ad un altro suo abituale collaboratore, Saporiti (Rinaldo), e i disegni a<br />

Bonamore e Bignami. Il servizio iconografico è accompagnato da un’ampia cronaca<br />

e da una nota aggiuntiva sulle immagini, alle quali seguono considerazioni<br />

piuttosto polemiche nei confronti degli inviati speciali, colpevoli di cercare<br />

nella tragedia soltanto “gli elementi del bozzetto, del quadretto di genere, dell’aneddoto”,<br />

eccetera.<br />

Ci si chiede: perché Semenghini non inviò i suoi schizzi all’Illustrazione, pur essendone<br />

ancora, a quella data, collaboratore? (Vedi il n. del 25 maggio). Era in<br />

atto una rottura? E Bignami non è il suo amico “Vespa”? Oppure dobbiamo congetturare<br />

che, avendo scelto di fare il servizio per l’estero, operasse in silenzio<br />

accanto a Saporiti? Nell’album che abbiamo consultato compare un significativo<br />

riferimento ad un secondo taccuino perduto (“Vedi l’altro Album”, a p. 5). Chi utilizzò<br />

questo quaderno? In quale redazione?<br />

28. In quest’ultima e nel disegno del “traghetto” (v. nota 6) il paesaggio è praticamente<br />

lo stesso. Assenti invece le figure. L’autore metteva dunque a disposizione<br />

dell’Ecole de dessin il suo personale repertorio di esercizi.<br />

29. V. D. DURBÉ e A.M. DAMIGELLA, La scuola di Barbizon, Fabbri, Milano 1969,<br />

pp. 13-18.<br />

30. Una cartella scoperta di recente, l’Album militare umoristico per Sem, non<br />

contraddice (anzi rientra in) questo indirizzo farsesco, nel gusto del riso incentivato<br />

dall’iperbole figurale. L’attribuzione a Semeghini è stata proposta da R.<br />

MARGONARI (Defendi Semeghini caricaturista e umorista, “Gazzetta di Mantova”,1<br />

novembre 1980) sulla base (anche) del Dizionario di L. Servolini, che certifica<br />

l’abbreviativo “Sem” per Semeghini, in comune col più celebre “Sem (Goursat<br />

dit) caricaturiste” (cfr. E. BÉNÉZIT, Dictionnaire critique et documentaire, eccetera.,<br />

Saint Ouen (Seine) 1960, vol. VII). Anche se l’ortografia delle scritte che<br />

accompagnano i cinque fogli dipinti, non presenta una stretta parentela con la<br />

grafia dell’autore (salvo, forse, per le maiuscole), la circostanza che siano redatte<br />

in lingua italiana per un pubblico ancora italiano nella parlata o comunque bilingue<br />

(quello di Nizza, intorno al 1880), rende più credibile l’attribuzione al Nostro<br />

che ad un artista francese (allora sui diciotto anni). Per di più compaiono due errori<br />

ortografici di seguito nell’unico passo in cui viene trascritto un breve sintagma<br />

francese.<br />

Formalmente, come s’è detto, le somiglianze si colgono soprattutto nel disegno<br />

che sostiene il colore. Meno nella stesura di questo.<br />

31 Si tratta di 28 cartoncini acquerellati, 26 per le lettere dell’alfabeto, due per il<br />

frontespizio e il “cul de lampe” finale, che sono il risultato di un progetto scritto<br />

in lingua francese (archivio di Cecina). Vicino a quest’ultimo un secondo foglio riferito<br />

a 38 illustrazioni per una pubblicazione dal titolo: Le bon Toto et le merchant<br />

Toma.<br />

32. Mostra dei Pittori, Scultori e Incisori Mantovani, “800” e “900”, a c. di E. Faccioli<br />

(“Incisori Mantovani del Novecento” e A. Puerari (“La Mostra di pittura ottocentesca<br />

Mantovana”), Palazzo Te, Mantova 14 maggio-30 giugno 1939. Il<br />

793<br />

testo di A. Puerari ricompare con lievi modifiche nei nn. dell’11,14,28,30, 31<br />

maggio e 4 giugno de “La Voce di Mantova”, oltreché in “Mantus”, anno VII, n.<br />

3, Mantova, maggio giugno 1939. L’intervento specifico su Semeghini (citato alla<br />

nota 5), redatto dopo l’apertura della mostra da A. Puerari, rappresenta a tutt’oggi,<br />

per l’appassionata adesione e la pertinenza critica dei giudizi, un imprescindibile<br />

luogo di riferimento. In aggiunta ai saggi ed agli articoli ricordati nelle note<br />

precedenti riportiamo, qui di seguito in ordine cronologico, gli scritti che abbiamo<br />

consultato: F. CARLI, Visita alla mostra d’arte dei pittori e scultori quistellesi,<br />

“La Voce di Mantova”, 24 agosto 1935. G. PIOVENE, La mostra d’arte mantovana,<br />

“Corriere della Sera”, 14 maggio 1939 (con il seguente giudizio: “Il Semeghini<br />

ha poco di lombardo; dalle notizie biografiche che ho raccolto di lui, non si<br />

capisce come abbia potuto dipingere in modo che potrebbe far parte del movimento<br />

macchiaiolo (e non tra le comparse), a eccezione di un interno che sembra<br />

di un Favretto più svelto. Nelle teste ricorda il Fattori, e attraverso il Fattori il<br />

Bezzuoli; nei disegni il Boldini; a tratti anticipa lo Spadini, ma con un colore scuro,<br />

tendente al marrone rossiccio, quasi da secentista” (il corsivo è nostro). ANONI-<br />

MO, Il pittore Defendi Semeghini (1952-1891) - Note biografiche, “L’Esame”, anno<br />

VI, n. 5-6, Milano, dicembre 1939. S. PEDRAZZOLl, Il pittore Defendi Semeghini,<br />

“Gazzetta di Mantova”, 25 settembre 1955. L. SERVOLINI, Dizionario illustrato<br />

degli incisori italiani moderni e contemporanei, Gorlich, Milano 1955. E. FACCIO-<br />

LI, prefazione al catalogo Rassegna delle arti figurative mantovane dall’800 ad<br />

oggi, Casa del Mantegna, Mantova, settembre-ottobre 1961. G.L. VERZELLESI, La<br />

mostra delle arti figurative mantovane, “Gazzetta di Mantova”, 22 ottobre 1961,<br />

catalogo Prima Mostra Artisti Quistellesi, Quistello (Mantova) agosto 1968. S. PE-<br />

DRAZZOLl, Ricordo di Defendi Semeghini, “Gazzetta di Mantova”, 24 dicembre<br />

1970. M. CATTAFESTA, Defendi Semeghini, “Gazzetta di Mantova», 26 settembre<br />

1971. A.M. COMANDUCCI, Dizionario illustrato dei pittori, disegnatori e incisori<br />

italiani moderni e contemporanei, Patuzzi, Milano 1972. S. PEDRAZZOLI, Inizia nel<br />

Settecento la storia dei Semeghini, “Gazzetta di Mantova”, 13 gennaio 1977. R.<br />

MARGONARI, rubrica La nota di Margonari, “Gazzetta di Mantova”, 16 dicembre<br />

1981 (a proposito di un olio: Contadina).<br />

33. Su due pagine di un taccuino leggiamo in bella trascrizione alcune sestine di<br />

tono romantico che l’artista, lontanissimo per temperamento dalla letteratura,<br />

dovette sentire particolarmente consonanti alla propria condizione. Ecco i versi<br />

centrali: Pale voyageur, connais tu l’amour / Comme tout le monde en révant<br />

un jour / Je l’ai rencontré fleuri d’espérance / Et j’ai pris ma place parmi les ìles<br />

/ J’avais dans le coeur toutes les croyances / Il m’en a tant pris que je n’en ai<br />

plus.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Defendi Semeghini (1852–1891).<br />

Dai sogni alla scena metropolitana”, a cura di <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> e Gian<br />

Maria Erbesato, Mantova, Palazzo Ducale, 1989.


I tre passi di Pirro<br />

Pirro Cuniberti (1)<br />

Non saprei dire se dèmone o folletto, certo è che uno spirito del<br />

teatro soffia sulla fantasia di Cuniberti. Muove immagini e personaggi,<br />

provoca situazioni. Ma poiché lo spirito del comico si insinua<br />

nel movimento stesso del dipingere, non si tratta soltanto di<br />

effetti connessi alle figure. Per di più comico come? Nel significato<br />

del genere espressivo (l’arte comica), o per indicare colui che<br />

recita, il commediante? Direi in entrambi i sensi e particolarmente<br />

nel secondo. Se infatti non sussistono dubbi sugli umori sottili<br />

di qesta pittura (ben lontana per altro dall’essere satirica o caricaturale),<br />

non è men vero che un autentico coefficiente attoriale si<br />

incarica di condurre in concreto il gioco delle linee e dei colori. Chi<br />

è allora il commediante? Per sorprenderlo occorre tallonare il<br />

segno, stargli da presso e vederne il moto ritmico che lo porta ad<br />

occupare gli spazi: un inseguimento, questo, che tanto meglio riesce<br />

a chi osserva l’artista al lavoro o fa tesoro dei suoi racconti retrospettivi<br />

per comprendere la genesi dei dipinti. Ecco quel che accade:<br />

la matita (o il pennello, e più precisamente l’animato complesso<br />

di mano-pennello-colore) si muove sulla superficie, entro i<br />

brevi limiti della tavola o del foglio, come l’attore (comico) agisce<br />

sul palco, nel nostro caso un luogo che - in omaggio ai gusti dell’autore<br />

- non sarà azzardato chiamare teatrino da camera. Non<br />

solo. Oltre alle manovre della mano e degli strumenti, che già di<br />

per sé grondano di valori spettacolari, c’è dell’altro ed è la materia<br />

del repertorio e delle storie. E ancora: un modo narrativo (un<br />

metodo) in cui - come ha fatto osservare P. Fossati - i tempi e le<br />

regole del raccontare valgono assai più dei contenuti che rappresentano.<br />

Naturalmente tutto quel che si vede è pittura, non esce dallo specifico<br />

né lo falsifica, ma è comunque una pittura che piega ai propri<br />

fini tecniche originarie della recitazione. Un caso unico? Una<br />

anomalia? Non pare proprio, visto che anche altri autori cari a Cuniberti<br />

erano maestri di analoghi debordamenti. Klee, per esempio,<br />

oppure Palazzeschi. Nomi calzanti ai quali si aggiungono Jarry<br />

e, ancor più affondati nel retroterra della cultura materna e d’elezione,<br />

quasi invisibili e cionondimeno operanti, i grandi modelli<br />

dello stile enumerativo, dei cataloghi e delle raccolte fantastiche,<br />

come G.C. Croce e F. Rabelais.<br />

794<br />

Quanto all’ “attore”, la sua efficienza è evidente fin dagli esordi,<br />

Già le chine del ‘58, nere e senza titolo, appaiono immerse in un<br />

dinamismo inequivocabile, tramate, come sono, da due pronunce<br />

gestuali, da un incrocio di salti sulla punta della penna e di strisciate<br />

all’indietro. Il pennino ora sobbalza depositando tracce puntiformi,<br />

ora cammina sul dorso, arretra, accerchia e tocca di lato i<br />

battiti precedenti. Poi torna a saltare e di nuovo incide tratti continui<br />

fino a esaurire le possibilità espressive della superficie. Quel<br />

che si coglie è il doppio movimento della danza, quell’alternativa<br />

elementare di salto e di lento avanzamento, di balzo e di strisciata<br />

a terra, che sta all’origine della coreutica moderna (il saltarello<br />

e la bassadanza di cui parlano i primi testimoni). Senonché Cuniberti<br />

non si limita a comunicarli ai propri strumenti seguendone<br />

l’ordito naturale, ma li trasmette alla matita o alla penna in senso<br />

contrario o eccentrico. Fa sì che l’asticciola vada in à plomb, di<br />

schiena, a pendolo, a sghimbescio e di taglio; che graffi, punga,<br />

ferisca e non solo accarezzi. Sono acrobazie, numeri, sfoggi di abilità.<br />

Bravure e lazzi da clown. Soprattutto fingono irrigidimenti, eccitano<br />

le tensioni partendo dall’innaturale. La mano abbatte e arresta,<br />

guida una catena di giravolte, ghiribizzi fissati, fughe laterali<br />

e a gambero. Contrae e dilata il moto. Sbarra e rilascia, blocca e<br />

libera. Insomma esibisce la maestria del farceur e del buffone. E<br />

poiché ad agitarsi sono pennini, biro, setole dure (pennelli per<br />

nulla esotici e orientaleggianti), è chiaro che Cuniberti, come un<br />

burattinaio educato dagli zanni amanti del finto artificiale, si serve<br />

della resistenza come fonte di dinamismo: in definitiva di una sintassi<br />

motoria tutta reinventata che non ha bisogno (anche se<br />

viene spontaneo pensarlo) di avere sorgenti e modelli antichi, tipo<br />

Strascino. Di joculatores e saltimbanchi è il metodo che conta, l’uso<br />

d’una lingua perpetuatasi nel tempo e ben attiva là dove il pittore,<br />

tramite forse la consonanza col mondo emiliano, ma più ancora<br />

grazie al cinema o altro, ha voluto e saputo attingerla: dagli ammiratissimi<br />

Keaton e Chaplin, dai Fratelli Marx, da Totò e dll’uomo<br />

di carta del romanzo di Hašek.<br />

Due passi dunque. Ma non basta. Ad essi si aggiunge il ghirigoro<br />

d’uscita. Dopo le “tirate” del colore (che formano l’imprimitura),<br />

dopo le fermate e i saltelli, con i loro tipici intrecci di opposti, interviene<br />

a suggellare il prodotto di tanta destrezza performativa<br />

un estremo movimento, un “finale” con cui si chiude la serie degli<br />

incrociamenti. Ribaltato il pennello, l’artista traccia un’ultima co-


stellazione di motivi con la punta aspra di legno. Disegna una suite<br />

e una coda, ossia la marcatura della carne cromatica che dà all’opera<br />

il senso definitivo. Uno accanto all’altro, ma anche uno<br />

sopra l’altro, i tre passi scandiscono - come spiega Cuniberti - sia<br />

le azioni sincroniche, sia (specie in pittura) le fasi di esecuzione.<br />

Dimodoché tre ritmi, lo striscio (o vogliamo chiamarlo liscio?), il<br />

salto e l’incisione vengono ad ordire il dipinto in orizzontale e verticale.<br />

Ne dicono i momenti e ne costituiscono i nervi, l’architettura<br />

nel tempo e nello spazio. La bellissima dichiarazione del ‘79,<br />

che comincia con Dipingere è facile, e divertente come cucinare<br />

e si chiude con Servire in mano senza cornice, conferma tutto<br />

questo nell’apparente stranezza degli enunciati (ma la capricciosità<br />

è un ben evidente tropo retorico, a cominciare, come s’è visto,<br />

dalla gargantuesca equivalenza dell’arte alla sapienza culinaria). Vi<br />

si danno formule stilistiche di impressionante esattezza quando le<br />

si voglia rileggere dalla parte del saltimbanco. Tant’è che basta<br />

scorrerne qualche riga per imbattersi nella definizione dei passi di<br />

danza, preceduti - guarda caso - dal caratteristico protocollo preespressivo<br />

della tecnica attoriale, la preparazione cioè della figura<br />

di soglia consistente nella creazione dell’aura, dell’astanza scenica,<br />

e nella chiamata del corpo alla tensione dell’incipit. Ecco come:<br />

“Iniziare con esercizi di respirazione (leggere un paio di pagine de<br />

‘Lo zen e il tiro dell’arto’ di Heugen Herrigel) quindi, rilassati, dare<br />

inizio all’esecuzione dell’opera”. Dopodiché vengono le istruzioni<br />

sull’animare gli attrezzi, per esempio sull’a-pendolo: “Prendere<br />

P. Cuniberti, Mappa del lago nero, 1985, acrilico su tavola, cm 34,6x40.<br />

795<br />

una matita per la parte opposta a quella che segna e, stringendola<br />

lievemente, farla saltellare sul foglio con moto rotatorio...”.<br />

Balza allora evidente il primato del dinamico sul tematico ed è<br />

chiaro che certe immagini dipinte, pur esse incarnazioni di metafore<br />

sceniche, il diavolo a molla, le teste idrocefale o le mimae ornate<br />

di aigrettes aggressive e gigantesche, nascono da una sorgente<br />

assai più fertile delle stesse figure. La matrice è ritmica e da<br />

essa si origina la fabula.<br />

Non meno decisiva è poi l’analogia con i comici intorno al principio<br />

dell’esecuzione all’improvviso. Difatti lo spontaneo non è che<br />

il frutto di un lungo addestramento e la prontezza riguarda la capacità<br />

di montare (questa sì rapida come il lampo) i pezzi già<br />

pronti di un larghissimo repertorio. La differenza sta nel fatto che<br />

il palco è una superficie da disegnare, e l’attore (la penna) una<br />

marionetta afferrata dalle dita e quasi appesa per un filo alla<br />

mano che trasmette gli impulsi, l’arte di combinare a talento il<br />

materiale a disposizione.<br />

Chi voglia farsi un’idea della natura del movimento, il più aereo<br />

possibile, ma anche il più pronto a fare i conti col suolo, può rivolgere<br />

l’occhio alla serie delle lettere fantastiche, ai paesaggi, al<br />

ciclo dei tappeti-giardini, alle tavole dei fenomeni meteorologici,<br />

oppure - per misurare la metrica e lo stile enumerativo - a opere<br />

quali Foglio di collezione, Museo, Sopra e sotto la superficie. Ed<br />

ancora, quando l’autore deciderà di trarli dall’inedito, ai progetti di<br />

sculture, alle macchine volanti che dovrebbero essere di proporzioni<br />

imponenti per non sminuirsi a giocattolo: connubi fantastici<br />

di elicotteri-fiori-esseri grotteschi, fatti di tela e di legno, capaci di<br />

vibrare e di mandar suoni ai soffi del vento.<br />

Anche qui è il comico. Lieve, surreale e non di rado metafisico. Tuttavia<br />

antiastratto e abbarbicato al mondo. Un universo che è questo,<br />

il nostro, ma ricombinato, rifatto, montato come il repertorio di<br />

pezzi del teatro all’imrpovviso. Pieno di umori delicati e tuttavia<br />

sempre naturali, come insegna l’Incontro della Fata Azzurrina che<br />

afferra la “coda” del Mago sul bordo della terra.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra dedicata a Pirro Cuniberti, presso la<br />

Libreria Galleria “Einaudi”, settembre 1989.


Natura e artificio<br />

Mostra collettiva (1)<br />

Quel che si intende proporre, in controluce certo e non più che<br />

schematicamente rispetto a un tema cruciale della letteratura<br />

artistica, è la distinzione dell’artificio nelle due categorie, anch’esse<br />

ormai classiche (ma ‘classiche’ per la Modernità), dell’organicismo<br />

e dell’astrazione.<br />

Per un verso la polarità della Forma, le procedure e le tecniche<br />

tese a geometrizzare l’esistente, per un altro le fatture non incapsulate<br />

nella vertigine dell’analisi e, al limite, neppure sorde a<br />

fare dell’arte (ma nient’affatto in senso bassamente ideologico)<br />

un evento calato nell’Erlebnis. Insomma scomposizione e sintesi,<br />

scienza e sapienza, inorganicismo e fusionalità.<br />

Che il mondo, così come oggi appare, sia effetto di un’immensa<br />

simulazione artificiale non è neppure - crediamo - il caso di discutere;<br />

e che l’arte rifletta tanti contraccolpi della demonìa sostitutiva<br />

è altrettanto evidente. Ma qui sta appunto il problema.<br />

Ci si domanda se la potenza che l’età moderna ha elevato a speranza,<br />

la ratio, sia da assumere come destino felice; e se la tecnica,<br />

sprofondata nel delirio del progettare e produrre, non vada<br />

convertita ad accogliere e ascoltare l’oggetto di infinite rimozioni.<br />

Della doppia faccia della realtà originaria, la Natura amica e<br />

Ferruccio Bolognesi, Labirinto (part.), 1989, legno e ferro, cm 200x270x90.<br />

796<br />

nemica, quasi nulla si lascia afferrare. Lo spavento provocato<br />

dalla seconda effigie, specialmente dal monstrum acquattato nei<br />

recessi della mente, dovette scatenare una ben cieca furia di<br />

vincere se riuscì a cancellare dalla coscienza il pensiero della riconciliazione.<br />

Alle pratiche efficaci del re-ligare (connettere e<br />

slegare a un tempo) subentrarono astuzie e menzogne dissociatrici.<br />

Agli artifici genuini le artificializzazioni. Quelli stringevano<br />

un patto dopo lo scontro, segnavano una unione, cifravano itinerari<br />

psichicamente grondanti di significati rigenerativi, queste<br />

al contrario simulano e meccanizzano. Lo testimonia anche la<br />

storia della parola finzione, che ora vuol dire soprattutto doppiezza<br />

e impostura, laddove il senso primitivo di fictio indicava<br />

l’atto creativo, il gesto del modellare e plasmare. All’artificio (all’ars<br />

e alla tèchne) apparteneva la cura del confronto. Una sorta<br />

di pietas. Con esso si interrogava la docilità (e la resistenza) della<br />

materia, l’aspetto ambivalente della natura naturans, specchio di<br />

superiori armonie e grumo di potenze caotiche, area - ci preme<br />

sottolinearlo - di combattimento. Sia che si volesse spremerne i<br />

succhi, sia che si lottasse per risalire una scala di oscurità, era<br />

impensabile eluderne la presenza. E se, d’altra parte, non mancava<br />

neppure l’ebbrezza della frode illusionistica, non per questo<br />

i più sottili inganni di Zeusi - come raccontano gli apologhi - intendevano<br />

infrangere il vincolo con le cose. Piuttosto - vorremmo<br />

dire - educavano a superare l’inganno, a distinguere gli ingenui<br />

(ma non è l’origine di una colpa maggiore?) dai sapienti.<br />

E ponevano faccia a faccia due magisteri creativi, incitando ad oltrepassare<br />

il pregiudizio dell’ars simia naturae, pesantemente<br />

accusata, come i disprezzati attori mimetici, di cattivo realismo e<br />

condannata all’esercizio grossolano della copia. Dipingere era accogliere,<br />

lavorare sulle somiglianze segrete, ascoltare e “bere<br />

alle sorgenti”. Da qui la differenza tra il frodare imitativo e l’operare<br />

analogico, tra smemorare e ricordare, distruggere e mantenere<br />

in vita, nel salto, consentito dall’artificio, dalla natura incantata<br />

alla magia dell’arte. Da un certo punto di vista, da quello che<br />

si impegna a valutare gli esiti dell’astrazione non simbolica ma<br />

crudamente geometrica, la vicenda dell’illusionismo segnala<br />

una progressiva perdita di contatto. Gli oggetti si dissolvono nel<br />

puro calcolabile e la natura, derubata del suo Fondo, si sottrae<br />

alla presa, lasciando al dèmone tecnico solo miseri brandelli<br />

della sua apparenza.


Restano allora pezzi, vedute parziali (il “paesaggio”, gli “scorci”<br />

le belle “prospettive”), ma il mondo, da uno che era, appare<br />

scentrato e infranto. Di che cosa si fanno testimoni gli artisti di<br />

questa mostra? Certo si coglie in loro - più o meno discreto, più<br />

o meno a lungo meditato - il confronto con la maniera ‘nuova’<br />

di un maestro cinquecentesco, con i suoi ingegni illusivi, compositi<br />

e sempre in bilico fra ordine classico e sregolamento. Ma<br />

quel che più interessa è la gamma delle posizioni intorno al rapporto<br />

fattura e natura.<br />

Sugli effetti finali di inaridimento indotti dal tecnicismo nessuno<br />

si illude. Né il fantasma della natura assume una maschera convenzionale,<br />

facilmente contabile. Qualcuno la raffigura con lucidità<br />

come un sogno svanito, qualcun’altro, all’opposto, va a snidarne<br />

i resti interrati, li eccita a rivelarsi, li risana o li trafigge di<br />

nuovo. Altri poi converte l’ artificio ad un compito ospitale e prepara<br />

filtri e metafore per una epifania degli elementi. Oppure (è<br />

il caso dell’intermezzo danzato) risale indietro nella storia del<br />

“corpo silente” e rilegge in maniera composita una fabula cara<br />

alle feste di corte sulle tracce di Luciano e del neoplatonico Wieland.<br />

Proviamo ora ad osservarli più da vicino, andando (ed è<br />

uno dei tanti percorsi possibili) dal meno al più, ossia dalla minore<br />

o maggiore vicinanza al corpo e all’idea della natura. Da<br />

questo punto di vista Pedrazzoli occupa l’estrema soglia di disincanto,<br />

una sorta di grado zero nella constatazione del vuoto subentrato<br />

all’eclissi dell’organico. Inutilmente cercheremmo, se<br />

non per risarcimento dialettico, qualche indice dell’assente, un<br />

segnale lontano, una parvenza di ritorno. E se pure c’è (mai dichiarato<br />

pateticamente) l’eco del rimpianto, quel che si vede è<br />

piuttosto un gioco di scenari fastosi e illudenti, un mescolamento<br />

di decorazioni parietali, finte colonne, frante cornici, soffittature;<br />

l’ilare, ironica, divertita festa degli inganni giulieschi. Enunciato<br />

come un nulla che gioca, il cumulo delle bellezze pellicolari<br />

si intride di bianchi, alita come veline, smargina in campiture<br />

incolori, é in brani di tela lasciati allo scoperto. Sono cromie al<br />

chiaro, quasi solarizzate, il cui pallore si decanta nella cristallina<br />

purezza dell’esangue e lascia intendere la propria inadeguatezza<br />

a dire ciò che sfugge al fragile velario della scena. Qualcosa di<br />

analogo si coglie anche nella tela di Capisani, la cui mano parrebbe<br />

aver perfino rinunciato a dipingere, essendosi limitata a<br />

disporre, premere e incollare brandelli di immagini stampate in<br />

797<br />

una rotazione vorticosa di carte. È finzione di finzione, denudamento<br />

di copie sbrindellate, montaggio iridescente che manda<br />

in pezzi il calcolo della rappresentazione. Quanto a Dal Maschio,<br />

la condizione negativa si fa in un certo modo più impervia poiché<br />

il lutto riguarda qualcosa che non è mai venuto alla luce,<br />

quelle forme che - volendo usare un topos di Maeterlinck – appartengono<br />

al “Regno dell’Avvenire”, ma che qui - sulla tela -<br />

aspettano inutilmente il momento di vivere. La superficie candida,<br />

d’una bianchezza gessata, non lascia trasparire che impercettibili<br />

grinze e occorre aiutarsi con la luce radente per coglierne<br />

gli indizi, simili a lettere di cui s’è perduto il senso, appena rilevate<br />

sulla coltre: epigrafi lattescenti - si direbbe - per ricordare<br />

il limbo dei mai-nati.<br />

Un alito, una specie di fruscio senza suono, come l’impronta di<br />

passi lasciata sul terreno molle di pioggia da una corsa di fantasmi<br />

silvani, ha ispirato a Troletti la visione dall’alto di un’area di<br />

danza. Al sott’in su delle invenzioni scenografiche sottentra un<br />

de haut en bas che è l’esatto contrario degli inganni rinfoltiti di<br />

sorprese, niente più di una svuotata notazione di movimenti affidata<br />

alla carta. Il quadro fa pensare ad un coro svanito nell’aria,<br />

all’uscita di personaggi che al calare della tela lasciano tuttavia<br />

sul palco un sentore di grazia. Ma la scia è tutto ciò che resta, il<br />

residuo e quasi il profumo della fascinosa seduzione di miti boscherecci:<br />

inganni dell’immaginazione di cui lo sguardo coglie<br />

Renzo Margonari, L’invenzione della notte, 1989, tecnica mista, cm 150x170.


soltanto un’orma conservata sulla cera. Così il tragitto avviato da<br />

Pedrazzoli, pur continuando a battere il tema della maledizione,<br />

comincia ad apparire meno radicale, lascia un margine alla vaghezza<br />

del ricordo, fa balenare la possibilità di contemplare, sia<br />

pure in cavo, lo splendore di una cultura perduta. Non il cuore e<br />

il sangue, ma almeno l’indizio, l’esiguo palpito d’una “favola<br />

bella”. Di fantasmi parla anche Bassignani, di quelli però insediati<br />

negli incubi, neri come inchiostri, mostruosamente vicini<br />

alle macchie, agli ibridi, agli impiastri di culture cellulari guarda-<br />

Franco Bassignani, Senza titolo, 1989, tecnica mista, cm 150x170.<br />

798<br />

te al microscopio. Il suo tema è l’attesa sgomenta, l’orrore della<br />

“storia naturale” popolata di ronzii, aggressioni, massacri, assalti<br />

di pulsioni entomofaghe: insettivore perché il movimento della<br />

fantasia, tradotto in acidi e morsure d’acquaforte, in gualcite e<br />

accartocciate superfici, ha come prototipo la crudeltà del bestiario<br />

infinitesimale dei mondi in miniatura. Omologandone gli<br />

spazi, il segno traduce in forme la paura dell’inghiottimento. L’artificio<br />

pareggia, ripete e raddoppia lo spettro della natura. Ed è<br />

una tensione mimetica alla quale Margonari, incitando i funam-


olismi della magia pittorica, pare volere al tempo stesso alludere<br />

e sfuggire. Il mondo com’è non gli interessa se non come<br />

termine lontano di partenza, per superarlo nel tour de force dell’artificio.<br />

L’acqua, il fuoco, le pietre preziose, gli zampilli delle<br />

fontane forniscono pretesti, ma il pittore dimostra di non stare<br />

all’esempio e replica al modello col surplus della cosmesi, il piacere<br />

del finto, la suggestione del paradosso. In realtà non tradisce,<br />

ma segretamente potenzia e prosegue l’immagine in corsivo<br />

della natura. Dà spettacolo e numera figure, dice il fascino<br />

Ferdinando Capisani, Tracce del tempo, 1989, tecnica mista su cartone, cm 150x170.<br />

799<br />

dell’errore e dell’errare in un sopra-visibile del quale conosce<br />

perfettamente l’evanescenza.<br />

Labirinto come Maya, ma anche labirinto come configurazione<br />

della mente. Il cervello - si sa - è un intrico di tracciati che la<br />

ratio spesso ricalca nelle sue dedalee costruzioni. Percorrerlo e<br />

raggiungerne il centro può comportare l’esito opposto della<br />

morte e della conquista del sé. Implica il viaggio iniziatico nell’Oscuro.<br />

Ma che dire di un attacco sconsacrante e subdolo che<br />

addormenta le difese del Minotauro? È l’interrogativo proposto


Gianni Madella, Il carro di Nettuno, 1989, olio su tela, cm 150x170. Carlo Bonfà, Senza titolo, 1989, tecnica mista, cm 150x170.<br />

da Bolognesi che contamina racconti diversi costruendo un cavallo,<br />

coacervo di legni e di ferri, su cui è impresso per due volte<br />

un tracciato labirintico: cavallo finto, mutilato di coda, giocattolo<br />

di una ragione infantile che sogna credendosi adulta. Ciò non di<br />

meno inquietante sintomo di possibili aberrazioni, che la fantasia<br />

si impegna ad esorcizzare tramite l’humour e il divertimento.<br />

Una maniera dunque di rovesciare il tecnicizzato, l’artificializzante,<br />

l’asettico trasferendoli nel ludus artigianale dei manufatti<br />

da circo. Anche Bonfà fa appello all’ironia, agli spiazzamenti di<br />

senso, ai giochi fabbrili, ma secondo una temperatura fantastica<br />

intrisa di elementi saturnini, il cui leitmotiv è la spirale, il circonvoluto,<br />

l’avvitato: un tortuoso avvolgimento di segmenti ed angoli<br />

che non combaciano, di mosaici franti, di scacchiere irregolari,<br />

di meandri ciechi che non portano a nulla o, per dir meglio,<br />

sono volti a frantumare la fluidità degli impulsi pittorici, le correnti<br />

del colore e della materia. Non sorprende perciò che egli<br />

contamini ogni cosa e conglutini perfino nel titolo le parole per<br />

macerarle, peste e pittura, pestare e mistura, coniando un neologismo<br />

sgradevole, ma significativo nel far capire di che tipo sia<br />

il rapporto da tenere con la natura (pestura).<br />

Se l’immagine appare artificializzata, petrificata, cristallina, non<br />

dipende dall’aver dimenticato l’organismo, bensì dall’ossessione<br />

che le icone ne vengano afferrate e sommerse. La materia è<br />

800<br />

contraddetta, vista come fonte di perversione e di malattia, elemento<br />

greve, ostile a ricevere il sigillo dell’Idea. Non per nulla il<br />

quadro è un congegno offensivo, irto di immaginari bubboni che<br />

mettono in scacco il colore: peste metaforica che attacca la fisica<br />

della mente, “trappola” entro cui strangolare l’Istintivo e, se<br />

possibile, incenerirlo e polverizzarlo. Ma, nonostante tanto accanimento,<br />

il sogno del Pensiero melanconico non riesce a splendere<br />

liberamente. La ‘fantasia’ appare tormentata dall’assillo (e<br />

insieme dal piacere) di torturare e torturarsi, di perdersi negli<br />

esercizi della ascesi e nei contraccolpi del dubbio: lucidità e inganno<br />

dei miraggi che innescano in ogni caso ornamenti bizzarri<br />

con le ombre delle cose.<br />

Sermidi, a sua volta, lotta con la materia, credendo però nella felicità<br />

che, nello spremerla, gli riserva il colore. Annoda tessiture,<br />

traccia millimetriche scansioni di gradi cromatici. Per lui la natura<br />

ha in serbo sorgenti luminose che vanno riconosciute, guadagnate<br />

e fatte emergere dal fondo mediante il battito paziente,<br />

ripetuto, apparentemente identico di uno schema ritmico. Mentre<br />

Bonfa contrasta l’incarnazione, Sermidi ha fame di concreto e<br />

pratica in pittura un metodo di concepimento che fa pensare all’opera<br />

di aratura e semina dei campi. Le superfici sono terreni<br />

dissodati e al tempo stesso misurate partiture. “È come se il<br />

computo preciso delle cose, quel sottile e matematico innervar-


si della composizione, venisse ogni volta soprattutto da una apparizione<br />

assoluta e inspiegabile - ha scritto E. Pontiggia -.<br />

Un’apparizione che non elimina la volontà analitica, ma la dissipa<br />

nell’orizzonte di una più compiuta conoscenza”. Nella tela del<br />

“triglifo cadente” la pioggia seriale del colore, misura del ritmo,<br />

pare squarciare d’un tratto la bocca dell’antro e farsi largo più<br />

tempestosamente del solito, con maggiore impazienza e forse<br />

inquietudine, nella sordità della physis. Segno che la conquista è<br />

un breve canto, un frammento musicato con fatica; oppure, ma<br />

è lo stesso, che la promessa cromatica sgorga da una ferita vio-<br />

<strong>Francesco</strong> Dalmaschio, Quella strana storia di segni, 1989, cellulosa su tela, cm 150x170.<br />

801<br />

lenta, da un solco ancor più fondo di ombra.<br />

Meno drammatica e più vicina alla dolcezza dell’incanto la grafia<br />

della Mantovani. Per le sue carte acquarellate, preziose,<br />

aeree e lievi, vale la similitudine coi respiri. L’essenza della pittura<br />

ha a che fare con il soffio, mai condensandosi in corpi pesanti.<br />

Dà qualità delle cose e non cose. Perciò, mentre in altri il<br />

rapporto, come dire?, con lo ‘spirito’ della natura assume accenti<br />

agonistici, in lei si avverte il sentimento dell’accordo. Nulla<br />

pare offensivo e i segni coniugano l’opera nella consonanza. Ecco<br />

perché, pur toccando un alto grado di impalpabilità, i dipinti non


sono né astratti né inconcreti, così come mai potremmo chiamare<br />

irreali i suoni e i profumi. Il fatto è che aderiscono ad un principio<br />

di sottilizzazione e di decantamento. Si consideri, per capire,<br />

il suo modo d’artificio: la tecnica del velo. Fra la superficie che<br />

s’impregna d’acque colorate e la mano che le guida s’interpone<br />

l’oggetto d’un rito che chiamerei nuziale. Aqua nubit terram, l’acqua<br />

copre la terra, la vela e la sposa, scriveva Arnobio. Vere nubunt<br />

alites / et nemus comam resolvit de maritis imbribus cantava<br />

il Pervigilium Veneris. Così sulle carte, uscendo di metafora,<br />

Sonia Costantini, Equilibri precari, 1989, olio su tela, cm 150x170<br />

802<br />

fioriscono immagini acquatiche, aeriformi, nubilose. Le virtù<br />

degli elementi. Contengono corrispondenze con i colori degli intonaci<br />

e delle pietre, con i muschi e gli effluvi delle polveri. E qui,<br />

nel grande acquarello intitolato Leggerezza (leggerezza s’intende<br />

dei segni e dei colori), distillano atmosfericamente cromie di<br />

bugnati, drappeggi di tinture, sensitivi risentimenti di ocre e di<br />

neri giulieschi. Per la Costantini, che non ha mai amato le figure<br />

definite, le forme stabili e le determinazioni d’immagine, pare<br />

ora essere venuto il momento di una correzione di rotta. Al co-


lore (la sua costante) imprime un assetto volumetrico e plastico,<br />

con alti gradienti d’accensione nelle scaglie luminose: una solarità<br />

combattuta, sperimentata, che fa supporre un’indagine intorno<br />

alle radici luministiche delle avanguardie.<br />

A metà tra artificio e ascolto del naturale, Schirolli sprigiona dentro<br />

un modulo architettonico il gesto dei suoi esordi informali:<br />

chiara allusione al timpano che da sempre l’affascina, aperto e<br />

tenuto da una immensa chiave di volta. È il ‘terribile’ che la<br />

scena può dare, l’infrazione all’ordine, parole generatrice di una<br />

Renzo Schirolli, Nell’anno di Giulio Romano, 1989, olio su tela, cm 150x170x15.<br />

803<br />

rinnovata misura compositiva. Dentro i segmenti del suo assemblage<br />

calcolatissimo, cornice di cornice, ambivalente scorrimento<br />

di esterni-interni, gli impulsi si accendono e smorzano, che è<br />

quanto il pittore affida al compito dell’arte, convocata da un lato<br />

a interpellare gli umori della vita e dall’altro a disciplinarne tumulti<br />

e bruciature. Attorno al centro concitato difatti la stesura<br />

via via si placa. Si ricompone il moto pittorico, come risanato dal<br />

senso del limite, dalle bende stese con grazia, dalle trame di corrispondenze<br />

luminose dei partiti decorativi. C’è la coscienza che


la natura, dopo il dettato albertiano, viene ordinata in paesaggio,<br />

frammento ricomposto nel giro d’un perimetro. Ed è per questo<br />

che Schirolli interroga la relazione con la finestra, la porta, la cornice,<br />

il timpano. Dissigilla e torna a riprendere le linee di confine.<br />

Apre, chiude, riapre per inventare, come osservava G. Baratta,<br />

la sua città di Elitropia.<br />

In Morari il paesaggio è scontro di nero e di chiaro. Andando per<br />

abbreviazioni, energiche sintesi di luoghi e figure, la pittura ri-<br />

Gianluigi Troletti, Pan, 1989, carta su tela, cm 150x170.<br />

804<br />

batte i luoghi canonici dell’ultimo naturalismo: le vegetazioni, i<br />

nudi e i fondali avanzanti delle cose. Entità concrete-fantasmatiche,<br />

spazi fisici e contemporaneamente psichici, carichi di valenze<br />

empatetiche che catturano. La trapanazione della luce nel<br />

buio delle stesure crea un dramma: annoda fasci puntati su una<br />

immagine centrale, frutto di memoria o di percezione diretta.<br />

Nelle opere recenti è però quasi sempre una muraglia (o lo parete<br />

stessa dello studio) a fornire il sistema d’appoggio. E l’appa-


izione squarcia lo spazio, si intride di polveri iridescenti, frangendosi<br />

e estenuandosi in fluidità corpuscolari, polverulente, incenerite,<br />

come se il sopravvenire del fantasma, quasi sempre un<br />

nudo femminile o un groviglio d’arbusti, cominciasse ad effondere<br />

sentori di sfacimento, cadute, passaggi del tempo.<br />

A questo punto, alla fine cioè del percorso pittorico (non di quello<br />

artistico, perché resta ancora da considerare la danza di Bendoni-Nordera),<br />

potrebbe stupire di veder indicata in “Modella” la<br />

stazione più avanzata, o quanto meno il maggior grado di trepidazione<br />

rispetto a quel meno, rappresentato da Pedrazzoli, col<br />

quale abbiamo iniziato la serie. Potrebbe stupire dal momento<br />

che anche in lui sono evidenti vari elementi di connessione con<br />

l’iconografia e la tattica dell’artificiale, non esclusi nemmeno<br />

certi segni vulgati che caratterizzano l’universo dei simulacri.<br />

Non solo: la pellicola magrissima del colore (con velature di olio<br />

che rimandano all’acquarello) parrebbe di per sé escludere ogni<br />

legame con la dimensione materica alla quale si riconosce di solito<br />

un elevato spessore fusionale. Tutto questo è vero, tuttavia<br />

occorre leggere il senso dell’opera su un altro versante. Per Madella,<br />

l’autentica contesa non sta nell’opposizione di regola e<br />

spontaneismo. In qualunque modo si dia, il lavoro della pittura è<br />

un ordito robusto implicato nel fingere. Il discrimine si colloca<br />

piuttosto fra sapere e non sapere coniugare le zone orizzontali<br />

dell’esperienza con quelle nascoste. Ma questa è ancora una definizione<br />

generica. Si potrebbe dire che lo scontro avviene tra<br />

modelli culturali, epoche della pittura. Ed allora lo scarto è tra<br />

estetico ed efficace, tra bellezza da contemplare e segno che aggancia<br />

intimamente la vita. Tra edonismo e antiedonismo.<br />

Il quadro presenta due scene, omogeneizzate nel segno, ma discontinue<br />

sul piano figurale e metaforico: di fianco il Carro di<br />

Nettuno (ripreso non da Giulio Romano bensì da un’illustrazione<br />

di C. D’Arco), al centro un personaggio decollato, una specie di<br />

clown medievale (memoria di forme romanico-gotiche), agitante<br />

un festone celeste su cui è impresso il volto d’una ninfa. Da<br />

una parte la lingua alta, dall’altra quella che, per non ingenerare<br />

equivoci, preferiamo chiamare “romanza” anziché popolare.<br />

Quanto alla stesura, il segno rimanda ad un ‘sotto’, a quel che<br />

sta prima e prepara tradizionalmente il dipinto, cartone, sinopia<br />

o bozzetto, dal quale si origina l’opera considerata compiuta.<br />

Come dire che la sinopia è immediatezza allo stato del primo in-<br />

805<br />

Tiziana Mantovani, Leggerezza, 1989, acquarello su carta nepal, cm 150x170.<br />

Marina Nordera, Marco Bendoni, Il mito di Dafne: variazioni sul tema della fuga.


Sergio Sermidi, Triglifo, 1989, olio su tela, cm 150x170.<br />

Augusto Morari, L’ultimo amore di Federico, 1989, acrilico su carta intelata, cm<br />

150x170.<br />

806<br />

contro con la forma. Natura e artificio congiunti, reciprocamente<br />

pulsanti. Quel che s’è finora osservato intorno al dipingere può<br />

valere, mutando quanto c’è da mutare, anche per il brano coreografico.<br />

I due autori sanno bene che ogni danza, anche la più<br />

dirompente, è una ardua sequenza di gesti e di spazi e, al limite,<br />

ci si consenta l’ossimoro, una vivente macchinazione. Restando<br />

nella danza moderna, portano a confronto il codice del ballo<br />

di corte (la Pavana) con un sistema affatto diverso: la pantomima<br />

antica, o meglio quel che della pantomima venne sotterraneamente<br />

conservandosi (senza pervertirsi, avrebbe detto Artaud)<br />

nella saltatio medievale. Le esigue testimonianze letterarie,<br />

piegate in epoca moderna a legittimare la nascita del balletto,<br />

sono da loro rilette, insieme ai segnali poetici di Ovidio, per<br />

ricavarne indizi e suggestioni. Se non genuini, che sarebbe impossibile,<br />

almeno non addomesticati dalla memoria archeologica<br />

dell’antico. Bassedanze e balli saltati, contromovimenti ironici,<br />

tensioni eccentriche o fissate, forniscono i materiali d’uno stile<br />

composito che, organizzandosi circolarmente sul tema della fuga<br />

e della metamorfosi di Dafne, interroga un momento cruciale,<br />

ancora aperto, della teatralità fra Cinque e Seicento.<br />

Il che significa, detto in altri termini, porre in frizione due maniere<br />

dell’artificio e due ritualità tra loro avverse: una ancora vicina<br />

al sentimento sacro della natura, l’altra incline ai protocolli<br />

rappresentativi, a dare spettacolo, facendo delle immagini e dei<br />

gesti una parata di compiaciute apparenze.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Natura e Artificio”. Arte contemporanea<br />

in Palazzo Ducale, Sale dell’Esedra, Piazza Castello, Mantova, 9<br />

settembre - 10 ottobre 1989.


Una via secca della pittura<br />

Giovanni Battista Ambrosini (1)<br />

Osservando le opere di Giovanni Battista Ambrosini non si può<br />

sfuggire, credo, all’impressione di attraversare una plaga desertica.<br />

La fattura, le tinte e le forme, nonché le stesse dimensioni<br />

delle tele concorrono a prosciugare lo sguardo. E, come se ci si trovasse<br />

sotto un cielo svuotato, incapace di produrre arcobaleni, un<br />

cielo ora troppo chiaro ed ora eccessivamente intenebrato, si dissolvono<br />

i suoni dell’esistenza.<br />

Perché? Dove vuole guidarci l’artista mortificando l’organico e impiegando<br />

i segni freddissimi, impassibili, della geometria?<br />

Il carattere acromatico delle composizioni, l’uso radicalmente sottrattivo<br />

dei bianchi e dei neri, tanto matericamente ridotti e smagriti<br />

da non lasciar trapelare e insorgere la pur minima increspatura<br />

sulle superfici, inducono a pensare che egli si spinga fino ai<br />

limiti della percezione cromatica, forse al suo prima e al suo dopo.<br />

Se così fosse, quel che Ambrosini ha dipinto nel corso degli<br />

anni si presterebbe ad essere interpretato come coerente (e progressivo)<br />

allontanamento dalla casualità dei fenomeni nel tentativo<br />

di pervenire alle condizioni generative del visibile, al fondo,<br />

per così dire, immanifestato da cui pure i colori provengono: il battito<br />

profondo del chiaro e dell’oscuro. Certo non per conquistare,<br />

in positivo, qualche porzione di quell’incommensurabile e pulsante<br />

grandezza, quanto, all’opposto, per lasciarsene avvolgere e poterla<br />

percepire nelle zone di soglia. Per stare, erigendo dei limiti geometrici,<br />

vicino alla ‘sorgente’.<br />

Con evidente vocazione architettonica i segni delineano una vigorosa<br />

trama d’appoggio. Eretti sull’uniforme candore del fondo,<br />

i neri grafismi assomigliano ad inchiostri disseccati su carte giganti:<br />

catafratti depositi d’una scrittura apatica che rinvia con petrosa fatica<br />

a se stessa: al compito di dire la forza della propria interrogazione.<br />

Segnica, ma nient’affatto gestuale, questa pittura mantiene<br />

soltanto una lontana parentela con il modello canonico di tanti artisti<br />

del segno, l’ideogramma, di cui le manca un elemento costitutivo,<br />

la rapidità di risolvere nell’istante il costrutto grafematico.<br />

“Come l’arciere mira fisso al bersaglio, tende l’arco e fa scoccare la<br />

freccia - recita l’inflessibile istruzione di un poeta cinese rammentato<br />

da Itten-, chi scrive deve immaginare le forme concentrandosi;<br />

quindi condurre con energia e decisione il pennello e tracciare i segni<br />

con la più consapevole sicurezza”.<br />

807<br />

È vero che anche qui, nelle composizioni dell’88 gremite di segni<br />

e nella serie seguente delle riduzioni (" + 5 / - 5”), il dipingere<br />

presuppone un elevato rigore esecutivo, il controllo delle emozioni<br />

e perfino l’ammutolimento della soggettività onde favorire la<br />

perfetta esecuzione delle figure; e analogamente pittura e disegno<br />

si alleano per forgiare un purificato glossario di elementi nucleari.<br />

Ma diverso è il respiro, il grado di velocità. Al posto del metaforico<br />

arciere compare infatti il detentore di un altro ritmo<br />

temporale, il duellante - sarei tentato di dire - che conosce la tecnica<br />

delle attese e degli scarti laterali. Questo perché funziona una<br />

forma del tempo contrapposta all’istante, quella prolungata della<br />

sequenza e dell’intervallo. Basta osservare i partiti visivi per rendersene<br />

conto. La linea non centra subito il bersaglio. Si ingrossa<br />

e si tende, zigzaga, costituendo non uno, ma una selva di ‘fulmini’.<br />

I motivi astratti ripartiscono le superfici in stazioni, talora costituendo<br />

delle croci solari o dei graticci avvitati. Non solo: si irrigidiscono<br />

e prosciugano nel regime del secco. Danno luogo ad una<br />

dinamica contrastata di chiari, procedono irti di punte e di angoli,<br />

obbligando l’occhio ad un accidentato itinerario di sgomitamenti<br />

e spingendolo a salire, deviare, inerpicarsi. Si capisce allora che la<br />

totalità promessa dall’acromatico è una conoscenza raggiunta per<br />

gradi, una questione di tagli e di paesaggi.<br />

Assetata di rarefazione, affascinata dal miraggio di un intervallo<br />

senza limiti, una simile modalità del tempo si articola con effetti<br />

monumentali nelle grandi tele. Ma ancor più obbligante e direi<br />

concretamente dimostrativa si manifesta nelle installazioni tridimensionali,<br />

dove, per ragioni struttive, le facce di un prisma o una<br />

curvatura cilindrica inducono chi guarda a spostarsi per cogliere<br />

una sequenza altrimenti incompiuta. La stessa cosa ribadiscono<br />

poi, insieme al progettato obelisco con la punta direzionata, le superfici<br />

più piccole, le tavole «minime» degli elementi, che l’autore<br />

ha molto produttivamente immaginato di esporre come se costituissero<br />

una costellazione, confermando, in questa idea dell’arcipelago<br />

delle «somiglianze», la predilezione per il paradigma della<br />

contiguità. Una fantasia della rifrazione. Di che cosa si tratti, lo si<br />

era già potuto intuire dalle opere dell’87. Azzerando la luce nelle<br />

variazioni del nero, Ambrosini faceva del vuoto, com’è stato osservato,<br />

«l’essenza dello spazio» e optava per una astrazione<br />

coincidente con l’ascessi, con lo stato contemplativo del silenzio.<br />

In fondo dipinge per dire quel che sta oltre la pittura. «Il perturbante<br />

- ha osservato Cesare Milanese -, se è assente come segno,


si fa presente lo stesso come senso. Esso incombe lo stesso valendosi<br />

della sua stessa assenza; trattandosi qui di una assenza di<br />

qualcosa che rinvia all’indicazione dell’essenza del vuoto che è il<br />

«proprio» dello spazio. Ma che diventa «proprio» di questo operare<br />

per assenza: ed è una messa in assenza del soggetto che<br />

opera».<br />

È un’interpretazione che non solo convince, ma che generosamente<br />

si produce come dichiarazione di poetica a sostegno della<br />

pittura. D’una Forma e d’una Forza che finalmente si alleano nell’emozione<br />

oltreumana della vastità.<br />

808<br />

G.B. Ambrosini, Quadrangolare 1, 1988,<br />

acrilico su tela, cm 150x150.<br />

Sta al ritmo confermarla. In tanta ardua spoliazione pittorica conta<br />

proprio quel che il segno induce a desiderare: la passione della<br />

Forma. L’intervallo senza fine che, insinuandosi nelle pause, rallenta<br />

il tempo e costringe ad ammutolire.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Giovanni Battista Ambrosini”, Palazzo<br />

degli Alessandri, Viterbo, 16 settembre-8 ottobre 1989.


Dalle cose in frammenti al vortice della natura<br />

Lucia Pescador (1)<br />

Un vecchio catalogo di Lucia Pescador porta sulla copertina la fotografia<br />

delle mani che si strofinano come per compiere il gesto<br />

dell’illusionista che trae dal nulla un oggetto di fantasia. Si tratta<br />

di un segnale fortuito, legato ad una specifica occasione, o al<br />

contrario il motivo nasconde qualcosa di essenziale? Vediamo.<br />

Queste mani, per altro facilmente identificabili (le stesse dell’autrice),<br />

vengono poi variamente ritratte, insieme o isolate, quasi<br />

sempre in movimento per almeno un quinquennio. Tirano e annodano<br />

fili, costruiscono, disegnano, scrivono e spargono polveri<br />

colorate. E quando non compaiono nel contesto dell’opera, le<br />

si avverte tuttavia operanti poiché ogni tratto dei dipinti ne testimonia<br />

l’azione creativa. Anzi le materie impiegate, le colle, i<br />

colori, le carte gualcite e ripassate dalle dita alimentano la convinzione<br />

che un loro compito primario consista proprio nell’assecondarle<br />

e trasmetterne il lavoro. D’altronde le immagini, mentre<br />

si consegnano allo sguardo, evocano sensazioni pellicolari ed<br />

extravisive. Suggeriscono fruscii, atmosfere velate di respiri e<br />

toccamenti, facendo subito intendere che, se anche mancasse<br />

l’esplicita effigie manuale, la pittura è implicata col derma. Sicché<br />

non sorprende del tutto o quanto meno in parte si spiega<br />

che ora, a capo di un decennio, il tema della genesi tattile della<br />

visione riemerga direttamente intitolando l’ultima serie dei fogli,<br />

quelle marine composte appunto con la mano sinistra, quei paesaggi<br />

rimescolati e stravolti (comprese le Arcadie del mitico Licaone)<br />

che verrebbe voglia di carezzare e tastare per sentire con<br />

le palme l’arruffìo della matita che li pettina in tutti i versi disegnando<br />

folate di nebbie, isole, ceneri rosse, acque, velieri fantasma<br />

e tronchi galleggianti, insomma una Natura selvatica, ribelle<br />

e ispida come la pellicia d’un animale infuriato.<br />

Nel groviglio della tempesta fibrosa si aprono visioni alluvionate<br />

e diluviali e certo non può sfuggire a nessuno che i paesaggi<br />

contengono schegge narrative, pezzi di racconto. Incendi di stoppie,<br />

sradicamenti d’alberi, crolli di nubi. Eppure s’intuisce che alle<br />

spalle della narrazione ansima un motore più nascosto. C’è una<br />

furia che preme e vien prima delle scene di naufragio, prima dei<br />

battelli ghiacciati appresi da Friedrich e Conrad, oltre gli echi favolosi<br />

di Achab e dell’Olandese volante. Ed è, crediamo, il viag-<br />

809<br />

gio, l’inseminazione di un altro vascello, la mano fluttuante che<br />

solca nuove rotte nelle onde dei segni, s’intride di schiume pastellate<br />

e tira bordate di acquarello. Esplora stupito lo spazio nuvoloso<br />

e si orienta in una sorta d’infanzia espressiva. Insinuandosi<br />

infatti dove la destra potrebbe agevolmente comporre un<br />

mondo ben assestato di segni, l’incerta navigazione della sinistra,<br />

della mano che rinasce alla comprensione delle cose, fa pensare<br />

ad una voluta adolescenza della pittura, ad una inabilità consapevole<br />

e recitata per accendere un focolaio di figure in mezzo agli<br />

elementi. E se non è proprio l’infanzia in prima persona, è però il<br />

suo doppio che vien fatto agire come un personaggio, un figlio<br />

d’anima che rivive grazie alla verità della finzione.<br />

Che Lucia Pescador ami i miraggi, le recite, i ‘come se’, i sogni e<br />

le ombre, lo sa da tempo chi la conosce. Anche a voler andare<br />

molto indietro nella sua storia di raccoglitrice d’icone, si finisce<br />

immancabilmente per incontrare capitoli immaginosi che stanno<br />

tra la congettura e la rammemorazione fantastica. A lei non interessa<br />

il presente com’è, bensì il tempo delle favole, il mondo<br />

L. Pescador, Arcadia, 1988, pastelli su carta, cm 360x190.


come dovrebbe essere sotto la pelle quotidiana e forse è senza<br />

che lo si sappia. Perciò va in caccia d’indizi e li custodisce confezionando<br />

nicchie, gusci di carta e di latta. Mette insieme perimetri,<br />

immagina teche e scrigni in cui il segreto riposa. Per un<br />

lungo periodo ha avuto l’ossessione dell’intimità protettiva capace<br />

di ospitare, senza presunzione di spettacoli totali, frammenti,<br />

ritagli, miniaturizzazioni. Risalgono al ’73 e agli anni successivi le<br />

supposizioni intorno al colore del cielo e degli spazi siderali; al<br />

’77 i "Reliquiari" astronomici e botanici, al ’78 le "Teorie delle<br />

ombre", le "Scriptoteche" e i primi "Lunari". Tutte ipotesi che nascono<br />

dal chiodo fisso del recinto, risolte allora in maniera mentale,<br />

quasi senza corpo, fatte di idee. Ipotesi in cui il gesto è tipico,<br />

ripetuto, invariante nel tracciare confini sottili, trasparenti,<br />

fatti di poco, con un filo, dei vetri o una lieve incisione della superficie.<br />

E altrettanto tipico il tocco discreto e sospeso delle dita<br />

che evitano il possesso e piuttosto svolgono un ruolo indicativo<br />

accennando ai prolungamenti colorati degli oggetti, a ombre, riflessi<br />

e impronte trasportate dalle veline e in certi casi carpite col<br />

veloce ricalco delle fotocopie.<br />

L. Pescador, Il giardino d’inverno. L’oriente freddo, 1984, pastelli su carta di<br />

riso, cm 70x60.<br />

810<br />

Tutte insieme trasmettono il piacere d’una raccolta senza peso,<br />

d’una enciclopedia di essenze da tenere sottovetro, non sapremmo<br />

dire se vegliata dai lari o composta di semi assopiti e<br />

dormenti. A cosa servono? Fatto sta che, semivive, si adunano figure<br />

eteroclite, immagini lontane associate per analogia, spunti<br />

derivati da regioni diverse, dalle sabbie e palme del deserto ai<br />

petali, ai raggi della luna, alternativamente connessi al riposo o<br />

al soffio, all’idea della pietra o a quella del vento.<br />

Segmenti del mondo, molecolari indizi di un tutto alla fine inclassificabile,<br />

i fogli dicono la parzialità dell’inchiesta. Ma poco a<br />

poco inducono anche una spazialità più larga, meno preoccupata<br />

del particolare, in cui i singoli elementi perdono quota lasciando<br />

emergere un luogo compendiario e privilegiato. Ed è il<br />

foglio-giardino, campo di raccolta di aliti della natura. La carta,<br />

un giardino portatile che si può piegare e riaprire, diventa un territorio<br />

di geometrie propiziatorie in cui il passare della luce e dell’aria<br />

è reso visibile dagli spostamenti dei fumi e dal moto rotante<br />

delle ombre ingigantite. Guardandoli si pensa a cortili<br />

aperti nelle case mediterranee, a chiostri arabi e atrii capaci di<br />

accogliere i sentori delle stagioni, ma poiché mancano i fiori si<br />

ha l’impressione che questi horti conclusi ritagliati in pianta sulla<br />

tradizione dei "semplici" non rappresentino tanto il compimento<br />

degli erbari paradisiaci quanto l’invocazione e il desiderio di un<br />

sogno. Tant’è vero che il simbolo figurato assume l’aspetto d’una<br />

mappa votiva, tracciata come una carta cosmologica, mandalica,<br />

disposta in modo da attirare influenze celesti: qualcosa che, impregnandosi<br />

di scaglie luminose, chiama la natura, offre il dono<br />

dei profumi che bruciano in un’urna. Nulla vi accade se non l’impalpabile,<br />

frusciante, stemperata trepidazione dell’attesa che registra<br />

col colore (e ‘canta’) il passare dei giorni e dei mesi.<br />

Può darsi che tutto ciò abbia uno stretto vincolo emotivo con oggetti<br />

e riti popolari, ma per fortuna è un vincolo allacciato in sordina.<br />

Diremmo anzi che la pittrice se ne distanzia anche quando<br />

crede di riprendere una memoria folklorica, essendo troppo<br />

smaliziato e ironico, troppo sottile e pensoso lo stile per sopportare<br />

l’accostamento con una materia comune che, se è autentica,<br />

batte registri ingenui e semplificati. Per di più il canto è individuale<br />

e isolato, mai collettivo, ripreso da ritmi culturalmente<br />

affinati, pronto a captare miti, segni e simboli trasmessi dalle arti<br />

figurative del Novecento. E certo non può essere un caso se il


L. Pescador, Albi, 1987-88, pastelli su carta, cm 240x230<br />

giardino (per un effetto forse involontario della memoria) replica<br />

ad un certo momento il larario delle case pompeiane o rielabora<br />

la funzione evocativa del piano pittorico, come accade nei<br />

quadri di Chagall, un autore che significativamente (occorre ben<br />

ricordarlo) ha esercitato una forte suggestione sulla Pescador. E<br />

non solo, per stare ancora a Chagall, lo spazio delle apparizioni:<br />

anche le maniere volanti, i piani sghembi, le forme capovolte e<br />

rotanti, le contrapposizioni nel medesimo riquadro di tempi<br />

quieti e di dinamiche folate di colore, di piattezze e di profondità.<br />

Per non dire infine i punti, rombi e croci che i suprematisti si<br />

incaricarono di trasferire nella tradizione moderna, un’eredità<br />

che ora la pittrice impiega e con cui reticentemente filtra, tenendosi<br />

lontana da ostentazioni programmatiche e magari<br />

senza volerlo, i contenuti popolari.<br />

Quanto ai giardini, essi subiscono lentamente una metamorfosi<br />

di pesi e spessori volumetrici, passando dalla quiete delle superfici<br />

ordinate intorno a un centro, simili ai quadranti degli orologi,<br />

a un ordito più fitto di angoli, anfratti, porte, prospettive inclina-<br />

811<br />

te, stipiti, architravi, motivi: aggettanti, scorci, fino a elevarsi in un<br />

costrutto a padiglione e a prendere il volo. Ed é uno scarto decisivo<br />

perché d’ora in poi una rabbiosa folata manda gambe all’aria<br />

gli orizzonti, penetra nelle nicchie, moltiplica i punti di vista. Attorno<br />

al "giardino", fattosi tavolo e panca, si ingaggia una sorta di<br />

combattimento fra il fuori esplosivo e il dentro centripeto. Un labirinto<br />

di angoli. Animali impellicciati, dèmoni di terra, roditori (la<br />

favola del Caffè topo e della lampada tramutata in tazzina) scavano<br />

gallerie, corrono, traversano velocissmi la stanza. Rovesciando<br />

le coordinate e manifestando la sua sostanziale ambivalenza,<br />

il giardino aperto verso l’alto si ribalta nell’area ctonia della<br />

sfinge. Da quadro si fa obliquo, trapezioidale. S’incastra di prospettive.<br />

L’angelo mostra la faccia d’uno spirito del sottosuolo o,<br />

per dir meglio, la scatola del cielo, trascorsa da comete e bagliori,<br />

appare vicina ai tumulti organici della materia.<br />

Il segno a croce, la x disegnata sulle are votive accanto o al posto<br />

delle fiamme, è il segno premonitore dell ’inversione, dopodiché<br />

la ‘natura’, così a lungo invocata, rivela una vitalità inattesa. Dissimmetrizza<br />

la mano, rompe perimetri e contenitori, macina i<br />

bordi delle carte. La Pescador interroga i miti e scopre che<br />

l’Olimpo brucia e può essere scalato; che l’Arcadia è un groviglio<br />

di fuochi e di ceneri, un animale ardente; e la pittura stessa un<br />

dono di materie profumate che si sciolgono nell’aria al pari delle<br />

Carte d’Armenia. Ma in realtà ad arroventarsi, dietro le metafore,<br />

è il segno prodotto dalla mano.<br />

Si guardino ora le Marine con la mano sinistra. Non ci sembra<br />

che i naufragi consegnino uno spettacolo luttuoso, bensì l’agitazione<br />

d’una forza ignota, un vortice di elementi e una mescolanza<br />

di materie, in cui prorompe l’indistinzione e l’occhio si riconosce<br />

non già impotente ma fragile a secernere una scena<br />

unitaria. Di che si tratta e come dirlo? Se, citando Calvino, l’autrice<br />

aveva tempo fa immaginato i giardini invisibili che "esistono<br />

all’ombra delle palpebre abbassate", ora potremmo continuare<br />

quelle parole con una nuova immagine: il mare delle visioni.<br />

Forse, ma senza alzare la voce, l’inconscio.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Lucia Pescador”, Galleria “Arte<br />

centro”, Milano 1989.


1990<br />

Da Giosetta Fioroni<br />

a Concetto Pozzati<br />

Il giardino quadrato della poesia<br />

Giosetta Fioroni<br />

Carte e disegni: un giardino di essenze<br />

Regina<br />

Nodi e nuovi flussi<br />

Franco Girondi<br />

La pittura è una sirena<br />

Carlo Bondioli Bettinelli<br />

L’angelo, la modella<br />

Concetto Pozzati


Il giardino quadrato della poesia<br />

Giosetta Fioroni (1)<br />

Non è la prima volta che Giosetta Fioroni esprime la propria amicizia<br />

pittorica per gli scrittori. Qualche tempo fa, presentando in<br />

un libro i disegni che le erano stati suggeriti da uno spettacolo<br />

per marionette, una pièce assai bella che si intitolava Mystic<br />

Luna Park, invitava a non considerarli figure d’appoggio al dramma,<br />

benché fossero pubblicati accanto al testo, a fianco della ricostruzione<br />

data dall’autore. Teneva a chiamarli «ricordi figurativi»,<br />

volendo dire che erano ombre di ombre, riflessi emanati da<br />

una scena (il “Teatro dei Sensibili” di Guido Ceronetti). «Ho visto<br />

- scriveva - Mystic Luna Park... I disegni nascono dal ricordo di<br />

quella sera. Sono direttamente collegati alle emozioni di quello<br />

spettacolo». Al di là di ogni proposito illustrativo o didascalico,<br />

era avvenuto che per una alchimia di cui lei soltanto potrebbe<br />

dar conto, voci, azioni e personaggi di un evento per definizione<br />

irripetibile, erano diventati grafie, tracce sulla carta: figure ereditate,<br />

ma anche ‘sue’, che la spettatrice aveva strappato al tempo<br />

grazie alla memoria involontaria, quella stessa - è probabile -<br />

che gli attori chiamavano reviviscenza. In quella catena di messaggeri,<br />

di cui le marionette «ideofore» avevano rappresentato<br />

il primo anello, le immagini erano arrivate sui fogli.<br />

Per dirlo con le pertinenti parole di un dialogo sui poeti, Giosetta<br />

s’era «infiammata» d’un fuoco che sentiva di dover testimoniare<br />

finché ne era ancora posseduta. Compito non facile, miticamente<br />

assegnato a Eros, al quale però era addestrata nelle<br />

singolari vicende della sua pittura. Era discesa e risalita troppe<br />

volte nel pozzo di una antica infanzia per avere dubbi. Sapeva<br />

come riconquistare icone perdute. Oltre ai propri fuochi, aveva<br />

attinto ad altri incendi legando per simpatia segni diversi, di<br />

drammaturghi e poeti. Sulle tele aveva tirato sipari, alluso a pagine<br />

e inchiostri. Semicancellate o intere lasciava leggere teorie<br />

di parole. Con una vocazione trepida di vestale, aggiungeva<br />

fuoco a fuoco, ravvivando e quasi sempre accrescendo il dono ricevuto,<br />

senza, per questo, forzare la specificità del fare pittorico.<br />

Le opere inoltre sono quasi sempre accompagnate da appunti,<br />

disegni scritti o parole ornate, nei quali si indovina una sottile<br />

trama registica e narrativa. Pagine e foglietti scandiscono le vie<br />

da percorrere, calcolano tempi e disseminano chiavi, suggeren-<br />

814<br />

do delle vere e proprie tappe: prologhi, mutamenti di quadro e<br />

chiuse. Seguendoli, si scoprono sottintesi, motivi nascosti tra le<br />

pieghe delle immagini, come del resto invita a fare la stessa materia<br />

cromatica, che cala frusciando, ma non cancella i fondi sottostanti.<br />

A poco più di due anni dai disegni delle Ideofore e dalle tele di<br />

Teatrino, pieno di rimandi ai cultori della fiaba e della scena<br />

mentale, da Gozzi a Hofmannsthal, è venuto il ciclo di Poetry<br />

Box: un ulteriore effetto della memoria innamorata, che fin dal<br />

titolo insiste sul compito tutelare della pittura. In questa «scatola<br />

della poesia», articolata in mutamenti di serie, colpisce l’incidenza<br />

di un calcolo ritmico chiuso, esatto anche se inconscio, con<br />

cui le superfici sono state composte: quattro capitoli e una vicenda<br />

di multipli giocati sul quattro. A sua volta il catalogo, interamente<br />

pensato in funzione del ciclo, delinea entrate, uscite, incroci<br />

di voci mediante dediche, fotografie, disegni e postille. C’è<br />

una metafora costringente che non può essere elusa, un conti-<br />

G. Fioroni, Una rosa è una rosa e una rosa è una rosa, 1990, olio e collage su<br />

tela e cornice, cm 51x41,5.


nuo fondersi di forme e contenuti. Nè la «scatola» si risolve in<br />

una astrazione, proposta com’è nella fattuale evidenza dei dati<br />

costruttivi, come cassette e cornici.<br />

Se ora consideriamo le forme dei quattro capitoli, le vedremo diverse,<br />

pensate in funzione degli interlocutori ideali. Non un perimetro<br />

che possa stare al posto di un altro. Ed anche questa è<br />

una dedica: a Ceronetti la «scatola» e a Zanzotto (la seconda importante<br />

presenza) un classico «tondo». Per sè e altri la ideatrice<br />

del programma mantiene il comune riquadro, un telaio più o<br />

meno grande, con l’implicito accento calato sul proprio atelier.<br />

Questo perché segue le leggi dell’ospitalità nel tramare un gioco<br />

coerente e quanto più possibile lieve. Quale migliore accoglienza<br />

per una voce amica che farle trovare il luogo giusto in cui riposarsi?<br />

Da cui parlare? Basta un tocco, una correzione appena<br />

accennata per assestare lo spazio e deviare il corso dei segni,<br />

come in un canzoniere che abbia trovato il lessico essenziale e<br />

dove è sufficiente declinare la stessa parola perché il senso<br />

G. Fioroni, Dove sono?, 1990, olio e collage su tela e cornice, cm 51x41,5.<br />

815<br />

cambi. Tra i tanti slittamenti, eccone uno macroscopico: trascina<br />

tutto, titolo, forme, motivi figurali. Il box rivela lo spazio del boccascena,<br />

più esattamente la boite teatrale (perfetta coincidenza<br />

verbale, oltretutto), in cui saprà certo riconoscersi colui che, in<br />

veste di Demetrio, guida la poesia anche sulle scene nomadi<br />

delle commedianti.<br />

Senza darlo a vedere, forme e parole, pur continuando ad agire<br />

su un registro di ampio respiro simbolico, hanno rivelato delle<br />

proprietà tecniche e dimostrano nel contempo come un oggetto<br />

diventi duttile quando è investito dall’immaginazione. Nell’unico<br />

e sempre vario contenitore confluiscono gli ospiti, e chi si chiedesse<br />

se sono prigionieri o liberi, consideri come l’artista rivolti<br />

la convenzione per cui le cornici dovrebbero separare l’opera dall’ambiente:<br />

fa proseguire la corsa del colore e continua a stendere<br />

il sogno sui bordi, sgravandoli in tal modo di pesi, cosicché<br />

il confine non potrà che essere quello dettato dal pensiero, leggero<br />

e allusivo.<br />

Il racconto - si diceva - prevede delle tappe. Dopo le dediche ornate<br />

di disegni, gli Incorniciati aprono la stanza pittorica e due di<br />

essi, gli unici a fregiarsi di citazioni in versi, stanno al posto<br />

d’onore. Preparano i momenti successivi del ciclo, i più protetti e<br />

interni, suggerendo che un privilegio è stato loro accordato dal<br />

“cuore” (“Chi non sedé angosciato davanti al sipario del suo<br />

cuore? / Si aprì la scena: era addio”; Rilke, trascritto in Teatrino).<br />

Ed è, anzi sarà di lì a poco, la visione dischiusa sulle parole di due<br />

libri: Le poesie per vivere e non vivere e Il galateo in bosco. Gli<br />

altri dilatano i riferimenti e fanno intervenire amici. Uno accenna<br />

alla “mano e al cuore di A”, un altro mostra una rosa accartocciata<br />

ai piedi d’una pietra. Ed ancora: la Natura “in rivolta”,<br />

una croce sormontata da un numero telefonico (torneremo su<br />

questo motivo), cui si affianca la domanda “dove sono?”.<br />

Non mancano i momenti di tregua, ma per lo più domina il turbine:<br />

la materia s’increspa, urta contro degli ostacoli e vortica<br />

conglutinando una miriade di frammenti, minuzie di oggetti e<br />

pezzi di mattone vivo. Nessun allegorismo: la “A” che tiene il<br />

cuore e fa pensare al Pierrot lunare è un ritratto - lo sappiamo<br />

dalla pittrice - di un giovane amico, Andrea C.; le cifre telefoniche<br />

appartengono alla casa in provincia; la rosa si presta a più di<br />

un rinvio, tanto al simbolo, quanto soprattutto (e in concreto) a<br />

un gruppo di quadri degli anni Sessanta, perché “una Rosa è una


Rosa”, continua il titolo, e non c’è altro da dire.<br />

Tante presenze dunque assistono e una le guida. Non si può fare<br />

a meno di identificarla con chi regge le sorti del giardino concluso,<br />

Giosetta che affida alla fiaba di Melusina il compito di dire<br />

quale sia il senso dei doni e il loro destino: da accettare per lo<br />

splendore che manifestano, lasciando intatto il segreto da cui<br />

nascono.<br />

In questo largo e avvolgente inizio della figurazione, sarà sufficiente<br />

allora annotare che un’apparizione celeste, una cometa,<br />

attraversa lo spazio notturno (Infinito prodigio in limiti), e che<br />

una piuma nera come l’inchiostro sta confitta nel sottosuolo<br />

d’una casa, a commento di un altro verso: Furtività per dossi<br />

orme echi oscuri. Immagini, entrambe, che distribuiscono prospettive<br />

e avvisano, calando dal cielo alla terra, sulle traiettorie<br />

degli sguardi raccolte dai poeti.<br />

Quando si passa alla seconda sezione, si capisce che la pittura<br />

riafferma frammenti di Poesie per vivere e non vivere ed è<br />

G. Fioroni, La profondità della natura in rivolta, 1990, olio e collage su tela e cornice,<br />

cm 51x41,5.<br />

816<br />

pronta a cogliere le vicende torturate della luce che animano la<br />

parola. Questo per un verso, mentre per un altro interseca le<br />

suggestioni del libro con la previsione della messinscena. Tra<br />

zolfi e tenere allusioni, Giosetta impasta umori, severità e humour.<br />

Accoglie l’eco segmentata di un autore che, vivendo l’impossibilità<br />

del tragico (Trovassi lingua e fuoco di scrittura / L’alfabeto<br />

dei tragici che i muri / Come sangue felpato illuna), scava<br />

negli inferi del comico e insegue il volto dell’angelo - lo riconosceva<br />

anche Artaud - sotto la vecchia storia dell’uomo. Assembla<br />

motivi tridimensionali, blocca costrutti di macerie e fa aggettare le<br />

forme. Perfino una dolce papera, piumata d’iride, è posta in traverso<br />

sull’acqua ferma delle cromie. Ma non tutto è asprezza.<br />

Quando la fantasia s’imbatte nell’apparizione dell’esibizionista,<br />

persecutore di bambine, interpreta con un acuto l’effervescenza<br />

del verso: Di strana luce la vedrai creatrice. Trasforma la “mala<br />

punta” che “atterrisce” in un oggetto a sorpresa, nel pannello alla<br />

Jim Dine, intinto di bianco per gli incanti dell’arte.<br />

Se dai Frammenti viene lo spunto per un desolato quadro urbano,<br />

è soprattutto la poesia che abbiamo già richiamato a proposito del<br />

tragico, a far levitare il dramma della luce, incarcerata ma anche<br />

capace di schiudere un fiore, un graffio di rivelazione. Quel che il<br />

libro ha suggerito, si coniuga nella personale mitologia delle figure,<br />

tra le quali almeno una ci sembra di dover segnalare, quella<br />

dell’animale come custode silenzioso del mistero. Allorché affiora<br />

il tema del Visitatore e il verso recita il suo enigma, bambino o<br />

cane, ponendo una alternativa, il secondo termine vince. Lo sguardo<br />

installa affettuosamente sul proscenio, con la grazia della miniatura,<br />

la favolosa figurina dalla lunghissima coda.<br />

A che cosa poi la scelta del tondo per Zanzotto? Riscrivendo un<br />

passo di Goffredo Parise, la pittrice annota: “Il poeta scava al<br />

centro della terra (...), è globalmente geologo, non un poeta<br />

geologo ma un manufatto nervoso ed ematico di geologia, intesa<br />

questa definizione anche in senso estetico, paesaggistico”. E<br />

continua: “All’autore di Dietro il paesaggio..., all’lpersonettista a<br />

me più caro...”. Dopodichè torna a trascrivere dalle note di Parise,<br />

ma, con un cambio strategico di fattura, sforbicia il brano<br />

stampato e lo incolla, dandogli l’evidenza di una pronuncia<br />

piena, pubblicata in prima persona. Infine riprende la parola e<br />

chiude, ma qui incorre in un errore e lo corregge, non abbastanza<br />

tuttavia da nascondere che in uno dei versi per lei più urgen-


ti (e nell’alto aldilà nei fondi teneri) premeva un desiderio,<br />

l’istanza del dono. Al posto di fondi compare infatti tondi, senza<br />

pregiudizio metrico, ma con un soprassalto evidente di significato.<br />

Il lapsus convoglia un grumo di elementi intrecciati: la fedeltà<br />

al dettato ‘paesistico’, il riconoscimento dell’altezza di stile, equiparata<br />

al cerchio, la penetrazione dello sguardo.<br />

Alla struttura del sonetto, che il poeta ha eccitato calcando sui<br />

ritmi di un’intera tradizione (e con dichiarato “omaggio” al Rinascimento<br />

veneto), dà in risposta un altro canone illustre: quel<br />

“tondo” che, se si dà credito all’antigoticismo vasariano, aveva<br />

inaugurato una nuova e luminosa forma del comporre. Chiusa e<br />

aurea. E simbolicamente occhio. Naturalmente la pittrice non la<br />

assume a freddo, ma imbocca una via parallela a quella dei<br />

versi, per pratica diretta e sensibilità verso i procedimenti. Come<br />

aveva chiuso per Ceronetti nel segno della recitazione, così<br />

punta di nuovo su un elemento che le consenta di concentrare.<br />

Ed è curioso che le tavole fossero in origine otto e si sia aggiunto<br />

un elemento, una tensione in più sul tipo della postilla.<br />

Tre di queste composizioni appaiono tematicamente libere, almeno<br />

a prima vista, senza rimando ai paradigmi verbali del Galateo.<br />

Si tratta dei tondi che restituiscono la condizione, i fantasmi<br />

e i motivi dell’io che compone, la stazione “nera” e “solitaria”<br />

del cuore, culminante a un certo punto nel pensiero di un<br />

luogo inconfondibile, la casa di Ponte di Piave, allusa tramite il<br />

filo (le cifre) del telefono. Qui le stesure scorrono morbide, con<br />

afrori di erbe che è quanto serve a evocare l’altro cuore, l’intricata<br />

intimità naturale (Spesso ove mi sommerse il cuor del<br />

bosco), dove ci si riconosce ma si può essere anche sorpresi da<br />

un estraneo. La pittura registra l’episodio rammemorato nel sonetto.<br />

Libera gesti cromatici, fasci di verdi e di bianchi, stabilendo<br />

una corrispondenza di somiglianze, di modo che d’ora in<br />

avanti due registri emozionali possono accostarsi e confondersi.<br />

‘Possono’, ma non lo fanno necessariamente, perché resta comunque<br />

dominante l’immersione nel paesaggio appreso dal<br />

poeta. Sulla scia di “erratiche macerie” e di sentieri interrotti, il<br />

tono si alza quando le parole fanno vibrare un tema cruciale, l’idea<br />

del lontano e dell’oltre. Allora c’è davvero la convergenza di<br />

due mondi. Sopra le verzure del “bosco” la mano scatena un<br />

movimento di luce, annuvolati baleni. Oppure agita una lontananza<br />

marina, forse una vela. Nel buio-orco che si maciulla in<br />

817<br />

G. Fioroni, Papera, 1990, olio e collage su tavola, cm 18,5x25.<br />

rupi: e la mente si perde chissà dove.<br />

Non pensiamo di forzare la lettura, se dopo aver raccolto alcuni<br />

indizi, ci sembra di intravedere la presenza silenziosa che partecipa<br />

al dialogo fin dall’inizio. Abbiamo visto che il primo, importante<br />

slittamento di senso ha attribuito al box il valore della<br />

boite. I paragrafi successivi hanno fatto apparire il châtelet delle<br />

marionette e il cerchio. Ombre vive si sono affollate via via nel<br />

giardino. Come non vedere, adesso, che la Scatola scivola ancora<br />

di piano? Lo spazio dei suggeritori, la boite des souffleurs,<br />

svolge sempre più vistosamente (e amabilmente) i compiti di un<br />

rito familiare. È scrigno e urna. Si legga l’ultimo foglietto che contiene<br />

la dedica a un terzo ospite, al finto tonto e allo sciocco sapiente,<br />

battezzato col nome di Petote in una lingua dell’infanzia.<br />

Il cane di Goffredo Parise e di Giosetta. Sta in silenzio e tuttavia<br />

conserva il misterioso eloquio dell’anima: “La presenza del mio<br />

cane - aveva commentato Parise - è parlante; si avverte un’anima<br />

anche se non ha la parola per esprimerla. (...la sua) innocenza<br />

mi ha affascinato, come può affascinare quello che è il<br />

bene, non tanto il bene morale, quanto il bene in sè quale dato<br />

innato”. Petote, insomma, ha gli attributi dell’Ombra, non esclusi<br />

quelli dell’angelo e della marionetta divina. “Amato Amore /<br />

Dolce prelato / Del rito-culto / A te dedicato!”, esclama l’artista.<br />

Ed è un sorriso che alleggerisce la gravità del messaggio. Quest’innocente,<br />

c’è da scommettere, ‘porta’ qualcosa, è un custo-


de. Per avvertirlo, annodiamo i fili ancora sospesi, quelli fragili e<br />

quasi invisibili delle Telette, e leghiamoli agli altri. Quando incontriamo,<br />

in una delle piccole composizioni, A come amore,<br />

che non ha nulla per essere omologato alla “A” di Andrea, viene<br />

subito in mente il primo capitolo di Sillabari, l’opera più volte ripresa<br />

e cresciuta col tempo di Parise, in cui la prima lettera dell’alfabeto<br />

intitola un racconto d’amore. C’è poi un “3” dove è<br />

stata deposta una sorta di etichetta con la A stampata (il libro, il<br />

sillabario) e che convoca il nodo a tre di Petote con i compagni<br />

di casa. Poco fa si è rammentato il collage di parole per Zanzotto;<br />

e “Petote” era stata una invenzione verbale di Parise (“l’ho<br />

chiamato con un nome comico per diminuire i suoi lombi nobili”).<br />

Molti, svariati segni convergono a far riconoscere la presen-<br />

818<br />

G. Fioroni, Melusina, 1990, olio e collage su tela e cornice<br />

cm 51x41,5.<br />

za discreta di una scrittura, la parola di cui “il dolce prelato” porta<br />

il sigillo.<br />

Perciò la struttura di Poetry Box appare simbolicamente significativa:<br />

quattro pareti di tele per il giardino, sul ritmo del quattro<br />

l’avvicendarsi dei dipinti, quattro le funzioni narrative: il sogno<br />

pittorico e le scritture. Tutt’intorno i corollari dell’amicizia.<br />

Non aveva torto Ceronetti ad attendere la “lettrice dai bei segni”:<br />

Che una poesia capace li raccolga<br />

sulla lingua della sua lacrima.<br />

(1) “Giosetta Foroni - Poetry Box”, Edizioni Corraini, Mantova, 1990.


Carte e disegni: un giardino di essenze<br />

Regina (1)<br />

Regina ha disegnato molto e con intenzioni diverse per tutta la<br />

vita; in certi anni forse non ha fatto che disegnare (o quantomeno<br />

non ha creduto di lasciare altra testimonianza), a riprova<br />

della autonomia e insieme del ruolo esplorativo che questa pratica<br />

assumeva a servizio della scultura. La prima opera nota è un<br />

autoritratto a carboncino, unico superstite finora accertato dell’addestramento<br />

torinese nell’arte plastica. E curiosamente al<br />

tema dell’autoritratto, e più velatamente dell’io interiore, sono<br />

ispirate alcune delle ultime prove, tra cui una sorta di canto d’addio<br />

in forma di parola colorata o di maschera melanesiana.<br />

Non dovendo (né d’altronde volendo), per un principio poetico<br />

misto d’insofferenza verso il mercato, produrre più di quanto le<br />

era necessario, l’artista era solita lasciar perdere il superfluo e<br />

quando il gioco l’attirava abbandonarsi alla civetteria della dissipazione:<br />

"attenti / se no butto all’aria anche la poesia / la scul-<br />

Regina, Disegno, 1970, pastelli su carta, cm 16,5x28.<br />

819<br />

tura l’ho già buttata / e mi ha ringraziata". Vero e falso nello<br />

stesso tempo, ché concludeva con una capriola degna dell’uomo<br />

di fumo: "1-2-3/ e voilà". Evidentemente le bastava conservare<br />

l’indispensabile senza dover ribadire, con ulteriori prove, le sue<br />

cifre di riconoscimento. Così i differenti modi stilistici di ciò che<br />

è rimasto, magari consegnati a fasci di carte lasciate nel cassetto<br />

(e nell’insieme sono centinaia di fogli), vanno rivisti tenendo<br />

conto delle molteplici funzioni cui il disegno era chiamato a rispondere:<br />

compiti in parte coincidenti con l’uso dell’appunto grafico<br />

da parte di scultori e in parte devianti e innovativi. È evidente<br />

infatti che innumerevoli schizzi rientrano nella categoria<br />

degli ’studi’ e documentano il momento riflessivo che anticipa la<br />

fase in cui il fantasma prende vita nella materia. E se tali ’idee’<br />

si manifestano in modi abbreviati e veloci, ciò non comporta<br />

certo (come appare chiaro dai taccuini) una sommessa qualità<br />

espressiva; sta a significare piuttosto, nell’intento dell’autrice, un<br />

proposito di scavo, un voler far luce dentro la genesi dei motivi.<br />

Altre volte, però, la maniera del croquis, questa pervicacia a


compulsare velocemente l’istante, non si spiega con ragioni vicarie.<br />

Non essendoci nulla da tradurre in oggetto, lo schizzo è libero<br />

e senza condizioni: è una forma d’ascolto, una apertura, un<br />

puro presente. Se i segni torneranno ad affiorare a distanza per<br />

il momento non conta, poiché serve mantener duttile la fantasia,<br />

che si getta in sé e non progetta qualcosa. È forse un’arsura<br />

del vuoto, un volo senza centro?<br />

Nient’affatto. L’intenzione c’è, non rivolta a una immagine bensì<br />

alle facoltà di orientamento, quella di sondare la via, il cammino<br />

delle percezioni, il come ci si muove nello spazio. Tant’è vero<br />

che questa interrogazione si tematizza in mappe, dà luogo a tavole<br />

sensoriali, mette in relazione la vista col tatto e l’udito, oppure<br />

fa tacere tutti i sensi, tranne uno, per esempio il tatto, per<br />

aprire, allo stato intuitivo, un’inchiesta tutt’altro che irrilevante<br />

sull’enigma della conoscenza. Cos’è lo spazio per chi non vede?<br />

Che cosa per un cieco il colore? E la luce? E ancora, per ripetere<br />

una ormai celebre domanda di Wittgenstein: come "descrivere<br />

le deviazioni del vedere normale dalla cecità totale? Si potrebbe<br />

chiedere: per insegnarlo a chi? C’è forse qualcuno che possa insegnarmi<br />

che io vedo un albero? E che cos’è un ’albero’, e che<br />

cosa ’vedere’?" È significativo, crediamo, che Regina si sia spesso<br />

rivolta a chi poteva parlarle in una lingua non raffreddata dall’uso<br />

comune, che abbia perfino modificato segni e grafia per<br />

stare più vicina a una esperienza per lei originaria, così come faceva<br />

oggetto di riflessione una parola straniera, un suono, una<br />

onomatopea, oppure si divertiva (ma era solo questo?) a delineare<br />

serie di occhi e delle mani. Fatto sta che i disegni, non obbligati<br />

a riversarsi in prodotto, finiscono per rifrangersi sotterraneamente<br />

in altri lavori, anticipano senza volere delle figure,<br />

grazie a quel principio dell’eco che svolge un ruolo così importante<br />

nella sperimentalità apparentemente svagata dell’artista.<br />

Ed ecco un altro salto. Accanto alle funzioni di cui s’è detto, il disegno<br />

assume spesso piena autonomia.<br />

Costruisce, è il caso di dirlo, organismi visivi, risolvendosi in essi,<br />

non rinvia ad altro. Oppure, senza abdicare alla sua singolarità,<br />

affianca un partito scultoreo, di cui non rappresenta nè un prima<br />

nè un poi, ma semplicemente un evento parallelo, l’equivalente<br />

composto in una sintassi diversa. E qui - occorre dire - apre un<br />

testa-a-testa imprevisto. Avviene che l’elemento statutario del<br />

disegno, la convenzione della linea e del foglio, del doppio limi-<br />

820<br />

te, generi spazi che oltrepassano il piano. La linea si fa taglio, la<br />

superficie anfratto e piega. La mano, come insofferente di alludere<br />

soltanto alla profondità, alterna la matita alla forbice facendo<br />

arretrare o avanzare la linea. Passa dalla geometria piana<br />

alla sferica, in virtù di un principio creativo riscontrabile tanto in<br />

natura quanto nell’arte, nei giochi di carta e nei lavori di cucito e<br />

ricamo, laddove, in ogni caso, si manifesta una speciale morfologia:<br />

quella della crescita per infiorescenza infinita: della foglia<br />

che si fa petalo, fiore e volume. Allora non sarà irrilevante, bensì<br />

un segno d’indipendenza immaginativa, se Regina trasferisce i<br />

fervori modernisti nella fucina inesauribile del linguaggio elementare;<br />

se la passione del "germe" la spinge a osservare la vita<br />

dei giardini, i riflessi d’acqua, il moto delle scaglie. Un amore per<br />

altro condiviso da un gran numero di artisti. Né sarà inutile, per<br />

andare alla radice di un simile entusiasmo in epoca moderna, far<br />

capo a un instancabile studioso della natura come Goethe, cultore<br />

di orti botanici e di colori; di chi, cioé, aveva creduto di scoprire<br />

il segreto dei segreti in un archetipo vegetale, esprimendo<br />

l’idea che "nella foglia si nasconda il vero, Proteo, presente e nascosto<br />

in tutte le forme. Prima o poi - leggiamo nel Viaggio in<br />

Italia - la pianta non è che foglia, così inseparabilmente unita al<br />

germe futuro, che l’una non si può pensare senza l’altra". "Fra le<br />

parti esterne delle piante (la foglia, il calice, la corolla, gli stami)<br />

che si sviluppano una dopo l’altra e, per così dire, l’una dall’altra<br />

- si precisa negli scritti scientifici - corre un’affinità segreta; e al<br />

processo mediante il quale un solo e medesimo organo si modifica<br />

in tanta varietà davanti ai nostri occhi gli osservatori hanno<br />

dato il nome di metamorfosi delle piante" .<br />

Affinità dunque elettiva e strutturale fra gli elementi sottili, i veli<br />

e i fili della vegetazione, ma anche la foglia come simbolo di<br />

tutta la vita. Lo schema primigenio della foglia-fiore rimbalza da<br />

lì nell’immaginario artistico come grande metafora generativa.<br />

Eppure non si tratta soltanto d’un mito, d’una figura da far correre<br />

nella catena delle metafore, poiché di donne-fiore, da Runge<br />

a Balla, dai romantici ai surrealisti, trabocca la cultura contemporanea.<br />

Il tema si presta infatti a collegare anche l’arte e la<br />

scienza, il linguaggio poetico e l’analisi delle strutture formali. In<br />

quasi tutte le teorie artistiche del primo Novecento un paragrafo<br />

almeno riguarda l’analogia formativa dei processi dell’arte con<br />

quelli della natura, un comune istinto alla forma.


Ma Regina ne era al corrente? Benché sia difficile dire in che<br />

modo leggesse (occorrerebbe fare un’indagine precisa, esaminare<br />

la sua biblioteca che - a quanto si sa - era ricca di volumi<br />

tecnici), l’opera ci assicura che agiva come se lo fosse. D’altro<br />

canto che importa? Bastano le pagine disegnate, le dissezioni e<br />

le vedute di erbe, calici e bulbi, studiati in pianta centrale e con<br />

una costante attenzione per gli sviluppi simmetrici, radianti e<br />

spiralici, a darne la prova. Quali che fossero le fonti innestate sul<br />

messaggio goethiano, all’incrocio fra neoplasticismo, terza avanguardia<br />

futurista e arte fantastica, il sogno di connettere la tèchne<br />

con la storia infinita della natura, tocca Regina come d’incanto<br />

ed è proprio quest’incanto a rendere nuova l’opera, a tal<br />

punto sua e originale da sorprendere l’intelligenza di molti.<br />

Qualcuno all’inizio non sa neppure classificarla. Si parla di ’apparizioni’<br />

e prodotti quasi irreali della grazia.<br />

Con la disarmante chiarezza di chi possiede un’idea certissima,<br />

un’idea che sfida le materie più ingrate dopo aver risolto problemi<br />

di forma in lingua preziosa (il marmo bianco, lustrante e<br />

vibrato di luci del ’25), l’artista articola un primo fantasma di metamorfosi.<br />

Du bist eine blume scriverà a distanza di quarant’anni,<br />

con una formula assai meno impressionista di quanto la frase<br />

sciolta dal contesto indurrebbe a pensare.<br />

Giacché ’tu sei un fiore’ è un aforisma operativo, grammaticalmente<br />

ricco di implicazioni quanto pregnante a livello simbolico<br />

e tematico. E che lo sia su quest’ultimo piano lo dicono, per non<br />

citare altre, le sculture in alluminio Maschera e Il Poeta e la Natura:<br />

due volti in cui il metallico della specie più comune, ma emblematica<br />

della modernità, un foglio di lamiera, viene sagomato<br />

per segnalare un rapporto dell’homo phantasticus con il mistero<br />

naturale e la sua immersione nelle cose. Da un lato un attrezzo<br />

dell’arte, il volto che vive sulla scena, si configura come una invenzione<br />

botanica, una sintesi di petali, calici e infiorescenze, dall’altro<br />

la visione tutta mentale del ’poeta’ si fa latrice di un connubio,<br />

l’innesto di un vorticoso germe metallico (di nuovo un<br />

fiore) sul ’vero’ tralcio di vite del costrutto polimaterico.<br />

Commistione che non auspica, a ben vedere, l’annientamento<br />

dell’organico nel pietrificato, bensì, all’opposto, il sogno di un artificiale<br />

alimentato dalla natura, adagiato nel suo tronco, capace<br />

di ripeterne, in armonica alleanza, i tragitti miracolosi, poiché<br />

non è l’arbusto a metallizzarsi quanto il metallo a subire la tra-<br />

821<br />

Regina, Spiaggia, 1930, alluminio, cm 24x16x8.<br />

Regina, Disegno, 1970, pastelli su carta legno, cm 19,5x19.


sformazione. Ma se qui si fa questione innanzitutto di simboli,<br />

ecco intervenire un assetto strutturale, un calibro di pesi e movimenti<br />

che si assume il compito di scandire l’ordine plastico.<br />

Cos’è una scultura? Non dà l’idea del tralcio, di un nastro che<br />

gira, d’una lamina avvolta su se stessa? Superfici scabre e piani<br />

incurvati si sovrappongono; le lame si arrotano e sfogliano creando<br />

una vite a forza di rampollamenti e rilanci. Issandosi su un<br />

punto fermo, piantato com’è su una solida stazione a terra, il costrutto<br />

va verso l’alto mediante spostamenti circolari. Segue un<br />

asse suggerito dal ’piede’. Si vedano le Bambine del ’30.<br />

Sagomato a cilindro o a prisma, il fondamento contiene la stabilità<br />

e il moto. Dopodiché avvolgendosi intorno all’ideale albero<br />

Regina, Dalla luna, 1971, pastelli su carta legno, cm 22x14.<br />

822<br />

interno, che dà la sostanza aerea della figura, ascendono le fasciature<br />

metalliche, ossia il corpofoglia della marionetta sensibile:<br />

corpo e veste insieme, in proiezione ora levogira ora destrogira.<br />

Va e viene, abbandona e riprende il contatto col filo a piombo<br />

invisibile. In definitiva - usiamo ancora termini goethiani -<br />

connette l’energia di concentrazione all’anelito a espandersi,<br />

conglutina polarità e ascesa. Se il piedestallo è un germe, un<br />

seme compatto, lo sviluppo traduce uno stadio evolutivo, o meglio<br />

una famiglia vegetale superiore. È, l’opera, una fanerogama,<br />

vale a dire un organismo a generazione manifesta rispetto al<br />

grumo coperto, involto e nascosto d’una crittogama, la pianta<br />

che, diversamente da quella, consuma le nozze nell’ombra. Qui<br />

invece lo spazio aperto, eccentrico, e con esso la luce, prevale<br />

sull’interrato. E tuttavia non se ne stacca. La mano si muove<br />

come fa un eliotropio, che non è il sole, ma se ne innamora, lo<br />

segue e si torce forgiandosi a somiglianza d’un disco. In ogni<br />

caso, ciò che importa sta in questo: che uno schema vitale, un<br />

istinto-a-essere volto all’irradiante, si imprime sul metallo con la<br />

sintassi del riverbero. Fa sua la legge della simmetria dinamica.<br />

Non per nulla i disegni prediligono l’andamento della fuga e, seguendo<br />

scale ritmiche, si aprono a ventaglio per traslazione. Un<br />

modo di crescere che diventerà sempre più evidente nel corso<br />

degli anni, fino a sfociare nelle piogge fini di tratteggi e nei reticolati<br />

d’inchiostro su celluloide. Acuti come trafitture.<br />

Lo schema va poi oltre la foglia, facendosi largo l’ipotesi che il<br />

modulo, la volontà di forma sigillata nei palmati imbricamenti,<br />

nelle nervature e nelle loro diramazioni, valga in universale. Organico<br />

o inorganico, pesante e sottile seguono un’unica vibrazione,<br />

nel grembo oscuro della materia come nella luce, quali che<br />

siano le fibre. Nelle immagini più stabili l’asse resta verticale,<br />

mentre gli sviluppi si dispongono a raggera, a spina di pesce, a<br />

battute speculari sui lati del foglio. Negli studi per Aerosensibilità<br />

la figura, vista di lato e di fronte, mette in chiaro i sensi dell’avvitamento<br />

accanto al perno: alla disposizione totemica del<br />

tronco e del volto, schiuso come una conchiglia bivalve, fa riscontro<br />

la ’frase’ agitata della periferia. Una gamba dell’idolo<br />

moderno dà il via al commento elicoidale, che trapassa nella<br />

veste e riprende a salire con le giunture degli arti per traforare<br />

lo spazio. Non sono ancora le cadenze continue della scultura<br />

concreta di dieci anni dopo, che Silvana Sinisi riporterebbe forse


allo spirito di Brancusi, ma se ne avvertono i presagi, il lievito<br />

dentro la scansione modulata dei piani.<br />

Poi l’asse si inclina e quel medesimo andirivieni sperimenta configurazioni<br />

complesse. Le carte ritagliate, che viste in mazzetti<br />

appuntati da spilli rinviano ad un laboratorio di sartoria, sviluppano<br />

una straordinaria forza di aggregazione degli spazi quando<br />

li si disponga nell’ordine previsto.<br />

L’immagine si esibisce in un seguito di quinte, velamenti e riapparizioni.<br />

Dà in un certo modo spettacolo di sé, riuscendo la<br />

carta, quel che dovrebbe restare soltanto un supporto, a servire<br />

contemporaneamente da cornice, sipario, figura e fondale. Ne<br />

esce, come dire, un’architettura d’aria, a metà fra il disegno e la<br />

maquette scenoplastica; un fragile castello di quinte che s’imbeve<br />

di ombre reali, pronto ad animarsi col mutare delle fonti di<br />

illuminazione. Nel ’progetto’ (che è comunque termine limitativo)<br />

dell’Amante dell’aviatore viene plasmato quanto il titolo invita<br />

a vedere. Si dà cioé nerbo figurale, verità di stile, al contenuto<br />

fantastico. Il testo è il tema e viceversa. Per coglierne il<br />

senso occorre tener conto di quante virtù cinesiche il montaggio<br />

si intride, badare a come la figura, quel corpo seduto (un’altra<br />

partenza da fermo) reciti una metamorfosi amorosa. L’ “amante”<br />

in posa certo; ma anche mima, attrice di carta colta nell’ atto<br />

di significare coi gesti una pala rotante. Eccola accennare dapprima<br />

a una torsione verso destra coll’accavallamento delle ginocchia<br />

e avviare dal basso una lieve traiettoria che il busto riprende<br />

consegnandola alle braccia, alla curva che s’allaccia dietro il<br />

capo. L’insieme gira lentamente, come un orologio, e restituisce<br />

la metafora geometrica d’un’elica, la sigla del sogno: sommessa<br />

e quasi impercettibile interpretazione di un mito futurista, specialmente<br />

vivo nelle ’sintesi’ della danza.<br />

Su un altro punto preme tuttavia insistere ed è che il repertorio<br />

delle forme, in questi e nei coevi esercizi, si allarga per comprendere<br />

articolazioni ritmiche del movimento che costituiscono<br />

una sorta di leitmotiv dell’epoca, un fondo problematico comune<br />

a vari artisti europei, dove oltretutto si intrecciano sfumati<br />

rapporti, scambi e differenze tra chi sta decisamente sull’astratto<br />

o sul purismo costruttivo e chi segue altre persuasioni. Si tratta<br />

(già lo si è detto) di cogliere cellule originarie di movimento,<br />

la morfologia del divenire. Segreti della forma capace di schiudersi,<br />

aperta alla vita.<br />

823<br />

Regina, Tavola della serie “Il linguaggio del canarino”, 1966, tecnica mista,<br />

cm 22x17 ca.<br />

Le carte del Trenta mostrano che c’è un tema urgente, un motivo<br />

che insiste a reggere le immagini. Passando dallo statico al<br />

dinamico, proprio nello scarto cruciale in cui avviene un mutamento<br />

di stato, Regina mantiene fermo un fulcro, talora un<br />

punto, tal’altra e più spesso un asse ideale intorno al quale s’avvita<br />

un moto ascendente. Ricorrendo alle figure simboliche care<br />

all’autrice, si potrebbe indicare il ramo, oppure la torre e l’albero,<br />

che fanno da stimolo conduttore in molte creazioni, anche<br />

nelle più stremate, filiformi e disossate, come le strutture completate<br />

all’inizio del Quaranta, nelle quali si nasconde - è confidenza<br />

di Zoe Fermani - una fantasia di navigazione, l’idea dell’albero<br />

e della vela. Se questo è vero (e non c’è motivo per dubitarne),<br />

come non vedere che il ritmo trae origine dal più elementare<br />

dei moti? Dalla traslazione? E che la simmetria, una in-


quietata ricerca di equilibri di trasformazione, fa da propellente<br />

al vedere? Non la simmetria come rapporto riposato delle forme,<br />

ma nel senso etimologico suggerito dalla parola, come uno stare<br />

col ritmo, tenere misure musicali. Syn-metria.<br />

E ancora una domanda: si tratta di un fenomeno originario o dipende<br />

da una legge numerica soggiacente alle apparenze?<br />

Si portino a raffronto periodi diversi, si mescolino pure i disegni<br />

iniziali con gli ultimi, e si avrà la prova della persistenza del problema.<br />

Dalla ’ballerina’ alle ’esplosioni’ plastiche, dai congegni<br />

puntati sulla luna, dai ’cosmonauti’ alle tavole sonore, da tutti<br />

trapela la passione per la scala agitata dei riflessi. L’uno, una<br />

forma geometrica (ma anche una parola o un fonema dipinto)<br />

si scioglie in intervalli e dalla spaziatura si snodano strofe modulate.<br />

Si snodano, ma sarebbe meglio dire che prorompono,<br />

poiché spesso (si osservino le abissine e le maschere) il fervore<br />

della simultaneità fonde le immagini in un getto irruente.<br />

Che tutto ciò, oltre a dare la bellezza dell’ornamento ad alcune<br />

Regina, L’amante dell’aviatore, 1935, carta ritagliata, matita e spilli, cm 26,5x21,x3.<br />

824<br />

composizioni, abbia in specie una portata conoscitiva, lo si vede<br />

fin dai disegni preparatori per Il paese del cieco, dove anzi la coscienza<br />

percettiva tocca un culmine dell’indagine sui sensi. In<br />

uno di essi, che è forse il primo perché configura un evento di<br />

nascita, la simmetricità viene implicata nel sapere del corpo.<br />

Delle mani si protendono, sporgono sull’esterno, lo esplorano<br />

come le antenne o i rami d’una pianta, in un modo che fa ricordare<br />

l’ordito ligneo dell’Albero felice. È la bilateralità d’un cieco<br />

che avanza, toccando con la destra e la sinistra, simultaneamente,<br />

il vuoto davanti al quale si trova.<br />

L’autrice ci dà una sequenza di toccamenti, le localizzate spaziature<br />

delle impronte, dei profili di palme, vuoti dapprima come il<br />

nulla da cui provengono. In progress la mano sfoglia la distanza,<br />

apre cortine e crea lo spazio orientato. Modellando cavità e sbucciature,<br />

configura quell’esperienza inaugurale del corpo proprio,<br />

che gettato nel mondo, lo conquista vivendolo. Cecità universale,<br />

erlebnis della nascita e dunque prima conoscenza, fatta di<br />

scoperte tattili e di ascesa sugli appoggi bilaterali.<br />

La spazialità del corpo si compie nell’azione. Destra e sinistra<br />

aprono la via, poi altri sensi convergono nell’unità organica e vivente<br />

del corpo. Lavorando sulla diagonale, il tatto interpella<br />

nuove direzioni, sale e scende, scompagina e riordina. Così facendo,<br />

scopre una figura e, sarei tentato di dire, un segno efficace<br />

di darsi nel mondo, a tal punto importante che lo si trova<br />

impresso per ben due volte in forma di emblema e riecheggiato<br />

da ogni parte nell’opera conclusiva. È il ’nodo’ dinamico, raffigurato<br />

dalle icone isomorfe dello slittamento: un cerchio spezzato<br />

e il segmento che incerniera due quadrati per i vertici. La<br />

spirale e la scala. Ora il paese del cieco diventa meno cieco di<br />

prima. Non lo è più nel senso che sollecita delle sinestesie, accenna<br />

ad abbracciare il visivo e l’acustico. E lo fa servendosi della<br />

morfologia della ruota, mediante triangoli girevoli e oscillanti in<br />

cui confluiscono materiali dello sguardo e grafemi al servizio<br />

della voce. Si guardi, per esempio, in alto, dove “un disperdersi<br />

efficacissimo di lettere, d’una profetica innovatività linguistica”<br />

dà un concentrato intraducibile d’emozioni (L. Caramel). Ma che<br />

senso ha la dispersione? Se si ha la pazienza di compitare quei<br />

segni fonetici, di analizzarne le sequenze e le geometrie, si può<br />

constatare come l’alfabeto venga ritorto al modo d’una treccia,<br />

dopo la linea mediana che fa da exergo (ABCD), facendolo scor-


ere all’indietro e dal basso; e come, una volta assestato l’insieme<br />

in due blocchi speculari a triangolo, se ne getti una parte e<br />

lo si prenda per la coda delineando un nuovo triangolo (ma la<br />

maglia è a rombi), in cima al quale le lettere estreme si slanciano<br />

in una curva bizzarra, un pas à deux lieve come un fumo.<br />

Ne risulta che tutto il patrimonio (italiano) dei suoni è usato per<br />

la costruzione; nulla è assente, ma qualcosa viene privilegiato:<br />

la coda rispetto al capo, mentre la linearità è soppiantata da una<br />

simmetria funambolica di scorrimento. Disperdere significherà<br />

allora riordinare, introdurre movimenti a raggera in un corpo infranto/rifratto,<br />

vaporizzato ma non dissolto poiché niente va perduto<br />

nella rete dei quadrati, dei rombi e triangoli, vale a dire<br />

nella scacchiera alla quale si affida il compito di reggere il gioco<br />

della fantasia. Va da sé che la quadrettatura dello spazio (qui invisibile,<br />

ma segnalata a pieno titolo in una carta dell’Amante)<br />

rappresenta un sondaggio non trascurabile in rapporto ai disegni<br />

ritmici sui quaderni di scuola del Sessanta. L’ordine generativo<br />

chiede ripartizioni non casuali, si avvale di intervalli calcolati<br />

come la scrittura musicale, di cui, per altro, Regina era esperta.<br />

Arrivati a questo punto, il mondo da esplorare si allarga ancora.<br />

Coerentemente con la ricerca di fatti originari, anche i materiali<br />

del disegno hanno subito una drastica riduzione all’elementare.<br />

Finora è prevalsa la monocromia e la matita ha camminato severamente,<br />

con durezza, sulle carte non di rado opache e povere.<br />

Nè poteva essere diversamente dovendosi esplorare una materia<br />

scabra, l’ignoto di una apertura primaria del senso. Anche<br />

la brillanza ha ceduto il passo all’urgenza tattile e motoria, ma<br />

questo castigato impiego della luminosità lascia intravedere<br />

qualche varco alla fine del Trenta ed è proprio il disegno a dare<br />

i primi segni della svolta. Non solo di lì a poco Regina riporterà<br />

al chiaro, allo splendore delle superfici terse e levigatissime (già<br />

i “ferri” del ’38 -’42 registrano lampi), e al candore la scultura,<br />

ma riuscirà nella fase successiva a fare del colore una entità tridimensionale.<br />

Ora, perché tanti disegni di fiori all’imbocco del nuovo decennio?<br />

Sfumati, fragranti di trasparenze (il bellissimo ’soffione’), spesso<br />

toccati dalle tempere? La risposta non può essere che duplice:<br />

mentre prosegue l’analisi strutturale della natura, comincia lo<br />

studio dei toni aerei: un innamorato inseguimento di trapassi,<br />

lontananze e riverberi. Dietro le cromie il piano d’appoggio è una<br />

825<br />

Regina, Aerosensibilità, 1935, alluminio, cm 70x36x30.<br />

specie di chiarore diffuso da cui e in cui trapela la luce. Ha la natura<br />

del prisma e lascia respirare le tinte, come avviene per i vapori<br />

che s’effondono nel chiaro. Si potrebbe dire in generale che<br />

le forme sono corpi d’aria, volumi di fili in cui le fibre cromatiche<br />

restano in sospensione, custodite ma non imprigionate entro i<br />

contorni. A rigore non si dipinge la superficie perché il colore dissolve<br />

e non copre, va in profondità: semplicemente illumina. Se<br />

si vuol dar peso ai miti, si noterà che tra sassifraghe e trifogli v’è<br />

quella ’lucerna’ tra le erbe con i fiori raccolti in corimbi che è (la<br />

disegnatrice tiene a segnalarlo) la Lychnis Rubra, detta anche<br />

’candelabro’: rosa di macchia, dalla quale viene lo spunto per un<br />

bassorilievo in gesso di qualità non elevata, ma indicativo di<br />

un’intenzione per noi capitale, quella di spremere quintessenze


Regina, Struttura, 1955, filo di ferro e plexiglas multicolore, cm 14x28,5x10,5.<br />

dalla vegetazione; ricavare dalla natura dei sigilli universali,<br />

anche riecheggianti i segni dell’ornato e la memoria architettonica<br />

di simmetrie cicliche, palmette e bracci dei rosoni.<br />

Del ’45 è un inchiostro con tempera in cui il rotante si alterna all’acuto,<br />

ed è già in anticipo l’immagine dei ’teatrini’. Per un certo<br />

numero di anni, pressapoco in coincidenza col “Mac”, il ruolo<br />

progettante del disegno appare febbrile. Tutto si consegna all’imperativo<br />

aniconico della struttura e Regina si immerge nell’invenzione<br />

di figure inedite, per le quali forse non esistono parole<br />

adeguate, salvo però a dire, nei momenti cruciali, che l’antico<br />

germoglia nel nuovo. Immagina spazi planetari, fiori celesti,<br />

armonie luminose, ma più vicina al Leopardi che al Pascoli cosmico,<br />

col quale pure (come ha argomentato V. Scheiwiller) ha<br />

almeno due forti elementi di consonanza, non abbandona la<br />

terra, continua a osservare l’elevato stando sulla torre che le dà<br />

parapetto e punto di vista.<br />

Lontana dagli sgomenti di chi osserva dal di fuori e si sente perduto,<br />

s’entusiasma per le meraviglie del volo e le umanizza. Il<br />

cielo, seppur ignoto, non è estraneo e diventa una scena traslucida.<br />

Il cosmonauta un personaggio da accogliere con ghirlande,<br />

826<br />

Regina, Struttura, 1958, plexiglas multicolore, cm 37x14x19.<br />

un totem fiorito. La fedeltà alle piccole dimensioni, la tendenza<br />

a valersi di poco risolvendo la visione in un esiguo fascio di<br />

schermi dicono quanto la fantasia abbia caro tenere vicino l’orizzonte.<br />

Ci si sospende qui per ascoltare l’altrove.<br />

Vastità e leggerezza spirano dappertutto, tra gli alberi, nelle<br />

nubi, per le strade. Un poeta lo ricorda e nasce per lui un ritmo<br />

colorato. Melanphylloi dàphnei khlorèi t’helaìei tantalìzei canta<br />

un frammento d’Anacreonte, ossia Vibra il cupo fogliame / del<br />

lauro e del verde tenero ulivo nella versione di Quasimodo che<br />

Regina riprende, ma tendendo l’orecchio al verso greco (per<br />

questo l’abbiamo riprodotto) nella pagina a fronte. Quale che sia<br />

stato l’accostamento linguistico, in diretta o per suggerimento,<br />

sostituisce verde pallido con un pascoliano glauco dando segno<br />

nel titolo di voler restituire a modo suo i significati dei suoni. Nel<br />

collage su carta nera sequenze di dischi articolano altezze e passaggi,<br />

sono timbri di colore nella variazione dei complementari<br />

e nei contrasti del ’cupo’ e del chiaro. Ha ragione C. Belli: le<br />

"forme cantano. Meglio dire suonano".<br />

Qualche anno dopo il sapere strofico di quella pagina sul bagliore,<br />

il tantalìzei, s’incontrerà con la scrittura visiva. Sul principio


del Sessanta, intanto, compaiono dei piccoli pastelli di gusto informale,<br />

simili a finestre sul cielo, nella cui esecuzione non ci<br />

sembra estraneo un risentimento simbolista, qualcosa di musicale;<br />

cadono nel ’62 i foglietti quadrettati con partiture ancora<br />

musicali; nel ’63 tornano sprazzi di figurazione, con collane di<br />

occhi, volti, bocche e una sorta di falco dalle ali spiegate come<br />

in un cammeo egizio o déco. Poi il tratto s’impunta, la penna<br />

graffia e la matita corre leggera su carte d’ogni tipo, trasparenti,<br />

lucide, fruscianti ed è una delle stagioni disegnative più intense,<br />

senza titoli al pari delle strutture, perché le superifici sono tuffate<br />

nella luce totale, prosciugate e inorganiche, fredde di uno<br />

splendore adamantino. Il bianco dibatte col nero in uno stato di<br />

purezza assoluta, l’immacolatezza col segno della scrittura. È ancora<br />

una volta, portato al diapason, il dibattito sui nomi univer-<br />

Regina, Progetti per donne abissine, 1935, carta ritagliata e spilli, cm 20x27.<br />

827<br />

sali, "una mescolanza di rigoroso strutturalismo e insieme di<br />

squisitezza romantica, di puntigliosa costruzione stereometrica e<br />

di fantasiosa attività inventiva" (G. Dorfles).<br />

All’improvviso si riaffaccia l’alfabeto, probabilmente sospinto da<br />

alcuni esercizi sulla firma (sotto un occhio azzurro per dodici<br />

volte "Regina"). Dapprima sono segni incisivi, bianchi e neri, a<br />

penna e matita (alcuni suoni delle campane); poco dopo, negli<br />

ultimi mesi del ’66 la superficie s’intride a pieno campo di colore.<br />

Ne vien fuori una partitura meditatissima di nove ‘quadri’<br />

(con varie ’prove’), in cui un minuscolo personaggio recita su un<br />

micropalco a due e più quinte. Non lui anzi prende posto, bensì<br />

il suo canto spiegato. E se la figurina accampata al centro di due<br />

tavole (Il linguaggio del canarino), il triangolo alato, non lascia<br />

dubbi di chi si tratti, l’araldica è anche prossima a quella di altre


immagini, compresi gli autoritratti astrattizzanti.<br />

È un esercizio di alto spessore mimico, un “vaghissimo errore”<br />

sorretto da una fantasia di unione con una creatura gioiosa, a<br />

proposito della quale ci si consenta un’altra citazione: "Siccome<br />

Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per essere<br />

mirato da quella che egli amava..., similmente io vorrei, per<br />

un poco di tempo, esser convertito in uccello, per provare quella<br />

contentezza e letizia della loro vita" (concludeva un’Operetta<br />

morale). Siccome, però, non bastano i suoni di un solo alfabeto<br />

a restituire la magia di quel canto, Regina fa ricorso ad altri che<br />

conosce. Forse, pare domandarsi, la voce degli animali sta all’origine<br />

delle lingue umane e occorre rimescolare quel che si conosce.<br />

Come rendere gutturali e fricative? Sibili e gorgoglii?<br />

Sulla prima tavola, composta ‘teatralmente’ di due fogli sovrappo-<br />

828<br />

sti (un trasparente con la scrittura sopra il ‘fondale’ a tre quinte),<br />

appaiono delle sonanti pure, insieme a coaguli interiettivi che<br />

fanno da registro di partenza. Ne discendono sillabe, iterazioni e infine<br />

delle voci fantastiche. Su un altro foglio esplosive e sibilanti.<br />

Che cosa vuol dire, accanto alle onomatopee, la serie kirk kirk<br />

vrik rich svitz? Evidentemente nulla che il concetto possa articolare,<br />

ma moltissimo a livello fonosimbolico.<br />

Cionondimeno i valori emotivi si trasmettono anche tramite significati<br />

palesi che val la pena di annotare. Sotto scheri si nasconde<br />

infatti chéri, replicato da uno schri del lessico musicale<br />

(in tedesco ’grido’: schr(e)i). E se schoi non si lascia facilmente<br />

interpretare come choix è pur vero che in altre collane sillabiche<br />

trapelano volute allusioni a un colore e alla gioia (blu e glük, felice).<br />

In fondo a una tempera si legge una ecolalia certamente<br />

Regina, Plastico disintegrato, 1952, plexiglas bianco, cm 35x32x32 Regina, Studio per Aerosensibilità, 1930, tecnica mista su carta, cm 20x15.


non casuale, jeü je jet, che ha l’ ‘io’ al centro e potrebbe essere<br />

interpretata all’incirca come ’io sto nel gioco e getto, lancio dei<br />

suoni’ o simili. Chi canta è il ’canarino’, ma con lui c’è Regina che<br />

lo ascolta, insiste a tradurlo e conosce perfettamente i suoni<br />

della lingua di Breton. Il fraseggio ha un passo amoroso che non<br />

vorremmo dimenticare, un riverbero trilingue, dato che, accanto<br />

a ehbi, compaiono solidali schöne e bel(lo). Bisognerà allora<br />

dire, per spiegare questi incroci, che è in causa la poliglossia?<br />

Non ci sembra necessario. Il plurilinguismo è in realtà sul piano<br />

grafico un poli-alfabetismo, un multi-lettrismo; e su quello vocale<br />

una contaminazione di sonorità quantomeno neolatine e tedesche,<br />

facilmente accessibili e da sempre praticate nel divertimento<br />

dei mimi. D’altro canto a Regina interessano più i suoni e<br />

le grafie che non gli organismi sintattici, più quei simboli di tra-<br />

Regina, Progetto per Il paese del cieco, 1936, carta ritagliata e matita, cm 25x35x3.<br />

829<br />

scrizione capaci di evocare l’inclinazione d’una parlata viva che<br />

non (e cosi torna il quesito sull’astrazione) un asettico e affatto<br />

inorganico esperanto.<br />

Di tre e forse più sistemi espressivi (che una dizione sensibile potrebbe<br />

aiutare a dirimere) nient’altro viene assunto se non l’impostazione<br />

di gola e, per dir così, il respiro e il timbro d’emissione.<br />

Come nei polimaterici di varie epoche, il mescolamento cerca<br />

l’analogico, scioglie la fissità per meglio collegare natura e cultura.<br />

Una Babele all’inverso: anziché bloccare la comunicazione, la<br />

schiude riattivando, insieme al prelinguistico, il piacere infantile<br />

dei conii e delle imitazioni acustiche, oltreché (ma è stato più<br />

volte detto) le suggestioni futuriste, palazzeschiane e, più indietro<br />

ancora, della onomatopea pascoliana.<br />

Regina poeta? Certo lo è poco con le sole parole, mentre lo di-


Regina, Il paese del cieco, 1936, alluminio, cm 36x52x3.<br />

venta quando il vocabolario eccita i costrutti visivi, gli spazi plastici<br />

e colorati.<br />

"Paola ha 7 anni /…quando finalmente possiamo stare insieme /<br />

lei impara da me / ma io molto più da lei / È un / grande uccello<br />

bianco / che mi porta via". Il rapporto con l’infanzia segue i medesimi<br />

sentieri della riflessione sui fiori e le voci animali. Avviene<br />

nello stesso modo il dialogo vegetale con le carte intessute di foglie.<br />

"J’arrive par le sentier / de la MONTAGNE / oh! ceci est exquise<br />

/ une violette!". Progressivamente il gioco delle corrispondenze<br />

diventa edenico, sgravato di pesi e rumori. Dalla ’luna’ e<br />

dall’’arpa’ (significativamente intercambiabili) si diffonde la modulazione<br />

continua. Ed è la terra rarefatta, reinventata come giardino,<br />

luogo finalmente felice dove i bambini giocano, le rane gracidano<br />

e si danza "senza mani / senza dita / senza orecchi".<br />

"Distruggere, distruggere - recita una poesia - / abolita la me-<br />

830<br />

moria /la vita incomincia". E ancora: "lo sentite il mio colore<br />

quanto è flebile". Nella terra-giardino delle carte il silenzio è percorso<br />

da mormorii, l’orizzonte toccato da tenuità e lontananze<br />

cromatiche. Il desert (doppiato in dessert) accoglie le avventure<br />

di beduini immaginari, i racconti dell’ Atlante e del Madi. Regina<br />

continua a reinventarsi. Si ribattezza, traccia le iniziali del<br />

nome e del cognome d’adolescente, cerca - sono sue parole dipinte<br />

- il grande ornamento. Ma non si creda che il tono della<br />

lontananza sia una virtù dell’ultima ora. Flebili, lievi ed evocativi<br />

sono sempre stati i suoi segni.<br />

La “fidanzata azzurra” dice a se stessa: Du bist eine blume.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Regina. Sculture carte disegni.<br />

1925-1974”, Casa del Mantegna, Mantova, 10 marzo-8 aprile 1990.


Nodi e nuovi flussi<br />

Franco Girondi (1)<br />

Nel ’67, quand’era ancora agli esordi, anzi quasi soltanto alla discussione delle premesse<br />

che lo avrebbero portato alla pittura, Franco Girondi dovette intuire quale sarebbe<br />

stato il futuro orientamento della sua ricerca. A dirlo è una composizione polimaterica<br />

di quell’epoca in cui balza evidente il motivo, poi divenuto centrale, della<br />

ripartizione del piano in una pluralità di tessere armoniche. L’opera si componeva di<br />

due strati: un fondo dipinto e una griglia di lacci sovrapposti alla tela che, annodati<br />

e ritorti in varie direzioni, la suddividevano in riquadri irregolari, ma non tanto da essere<br />

sprovvisti di un preciso ritmo spaziale, come se un immaginario geometra, attento<br />

ai valori metrici delle superfici, avesse cercato di dar ordine ad un territorio<br />

ignoto (la pasta informale dei colori) tirando delle corde e fissandole in alcuni punti<br />

nevralgici. Ne derivava un effetto di notevole suggestione, perfino l’idea di avere di<br />

fronte un manufatto magico, una specie di mappa primitiva, per cui veniva spontaneo<br />

pensare alle carte nautiche rese celebri dagli antropologi: schemi plastici costruiti<br />

con asticelle di legno, spaghi e conchiglie, capaci di descrivere simbolicamente<br />

un ampio tratto di mare, con isole, correnti e punti di approdo: oggetti di conoscenza<br />

e di culto che l’opera rieccheggiava in maniera probabilmente inconscia, ma<br />

F. Girondi, Terra, 1967, corde e tempera su tela, cm 50x60.<br />

831<br />

che, grazie alla notevole parentela formale,<br />

aiutavano a capire dove andasse a parare la<br />

fantasia dell’artista.<br />

Che cosa voleva suggerire la composizione?<br />

Perchè poneva in rapporto un sopra e un<br />

sotto così diversi? La risposta non poteva<br />

che sottolineare una vocazione spaziale, la<br />

necessità di sigillare con misure proporzionali<br />

il campo pittorico, disinteressandosi<br />

delle immagini, per dar fiato invece alla cadenza<br />

delle forme.<br />

In seguito Girondi ha confermato quell’iniziale<br />

e felice intuizione. Ha continuato a ritmare<br />

il piano tramite sequenze calcolate di<br />

segni e di figure, scale di corrispondenze e<br />

di opposizioni. Ha approfondito singoli temi<br />

cromatici o lineari, nè ha dimenticato gli impasti<br />

materici, che ha tuttavia preferito sondare<br />

mediante la tecnica del collage.<br />

Una serie di lavori sperimentali presenta, ad<br />

esempio, preziosi effetti d’accordo nella modulazione<br />

di legni, cartoni, stoffe e frammenti<br />

di ricami. Un’altra analizza gli sviluppi<br />

di una forma elementare, che, piegata, franta<br />

e girata su se stessa, rivela alla fine un nucleo<br />

generatore, qualcosa di simile ad una<br />

distillata quintessenza della visione. E se, eccedendo<br />

nell’analisi, la pittura ha rischiato di<br />

trasformarsi in un campo di piaceri puramente<br />

ottici, un principio di fondo ha ancorato<br />

in ogni caso la ricerca al suo terreno<br />

d’origine, al rapporto dialettico dell’ordine<br />

con le tensioni eccentriche della superficie.<br />

In tal senso il segno svolge un compito decisivo.<br />

Serve a incidere l’informe, imprimendo<br />

percorsi e ritagliando zone di orientamento.<br />

Mette a nudo ferite e insieme delinea passaggi,<br />

sovrimpressioni, transiti. Taglia e cuce.<br />

Detto in altri termini, si comporta come lo<br />

spago che può essere tirato per adombrare


F. Girondi, Nodi, 1967, corde e tempera su tela, cm 70x50.<br />

un confine, ma anche girato a cappio e suturare una lacerazione.<br />

Non per niente si ricava da qui uno dei risultati più forti della pittura<br />

di Girondi, il senso dell’oscillazione, lo stare in bilico tra un<br />

pieno e un vuoto, tra il sospeso e il definito.<br />

Può capitare però che il bisogno di armonia cancelli le ferite e risolva<br />

la pittura in un orizzonte di contrappesi decorativo ed ornamentale.<br />

Il fondo allora perde signifìcato e sola si accampa, in<br />

genere, una figura geometrica centrale. Un caleidoscopio di pieghe<br />

e di increspature tonali. Tant’è vero che la tela svolge soltanto<br />

una funzione di appoggio, rimanendo neutrale come una<br />

cornice intorno al costrutto dei segni: un po’ come si vede negli<br />

apparati di fiori e negli ornati, per i quali lo sfondo non genera<br />

impulsi ed è piuttosto la trama dei rabeschi in aggetto ad attrarre<br />

l’attenzione. Ma si tratta di un esito estremo, che non incrina<br />

832<br />

il percorso più vero della ricerca, fatto di contrasti che si annodano<br />

in accordi.<br />

Quando la tensione è elevata, l’occhio lotta per assestare lo spazio.<br />

Ha l’assillo di un centro, cerca una partenza e un incominciamento.<br />

Ma che cosa scopre? Conosce in concreto la fatica dell’ordine<br />

e ricomincia a battere la superficie, da cui fa erompere<br />

un germe di forma e la porta alla luce.<br />

Tutto questo balza chiaro nelle tempere dell’ultimo anno in cui<br />

l’autore interroga di nuovo la funzione del segno. Come sempre<br />

dà credito alle simmetrie e agli equilibri ma lo fa con attitudine<br />

diversa, se non opposta rispetto al passato. Abbandonati i costrutti<br />

centripeti, il pennello lavora ora in espansione. E poichè il<br />

colore scorre rapido, in larghi flussi rettilinei che via via si scaricano<br />

toccando la periferia, par quasi che la mano trasmetta alla<br />

superficie l’empito del respiro. Prende così quota una metafora<br />

vitale, mentre il dipinto accoglie il gesto primario di chi, schiudendosi<br />

alla realtà circostante, ne misura l’ampiezza allargando<br />

le braccia. Non stupisce perciò che un tracciato pittorico torni su<br />

se stesso e riprenda ad attraversare lo spazio sondandolo in<br />

un’altra direzione.<br />

Croci, diagonali, forme ad incastro agitano il fondo. Nascono dei<br />

moduli e degli assi di orientamento, che altro non sono - a ben<br />

vedere - che degli schemi corporei di conoscenza. Girondi tuttavia<br />

non si accontenta di testimoniarli. Vuol anche depurarli, portarli<br />

all’essenziale, decantarli e convertirli alla leggerezza. Ecco<br />

perchè i colori vengono spogliati degli eccessi e dei turgori. Ed è,<br />

in questa riduzione, di nuovo attiva quell’ansia di purezza che nel<br />

ciclo dei collages si era espressa nell’adozione di una forma nucleare<br />

e, per tornare all’opera del ’67, aveva fatto stendere una<br />

rete aerea di fili sopra un mondo agitato dalla materia.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Franco Girondi”, Libreria Galleria<br />

“Einaudi”, Mantova, marzo 1990.


La pittura è una sirena<br />

Carlo Bondioli Bettinelli (1)<br />

Verso la metà degli anni sessanta Bondioli prese una decisione<br />

rivelatasi poi irreversibile. Staccata l’ultima tela del cavalletto,<br />

pose termine all’inchiesta sul dipingere per dedicarsi esclusivamente<br />

all’incisione e al disegno. In quel momento avveniva una<br />

svolta. I fantasmi poetici esigevano una castigatezza espressiva,<br />

un nitore e un “distacco dall’io” (sono parole dell’artista), che la<br />

tavolozza non poteva garantire a causa della malía invincibile<br />

dei pigmenti e per l’implicito appello alla fantasmagoria delle<br />

cose. Scomparve il colore o, per dir meglio, il diorama cromatico<br />

a vantaggio dei candori prosciugati, dei monocromi, delle pulviscolari<br />

evanescenze dell’acquatinta, tutti intesi ad accogliere il<br />

fluire delle immagini nei precipitati mentali delle carte. Fu una<br />

sottrazione percettiva (non però un annullamento), un rallentato<br />

levitare di brume e linee, sul cui respiro ora ci si interroga.<br />

Ora soltanto con nuovi elementi perché l’autore s’è adoperato<br />

spesso a sottacere (e forse a dimenticare lui stesso) le tele, a far<br />

credere di aver dipinto assai poco e in momenti laterali di ricerca.<br />

Invece i quadri, finalmente tratti dal silenzio, da una quarantena<br />

durata venticinque anni, ed esposti in questa mostra di inediti,<br />

fanno giustizia di tanta reticenza. Dimostrano che la pur limitata<br />

produzione pittorica ha avuto uno sviluppo compiuto, affiancando<br />

sì gli esercizi grafici, ma battendo anche accenti autonomi.<br />

Al di là inoltre dei fatti di stile, si tratta di testi importanti<br />

per una ragione ulteriore. Aiutano a capire meglio il segno, la<br />

complessità d’una fantasia che, mentre si presenta assetata di<br />

equilibri, insorge da un fondo d’istinti, oscuro e agitato da assilli<br />

esistenziali.<br />

Indicazioni in tal senso si trovano, come già si sapeva, nei disegni,<br />

ma è la pittura soprattutto a renderle esplicite. Si provi a<br />

considerare, una volta visti i quadri, il doppio binario su cui l’opera<br />

intera si è svolta. Senza lasciarsi irretire dal gioco delle somiglianze,<br />

ma badando alle differenze. Certo gli scambi sono avvenuti,<br />

così come c’è stata la tentazione di trasferire il grafismo<br />

nel corpo della pittura, ma nei momenti cruciali si impose uno<br />

spartiacque, qualcosa di simile a un bivio, con relativa separazione<br />

metodologica di campo. A seconda delle materie e dei<br />

modi, l’occhio cambia infatti rapporto con le figure, è più o meno<br />

833<br />

ricettivo verso l’esterno. Compie, in una parola, un salto di scala,<br />

dovendo assolvere (ed è questo il punto) un compito divaricato<br />

rispetto alla luce.<br />

Gli eventi luminosi cari alla immaginazione di Bondioli rimandano<br />

solo in parte all’ottica e alla fisiologia della visione. Oltre all’analitica<br />

percettiva, c’è una poetica spirituale sui gradi della<br />

luce, l’idea che essa si manifesti qualitativamente pura quando<br />

si rivela per sé, nel fuoco bianco di un’alta concentrazione mentale,<br />

apparendo altra cosa tra i corpi traslucidi e discendendo poi<br />

sugli oggetti opachi, dove si cromatizza. Familiare alla mistica<br />

medievale, la distinzione in lux, lumen e color, è rimbalzata fino<br />

a noi, nel cuore stesso della modernità, in particolare nella teoria<br />

di un “maestro” citato in più di un’occasione dall’artista, Johannes<br />

Itten. Che poi l’analisi scientifica della luce dia in molti<br />

casi luogo a una interpretaziome spirituale, lo si desume da un<br />

filone centrale della nostra letteratura, da uno scrittore che poco<br />

s’interessava di arti figurative, ma era attentissimo, come ha<br />

mostrato Ezio Raimondi, al problema del colore, per cui non è<br />

fuori luogo neppure fare il nome di Manzoni che, in una celebre<br />

quanto straordinaria similitudine delle Pentecoste, ribattendo<br />

l’analogia dell’udito con la vista, collocava la rivelazione sul piano<br />

del color, come energia discendente e pioggia dell’Uno dispiegata<br />

sul molteplice. In definitiva incarnazione. Che è quanto importa<br />

nel nostro caso. Lo sguardo può risalire oppure precipitare,<br />

cercare nell’alto o nel basso i suoi segni, essendo fin ovvio che<br />

la trasparenza delle forme, tanto più se acromatica, incentiva effetti<br />

mentali, mentre la vita del colore, colta nel tumulto degli<br />

organismi, sta dalla parte dei sensi.<br />

Bondioli fa capire d’aver radicalizzato questo principio di complicità<br />

della pittura con lo spettacolo del mondo quando afferma,<br />

commentando i suoi quadri, che il colore non “rispetta” la<br />

luce, non abbastanza quanto il disegno. Fascinosamente convulsivo,<br />

drammatico e mondano, il colore contiene la verità oscura<br />

della sirena. Una verità da ascoltare, ma anche da redimere. Cionondimeno<br />

entrambe le vie, pittura e grafia, latrici di peripezie<br />

così diverse, contengono un imperativo comune. Chiedono d’accostarsi<br />

con abbandono al loro così diverso fluire, di sospendere<br />

il piccolo io quotidiano per stare nel ritmo altrimenti imprendibile<br />

delle loro musiche, nella spontaneità d’un dettato così vero<br />

da diventare involontario, scaturito da una necessità superiore,


automatico al punto da rasentare la trance. Là nel fervore dell’impulsivo,<br />

qui nel rasserenato distacco della contemplazione.<br />

Ora al di sotto e ora al di sopra della coscienza comune.<br />

Impostata in questo modo, la questione pare non porre però alternative.<br />

Senonché l’artista ne ha fatto terreno di esperienza,<br />

non dando affatto per scontato che una via fosse più produttiva<br />

dell’altra. Volle intraprendere la traversata dei sensi, cercare figure<br />

nel “basso”, e vedere se la pittura, indagando nella bellezza<br />

dei fenomeni, impegnata a secernere le forme da una varietas<br />

infinitamente cangiante, non sapesse anch’essa dischiudere<br />

i segreti di un’armonia nascosta, dell’ “idea” sotterrata. Non rischiava<br />

il disegno, troppo disancorato dal concreto pulsare del<br />

corpo, di cadere a sua volta in certezze illusorie? Perché non co-<br />

C. Bondioli Bettinelli, Motoscafi alla darsena, 1964, tempera su tela, cm 60x80.<br />

834<br />

niugare le due lezioni?<br />

Vediamo quanto è accaduto. All’incirca fra il Quaranta e il Cinquanta<br />

cade la serie dei quadri ispirati a vedute urbane, moli,<br />

paesaggi irti di costruzioni meccaniche. Cerca il vero, la realtà,<br />

magari con parziali accostamenti alle poetiche impressioniste e<br />

al gusto, con cui occorreva pur confrontarsi, del neorealismo. In<br />

genere una siepe di forme e tralicci si addensa al centro e in<br />

primo piano, erige una barriera, blocca la fuga nelle lontananze.<br />

Nella Darsena, ad esempio (ma il neorealismo è ancora lontano),<br />

delle imbarcazioni ruotano intorno ad un nucleo mobile;<br />

una esce dal cerchio, va in secca fermandosi come un cuneo sul<br />

bordo della cornice. Le tinte smorzate, agglutinate come tasselli<br />

d’affresco rifiutano i contorni. Si capisce che l’occhio non può


C. Bondioli Bettinelli, Draga e barconi<br />

sull’anconetta, 1947<br />

tempera su compensato, cm 42x62.<br />

sostare, e muovendosi lentamente, emigra lungo varie traiettorie per cogliere corrispondenze<br />

e ramificazioni. Nel contempo la spazialità si decanta e il pennello, più che modellare oggetti<br />

corposi, stempera brevi zone, insiste sul pellicolare. Procede in un seguito di lumi - ombreggiature<br />

colorate - intervalli. In certi luoghi si fa perfino scrittura (segnale in anticipo di una futura<br />

predilezione), delineando tre A consecutive sui tetti delle case. Per un verso si dà credito allo<br />

spettacolo del mondo, per un altro lo si condensa in cifre riassuntive.<br />

Di decisivo, in ogni caso, c’è l’attitudine preliminare dello sguardo, la non-selettività, il farsi catturare<br />

dal com’è, dall’esistente. Nelle pitture seguenti questo atteggiamento di abbandono risulta<br />

ancora più impervio, laddove la programmatica casualità delle inquadrature, il caotico assembrarsi<br />

di oggetti e il prevalere dei colori “forti” (i rossi in particolare delle Piazze) denotano<br />

il proposito di scatenare gli urti cromatici in termini emotivi. Così il retinico induce riverberi psichici<br />

e passioni coloriche. A costo di lasciar “disarcionata” la forma, come fa osservare l’artista,<br />

l’impressione è in funzione di un oltrepassamento percettivo, implica l’espressionismo. Afrori vitalistici,<br />

sia pure contenuti, riattivano memorie di Nolde e Kokischka.<br />

Allorché vien premuto il pedale del combattimento cromatico (ed è il secondo ciclo), il tema<br />

del caso, dell’automatismo come rivelazione, subisce uno spostamento, passa dalle cose esterne<br />

al gesto. I soggetti vengono preparati con figure d’affezione (le stesse di tante carte: pochi,<br />

selezionati oggetti di casa e di studio) per ordire, nel topos della natura morta, una griglia su<br />

cui far pulsare il colore e anche, forse, per sperimentare un primo tracciato di simboli e correlativi<br />

oggettivi, Il preludio è costituito da una risentita compagine di motivi legati alla stanza,<br />

allo spazio concluso della meditazione (la Natura morta con libro), dove il fremito d’una pen-<br />

835


nellata che si sposta veloce e a scatti trasforma i corpi in veli, superfici<br />

d’aria; porta la riflessione sull’istante nella catena severa<br />

di oggetti essenziali. Pochi tocchi segnalano il moto dei nervi e<br />

dei sensi. Tematica questa che, riportata all’esterno, verrà continuata<br />

più avanti nella pittura dei riflessi, del doppio, nel replicare<br />

le vedute negli specchi d’acqua e, minimalmente, nell’inseguire<br />

leitmotiv entro figure di cui si cercano gli echi. Intanto si<br />

vuole suscitare il fuoco dei colori da un pozzo lontano di luce.<br />

Nelle nature morte di quest’epoca la superficie è preparata apposta<br />

per lo scontro. Né chiari neutrali né grigi, ma blu notturni<br />

e attraenti sono, per dir così, il palcoscenico su cui recitano gialli,<br />

indachi, cinabri e smeraldi. Dal più lontano nasce il più vicino<br />

ed è un fuoco d’artificio visionario.<br />

Talora il dettato si intride di neri, le forme contornate, disposte<br />

come in sogno, trasalgono ricordando tagli barocchi e pensieri<br />

dei pittori d’anima. Preparano quel che, nel proseguire del<br />

tempo, sarà una personale rilettura di Zurbaran e Gericault, di-<br />

C. Bondioli Bettinelli, Natura morta con fruttiera, 1961, tempera su tela, cm 80x60.<br />

836<br />

screta come sempre, reticente e mediata da immagini che li<br />

mantengono nell’ombra.<br />

Tra Cinquanta e Sessanta la tensione si allenta e le nuove vedute<br />

lasciano trasparire un principio d’accordo fra l’idea e la natura,<br />

Da tumultuoso qual era, l’esterno diventa sereno. Il dibattito<br />

delle scaglie luminose, i riflessi e il ripartimento degli spazi insegue<br />

equilibri d’orizzontali e verticali. La mente riconosce ordini<br />

nascosti, educa la natura a rivelarsi a se stessa, come se nel<br />

campo dell’incarnazione avvenisse un processo smaterializzante.<br />

La conclusione tuttavia non è questa. Nell’ultimo ciclo, il più<br />

drammatico, l’ansia torna a turbare lo sguardo. Simili a relitti, addossati<br />

ad un angolo cieco, attraversato da bagliori, si accampano<br />

i resti d’una natura morta che è emblema del corpo. Lampi<br />

metallici, cristallini, di pietra dura, mozzano la carne. Frutti come<br />

parabole della vanitas.<br />

L’addio alla pittura, crediamo, viene da qui. Nel suo momento<br />

più alto, mentre ricapitola un percorso, enuncia una impossibilità<br />

dovuta al suo medesimo statuto... Se nella materia, indomabile<br />

urto di passioni, non è che precipizio, il canto della sirena<br />

andrà disacerbato e redento. Il corpo domanda un respiro luminoso,<br />

la natura una scrittura di luce.<br />

Corrono - ha scritto una volta il pittore - lucenti fra i sassi<br />

le acque dei rivi fra i muschi<br />

e le abetaie. Corrono incontro al tempo<br />

che va con loro per sempre<br />

e si perde in eco senza fine.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Carlo Bondioli Bettinelli”, Libreria<br />

Galleria “Einaudi”, Mantova, ottobre-novembre 1990.


L’angelo, la modella<br />

Concetto Pozzati (1)<br />

Il bianco-latte, il bianco-colla, afferra da ogni parte le figure. Un<br />

mondo rappreso e semiemerso, forse dilavato e insieme cagliato,<br />

forma un mare che di tanto in tanto lascia galleggiare “isole”<br />

e arcipelaghi. Questo dilagare del bianco mi sembra la prima dominante,<br />

materiale, percettiva e fattuale, oltrechè fantastica, del<br />

“Dopo il tutto”, una evidenza per altro ribadita nelle glosse, nelle<br />

parole scritte e dette di Pozzati. Ed è poi notevole che una simile,<br />

raffermata liquidità contenga dei fili e dei punti, delle graffe e<br />

dei nodi, di modo che, uncinata e ‘cucita’, si slarga dentro la rete<br />

di decine e decine di caselle, seguendo una griglia e una cucitura<br />

più grande che appare esatta e nel medesimo tempo eccedente:<br />

conta trecentouno riquadri, quasi a segnalare che il racconto,<br />

questa sequenza di sguardi del “Dopo”, invece di sostare<br />

su un limite aureo, oltrepassa la soglia e tende a proseguire inarrestabile,<br />

come era inarrestabile, per esempio, la passione del<br />

racconto nelle notti asiatiche di Shahrazad. D’altra parte l’immagine<br />

pencola e smargina già prima dell’ultimo confine, va avanti<br />

per onde e frangenti, flussi e riflussi, esigui o energici debordamenti<br />

in ciascun foglio, nelle scaglie e avvallamenti d’ogni casella,<br />

ancor prima e tutt’attorno alle condensazioni più vaste di quadri.<br />

Sicchè quell’uno in più, squadernato a titolo di prologo, prende<br />

subito parte al racconto. Segna anche la ripresa di un giro di<br />

boa.<br />

La polidirezionalità poi, mentre elude il principio di linearizzazione,<br />

impone un presente ininterrotto, dove puoi navigare, non<br />

importa quanto ciecamente, in tutti i sensi.<br />

Pozzati poggia i piedi sul territorio di segni che dovrebbero essere<br />

intercambiabili, evocando il diluvio come incipit, la confusione<br />

metropolitana e postbabelica, il collasso del compimento,<br />

la fine della storia.<br />

Ma di quale storia si tratta? Certamente il morente di cui si fa<br />

questione, o per meglio dire, il già-morto, lo sbiancato, è il<br />

tempo teleologico garantito sul futuro. Eppure ho l’impressione<br />

che oltre quella storia ne cominci una nuova, un fascio di storie<br />

svuotate delle presunzioni che una volta l’accompagnavano e<br />

ora vien costruendosi sui materiali d’intrattenimento, grazie ad<br />

un dialogo capace di connettere le figure affioranti. Fine della<br />

837<br />

storia. Certo. Ma se il “mondo vero” si è ribaltato in “favola”,<br />

ecco la storia farsi mondo di segni ripassati, una riscrittura efficace<br />

di favole.<br />

Dove sta però l’efficacia nel giro universale dell’indifferenza? Sia<br />

pure mostrandone l’aspetto precario, Pozzati punta sulle forze<br />

magnetizzanti e rigeneratrici del commento, insinua attrazioni<br />

fra figura e figurante, vale a dire l’andirivieni di molte correnti,<br />

una sorta di scambio simpatico, a zigzag, tra la scrittura (il disegno)<br />

e il soggetto. Con sue proprie modalità torna quel reciproco<br />

spossessamento tante volte mitologizzato nella storia dell’arte<br />

mediante i temi della natura morta e della modella, della<br />

donna e del pittore. Chi potrà dire allora che sia un caso, solo un<br />

caso dovuto all’apatia, se l’immagine finale della mostra (del<br />

libro) esibisce una scena di seduzione? E se questa scena, aperta<br />

sull’intimità del lavoro, mischia erotismo e grafia nella pronuncia<br />

picassiana del pittore e della modella?<br />

Naturalmente qui non si lascia sorprendere un flagrante soggetto<br />

anagrafico, ma quell’io narrante che opera nell’occhio e nella<br />

mano: l’io che disegna, contemporaneamente finto e vero, distante<br />

e vicino. Quando quest’io traccia la gran mappa del paesaggio<br />

diluviale, quando mette a punto la griglia, procede per indistinzione,<br />

rende tutto uguale, confonde e omogeneizza. Poi,<br />

però, subisce dei contraccolpi e recupera il diritto all’errore, ispessendo<br />

certi percorsi al posto di altri, calcandoli in modo più forte,<br />

sovrapponendoli. Può darsi che siano avventure minime, ma intanto<br />

queste avventure ci sono e sprigionano una loro lattea generatività,<br />

ponendosi per di più sotto la protezione di alcuni dèmoni<br />

tutelari.<br />

Stando al montaggio definitivo, alla mappa esposta e fotografata,<br />

almeno una decina di incontri prevaricano gli altri, quelli che,<br />

per ripetere di nuovo la didascalia, costituiscono le invarianti, le<br />

isole, i luoghi maggiormente frequentati e assillanti dello sguardo,<br />

senza contare i marchi figurali e totem lunatici issati sopra<br />

l’intera compagine.<br />

Se dunque il pittore provvede a colmare l’esilio, se in qualche<br />

modo nella pratica del segno viene istallandosi un soggetto educato<br />

nel disincanto, ironico, ma pur sempre laborioso e febbrile,<br />

l’addossamento obbedisce alla fugacità dell’oscillazione. Restituire<br />

qualcosa non significa conservarne la pienezza. Anche la figura<br />

rappresenta a sua volta un elemento incompiuto e inter-


mittente, tant’è vero che la rilettura ha ben poco da spartire col<br />

d’après, come documenta una vecchia polemica nei confronti<br />

della ripetizione, trasgressiva o meno; contro la ripresa delle immagini<br />

in termini di prospettivismo o d’avanguardia nuovissima.<br />

C’è invece attaccamento trasversale alle figure che vengono da<br />

lontano, al simultaneo affacciarsi di tanti ètimi spezzati e fantasmi<br />

che abitano, si direbbe fraternamente, i luoghi di rovina. E<br />

ad un certo punto, affacciandosi dalla lontananza, certe affinità<br />

si confermano. Acquistano perfino una densità tattile, più palpabile.<br />

I resti cominciano a parlare e, se diamo credito alle note<br />

stringate, apparentemente impassibili, o perlomeno dettate da<br />

un’impassibilità tutta da discutere, che leggiamo nel libro, il loro<br />

mormorio chiede d’essere ascoltato. E ciò che più conta, per me,<br />

è che questo ascolto è imparentato con delle materie collose,<br />

con paste ed assorbenze, dalle quali si lascia nominare.<br />

Fatto sta che fra tante amicizie, o diciamo amori?, alimentati<br />

dalla distanza, ce ne sono alcuni, guarda caso rilevantissimi, che<br />

non si sottraggono facilmente ai territori magici cui appartengono.<br />

Fosse anche per pura suggestione, continuiamo ad avvertirne<br />

l’individuale brusio. Quelle voci mormorano, lanciano segnali<br />

attraverso oggetti, mostrano, congiunzioni impossibili ed anche<br />

corpi feriti. Le tracce di quel che Licini chiamava irrealtà: e non<br />

tanto o soltanto le Amalassunte, quanto certe tessere del mo-<br />

C. Pozzati, Dopo il tutto, 1980, cm 1088x312 Galleria De Foscherari, Bologna, 1980.<br />

838<br />

saico amalassuntiano, le dita, le falci, gli occhi, le code di cometa;<br />

oppure le parrucche di Hogarth, l’assassinata-suicidata di<br />

Grosz, i pezzi dei bestiari e delle tavole anatomiche di Dürer.<br />

Pozzati, penso, non dimentica ma neppure continua. Sosta, attraversa,<br />

preleva, rilegge e soprattutto commenta, sempre col<br />

suo segno, il suo passo particolare; un passo che non è andare<br />

uniforme, come potrebbe parere, ma avventuroso e accidentato.<br />

È vero che la mano disseziona e ritaglia. Ma ritaglia dove? Nella<br />

storia o nelle stanze dei “solitari”? Perché mai dovrebbe accanirsi<br />

su di loro? È quella il volto che pietrifica, la medusa, il bersaglio<br />

da scardinare: la biblioteca dell’arte, la macchina legale che ha<br />

derubato la singolarità di tanti libri particolari, convertendo le illuminazioni<br />

in cattivo silenzio. Ed ad ogni buon conto, qui, non<br />

viene sigillata la segretezza dei volumi, ma il marchio dell’intitolazione,<br />

la ‘costa’, il numero dell’incasellamento.<br />

L’interpellanza muove dall’esterno, dal poi, dalle pareti del deposito,<br />

dalla datità del catalogo e dal cumulo dei segni. Si muove<br />

nel disegno.<br />

Se il segno era originariamente il limite e il termine di una cosa,<br />

potrei anche avvalermi dell’etimologia per dire che la mano non<br />

vuole raffigurare e rappresentare; evita l’inganno del tutto piano<br />

e del programma, per tornare ad essere invece un partire-da, un<br />

venire dal segno: de-signum come narrazione e romanzo. Viene


dal segno ed intanto ri-segna, ricalca e cancella, producendo<br />

delle costellazioni riconoscibili. Fluide, ma riconoscibili. Va e<br />

viene, rompe e attacca, toglie e restituisce.<br />

Tutto è materia di mescolamento? Lo è forse, ma in uno stile<br />

specifico, cioè nei modi intensivi del chiasmo e dell’ibrido, parallelamente<br />

allo stesso incrociarsi delle procedure, all’alternarsi<br />

del morbido al tagliente, dell’acuto allo sfumato, del nero carbone<br />

al bianco.<br />

Mentre lo scuro calca, incide, marca, il chiaro confonde e talvolta<br />

abbacina. Il bianco è appena steso, e nondimeno pare lì da<br />

molto più tempo, come se fermentasse nelle cere e vernici semitrasparenti.<br />

Un’ambivalenza che riguarda anche il supporto, le<br />

carte, dove ciò che è lucido coabita con lo spugnoso, l’iconografia<br />

antica con quella recente, senza poter decidere quale delle<br />

due prevalga.<br />

La gestione del semi-emerso potrebbe nascondere degli elementi<br />

profondi, delle energie produttive. Pozzati ci sfida a trovarle<br />

attraverso l’esercizio del depistamento e del distacco. Questo<br />

abilissimo camuffatore, questo maestro delle trappole, innamorato<br />

dei miraggi suscitati dal trucco, tesse tele su tele, moltiplica<br />

i commenti sul confine dei testi.<br />

Muoversi sul rilancio: ecco una mossa centrale. Se dovessi seguire<br />

a ritroso gli spostamenti compiuti dall’autore nel corso<br />

degli anni, tenterei di indicare almeno un fantasma, una ‘voce’,<br />

il segno di una traccia. Non un’origine ma un elemento che la<br />

evocava attraverso lo scarto disegnativo, una matassa informe,<br />

l’ ‘ameba’. Ed era lo scrivere intorno alla vita ed alle mitologie<br />

organiche di fondamento.<br />

Che cosa provoca l’incontro del pittore con l’arcipelago dei resti,<br />

con le icone galleggianti, se non un brillamento senza fine, quel<br />

violentamento del fantasma della pittura che già ho richiamato<br />

a proposito della modella?<br />

Attorno al testo non finito, sforbiciato, alla fine sempre sfuggente<br />

e vuoto, si aggira il disegno, convocando la forza agglutinante<br />

del bianco, le girandole dei visionari, la confusione del diluvio.<br />

Ora, dirimpetto alla folla delle immagine dipinte compare un<br />

personaggio cruciale, garbatamente simbolico che, almeno in<br />

parte, costituisce la chiave del discorso pozzatiano. Osserviamo<br />

come si incarichi di inscenare il leitmotiv, cioè il fronteggiamento,<br />

lo stare faccia-a-faccia, il confronto sul limite.<br />

839<br />

Una posizione tutt’altro che refrattaria, così come reattiva e concentrata<br />

la sua forma.<br />

Quale forma? Non esitiamo a riconoscerla. È l’effige del puer,<br />

della bambola, di un angelo che è stato appeso, reincarnazione<br />

(re-iscrizione) di quel soggetto mutilato in cui l’io si ravvisa. E<br />

poiché una duplice corrente di metafore lo attraversa, ha anch’esso<br />

una natura complicata. Non sfugge alla fatalità del disastro<br />

e di lui vien detto che, al pari della pittura che fronteggia,<br />

appartiene al mondo degli scampati. È un ‘ostaggio’ e tuttavia<br />

custodisce e sorveglia; non vede e tuttavia fissa con le orbite<br />

vuote. È appeso, straziato, ma intanto sopravvive in sospensione.<br />

Un relitto salvato nell’aereo forse un amorino accecato.<br />

Poi, a guardar bene, non è solo. Dal racconto pittorico gli vengono<br />

incontro altre presenze familiari, altri fanciulli, altre poupeés,<br />

ossia le figure portanti di uno struggente ‘sogno’ moderno. In un<br />

riquadro assume l’innocenza del giocattolo, del burattino manovrato<br />

con le corde, standosene afflosciato come se fosse svanita<br />

la sapienza che ne manovra i fili. È la marionetta, il doppio immaginario.<br />

Perlopiù lo accompagna il segno di Dürer e Dürer, sia<br />

pure in frammento comporta delle memorie contemplative, degli<br />

stati saturnini di nigredo e macinazione. La ‘mania’ del rebus.<br />

Dovremmo dire allora che il fanciullo, metafora consueta del<br />

ludus e del caso, questo essere sopravvissuto, ha rinunciato al<br />

potere del gioco? Ma il gioco non è cieco?<br />

Non gli si può negare comunque una sua modalità di conoscenza<br />

giacchè persiste a fissare col sapere – dice Pozzati – che gli è<br />

rimasto, con lo sguardo dal dentro. Ruota davanti alla parete, può<br />

aggirarsi lungo il catalogo delle cose, occupando vari poli e<br />

tempi di stazionamento. Tempi di piacere residuo.<br />

Se grazie a questo segno forte, se in virtù del puer è lecito abbozzare<br />

una conclusione, direi che lo sguardo postumo sta percorrendo<br />

un deserto, un universo aggredito dall’uguale, tuttavia<br />

anche un mare solcato da elementi d’affezione, da scintille di rinascita:<br />

vie precarie ed instabili, ma non di meno indicative di<br />

molteplici provocazioni al viaggio. Se il centro è esploso, rimangono<br />

le ragioni intermittenti delle amicizie. Le affinità, beninteso,<br />

del commento.<br />

(1) Note scritte sul finire del 1990. Si presume sia un testo inedito.


1991<br />

Da Paola Violati<br />

ad Augusto Morari<br />

Il senso del frammento in Paola Violati<br />

Paola Violati<br />

Mitologie<br />

Teresa Noto<br />

“Giardini d’inverno”<br />

Renzo Schirolli<br />

Acquetinte<br />

Carlo Bondioli Bettinelli<br />

Assedio d’amore<br />

Augusto Morari


Il senso del frammento in Paola Violati<br />

Paola Violati (1)<br />

Davvero raro il riconoscimento attribuito alla scultrice Paola Violati,<br />

la cui opera, ospitata presso il Palazzo Ducale, gode di una<br />

collocazione inedita per un artista contemporaneo, nientemeno<br />

che lo Studiolo di Isabella d’Este, un concentrato di itinerari neoplatonici,<br />

ma anche testimonianza, tra le più alte dell’intero Rinascimento,<br />

di come un’intelligenza umanistica sapesse articolare<br />

la propria idea di collezionismo nella partizione di un ambiente<br />

privato. Com’è noto, il celebre interno conteneva reperti<br />

naturali, oggetti d’arte e frammenti di antichità dei quali ben<br />

poco rimane nella sala della Scalcheria, dove, sotto gli affreschi<br />

di Leombruno, ora si sviluppa il tracciato saliente della mostra.<br />

Collocate in un simile scrigno, le plastiche della Violati, più che<br />

invadere lo spazio, ne raccolgono i segnali e contribuiscono a<br />

riaccendere uno dei sensi rimasti in ombra dopo tante spogliazioni,<br />

la funzione espositiva per la quale lo Studiolo era stato appunto<br />

pensato. Si potrà forse discutere sull’esperimento museale,<br />

non condividerne l’intenzione, ma l’equilibrio seguito nel<br />

porre a confronto antico e moderno non ferisce lo spirito del<br />

luogo e, se qualcosa temporaneamente dissacra, è semmai un<br />

fantasma, l’abitudine alla luttuosa sopravvivenza del vuoto negli<br />

spazi dell’anima.<br />

P. Violati, Frammento n. 2, 1975, bronzo, cm 32 h.<br />

842<br />

A favore delle opere gioca la propensione al silenzio, il loro disporsi<br />

- come annota il Soprintendente nella premessa al catalogo<br />

- ai bordi degli ambienti, il segnare con reticenza limiti e<br />

margini. Al di là infatti dei “valori culturali ispirati al mondo femminile”,<br />

della sintonia per così dire tematica, c’è il senso della<br />

misura, lo stile del riserbo. Nati come figure allusive, bronzi e<br />

pietre scolpite prediligono le forme incompiute, le suggestioni<br />

del non finito. Sono corpi spesso mutilati, svuotati e parziali, immagini<br />

che affiorano e stanno in attesa di sguardi che sappiano<br />

riconoscerle. Per lo più configurano costrutti sospesi. Toccate a<br />

metà dalla luce, da una luce ora levigata ora incerta, condotta intorno<br />

a un’ombra centrale, le superfici girano e s’ avvolgono, promanano<br />

dal buio che le genera e lì tornano a riposare.<br />

Quasi mai la frattura, il carattere del relitto si esaurisce, però, nella<br />

sottolineatura della ferita. Se si avverte la consapevolezza cruda<br />

della perdita, nel medesimo tempo il segno cerca la morbidità<br />

dell’evocazione. Là dove la figura risulta incompiuta, proprio l’assenza<br />

viene a testimoniare l’intensità dell’immagine, come nelle<br />

teste femminili cui basta l’accenno delle capigliature agitate dal<br />

vento per restituire, con tratti che fanno pensare a un informale<br />

rasserenato, l’emozione del moto. Un giro evocativo, questo, entro<br />

cui si esalta soprattutto la pietra tufacea, intrisa di eleganze materiche,<br />

di pittoricismi, e di sentori spesso arcaizzanti.<br />

Il risanamento progressivo della materia cieca e violenta accompagna<br />

il cammino della scultrice. Per questo, ci sembra, ha rilevanza<br />

la riflessione sul corpo, lo scavo dentro le buie intimità degli<br />

involucri e dei tronchi (Frammento n.9), lentamente restituiti alla<br />

luce e al movimento. pur restando frammenti, le immagini, specie<br />

i “volti” fatti emergere da travertini e calcari, alludono alla vita<br />

e al legame con la natura. E cercano la forma, un sigillo classico.<br />

Nella Testa riversa o nella Donna che nuota si colgono sentori di<br />

mondi che con la terra intrattengono affinità e linfe nascoste. Osservandoli,<br />

si pensa alle rovine umbre, alle pietre scolpite e semisommerse<br />

nella vegetazione dell’alto Lazio, a boschi sacri non più<br />

atterriti dai mostri come a Bomarzo.<br />

Se il ‘frammento’ è un destino, che esso almeno sia prosciugato<br />

e libero dalle angosce della distruzione: tale, in definitiva, il<br />

senso delle opere ultime.<br />

(1) Articolo comparso sulla Gazzetta di Mantova del 12 maggio 1991.


Mitologie<br />

Teresa Noto (1)<br />

Affacciatasi alla pittura quasi d’improvviso alcuni anni orsono, Teresa<br />

Noto ha all’attivo un repertorio di immagini di forte spessore<br />

emozionale, che si sarebbe tentati di considerare inattuali, se a raccomandarle<br />

non fosse proprio il loro attivo proporsi come figure<br />

senza tempo capaci di evocare il fondo antico su cui poggia il presente.<br />

Le tele sono dense come precipitati onirici e, al pari dei sogni,<br />

non ammettono distanze, anzi conglutinano gli spazi a tal punto da<br />

rendere palpabili e psichicamente grondanti anche i segni più aerei.<br />

Quando i primi quadri portarono allo scoperto i temi che senza pretese<br />

di compiutezza l’artista aveva fino ad allora raccolto nei quaderni<br />

d’appunti, non era certo agevole intuire dove puntasse la sua<br />

indagine, se cercasse di visualizzare delle fantasticherie personali,<br />

oppure ri-dipingesse celebri scene dei visionari (si poteva pensare<br />

843<br />

a Blake e alla ‘vulgata’ che ne era discesa), o non si servisse piuttosto<br />

di questi elementi per ritessere a modo suo una vicenda dell’Immaginario<br />

collettivo. Probabilmente le tre motivazioni si legano<br />

insieme e c’è da presumere che l’ultima sia venuta chiarendosi<br />

man mano che, accanto a intime ragioni di scavo, affiorarono il<br />

piacere del racconto, gli stimoli di letture lontane e recenti (Freud,<br />

ad esempio), e soprattutto i riverberi dell’arte tardosimbolista, fra i<br />

quali non escluderemmo la familiarità con l’opera di Enzo Nenci col<br />

suo ampio spettro di suggerimenti allegorici: fonte che verrebbe<br />

confermata da alcuni oli, tra cui Allegoria del 1988, che si prestano<br />

ad essere letti come omaggi, sia pure trasversali, ai costrutti plastici<br />

dello scultore, quale Nube vitale e forse tutta la serie delle Stalagmiti-stalattiti,<br />

composte nel secondo dopoguerra.<br />

In ogni caso, quel che colpiva nei dipinti dell’esordio era la forza d’urto,<br />

l’eccitata irruenza del comporre. Vi si vedevano corpi e spazi in<br />

tumulto, bagliori sotterranei, presenze torturate da una angosciata<br />

T. Noto, Convegno, 1989, tecnica mista su tela, cm 200x150. T. Noto, Nudo di donna, 1989, olio su tela, cm 100x80.


ansia di altezze, che il turbine della carne pareva perdere in labirinti<br />

e tunnel senza fine. Venivano alla mente drammi adamitici di paradisi<br />

perduti, peripezie di risalita, tregue apparenti e rinnovate cadute.<br />

Tale era l’affocato trattamento delle materie da far capire che<br />

la pittura intendeva districare dei nodi puntando sulla forza chiarificatrice<br />

delle immagini e inscenando, tramite metafore, una storia<br />

interiore. Richiamava insomma l’idea che il linguaggio, tanto più<br />

quello artistico, esercita un insostituibile compito catartico nell’accogliere<br />

(e costringere) dentro l’ordine della rappresentazione quel<br />

che resterebbe altrimenti insondato e oscuramente inquietante.<br />

Che fosse in causa un ‘cammino di conoscenza’ per mezzo di segni<br />

elevati ed efficaci, lo si deduceva tra l’altro dalle decisioni preliminari<br />

sottese al dipingere. Con qualche punta d’enfasi, ma non certo<br />

d’insincerità, la pittrice si affidava infatti a formule elevate di eloquio,<br />

che andavano dal timbro ‘sublime’ del colore ai modi grandi<br />

delle figure, dall’uso esclusivo dell’olio, più avanti impreziosito con<br />

argenti e paste dorate, all’impiego di iconografie neoromantiche,<br />

che potevano assicurare la tenuta di tensione.<br />

Mentre nella prima fase, durata all’incirca fino all’88, l’inchiesta ha<br />

riguardato prevalentemente il dramma simbolico della passione<br />

amorosa, in un variegato mescolamento di favole classiche e cristiane<br />

(dagli angeli precipitati a Narciso, ad Amore e Psiche), successivamente<br />

l’attenzione si sposta verso un’icona dominante, la figura<br />

femminile, raffigurata in attitudini pensose, ora in ombra, ora<br />

intrisa di bagliori. A livello stilistico si dà anche una evoluzione, poiché<br />

la stesura pittorica passa dalle atmosfere sotterranee al trattamento<br />

pulviscolare del colore, posato a scaglie, fatto vorticare in<br />

una miriade di scintille, secondo modalità ricavate dalla pittura<br />

fine-secolo, in parte dai divisionisti e in parte da Munch e Klimt: riferimenti,<br />

questi, senz’altro, eterocliti, ma utili a dire come la Noto<br />

si proponga di uscire dal clima tenebroso (il Munch interpellato era<br />

quello de Il sole) per attingere una maggiore trasparenza e una dinamica<br />

più aperta nei passaggi di tono.<br />

Già il candido nudo di Canto orfico, umoroso nelle paste e irrorato<br />

di riflessi, prelude al disfarsi dei volumi in lievitate morbidezze.<br />

Introduce un principio di metamorfosi dal pesante all’aereo.<br />

Parallelamente prende quota il tema proteiforme e fecondativo<br />

della ‘nuvola’, una metafora carica di presagi, come si<br />

vede chiaramente nella tela intitolata Annunciazione, dove un<br />

fanciullo alato, che in un quadro del medesimo anno rappresen-<br />

844<br />

ta il sonno e può perciò significare la tregua o l’attesa, apre le<br />

cortine di un grande sipario oltre il quale s’intravede un annuvolato<br />

fermento celeste che, se resta per il momento informe e indeciso,<br />

si rivela poi un corpo venusiano in formazione.<br />

Finito il vecchio racconto, il nuovo capitolo, assai meno contrastato<br />

dalle opposizioni, modula liricamente la discesa della luce fra le<br />

cose: è sì, ancora una volta, la vicenda del corpo e più in generale<br />

della materia, ma risolta in un frangersi purificato di luminosità e<br />

ombre fin quasi a disincarnarsi in eventi atmosferici (Colonna chiaroscurale,<br />

1990), di modo che il tragitto pare invertirsi. Va a pezzi<br />

il travagliato carcere delle forme e al suo posto affiora una effigie<br />

traslucida, talora suggerita da linee di contorno che si ripetono a<br />

eco, da fili di colore (Incantesimo, 1989), e in altri casi velata, circonfusa<br />

di aloni ed emergente dalla penombra.<br />

Ci si sbaglierebbe, però a interpretare in senso astratto il momento<br />

immaginativo. La pittrice resta abbarbicata ai sensi e ne cerca la sottilizzazione<br />

piuttosto che l’annientamento. Se volessimo dar credito<br />

ai rinvii mitologizzanti con i quali accompagna le immagini (Cadmo<br />

e Armonia, Il filo di Arianna, Rinascita di Venere, dall’89 al ’90), potremmo<br />

dire che la riflessione sugli archetipi – poiché di ciò in definitiva<br />

si tratta – mette a nudo una ricerca del sé tramite una sequenza<br />

di motivi sempre più nucleari e isolati. Di qui anche le oscillazioni<br />

stilistiche, i passaggi perfino disomogenei di tono che fanno<br />

apparire distanti le opere composte nello stesso periodo, certamente<br />

diverse eppure necessarie e conseguenti sul piano narrativo.<br />

Il fatto è che i simboli sono – si sa – doppi, soggetti all’ambivalenza<br />

e continuano a rovesciarsi. Accanto al moto discendente della<br />

luce (ma è una luce, si badi, riflessa, velata e raccolta dalle ‘nuvole’),<br />

compare il contromovimento dal basso, l’insopprimibile istanza<br />

fisica del corpo: un corpo-pietra, una statua o un ritaglio di cielo<br />

raccolto entro limiti taglienti, se non anche bloccato fra rive gelate.<br />

In curiosa ma non inattesa sintonia con quanto è stato osservato<br />

per i surrealisti intorno all’immagine femminile, l’ “anadiomene”<br />

sorta dalle nubi esibisce un volto tellurico: è la Natura, paesaggio,<br />

pianta, una “donna immensa coricata nella foresta, i cui alberi<br />

sembrano al confronto piccolissimi”.<br />

Tutto è monumentale. Contro i cieli si stagliano architetture titaniche,<br />

torri e torsi femminili, che l’autrice con felice scelta verbale<br />

chiama “rappresentazioni”, volendo indicare i personaggi sprigionati<br />

dal sogno finalmente “ad occhi aperti” e assunti sulla tela


T. Noto, Gea, 1990, tecnica mista su tela,<br />

cm 150x140.<br />

come maschere del profondo e forse non del tutto indomabili: da<br />

giocare come ‘figure’.<br />

Se da un lato la carne è svaporata in riflessi, dall’altro ispira giganteschi<br />

conglomerati totemici che minuscole figurine maschili tentano<br />

di conquistare inerpicandosi sui dorsi enigmatici. Così nel bifrontismo<br />

del fantasma si alternano gli aspetti complementari di<br />

una forza interrata: si impregna di luce ma non abbandona le radici,<br />

è grembo, Magna Mater e insieme guida spirituale, terribile e<br />

dolce, scura e lunare. Il ‘colosso’ sembra assumere talora i caratteri<br />

di una entità ammonitrice come le statue di certi giardini manieristici,<br />

dentro la cintura di onde disseccate e minerali. Si direbbe<br />

allora che il suo corpo di collina, offrendosi alla vista oltre gli steccati<br />

della città moderna rilucente di piombo, richiami e avverta a<br />

non confondere la follia babelica dell’artificiale con le costruzioni di<br />

vita legate alla Terra.<br />

845<br />

La Noto sta dunque approdando a una comparazione di miti autentici<br />

e tecnicizzati, ‘naturali’ e falsificanti. Si è resa conto – pensiamo<br />

– che l’eternamente vivo, raffigurato con impeto nelle prime tele,<br />

non può sfuggire al rapporto con l’oggi; e sospesa tra due versanti<br />

cerca di coniugare polarità al tempo stesso tematiche e formali.<br />

Dalla sua parte sta l’incanto di una “favola vera”, l’immagine sovrana<br />

del corpo femminile e della sua identità con gli elementi del<br />

mondo:<br />

Sur la nature nude – scriveva Eluard – où je tiens une place Plus<br />

grande que les songes Où je suis seule et nue où je suis l’absolu.<br />

L’etre définitif.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Teresa Noto”, Palazzo Ducale, Mantova,<br />

1-15 settembre 1991.


“Giardini d’inverno”<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Artista sensitivo, ma di una sensibilità portata a rarefarsi in sfumature<br />

quasi impalpabili, Schirolli è per istinto votato alla leggerezza.<br />

Anche nei più intensi confronti con le tematiche informali,<br />

di cui affiorano oggi taluni risentimenti, sa mantenere una<br />

eleganza di tessiture cromatiche e una levità di toni che lo rendono<br />

inconfondibile. Come per incanto i magmi gestuali s’intridono<br />

di trasparenze; al suo tocco gli impasti materici lievitano e<br />

sprigionano luci. Nell’atto stesso di delineare un fantasma più<br />

corposo e violento, la mano ne attutisce l’irruenza consegnandolo<br />

già redento in una serena zona di contemplazione.<br />

Tuttavia a confronto di opere composte a metà dell’Ottanta, così<br />

cariche di assoluto, gremite di motivi verticali, candide se non<br />

addirittura abbacinanti nella politezza indicibile delle superfici, le<br />

immagini attuali appaiono più incerte e minate, sul punto di lacerarsi.<br />

Fra bagliori e lampi le atmosfere s’intrepidiscono, diventano<br />

transitorie e fumigano, mentre i cieli s’abbassano insolitamente<br />

turbati.<br />

Quali che siano le ragioni emotive di questa precarietà, è co-<br />

R. Schirolli, Ricordi n. 2, 1991, olio su tela, cm 120x120.<br />

846<br />

munque certo che il pittore torna a interrogarsi sulle proprie origini,<br />

su quel nodo conflittuale di materia e forma al quale lo avevano<br />

iniziato le esperienze di Burri e Bendini. Di diverso c’è naturalmente<br />

il punto di vista, rovesciato rispetto ad allora, giacchè<br />

un tempo si trattava di cavare presagi di armonia da un crogiuolo<br />

di matasse in stato di ebollizione, mentre ora è proprio la<br />

forma, fin troppo perfetta e smaterializzata, a patire dei cortocircuiti.<br />

Dopo tante peripezie dettate dall’assillo del labirinto e<br />

dello specchio, il sentimento della natura affluisce dagli angoli e<br />

dalle soglie delle architetture immaginarie.<br />

Delle forze si incuneano fra le quinte e fanno saltare le cerniere.<br />

Il timpano, cioè l’ordine costruttivo che l’artista ha assunto come<br />

esemplare motivo di indagine, accenna ad aprirsi nella chiave di<br />

volta sotto la spinta di un’energia dirompente.<br />

In quel punto il colore s’incendia, il gesto appare febbrile nel macerare<br />

le paste pittoriche e nell’esprimere il senso della mutazione<br />

ispirato dal paesaggio. Ma anche altrove, in basso, lungo la<br />

linea di terra si sdipanano tracciati trepidanti. Brillano fuochi vegetali,<br />

trascolorano fiori e atmosfere.<br />

Non è direttamente la natura, ma son sogni di ore e di paesaggi.<br />

Sogni dipinti per un piacere interiore; orti conclusi, spazi perimetrati,<br />

“giardini d’inverno” fatti di timbri e di squillanti tocchi<br />

cromatici; meno assoluti di un tempo, più terrestri, ma nondimeno<br />

incaricati di distillare, fra incerti equilibri, la carne e il profumo<br />

delle cose.<br />

Un precedente va in ogni caso ricordato ed è il bellissimo “Giardino<br />

per Silvia”, che Schirolli aveva dipinto a metà del Sessanta<br />

nel passaggio dall’informale alla neofigurazione.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Renzo Schirolli”, Atelier d’Arte<br />

“Ducale”, via Tazzoli 20, Mantova, 21 dicembre 1991.


Acquetinte<br />

Carlo Bondioli Bettinelli (1)<br />

Nel paesaggio con Seurat<br />

Dove porta il segno? Questo segno spoglio, aereo e spesso impalpabile,<br />

consegnato alle acquetinte degli anni ’70, che l’artista<br />

ha composto dopo aver rinunciato al colore? Quando Bondioli,<br />

per essere soltanto disegnatore, mise da canto le tele dipingendo<br />

un ultimo omaggio a Géricault (e lo fece proprio in un’epoca<br />

in cui trionfava il piacere delle materie e dei sensi), intese probabilmente<br />

ripartire da una delle sue ‘fonti’ più care, da quella<br />

seconda lezione francese, dopo la romantica, che si riassumeva<br />

soprattutto nel rigore di un metodo, nella severità, vogliamo<br />

dire, della ricerca seuratiana. Nel ciclo delle ventisei lastre ora integralmente<br />

stampato lo sguardo non si stacca dal reale, continua<br />

– si badi – a restare ‘sul motivo’, ma nel medesimo tempo<br />

lo spoglia della sua veste corporea con l’ansia di mettere a nudo<br />

le strutture essenziali. Più tardi l’artista insisterà ancor più sulla<br />

interiorizzazione delle forme, spingendo le figure a darsi come<br />

metafore, anzi imprese ed emblemi di un racconto scandito<br />

nello spazio di una simbolica ‘stanza’ mentale, chiusa e cata-<br />

C. Bondioli Bettinelli, Paesaggio con case (prova di stampa), s.d., acquatinta, cm 12x40 (particolare).<br />

847<br />

fratta, ma in questa fase la meditazione si appoggia all’esterno,<br />

fa conto del fuori e si tuffa nella scaturigine luminosa dei paesaggi<br />

e degli oggetti. E qui avviene la prima trasformazione. Il<br />

mondo, pur restando presente, si disimpietra e scioglie: quasi<br />

svanisce annegandosi nella pura vibrazione del segno.<br />

Una sottrazione che illumina<br />

Si ripensa a quel che uno scrittore, amico di Seurat, ebbe a dire<br />

della Grande Jatte. “Si chiudono un po’ gli occhi perché si è abbagliati;<br />

lentamente si riaprono, ci si fa schermo con la mano, si strizzano<br />

le palpebre e si lascia passare un filo di sguardo fra le due<br />

dita; e si capisce l’intenzione del pittore, l’abbagliamento, l’accecamento<br />

voluto e preparato; poco a poco ci si abitua, si indovina, poi<br />

si vede e si ama (…) il pulviscolo dorato delle chiome degli alberi<br />

dei quali la retina ingombra di luce non riesce a distinguere i particolari”.<br />

Qualcosa di analogo accade sulle tavole.<br />

Dapprima si resta feriti dall’innaturalezza dei bianchi, dalla tenuità<br />

estrema dei grigi e delle ocre. Il mondo sfugge per eccesso<br />

di leggerezza. Poi il paesaggio torna ad affiorare e appare tramutato<br />

in fitto battito pulviscolare. Come il “filo di sguardo tra le<br />

dita”, le acquetinte s’allungano. Simili a feritoie si posano sul-


l’orizzonte delle cose, raccolgono gli eventi e li disciplinano in<br />

ritmi. Oppure seguono un ordine istantaneo di condensazione<br />

optando per l’ovale o il quadrato. Quasi non avvertiamo limiti e<br />

bordi, eppure è dalla tacita costrizione della ‘cornice’ che prende<br />

vita la lettura delle immagini. Tramite la severa geometrizzazione<br />

del margine (che è una forma di volta in volta archetipica:<br />

un ordo lineare, quadrato o altro), si incentiva il punto di vista<br />

mentale. Svanisce il tempo cronologico per lasciar posto alla visione<br />

atemporale. Alla luce, come così all’oscurità riconosciamo<br />

una potenza espressiva che oltrepassa i contenuti che pur lascia<br />

trasparire; avvertiamo trionfi di verticali, tristezze d’ombra, malinconie<br />

di stasi. Bondioli cattura le risonanze psichiche delle<br />

forme e, sul respiro dei segni, intesse una rete di corrispondenze<br />

ottiche mentali.<br />

Povertà e silenzio delle cose<br />

Perché sfondi disadorni e umili? Più che pretesti, i paesaggi e le<br />

poche nature morte, una conchiglia e dei fiori, sono assunti quali<br />

custodi di un segreto trasmateriale.<br />

Non parlano di sé, bensì del loro essere tralicci e appoggi di quel<br />

principio vibrante che stendendosi dappertutto li imbeve. Per se<br />

stessi si limitano a esistere al di là dei significati, in un puro silenzio<br />

di cose, che testimonia la loro disponibilità al luminoso. Infatti<br />

con una cadenza antropomorfica li attraversa. Tace il rumore<br />

degli uomini e degli animali, e nella atemporale emanazione<br />

dei semi di luce è assente perfino il moto degli elementi, l’alito<br />

del vento, il trascorrere di una nube.<br />

Oltre l’infranto<br />

Perché si fa tacere la comunicazione e non importa più nominare<br />

le figure che s’incontrano, lo sguardo si impegna a misurare i<br />

rapporti di scuro e chiaro.<br />

“Costruisco”, come scrive Bondioli, “con la luce”. La singolarità<br />

dell’operazione consiste nel produrre armonia, relazioni equilibrate<br />

di tasselli visivi, scale tonali che al basso continuo dei grigi<br />

e dei semitoni alternano gli acuti di una solarizzazione che<br />

sbianca gli oggetti come fantasmi, ne restituisce il calco nel candido<br />

splendore del supporto cartaceo; e più che il calco, l’impronta<br />

incandescente, il doppio che brucia come una lampada.<br />

Dopo la prima trasformazione è questa la seconda metamorfosi.<br />

848<br />

I paesaggi, per così dire, vengono ulteriormente accesi da un<br />

coro di toni ‘illuminati’ che si aggiungono alla tonalità dell’insieme.<br />

Il procedimento che è visibile su tutte le tavole, diventa particolarmente<br />

acuto nella Vegetazione 1, in Paesaggio 2, dove la<br />

colata di luce dilaga in primo piano in una sorta di ri-emanazione<br />

della lucentezza a partire dal basso, e culmina – ci sembra –<br />

in Ciminiere 2, in cui lo stesso tema paesistico delineato in altre<br />

lastre subisce un ulteriore rilancio: la pellicolarità è spinta al diapason,<br />

ravvicinata all’assoluta evanescenza, grazie forse alla fantasia<br />

di raddoppiamento, cioè ad un effetto-miraggio suggerito<br />

dai riflessi d’acqua, veri accumulatori di raggi che, rifrangendosi,<br />

diventano più abbacinanti che nella zona alta dove ci aspetteremmo<br />

naturalisticamente di trovarli. Dunque i fuochi sfavillano<br />

nel corpo delle cose.<br />

Nelle vedute (ad esempio Paesaggio 3) le fughe si consumano fra<br />

tenuità umbratili e improvvise arsioni. Lungo i profili orizzontali<br />

s’incontrano leggere verticali, croci, diagonalità, trame di fili e ingrigliamenti<br />

di opposti. Ma nessun tema sta isolato in se stesso,<br />

bensì ritorna e si accorda in una catena continua di bilanciamenti<br />

con altre forme. Si capisce che l’artista vuole fondere le parti in<br />

una totalità di corrispondenze e articola armonicamente i contrasti<br />

e le dissonanze. Ha orrore del frammento e del dettaglio irrelato,<br />

del mondo in frantumi e perciò cerca il coaugulo e la sintesi.<br />

Una sua formula è questa: “aspiro alla tensione serena”. Dichiarazione<br />

che, tradotta in altri termini, potrebbe suonare così: l’arte<br />

ricompone l’infranto e la luce ne è il sigillo unificante.<br />

(1) Scritto contenuto in “Carlo Bondioli Bettinelli. Acquetinte”, Libreria<br />

Galleria “Einaudi”, Mantova, 1991.


Assedio d’amore<br />

Augusto Morari (1)<br />

«È sempre la stessa immagine, una figura che viene da lontano,<br />

a darmi la spinta a dipingere», dichiara Morari commentando le<br />

decine e decine di superfici dipinte tra l’89 e il ’90 sotto l’urgenza<br />

di un’emozione che non accenna ancora a placarsi. In realtà<br />

l’immagine lo accompagna da molto più tempo, forse da sempre,<br />

se qualche presagio, a voler tornare indietro, può essere<br />

colto in alcuni nudi e figure a tempera composti all’inizio del Sessanta.<br />

Solo che oggi quei segni hanno assunto un peso allora imprevisto<br />

e, dominando la fantasia, vanno articolandosi in tappe<br />

come se si trattasse di gettar luce su un tema cosi sedimentato<br />

da richiedere una sequenza di appostamenti.<br />

Morari - occorre dire - sa muoversi in verticale ed è artista di natura<br />

felicemente monotematica, le cui opzioni formali sono apparse<br />

subito chiare e poco disponibili al cambiamento, ma proprio<br />

per questo inclini ad approfondirsi nel tempo, restando ostinatamente<br />

fedeli al nucleo originario dell’ispirazione. Ogni dipinto<br />

rimanda al precedente e, aggiustando il tiro del sapere accumulato<br />

nello scavo, mira dritto al cuore delle figure. È un colpo di<br />

sonda che si sposta di poco, riarticola forme, seleziona e riplasma<br />

lo spazio, per cui appare al tempo stesso semplice e complesso,<br />

capace di risolvere nella rapidità di una stesura quel che è venuto<br />

man mano emergendo. Variare una angolazione o un accento<br />

può essere decisivo e alla fine conta la ‘somma’, il venire a capo<br />

A. Morari, Nella luce che abbaglia (II), 1990, acrilico su carta, cm 56x76.<br />

849<br />

di un’immagine interrogata a lungo per essere poi raggiunta d’un<br />

colpo mantenendo accesa l’emozione che non ha mai mutato<br />

bersaglio. Perciò non è un caso che il segno sia impulsivo, diretto<br />

e bruciante, risolvendo in fremiti luminosi anche le più sottili e<br />

quasi impalpabili risorse stilistiche, in ispecie quel tessuto di velature<br />

in cui consiste la trama conclusiva dell’invenzione.<br />

L’immagine - si diceva - proviene da lontano e si affaccia alla<br />

fantasia per avere una forma. Si sente che aspira al compimento<br />

e alla definizione nell’ opera. Se le fosse bastato vivere nel<br />

sogno, non avrebbe affatto bussato, come la vediamo fare nei<br />

dipinti, all’officina del pittore.<br />

Che cosa osserviamo infatti sulle tele se non una vicenda di visitazioni?<br />

In un quadro, che è tra i primi della serie e al quale<br />

ben s’attaglia il titolo Quasi invadente, un gorgo di incandescenza<br />

s’incunea fra due quinte profonde. Ed è l’apparizione del fantasma<br />

su un limite, non il margine di un generico interno, bensì<br />

- come sta a dimostrare tutto un precedente ciclo di stazioni -<br />

sulla soglia dello ‘studio’, là appunto dove i motivi interiori possono<br />

essere ascoltati o respinti, diventare icone definitive, riconosciute<br />

e suggellate dalla forma, oppure svanire.<br />

Il tema, certo autobiografico, ma ben lontano dal risolversi in effusioni<br />

diaristiche, ha a che fare - crediamo - con un assillo centrale<br />

dell’arte contemporanea, con il problema della rappresentazione.<br />

Ha raccontato Balzac nell’emblematico romanzo del Capolavoro<br />

sconosciuto la disperazione di un pittore che aveva cercato<br />

per tutta la vita di fissare sulla tela il segreto della donna<br />

amata perdendosi in un vortice di linee e di colori, per catturare<br />

alla fine soltanto un frammento della Bellezza, l’ombra di un<br />

piede miracolosamente comparso in un angolo dell’ultimo quadro:<br />

un segmento dell’impossibile epifania. Il tema, com’è noto,<br />

ha turbato a lungo la fantasia artistica. Dopo di lui il confronto del<br />

pittore con la modella costituisce uno dei tòpoi ricorrenti dell’<br />

arte, da Courbet ai post-impressionisti fino agli informali e oltre:<br />

segno evidente che nella rappresentazione del corpo simbolico si<br />

gioca la scommessa stessa del dipingere, la possibilità o meno di<br />

farne lo scrigno dell’Immagine e di rivelarla nel suo compiuto<br />

splendore. In alcuni autori l’interrogativo ha suscitato inoltre una<br />

sorta di racconto allegorico, qualcosa di simile ad una parabola<br />

d’amore, d’iniziazione avvenuta o mancata, che non sembra fuor<br />

di luogo ricordare in questa occasione. Sotto il segno della cono-


A. Morari, The Green-piece, 1988, acrilico su carta intelata, cm 150x100.<br />

850<br />

scenza e di Eros, il desiderio dell’Immagine<br />

unica e insostituibile si è snodato in una sequenza<br />

di incontri, sparizioni e riconquiste<br />

fino a sfociare - quando l’armonia è apparsa<br />

possibile - nella scena fusionale del riconoscimento.<br />

Che è quanto accade, con accenti<br />

affatto personali, nel ciclo proposto da Morari,<br />

dove l’insistere del segno su un medesimo<br />

fulcro figurale sviluppa delle tappe, un<br />

avanzamento lirico-narrativo della ‘favola’<br />

pittorica.<br />

Tre momenti almeno sfilano davanti allo<br />

sguardo. Dapprima è il puro apparire (e irrompere)<br />

dell’Imago, una ‘armatura’ di luce,<br />

nel buio dello ‘studio’, oppure lo scorrere di<br />

una forma sullo sfondo di una architettura<br />

sognata, dove l’evanescente presenza minaccia<br />

di svanire in un ventaglio di riflessi, di<br />

chiare e azzurrine trasparenze. Poi interviene<br />

una fase matericamente più risentita. Lo<br />

spazio chiuso scompare, svanisce la ‘grotta’<br />

mentale, e al suo posto tumultuano fuochi<br />

crepuscolari, liquidità, rosati e gialli nuvoli in<br />

ebollizione, come se assistessimo alla lotta<br />

degli elementi che per una strana alchimia<br />

preparano una nuova e più coinvolgente discesa<br />

dell’immagine. Quando le scene (è il<br />

terzo tempo) si intridono di atmosfere più<br />

cupe, una esplosione di viola, indachi e verdi<br />

accompagna la metamorfosi del paesaggio<br />

che si racchiude come un’urna intorno a una<br />

figura bianca e abbagliante. Cala allora una<br />

notte senza prospettive e tutto si concentra<br />

nel coagulo di luce rappresentato dal nudo<br />

che brilla come una lampada, confondendosi<br />

con la terra e le erbe. Si direbbe anzi che<br />

arda e si consumi nel connubio amoroso. Eppure<br />

manca la compiuta armonia dell’insieme<br />

poiché il corpo appare soltanto a frammenti,<br />

ancora mancato e parziale: lacerato


A. Morari, Se appari, 1989, acrilico su carta, cm 56x76.<br />

da ferite e sul punto di sottrarsi nell’atto stesso di precipitare in<br />

una evidenza terrestre. Per questi ultimi quadri Morari parla di<br />

stato «tragico», ossia di una condizione che non sta tanto ad indicare,<br />

se la nostra analisi è corretta, l’accensione dei sensi provocata<br />

dalla figura, quanto l’impossibilità di colmare la distanza e<br />

la lotta senza fine della forma con l’attrazione dirompente dell’immagine.<br />

Per dirlo in altri termini, egli insegue l’imperativo della composizione,<br />

di un assetto finalmente pacificato nella fermezza del<br />

costruire. Del resto la vocazione a strutturare lo spazio in una<br />

maglia essenziale di elementi è una sua caratteristica dagli anni<br />

Cinquanta. La pennellata larga e robusta, non di rado aggressiva<br />

appresa dall’Informale, ritaglia con forza il campo visivo sul<br />

quale si innesta poi l’esercizio stratificante, come s’è detto, del<br />

coprire e velare. In tal senso l’ordito disegnativo, che una volta<br />

aveva sorretto le prosciugate vedute paesaggistiche sui fogli lavorati<br />

a inchiostro, continua ad agire, come un fondamento del<br />

colore. Nulla s’è perso insomma di quanto fermentava negli<br />

esordi, anche se occorre precisare in quale direzione sono andate<br />

le scelte dopo la partenza schiettamente neo-naturalistica<br />

delle opere composte sulla scia di Morlotti (ma con l’occhio rivolto<br />

anche alla stremata sapienza compositiva di Morandi). Allorché,<br />

poco prima del Sessanta, si era trattato di accogliere la<br />

lezione dell’espressionismo astratto, piu di Pollock o di Fautrier,<br />

per Morari contò infatti il segno ingigantito e nero di Kline, accampato<br />

come un’ ombra sulla tela e soprattutto in grado di<br />

851<br />

A. Morari, Nella luce che abbaglia (I), 1990, acrilico su carta, cm 56x76.<br />

evocare la ‘scrittura’ del profondo dandole l’impatto di un partito<br />

architettonico. Sarebbe poi da vedere, per altri versi, se e fino<br />

a che punto abbiano inciso altri autori come De Kooning o Vedova,<br />

specie il secondo per l’attenzione prestata alla tradizione<br />

seisettecentesca. Ma se la questione è troppo sotterranea per<br />

essere risolta in poche battute, è certo, però, che alla cultura del<br />

passato meno recente Morari si riallaccia per il gusto dell’ ‘oscuro’,<br />

per i tagli e gli sfondamenti di piano, oltreché per certi ‘brividi’<br />

della pennellata che richiamano il rococò settentrionale,<br />

riaffiorante, se non altro, dalla pratica di restauro e da una familiarità<br />

con l’antico che ne favorisce il risentimento.<br />

Indubbio infine l’attaccamento tutto lombardo ai risvolti sensitivi<br />

del comporre che si affida alle cadenze vibratili dei segni intesi<br />

ora a restituire il frangersi della luce sulla pelle delle cose e ora<br />

a precipitarla dentro la materia. Per quanto aereo, infatti, il fantasma<br />

ha fame di sapori e di evidenze.<br />

Ma qui è anche il suo dramma: nell’interminabile ricerca della<br />

compiutezza perduta.<br />

(1) Scritto contenuto in “Augusto Morari”, Lebreria Galleria “Einaudi”,<br />

Mantova, 1991.


1992<br />

Da Monica Ferrando<br />

a <strong>Francesco</strong> Vaini<br />

Paesaggio e figura<br />

Monica Ferrando<br />

Conversazione<br />

Giannino Giovannoni<br />

La realtà magica di <strong>Francesco</strong> Vaini<br />

<strong>Francesco</strong> Vaini


Paesaggio e figura<br />

Monica Ferrando (1)<br />

Paesaggio e figura sono a prima vista i termini esclusivi entro i<br />

quali Monica Ferrando tesse l’ordito dei segni. Ma quali segni? In<br />

realtà il colore pulsa e respira autonomamente, ha una propria<br />

vita ancor prima di calarsi nelle determinazioni delle forme. Una<br />

sorta di radioso pulviscolo, una espansiva effusione cromatica<br />

occupa le superfici e le intride di minutissime scaglie, tratti, coaguli<br />

puntiformi; e se talvolta si assesta in più ampi spessori, si<br />

tratta sempre di stesure aeree, fluide, legate a un principio di vibrazione.<br />

Poi s’indovina un cambio, un salto di stato in questo<br />

scintillio capace di splendere per sé solo e che pure non si assolutizza<br />

e non ama chiudersi nella propria perfezione. Illuminando<br />

il fondo e interpellando l’oscuro, promuove apparizioni di<br />

natura, fa trasparire icone e mobili vicende d’immagini.<br />

Col sapore degli inizi di un ritrovato favoloso primordio, il paesaggio<br />

convoca aurore e culmini stagionali, ma anche attese e passaggi.<br />

Fiorisce sfericamente e si dilata in sequenze, ‘chiama’ e<br />

vuol essere abitato, talora pregno come un alveo materno e altre<br />

volte più raccolto, circoscritto in brevi spazi meditativi. Accanto al<br />

M. Ferrando, Kore di Camprena, 1992, olio su tela, cm 99x99.<br />

854<br />

respiro vegetale, sprigiona aliti, profumi, linfe e spiriti d’elementi,<br />

e, quasi da un nucleo vivente si generassero altre vite, pare di<br />

assistere a una catena di nascite. La fantasia del giardino insegue<br />

figure, non gli horti nostalgici delle epoche d’esilio, bensì luoghi<br />

aperti e senza vincoli difensivi, inclini alle trasformazioni. Le acque<br />

corrono libere e una fanciulla, anzi la Fanciulla protagonista<br />

delle visioni, le attraversa senza arrestarsi. E qui, nello spazio dell’apparire,<br />

scandisce una serie di passi lasciando intravedere una<br />

temporalità che probabilmente ha a che fare col sapere del ciclo.<br />

Sullo sfondo estivo del paesaggio una figura in nero precede infatti<br />

la Kore, e altrove, nella versione ‘invernale’ dell’immagine,<br />

assistiamo alla promessa del melograno; insomma ombra e luce<br />

si alleano per alimentare di un doppio tragitto e di una fecondante<br />

ambivalenza la virtù dei colori.<br />

Ed è questo il senso, se si vuole antico e irrinunciabile, con cui si<br />

fa valere il ‘dono’ della pittura, il circolare movimento che, partendo<br />

dall’ombra e tornando ad essa, crea le immagini e, per dir<br />

meglio, spontanei miti.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Paesaggi e figure”, Galleria d’Arte<br />

“Montepulciano”, Montepulciano (Siena), 16 aprile-2 maggio 1992.


Conversazione<br />

Giannino Giovannoni (1)<br />

Sintesi intervista di venerdì 3 luglio 1992 tra <strong>Francesco</strong> <strong>Bartoli</strong> e<br />

Giannino Giovannoni in preparazione di una mostra.<br />

Giovannoni. Voglio presentarti in anticipo i materiali della mostra<br />

che intendo realizzare il prossimo anno presso la galleria Einaudi.<br />

La sequenza temporale delle opere parte da questo quadro<br />

di grande formato con “Adamo fra gli animali, o che dà il nome<br />

agli animali” del ‘78, che deriva dalle incisioni dello stesso<br />

tema, vi è poi una picola serie di “nature morte”, realizzate tra il<br />

‘78 e l’82 caratterizzate dalla velocità della esecuzione per cogliere<br />

la luce dell’attimo della visione, seguono altri quadri già<br />

presentati nella mostra di Sabbioneta del ‘76, che costituiscono<br />

i prototipi della produzione di quest’anno, con il tema della<br />

danza, intesa come mediazione fra cielo e terra, dell’occhio, che<br />

nel primo quadro può essere anche l’immagine di un serafino,<br />

come quelli che dipingevano nel medioevo con le ali piene di<br />

occhi, fino ai più recenti nei quali l’occhio diventa anche casa,<br />

nucleo, mondo, dove si può entrare e uscire. Un altro gruppo di<br />

opere recenti è relativo al tema del lampo che, nelle mie intenzioni,<br />

è anche struttura, e che era vagamente presente nella natura<br />

morta con la conchiglia nera del ‘79. Vi è poi una serie di<br />

nature morte con l’uovo cosmico e la clessidra del tempo; le cosmogonie,<br />

cioè le storie della nascita del mondo, tema che sviluppo<br />

principalmente nelle incisioni, e le cosmografie, cioè la<br />

loro rappresentazione nello spazio, come se fossero delle carte<br />

geografiche di altri mondi, in queste comsposizioni introduco un<br />

asse diagonale che mi consente di orientarmi e di tentare di<br />

uscire dallo spazio del quadro, per inoltrarmi in altri spazi fisici<br />

o mentali.<br />

<strong>Bartoli</strong>. La prima impressione che si ricava vedendo le tue opere<br />

è che realizzino una sorta di scrittura e che si tratti di una pittura<br />

altamente mentale. Sono immagini che derivano direttamente<br />

da una visione della mente, e questa dimensione di rivelazione<br />

o illuminazione andrebbe accentuata con cornici consistenti<br />

o scure, nelle quali venga eventualmente segnata una<br />

linea che delimiti il perimetro della visione, per realizzare un effetto<br />

di icona.<br />

Giovannoni. Credo che la pittura sia anche scrittura, ma che<br />

855<br />

abbia un potere di sintesi, di condensazione e di accomulazione<br />

di significati, che né la scrittura, né la fotografia hanno, perché si<br />

limitano ad una definizione parziale della realtà o di linguaggio.<br />

Era già prevista la presentazione di molte opere in cornici antiche<br />

che definiscono molto l’immagine, ed esistono quadri, come<br />

quelli rappresentanti un volto o due teste, che contengono già<br />

nel dipinto la delimitazione dei margini della visione.<br />

<strong>Bartoli</strong>. Noto che fin dall’ “Adamo con gli animali” vi è il tentativo<br />

di rendere labile la materia pittorica per far passare la luce,<br />

anche nelle nature morte successive vi è una sorta di distruzione<br />

della materia a favore della luce; e vi è anche una sorta di<br />

recupero di un certo futurismo come quello delle prime opere di<br />

Balla nelle quali il movimento liberava la luce; o forse anche di<br />

più, del dadaismo per il tentativo di cogliere la precarietà dell’attimo<br />

e di arrivare alla quasi totale distruzione della pittura, e<br />

G. Giovannoni, Composizione con occhi, 1982, tempera su cartone, cm 100x70.


forse anche di un certo “spirito di geometria”, che porta al recupero<br />

di Paolo Uccello.<br />

Noto anche delle affinità con la pittura di Guidi nella quale si insiste<br />

nella rappresentazione dell’occhio, che è quello di Dio, dei<br />

mondi e del collegamento fra cielo e terra, spesso in una visione<br />

apocalittica.<br />

Giovannoni. È vero, solo che l’equivalente degli alberi di Guidi,<br />

che collegano il cielo con la terra, per me è il lampo. Sul discorso<br />

della luce ricordo una visita con Righetti di Licisco Magagnato<br />

alla mia mostra di Sabbioneta, e il suo commento che non<br />

tradusse in forma scritta, perché mancò l’occasione di una mostra<br />

successiva, e perché di lì a poco venne a mancare. Magagnato<br />

riferì diverse mie opere ai “pittori di cupole” e particolarmente<br />

a quelli del settecento per la comune tendenza a voler<br />

rompere la materia a favore della luce. Notò collegamenti con<br />

l’arte indiana, e individuò una decisa volontà di arrivare agli elementi<br />

primari della forma e della luce. Per il colore fece un parallelo<br />

con Tancredi, per via della labilità della materia pittorica.<br />

<strong>Bartoli</strong>. È vero, esiste un percorso parallelo con la pittura del<br />

‘700, per questa volontà di scindere la luce e di uscire dai limiti<br />

materiali della composizione. Per quanto riguarda la ricerca sulla<br />

luce sono interessanti i quadri nei quali, persa ogni intenzione<br />

descrittiva, tenti di arrivare agli elementi primari della forma e<br />

alla scomposizione elementare della luce. Vi è in ciò un percorso<br />

parallelo con le speculazioni medievali di Ugo da San Vittore<br />

dove si affermava che la prima luce è Dio e non è percettibile<br />

agli uomini, configurando un’alterità delle immagini visibili rispetto<br />

a quelle invisibili, e quindi la semplicità e l’uniformità<br />

della bellezza invisibile rispetto alla molteplice varietà costitutiva<br />

della bellezza visibile, e quindi la diversità tra forma ed essenza,<br />

le cose visibili sono quindi belle per la bellezza invisibile<br />

che in essa trasluce.<br />

Tutta l’arte gotica, che è interessata al problema della luce, è informata<br />

di queste teorie.<br />

Giovannoni. Mi interessa il problema della luce, ma anche quello<br />

del processo della visione e, in particolare, il momento in cui<br />

l’immagine, dopo aver impressionato la retina, passa al cervello<br />

e alla memoria: quando, cioè, il processo da fisico diventa metafisico.<br />

In questa prospettiva i miei interessi vanno anche ai<br />

mondi chiusi come un occhio, come nella incisione della Hyp-<br />

856<br />

nerotomachia Poliphili di <strong>Francesco</strong> Colonna dove l’occhio diventa<br />

un mondo, che può essere abitato ed esplorato, o come<br />

nelle incisioni delle “carceri” di Piranesi, microcosmi oculari popolati<br />

di luci che vengono dall’interno e dall’esterno, anche i<br />

quadri di Paolo Uccello sono degli occhi, e anche la cupola è una<br />

sorta di occhio.<br />

<strong>Bartoli</strong>. Organizzerei la mostra mettendo maggiormente in evidenza<br />

le analogie tematiche, la danza, i lampi, l’occhio ecc., perché<br />

il tuo modo di procedere è più analogico che cronologico,<br />

per cui non ha molta importanza la successione temporale, e<br />

metterei anche qualche quinta per isolare la presentazione di<br />

qualche dipinto e per evidenziarne la dimensione di teatro, che<br />

esiste, in modo più o meno evidente in quasi tutta la tua produzione.<br />

Rilevo anche che la diagonalità dell’asse di diverse tue composizioni,<br />

che apparentemente potrebbe essere vista nella dimensione<br />

della “perdita del centro”, invece porta, sempre nell’ambito del<br />

processo analogico, che tu applici, come gli alchimisti, fra cosmo e<br />

microcosmo, ad un recupero della totalità e della centralità.<br />

Giovannoni. Credo che tu abbia ragione, anche perché penso che<br />

le linee del corpo possono proiettarsi nello spazio, e quella linea<br />

inclinata che tende ad uscire dai limiti del quadro è anche quella<br />

della vita o della fortuna, che abbiamo incisa sul palmo della<br />

mano, o quella dell’asse del mondo. Ma la pittura è anche la percezione<br />

e la rappresentazione di una realtà assente. Pertanto,<br />

con la pittura, è possibile rappresentare mondi immaginari,<br />

come il giardino del paradiso, che per il solo fatto di essere immaginati<br />

e dipinti, diventano reali.<br />

(1) Conversazione avvenuta presso la Galleria-Libreria Einaudi per una<br />

mostra non realizzata. Scritto pubblicato su “Artisti a Mantova nei secoli<br />

XIX e XX, II Archivio Sartori Editore.


La realtà magica di <strong>Francesco</strong> Vaini<br />

<strong>Francesco</strong> Vaini (1)<br />

Nel ricordo di Emilio, maestro d’incanti in pittura<br />

<strong>Francesco</strong> Vaini fu a tutti gli effetti, nelle relazioni sociali come<br />

nel rapporto con la pittura, un uomo riservato e taciturno. Avvicinarlo<br />

oggi significa fare i conti con un silenzio che in lui era intensissimo<br />

e di specie così particolare da non richiedere affatto<br />

d’essere infranto, bensì accolto e compreso nella sua elevata sostanza<br />

fantastica. Questa condizione di per sé difficile va rispettata<br />

e fa tutt’uno con l’incanto degli spazi in cui vivono le immagini.<br />

È essa stessa il vero segreto e, lasciandosene avvolgere, si<br />

avrà la sorpresa di percorrere la via più diretta per conoscerlo. Di<br />

ciò s’era perfettamente accorto Emilio Faccioli quando, delineando<br />

trent’anni fa un penetrante profilo dell’artista, il più partecipe<br />

che sia stato finora tracciato, contrapponeva l’aspetto vulgato dell’opera,<br />

non sempre messa a fuoco nelle occasioni pubbliche, alla<br />

produzione assai più variegata, ricca di invenzioni e particolarmente<br />

significativa nei piccoli formati, custodita nella casa del pittore.<br />

«Nelle esposizioni raramente ci ha dato - assicurava Faccioli<br />

- il meglio di sé. Forse perché non sapeva scegliere? Meglio perché<br />

non voleva, per quel riserbo morale che è tutto suo, per quella<br />

lezione di modestia che è in grado di dare a tutti noi» 1 .<br />

Ora, proprio tanta riluttanza ai rumori del mondo, che si scioglieva<br />

nelle confidenze a pochi intimi e lo portava a custodire<br />

gelosamente le riserve dell’immaginazione, ha creato attorno all’opera<br />

uno spazio sospeso che può parere avaro di riferimenti,<br />

F. Vaini, All’ “Isola delle oche”, s.d., olio su cartone dipinto, cm 23,5x35.<br />

857<br />

mentre si tratta soltanto di calcolata reticenza, di atti mentali<br />

volti piuttosto a suggerire i propri motivi che a farne precipitoso<br />

commercio.<br />

Vaini - ed è questa la prima difficoltà per chi ne indaga il percorso<br />

- non si curava di conservare attestati, certificazioni e testimonianze<br />

di alcun genere. Né, tantomeno, cercava di procurarseli.<br />

Non teneva, come fanno tanti altri, diari e carteggi, mostrava<br />

anzi una singolare ritrosia nei confronti della memoria<br />

scritta, dell’appunto, del documento fotografico2 , tant’è che in<br />

non pochi casi costringe ad affidarsi alle sole indicazioni dello<br />

stile per ricostruire momenti e passaggi della sua avventura, ad<br />

interrogare la forma, a far confronti e supposizioni, con risultati<br />

talvolta incerti per via dei ricorsi interni della fantasia e per il<br />

gusto di tornare su un soggetto e di darne un seguito di varianti.<br />

A ciò si aggiunga la ristrettezza economica con cui dovette lottare<br />

e sulla quale modellò - ci sembra di dover dire - anche la<br />

resistenza del suo costume morale in un’epoca già di per sé<br />

avara di riconoscimenti. E dunque non una, ma più ragioni vengono<br />

a spiegare l’esigua documentazione materiale di cui si diceva,<br />

benché alla fine sia il trepido amore portato alle immagini<br />

a fornire il principale chiarimento.<br />

E tuttavia questo ‘vuoto’ è significativo. In tal senso, la metafora<br />

del confine che troviamo tante volte proposta nell’iconografia<br />

delle rive e delle pareti domestiche potrebbe essere assunta<br />

come una vera e propria dichiarazione di intenti, una ‘figura’<br />

entro cui rinchiudere l’opera intera. Tutto il territorio, la città, la<br />

periferia, il lago, la campagna, nonché le persone e gli oggetti,<br />

confluiscono nel giro di una emozione totale, di un fantasma<br />

poetico che è la casa e al tempo stesso ciò che l’attornia, il locus.<br />

Non perché la casa o la città, Mantova, costituissero l’unico orizzonte<br />

di cui il pittore potesse disporre, ma perché ad essi aveva<br />

deciso di votarsi nella convinzione che sprigionassero una inesauribile<br />

ed esclusiva corrente di stimoli: una scelta - occorre dire<br />

- tutt’altro che angusta e privata. Tant’è vero (e non è certo un<br />

caso) che le si può attribuire valore generazionale, essendo condivisa<br />

da un gruppo, dai pittori sospinti a Mantova, per non dire<br />

altrove come pure si potrebbe, da un comune sentimento del<br />

paesaggio per cui li si è chiamati elegiaci3 ; pittori fra i quali scopriamo<br />

in Vaini il più abbarbicato d’ogni altro all’idea del mondo<br />

concluso, l’artista meno propenso a ritrarre eventi spettacolari e


F. Vaini, Piccolo paesaggio, 1917, olio su tavola, cm 15x20.<br />

ad uscire dall’ordine per lui dominante della natura. Insomma<br />

uno sguardo piantato nel centro di un perimetro e impegnato a<br />

ritrarre quel mondo come un universo compiuto4 . Per questo,<br />

anche, ha rappresentato un mito per molti, il prototipo della fedeltà<br />

ai motifs esclusivi del dipingere5 .<br />

Educatosi da sé e per tanti versi autodidatta6 , Vaini appare, però,<br />

ben collocato nella cultura del tempo. Già agli esordi convoglia e<br />

disciplina le doti pittoriche su una meditata griglia di valutazioni;<br />

e pur adoperandosi a non esibire gli innesti, fa trapelare dal<br />

suo «andar leggero» una intensa macinazione di pensieri, un far<br />

chiarezza che depura le fonti. Quando si consideri quel che accadeva<br />

allora in Lombardia, i mutamenti di fronte tra le due<br />

guerre e i riverberi non del tutto inerti che Mantova andava registrando,<br />

si capisce che il caso e l’istinto non bastano a spiega-<br />

858<br />

re le sue scelte di campo. Dalle opere emana, a saper ascoltare,<br />

un dialogo discreto, pacato ma sicuro con altre posizioni, poiché<br />

non c’è quadro forse che escluda un elemento di confronto con<br />

quanto andavano facendo altri autori. Né - fino al Quaranta almeno<br />

- la vicenda di Vaini è ferma in se stessa, appagata e arroccata<br />

in un risultato definitivo dello stile. L’evoluzione è costante,<br />

ci sono cambi di rotta, aggiustamenti e acquisti compiuti<br />

sottovoce, con una mano - si direbbe - «senza nervi scoperti».<br />

Seguendolo, si capisce che le lezioni provenienti dall’esterno, da<br />

Milano specialmente, ma anche dalle aree veneta e toscana, dal<br />

secondo Soffici e in parte da Morandi e Rosai, vengono tuffate -<br />

spesso con la mediazione dei ‘traduttori’ mantovani più ispirati<br />

(pensiamo per gli anni Trenta a Di Capi, Donati e Facciotto) - nell’alveo<br />

della tradizione locale. La mente è tesa a vagliare. Si sa


(ne abbiamo le testimonianze orali e ne hanno scritto i compagni<br />

di strada) che egli ha continuato ad aggiornarsi tenendo<br />

anche una sua raccolta di immagini, figure che in qualche caso<br />

ha dichiarato in modo esplicito insieme ad altri oggetti d’affezione7<br />

; così come risulta che, accanto ai maestri italiani, ha guardato<br />

sul finire del Trenta a quelli francesi, a Chardin, Manet, Van<br />

Gogh, Cézanne, e negli ultimi anni a Chagall. Coltivava anzi l’idea<br />

di recarsi un giorno a visitare il Louvre e per questo solo intento,<br />

lui, pur così disamorato della parola, era disposto a sobbarcarsi<br />

l’impresa di studiare il francese: un sogno evidentemente,<br />

ma un sogno che dà la misura delle reali ed operanti prospetti-<br />

F. Vaini, Barconi, 1928, olio su tela, cm 40x50.<br />

859<br />

ve dell’immaginazione8 .<br />

Sullo sfondo dei grandi modelli comuni che i quadri richiamano,<br />

avvertiamo come un brusio operoso, un fitto scambio di apporti<br />

con i coetanei e i più giovani che hanno modo di tessere relazioni<br />

di prima mano con i centri maggiori. Le esposizioni dal<br />

canto loro danno adito a un intreccio di pensieri, a gare e dibattiti<br />

sul vivo della pittura. Quando Vaini accoglie un tema collettivo<br />

e dentro di esso inserisce uno speciale sviluppo cromatico o<br />

una iconografia particolare, si può scommettere che ha in mente<br />

un confronto.<br />

Ed ecco in che modo. Generalmente interviene sugli schemi fin


troppo spremuti del paesaggismo mantovano con un energico<br />

assestamento d’inquadratura; nel contempo aggira e cattura il<br />

motivo, si profonda nelle vedute, s’interna nel ‘magico’ locale liberandone<br />

il potere di suggestione. Senza parere, fa tesoro di<br />

molteplici saperi pittorici, non esclusi i più prestigiosi sul piano<br />

del professionismo, come gli insegnamenti di Carrà, Casorati,<br />

Tosi o V. Nodari Pesenti9 , col quale significativamente espone<br />

nella personale del ’30. Nel proposito di aprire calde sorgenti<br />

d’ispirazione, rimuove, taglia, fa piazza pulita. Rinuncia a rappresentare<br />

la vita della città, il movimento delle piazze e del mercato,<br />

per spostarsi sull’anello dei laghi, lungo la cintura delle<br />

acque e delle paludi, da cui osserva panorami lontani, gorghi<br />

d’acqua e distese campestri. E qui trova una serie di perni, di postazioni<br />

privilegiate e primi piani d’appoggio, tra i quali principalissima<br />

la costa orientale, tra Cittadella, San Giorgio e Catena10 .<br />

Ad esclusione forse del solo G. Resmi11 , che però non abbandona,<br />

specie nell’incisione, i palazzi e le vedute interne dell’abitato,<br />

nessun altro attua una così radicale cancellazione della città<br />

rumorosa e visibile. Tranne qualche rarissima sosta fra gli edifici<br />

urbani, che appaiono comunque spogli d’ogni umano contrassegno<br />

di esistenza (Il paesaggio invernale del ’38 circa), l’accento<br />

cade pressoché invariabilmente, soprattutto nei primi anni del<br />

Trenta, sul volto taciuto delle cose. Sul precedente di Somensa-<br />

F. Vaini, Lo scarico del barcone, s.d., olio su tavola, cm 38x54.<br />

860<br />

ri12 , si disgombra del già noto e del pittoresco, respinge severamente<br />

la tentazione illustrativa e il piacere del caratteristico. E se<br />

di tanto in tanto nelle vedute fa trapelare rapidi episodi umani,<br />

sono figure, anzi figurine, che fanno tutt’uno col paesaggio, si alimentano<br />

d’esso e vi si perdono; creature dei rivi e della vegetazione,<br />

lavandaie e pescatori, passanti, presenze infantili e senza<br />

nome. Così riaffluisce, torna a pulsare di nuova vita il fascino ancora<br />

romantico del naturale che l’Ottocento aveva da noi coltivato<br />

(a ragione è stata suggerita la sintonia sentimentale con<br />

Defendi Semeghini) e trasmesso agli eredi primonovecenteschi.<br />

Quel che vien fuori è un paesaggio portato ai minimi termini, disintorbidato<br />

ed essenziale. Lo sguardo si dilunga sulle profondità<br />

dei piani, corre sulla linea di pianura assottigliando gli elementi<br />

d’ostacolo: mondo per eccellenza della platitude, dei fermenti<br />

della terra e dell’acqua, che nell’orizzontalità trova poi<br />

adeguate occasioni d’inabissamento addentrandosi nei meandri<br />

dei rivi, fra gole, sentieri e slarghi improvvisi, a meno che l’occhio<br />

non s’alzi a indagare la vertiginosa ascesa dei pioppi, i cambiamenti<br />

dell’aria e delle nubi; uno sguardo che per ciò stesso<br />

esclude ogni attrazione per la morfologia collinare e alpestre,<br />

sulla quale invece puntava una parte del paesaggismo mantovano<br />

fin dal primo Novecento e su cui ritornano i chiaristi e, più<br />

tardi, il neonaturalismo di G. Perina, mai dimentico per sua formazione<br />

dei lontani semi segantiniani venuti col divisionismo. E<br />

se pure è vero che Vaini negli ultimi anni approfitta dei soggiorni<br />

veronesi e trentini per provarsi in una inedita pronuncia del<br />

naturale, non muta nella sostanza i partiti compositivi e indugia<br />

anzi sulle orizzontali dei dorsi montani e delle coste del Garda,<br />

come se si sforzasse di trasferire il suo passo di pianura in una<br />

realtà precipitosa e irta di barriere. Quanto all’universo di casa,<br />

pochi oggetti o una sola figura bastano a riempire la tela. Di nuovo<br />

egli va per sottrazione e addensamento. Isola un nocciolo e<br />

sorvola sul resto. I fondi - li si osservi - sono sospesi, ovattati, immersi<br />

in vibrazioni che sono dominanze di neutri e di stesure<br />

monocrome: trascorrenze morbide di luci, tenui fondali d’una<br />

meditazione colorata dai quali emerge la presenza che conta. Ad<br />

eccezione di Testa di bimbo all’aperto e di qualche altro dipinto13<br />

, la pennellata va cauta nell’introdurre la mobilità dell’atmosfera<br />

nella quiete degli interni. Ad un certo momento, nel ’56<br />

con Finestra, egli cercherà un incrocio, un afflusso d’esterno nel


dentro, ma riuscirà solo in parte ad annodare quel doppio registro<br />

in una trepida interrogazione che è anche omaggio a un<br />

tema canonico della pittura moderna14 .<br />

Per lo più, specie nel capitolo delle figure che chiude sostanzialmente<br />

nel ’35, si attiene alla solidità delle quadrature, definisce<br />

e mette in posa, interrogando da vicino l’evidenza di un corpo o<br />

di un volto. Ma è anche vero che poco a poco nell’inscenamento<br />

delle nature morte mette a punto una atmosfericità dell’interno,<br />

fatta di luminosità diffuse e protette che trascorrono sui<br />

contorni e sugli esigui elementi d’appoggio e d’addobbo, come a<br />

dirigere la rivelazione degli oggetti tramite il commento sommesso<br />

della luce.<br />

Proviamo ora a ricostruire il percorso. Se poco o nulla è stato<br />

conservato della prima esperienza, quel che resta fa pensare alla<br />

cultura figurativa mantovana del Dieci, ai lavori dei Monfardini,<br />

Guindani, Somensari e del più maturo Vindizio; è piuttosto lontano,<br />

salvo che per la tecnica e il mestiere, dall’insegnamento di<br />

G. Marusi, che pur dipingendo «impressioni dal vero» appare impoetico,<br />

appesantito da preoccupazioni letterarie e illustrative15 .<br />

Nelle prime prove, dopo aver ricevuto il battesimo alla Mostra<br />

Artistica Mantovana, che aprendosi a un largo schieramento di<br />

giovani ha rappresentato un momento importante nella querelle<br />

fra antico e moderno16 , Vaini aderisce al naturalismo lombardo<br />

sintonizzato con le esperienze materico-luministiche di E.<br />

Gola17 , come fanno capire due oli superstiti, il Piccolo paesaggio<br />

del ’17 e il Capanno del ’19.<br />

Qui, nella forte abbreviatura dell’immagine il colore fa da protagonista.<br />

Le pennellate sono rapide ed esplosive, cercano l’impasto<br />

incandescente. Nel primo il tramonto brucia come un rogo,<br />

nel secondo quel fuoco accende le cose, intridendo di riverberi<br />

l’aria, la terra e i grovigli di canne. Vien da dire che il pittore sta<br />

afferrando uno dei suoi temi centrali. Il Piccolo paesaggio, anzi,<br />

è quasi un programma di lavoro, per l’attenzione rivolta al metamorfismo<br />

della natura e per l’annullamento dei dettagli ad<br />

opera di uno sguardo che amalgama e fonde il colore intorno a<br />

un fervido nucleo centrale. Ed è significativamente un’icona lacustre,<br />

colta in un’ora di accesa trasformazione atmosferica, a<br />

muovere la fantasia in entrambe le occasioni.<br />

Cosa sia accaduto in seguito, nei primi anni Venti, mancano altre<br />

prove per dirlo. Se fosse lecito far qualche supposizione, po-<br />

861<br />

F. Vaini, La palude prima del temporale, s.d., olio su tavola, cm 40x50.<br />

tremmo arrischiare l’idea di un Vaini interessato agli spunti della<br />

sensazione, ma più contenuto nel restituire l’effervescenza del<br />

colore e allineato con il rappel à l’ordre della «Famiglia Artistica<br />

Mantovana», con la quale espone nel ’22 dopo la personale del<br />

’20 con Zanfrognini al Salone Finzi. Forse l’olio recentemente ritrovato<br />

nelle collezioni della Soprintendenza18 , con i suoi tocchi<br />

brevi e rassodati, tra tonalismo e ricerca emozionale, costituisce<br />

un esiguo anello di trapasso verso le opere successive, segnalando<br />

una sorta di riflessione all’indietro sull’eredità ottocentesca.<br />

In ogni caso dobbiamo rassegnarci per il momento ad ignorare<br />

quanto egli stesso ha voluto mantenere nell’ombra, occultando<br />

oppure disperdendo intenzionalmente i quadri composti<br />

prima del 1928, l’anno in cui ha suggerito19 di far partire i risultati<br />

più certi. La tela inaugurale è Barconi: osservandola si capisce<br />

perché le abbia assegnato un ruolo significativo nella scansione<br />

del percorso. Indica una scelta di campo sul piano della<br />

forma. Vi troviamo un impianto ‘forte’, di sodezza quasi plastica,<br />

al posto del battito luministico di Piccolo paesaggio. Consegnato<br />

all’abbrivio dei riflessi il dato atmosferico rimane, ma come in<br />

sottordine e sormontato dal potente scorcio delle imbarcazioni<br />

che avanza di lato senza intermezzo di quinte. Lo spazio è, per<br />

dir così, armato, architettonico, e da esso traspira un soffio di sapore<br />

epico, monumentalizzante. È raro che Vaini adotti toni alti<br />

per i propri soggetti, ma non si tratta propriamente di registri


F. Vaini, Ritratto di mio figlio, 1930, olio su cartone, cm 52,5x40.<br />

oratori; piuttosto di volontà sintetica e strutturante, nella quale<br />

occorre pur riconoscere un lato della sua anima. Come si vedrà<br />

anche in seguito, egli alterna sofficità e condensazioni, levità aereiformi<br />

a messe a fuoco bloccanti, che arrestano l’oggetto in un<br />

misterioso stato di immobilità, o meglio di attesa.<br />

Ma cos’è questo parer fermo e sospeso?<br />

Lumi in tal senso vengono da quanto era accaduto o stava accadendo<br />

a Milano, dove Vaini ha studiato e operato per un paio<br />

d’anni. E poiché i fatti sono noti20 , basterà accennarvi rapidamente.<br />

All’incirca dal ’22 i pittori raccolti attorno a Margherita<br />

Sarfatti, Bucci, Tosi, Dudreville, Funi, Sironi ed altri danno vita al<br />

«Novecento»: uno stile che nell’assumere l’iconografia quotidiana,<br />

la modella nella memoria degli antichi. Si sa che pesanti<br />

862<br />

F. Vaini, Testa di bimbo all’aperto, s.d., olio su cartone, cm 41x34.<br />

condanne piovono presto su alcuni di loro, ma al di là dei risvolti<br />

neoclassicisti per non dire involutivi del gruppo, quel che riteniamo<br />

attragga Vaini e che qui conta sottolineare, è il proposito<br />

di stilizzare la realtà in un immoto sortilegio di sintesi; un’arte capace<br />

di riqualificare oggetti e corpi per restituirli alla durata.<br />

Diviso fra intimismo, impressionismo e oggettività di resa pittorica,<br />

Vaini insiste sul finire del Venti ora sull’uno ora sull’altro<br />

tasto. Tenta il difficile accordo fra istanze puriste e fenomeno naturale<br />

(un problema che era anche di Tosi): tentativo in cui lo vediamo<br />

battere varie strade simultaneamente, saggiarle una ad<br />

una, quadro per quadro. Nella Natura morta con fruttiera opta<br />

per un assetto quattrocentista e per la «pittura da museo», ma<br />

negli invernali Riflessi ricompone il lascito di Somensari (il qua-


dro è alla lettera un omaggio all’amico scomparso) modulandone<br />

le note d’impressione su un terso, denudato spartito di elementi,<br />

mentre altrove il bivio è sopravanzato, sciolto nell’impeto<br />

dell’ispirazione, come nell’intenso All’«Isola delle oche», dove<br />

il colore costruisce di getto, fa rimare i bruni con gli azzurri, solidificando<br />

la luce, gli oggetti e le figure con la felicità di un bozzetto<br />

sironiano.<br />

Tutta una serie dunque di prove, di interrogazioni, di messe a<br />

punto, finché arriva ad apertura del decennio una conquista definitiva,<br />

che prima d’essere un risultato di stile è una scoperta<br />

d’immagine, la rivelazione di un mondo. Per farla sua, il pittore<br />

ha dovuto catturare la realtà e insieme sospenderla nel senzatempo,<br />

stare nell’incanto e - come s’è detto più volte - nel silenzio<br />

di un’ora, di un luogo, di una figura. Per questo avvertiamo<br />

un senso di stupore inappagato di fronte ad uno stesso paesaggio,<br />

che nessuna seduta en plein air riuscirà mai ad esaurire. Da<br />

F. Vaini, La strada, 1932, olio su tavola, cm 23,5x34.<br />

863<br />

qui i giri infiniti, i ripetuti appostamenti per cogliere certi momenti<br />

del giorno, di mezza luce specialmente, o l’essenza di una<br />

stagione. Sostanza sfuggente e labile, ma restituita dal segno.<br />

Davanti ad alcune immagini si respira un’aria favolosa e rarefatta,<br />

come se la natura sfumasse in «vapore» (ha scritto E. Faccioli),<br />

un’aria di specie metafisica ma non astrattizzante perché imbevuta<br />

di linfe, aderente comunque ai corpi, vicina alla vita. Il<br />

Mulino al «Büs dal gat» o il Ritratto di mio figlio (Il primogenito)<br />

ne sono esempi capitali, i primi, così come lo sono in seguito<br />

la Ragazza in verde o il Sole invernale, per i quali vien da parlare<br />

di sostanza ‘primitiva’ e di realismo magico, al punto che<br />

non crediamo affatto di forzare la lettura interpellando per un<br />

verso Rosai e per un altro Casorati. È bene tuttavia intendersi. La<br />

‘scoperta’ dell’immagine non è un frutto casuale, bensì, come<br />

s’è cercato di dire, una solida presa di possesso attraverso le certezze<br />

compositive. Se c’è infatti una dote che Vaini mostra di


possedere in ogni momento, una qualità che gli consente di dar<br />

corpo al «fumo», questa è proprio l’organizzazione dello spazio,<br />

il «taglio», come dicono i pittori. Può accadere che un quadro<br />

non riesca e un’esecuzione appaia debole, ma l’inquadratura di<br />

rado delude; non è quasi mai ripetitiva, pur restado fedele a<br />

delle costanti di fondo. Tanta cura della messa a fuoco può diventare<br />

perfino cervellotica, scadere nel décor da cartapesta di<br />

certe malriuscite nature morte, un genere che per fortuna si assesta<br />

rapidamente su un impianto limpidissimo e libero, di sapore<br />

anche ‘francese’.<br />

Per il paesaggio, si veda come avanza la presa quando è ispirata.<br />

Nei dipinti appena ricordati l’attacco è frontale e tale resta pur<br />

sempre in altre opere, dove avanza con brevi scarti diagonali,<br />

ma cercando di fatto un obiettivo mediano.<br />

A portarlo sono rivi e fossati (come nel Mulino al Büs dal gat e<br />

nel Paesaggio autunnale del ’30), oppure sentieri e rive serpentine,<br />

veri e propri dispositivi visivi incaricati d’entrare nel corpo<br />

della rappresentazione; primi piani mobili che, prolungandosi,<br />

trascinano l’osservatore. Qualcosa di simile alla funzione assegnata<br />

ai muretti, alle stradine e alle siepi nei quadri di Rosai.<br />

Alla fine ci si trova nel cavo della visione, nel luogo magico. Ma<br />

l’approdo, si noterà, resta velato e seminascosto, come si conviene<br />

a tutte le grotte favolose dell’immaginazione (e una di<br />

queste è proprio l’infossatura del «Büs dal gat»). Mai s’alza del<br />

tutto il sipario, sicché, insieme all’oggetto, la magia sta anche nel<br />

modo di approssimarsi ad esso, nel succedersi di siepi, prode e<br />

arbusti, di terreni impaludati e specchi d’acqua (le Lunette di San<br />

Giorgio, la Veduta di Cittadella, il Vespro, eccetera). Una volta<br />

entrati, si respira la natura. Si resta con l’acqua, le erbe e beninteso<br />

con l’aria e le nubi perché la promenade è il cammino dello<br />

sguardo che divaga e si prolunga oltre la concreta stazione del<br />

cavalletto. Capita allora che il tempo si fermi e precipiti un’ora<br />

immobile. Modalità che appare essenziale e continua nei ritratti,<br />

mentre il paesaggio - lo vedremo - conosce anche il fluire,<br />

frusciare e divenir liquido della vegetazione. Oppure il crepitìo e<br />

la cenere dei tramonti. Per le figure invece domina un’idea di<br />

stabilità, di corpi fermi. I volti non tradiscono emozioni, appaiono<br />

impenetrabili, enigmatici, conclusi e compiuti in se stessi. Il<br />

pittore li dispone in posa, astanti e inviolati, non volendo in realtà<br />

tracciare dei ritratti psicologici, ma esprimere con essi dei<br />

864<br />

miti familiari. Certo, riconosciamo quei volti ed essi hanno dei<br />

nomi, ma calati come sono nel sentimento di una realtà più ampia<br />

diventano icone universali, rappresentative di età e sensi<br />

della vita, di stati dell’esistenza. In questo Vaini è ormai al di là,<br />

decisamente oltre la ritrattistica convenzionale.<br />

Spesso ritrae la figura in stato meditativo, quasi sognante, in dormiveglia.<br />

Si dirà che nel Ritratto di mia moglie del ’31 le articolazioni<br />

sono ancora documentarie, ottocentesche. Ed è vero, ma<br />

si consideri il piacere di tornire l’imago domestica nel giro delle<br />

forme, nella rilevata bellezza delle vesti e degli ornamenti, e si<br />

vedrà che ne scaturisce una fantasia cromatica intorno alla regalità<br />

dell’idolo femminile. Non fanno forse lo stesso De Grada<br />

o Soffici? Non riplasmano anch’essi schemi ottocenteschi? Più sobria<br />

è invece Donna che fa la maglia nelle misurate intese dei<br />

verdi, dei bianchi e dei gialli; più moderna e quasi da frescante,<br />

la novecentista e masaccesca Testa di donna. Il culmine, però,<br />

vien toccato altrove, nel già ricordato Primogenito e nelle sorprendenti<br />

meditazioni sugli stati di trasognamento e di mezza<br />

vita nel Bimbo convalescente e nella Ragazza in verde. In quest’ultima<br />

fluisce larga e pausata una nota grave di smeraldo, che<br />

gli altri colori, il grigiochiaro della parete, l’azzurro e il giallo concorrono<br />

a diffondere. Vien da chiedersi: dov’è mai quella fanciulla?<br />

Tiene chiusa l’anima e vi si raccoglie lontana, forse presaga<br />

d’altra vita. È - sappiamo - la ragazza di un tiroasegno21 , ma<br />

pare una creatura superstite de «La Via Lattea», vicina alle fantasie<br />

del veronese Trentini e di Casorati.<br />

Il desiderio di durata che vi si coglie mette in sintonia i ritratti<br />

con le intenzioni sottese ai paesaggi silenti, ma l’esercizio sui<br />

corpi, anche a tener conto dello sparuto gruppo di disegni22 , non<br />

resiste più di un quinquennio, dopodichè questo interesse s’interrompe<br />

bruscamente con la cézanniana (anche) Figura con<br />

frutta, datata ’35, che mettendo insieme natura morta e immagine<br />

femminile segna l’eccezionale congiunzione dei due tòpoi<br />

e dà in certo modo l’addio a uno di essi. Probabile segno dell’urgenza<br />

con cui preme l’ispirazione del naturale e di come essa<br />

invochi un allargamento espressivo. Anche se non mancano eccezioni23<br />

, il ritratto pare aver corrisposto innanzitutto ad un’esigenza<br />

‘costruttiva’, che solo in parte prosegue nell’indagine di<br />

altri soggetti, nella natura morta di frutta (e non certo di fiori).<br />

Già all’epoca dei ritratti vanno registrati approcci differenti al


F. Vaini, Paesaggio, s.d.<br />

olio su cartone, cm 34x50.<br />

F. Vaini, Paesaggio autunnale<br />

con salici e pioppi, s.d.<br />

olio su tavola, cm 62x70.<br />

865


paesaggio. Si fa vivo il sentimento del tenue, una necessità di<br />

toni impalpabili e fruscianti. Le vedute diventano fluide, liquide,<br />

avvolgenti. Campi e acque hanno l’aereità degli odori, la consistenza<br />

molecolare degli aliti e dei fruscii che il pennello asseconda<br />

in un moto di simpatia vegetale, sottilmente materico<br />

(Paesaggio autunnale, 1932). Da un lato lo sguardo s’innalza<br />

fino alle cime di alberi simili a plastiche torri verdeggianti (I<br />

pioppi, 1932), dall’altro s’abbassa, penetra negli intrichi dei rami<br />

e dei riflessi (ad esempio Ruscello), capta segreti fuochi interni.<br />

Sul quadro vorticano tocchi, stenografie colorate, baluginamenti.<br />

Quel che attrae è il tutt’uno dell’apparire (non i dettagli di un<br />

ramo, di una riva, di un capanno). Contano le totalità, gli insie-<br />

F. Vaini, Bimbo convalescente, s.d., olio su cartone, cm 34x45.<br />

866<br />

mi, le direzioni complessive dei fenomeni, che talora, per una<br />

sorta di empatia strutturale, vengono accentuate dall’inquadratura.<br />

Il Paesaggio estivo del ’33 circa (ecco un caso evidente) si<br />

apre come un ventaglio assetato di cielo, altre vedute del ’33-<br />

’35 formicolano di punti e virgole luminose. Insenature e fossati<br />

mandano riverberi ancor verdi e dorati nel tenue fioccare dei<br />

colori. Lo scarico del barcone e La cartiera24 mostrano con quanta<br />

leggerezza egli ritragga le cose e insegua una sua forma di<br />

‘tenuità’ accanto agli amici veristi.<br />

Benché Vaini non si possa considerare un pittore solare, è nondimeno<br />

sempre diurno, ispirato dalla luce. S’intrattiene con le<br />

mutazioni e il passare delle stagioni, con ciò che è prossimo a


F. Vaini, Paesaggio autunnale, 1932<br />

olio su cartone, cm 33,5x44,5.<br />

F. Vaini, Paesaggio fluviale, s.d.<br />

olio su tavola, cm 56x67.<br />

867


svanire ma è ancora presente. Nel far sentire lo struggimento<br />

delle vite appartate e il fluire malinconico delle cose, respinge il<br />

catastrofismo della fine, lo scoramento della vanitas. Sta sempre<br />

in definitiva dalla parte dell’esistenza.<br />

Si amplifica intanto il registro delle ore e delle apparenze. Con la<br />

ripresa dei ‘tramonti’ innanzitutto, delle variazioni aeree, delle figurine<br />

che camminano sulle rive (La strada, La passeggiata, I fidanzati)),<br />

del calar delle nebbie e dei geli invernali. Il tratto si fa<br />

rapido, ha lievi traiettorie gestuali. Nella Lunetta di quest’epoca25 le nubi sono la sigla protagonista del paesaggio, una bambagia<br />

leggera di materia bianca che sorvola la palude, in una sorta di<br />

adattamento locale delle marine di V. Pesenti, che appare ancor<br />

più pronunciato nel poco più tardo Tramonto, tutto balenante di<br />

scoppi26 .<br />

Intorno al ’37, se non appena prima, la natura morta confluisce<br />

nei risentimenti della fragilità e degli splendori temporanei. Definito<br />

un suo umile e al tempo stesso variegato erbario27 , Vaini<br />

dipinge dei piccoli trionfi floreali. Col poco - al solito - dà il molto.<br />

Nei due casi che ora commenteremo, ritaglia e mette ai margini<br />

vasi e supporti per dar rilievo all’espandersi delle foglie e dei<br />

fiori nello spazio circostante. L’onda di vibrazioni che essi trasmettono<br />

è di natura sferica, avvolgente, danno l’impressione di<br />

una nuvola iridescente e anche di un profumo che si manifesta<br />

F. Vaini, Natura morta, s.d., olio su tavola, cm 45,5x50.<br />

868<br />

sotto specie d’immagine. Non tanto simbolo, quanto piuttosto<br />

portatore iconico di una sensazione più ampia, il fiore s’incarica<br />

di esprimere l’incanto della bellezza e dell’effimero. Speronelle<br />

(Fiori di campo) dilata tutt’attorno infinitesimali scintille colorate,<br />

un alone di gemme che il giallo-oro del fondo contribuisce a incentivare28<br />

. Anche Ortensie29 s’avvale di un simile schema compositivo,<br />

ma con una diversa soluzione tonale e un più smorzato<br />

e lento procedere del colore fra gli angoli d’ombra e la luce<br />

piovente dall’alto.<br />

Se verso la fine del decennio e l’inizio del nuovo le prove continuano<br />

en plein air facendo registrare sensibili echi chiaristi (Paesaggio<br />

con neve, Frutteto in fiore), ma anche il ripetersi di antichi<br />

moduli di registrazione ottica (Porto Catena) 30 accanto alle<br />

ormai inconfondibili vedute lacustri, i capitoli più intensi riguardano<br />

i «paesaggi fluviali» e le nature morte di frutta. Quest’ultimo<br />

‘genere’ anzi conosce non una, ma almeno tre felici innovazioni<br />

nell’ arco di tempo che va fino al ’57. A premessa del percorso<br />

sta, come sempre, la sapienza della giusta distanza e del<br />

‘taglio’; la capacità, si vuol dire, d’entrare nell’anima degli oggetti<br />

ponendoli nella posizione favorevole a manifestarsi.<br />

Per lungo tempo (abbiamo visto) Vaini s’è dato da fare coi problemi<br />

della messa a punto dell’immagine, facendo ricorso a soluzioni<br />

decorative o all’opposto essenziali, ottocentesche o moderatamente<br />

più avanzate. S’è trascinato dietro anche pesanti<br />

questioni d’addobbo nell’ottica inerte di un panneggiamento che<br />

ha rischiato di portarlo su un binario morto, nonostante alcune<br />

belle riuscite di sapore tradizionalista31 , finalmente liberandosi<br />

del convenzionale per andare al nocciolo che premeva dentro di<br />

lui, anche in virtù, crediamo, della ostinata riflessione intorno ai<br />

problemi del linguaggio che l’amico Di Capi proponeva alla discussione<br />

comune.<br />

Una cosa è chiara: che per Vaini l’oggetto non si rivela per caso,<br />

per via di un’illuminazione fortuita. Occorre fare in modo che la<br />

materia (meglio la sostanza) di cui è fatto aderisca e parli allo<br />

sguardo. Si deve ‘sentire’ la cosa, sentire una presenza che è sì<br />

forma e colore, ma anche peso e respiro: un principio dunque di<br />

rivelazione, al quale obbedisce ciò che potremmo chiamare la<br />

messa in scena del pittore.<br />

Per darsene conto, basterà osservare il gioco di drappi, di piccoli<br />

sipari e supporti nel quale Vaini ha coinvolto gli oggetti. Può


parere casuale una tela appesa dietro di essi, il calare di una<br />

stoffa, la piegatura di una tovaglia, ma non è così. Ogni volta ciascuna<br />

di esse ha una ragione compositiva e insieme suggeritrice.<br />

Ora, il salto avviene quando questa regia spaziale raggiunge<br />

la massima semplicità d’impostazione; quando l’oggetto è al di<br />

qua d’ogni diaframma: aperto, disponibile, dentro il fuoco dello<br />

sguardo. Melagrane, Mele con fico aperto e Uva e fichi (del ’40<br />

all’incirca), tutti splendidi e convergenti esempi di composizione,<br />

dicono quel che avviene. Sulla scia del cézannismo l’occhio insegue<br />

contorni essenziali, suggerisce volumi, cerca appoggio negli<br />

ovali dei piatti e nella semplificata disposizione delle tovaglie. I<br />

motivi visivi, le curve, i segmenti e gli angoli si ripetono ad eco,<br />

come un ritmo aperto. Il colore si frange a scaglie, tratteggi, riprese.<br />

Ed è l’essenza della libera e colorata ‘geometria’ naturale<br />

a rivelarsi.<br />

Insieme arriva qualcos’altro, una morbidezza ancora maggiore.<br />

Dopo una serie di impressioni che porta l’olio a velarsi come<br />

fosse un acquarello32 , Vaini colloca la frutta su un piano colorato<br />

quasi uniforme e privo di riferimenti prospettici, simile a una pagina<br />

piegata. Da lì, nell’alone depurato dei pigmenti, l’oggetto si<br />

espone diffondendo tutt’intorno pesi e volumi. Si sente vicino il<br />

«regno dello sguardo» diffuso dalla lezione di Chardin, nel quale<br />

- ha scritto J. Starobinski - «le cose vedono: uno sguardo, venuto<br />

da esse, incontra il nostro sguardo (...). Tutte quelle superfici<br />

brillano d’una luce variabile, viva o tenera: frutta, peluria, vetri,<br />

metalli» 33 . In questo Vaini e Di Capi procedono di comune accordo.<br />

Il Cestino di mele del ’41 ha un’intimità tonale che crea da<br />

sè il proprio tempo percettivo. Non ha bisogno di ricevere vita<br />

dall’esterno, ma la effonde intorno con impercettibili e morbidi<br />

impulsi colorati.<br />

Che Vaini abbia potuto cavar spunti dalla conoscenza di qualche<br />

originale dell’artista francese è naturalmente escluso. L’indicazione<br />

di cui s’avvale è morandiana34 , il riferimento iconografico<br />

più immediato il libro d’arte, che continuerà a fornirgli materia di<br />

riflessione. Una decina d’anni più avanti lo vediamo collocare<br />

frutta e fiori su una sedia impagliata, compiendo un gesto di<br />

chiara memoria vangoghiana, ma al tempo stesso suggerendo<br />

un diverso clima spirituale. Laddove infatti il pittore di Arles denuda<br />

drammaticamente le suppellettili facendone i protagonisti<br />

dello spazio, egli vi attribuisce il compito di accogliere la paca-<br />

869<br />

tezza del suo contemplare. La sedia diventa un teatrino di posa,<br />

un palco ravvicinato su cui il pittore cala lo sguardo e che allestisce<br />

con un piccolo drappo (il suo ricorrente fondale), mantenendo<br />

in ogni caso evidente negli snodi dello schienale il congegno<br />

di cui si serve. Questa volta le cose si rivolgono a chi le<br />

guarda nell’umile concretezza di un microcosmo della casa, non<br />

più di un angolo appartato. Piace collocare quel che è nato da<br />

tale ispirazione sotto il titolo riassuntivo di Nature morte sulla<br />

sedia per dichiararne le ragioni di coerenza e il carattere di piccolo<br />

ciclo. Una serie, che rappresenta oltretutto l’ultima esperienza<br />

di formalizzazione costruttiva.<br />

Prima di toccare, però, la tappa conclusiva della natura morta<br />

(’56-’57), occorre fare un passo indietro per non perdere il filo<br />

del decorso cronologico. Il Quaranta riserva, lo abbiamo anticipato,<br />

una bella invenzione paesaggistica. Sono le immagini<br />

‘fluviali’ dagli ampi e avvolgenti meandri d’acqua, in cui - a differenza<br />

dei Vespri e delle Lunette - torna a farsi sentire anche la<br />

presenza collettiva dell’uomo. Per qualche tempo, al posto delle<br />

‘solitudini’, quelle dei passanti o dei barcaioli spersi nell’ orizzonte<br />

(metafora personale - come non interpretare? - e mito del<br />

pittore), subentrano segni di vite corali, di attività e soste d’altri<br />

uomini. Sulla tela la mano prende un abbrivio largo, ma mai materico<br />

né troppo agitato. Anzichè avanzare frontalmente come<br />

F. Vaini, Melagrane, s.d., olio su tavola, cm 38x40.


F. Vaini, Canale Fossamana, 1932, olio su cartone, cm 44x34,5.<br />

nel Mulino del ’30 o distendersi nell’orizzontalità di un panorama<br />

lontano, i colori scivolano lungo traiettorie animate. Si stemperano,<br />

ristagnano e riprendono la corsa, diventando essi stessi<br />

delle correnti o delle gore. Ed è un crescendo. Si passa dai Trasporti<br />

composti nei primi anni ’40, in parte ancora acquietati, al<br />

Paesaggio fluviale35 dove, pur nella permanenza di un’identica<br />

prospettiva, il vedutismo si dinamizza in moti curvilinei fino a<br />

inoltrarsi e perdersi dentro un’insenatura colma di capanni. La<br />

promenade suggerita dal quadro rimanda al piacere dei vagabondaggi<br />

lungo le coste e gli argini, col cavalletto in spalla e i<br />

colori pronti a registrare la mestizia di un tramonto o la serenità<br />

dell’ ora meridiana.<br />

Riteniamo sia questo, nel corso del Quaranta, il momento più significativo<br />

accanto a quello della natura morta conclusosi col Cestino<br />

di mele. Ma non van dimenticati gli episodi singoli, certe<br />

notevoli riuscite d’atmosfera. Abbiamo ricordato il Frutteto in<br />

870<br />

F. Vaini, Paesaggio estivo, 1933 ca., olio su tavola, cm 81x68.<br />

fiore esposto al «Premio Verona» del ’42 ed aggiungiamo Capanni<br />

proposto in una mostra del ’45. Non molto. Certo s’è trattato<br />

d’un decennio meno colmo di opere del precedente, alla cui<br />

determinazione contribuirono - come nelle storie di tanti artisti -<br />

eventi e disagi della guerra. Ci siamo scontrati inoltre con una<br />

forte difficoltà di datazione non riuscendo a reperire lavori di sicuro<br />

riferimento per l’immediato dopoguerra.<br />

La ricerca riprende invece quasi febbrile nel Cinquanta. I molti<br />

inediti, i tanti piccoli formati dipinti dell’ epoca lasciano intendere<br />

come i modi corsivi e tracciati delle vedute di fiume costituiscano<br />

l’antefatto decisivo oltre il quale s’inoltra il colore. Chiusi<br />

i conti col problema della spazialità ‘forte’ e protetta, Vaini<br />

aspira a sintesi rapidissime. Pochi tocchi, immagini quasi stenografate,<br />

talora pure macchie cromatiche liberano l’impressione36 .<br />

Un riflesso, una silhouette controluce, l’improvviso mutamento<br />

dei toni nell’aria sono contenuti sufficienti per creare spazi senza


confini. Quando l’immaginazione segue altri indirizzi, i dipinti appaiono<br />

come bloccati oppure - per via dei tanti ricorsi poetici -<br />

ripercorrono le figure e le forme custodite nella memoria pittorica,<br />

come il Sentiero in riva al ruscello. C’è da restare stupiti nell’osservare<br />

con quanta vitalità fantastica la pittura si rinnovi<br />

quando l’artista può dedicarsi totalmente alla propria vocazione37<br />

. Il ’56 trabocca di quadri. Ci sono perfino degli ‘idilli’ 38 e tra<br />

questi freschissimo, chagalliano per libertà di segni e di cromie,<br />

Il piccolo campo, sorta di fiaba agreste in cui il terreno dorato in<br />

primo piano assume, nella spontaneità del dettato, la forma di<br />

un minuscolo cuore. Il pescatore, che invece dà conto delle sintesi<br />

percettive, fonde di getto stato d’animo e sensazione paesistica<br />

nella sigla poetica della contemplazione solitaria: una delle<br />

‘solitudini’ di cui si diceva poco sopra.<br />

Dove il raggiungimento più alto? Non esitiamo a riconoscerlo<br />

nella serie dei Ventagli39 che autorizzano nuovamente il rinvio<br />

chardiniano. In una spazialità rarefatta, compartita nell’orditura<br />

bivalve dei dipinti, tutta nutrita di accordi e rimandi (gialli, bianchi<br />

perlacei, rosa e azzurri veneziani), gli oggetti sono dei correlativi<br />

oggettivi della fragilità del reale. Non solo. Il magnifico<br />

Ventaglio con mele, col suo battito di colpi dati in punta di pennello<br />

nell’intento di tracciare una parvenza di fiori dipinti e di<br />

candide, iridescenti, maioliche, restituisce la finzione stessa della<br />

pittura, il suo ultimo senso. Il «vapore»che salva.<br />

Vaini sapeva dunque di stare dentro le illusioni, nell’emozionato<br />

circuito delle labilità di cui è fatta l’esistenza. Dalle magie dei<br />

primi anni a quest’estrema intuizione lo ritroviamo stretto a questa<br />

voce dell’anima.<br />

1. E. FACCIOLI, <strong>Francesco</strong> Vaini, «Diorama», 1952 (v. allegato). Quattro anni più<br />

tardi sarà lo stesso Faccioli a ordinare la Personale alla Casa del Mantegna, curandone<br />

la scelta e abbozzando per la prima volta, avendo a sostegno l’autore,<br />

l’itinerario cronologico che assumiamo tra i nostri riferimenti di base. Il critico, nel<br />

riprendere l’analisi, introduceva la rassegna con queste parole: «Vaini deriva dall’impressionismo<br />

lombardo; ne conserva gli spiriti, il gusto, gli intenti, dopo averlo<br />

depurato, alleggerito, reso moderno e veloce. I giovani stenteranno forse a riconoscere<br />

la modernità nella pittura di Vaini, che sembra indugiare in blandizie<br />

ottocentesche (o addirittura settecentesche, come si è detto altra volta). Ma la<br />

sua è una modernità che non va confusa con le facili maniere di aggiornamento<br />

che usano molti pittori, vecchi e giovani: nasce da disposizioni intime, dalla<br />

facoltà di trar partito da motivi abusati per ottenere stimoli di fantasia, ragioni di<br />

un confronto personale con la realtà. Tutto questo è possibile quando si ha, come<br />

Vaini, una cultura pittorica e umana, finezza e sensibilità. Nell’impressionismo<br />

871<br />

lombardo Vaini ha soprattutto compiuto, come si richiede a un moderno, opera<br />

di epurazione: ha portato un colore suo, accordi più rari, ha reso la sensazione<br />

più acuta isolandola in virtù della pennellata che definisce e illumina. Il pittore<br />

che meglio gli si avvicina, in ambito nazionale, è Carpi: non tanto perché si assomigliano<br />

nei risultati pittorici, ma perché la loro cultura e il loro orientamento<br />

non sono dissimili, moderni senza modernismo, capaci di distillare il meglio delle<br />

loro emozioni casalinghe in un segno insostituibile (anche un occhio mediocremente<br />

esercitato può avvertire che nella pittura di Vaini i pentimenti sono rarissimi).<br />

Nell’ambito locale l’artista più vicino a Vaini è il povero Somensari: anche<br />

qui, non per affinità di risultati, ma per costante, intemerata schiettezza dei modi<br />

espressivi. Una preferenza istintiva ci mette di fronte ai piccoli paesaggi mantovani:<br />

una suite coerente di appunti annotati con estrema sincerità per comporre,<br />

quando ne verrà l’occasione, un’ampia elegia della campagna e dei laghi che la<br />

impaludano; un canto intonato su note sommesse ma limpidamente evocative,<br />

quando non ceda - come talvolta accade - a qualche descrittività. Detto ciò, Vaini<br />

potrebbe sembrare definito - e liquidato - con la qualifica di elegiaco cantore<br />

della periferia mantovana. Ma il conto resterebbe sempre aperto di fronte ai ritratti,<br />

dove il potere costruttivo del colore si rivela in maniera sorprendente senza<br />

tuttavia tradire le inclinazioni più proprie dell’artista, che sono pur sempre quelle<br />

elegiache, di uno stato d’animo volto a rivivere la malinconia dei personaggi<br />

e a tradurla in immagini concluse nella severità dei toni e delle luci, drammatiche<br />

quanto mai».<br />

2. Soltanto dopo la sua morte, ad opera dei figli, s’è fatto ordine nelle carte del<br />

pittore, conservando il poco che egli aveva lasciato (qualche catalogo, i ritagli<br />

giornalistici, la scarna corrispondenza con gli Enti promotori di mostre e alcune<br />

fotografie delle opere). I volumi della piccola biblioteca d’artista, assieme a vari<br />

cataloghi, sono stati donati alla Biblioteca Comunale di Mantova. Molti invece i<br />

dipinti, i bozzetti e gli studi tuttora inediti. Non perduti probabilmente, ma di arduo<br />

reperimento gli oli dispersi nelle collezioni private mantovane, in gran parte<br />

difficili da raggiungere, non avendo il pittore tenuto un rendiconto delle vendite<br />

e avendo spesso barattato i propri lavori in cambio di merci di consumo secondo<br />

una pratica piuttosto diffusa fra gli artisti mantovani dell’epoca.<br />

3. Vedi su questo punto le considerazioni di C. PERINA sulle vicende degli elegiaci<br />

mantovani: “Dalle seduzioni novecentesche seppe mantenersi lontano un<br />

gruppo di artisti mantovani nati sul finire dell’Ottocento: Luigi Somensari, Guido<br />

Resmi, <strong>Francesco</strong> Vaini, Alfonso Monfardini. Piace collegare questi artisti, appartenenti<br />

per altro alla medesima generazione, in un unico gruppo per l’effettiva<br />

comunanza di mondo poetico. Alieni da progetti ambiziosi, in possesso di un linguaggio<br />

dimesso, ebbero tuttavia il merito di aver reso circolanti nell’ambiente<br />

locale modi derivati dall’impressionismo lombardo. Questi pittori ritraggono gli<br />

aspetti e le atmosfere più intime del paesaggio mantovano: i vecchi edifici, la<br />

campagna piatta, avvolta nelle nebbie autunnali o tutta verde di germogli, le<br />

pigre acque del Mincio, con un’incantata purezza di accenti in cui sembra aleggiare<br />

uno spirito virgiliano.”, eccetera (C. PERINA, Fra Ottocento e Novecento, in<br />

E. MARANI, C. PERINA, Mantova. Le Arti, voI. III, Istituto Carlo d’Arco, Mantova,<br />

1965, p. 657).<br />

4. Ci sono aspetti della vita collettiva o visioni extra moenia che gli altri pittori coltivano,<br />

ma di cui nessuna eco si trova in Vaini. Somensari dipinge anche luminarie,<br />

feste notturne, la vita dei poveri. Resmi ritrae il mercato, le piazze, le vie. Zanfrognini,<br />

vicino in talune sue espressioni agli “elegiaci”, anche il demi monde; ancora<br />

più mosso il registro (talvolta simbolista) di Monfardini, eccetera.<br />

5. Vanno in tal senso numerose testimonianze orali e quelle scritte, per le quali<br />

si rinvia alla bibliografia.<br />

6. La qualifica di “autodidatta” compare quasi sistematicamente per i pittori<br />

mantovani del Novecento, ma è contrassegno da non assumere rigidamente volendo<br />

significare per lo più una formazione irregolare che non manca di fondamenti<br />

di bottega e di scuola, né di collaudate conoscenze tecniche o di frequen-


tazioni sia pure saltuarie delle Accademie.<br />

7. Nel Ventaglio con cuccuma del ’56 (cm 48 x 49,5, proprietà F. Vaini) è raffigurato<br />

un disegno di soggetto umile (forse vangoghiano), nell’Omaggio a Modigliani<br />

un catalogo aperto su un nudo dell’artista livornese (una mostra era stata<br />

aperta in quegli anni a Milano).<br />

8. Desiderio ad ogni modo culturalmente fondato e pregnante, assai diffuso,<br />

come noto, negli anni Trenta e sfociato dopo la seconda guerra mondiale in una<br />

larga febbre di viaggi. Non tutti, ma un buon numero d’artisti mantovani operanti<br />

in epoca fascista riuscirono a darvi compimento visitando, non appena fu loro<br />

possibile, i grandi musei europei, in una sorta di tour forzatamente ritardato<br />

verso gli idoli della loro ispirazione. G. Perina, ad esempio, mise a punto un programma<br />

calcolato di viaggi, «raggiungendo» finalmente Constable e l’amatissimo<br />

Turner alla Tate Gallery, Monet e Cézanne a Parigi, le cattedrali gotiche, i secessionisti<br />

a Vienna. Altri pittori più fortunati o avventurosi erano stati all’estero<br />

nei primi decenni del Novecento (cfr. su questo punto C. PERINA, op. cit.; R. MAR-<br />

GONARI, Dal Mincio al Naviglio e ritorno, Milano 1983; R. MARGONARI, R. MO-<br />

DESTI, Il Chiarismo lombardo, Milano 1986).<br />

9. Adottiamo d’ora in poi per brevità la dizione V. Pesenti al posto del cognome<br />

completo. Sull’artista si veda AA.VV., Vindizio Nodari Pesenti (1879-1971) (cat.)<br />

Mantova 1979.<br />

10. E. Del Canto ha ricostruito il minimo tour intorno alla città fissando i luoghi<br />

ricorrenti delle «postazioni» vainiane su una mappa dell’epoca (vedi uno degli<br />

allegati alla mostra). Sarebbe interessante porlo a confronto con gli itinerari degli<br />

artisti per rilevare coincidenze e diversità nell’approccio al paesaggio.<br />

11. G. Resmi (1897-1956’) v. C. PERlNA, op. cit., p. 658; A. PINELLI, Ricordo di<br />

Guido Resmi, «Gazzetta di Mantova», 31 luglio 1957.<br />

12. Scomparso a 27 anni nel 1922. Sulle sue anticipazioni dell’atmosfera elegiaca,<br />

si veda, in aggiunta a C. PERINA (op. cit., pp. 657-8) e ai vari richiami di E.<br />

FACCIOLI negli scritti indicati in bibliografia, la sintetica analisi di A. PUERARI (La<br />

Mostra di pittura ottocentesca Mantovana, in E. FACCIOLI, A. PUERARI, Mostra dei<br />

Pittori, Scultori e Incisori Mantovani «800» e «900» (cat.), Mantova 1939, pp. 62-<br />

63); v. anche T. PEDRAZZINI, Luigi Somensari il poeta della nostra palude, «La<br />

Voce di Mantova», 18 aprile 1923, e A. PINELLI, Ricordo di Luigi Somensari, «Gazzetta<br />

di Mantova», 4 novembre 1956.<br />

13. Testa di bimbo all’aperto (n. 25).<br />

14. Si sarebbe tentati di dire Matisse per la straordinaria libertà nel dipingere oggetti<br />

e fiori sul filo delle finestre imbevendoli d’aria e trattandoli nello spirito del<br />

grande ornato. Può darsi che Vaini ne abbia tenuto conto nel ’56 in coincidenza<br />

con le forme svaporate e venezianeggianti dei suoi «ventagli», ma questo luogo<br />

tematico (l’interno che si apre al fuori) si spiega forse semplicemente col richiamo<br />

ai pittori mantovani (per es. Inverno dallo studio, 1920 circa, di G. Guindani,<br />

Museo Civico del Te).<br />

15. G. Marusi (1862-1943) gli era stato maestro alla Scuola d’Arte per un biennio.<br />

A mezzo tra retorica umbertina e reportage folcloristico, le sue tele riecheggiano<br />

il gusto spettacolaristico di fine secolo. Per certi versi, nei quadri ispirati al<br />

Marocco e alla Turchia, egli accosta l’orientalismo di M. Moretti Foggia, per altri<br />

alterna o mescola spunti di realtà (Vita semplice, Impressione dal vero) a motivi<br />

parasimbolisti (Fiori del male).<br />

16. Nel 1911, per iniziativa di A. Bresciani, s’era svolta una «serata futurista» al<br />

Teatro Andreani, con la partecipazione di F.T. Marinetti; nel ’16 è la volta di U.<br />

Boccioni, auspice V. Pesenti (v. U. BOCCIONI, Gli scritti editi e inediti, a cura di Z.<br />

Birolli, Feltrinelli, Milano 1971, p. 387; R. MARGONARI, Cantarelli e Fiozzi: Futurismo<br />

e Dadaismo a Mantova, «Civiltà Mantovana», n. 56-60, a.X, 1976, pp. 354<br />

ss.). Recensendo la mostra del ’16 nel numero di marzo de «Gli Avvenimenti»,<br />

il pittoreteorico del Futurismo, mentre distingue macchietta da impressione a<br />

proposito di Moretti Foggia, rileva nella tastiera impressionistica (che definisce<br />

«impulsiva» per Monfardini, luminescente in V. Pesenti e sintetica per Guindani)<br />

872<br />

l’elemento in comune ai migliori mantovani, tastiera sulla quale invita ad innestare<br />

più decisi risentimenti dinamico-plastici del colore (U. BOCCIONI, op. cit., pp.<br />

399-401). Precisiamo di aver ricavato la prima, approssimativa notizia della partecipazione<br />

di Vaini alla rassegna da C. Zanfrognini (cat.), Mantova 1973, p. 21.<br />

La data ivi indicata è il 1915, ma in realtà si tratta del 1916, visto il contesto evocato<br />

nell’informazione.<br />

17. Vedi sull’argomento gli scritti di M. VALSECCHI e G. MASCHERPA in Aspetti del<br />

naturalismo lombardo da Gola a Morlotti (cat.), Lecco 1975.<br />

18. È il dipinto su cartone Donne che lavano (cm 17 x 22, firmato in basso a destra),<br />

mostratoci da G. Erbesato che l’ha rintracciato presso la Soprintendenza ai<br />

Beni Artistici e Storici, con qualche azzardo riconducibile alla prima epoca. L’opera<br />

è ora esposta al Museo Civico di Palazzo Te.<br />

19. L’indicazione è ribadita tacitamente - come s’è già detto - nell’ultima personale<br />

(’56).<br />

20. V. R. BOSSAGLlA, Il «Novecento» italiano, Feltrinelli, Milano 1979, p. 41.<br />

21. Era vicina di casa del pittore all’ epoca in cui abitò in via Pomponazzo. Di lei<br />

sappiamo soltanto che lavorava in un piccolo tiro a segno e morì di tisi.<br />

22. I disegni rimasti sono pochissimi, qualche ritratto e alcune figure composte<br />

intorno al ’30, seguiti da una manciata di paesaggi della metà del Cinquanta. È<br />

presumibile, vista la sicurezza esecutiva di quelli rimasti (fra tutti il Ritratto della<br />

moglie e le due piccole teste, nn. I, II), che Vaini ne abbia tracciato altri, ma nel<br />

complesso si è trattato di un esercizio secondario anche se autosufficiente (tranne<br />

che per i due studi Donna che lavora e Bimbo convalescente eseguiti in funzione<br />

dei dipinti). Talora sotto gli oli (ad es. Garofani, presso il Museo Civico del<br />

Te) si scorgono tracce a matita, nulla però che attesti la necessità profonda della<br />

linea. Questo perché Vaini organizza l’immagine col colore, un colore che non<br />

«disegna», bensì struttura le superfici a campi larghi e tonalmente risentiti.<br />

23. Almeno due: la Figura di donna condotta per piani leggeri, come una velata<br />

impressione d’interno (v. la riprod. in L. FRACCALINI, <strong>Francesco</strong> Vaini pittore,<br />

«Città di Mantova», Mantova 1967, p. 40) e la già ricordata Testa di bimbo all’aperto,<br />

il cui effusivo cromatismo procede a macchie e fiotti liberi di colore che<br />

negano la premeditazione della posa e l’impianto disegnativo, alla maniera dei<br />

«candidi» lombardi (Del Bon, N. Nodari, eccetera).<br />

24. Questa tavola in specie rinvia a un leitmotiv mantovano del Trenta. Il tema<br />

della ciminiera che emerge dal fondo della vegetazione o del lago ritorna in<br />

molti o quasi tutti i pittori, con caratteri d’impressionismo in Facciotto, Perina,<br />

Zanfrognini, Ruberti ed altri, ma con una variante mentale e fantastica (alla Scipione)<br />

in una delle incisioni di Di Capi che delinea un grande nudo femminile sul<br />

primo piano del paesaggio.<br />

25. 1934 ca., cm 35 x 35, proprietà M. Vaini (n. 35).<br />

26. 1938 ca., cm 40 x 36, proprietà Amministrazione Provinciale (n. 43).<br />

27. Il catalogo è presto fatto e appare significativo perché convoca il «giardino»<br />

semplice, alla portata di tutti. Accanto a rose, tulipani, dalie ed ortensie compaiono<br />

in prevalenza fiori spontanei di campo e di lago (speronelle, loti, papaveri,<br />

anemoni, zinnie, fiori di pesco). Nel repertorio della natura morta la scelta dei<br />

frutti obbedisce allo stesso principio riduttivo e familiare (arance, cetrioli, ciliegie,<br />

fichi, melegrane, pere, mele e nient’altro). Visto che siamo in tema di contenuti,<br />

trascriviamo qui le restanti liste dei soggetti: 1) Figure: adolescente, bimbo,<br />

donna, giovani, lavandaie, ragazza, pescatori, spigolatrici. 2) Vedute generali:<br />

barche, barconi, campo, canneto, capanno, cascinale, chiesa, cortile, fattoria,<br />

fiume, fossato, frutteto, mulino, palude, pioppi, rive, rivo, ruscello, salici, sentiero,<br />

spiaggia, stagno, strada. 3) Luoghi specifici: a) mantovani: «Büs dal gat», Canottieri<br />

Mincio, Cartiera, Cittadella, Fossamana, Fossa Serena, «Isola delle oche»,<br />

Lago di Mezzo, Lunetta, Mulino Giannantoni, Porta Mulina, Porto Catena, San<br />

Giorgio; b) non mantovani: Brenta, Castelrotondo, Garda, Malosco, Molveno, Sirmione,<br />

Val di Funes. 4) Stagioni, eventi atmosferici, momenti del giorno: alba,<br />

autunno, estate, «impressione», «sensazione grigia», «sole d’inverno», nebbia,


gelo, tempo della fioritura, tempo del raccolto, temporale, tramonto, «ultime<br />

luci», vespro.<br />

28. Questa sorta di «apparato festivo» del mondo di casa trova a nostro parere<br />

confronto adeguato con i vasi di ginestre e di garofani dipinti intorno al ’26 da M.<br />

Lomini con un analogo intento irradiante. Molto differente tuttavia il senso, insieme<br />

allo stile d’esecuzione: mentre Vaini insiste sulla festa percettiva del pulviscolo<br />

cromatico, Lomini sviluppa le risorse dell’arabesco e associa all’immagine un<br />

segno amoroso di specie letteraria e mitizzante collocando sotto i fiori un piccolo<br />

nudo di Venere (le opere sono riprodotte in R. MARGONARI, Lomini, Mantova<br />

1978, p. 27; una versione con le rose, non ancora pubblicata, si trova presso l’Amministrazione<br />

Provinciale di Mantova). Si può ipotizzare allora una sorta di risposta<br />

a distanza di Vaini, che riattivando un impianto, lo piega ad esprimere valori<br />

semplici e popolari.<br />

29. Ma non solo esse. Sulla medesima linea Grandi dalie (proprietà M. Vaini) e<br />

altri oli di impostazione più convenzionale.<br />

30. Abbiamo osservato in altra parte del catalogo che il dipinto (n. 45) condivide<br />

il medesimo punto di stazione e l’assetto complessivo delle quinte spaziali del<br />

Porto Catena (esposto nel ’39) di C. Zanfrognini. Vorremmo tuttavia far notare<br />

anche le differenze. Vaini accelera in profondità il campo ottico restringendo lo<br />

specchio d’acqua e perimetrandolo prospetticamente, laddove Zanfrognini fa in<br />

certo modo riposare il primo piano e ne carica la curvatura. Quel che in quest’ultimo<br />

ha la fissità del fondale (il panorama della città), prosegue nella «fuga»<br />

visiva, continuando a insistere sulla linea del cannocchiale. Z. BiroIli mi ha segnalato<br />

a ragione una possibile affinità col vedutismo di discendenza bellottiana.<br />

Il che torna a confortare quanto già E. Faccioli aveva avvertito intorno ai<br />

«neo-settecentismi» del pittore e, in generale, alla sua poetica ossessione dell’aereo.<br />

31. Alludiamo alla tavola (cm 45,5 x 50) di proprietà G.Sabbioni (n. 40).<br />

32. Come Natura morta con ciliegie e mele (n. 54).<br />

33. J. STAROBINSKI, La scoperta della libertà / 1700-1789, Fabbri-Skira, Milano-<br />

Genève 1965, p. 127.<br />

34. Non pare neppure che sussista, per Chardin, una fortuna di qualche rilievo<br />

nella cultura italiana dal Settecento alle avanguardie storiche; basti pensare, per<br />

citare un paio di casi, che il suo nome è del tutto assente in A.M. BRIZIO, Ottocento<br />

e Novecento, Utet, Torino 1962, mentre ha solo due scheletriche citazioni<br />

nella sezione Dal Cinquecento all’Ottocento della Storia dell’arte italiana a più<br />

voci pubblicata da Einaudi (parte Il, vol. II, t. I-II, Torino 1982). Quanto al nostro<br />

secolo, Carrà e De Chirico, dai quali ci si aspetterebbe un richiamo più consistente,<br />

lo nominano solo di sfuggita (v. rispettivamente Tutti gli scritti, a cura di M.<br />

Carrà, Feltrinelli, Milano 1978; Il meccanismo del pensiero - Critica, polemica, autobiografia.<br />

1911-1943, a cura di M. Fagiolo, Einaudi, Torino 1989). Eppure l’interesse<br />

per la sua opera (o quanto meno il suo mito pittorico) è circolato tra le<br />

due guerre e non può trattarsi soltanto di un ghiribizzo mantovano. Non resta allora<br />

che far capo ancora una volta a Morandi, di cui Di Capi e Facciotto erano attenti<br />

a valutare gli orientamenti. La conferma viene infatti immediata da R. Longhi<br />

e F. Arcangeli: «In tema di ricordi e di antenati, può tornare utile e preferenziale,<br />

come vien fuori dalla mia lunga frequentazione di Morandi. Eccola nell’ordine<br />

dei tempi: Giotto, Masaccio, Piero, Bellini, Tiziano, Chardin, Corot, Renoir, Cézanne.<br />

Su questi nomi in prevalenza cadeva il discorso e me ne parlava Morandi<br />

con particolari sempre da conoscitore vero, mai da amatore svagato» (R. LON-<br />

GHI, Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano 1973, p.<br />

1096). «Ripetiamo che Morandi non ha dimenticato le nuove scoperte luminose<br />

e tonali che vanno da Caravaggio agli impressionisti; ne risulta entro l’apparente<br />

modestia dei suoi limiti, l’arte più matura che si possa immaginare. Elaborato e<br />

solenne come un maestro del Rinascimento, sensibile alla luce come un Vermeer,<br />

intonato come un Chardin, essenziale come un contemporaneo: tale si dimostra<br />

Morandi in queste e altre nature morte» (F. ARCANGELI, Dal romanticismo<br />

873<br />

all’informale, voI. I, Einaudi, Torino 1977, p. 265).<br />

35. Rispettivamente i nn. 56.e 57 della mostra e il più tardo olio (s.d., su masonite,<br />

cm 41 x 51, proprietà I. Vaini), che con rammarico abbiamo escluso dalla<br />

mostra per non congestionare lo spazio espositivo.<br />

36. Vedi Impressione (Tramonto), n. 66.<br />

37. Vaini era da poco andato in pensione.<br />

38. Il tema mostra che la disposizione elegiaca, da cui fluisce in ogni caso la cifra<br />

caratterizzante di Vaini, non definisce in maniera monocorde la sua storia artistica.<br />

Anche nel Trenta l’idillio emergeva da certe soluzioni pittoriche, per es. nel<br />

Mattino (n. 37) che ha le tonalità di un pastello e par una rivisitazione di favole<br />

pastorali.<br />

39. I due esposti (nn. 69 e 70) e altri non presenti alla mostra. Tra questi ultimi<br />

va menzionato almeno come precedente il Ventaglio con cuccuma del ’55 (su<br />

cartone, cm 49 x 50, firma e data in basso a destra, proprietà F. Vaini), dove,<br />

come s’è ricordato altrove, compare un disegno d’affezione.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “<strong>Francesco</strong> Vaini. Opere 1917 -<br />

1957”, Casa del Mantegna, Mantova, dicembre 1992-gennaio 1993.


1993<br />

Da Ferruccio Bolognesi<br />

ad Aurelio Nordera<br />

Bestiario. Quaranta disegni<br />

di Ferruccio Bolognesi<br />

Pastelli (1992) e disegni colorati (1993)<br />

Renzo Schirolli<br />

Un “notturno” di Bazzani nei pastelli<br />

di Schirolli<br />

Dipingere per salvare<br />

<strong>Francesco</strong> Ruberti<br />

Il corpo, l’ala, il vento<br />

Aurelio Nordera


Bestiario<br />

(1)<br />

Quaranta disegni di Ferruccio Bolognesi<br />

Ci fosse stato anche un altro titolo per questa mostra, magari<br />

quello più domestico di «circo» o di «giostra», non sarebbe mancata<br />

materia per dire quanto largamente Bolognesi vada raffigurando<br />

in maniera fantastica il mondo degli animali. Svincolato da<br />

intenti moraleggianti, per niente incline a tracciare un solco allegorico<br />

intorno ai regni dell’ombra, il pittore-scenografo non<br />

guarda a un capitolo particolare dell’esistenza, ma al suo insieme:<br />

all’intreccio di parvenze, alla comunanza di cose e di vite,<br />

dove, in una festa bizzarra dell’occhio, si mescolano uomini, bestie<br />

e piante con fisionomie e attitudini scambievoli.<br />

Già l’idea stessa di circo, che tematizzava gli oli e i disegni del<br />

Cinquanta-Sessanta, stava a significare che fin d’allora egli cercava<br />

lo stupore e il gioco nell’ambito della finzione; più esattamente<br />

il piacere d’una recita multipla, capace di gettar luce sugli<br />

amori e le crudeltà, sugli incanti come sui terrori della fantasia.<br />

La libertà del gioco recitativo gli consentiva inoltre di riprendere<br />

le tensioni caratteristiche della fiaba e del racconto popolare, insieme<br />

ai cambiamenti di fisionomia in cui si svela il nascosto di<br />

una forma famigliare, l’animalesco soggiacente all’umano.<br />

Per questo risulta arduo estrarre dal suo lavoro uno zoomorfismo<br />

a tutto tondo, separandolo dagli elementi coi quali s’intreccia.<br />

Solitamente i disegni propongono una situazione d’incastro, da<br />

cui emergono una o più figure composite, qualcosa di variegato<br />

e di ibrido, quasi marionettistico, nel senso di un montaggio di<br />

parti che sfocia nella creazione dell’ eterogeneo e dell’ibrido.<br />

D’altronde cos’è il monstrum se non un aggregato di frammenti?<br />

una somma, una convivenza di cose lontane?<br />

A suo tempo, quasi per istinto, Bolognesi s’era avvicinato alla tradizione<br />

del bestiario fantastico e aveva circoscritto una zona prediletta<br />

(e fino ad oggi inesposta) entro la plastica medievale,<br />

una plastica che ha continuato a indagare nei «fogli di viaggio»,<br />

trovandovi stimoli e magie inarrivabili dal punto di vista segnico.<br />

Se gli si chiede perché insista a tradurre in grafie statue e ornamenti<br />

romanici, la risposta è che soprattutto lì trova «l’insolito»;<br />

che per lui volti, corpi e panneggi sprigionano quella vita miracolosa<br />

della linea che la realtà impedisce d’avere “sottomano”.<br />

Fra archi e pilastri creature d’ogni genere s’affollano in una cate-<br />

876<br />

na continua di passaggi, negano i vuoti e le cesure, respirando<br />

un’aria che tutte le avvolge. Nel Sessanta erano le formelle di S.<br />

Zeno ad attrarlo, più avanti sono il romanico inglese, le cattedrali<br />

di Basilea e Neuchatel; di recente le testimonianze di Losanna<br />

e di Trento, le invenzioni della cerchia matildica, del Maestro di<br />

Artù, di Nicolò e Wiligelmo. Ogni volta l’appunto riprende l’insieme,<br />

la coralità dei segni, talora un particolare tematico o una categoria<br />

stilistica di quel mondo. Oppure un resto, una figura mutila,<br />

un frammento salvato dal naufragio. Traduce in linea modellati<br />

e costrutti tridimensionali. E tuttavia, se la mano fissa, come<br />

a tesaurizzarle, una selva di immagini in una sorta di dizionario<br />

delle forme, è anche necessario aggiungere che l’esercizio di trascrizione<br />

è assolutamente umile, disinteressato. Non serve ad<br />

altro che ad ammirare e conoscere, ad accendere la mente, a rifare<br />

l’occhio nell’ eccezionalità della visione. Il che non significa<br />

che mancheranno riflussi e riaffioramenti nell’opera propria, dove<br />

alcune immagini inevitabilmente finiranno per affacciarsi, ma<br />

non volute, simili a echi involontari, tornati spontaneamente per<br />

affinità di sguardo e di emozione. A segnalarli, anzi, lo stesso artista<br />

potrebbe meravigliarsi e forse respingere il confronto (a ragione,<br />

perché non di copia si tratta), come nel caso delle teste<br />

“inglesi” annotate nel 1984, simili a grottesche, che sarebbe interessante<br />

esporre accanto alle maschere di rame del 1992.<br />

Bolognesi osserva infatti il bestiario religioso come un mondo<br />

dell’oro, un eden tramontato di forme, inconvertibile al ri-uso e<br />

F. Bolognesi, Pluteo, 1991, disegno a china.


da mantenere puro e invisibile nella segretezza dell’esercizio; un<br />

repertorio prezioso che può semmai prestarsi a divagazioni e<br />

reinvestimenti emotivi.<br />

Così gli è capitato che il bestiario abbia fatto sentire la sua voce<br />

suggerendo un sogno, come quello ad occhi aperti davanti ai<br />

leoni del Duomo di Modena durante una funzione religiosa:<br />

F. Bolognesi, Wiligelmo, 1991, disegno a china, cattedrale di Cremona.<br />

877<br />

sogno in cui la terribilità degli stilofori leonini pareva insorgere<br />

contro la piatta esecuzione del culto da parte di prelati insipidi e<br />

immemori dell’antica potenza. Ghignando o minacciando di addentare<br />

ipocriti e imbroglioni, gli animali restano eterni, testimoni<br />

di un altro tempo e sempre carichi di un misterioso sapere.<br />

Mostrano le fauci, ma non di rado sorridono benevoli e im-


F. Bolognesi, Pluteo, 1991, disegno a china, Mosio, chiesa parrocchiale.<br />

F. Bolognesi, Lausanne, 1991, disegno a china.<br />

878<br />

moti allo spettacolo del mondo. Parlante è la loro bellezza formale,<br />

l’inarrivabile perfezione dei capitelli e dei plutei, dei telamoni<br />

e delle protomi, dei grifi e tori simbolici, o, per rinviare ad<br />

uno dei fogli più essenziali, della coppia scolpita su un lato degli<br />

«antipodi», il rapace e la donna dalla lunga treccia.<br />

Accanto a questo bestiario intoccabile, v’è poi quello originale di<br />

Bolognesi proposto a teatro (La «Dafne» di Marco da Gagliano,<br />

messinscena del 1978; l’«Eneide», 1981), a stampa, nelle «carte<br />

bruciate» e in altre occasioni. Qui è il senza-tempo del mito a<br />

fare da nucleo propulsore. Aderendo a testi classici e barocchi,<br />

oppure obbedendo a liberi impulsi inventivi, egli modella metafore<br />

personali di moltiplicazione e metamorfosi. Ingaggia lotte di<br />

demoni ed eroi, trionfi, scontri di forze telluriche e luci apollinee,<br />

manifestando talora una segreta simpatia verso gli sconfitti e i<br />

personaggi dell’ombra. Il serpente Pitone, ad esempio, l’originario<br />

custode di Delfi, il mostro spodestato e assassinato da Apollo,<br />

viene spogliato degli attributi orrifici e nefandi. Drago che si<br />

esibisce in certo modo per pompa, l’«orribil sangue» è in realtà<br />

una vittima del destino. Nei primi bozzetti esso compare raddoppiato,<br />

pieno d’ali, con doppia lingua e quadruplice coda,<br />

come un groppo di fiamme: un’effigie ‘bruciante’, tesa ad atterrire<br />

più che a uccidere, ad annichilire l’avversario con lo sfoggio<br />

spettacolare dei movimenti. La soluzione venne però ammorbidita,<br />

in certo modo spogliata, per seguire gli svolgimenti musicali<br />

del dramma che non richiedeva interpretazioni violente del<br />

meraviglioso.<br />

Per l’«Eneide» il magico degli Inferi e dello stregonico suggerisce<br />

dettagliate silhouettes di dragoni ed esseri alati. L’artista esegue<br />

sequenze di fronte e profilo, ha bisogno di spazio, vuole abitare<br />

il palcoscenico uscendo dalla reticenza della memoria ‘medievale’.<br />

Assomma, conglomera, costruisce la figura come un<br />

totem snodato.<br />

La tela ormai non gli basta ed è un preludio alle cose ultime,<br />

cioé alla conquista della piazza con costrutti monumentali di fili<br />

e di sagome. Come ad annunciare, forse, che anche il bestiario<br />

potrà uscire all’aperto e abitare nelle strade, nella stessa luce<br />

dell’Apollo quotidiano (se esiste).<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Mediaevalia, tradizioni suoni e sapori<br />

dell’epoca medioevale”, Castello Scaligero a Ponti sul Mincio, 20<br />

giugno-4 luglio 1993.


Pastelli (1992) e disegni colorati (1993)<br />

Renzo Schirolli (1)<br />

Il soggetto è il Bazzani in generale e in particolare una delle due<br />

Orazioni di Cristo nell’ orto, la più piccola, cioè il “bozzetto” proprietà<br />

di Augusto Morari, che Schirolli ha visto più volte e di cui<br />

conserva un ricordo molto fresco. Se i pastelli rimandano costantemente<br />

a questo olio, talora, però, accolgono anche memorie<br />

di altre tele, per es. della Madonna col Bambino. Colpisce<br />

in qualche caso la disposizione invertita della coppia Angelo-Cristo,<br />

oltreché di altre immagini, come se le tele bazzaniane tornassero<br />

al rovescio, quasi riflesse da uno specchio laterale. Cosa<br />

che rientra nei procedimenti più vecchi di Schirolli, e rimanda<br />

alla sua passione per le angolarità, le rotazioni, i tagli ortogonali,<br />

eccetera. Quando gli domando quale sia per lui la virtù principale<br />

di Bazzani, mi risponde di essere stato sempre impressionato<br />

dalla molteplicità dei fuochi luminosi, dalle stesure in cui<br />

balenano, ma senza violenza (lo ripete), i lampi del colore, dal<br />

tessuto cangiante e mobilissimo di una pittura che non è mai<br />

materica.<br />

Si tratta di una sensazione riprovata davanti a tante opere, di<br />

S. Maria della Carità, del Duomo o di Palazzo D’Arco, di Borgoforte<br />

o di Revere; un’impressione dettata dalla pittura per se<br />

stessa, indipendentemente dai soggetti. Del resto - aggiunge -<br />

anche il contenuto dell’Orazione nell’orto non gli importa granché<br />

a confronto del nudo fatto pittorico che vi si manifesta. Poiché<br />

ho usato l’aggettivo “elettrico” a proposito del colore di Bazzani,<br />

lo vedo perplesso. La parola deve sembrargli artificiale,<br />

poco aderente al principio della sensibilità. Tiene a precisare che<br />

forse il “suo” Bazzani, quel pittore complessivo che gli rimane in<br />

mente, potrebbe essere solo immaginario e fantastico. Mesi fa,<br />

prima che si ammalasse, quando aveva cominciato a progettare<br />

seriamente un omaggio a Bazzani (se ne parlava da un paio<br />

d’anni), era tornato a fare qualche giro per le chiese. In seguito<br />

mi chiese in prestito il primo volume di Chiara Perina, presumibilmente<br />

per verificare la fondatezza delle sue sensazioni e<br />

avere sottomano il catalogo illustrato. Ora vedo su uno scaffale<br />

anche il secondo libro (Rigore e grazia di G.B.), regalato da Morari.<br />

Le figure di Cristo e dell’Angelo immerse nel paesaggio notturno,<br />

con le stenografie rosate degli abiti, gli argenti delle ali, i<br />

rossi scuri, i marroni quasi neri, i neri, eccetera, hanno costituito<br />

il punto di partenza. Non potendo per il momento affrontare<br />

l’olio e il grande formato, ma non escludendo di trasferirsi in seguito<br />

sulla tela, si è concentrato sui pastelli, ossia su una tecnica<br />

che ha praticato a lungo, specialmente negli ultimi anni, per<br />

esempio nella serie dei Giardini d’inverno.<br />

Sui fogli torna sul medesimo tema e lo varia da lirico. Cambia<br />

R. Schirolli, Luci bazzaniane, 1992, pastello, cm 50x60. R. Schirolli, Cielo azzurro su Cristo e Angelo, 1992, pastello, cm 50x65.<br />

879


anche gli scuri in toni meno intenebrati, introduce azzurri, blu,<br />

ocra chiari; accelera i rosati, accende i verdi, eccetera. Nel programma<br />

a lunga scadenza ha intenzione di risalire da Bazzani a<br />

Fetti, cioè da un pittore settecentesco della luce a uno secentesco<br />

dell’ombra, dato che questi sono per lui i poli di una dialettica<br />

storica che fin dagli anni giovanili lo ha “commosso”.<br />

Nel breve ciclo i colori battono di volta in volta su due versanti<br />

alterni, scuro e chiaro, turchino e rosa. La composizione viene risolta<br />

in maniera scenica, con quinte, scansioni per piani retti e<br />

R. Schirolli, In-quadrato, 1992, pastello, cm 23,5x28.<br />

880<br />

inclinati, secondo la consuetudine dei “Giardini” e ancor prima<br />

dei dipinti neofigurativi del Settanta. Qualche volta l’Angelo è ripensato<br />

come una cometa, un fascio luminoso in caduta e fa ricordare<br />

Licini, ma tutto il ‘paesaggio’ trasale, si rifrange in volumi,<br />

tracciati e tessere colorate.<br />

Di solito l’immagine si sviluppa per espansione dall’alto. Parte da<br />

un centro elevato, si sposta a destra, discende e risale fino a colmare<br />

tutto lo spazio pittorico. Che è modo tipico di Schirolli, solo<br />

che ora, da qualche tempo, si è rovesciato il senso della discesa


R. Schirolli, Ricordando Bazzani, 1992, pastello, cm 56,5x65,5.<br />

che era antiorario.<br />

Nella primavera del ’93 nascono i primi disegni, definiti prima a<br />

matita nera e in seguito con matite colorate. In questo momento<br />

Renzo sta completando il decimo foglio col quale metterà fine<br />

alla sua riflessione su Bazzani. Essendo rinviato l’olio, continuerà<br />

con i pastelli e le matite. Sta pensando a qualcosa di nuovo e di<br />

diverso, che non riguarda, però, Fetti.<br />

881<br />

Nota: I pastelli sono stati composti dopo l’amputazione della gamba e<br />

prima della paresi, nell’estate del 1992. La serie è interrotta dalla malattia<br />

e nella primavera del ’93 Schirolli, che ha la vista malandata e la mano<br />

destra un po’ inceppata, si allena con la sinistra e riprende il soggetto.<br />

(1) Appunti serviti per la stesura de “Un notturno di Bazzani nei pastelli<br />

di Schirolli” (luglio 1993) pubblicato a seguire.


Un “notturno” di Bazzani nei pastelli di Schirolli (1)<br />

Sapevamo della predilezione di Schirolli per il secolo di Tiepolo<br />

e di Watteau, del suo amore per le composizioni di legni e vetri<br />

dipinti, per le garze, le tele stirate e tese come specchi. Certi suoi<br />

delicati costrutti polimaterici, ora minimi e aggraziati come soprammobili,<br />

altre volte distesi fino a occupare una stanza e mai<br />

invadenti, parevano nascere da una sensibilità istintivamente accordata<br />

con il gusto settecentesco dell’iridescente, delle lumino-<br />

R. Schirolli, Ricordo bazziniano, 1992, pastello, cm 20,5x25,5.<br />

882<br />

sità eccitate, vaporose, sfibrate. Un “pittore di ciprie”, lo chiamava<br />

talvolta Gino Baratta, commentando la prossimità delle sue<br />

fantasie ai sensi molecolari e volatili, la levità delle stesure argentate<br />

e perlacee. Non un fare debole, si capisce, ma un modo<br />

originale e vivo d’esprimersi. Perciò non sorprende che oggi, in<br />

un momento anche biograficamente difficile, un riferimento<br />

venga allo scoperto e un nome sia dichiarato. Omaggio a un<br />

maestro ammirato con devozione. In un nuovo ciclo di pastelli è<br />

infatti esplicita, anzi mirata e circoscritta, la memoria della pittu-


R. Schirolli, Una parete rosata e figure, 1992<br />

pastello, cm 50x65.<br />

ra di Giuseppe Bazzani e in particolare di una tela dell’ultima<br />

fase, la più piccola delle Orazioni di Cristo nell’orto, il “bozzetto”<br />

della versione maggiore conservato in una collezione mantovana.<br />

Un notturno in cui la figura di Cristo, visitata dall’angelo,<br />

“assai vicina agli apici drammatici di Magnasco e di Guardi, si<br />

propone - ha scritto Chiara Tellini Perina - come uno ‘strappo<br />

espressionistico’ di panni rosa-ciclamo in un contesto paesaggistico<br />

tormentato”. Al tempo stesso si nota che i pastelli, mentre<br />

continuano a rinviare principalmente a questo olio, accolgono<br />

anche altri ricordi, impressioni da un Bazzani precedente e meno<br />

drammatico, morbide positure e gesti ritagliati dalle tele delle<br />

Madonne col Bambino o di Santi in estasi, come l’angelo trionfante<br />

e dolcissimo, supremamente ambiguo, del S.Tommaso<br />

scrivente conservato al Palazzo Ducale.<br />

Nello svolgimento del tema può mutare la disposizione originaria<br />

delle figure. Ora l’angelo s’affianca a Cristo dal lato opposto<br />

oppure intervengono altri fantasmi, come se le tele bazzaniane<br />

fluissero in un trascolorante spazio mentale in cui l’Orazione può<br />

apparire perfino al rovescio, riflessa in uno specchio, secondo<br />

quel moto di rifrazione continua che il pittore ha sperimentato a<br />

lungo prolungando il sapore di un’immagine nel piacere delle irradiazioni,<br />

delle angolarità rotanti delle linee e dei colori.<br />

Quale sia per Schirolli la qualità principale dell’artista settecente-<br />

883<br />

sco, lo si capisce dall’evocazione di molti fuochi in un unico spazio,<br />

dall’insistenza con cui rimedita l’eccitazione cromatica entro<br />

le linee di contorno, il calore d’una pittura che lampeggia, sì, e<br />

arde, ma senza violenza - come egli stesso tiene a ribadire -, tenendosi<br />

lontana dagli ispessimenti materici e operando in leggerezza.<br />

Tale quantomeno è l’impressione da lui avvertita e riprovata<br />

davanti alle tele, a quelle specialmente amate della<br />

chiesa di S. Maria della Carità e del Duomo, di S. Maurizio e del<br />

Palazzo D’Arco; un’impressione suscitata dalla pittura per se stessa<br />

indipendentemente dai soggetti. Del resto - spiega Schirolli-,<br />

anche il contenuto dell’Orazione nell’orto non è di per sé determinante<br />

dal momento che egli si richiama principalmente a un<br />

puro evento visivo. Forse il “mio” Bazzani - aggiunge- potrebbe<br />

essere soltanto immaginario, riplasmato dalla fantasia. Ma si<br />

deve credergli? del tutto? Nei ‘tradimenti’ e nei giochi della memoria<br />

risuonano infatti accenti consonanti, echi d’una emozione<br />

di somiglianza da parte di un moderno pittore di ‘sensibilità’. Si<br />

vede che il commento prolunga testi realmente esistenti, tele risognate<br />

in allegati che non contrastano e si accumulano ai margini<br />

della lezione pittorica.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “Omaggio a Bazzani. Pastelli<br />

(1993)”, Libreria Galleria “Einaudi”, Mantova, 1-23 aprile 1995.


Dipingere per salvare<br />

<strong>Francesco</strong> Ruberti (1)<br />

“Da tempo ormai sentivo l’esigenza di esprimere quello che provavo quando,<br />

estatico, mi fermavo davanti a uno scorcio del paesaggio o avvertivo il ‘sentimento’<br />

di una stradina di campagna che passava tra vecchie case e svoltava per<br />

fermarsi non si sa dove”.<br />

È Ruberti stesso a rievocare con queste parole ciò che l’indusse a intraprendere,<br />

ormai ventinovenne e senza una specifica preparazione tecnica, la via della<br />

pittura. A quell’epoca (era il 1937), s’intendeva di ben altro che di tele e pennelli.<br />

A parte l’amore per il ciclismo che lo accompagnò per tutta la vita e gli<br />

ispirò in seguito anche dei notevoli momenti pittorici, altre erano le passioni<br />

che allora lo animavano o che venivano coltivate in famiglia: la narrativa, la<br />

musica e particolarmente il teatro lirico (la madre - leggiamo nel suo volu-<br />

F. Ruberti, Fuori è nevicato, 1970, olio su tela, cm 60x50.<br />

884<br />

metto di ricordi - suonava il pianoforte e uno zio<br />

materno fece una discreta carriera come baritono).<br />

A parte un passeggero se pur intenso incontro<br />

con l’arte avuto in adolescenza, nulla faceva<br />

presagire il senso della vocazione esclusiva<br />

che stava per assorbirlo. Perciò sorprende<br />

non poco scoprire fin nelle prime prove, gli oli<br />

del ’37 appunto, tra i quali il ritratto di Cesarina<br />

e alcune nature morte, una certezza di dettato<br />

fantastico difficilmente riscontrabile in un debuttante;<br />

e cogliere, accanto a una simile opzione<br />

dell’anima, una sicura scelta di stile che non<br />

venne certo per caso, accordata com’era sui “primitivi”<br />

e sui “candidi”, anzi giocata intorno a<br />

un’idea apparentemente disarmata di autenticità<br />

cromatica che in seguito dovette sembrargli<br />

perfino pericolosa, poiché, trascurando l’assetto<br />

concettuale dello spazio, lo portava a concentrare<br />

lo sguardo su un fuoco dell’immagine, su uno<br />

scorcio e uno speciale aggruppamento d’oggetti,<br />

e condannava il resto all’insignificanza. Più<br />

delle ragionate impalcature disegnative, in quel<br />

momento contavano infatti i toni e le spinte del<br />

colore in grado di conquistare direttamente la<br />

forma. Come sarà anche dopo, quasi sempre.<br />

Del resto il motivo invocato, il sentimento delle<br />

cose, è di per sé eloquente, alludendo al riverbero<br />

della natura sull’anima, a quel che appartenendo<br />

al visibile, non coincide con l’apparenza<br />

e ne è in certo modo il sogno nell’avvertimento<br />

estatico del riguardante. Emozione tanto<br />

intensa da far pensare, pur nel semplice giro<br />

d’un ricordo, alla consolazione dello spirito provata<br />

da altri artisti davanti al paesaggio. E se in<br />

Ruberti non v’è, per citare un pittore che conosceva,<br />

la vertigine religiosa di un Rosai (“In<br />

quell’attimo, immerso in tanta bellezza, ho creduto”),<br />

ne è tuttavia per qualche aspetto vicino,<br />

per l’attenzione prestata alle quotidianità appartate<br />

e segrete, al farsi “come lontane, leg-


gere, evanescenti” - scriveva Rosai - delle “cose più prossime”,<br />

allorché sembra che si disincarnino nella levità dei colori.<br />

Ma occorre poi precisare che un tale avvertimento del reale maturava<br />

a distanza nella pittura, di rado in presa diretta con la sensazione.<br />

Diversamente dai paesaggisti mantovani del Trenta,<br />

crepuscolari oppure chiaristi, che amavano piantare il cavalletto<br />

in riva ai laghi o sull’ erta d’una collina, egli riprendeva l’impronta<br />

del plein air conservata nella mente.<br />

Rari gli appunti dal vero, i pastelli e i disegni tracciati lontano dallo<br />

studio, talora semplici pro-memoria per un’ispirazione che s’accendeva<br />

nel raccolto silenzio della stanza. Ed è da presumere che così<br />

avvenisse anche con le nature morte e i ritratti, ultimati nell’allentarsi<br />

fisico delle presenze a tutto vantaggio delle idee poetiche.<br />

Ogni dipinto - lo si vede - emerge da un lungo pensiero, da una<br />

decantazione di temi vissuti e immaginari, di ricordi personali ed<br />

extrapersonali, in un fluido intreccio d’elementi dove contano<br />

anche i paralleli e le suggestioni letterarie.<br />

La sua “attitudine nell’affrontare il reale - ha osservato per<br />

tempo E. Faccioli - non fu condizionata dall’osservazione diretta,<br />

dall’immediatezza delle emozioni, bensì dal ricordo, dall’evocazione<br />

dei dati particolari, indotti a convergere nell’unicità della<br />

visione d’assieme”.<br />

Unicità conseguita in prevalenza (e non solo nei primi anni) tramite<br />

la compatta, ferma e quasi plastica frontalità iconografica e l’orchestrazione<br />

del colore intorno a un’armonia tonale. Ma dato che<br />

l’immagine è per lui un concentrato affettivo e in definitiva un<br />

montaggio del cuore, essa non manca d’esibire la sua origine interna<br />

assumendo il carattere dell’illuminazione e del frammento,<br />

oppure legando e combinando in un nuovo organismo momenti e<br />

volti diversi d’uno spazio (Fuori è nevicato, 1970; Lo studio, 1974;<br />

Quadro sul cavalletto, 1976), il già accaduto con l’immediato (Ricordi,<br />

1964). Ora si addensa, raggruma, concentra, altre volte s’allarga<br />

in una fuga, crea delle sequenze e dei passaggi. Una o molteplice,<br />

a seconda che il ‘sogno’ detragga o condensi.<br />

Se per tutto il Quaranta appare vincente il primo moto fantastico, è<br />

a partire da un paesaggio come la Fornace (1951) che la visione<br />

comincia a levitare, s’abbandona all’effusivo, al gusto della tastiera.<br />

Increspa e intenerisce i piani, li mobilita nel curvo. Il colore luminoso<br />

fluttua come un’onda musicale, svolta e ritorna, stempera e<br />

scioglie; trasferito nell’aperto, non pone fine alla riflessione sulla<br />

885<br />

natura morta, ma contribuisce a rinnovarla promuovendo anche<br />

una inedita scenografia degli interni. Favorisce, vogliamo dire, le<br />

somiglianze, le associazioni, gli slittamenti di prospettiva.<br />

Talora accade di incontrare sulla tela più di uno sguardo, delle<br />

battute multiple, un duplice stato di mobilità e di quiete nel<br />

primo piano e sul fondo, nell’alto e nel basso (ma un anticipo era<br />

già in uno splendido episodio del ’48, Il volo dell’anatra sul lago,<br />

dove l’aneddotico aveva assunto risvolti favolosi). Né è da dimenticare<br />

un’ulteriore conseguenza tematica e formale, l’avvio<br />

cioé, a fianco di tante fluide vedute, dei quadri di nudo, un preludio<br />

che darà luogo a dei cicli e dal quale prenderà quota infine<br />

un connubio, un’ultima tappa dell’immaginazione, il mito<br />

dello splendore fluviale associato a un corpo femminile (ecco un<br />

caso di doppia battuta); non una bagnante, si badi, ma un’astante<br />

imbevuta di luce, eternizzata sullo sfondo dell’ acqua e del<br />

cielo (Il Po con la bambina, Ultimo indumento, 1987 e 1988).<br />

Non c’è dubbio allora che il paesaggio ha dato a Ruberti energici<br />

stimoli d’approfondimento, occasioni di svolte e alternative pittoriche.<br />

Per un verso, soprattutto quando sono in campo squarci urbani,<br />

periferie, cortili, teorie di tetti e muri (ma non solo: si veda<br />

Paesaggio del 1944), lo spazio è un frammento concluso di<br />

mondo, un luogo fissato da un’ora immutabile; scrigno di valori<br />

permanenti, fortemente umanizzato e centripeto, tanto che della<br />

boite, della scatola magica (Nevicata del ’45), assume la medesima<br />

fisionomia: serrato da ogni parte, fatto di quinte bloccanti e liricamente<br />

raccolto come un sonetto. Dell’altra maniera, toccata<br />

dalla fluidità, s’è già detto in parte e pare di poter aggiungere che<br />

la comunione con la natura aperta (non più il ‘posto’ appartato,<br />

l’angolo, la ‘stradina di campagna’) ha avuto un ruolo importante<br />

nel suggerirla. Determinanti i silenzi, gli orizzonti attenuati e inafferrabili,<br />

la pianura, la collina, la montagna, il Po.<br />

Lo sguardo si eleva, afferra l’ampio scorrere della vita nel gran<br />

corpo della terra, un vibrare largo e universale di energie colorate.<br />

Si ha l’impressione di una maggiore aderenza ai fenomeni,<br />

ma si tratta di una fenomenicità così universale da richiamare il<br />

permanente, il moto della Vita che ritorna uguale a sé stessa, si<br />

rinnova circolarmente. L’eternità in definitiva della luce.<br />

Collina, pianura, fiume. Ma valgono sempre queste distinzioni<br />

topografiche? Fino a che punto la pittura le mantiene? A un certo<br />

momento le differenze scompaiono e nient’altro rimane visibile,


nell’estrema cerniera dell’orizzonte, che una purificata ed essenziale<br />

partitura di cielo e di terra. Tutto sembra sciogliersi (non<br />

dissolversi né annullarsi) in un unico evento, in una mareggiata<br />

continua, in cui forse soltanto il gran fiume conserva l’antico<br />

volto, per quanto sia anch’esso un mare e le sue anse assomiglino<br />

a golfi. In ogni caso il paesaggio non si svuota; non tocca,<br />

al di là di qualche consonanza guidiana, neppure il metafisico e<br />

l’astratto, perché quello di Ruberti, se pure è un assoluto, resta<br />

mondano, abbarbicato all’ esistere.<br />

Qual era allora l’inconfessata scommessa dell’uomo? Cosa signi-<br />

F. Ruberti, Case di periferia, 1950, olio su tavola, cm 44x54.<br />

886<br />

fica, nel suo caso, spostare le cose sul versante del favoloso,<br />

della durata, di un ‘autentico’ che non decade?<br />

Quando dipinse dei fiori, li mostrò secchi ma non appassiti. Non<br />

smorti, spogli, disfatti. Che era il suo modo di fare dell’elegia, conservando<br />

una fioritura e combattendo contro il tempo. Un senso<br />

della pittura starebbe nell’opporre resistenza al negativo, custodire<br />

il “sentimento” delle apparizioni, tuffare l’immagine nel fuoco del<br />

colore. Non meraviglia che il pittore, così attento al ricordo, ponesse<br />

tra parentesi la corsa di kronos. Era un diritto del fanciullo che<br />

dentro di lui parlava, la sua finzione poetica anche nella vita.


F. Ruberti, Volo d’anatra, 1948, olio su tela, cm 38x48.<br />

Una sola volta, per alcuni anni, ebbe a disperare della durata<br />

delle verità in cui credeva e fu quando, tra Sessanta e Settanta,<br />

pareva che artificio, simulazione e menzogna dovessero invadere<br />

i luoghi fino a quel momento difesi. Divenne allora inquieto,<br />

ironico, sarcastico. E non fu più una favola, nonostante le letture<br />

di Calvino, allorché cartelloni e rottami parvero occultare, se non<br />

cancellare, il respiro della natura (Proposte, 1969), la giovinezza<br />

del mondo; impedire al ricordo di sopravvivere.<br />

887<br />

Fu, come molti scrissero, un momento “critico”, freddo, nutrito<br />

d’analisi, al quale reagì allargando lo spettro del naturale, rifugiandosi<br />

nell’inviolato. Riaprendo lo sguardo sul Po e sulle montagne.<br />

(1) Scritto in occasione della mostra “<strong>Francesco</strong> Ruberti. Paesaggi 1942<br />

– 1990”, Galleria Grotte del Boldini, via Previati 18, Ferrara, 15-30 settembre<br />

1993.


Il corpo, l’ala, il vento<br />

Aurelio Nordera (1)<br />

Una nota del viaggio in Bretagna, scritta a ridosso di un gruppo<br />

di lavori dell’89, contiene un’indicazione che val la pena di sottolineare.<br />

Da parte di Nordera nessun riferimento diretto all’opera<br />

propria, ma il traslato è chiaro: la commozione suscitata dall’arte<br />

preistorica svela le sue stesse, intime ragioni fantastiche.<br />

Ecco l’incipit: "Mi trovai al calar del sole in uno scenario di grosse<br />

pietre conficcate nel terreno per lunghe e svariate file: ero a<br />

Carnac". Quindi la chiusa: "Sdraiato al suolo un senso di sgomento<br />

mi pervase: quei fantasmi radicati al buio della Terra si ergevano<br />

come giganti verso la luce del Cielo capaci di evocare il<br />

profondo senso del mistero". L’ennesima affermazione di primitivismo?<br />

Per niente, la forma qui non c’entra, come non c’entrano<br />

le categorie estetiche. È l’impulso invece da cui nasce la scultura<br />

che interessa, e ciò che essa manifesta. La fattura e il mito.<br />

Si consideri come la materialità dell’opera, quel "conficcar pietre<br />

nel terreno", esploda vertiginosamente in una rivelazione titanica.<br />

Le rocce diventano terribili portatrici di un evento abissale<br />

grazie alla mano che le ha elevate: mano alleata e interpretante,<br />

in grado di comprendere il desiderio della materia e di rovesciarne<br />

il destino con un atto di rifondazione. Lo sguardo coglie<br />

il miraggio astrale presente nelle cose, l’aspirazione di ogni corpo<br />

pesante, e non solo di pietra. Un sogno divino.<br />

Come i romantici tornarono a dire, pezzi di cielo stanno rinchiusi<br />

nella terra e anche i minimi frammenti di roccia custodiscono immagini<br />

da risvegliare. L’artista è colui che ascolta le voci interrate<br />

e raccoglie il muto messaggio dei sassi che considera imbevuti di<br />

segni. Scolpire significa destare tensioni di vita e trasferirle nel<br />

chiaro cavandole dalla stessa morfologia della pietra; e vuol dire<br />

anche, avendo a che fare con materie malleabili, imprimervi motivi<br />

di origine spirituale. Dal basso all’alto e viceversa. Esattamente<br />

quel che fa Nordera nella doppia serie dei marmi e delle terrecotte<br />

(da cui derivano i bronzi), da un lato levigando (dando luce)<br />

e togliendo, da un altro conservando l’aspra potenza dei vuoti pregni<br />

d’ombra e dei nudi spaccati di roccia.<br />

Ma se a Carnac è il volto terrifico della natura a manifestarsi, qui<br />

sono altre le effigi e differenti le peripezie della luce. Di due concetti<br />

della scultura operanti nel nostro tempo, la ‘conservazione<br />

888<br />

dell’immagine umana’ e la ricerca di nuove forme, Nordera persegue<br />

sostanzialmente il primo. Nella sua turbata inchiesta sul<br />

valore di figura, tuttavia, l’immagine pencola, oscilla, quasi si<br />

disfa, alternativamente piena o svuotata. In causa è il tema del<br />

Corpo ascendente, una vicenda di slanci e di cadute che ha di<br />

mira la conciliazione. Nei momenti più alti la figura diventa altro:<br />

suggerita in stato di transito non è più materialmente una figura,<br />

piuttosto una trasfigurazione. Lineamento disindividuato levitante<br />

nello spazio.<br />

Pochi anni fa il tutto tondo era stato dissolto dall’immaginazione<br />

dell’ala, da un soffio che era polivalente metafora del movimento<br />

e dell’anima. Contrassegno della danza e della metamorfosi,<br />

ma anche dello svanimento, della labilità delle cose. Dell’umano<br />

non restavano che vestigia appena riconoscibili, impronte testimoniate<br />

dai panneggi ricaduti a terra, oppure, con prospettiva<br />

A. Nordera, Figura alata, 1987, terracotta, cm 67x38x50.


A. Nordera, Figura nel vento, 1987, disegno, cm 22x22.<br />

rovesciata, effervescenti lacerti turbinanti nell’aria e sembianze<br />

depurate, in certo modo più vere dei corpi reali. Non una radicale<br />

cancellazione, in ogni caso, bensì un’alternanza di ingombri<br />

e voli, articolata in un saliscendi di tappe. Trionfo quasi sempre<br />

di eventi pneumatici, commosso spettacolo di spoglie e di palpiti,<br />

che avrebbe potuto sfociare in una negazione del corpo.<br />

Senonchè il trasfigurare di Nordera ha carattere positivo e anche<br />

nelle punte più estreme salva la memoria del mondo. Per questo<br />

è tornato a battere il suolo, sprigionando altre metafore plastiche<br />

e turbini perfino sensitivi. La fantasia dell’ala si è tramutata<br />

in quella non meno dinamica del vento che avvolge, trascina<br />

e trasforma. Le figure resistendo s’avvitano e gonfiano come<br />

vele. Architetture quasi sempre in cavo, velate e tuttavia potenti,<br />

nascoste e portanti. Irrinunciabile, la bella presenza del<br />

mondo rilancia un tema caro alla nostra immaginazione, dalle<br />

bufere di Blake fino a Boccioni e oltre.<br />

Terrestre o divino, cieca forza elementare ma anche epifania angelica,<br />

il ‘vento’ declina stazioni esistenziali e trasalimenti interiori,<br />

storie di corpi e di anime. Se una Ammantellata dal capo scoperto<br />

svolge un’immagine impressionistica e sensibile (con una<br />

curiosa quanto involontaria somiglianza con Le donne di Hastings<br />

di Füssli), altre plastiche e marmi materializzano uno stato contemplativo<br />

(la Velata, per esempio), oppure una tappa spirituale<br />

889<br />

secondo il simbolismo cristiano del vento. In qualche caso il vento<br />

è assente e il corpo femminile viene rituffato in un mito d’origine,<br />

ridiventa pesante e primordiale, un’Eva partorita dalla pietra.<br />

Così si disegna un percorso al cui vertice traspaiono sembianti<br />

lievi come tracce di veronica; una peripezia che si sviluppa per<br />

lo più nel decorso di momenti isolati e auto sufficienti, ma resta<br />

comunque aperta agli sviluppi scenici avviati nell’89. Non solo<br />

per l’assunzione di una fabula adeguata, ma per la rilettura in<br />

termini stilistici di alcune "sacre rappresentazioni" quattro-cinquecentesche<br />

e in particolare dell’opera di Antonio Begarelli,<br />

ben noto all’artista fin dagli anni della formazione modenese,<br />

con la coscienza moderna di non poterne comunque riprendere<br />

lo spettacolo totale se non per scheggiati momenti d’azione.<br />

Un’avventura dunque del corpo in frammenti in un frantumato,<br />

intimo e antimonumentale racconto di resistenze e di elevazioni,<br />

che la potenza simbolica del ‘vento’ ritesse come mistero.<br />

(1) Foglio-manifesto per la mostra tenutasi alla Sala Novanta di Palazzo<br />

Ducale, a Mantova, nel 1993 e riproposto nel catalogo “Aurelio Nordera<br />

(1960 – 1995)”, in occasione della mostra tenutasi a Goito, dal 29<br />

giugno al 16 luglio 1995. Ripreso poi nel 1997, con l’aggiunta di una<br />

breve notazione biografica, in occasione della mostra “Motivi di scultura<br />

mantovana del ‘900”, tenutasi a Palazzo Te, a Mantova, dal 16 maggio<br />

al 10 agosto 1997.


1994<br />

Da Giuseppe Lucchini<br />

a Pittura a Mantova nei primi<br />

cinquant’anni del Novecento<br />

Campi di grano, acque<br />

e fantasie moderne<br />

Giuseppe Lucchini<br />

Paesaggio addio.<br />

Riflessioni sulla rassegna di Gonzaga<br />

Il colore come pneuma<br />

Claudio Olivieri<br />

Amalassunta, la luna di Melisso<br />

Osvaldo Licini<br />

Dalle colline mantovane alle acque<br />

del Garda<br />

“Della mano”<br />

Lucia Pescador<br />

Pittura a Mantova<br />

nei primi cinquant’anni del Novecento


Campi di grano, acque e fantasie moderne<br />

Giuseppe Lucchini (1)<br />

1. A Monza pensando alla Calliera<br />

Risale al 1924, quando Lucchini aveva diciassette anni, una tela dedicata alla Corte<br />

Calliera con l’aia e il cancello in primo piano sullo sfondo delle case contadine,<br />

un’icona che si rivela centrale nella geografia poetica dell’artista. In ogni caso il primo<br />

olio documentato. Tranne un disegno a penna su un analogo soggetto (Pozzo in comune)<br />

dell’anno precedente, per altro testimoniato solo in fotografia, non resta infatti<br />

alcun altro documento degli inizi dell’artista, che pure da tempo e in età assai<br />

precoce aveva dato ascolto alla sua vocazione figurativa1 : un silenzio, una cancellazione<br />

delle tracce evidentemente calcolati per far posto al vero incipit. Avendo a che<br />

G. Lucchini, Bambina che mangia la mela, 1942, matita, cm 18x14.<br />

892<br />

fare con un autore che ha il culto delle memorie<br />

personali, assai restio a lasciar perdere<br />

quel che appartiene alle radici, non è difficile<br />

tuttavia indovinarne la ragione, anche<br />

in rapporto alle convinzioni maturate in quegli<br />

anni all’Istituto Superiore delle Industrie<br />

Artistiche di Monza2 , dove il giovane mantovano<br />

s’era iscritto e che assiduamente frequentava<br />

fin dal momento della fondazione.<br />

A deciderlo nel far piazza pulita dovettero<br />

contare soprattutto l’educazione dell’occhio e<br />

della mano, il severo, sistematico collaudo di<br />

immagini, spazi e procedimenti tecnici, cui<br />

veniva educato; un veder nuovo impiantato<br />

sull’antico, aggiornato sulle ricerche recenti,<br />

anzi in atto3 , e che, a differenza di altre<br />

esperienze contemporanee, maturava in un<br />

ambiente non tormentato da polemiche interne,<br />

da espulsioni e violente correzioni di<br />

rotta4 . Un clima fatto per le convivenze e i<br />

prestiti; in grado anche di riattivare l’idea<br />

della collettività artistica favorendo lo scambio<br />

dei saperi disciplinari tramite incontri, effervescenze<br />

festive, allestimenti d’oggetti,<br />

costumi, spettacoli ed esposizioni, come si<br />

constata (e Lucchini ne è un esempio) dai<br />

cataloghi delle mostre annuali dell’Istituto,<br />

dai frequenti saggi di decorazione muraria e<br />

di messinscena5 .<br />

La lezione dei maestri, di Reina, Martini, Semeghini<br />

o De Grada, per citare solo qualche<br />

nome, ebbe un effetto decisivo, anzi risolutore<br />

in più di un senso, a cominciare dal rilievo<br />

assegnato alla materialità dell’opera.<br />

Facendo precipitare l’idea dell’immagine<br />

nella fattura, l’artista interroga processi e<br />

strumenti, che talora costruisce egli stesso<br />

per accordarli alle esigenze dell’ispirazione6 .<br />

Da allora Lucchini non ha mai deviato da una<br />

premessa così consanguinea al suo ingegno


fabbrile. Ha continuato a riflettere sul ‘corpo’<br />

dell’opera; cercato, adattato e comunicato tecniche,<br />

spesso sovrintendendo al destino dell’oggetto<br />

pittorico, orientandone la lettura con<br />

le traduzioni grafiche e provvedendo, quand’era<br />

necessario, al restauro e alla conservazione8<br />

.<br />

Va poi tenuto conto dell’attesa nei confronti del<br />

nuovo. E se in alcune stagioni la predilezione figurativa<br />

s’intreccia problematicamente con<br />

l’avanguardismo sperimentale, si tratta certo di<br />

duplicità, ma non di contraddizione, anzi d’una<br />

‘apertura’ - val la pena di annotarlo - appoggiata<br />

dai maestri e condivisa da una coralità di<br />

giovani, visto che molti di loro, orbitanti intorno<br />

a Milano (e non solo lì, come noto) intraprendono<br />

percorsi bifronti.<br />

Una duplicità che non è cedimento, bensì<br />

esperienza, posizione non radicalizzata, come<br />

vien da dire, stando alle sole vicende mantovane,<br />

a proposito di E. Pittigliani, F. Scaini e A.<br />

Bergonzoni. Quanto a Lucchini, il doppio registro<br />

di cui farà sfoggio approdando a Milano,<br />

appare ragionato dentro il ‘genere’ in cui s’è<br />

formato, la decorazione, che può combinare il<br />

geometrismo più arduo con la verosimiglianza<br />

rappresentativa: nesso sul quale l’artista è tornato<br />

di recente, aggiungendovi una motivazione<br />

di portata più generale, una sorta di purovisibilismo<br />

astratto come obiettivo del dipingere:<br />

“Dopo le esperienze figurative e anche decorative<br />

- ha dichiarato - esiste come una necessità<br />

di riassumere queste cose nell’astrattismo,<br />

che è sintesi di quello che dovrebbe essere il<br />

figurativo” 9 .<br />

Fatta questa premessa e anticipando nel contempo<br />

che di astrattismo in senso stretto,<br />

come d’informale o d’altro, non converrà parlare<br />

(poichè simili istanze - a differenza di un Pittigliani<br />

- restano soprattutto indicative), dove<br />

G. Lucchini, Casa agricola in riva al Mincio, 1940, matita su carta, cm 14x18.<br />

pulsa per ora il nucleo istintivo della sua pittura? Proviamo a interpellare Corte<br />

Calliera.<br />

Dipinta nei modi della ‘bottega’, con colori macinati, cercati e voluti nella prosciugata<br />

povertà degli impasti, orchestrata sui verdi e bruni delle terre, la tela raffigura<br />

al tempo stesso un interno e un esterno. Il luogo è dato in presa frontale,<br />

circoscritto e tuttavia allusivo di una realtà più ampia.<br />

Si vede fin d’ora che l’intérieur come spazio della separatezza e rifugio intimistico<br />

non interessa, tanto da farci escludere che la casa possa appartenere alle fantasie<br />

del chiuso. Ci si convince invece che lo sguardo avvicina le cose con pudore,<br />

lascia parlare il visibile, ciò che si può nominare, i volti e le figure manifeste.<br />

C’è fin troppo mistero nell’apparire, anzi è questo il primo mistero da sondare. Da<br />

lì i motivi cruciali del muro, della facciata, della parete; e, non meno essenziale,<br />

il loro rapporto col fuori, con la Terra. Un modo insomma di dare il paesaggio scavandovi<br />

nicchie e universi appartati, come diventerà evidente negli andirivieni<br />

lungo le rive del Mincio, nei campi e sulle colline.<br />

Lucchini - s’è detto in altra occasione - ha un colpo d’occhio definitivo e lavora di<br />

conseguenza. Fissata un’immagine, continua a ribadirla e filtrarla. Comporla nell’esecuzione<br />

significa pesarne la durata. Dal ’24 ai primi del Trenta all’incirca, se non<br />

più tardi, quando avverrà la svolta nel fluido, la pittura è in gran parte tesa ad afferrare<br />

questo dato. Il tempo, si direbbe, viene arrestato per dare la cosa. Si osser-<br />

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G. Lucchini, Corte Calliera, 1924, olio su tela, cm 40x50.<br />

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