VeneziaMusicaedintorni 51 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia
VeneziaMusicaedintorni 51 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia
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La banda di Shanghai, 2010<br />
(foto di Mariano Beltrame).
2<br />
Anno X - marzo / aprile 2013 - n. <strong>51</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
In copertina: Il caso Makropulos di Leóš Janáček<br />
secondo Robert Carsen<br />
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).<br />
Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione<br />
di Giorgio Mastinu, Maria Rita Cerilli, Alexia Boro,<br />
Camilla Mozzato, Erika Bonelli, Adriana Vianello,<br />
Andrea De Marchi, Livia Sartori, Elena Casadoro,<br />
Elena Tosi, Andrea Benesso<br />
<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni<br />
Anno x – n. <strong>51</strong> – marzo / aprile 2013<br />
testata in corso di nuova registrazione<br />
Direttore editoriale: Giuliano Segre<br />
Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano<br />
Direttore responsabile: Leonardo Mello<br />
Caporedattore: Ilaria Pellanda<br />
Art director: Luca Colferai<br />
Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,<br />
Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,<br />
Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti<br />
<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni<br />
è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004<br />
Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),<br />
Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis,<br />
Ignazio Musu, Giampaolo Vianello<br />
Stampa: Tipografia Crivellari 1918<br />
Via Trieste 1, Silea (Tv)<br />
Tiratura: 3000 copie
6 La storia continua<br />
di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre<br />
7 Editoriale<br />
di Leonardo Mello<br />
8 Arriva sempre il momento in cui anche una bella donna<br />
deve confessare la sua età…<br />
di Franco Pulcini<br />
10 Karel Čapek, ovvero: sui rimedi alla stupidità umana<br />
di Massimo Tria<br />
12 Ferro dirige il «Caso Makropulos»<br />
a cura di Mirko Schipilliti<br />
14 Janáček secondo Robert Carsen<br />
a cura di Vitale Fano<br />
16 La dolcezza della morte<br />
di Mario Messinis<br />
18 «La cambiale di matrimonio» vista da Enzo Dara<br />
Continua il progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran»<br />
a cura di Arianna Silvestrini<br />
19 Stefano Montanari sul podio per Rossini<br />
a cura di Vitale Fano<br />
21 Un 2013 ricco di eventi per l’Associazione Richard Wagner <strong>Venezia</strong><br />
di Leonardo Mello<br />
22 Wagner e i suoi soggiorni in Italia<br />
di Renzo Cresti<br />
27 Beethoven con il quartetto Belcea<br />
di Mario Messinis<br />
28 Claudio Scimone dirige l’Orchestra della Fenice<br />
a cura di Andrea Oddone Martin<br />
30 Gabriele Ferro: da Janáček a Stravinskij<br />
a cura di Mirko Schipilliti<br />
31 Mikhail Pletnëv e la Kremerata Baltica alla Fenice<br />
Continua la stagione della Società <strong>Venezia</strong>na di Concerti<br />
di Ilaria Pellanda<br />
32 Conversazioni angeliche: il femminismo tra sacro<br />
e inconscio nella musica del xviii secolo<br />
Due concerti degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
di Paolo Cattelan<br />
34 La nuova stagione dell’Agimus di <strong>Venezia</strong> tra musica e filosofia<br />
di Ilaria Pellanda<br />
35 Concerto con musiche di Leone Sinigaglia<br />
di Annalisa Lo Piccolo<br />
focus on<br />
opera<br />
classica<br />
contemporanea<br />
8-17<br />
«Il caso Makropulos»<br />
di Janáček/ Čapek:<br />
ne parlano, tra gli altri,<br />
Franco Pulcini,<br />
Robert Carsen<br />
e Gabriele Ferro<br />
27<br />
22-26<br />
32<br />
sommario 3
4<br />
sommario<br />
36 I primi vent’anni dell’Archivio Luigi Nono di <strong>Venezia</strong><br />
a cura di Letizia Michielon<br />
38 Luigi Nono<br />
di Veniero Rizzardi<br />
40 Sulla Biennale Musica<br />
Una lettera<br />
di Luigi Abbate<br />
42 Francesco De Gregori: storie senza fine<br />
Il cantautore romano presenta «Sulla strada»<br />
di John Vignola<br />
43 Sinead O’Connor sbarca in Fenice<br />
di Giuliano Gargano<br />
44 Un «Fantasma» per esorcizzare i propri demoni<br />
I Baustelle in concerto a Padova<br />
di Gianni Sibilla<br />
45 Gli anni ottanta dei Litfiba rivivono in concerto<br />
di Guido Michelone<br />
46 In un disco di cover ecco le radici rock di Anastacia<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
47 Max Gazzè canta «Sotto casa»<br />
di Guido Michelone<br />
49 Al Fondamenta Nuove tre inediti concerti<br />
di Ilaria Pellanda<br />
50 Se tu prenderai marito<br />
Cantare al femminile<br />
di Gualtiero Bertelli<br />
52 Il corpo sonoro di Ravenna<br />
Nasce il progetto «Buco bianco»<br />
di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio<br />
53 Roberto Herlitzka e il genio di Glenn Gould<br />
«Il soccombente» di Bernhard approda al Goldoni<br />
a cura di Ilaria Pellanda<br />
54 A voce alta<br />
Sul «Soccombente» di Thomas Bernhard<br />
di Eugenio Bernardi<br />
56 Le verità si scontrano nell’«Orazio» di Heiner Müller<br />
di Peter Kammerer<br />
58 Lo splendido «Panico» di Luca Ronconi<br />
E ancora Spregelburd con «Todo» di Alessio Nardin<br />
di Leonardo Mello<br />
l’altra musica<br />
prosa<br />
36-39<br />
I vent’anni dell’Archivio<br />
Luigi Nono<br />
44<br />
50-<strong>51</strong><br />
53-55<br />
Al Goldoni<br />
«Il soccombente»<br />
di Bernhard
59 I premi Ubu: proposte di modifica<br />
di Oliviero Ponte Di Pino<br />
prosa – commenti<br />
62 «Postwar. Protagonisti italiani» secondo Luca Massimo Barbero<br />
di Ilaria Pellanda<br />
63 Tiepolo torna a Villa Manin<br />
di Eva Rico<br />
64 La parola a Gianni Berengo Gardin<br />
di Denis Curti<br />
66 Fondazione Levi: dieci anni di concerti per le Sacre Ceneri<br />
di Giorgio Busetto<br />
68 Il provetto stregone<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia (6)<br />
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini<br />
69 Mario Bortolotto organizzatore musicale<br />
di Ennio Speranza<br />
73 Le recensioni<br />
di Giuseppina La Face Bianconi<br />
74 «Forma divina», gli scritti di Fedele d’Amico<br />
di Jacopo Pellegrini<br />
77 L’opera dei libertini<br />
di Lorenzo Bianconi<br />
78 Il Wagner colossale di Quirino Principe<br />
di Leonardo Mello<br />
79 Una bambina, la sua guerra<br />
di Leonardo Mello<br />
79 Relazioni e osmosi tra cinema e teatro<br />
di Leonardo Mello<br />
arte<br />
fotografia<br />
in vetrina<br />
in vetrina – Mario Bortolotto<br />
carta canta – libri<br />
63<br />
Giambattista Tiepolo<br />
ritorna a Villa Manin<br />
64-65<br />
In mostra<br />
la fotografia/documento<br />
di Gianni Berengo Gardin<br />
77<br />
66-67<br />
Lorenzo Bianconi racconta<br />
«L’opera dei libertini»<br />
sommario 5
6<br />
La storia continua<br />
di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre<br />
Dopo aver oltrepassato l’importante traguardo<br />
delle cinquanta uscite, con il numero <strong>51</strong><br />
<strong>Venezia</strong>Musica e dintorni conclude in un certo<br />
senso il suo primo ciclo di attività, dopo nove anni<br />
di ininterrotta e vigile presenza negli ambienti culturali<br />
cittadini e regionali. Con la cessione, da parte della Fondazione<br />
di <strong>Venezia</strong>, della sua società strumentale <strong>Euterpe</strong> <strong>Venezia</strong><br />
alla Fondazione Teatro La Fenice anche la rivista infatti<br />
entra a far parte dei progetti editoriali del Teatro. Questo<br />
però non comporta affatto una sua diminuzione, quanto<br />
invece una crescita della sua importanza come strumento<br />
efficace e ormai universalmente riconosciuto di informazione<br />
e approfondimento, rivolto ai moltissimi appassionati di<br />
quella che da qualche tempo viene definita «arte dal vivo»,<br />
intendendo con questa espressione il variegato mondo dello<br />
spettacolo, a cominciare ovviamente dalla musica in tutte le<br />
sue sfaccettature e proseguendo per i limitrofi settori del teatro,<br />
della danza e di tutto quanto prevede la compresenza di<br />
un attore e di (almeno) uno spettatore.<br />
In questo senso la pubblicazione, nelle sue prossime uscite,<br />
continuerà nella sua indagine capillare, anche se in parte verrà<br />
rimodulata per rispondere ancora maggiormente alle esigenze<br />
comunicative del Teatro che la edita. Esigenze che come<br />
è ovvio non si limitano all’esame dettagliato del suo cartellone<br />
e di tutte le iniziative che vi si riferiscono (e che sin<br />
dalla nascita, del resto, <strong>Venezia</strong>Musica e dintorni ha sempre<br />
«coperto» giornalisticamente) ma investono invece a largo<br />
raggio le attività musicali e più estesamente culturali dell’intera<br />
città metropolitana, di cui la Fenice e la Fondazione di<br />
<strong>Venezia</strong> intendono essere interlocutori attenti e privilegiati.<br />
La rivista dunque, come annunciato inequivocabilmente<br />
nei festeggiamenti per il numero 50, continua il suo percorso,<br />
anche se potrebbe cambiare la sua periodicità e in parte<br />
anche il suo profilo «estetico», adeguandola in termini<br />
d’immagine, e anche economici, alla situazione contemporanea.<br />
Ma al di là delle piccole trasformazioni che la toccheranno<br />
resta salda l’impostazione risultata vincente nel corso<br />
di quasi un decennio, che ha nell’attenzione al territorio<br />
uno dei suoi fondamenti essenziali. E in linea con il passaggio<br />
al Teatro La Fenice, arricchendo la già folta produzione<br />
editoriale di questa istituzione, sarà anche uno degli ingranaggi<br />
fondamentali della collaborazione tra le due Fondazioni,<br />
collaborazione da sempre molto attiva e ancora più stretta<br />
e concreta ora, quando l’orizzonte metropolitano della città<br />
lagunare sta finalmente divenendo realtà.<br />
È doveroso, prima di concludere, ringraziare i moltissimi<br />
collaboratori, provenienti dal mondo accademico e della critica<br />
militante, che in questi lunghi anni hanno decretato il<br />
successo della testata, dandole – anche attraverso i molti dossier<br />
corali sulle questioni più urgenti e spinose relative alla<br />
musica, al teatro e all’arte dal vivo in generale – una visibilità<br />
e una notorietà che travalicano i confini locali. Ci auguriamo<br />
di cuore che tutti continuino a supportare, con il loro<br />
prezioso contributo intellettuale, il proseguimento di questa<br />
avventura. ◼<br />
A sinistra, la Fondazione di <strong>Venezia</strong>.<br />
A destra , il Teatro La Fenice.
Editoriale<br />
di Leonardo Mello<br />
Come avrete letto nella pagina a fianco, e come<br />
già annunciato nel numero 50, la nostra rivista<br />
sta vivendo una fase di ristrutturazione, conseguente<br />
al passaggio in forze della stessa al Teatro<br />
La Fenice. Dopo nove anni sotto le insegne di <strong>Euterpe</strong><br />
<strong>Venezia</strong> la testata dunque cambia ora editore, entrando<br />
a far parte della frastagliata attività pubblicistica della<br />
Fondazione lirica cittadina, che del resto è stata<br />
sin dalle origini il nostro principale e irrinunciabile<br />
referente.<br />
È evidente, in questo contesto, che alcune trasformazioni<br />
saranno inevitabili, coinvolgendo<br />
sia la periodicità che, in parte, la linea culturale<br />
sin qui seguita e costruita nel corso del tempo,<br />
sulla base delle esigenze e delle volontà che<br />
la Fondazione di <strong>Venezia</strong>, attraverso la sua società<br />
strumentale <strong>Euterpe</strong>, ci aveva chiesto di<br />
interpretare al momento della nascita del bimestrale,<br />
nel novembre del 2004.<br />
Viene quindi spontaneo, in questo momento<br />
di passaggio, esprimere un ringraziamento<br />
retrospettivo all’istituzione che ci ha permesso, in<br />
questo lungo percorso, di muoverci in grande autonomia<br />
e indipendenza nel cercare di analizzare,<br />
sviscerare e in parte anche prevenire –<br />
per così dire – le tendenze che caratterizzano<br />
l’arte dal vivo nelle sue<br />
infinite possibili declinazioni.<br />
Nel continuo e costante<br />
esame dei cartelloni,<br />
nella disamina dei<br />
cosiddetti even-<br />
ti, nell’individuazione di filoni tematici, abbiamo tentato<br />
di sviluppare dei fili, di comprendere (e comunicare) delle<br />
intersezioni, di dare impulso, pur essendo uno strumento<br />
«territoriale», a inedite e a volte imprevedibili connessioni.<br />
Il lavoro di redazione, suddiviso tra ideazione e coordinamento,<br />
ha sempre avuto come orizzonte progettuale la mescolanza<br />
e il meticciato, due concetti che – a nostro parere –<br />
si inseriscono perfettamente nell’immagine dello spettatore<br />
(ma anche dell’artista) contemporaneo.<br />
I settori legati alla «performatività»,<br />
che hanno avuto una fioritura inesausta<br />
e conflittuale durante tutto<br />
il xx secolo e continuano a<br />
essere indicatori preziosi della<br />
realtà nel suo incessante mutamento<br />
– assecondato anche<br />
dalla corsa sfrenata al ricambio<br />
propria della tecnologia – puntano,<br />
per la loro stessa essenza<br />
di arti composite e miste, a sviluppare<br />
e favorire la commistione<br />
e la tessitura, intesa quest’ultima<br />
nella sua più stretta valenza<br />
etimologica. E questo processo, pur<br />
talvolta ostacolato dalle impostazioni<br />
legislative e dalle burocrazie, sempre<br />
arretrate rispetto alla fluidità dell’esistente,<br />
ci sembra senza possibilità di ritorno.<br />
Nel documento singolo, nel dossier<br />
articolato o nell’inchiesta corale,<br />
grazie al sostegno di un’insperatamente<br />
ampia e generosa<br />
rete di collaborazioni, abbiamo<br />
sempre perseguito – ora in<br />
termini «scientifici», ora sotto<br />
l’aspetto formativo e divulgativo<br />
– l’obiettivo di essere, più che<br />
una vetrina estetizzante del reale,<br />
una piattaforma aperta alla<br />
discussione e alla verifica progressiva.<br />
Del resto a un approccio<br />
del genere <strong>Venezia</strong>, sia per il<br />
suo fertile retroterra storico (qui<br />
nasce il melodramma, qui si riforma<br />
il teatro comico, qui l’idea<br />
moderna di fruizione scenica<br />
acquista il suo primato nella<br />
moltiplicazione e sovrapposizione<br />
dell’offerta), sia per il suo<br />
attuale assetto metropolitano è<br />
il terreno di coltura ideale.<br />
Tutto questo portiamo ora in<br />
dote e mettiamo a disposizione<br />
dei nostri nuovi committenti,<br />
mantenendo un legame profondo<br />
con la Fondazione di <strong>Venezia</strong><br />
e le sue molteplici attività<br />
e considerando ovviamente la<br />
Fenice, principale centro propulsore<br />
della cultura cittadina,<br />
come nostro naturale porto<br />
d’arrivo. ◼<br />
Pina Bausch<br />
(foto di Wilfried Krüger-pina-bausch.de).<br />
7
8<br />
focus on<br />
Arriva sempre<br />
il momento<br />
in cui anche<br />
una bella donna<br />
deve confessare<br />
la sua età…<br />
di Franco Pulcini<br />
Makropulos, opera rappresentata nel<br />
1926, è il penultimo titolo di Leoš Janáček, e quello<br />
in cui il compositore cèco ha più radicalmente<br />
L’affare<br />
applicato i suoi studi sulle «melodie parlate». È<br />
pezzo di teatro musicale dalla vocalità saettante che accende<br />
una partitura rapidissima, in cui non è per niente facile cogliere<br />
tutti gli «indizi» di<br />
cui è disseminata. La ben<br />
congegnata trama ha infatti<br />
gli ingredienti del giallo<br />
macabro, del poliziesco<br />
fantastico, della causa ereditaria<br />
e del racconto alchemico:<br />
quanto di meno<br />
operistico ci possiamo immaginare;<br />
un capolavoro<br />
originale e un’opera fra le<br />
meno eseguite e più affascinanti<br />
dell’autore.<br />
Il titolo originale della<br />
commedia di Karel Čapek,<br />
da cui il musicista ha tratto<br />
il libretto tagliando semplicemente<br />
il testo in prosa,<br />
è Věc (pronuncia: viez)<br />
Makropùlos. Věc in ceco<br />
significa «cosa». E quando<br />
nel terzo atto si parla<br />
del «Věc Makropùlos»,<br />
ci si riferisce a un preciso<br />
oggetto: la busta gialla in<br />
cui è contenuta la formula<br />
dell’elisir di lunga vita,<br />
l’innominabile «cosa» segreta<br />
ideata dal dottor Hieronymus<br />
Makropulos, greco<br />
di Creta, medico personale<br />
dell’imperatore Rodolfo<br />
II alla fine del Cinquecento,<br />
nella Praga incapricciata<br />
di magia.<br />
La protagonista è Elina<br />
Makropulos, figlia dello<br />
sperimentatore, che nel 1922 ritorna trecentotrentasettenne<br />
in quella Praga dove aveva avuto inizio la sua lunga avventura<br />
esistenziale. Ora si chiama Emilia Marty, ma nei secoli è stata<br />
la spagnola Eugenia Montez, la russa Ekaterina Myškin,<br />
la scozzese Ellian MacGregor, la tedesca Elsa Müller – unico<br />
legame con il passato le iniziali, E. M.; la Marty è ancora<br />
una donna sofisticata e bellissima, che dimostra una trentina<br />
d’anni, anche se a guardarla bene porta con sé l’inquietante<br />
aspetto fisico di una vecchia ringiovanita. È una dark<br />
lady dal passato bollente, una ricca e celebre cantante lirica,<br />
una primadonna dal temperamento accentratore e autoritario,<br />
un misto fra Maria Callas e Marlene Dietrich. Giunge a<br />
Praga per cantare, ma anche per ritrovare la formula smarrita<br />
dell’elisir bevuto un tempo, e che sta ormai perdendo il<br />
suo effetto: certi suoi atteggiamenti isterici sono da assimilare<br />
ai comportamenti dei tossicodipendenti in carenza, alla<br />
spasmodica ricerca di una nuova dose.<br />
La malía ipnotizzatrice e l’innaturalezza orrida del magnetico<br />
e mostruoso personaggio viene esercitata in luoghi pubblici<br />
– uno studio legale, il retroscena di un teatro, la stanza<br />
di un albergo – in cui si consuma una certa villana sbrigatività<br />
di rapporti. E l’opera è quasi interamente costituita di<br />
dialoghi in cui i personaggi si parlano spesso addosso. Tuttavia,<br />
al di là delle parole, la musica dissemina insinuazioni,<br />
cenni, sfumature, allusioni, grazie alle quali si svela lentamente<br />
il segreto della donna. Nello stridulo spezzone di vita<br />
moderna, fanno inaspettatamente capolino brividi metafisici<br />
e fascinazioni di un passato oscuro. La musica e il canto<br />
funzionano, a livello percettivo, proprio con gli ingredienti<br />
di un «giallo»: accenni, involontarie allusioni, interrogati-<br />
vi, dubbi, silenzi, perplessità, dialoghi interrotti, riflessioni,<br />
riemersioni e, alla fine, rivelazioni choc. Un piccolo ricciolo<br />
melodico, una quasi impercettibile curvatura del canto possono<br />
comunicare, in questo saggio della psicologica vocalità<br />
janáčekiana, imbarazzo, stupore, indifferenza, angoscia.<br />
In un ambiente freddo e nichilista, dominato dagli imperiosi<br />
sbalzi vocali della Marty, o dai flessuosi e semiparlati rac-<br />
Il caso Makropulos secondo Robert Carsen<br />
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).
conti giuridici di Kolenatý, che possiede l’inespressività della<br />
carta bollata, fanno riscontro gli accenti disperati di Prus,<br />
appresa la morte del figlio, la tenera sensualità della fanciulla<br />
Kristina (immagine della femminilità allo stato nascente,<br />
anziché deteriorato) o i nostalgici lamenti amorosi di Hauk-<br />
Šendorf. Di quest’ultimo la musica mima in modo straordinario<br />
la decadenza fisico-psichica senile, il disturbo mentale<br />
e la straordinaria emotività di un vecchio decrepito di fronte<br />
alla riemersione del ricordo.<br />
Il finale è il culmine dell’opera. I brividi che emana la musica<br />
di Janáček negli attimi del crollo fisico e nervoso della protagonista<br />
sono indimenticabili, quando la Marty ritrova, al<br />
capolinea della vita, un po’ di umanità nel descrivere la noia<br />
esasperante di un’esistenza protratta oltre misura. ◼<br />
focus on 9
10<br />
focus on<br />
Karel Čapek, ovvero:<br />
sui rimedi<br />
alla stupidità umana<br />
di Massimo Tria<br />
Karel Čapek ha viaggiato molto, anche in Italia.<br />
Qui di seguito alcune sue parole su <strong>Venezia</strong>,<br />
estratte da uno dei suoi libri di viaggio, I fogli<br />
italiani. Le cose che gli piacquero in particolar<br />
modo sono: «I gendarmi italiani, subito, già alla frontiera.<br />
Camminano sempre in coppia... mi ricordano i fratelli<br />
Čapek... Quelle stradine di <strong>Venezia</strong> dove non vi sono né<br />
canali né palazzi. Sono così<br />
contorte che finora non sono<br />
ancora riusciti ad esaminarle<br />
tutte; forse in alcune di<br />
esse non ha mai messo piede<br />
un essere umano. Le più belle<br />
sono quelle larghe un metro e<br />
lunghe tanto da farci entrare<br />
giusto un gatto con la sua coda.<br />
È un labirinto, nel quale<br />
vaga perfino il passato e non<br />
riesce a trovare una strada<br />
per uscire... Piacevole in particolar<br />
modo è poi che qui<br />
non c’è neanche un’auto, neanche<br />
una bici, neanche una<br />
carrozza o un carretto... però<br />
c’è un sacco di gatti, e sono<br />
più dei piccioni di Piazza San<br />
Marco: gatti enormi, misteriosi<br />
e dagli occhi chiari, che<br />
guardano con ironia i turisti<br />
dai marciapiedi». Poi ci sono<br />
delle altre cose che non gli<br />
piacquero molto, ma per ora<br />
le lasceremo stare...<br />
Il destino di Karel Čapek è<br />
quanto meno bizzarro, e il rischio<br />
di sottovalutare la sua<br />
grandezza è sempre in agguato: dal punto di vista letterario è<br />
costretto in quella camicia di forza quasi obbligata che ci costringe<br />
spesso (anche noi boemisti) ad indicarlo per comodità<br />
come «l’inventore dei robot». Come se avesse scritto solo<br />
il dramma R.U.R. (1920), in cui la parola robot viene usata<br />
per la prima volta, e non decine di opere dalla più varia e profonda<br />
gamma umana e poetica. Dal punto di vista esistenziale,<br />
proprio lui che tanto aveva scritto e riflettuto sull’avanzata<br />
del potere totalitario ne è stato segnato direttamente: è<br />
morto infatti nel Natale del 1938, mentre osservava sgomento<br />
la Germania di Hitler prendersi pezzo dopo pezzo il territorio<br />
e la libertà della sua Cecoslovacchia libera, pluralista<br />
e democratica, laddove poi suo fratello Josef, insigne artista<br />
poliedrico di non minore valore, sarebbe morto qualche anno<br />
dopo proprio in un campo di concentramento.<br />
E almeno per i primi anni della sua attività letteraria il nome<br />
di Karel è inscindibile da quello del fratello, con il quale<br />
si consulta, collabora e scrive opere a quattro mani: fra queste<br />
alcuni racconti che affrontano già in nuce i temi catastrofici<br />
ed antiutopici del Čapek maturo; si veda il racconto Abis-<br />
si splendenti, ispirato al disastro del Titanic, o la commedia<br />
«animale» Dalla vita degli insetti, nella quale i tre atti sono<br />
dedicati ai vizi di vanità ed eccessiva avidità di farfalle, coleotteri<br />
e formiche, dietro i quali si legge facilmente una sferzante<br />
parodia dei più classici processi distruttivi per cui si distingue<br />
il genere umano, stupido e vanesio.<br />
Ma è proprio con la pièce R.U.R. (Rossum’s Universal Robots)<br />
che si inaugura ufficialmente una delle vene ispirative<br />
più forti di Karel Čapek come autore indipendente: in un’isola<br />
lontana seguiamo le fasi finali dell’estinzione dell’umanità,<br />
accompagnata dalla rivolta dei robot, esseri antropomorfi<br />
(e non metallici, come nella successiva tradizione filmica<br />
e figurativa) che si ribellano contro gli uomini-sfruttatori.<br />
Le posizioni democratiche e dichiaratamente anti-comuniste<br />
dell’autore lo portavano a guardare sempre con occhio<br />
sospetto le grandi ideologie massimaliste: sia in R.U.R.<br />
sia nel romanzo successivo La guerra del-<br />
le salamandre egli commenta o prevede addirittura i procedimenti<br />
di sconvolgimento umanitario che hanno accompagnato<br />
i totalitarismi del xx secolo: nel primo caso c’è una<br />
sorta di parallelo della Rivoluzione proletario-bolscevica, nel<br />
secondo l’inarrestabile ascesa di mostri disumani e militareschi<br />
può richiamare i vari movimenti nazi-fascisti degli anni<br />
venti e trenta. Ugualmente critici verso i regimi dittatoriali<br />
sono i drammi teatrali dei suoi ultimi anni di vita, Il morbo<br />
bianco e La madre.<br />
Čapek fu spesso criticato dagli ambienti della sinistra e soprattutto<br />
dall’avanguardia impegnata politicamente, come<br />
uomo mediocre, difensore dello status quo e amante conservatore<br />
della quiete borghese della allora neonata Repubblica<br />
parlamentare cecoslovacca (1918-1938). A offrire il fianco<br />
a questa critica alcune prose più domestiche, ironiche o<br />
intimiste del Čapek novelliere: si vedano i cicli di racconti<br />
di ispirazione poliziesca Racconti dall’una e dall’altra tasca,<br />
o i suoi vari bozzetti autobiografici dedicati agli animali do-<br />
A sinistra: Karel Čapek.<br />
A destra: Josef Čapek.
mestici della sua casa, come ad esempio il delizioso Dášenka.<br />
La vita di un cucciolo. O ancora le prose dedicate alla pacifica<br />
arte del giardinaggio, in cui con gusto e zelo egli si cimentò.<br />
Ma Čapek non era semplicemente un conservatore, bensì un<br />
animo profondamente ferito dal caos della guerra, della malattia<br />
e dell’idiozia umana. Se proprio volessimo, potremmo<br />
chiamarlo allora «conservatore di umanità» (e non di valori<br />
passatisti o di posizioni di potere). Rubando alcune riflessioni<br />
a Sylvie Richterová, ricordiamo che l’etimologia di<br />
paradiso è «giardino» e che nelle visioni edeniche classiche<br />
l’uomo vive in pace con tutti gli animali del creato in una<br />
dimensione casalinga e naturale priva di conflittualità, dove<br />
nessun essere vivente cerca di occupare posti che non gli<br />
competono. Riusciamo dunque ad inquadrare anche questi<br />
suoi interessi «casalinghi» all’interno della sua ricerca della<br />
ricomposizione del Cosmo originario, perseguita grazie ad<br />
un’opera quotidiana di riedificazione certosina. Il lavoro dovrebbe<br />
per lui<br />
venire riscattato<br />
dal peso<br />
della originaria<br />
punizione<br />
divina, e non<br />
essere manipolato<br />
al fine<br />
della sottomissionedelle<br />
energie e<br />
forze produttive<br />
altrui.<br />
Ed è in questotentativo<br />
di ricomposizione<br />
dell’Uomo e<br />
della sua Unità<br />
(tentativo<br />
non utopistico<br />
e romantico,<br />
bensì basato<br />
sul l’onestolavoroquotidiano)<br />
che si inquadrano<br />
le<br />
piccole prose<br />
čapkiane da un lato, e dall’altro la sua produzione antiutopica<br />
(si leggano anche La fabbrica dell’Assoluto e Krakatit),<br />
destinata ad evitare la catastrofe dell’essere umano, travolto<br />
dalla propria hybris e capace di far saltare in aria l’equilibrio<br />
del Creato.<br />
Sia nell’Affare Makropulos, che viene ora presentato al Teatro<br />
La Fenice nella riscrittura operistica di Leoš Janáček,<br />
sia nell’epopea catastrofica dei suoi Robot, due donne sono<br />
protagoniste loro malgrado, vittime del delirio di onnipotenza<br />
maschile. In Makropulos il sogno dell’eterna giovinezza<br />
si trasforma nella maledizione di Elina Makropulos, bella<br />
fuori ma marcia dentro, impossibilitata a morire a causa degli<br />
egoistici esperimenti paterni e perseguitata dal tedio secolare<br />
delle vuotezze umane. Nei Robot l’unica donna umana,<br />
Helena, è circondata da maschi che hanno perso di vista i<br />
limiti insuperabili del proprio orgoglio terreno. Solo il fuoco<br />
potrà bruciare le formule magiche e maledette che da un lato<br />
dovevano assicurare all’umanità il Paradiso in Terra (l’eterna<br />
giovinezza e la liberazione dal lavoro fisico), ma che in re-<br />
Leoš Janáček.<br />
altà la stavano conducendo alla rovina e all’infelicità totale.<br />
Il fatto che l’Affare Makropulos sia ambientato negli anni<br />
venti, e ripercorra i tre secoli precedenti, in cui la sua protagonista<br />
ha vissuto la sua meccanica vita di immortale, non<br />
sminuisce il valore attuale dell’opera. Al contrario, essa è sovratemporale,<br />
e raccoglie in un unico testo i miti cinquecenteschi<br />
della Praga alchemica di Rodolfo ii, l’Ottocento delle<br />
lotte di autodeterminazione dei popoli centro-europei (compreso<br />
quello ceco e la sua classe borghese) e l’atmosfera ricca<br />
ma incerta della Cecoslovacchia fra le due guerre, dubbiosa<br />
circa il suo ruolo sullo scacchiere europeo e presto minacciata<br />
dai totalitarismi. Come scrive Sergio Corduas, proprio<br />
il Golem dell’epoca Rudolfina, il Robot di Čapek e il contemporaneo<br />
Josef Švejk (il protagonista del capolavoro di Jaroslav<br />
Hašek) sono uniti da tratti di automatismo, di attività<br />
incontrollata e da una certa tendenza a distruggere l’opera<br />
dell’uomo. Il problema del doppio, del sosia o del falso essere<br />
umano era ben presente anche a Čapek: si vedano gli automi,<br />
le salamandre-antropoidi, la protagonista di Makropulos,<br />
finta giovane, il finto compositore del suo romanzo incompiuto<br />
Foltýn. E a ben pensarci il Potere totalitario è il falso<br />
doppione, l’imitazione disumana di Dio in terra. La stessa<br />
idea di sostituirsi a Dio, la supposizione imperdonabile che<br />
l’uomo possa anche solo provare a fingersi più grande di quel<br />
piccolo insetto che in fondo è, doveva essere per il nostro autore<br />
una delle più odiose e pericolose offese all’intelligenza.<br />
Sarebbe però riduttivo vedere in lui «solo» una personalità<br />
anti-utopica o anti-fascista: egli è anche, positivamente,<br />
aperto, democratico, possibilista, pluralista. Lo confermano<br />
le sue opere che indagano sulla verità: la cosiddetta trilogia<br />
noetica (i tre romanzi Hordubal, La meteora e Una vita ordinaria),<br />
i suoi racconti che sono una parodia dei gialli più che<br />
gialli autentici, in cui non domina l’interesse a risolvere lo<br />
specifico caso delittuoso, bensì il paradosso dell’irraggiungibilità<br />
della Verità, per la quale ognuno ha una sua (quasi sempre<br />
erronea) interpretazione soggettiva; Il libro degli apocrifi,<br />
dove vengono presentati personaggi celebri sotto un’ottica<br />
imprevedibile e dissacrante (un esempio su tutti: Don Giovanni<br />
sarebbe stato… impotente). O ancora il suo ultimo romanzo,<br />
rimasto incompiuto, La vita e le opere del compositore<br />
Foltýn, dove vengono svelati i mezzucci e le falsità con cui i<br />
sedicenti geni si spacciano per tali. In questi ed in altri scritti<br />
egli ci pone davanti l’enigma della Verità, irraggiungibile,<br />
perché non ne esiste mai una unica e sola. Essa in Čapek non<br />
è imposta e affermativa, bensì interrogativa e potenziale, come<br />
dimostrano le sue vicende narrate da più punti di vista e<br />
angolazioni, nessuno dei quali potrà mai prevalere, perché la<br />
Verità non è un punto fermo, ma è più simile a un fascio di linee<br />
parallele che si avvicinano asintoticamente all’infinito.<br />
Questa è la democrazia letteraria assoluta: quando l’autore<br />
non ci impone un’unica via d’uscita, e anzi si interroga insieme<br />
al lettore, suo compagno di stupore e di avventura, su<br />
quali siano le trappole della rappresentazione letteraria e poetica<br />
del mondo.<br />
Karel Čapek rimane uno dei fondamentali difensori dell’umanità,<br />
dei suoi valori più alti e universali, seppur inquadrati<br />
all’interno di precisi confini. Per lui questi confini non sono<br />
imposti da leggi sovrannaturali o ideali, ma dalla semplice<br />
e naturale constatazione dei limiti a noi dettati dalla natura,<br />
dalla nostra conformazione fisica e psichica. Qualcuno<br />
può interpretare questa sua visione (e molti lo hanno fatto)<br />
come conservatorismo antropologico. Ma se il conservatorismo<br />
antropologico, se la chiara coscienza della propria finitezza,<br />
se la lunga e preoccupata serie di avvertimenti čapkiani<br />
ci avessero potuto evitare i totalitarismi del xx secolo, forse<br />
non sarebbe stata una cosa poi così negativa. ◼<br />
focus on 11
12<br />
focus on<br />
Ferro dirige<br />
il «Caso Makropulos»<br />
a cura di Mirko Schipilliti<br />
difficile questa musica!», commenta<br />
Gabriele Ferro sfogliando la partitura del<br />
«Com’è<br />
Caso Makropulos, opera della maturità di<br />
Leoš Janáček, affrontata per la prima volta<br />
nel percorso di una carriera che sembra non avere limiti quanto<br />
a repertorio. Nel 2008 Ferro aveva diretto Janáček nel suo ultimo<br />
lavoro teatrale, Da una casa di morti, al Teatro Massimo<br />
di Palermo. Alla Fenice, dove l’abbiamo incontrato fra prove<br />
d’orchestra e di regia, ci mostra con calma autorevole la partitura<br />
e le sue complessità d’intreccio, le difficoltà per il direttore,<br />
sciolte con un atteggiamento sottile<br />
e profondo, che tiene conto di<br />
tutta la storia della musica.<br />
Maestro, lei dirige veramente<br />
tutto! Ma qual è il tipo di approccio<br />
che assume verso un autore<br />
complesso, e per certi versi misterioso,<br />
come Janáček? Qual è il suo<br />
mondo di interprete? Dobbiamo<br />
partire da lontano…<br />
Sì. Pensi che in un programma<br />
con l’Orchestre de Paris agli<br />
Champs-Élysées avevo diretto la<br />
Messe de Notre-Dame di Guillaume<br />
de Machault, del 1364,<br />
insieme alla Holidays Symphony<br />
di Charles Ives, del 1913, due<br />
compositori con personalità folli.<br />
Nella versione della Messa di<br />
Machault dietro a ogni gruppo<br />
vocale facevo suonare uno strumento<br />
della famiglia dei tromboni,<br />
cosicchè quando finiva la<br />
linea del coro proseguiva quella<br />
strumentale. In altri programmi<br />
ho abbinato, per esempio, musiche<br />
di Verdi all’Adagio dalla decima<br />
sinfonia di Mahler.<br />
Il suo approccio al repertorio supera<br />
ogni limitazione temporale...<br />
La mia formazione è quella di<br />
compositore e penso quindi alla<br />
musica in maniera diversa dall’esecutore<br />
che scegli i pezzi per fare numeri o scena, anche se<br />
– come diceva Thomas Mann – nell’interprete c’è sempre<br />
un po’ di «sangue tzigano». Ciò che conta per me, ed è fondamentale,<br />
è la valenza e la conoscenza della musica in sé.<br />
Mi spiego: la musica ha una sua oggettività, e come la pittura<br />
si serve del colore così la musica si serve del suono. Non si<br />
può dire propriamente che «l’arte progredisce» ma un’evoluzione<br />
in tal senso c’è stata. Se l’approccio avviene con questo<br />
tipo di conoscenza è possibile vedere la musica in modo<br />
diverso.<br />
Quindi si tratta di leggerla in senso oggettivo, distaccato?<br />
Non proprio. Per esempio un’altra cosa fondamentale nella<br />
mia visione dell’interprete è il conoscere che cosa è accaduto<br />
nel periodo compreso tra il brano che si dirige e la propria<br />
vita.<br />
Ma anche prima, no?<br />
Sì, certo, ma faccio soprattutto riferimento alle evoluzioni<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
15, 19, 21 marzo, ore 19.00<br />
17 e 23 marzo, ore 15.30<br />
Vĕc Makropulos<br />
(Il caso Makropulos)<br />
Opera in tre atti<br />
libretto e musica di Leoš Janáček<br />
dalla commedia omonima di Karel Čapek<br />
personaggi e interpreti<br />
Emilia Marty Ángeles Blancas Gulín<br />
Jaroslav Prus Martin Bárta<br />
Janek Enrico Casari<br />
Albert Gregor Ladislav Elgr<br />
Hauk-Šendorf Andreas Jäggi<br />
L’avvocato dr. Kolenatý Enric Martínez-Castignani<br />
L’archivista Vítek Leonardo Cortellazzi<br />
Krista Judita Nagyová<br />
Una cameriera / Una donna delle pulizie Leona Pelešková<br />
Un macchinista William Corró<br />
maestro concertatore e direttore Gabriele Ferro<br />
regia Robert Carsen<br />
scene Radu Boruzescu<br />
costumi Miruna Boruzescu<br />
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice<br />
maestro del Coro Claudio Marino Moretti<br />
allestimento Fondazione Teatro La Fenice<br />
in coproduzione<br />
con l’Opéra National du Rhin di Strasburgo<br />
e lo Staatstheater di Norimberga<br />
prima rappresentazione a <strong>Venezia</strong><br />
successive. Consideri che negli anni cinquanta a Darmstadt i<br />
compositori hanno analizzato tutti i parametri della musica,<br />
compreso lo studio delle altezze dei suoni nello spazio. Con<br />
questa attenzione particolare, se si analizza una partitura di<br />
Mozart è possibile trovare alcuni atteggiamenti simili, seppure<br />
più o meno coscienti e visibili, ovvero quella logica con<br />
cui sono stati disposti i suoni nell’armonia. Si tratta di mettere<br />
in risalto queste peculiarità.<br />
Si tratta quindi di comprendere un ordine prestabilito?<br />
Persino la grafia ci aiuta, perché la musica che ci è giunta fino<br />
a oggi non è altro che, appunto, un segno grafico. Tornando<br />
agli anni cinquanta, i compositori erano arrivati a realizzare<br />
pezzi per orchestra pensando solo alla «scrittura». Differentemente,<br />
in Brahms si vedono disegni che hanno condizionato<br />
la strumentazione. Se non lo sai, non te ne accorgi.<br />
Persino in un autore come Rossini ciò che rimane non è il<br />
fatto «teatrale» ma quello che ha scritto musicalmente in sé.<br />
Tutto sta nel comprendere le<br />
strutture?<br />
Non si può dirigere se non c’è<br />
questo atteggiamento verso la<br />
musica, che influenza in modo<br />
totale le scelte sul fraseggio.<br />
Preferenze?<br />
No, non se la tua cultura musicale<br />
è basata sul concetto di suono.<br />
Sono un musicista a cui magari<br />
interessa dirigere Jeaux di<br />
Debussy solo perché è un capolavoro,<br />
ma è difficilissimo e nessuno<br />
lo vuole affrontare».<br />
Come concilia questa visione<br />
col«sangue tzigano» di Mann?<br />
Non sono un interprete oggettivo,<br />
ho solo cercato di togliere il<br />
lato esibizionistico. Non è possibile<br />
dirigere e andare in estasi,<br />
perché ci si perdi nel particolare.<br />
Bisogna sempre conoscere il prima,<br />
il durante e il dopo di quello<br />
che si sta dirigendo in quel preciso<br />
momento. Molto interessante<br />
è il trattato di Diderot Il paradosso<br />
sull’attore che si può applicare<br />
anche alla musica. Racconta<br />
che il vero attore che finge di<br />
essere in punto dimorte percepisce<br />
la reazione del pubblico rimanendo<br />
distaccato: non è freddo,<br />
e più è cosciente di star per morire<br />
all’interno di una finzione, più riesce a essere reale. Chi<br />
si «immedesima» non sente la reazione del pubblico. Se sei<br />
troppo immerso nel ruolo perdi il controllo. Si potrebbe anche<br />
aggiungere che non è possibile ottenere il sublime se non<br />
si conosce l’orrido.<br />
Ma il musicista non vive «nella» musica invece che «con»<br />
la musica?<br />
Certamente, perché quella del musicista è l’unica professione<br />
che si occupa dei sentimenti umani, e lo fa giorno e notte.<br />
Per me la prima cosa è l’amore, e poi ci sono la musica e l’arte.<br />
Distacco e immedesimazione, sublime, orrido, amore, arte…<br />
un cocktail perfetto per l’opera di Janáček? Lei mi fa venire in<br />
mente la complessità della protagonista del Caso Makropulos.<br />
Come tradurla in musica?<br />
Emilia è tremenda, ma alla fine sceglie di morire perché<br />
comprende la solitudine della sua vita e preferisce essere<br />
umana.
Il testo teatrale di Čapek, fonte del libretto, è molto filosofico,<br />
verbalmente complesso. Come ha potuto metterlo in musica<br />
Janáček?<br />
Creando un’instabilità, un percorso di note molto frammentario,<br />
dove non c’è un appoggio ritmico, fra temi enunciati<br />
sempre con strumenti diversi. Dal punto di vista ritmico,<br />
soprattutto, c’è una continua diversità<br />
tra l’orchestra e l’uso della voce, che<br />
canta figure musicali differenti.<br />
L’instabilità emotiva si traduce con<br />
un’instabilità strutturale in partitura?<br />
Oltre a quella tra voce e orchestra troviamo<br />
l’instabilità del rapporto metrico<br />
tra una misura e le successive. Per esempio,<br />
metri ternari che passano da 3/4 a<br />
3/2 mantenendo lo stesso tactus, oppure<br />
misure binarie scritte in metri ternari,<br />
che hanno come risultato lo stesso effetto<br />
uditivo nonostante una realizzazione<br />
grafica diversa. Ne risulta un continuo<br />
cambiamento, un senso di assenza<br />
di quadratura. Il fatto grafico conta<br />
molto per chi lo deve poi realizzare. Come<br />
dicevo prima, negli anni cinquanta si<br />
scrivevano cose «ineseguibili», fatte appositamente<br />
per creare un disagio. Per<br />
raggiungere l’esattezza esecutiva bisogna<br />
quasi sdoppiarsi in un meccanismo<br />
cerebralmente complicato.<br />
Quindi siamo davvero in pieno<br />
Novecento?<br />
Sì, in Janáček si traduce in un’angoscia<br />
di base, esistenziale.<br />
Vi troviamo elementi espressionisti?<br />
Sì, ma in modo diverso da quel filone<br />
che venne da Wagner e che passò per<br />
Schoenberg. Non dimentichiamo che in<br />
quegli anni c’erano anche Debussy con la<br />
scala esatonale, opposta al cromatismo, e<br />
Stravinskij. Ma è una questione più ampia<br />
e se penso a Blake o a Füssli, già allora<br />
si era intravisto l’espressionismo!<br />
Janáček ha una personalità fortissima,<br />
con un suo mondo teatrale, totalmente<br />
indipendente.<br />
Ci si muove anche in mezzo a un certo<br />
erotismo emanato dalla protagonista.<br />
Tutto il ii atto si concentra sulla sua<br />
bellezza e sulla sua sensualità, confermando<br />
al tempo stesso la sensazione di<br />
angoscia.<br />
Come trova la strumentazione del Caso<br />
Makropulos?<br />
Spesso c’è una disposizione per ottave,<br />
raramente l’orchestra suona tutta insieme,<br />
ci sono timbri molto separati (mentre<br />
nelle partiture propriamente espressioniste<br />
c’è un suono con maggiore massa).<br />
La partitura è in fondo molto scarna,<br />
non c’è una complessità contrappuntistica,<br />
c’è soprattutto quella instabilità ritmica<br />
e di sovrapposizioni; ci sono anche<br />
In alto, Gabriele Ferro.<br />
Sotto, Il caso Makropulos, bozzetto di Roudi Barth<br />
per lo spettacolo di Walter Pohl,<br />
Teatro Statale di Wiesbaden, 1961.<br />
alcuni motivi conduttori ma non sono veri e propri leitmotiv.<br />
Come affrontare il problema della lingua?<br />
La particolarità sta nel fatto che, come nella Casa di morti,<br />
vocalmente sembra tutto un declamato, tanto che le scene<br />
scorrono così velocemente rispetto alla musica che la difficoltà<br />
sta nel calibrare bene i tempi affinché si riesca a esegui-<br />
re tutto. In generale la voce è completamente indipendente,<br />
raramente raddoppiata da strumenti, forse quattro o cinque<br />
volte in tutto. Non ci sono arie, è un divenire in modo quasi<br />
rapsodico, con scambi di battute rapide, nulla di prevedibile<br />
o squadrato. È tutto in continuo movimento. ◼<br />
focus on 13
14<br />
focus on<br />
Janáček<br />
secondo Robert Carsen<br />
a cura di Vitale Fano<br />
Robert Carsen è fra i più originali registi d’opera<br />
del momento. Nato in Canada cinquantotto anni<br />
fa, non ama essere definito, come verrebbe spontaneo,<br />
«regista canadese», perché circa trent’anni<br />
fa ha lasciato il suo Paese per venire in Europa e risiede ormai<br />
stabilmente fra Parigi e Londra. Inoltre la sua attività lo<br />
porta a spostarsi continuamente in città e paesi diversi, per cui<br />
la sua nazionalità<br />
è un fattore<br />
alquanto indeterminato.<br />
Gli<br />
ultimi tempi sono<br />
stati particolarmentelaboriosi,<br />
con allestimenti<br />
al ritmo<br />
frenetico di<br />
un’opera al mese:<br />
a novembre<br />
2012 ha messo<br />
in scena L’amore<br />
delle tre<br />
melarance di<br />
Prokofiev alla<br />
Deutsche Oper<br />
di Berlino, lo<br />
scorso gennaio<br />
Falstaff alla<br />
Scala di Milano<br />
per l’inaugurazione<br />
del<br />
bicentenario<br />
verdiano, a febbraio<br />
La piccola<br />
volpe astuta<br />
di Janáček a Strasburgo, a marzo Il flauto magico al Festspielhaus<br />
di Baden Baden. Il 15 marzo sarà ancora in scena<br />
alla Fenice con un nuovo allestimento del Caso Makropulos.<br />
Lo raggiungiamo a Baden Baden, dove si trova per le prove del<br />
suo prossimo spettacolo. Sono le nove di mattina, probabilmente<br />
l’unico momento libero della sua giornata, quando ci concede<br />
un’intervista telefonica nel suo ottimo italiano venato di un<br />
elegante accento «medioatlantico».<br />
Fra qualche settimana sarà nuovamente in scena alla Fenice,<br />
che è ormai diventato uno dei suoi appuntamenti ricorrenti.<br />
Lavoro da molti anni e con grande piacere al Teatro La Fenice<br />
di <strong>Venezia</strong>, al quale mi sento decisamente legato soprattutto<br />
da quando ho avuto l’onore, nel 2004 con Traviata, di<br />
mettere in scena l’opera di riapertura del teatro, ricostruito<br />
dopo l’incendio del 1996. In seguito ho curato gli allestimenti<br />
della Tosca di Puccini e di tre quarti della Tetralogia di<br />
Wagner − Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli Dei − mentre<br />
L’oro del Reno è stato realizzato in forma di concerto.<br />
Adesso La Fenice la chiama per Il caso Makropulos di<br />
Janáček. Qual è il suo rapporto con questo grande compositore<br />
ceco?<br />
Lo amo moltissimo e da qualche anno sto curando un imponente<br />
«ciclo Janáček» all’Opera National du Rhin di<br />
Strasburgo, un progetto che comprende le sue cinque opere<br />
maggiori. Abbiamo già messo in scena, dal 2010, Jenufa, Il<br />
caso Makropulos, Katia Kabanova, e poche settimane fa La<br />
piccola volpe astuta. L’anno prossimo, a conclusione del ciclo,<br />
è in programma La casa dei morti.<br />
Quindi Il caso Makropulos è una coproduzione con<br />
Strasburgo?<br />
Sì, una coproduzione con Strasburgo e con Norimberga,<br />
dov’è andato in scena rispettivamente nel 2011 e nel 2012.<br />
Il caso Makropulos è un capolavoro che non è noto quanto<br />
merita, con una vicenda fantastica che mira a penetrare alcune<br />
questioni della vita. Lei come la vede?<br />
È un’opera assolutamente straordinaria e inusuale che parla<br />
di una donna, Emilia Marty, che ha più di trecento anni.<br />
Suo padre era il medico personale dell’imperatore Rodolfo<br />
ii d’Asburgo, vissuto nella seconda metà del Cinquecento.<br />
Quando Emilia aveva sedici anni, il padre fu incaricato di<br />
preparare una pozione che avrebbe dovuto dare la longevità<br />
all’imperatore, ma poiché Rodolfo ii non si fidava, lei fu<br />
costretta a bere l’elisir per prova e cadde subito in catalessi.<br />
Allora l’imperatore pensò che la pozione non funzionasse e<br />
imprigionò il padre; ma accadde poi che Emilia si riprendesse<br />
e iniziasse la propria carriera di cantante, che portò avanti<br />
per tre secoli. Ogni volta che qualcuno cominciava a insospettirsi<br />
per la sua eterna giovinezza, lei doveva cambiare città<br />
e nome, tenendo ferme solo la sua carriera di successo e le<br />
iniziali: E. M.<br />
Questa situazione le ha suggerito qualche idea teatrale<br />
particolare?<br />
Sì, la situazione è molto strana e stimolante: questa donna<br />
deve fingere nella vita perché non può dire a nessuno ciò che<br />
le succede, e deve fingere anche nella professione perché come<br />
cantante lirica si trova a interpretare personaggi sempre diversi.<br />
C’è dunque un misto di ambienti, costumi ed epoche,<br />
perché non solo Emilia è vissuta nei secoli xvi, xvii, xviii,<br />
ecc. ma ha anche interpretato molti ruoli di quelle stesse epoche.<br />
Tutto ciò è molto affascinante.<br />
Anche nella musica ci sono indizi di un passato misterioso<br />
(ad esempio le fanfare) che fanno capolino come intersezioni<br />
dell’irreale nel reale. C’è una corrispondenza di questo aspetto<br />
nella messinscena?
Sì, fin dal Preludio, che è un brano straordinario che io<br />
sfrutto per far scorrere visivamente tutte le epoche vissute<br />
dalla protagonista, da quando beve l’elisir nel Cinquecento<br />
fino agli anni venti del Novecento. E questo passando attraverso<br />
opere e ruoli teatrali successivi: Francesca da Rimini,<br />
Don Carlos, Rosenkavalier, Traviata, Tosca e così via, andando<br />
avanti nel tempo con i protagonisti più in voga delle<br />
varie epoche.<br />
Che opinione ha di questa donna al tempo stesso bellissima e<br />
mostruosa?<br />
Innanzitutto non voglio giudicarla, perché si tratta di una<br />
vittima: non ha scelto lei di vivere trecento anni ma è stata<br />
forzata, a rischio della sua stessa vita, quando era una ragazzina<br />
totalmente inconsapevole. Una vittima che è divenu-<br />
ta un mostro, e che dopo tutto questo tempo si ritrova a essere<br />
molto cinica, a non credere più in niente, men che meno<br />
nell’amore: Emilia non ama e non può amare, e questo rende<br />
l’opera espressione della durezza della vita, che se non ha fine<br />
può diventare qualcosa di terribile.<br />
Quindi vi è anche una riflessione sulla longevità?<br />
Direi sul ciclo naturale della vita: in anni in cui facciamo di<br />
tutto per vivere più a lungo e per rimanere giovani (penso ad<br />
esempio alla chirurgia estetica), l’opera ci dice che dobbiamo<br />
accettare le leggi naturali e che non dobbiamo invece provare<br />
a controllare la natura. È un inno alle cose che non possiamo<br />
capire ma che dobbiamo accettare, perché comunque arriverà<br />
prima o poi il momento in cui la vita si concluderà. La<br />
stessa protagonista all’inizio dello spettacolo cerca ansiosamente<br />
la ricetta che ha perduto e che le servirà per vivere altri<br />
trecento anni, ma alla fine capisce che non potrà più continuare<br />
a vivere.<br />
I personaggi maschili disegnano una costellazione di varia<br />
umanità: l’aristocratico Prus, il pragmatico Koletatý, il colto e<br />
ottimista Vitek, il fragile Janek, l’avido Gregor, il vecchio e rincitrullito<br />
Hauk. Come li inquadra?<br />
Ruotano tutti attorno a Emilia Marty e sono tutti innamo-<br />
Il caso Makropulos secondo Robert Carsen<br />
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).<br />
rati di lei, che non ne può più di questi uomini che per secoli<br />
cadono uno dopo l’altro ai suoi piedi. Dopo essere sopravvissuta<br />
a tutti i suoi amanti, l’amore non significa più nulla<br />
per lei, perché ha vissuto troppo e ha visto troppe volte le stesse<br />
cose. Solo con il vecchio Hauk-Sendorf, che sembra riconoscerla,<br />
ricorda divertita la relazione vissuta cinquant’anni<br />
prima. Tra l’altro il vecchio personaggio impersona lo stesso<br />
Janáček, che a settantadue anni era innamorato di una giovane<br />
trentenne che fu la musa ispiratrice delle sue ultime opere:<br />
Kamila Stösslová.<br />
Nel libretto dell’opera il primo atto si svolge nello studio di<br />
un notaio, il secondo nella scena vuota di un grande teatro, il<br />
terzo in una stanza d’albergo. Qual è l’ambientazione del suo<br />
allestimento?<br />
Tutto comincia<br />
e termina a<br />
teatro. Nel secondo<br />
atto la<br />
scena dovrebbe<br />
essere ambientata<br />
dietro<br />
le quinte ma io<br />
voglio che avvenga<br />
sul palcoscenicosubito<br />
dopo una<br />
rappresentazione,<br />
con il<br />
pubblico plaudente<br />
ancora<br />
in sala che grida<br />
quanto lei è<br />
stata brava, divina,<br />
la migliore<br />
di tutte. Poiché<br />
nessuno<br />
ha mai detto<br />
che cosa avesse<br />
cantato, mi<br />
è parso interessante<br />
supporre<br />
che avesse appena<br />
interpretato il personaggio di Turandot alla sua prima<br />
rappresentazione, in una teatrale Cina favolistica. Questo innanzitutto<br />
perché il debutto di Turandot è avvenuto nello<br />
stesso anno in cui Janáček ha composto il Caso Makropulos,<br />
il 1926; in secondo luogo perché Turandot, come Emilia<br />
Marty, è una donna che non può amare e che, anzi, odia<br />
gli uomini.<br />
Dunque i cambiamenti di ruolo sono nodali nella sua visione<br />
dell’opera.<br />
Assolutamente sì, perché ritengo di fondamentale importanza<br />
che Emilia Marty non sia un solo personaggio ma<br />
molti. Grazie agli splendidi costumi di Miruna Boruzescu,<br />
i cambiamenti avvengono con rapidissime trasformazioni<br />
della protagonista in scena. Quando Emilia Marty sveste il<br />
costume di Turandot, ad esempio, diviene un altro mito di<br />
quest’epoca: Lulù.<br />
I dialoghi serrati, i temi brevi e incisivi, le ripetizioni ossessive<br />
rendono la musica frenetica e inquietante.<br />
La musica è effettivamente molto strana, frammentata e<br />
segmentata, un po’ come la vita di Marty. Ma alla fine c’è<br />
una scena decisiva, in cui Emilia può finalmente raccontare<br />
tutto quello che è successo e rivelare di essere Elina Makropulos.<br />
Quando la protagonista dice finalmente la verità, c’è<br />
un’esplosione di lirismo che chiude l’opera e completa il ritratto<br />
affascinante di una situazione impossibile. ◼<br />
focus on 15
16<br />
focus on<br />
La dolcezza<br />
della morte<br />
In attesa che arrivi in laguna<br />
Il caso Makropulos<br />
secondo Robert Carsen,<br />
ripubblichiamo qui una<br />
recensione di Mario Messinis<br />
che risale a vent’anni fa, quando<br />
a firmare la regia dell’opera<br />
di Janáček era Luca Ronconi,<br />
in uno spettacolo allestito per il<br />
Regio di Torino.<br />
Per un paio di settimane Torino<br />
è la capitale del teatro<br />
in Italia. Luca Ronconi mette<br />
in scena contemporaneamente<br />
L’affare Makropulos<br />
del drammaturgo ceco Karel<br />
Čapek al Teatro Carignano<br />
e al Regio l’opera omonima<br />
di Leoš Janáček, che utilizza<br />
abbastanza fedelmente<br />
la commedia con qualche taglio<br />
e un nuovo epilogo. Bellissima<br />
l’idea di allestire negli<br />
stessi giorni il testo drammatico<br />
e quello musicale, considerate<br />
le relazioni che sussistono<br />
tra Čapek e Janáček. Il<br />
musicista ceco infatti era stato<br />
fortemente impressionato nel<br />
1922 dalla commedia, che subito<br />
dopo musicò ultimando<br />
la stesura nel 1925.<br />
Vi si racconta la storia di una<br />
di Mario Messinis<br />
cantante di trecentotrentasette anni, dall’aspetto però giovanile,<br />
cui il padre aveva somministrato un elisir di lunga vita,<br />
e che ritorna nella nativa Praga alla ricerca del documento<br />
con la formula per rinnovare la propria longevità. La pièce<br />
è costruita come un giallo, tra cause giudiziarie, freddi erotismi,<br />
cinismo e aggressività: intorno a Emilia Marty, che altri<br />
non è che Elina Makropulos,<br />
nata oltre tre secoli prima,<br />
ruotano personaggi vari e caratteristici,<br />
ammaliati dalla<br />
sua bellezza e dalla sua spregiudicatezza.<br />
Ma nel momento<br />
in cui Emilia rintraccia la<br />
formula desiderata assapora<br />
anche la dolcezza della morte<br />
e L’affare Makropulos si conclude<br />
con un epilogo consolatorio.<br />
Campeggia dunque<br />
la figura femminile di Elina<br />
Makropulos / Emilia Marty,<br />
tratteggiata da Ronconi e dalla<br />
Kabaivanska con gelida eleganza,<br />
in cui la giovinezza è a<br />
tratti come artificiale, incrinata<br />
da barbagli di decrepitezza.<br />
Luca Ronconi si muove perfettamente<br />
a suo agio nella<br />
cultura mitteleuropea del<br />
primo dopoguerra, nella Praga<br />
magica ove l’evidenza realistica<br />
si confonde con un mondo<br />
allucinatorio. L’impianto<br />
scenografico sghembo vale a<br />
creare un clima di lucido delirio.<br />
Sono architetture un poco<br />
surreali: una pista attraverso il<br />
palcoscenico con librerie oblique<br />
e aggettanti, linee spezzate<br />
e geometriche tra espressionismo<br />
e Bauhaus. Ne esce uno<br />
spettacolo magistrale, in cui
Ronconi mette a fuoco anche una recitazione analitica (la<br />
scenografia è di Margherita Palli, i costumi di Carlo Diappi).<br />
L’affare Makropulos è tra i lavori teatrali più affascinanti di<br />
Janáček, momento paradigmatico dell’ultima stagione creativa<br />
di un musicista sempre più attratto dalle tentazioni delle<br />
avanguardie. Non c’è più la violenta temperatura passionale<br />
della sua prima maturità né un esplicito richiamo folclorico.<br />
Il discorso è rotto,<br />
fratturato, caleidoscopico.<br />
Il linguaggio vocale privilegia<br />
uno stile di conversazione<br />
asciutto, strettamente<br />
legato al ritmo della parola.<br />
Per altro le insorgenze<br />
e le allusioni cantabili<br />
sono continue: l’orchestra<br />
è tutto un pullulare di<br />
melodie brevi e cangianti,<br />
in una scrittura cameristica<br />
segmentata e sottile. Si<br />
colgono qua e là le predilette<br />
voci della natura, anche<br />
se il carattere del sog-<br />
Il caso Makropulos<br />
secondo Luca Ronconi,<br />
Torino, Teatro Regio<br />
(foto di Marcello Norberth).<br />
Immagini tratte da Ronconi.<br />
Gli spettacoli di Torino,<br />
a cura di Ave Fontana<br />
e Alessandro Allemandi,<br />
Umberto Allemandi & C.,<br />
Torino 2006.<br />
getto sembrerebbe respingerle. Ma Janáček aveva sempre bisogno<br />
di sentire le suggestioni dell’aria aperta, della pittura<br />
di paesaggio. Solo nella grande scena conclusiva, in cui<br />
Emilia Marty rinuncia all’immortalità, Janáček ricorre ad<br />
un flusso melodico continuo, liberatorio e persino struggente.<br />
Ci si chiede come mai, sotto il profilo drammaturgico, la<br />
trasformazione psicologica della protagonista sia così repentina.<br />
Come si concilia questa<br />
straordinaria scena lirica<br />
con la caratterizzazione<br />
tagliente e crudele delle pagine<br />
precedenti?<br />
Raina Kabaivanska è stata<br />
una protagonista d’eccezione<br />
anche per le risorse di<br />
attrice (si pensi al suo ingresso<br />
da «femme fatale»,<br />
con un sontuoso cappotto<br />
nero, molto anni venti).<br />
Eccellente tutta la fitta<br />
compagnia di cui ci limitiamo<br />
a ricordare il bravissimo<br />
tenore José Cura. La<br />
bella traduzione è di Sergio<br />
Sablich. Direzione autorevole<br />
e ben coordinata di<br />
Pinchas Steinberg alla testa<br />
dell’orchestra del Regio. ◼<br />
(da «Il Gazzettino»,<br />
18 dicembre 1993)<br />
focus on 17
18<br />
opera<br />
«La cambiale<br />
di matrimonio»<br />
vista da Enzo Dara<br />
Continua il progetto<br />
«Atelier della Fenice<br />
al Teatro Malibran»<br />
a cura di Arianna Silvestrini<br />
Il prossimo 16 marzo al Malibran di <strong>Venezia</strong> andrà<br />
in scena La cambiale di matrimonio di Gioacchino Rossini.<br />
L’opera – farsa comica in un atto su libretto di Gaetano<br />
Rossi – rientra nel progetto «Atelier della Fenice al<br />
Teatro Malibran», che prevede la collaborazione<br />
con importanti istituzioni cittadine<br />
quali l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio<br />
di Musica «Benedetto Marcel-<br />
lo» e l’Università Ca’ Foscari al fine di realizzare<br />
l’incontro e la collaborazione tra<br />
le potenzialità creative e produttive del<br />
Teatro e quelle formative di centri di studi<br />
altamente qualificati. Da questa unione<br />
è nato un polo di produzione che pur avvalendosi<br />
delle capacità organizzative della<br />
Fenice mantiene però la propria fisionomia di cantiere sperimentale.<br />
Il progetto, coordinato dal direttore della produzione<br />
artistica Bepi Morassi, ha visto il suo<br />
debutto nel gennaio del 2012 con la<br />
messinscena dell’Inganno felice<br />
(cfr. vmed n. 44, p. 19),<br />
la prima delle cinque farse<br />
di Gioachino Rossini<br />
che saranno via<br />
via proposte<br />
al Malibran.<br />
In<br />
occasione<br />
dell’allestimento<br />
della<br />
Cambiale<br />
di matrimonio<br />
– con<br />
repliche<br />
fino al 17<br />
aprile –<br />
abbiamo<br />
incontrato<br />
Enzo Dara,<br />
che ci ha raccontato<br />
la propria idea di regia<br />
e i rapporti di collaborazione<br />
tra la Fenice e l’Accademia<br />
di Belle Arti.<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Malibran<br />
16, 20, 28 marzo e 12 aprile, ore 19.00<br />
22 marzo, ore 17.00<br />
24 marzo e 14 aprile, ore 15.30<br />
16, 17 aprile, ore 10.30 (riservate alle scuole)<br />
«Per me è una vera gioia lavorare<br />
a <strong>Venezia</strong>, dove in<br />
passato – prima di iniziare<br />
il mio percorso<br />
come regista –<br />
ho cantato<br />
nella Cenerentola di Rossini, vestendo i panni di Don Magnifico,<br />
e ho indossato le vesti di Don Pasquale nell’omonima<br />
opera donizettiana (specializzato nei ruoli di “basso buffo”,<br />
è dagli anni novanta che Dara si dedica prevalentemente<br />
alla regia, ndr.). I ragazzi dell’Accademia di Belle Arti –<br />
con i quali si è da subito instaurato un ottimo rapporto, professionale<br />
e umano – si stanno occupando della costruzione<br />
delle scene seguendo il progetto di Stefano Crivellari. All’inizio<br />
dei lavori, ciascuno studente aveva elaborato e presentato<br />
il proprio disegno scenografico e non è stato facile scegliere.<br />
Alla fine ho voluto il progetto di Stefano, sul quale sono<br />
intervenuto solo con qualche piccolo accorgimento. Per<br />
quanto riguarda la regia, la mia Cambiale di matrimonio –<br />
opera che ho affrontato per la prima volta nelle vesti di interprete<br />
nel 1991 al Rossini Opera Festival (allora la regia era<br />
del grande Luigi Squarzina) – è decisamente tradizionale,<br />
ma non per una scelta di parte o per principio. In realtà amo<br />
molto anche le messinscene moderne e credo che la questione<br />
non riguardi la distinzione tra tradizione<br />
e modernità. Penso piuttosto<br />
che esistano belle e brutte regie: que-<br />
sta è l’unica differenza possibile. Spesso<br />
gli allestimenti moderni corrono il<br />
rischio di voler essere a tutti i costi di<br />
forte impatto, quasi scioccanti, mentre<br />
le regie più tradizionali risentono<br />
di un approccio oramai stanco e finiscono<br />
con l’annoiare le platee».<br />
Che ruolo ha la sua esperienza di interprete<br />
nelle regie che realizza?<br />
Il pericolo più insidioso per un cantante che si cimenta con<br />
la regia è quello di riciclare alcuni piccoli accorgimenti tecnici<br />
degli allestimenti a cui ha preso parte nelle vesti di interprete.<br />
In passato ho cantato al Covent Garden di Londra, alla<br />
Scala di Milano, all’Opéra di Parigi, e in vent’anni di carriera<br />
ho potuto lavorare con Claudio Abbado, Luca Ronconi,<br />
Luigi Squarzina – come dissi poc’anzi – e molti altri. Nel<br />
’90, infine, ho debuttato alla regia allestendo Il barbiere di<br />
Siviglia al Teatro Filarmonico di Verona ed è così cominciata<br />
questa bella avventura.<br />
Per quel che riguarda l’allestimento della Cambiale di matrimonio,<br />
quali novità ci saranno?<br />
Due saranno le novità principali, una delle quali desidero<br />
rimanga una sorpresa per il pubblico che verrà in sala. Posso<br />
solo dire che il negoziante americano Slook non viaggerà<br />
dal Canada a Londra ma giungerà invece a <strong>Venezia</strong>, dove incontrerà<br />
la Commedia dell’Arte. Ogni carattere, nell’assoluto<br />
rispetto del testo musicale e senza scadere nella gag, sarà<br />
rappresentato da una delle maschere della Commedia. Nella<br />
vita di tutti i giorni ciascuno di noi è circondato da tanti<br />
personaggi – il garzone, l’ortolano, il droghiere, ecc. –, tutti<br />
in qualche maniera maschere che partecipano alla narrazione<br />
della nostra vita. Così in questa messinscena rossiniana<br />
ho cercato di rappresentare la complessità e la ricchezza<br />
dell’esistenza, senza però mai alterare i personaggi nella loro<br />
essenza: in punta di penna, diciamo così. Spero di far divertire<br />
il pubblico con una rappresentazione in parte realistica<br />
e in parte surreale di un’opera che, pur svolgendosi in un<br />
atto unico, è decisamente articolata. Tutti i personaggi della<br />
Cambiale sono molto colorati: Fanny e Edoardo, gli innamorati,<br />
Tobia Mill, il padre di Fanny… Nell’opera che vedrete<br />
al Malibran, Tobia Mill sarà il titolare di una pellicceria<br />
che arriva a <strong>Venezia</strong> per commerciare le proprie pelli. Ma<br />
non voglio dirvi di più e… vi aspetto a teatro. ◼<br />
Gioachino Rossini (commons.wikimedia.org).
Stefano Montanari<br />
sul podio<br />
per Rossini<br />
Stefano Montanari, direttore d’orchestra e violinista<br />
romagnolo, dirigerà al Teatro Malibran, a partire<br />
dal 16 marzo, La cambiale di matrimonio di Rossini,<br />
tappa 2013 del progetto «Atelier Malibran» (cfr.<br />
pagina accanto) dedicato alla scoperta di giovani interpreti attraverso<br />
le farse rossiniane. Gli chiediamo di raccontarci questa<br />
sua esperienza.<br />
«Sono molto felice di dirigere le farse rossiniane a <strong>Venezia</strong>:<br />
ho cominciato l’anno scorso<br />
con L’inganno felice, che è<br />
stata la mia prima esperienza<br />
con Rossini, che mi ha molto<br />
stupito per gli spunti musicali<br />
quasi preromantici, se non romantici,<br />
che contiene. Intendo<br />
dei momenti fortemente patetici,<br />
che nella Cambiale di matrimonio<br />
non ci sono perché si<br />
tratta di un’opera più leggera,<br />
che deve perciò assumere una<br />
veste brillante».<br />
L’opera anticipa alcuni elementi<br />
che torneranno nel Barbiere<br />
di Siviglia e in altri lavori<br />
rossiniani.<br />
Sì, Rossini c’è già tutto, anche<br />
se aveva solo diciott’anni<br />
quanto scrisse La cambiale di<br />
matriomonio. Penso che all’epoca<br />
fosse molto dedito alla ricerca<br />
perché nell’opera sono<br />
presenti stilemi mozartiani,<br />
altri che poi troviamo in Donizetti<br />
ed elementi che rimangono<br />
per sempre nel Rossini<br />
che conosciamo. Per esempio, con L’inganno felice Rossini<br />
guarda indietro fino a prima di Mozart e poi si spinge avanti,<br />
alla ricerca di soluzioni originali.<br />
C’è nella Cambiale di matrimonio una dialettica interessante<br />
fra la parte buffa e quella sentimentale.<br />
L’opera oscilla fra momenti di grande dinamismo e momenti<br />
cantabili in cui emerge il lato sentimentale. Quello<br />
che cercherò di fare è di non rendere i cantabili troppo «sonnolenti»,<br />
evitando tempi troppo lenti, altrimenti le parti diventano<br />
difficili per i cantanti e pesanti per gli ascoltatori.<br />
La regia è affidata a Enzo Dara (cfr. intervista pagina accanto),<br />
un celebre basso buffo che ha grande esperienza di palcoscenico.<br />
Ha già avuto occasione di lavorare con lui?<br />
No, mai; questa è la prima volta. In ogni caso amo lavorare<br />
a stretto contatto con chi si occupa della regia: quello a cui<br />
ambisco è che non ci sia mai scollamento fra quanto facciamo<br />
in buca e quello che accade sul palcoscenico.<br />
Da questo punto di vista è molto importante il rapporto con<br />
il testo.<br />
Il mio lavoro di concertazione mira a far emergere le paro-<br />
Stefano Montanari (foto di Dan Codazzi).<br />
a cura di Vitale Fano<br />
le, sia nelle arie che nei recitativi. Dovremo rendere le sonorità<br />
dei cantabili molto leggere, cercando di rendere al massimo<br />
il fraseggio e tutti gli accenti musicali, che sono sempre<br />
simmetrici agli accenti del testo. Quanto ai recitativi, che sono<br />
piuttosto lunghi, dovranno essere interpretati in maniera<br />
molto teatrale ed essere accompagnati con gusto e varietà .<br />
L’edizione di quest’anno si arricchisce della collaborazione<br />
tra la Fenice e il Conservatorio «Benedetto Marcello» di<br />
<strong>Venezia</strong>, la cui orchestra eseguirà le ultime tre recite al posto<br />
dell’Orchestra del Teatro.<br />
È una cosa splendida che dovrebbe essere messa in atto anche<br />
in altri teatri e molto più spesso, mentre invece si realizza<br />
quasi solo a <strong>Venezia</strong>. Purtroppo, per miei precedenti impegni,<br />
non potrò dirigere le tre recite di aprile con l’Orchestra<br />
del Conservatorio (che credo sarà diretta in quelle occasioni<br />
da Giovanni Battista Rigon), ma mi prenderò cura di<br />
tutta la preparazione e della concertazione con gli studenti.<br />
Sarà un’operazione impegnativa! La partitura non è facile.<br />
In effetti la partitura è difficile, non solo dal punto di vista<br />
tecnico ma anche per quanto riguarda lo stile. Il problema è<br />
che ci sono tante cose che rimangono «dietro», cioè non sono<br />
scritte ma che sappiamo che vanno eseguite, soprattutto<br />
nelle legature e nei fraseggi. Io vengo dalla filologia e dallo<br />
studio della prassi antica, che purtroppo nei Conservatori<br />
si insegnano ancora troppo poco.<br />
L’anno scorso al Malibran ha proposto al pubblico veneziano<br />
una lettura molto enfatizzata delle Quattro stagioni di Vivaldi.<br />
Ci sono anche in Rossini margini di libertà esecutiva?<br />
Non molti. La scrittura di Rossini ha molti più segni d’espressione<br />
e quindi siamo più vincolati. I margini ci sono in<br />
relazione al fraseggio, agli accenti, agli appoggi, al legato e allo<br />
staccato, questo sì.<br />
L’Ouverture è innovativa perché comincia con un tempo lento,<br />
che tra l’altro ha un bell’assolo di corno.<br />
A mio parere questo deriva dalla tradizione antica, in cui<br />
molte arie sono affidate a strumenti come il corno, la tromba<br />
o il fagotto, che non erano certo relegati a meri strumenti<br />
d’armonia (basti pensare a Haendel). La melodia del corno<br />
nell’Ouverture è molto dolce e ha subito l’effetto di creare<br />
un ambiente magico. ◼<br />
opera 19
03 SKYClassica_Stagione_out_v 26/10/12 11:23 Pagina 1
1813 - 2013<br />
Un 2013<br />
ricco di eventi<br />
per l’Associazione<br />
Richard Wagner<br />
<strong>Venezia</strong><br />
di Leonardo Mello<br />
Un febbraio particolarmente intenso ha caratterizzato<br />
le attività dell’Associazione Richard<br />
Wagner <strong>Venezia</strong> presieduta da Alessandra Althoff<br />
Pugliese. In una giornata importante come<br />
quella del 13 – ricorrenza dei centrotrent’anni dalla morte<br />
del Genio di Bayreuth, e data simbolica di fondazione<br />
dell’Associazione, nata appunto il 13 febbraio 1992 per volontà<br />
e su impulso di Giuseppe Pugliese – si sono visti alternare<br />
due appuntamenti di grande rilevanza. Alle 17, in collaborazione<br />
con la Fondazione Cini, presso la magnifica sala<br />
degli Arazzi dell’isola di San Giorgio Uri Caine si è esibito<br />
in un concerto dedicato a Wagner e a Verdi, eseguendo nella<br />
prima parte improvvisazioni e variazioni da Tristan und<br />
Isolde, dal Tannhäuser e dai Lieder. Passando al repertorio<br />
del compositore di Busseto ha poi proposto, alla sua maniera,<br />
estratti dall’Otello, richiamando alla memoria la fortunata<br />
Othello Syndrome da lui presentata al Piccolo Arsenale<br />
il 13 febbraio 2003, quand’era direttore del settore Musica<br />
della Biennale. Alle 20 e 45 poi, trasferendosi alla Chiesa<br />
della Pietà, si è poi potuta gustare – all’interno del Concerto<br />
delle Ceneri organizzato dalla Fondazione Levi (cfr.<br />
pp. 66-67) – un’altra primizia, lo Stabat Mater di Palestrina<br />
nella versione messa a punto da Wagner nel 1848. Ma in cosa<br />
consiste, esattamente, quest’operazione wagneriana? Lo<br />
spiega esaurientemente Marco Manzardo nel programma di<br />
sala: «L’intervento di Wagner consisté, innanzitutto, nel ripartire<br />
l’intero mottetto in una serie di azioni dialogiche affidate<br />
di volta in volta a compagini differenti, alternando per<br />
ognuno dei due cori il quartetto di solisti, il semi-coro e il coro<br />
pieno, a loro volta con aggiunta o meno dei soli. Un ragio-<br />
Uri Caine (foto di Simon Miele – wikimedia.org).<br />
Giovanni Pierluigi da Palestrina.<br />
namento per addizione o sottrazione che ricorda la logica dei<br />
resgistri d’organo, la cui somma o combinazione determina<br />
dinamica e colore del suono, oppure la pratica del concerto<br />
barocco italiano, in cui l’alternanza tra concertino dei solisti<br />
e concerto grosso dei “tutti” costituiscono uno dei principali<br />
elementi di originalità e ricerca timbrica. Questo espediente,<br />
unito a numerose e puntigliose indicazioni di nuances dinamiche,<br />
rende la lettura wagneriana del mottetto fortemente<br />
espressiva e ricca di colori, con esiti talvolta quasi madrigalistici,<br />
in cui la musica ritrae fedelmente l’immagine evocata<br />
dalle parole».<br />
Tra i prossimi appuntamenti, si segnala, il 15 marzo,<br />
nell’ambito dell’iniziativa intitolata «Wagner e il cinema»,<br />
la proiezione, alla Querini Stampalia, di Richard Wagner,<br />
pellicola muta di Carl Froelich, accompagnata dalle improvvisazioni<br />
pianistiche di Orazio Sciortino (già borsista<br />
dell’arwv a Bayreuth nel 2009). Il 18 aprile, poi, presso l’Ateneo<br />
Veneto, sarà presentata la seconda edizione del monumentale<br />
volume Richard Wagner. Diario veneziano, a cura<br />
di Giuseppe Pugliese (Corbo e Fiore Editori, 2012), di cui in<br />
chiusura si cita un breve estratto della splendida introduzione:<br />
«Questa è la storia dell’incontro di un artista con una<br />
città: Wagner e <strong>Venezia</strong>. Un incontro – per gli eventi che ne<br />
hanno tracciato l’itinerario e scandito il ritmo – destinato a<br />
fare di <strong>Venezia</strong> una protagonista della vita e dell’arte del musicista.<br />
Sei i soggiorni veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883.<br />
All’origine di ciascuno di essi – simile ad un Leitmotiv – due<br />
condizioni: il bisogno di fuggire da qualcuno e da qualcosa,<br />
quasi ossessivo pedale psicologico di<br />
una esistenza tormentata, irrequieta,<br />
eternamente insoddisfatta. Fuga<br />
dal mondo esterno, sempre ostile,<br />
dagli affanni, dai problemi pratici,<br />
dalle tempeste sentimentali,<br />
dalle fatiche quotidiane. Il bisogno,<br />
sempre più acuto, doloroso,<br />
di un rifugio (il foscoliano “porto”<br />
ove trovare quiete) in una città<br />
amica, discreta, capace di accoglierne<br />
e capirne le contraddittorie, tumultuose<br />
aspirazioni, placarne l’animo,<br />
avvolgerlo in quell’isolamento<br />
e in quel silenzio tanto<br />
a lungo vagheggiati. Questa<br />
città – Wagner non ha dubbi<br />
– è <strong>Venezia</strong>». ◼<br />
opera 21
22<br />
opera<br />
Wagner<br />
e i suoi soggiorni<br />
in Italia<br />
di Renzo Cresti<br />
La prima volta che comparve il nome di Richard<br />
Wagner in Italia fu sul quinto numero della rivista<br />
fondata da Giulio Ricordi, «La Gazzetta Musicale<br />
di Milano», dove si pubblicarono, il 30 gennaio<br />
1842, tre lettere di un «dotto critico musicale tedesco il sig.<br />
R. Wagner» sotto il titolo La musica in Germania, nel quale<br />
si descrivono le qualità della musica strumentale tedesca,<br />
proponendo una sorta di equazione musica sinfonica e ricerca<br />
armonica = musica tedesca: sarà il malinteso che dominerà il<br />
mondo musicale italiano non solo ottocentesco ma che perdurerà<br />
fino alla metà del Novecento. Nell’ambiente musicale<br />
italiano, a torto o a ragione, si pensava che la musica tedesca<br />
fosse troppo intellettuale e che il predominio della musica<br />
orchestrale avrebbe nuociuto all’espressività lirica. Lo stesso<br />
Wagner si era reso conto dell’eccesso di cerebralismo dei<br />
compositori tedeschi, ma non riuscirà a liberarsene, rimarrà<br />
egli stesso un alto esponente proprio di questa tendenza che<br />
parte dai compositori fiamminghi, prosegue con gli organisti<br />
barocchi, viene portata avanti nell’epoca di Bach e arriva<br />
fino a Beethoven, in una linea non certo retta ma comunque<br />
assai visibile. Tutti i musicisti e i critici italiani dell’epoca<br />
partirono da questa equazione e tutti, anche quelli wagneriani,<br />
ne accettarono le conseguenze.<br />
Il critico musicale Filippo Filippi, che pure amava Wagner,<br />
scrisse che il maestro tedesco «è grande quando si abbandona<br />
alla spontaneità della fantasia, altrettanto sia contorto e<br />
minuzioso e pesante quando si avvolge di progetto nelle tortuosità<br />
del sistema, e quando troppo rigorosamente lo vuole<br />
applicare» 1 . Filippi fu l’unico critico italiano che assistette<br />
alle rappresentazioni di Weimar nel 1870 dell’Olandese volante,<br />
Tannhäuser, Lohengrin, I Maestri cantori di Norimberga,<br />
e queste esecuzioni le recensì sul giornale «La perseveranza»<br />
sotto il titolo Viaggio nelle regioni dell’avvenire.<br />
Pur apprezzando lo spessore culturale<br />
e la resa teatrale delle opere di Wagner,<br />
Filippi rimase ancora legato al mondo<br />
musicale italiano secondo lo<br />
stereotipo dell’equazione musica<br />
italiana = canto. Egli apprezzò<br />
infatti l’abbondanza<br />
di melodia dei Maestri cantori<br />
e, per la stessa ragione,<br />
Lohengrin sarà l’opera più<br />
seguita, amata e rappresentata<br />
in Italia.<br />
Wagner ebbe una relazione<br />
controversa con<br />
la cultura italiana, della<br />
quale ben poco conosceva,<br />
apprezzava il<br />
solo Leopardi, i cui scritti<br />
aveva conosciuto a Zurigo<br />
grazie al De Sanctis 2 , precettore<br />
di Mathilde Wesendonck, mentre<br />
di musica italiana e in specie<br />
di opere ne conosceva parecchie,<br />
tanto da avere chiara la situazione<br />
della nostra musica teatrale<br />
fino agli anni qua-<br />
1813 - 2013<br />
ranta. Il rapporto che Wagner ebbe con l’Italia, intesa<br />
quale territorio geografico ma anche come luogo d’arte,<br />
di bellezze naturalistiche e soprattutto come spazio<br />
mentale, fu intenso e complesso, dagli anni cinquanta in<br />
avanti. La musica italiana fu detestata, con un’ammirazione<br />
espressa solo nel caso di Bellini (di cui Wagner diresse molte<br />
opere e più volte) e, in parte, di Rossini (Verdi fu totalmente<br />
ignorato), mentre i luoghi italiani lo attrassero, come posti<br />
in cui ritirarsi e concentrarsi (<strong>Venezia</strong>) o nei quali ricaricarsi<br />
e rifornirsi interiormente di energia positiva (Ravello<br />
e Palermo). I momenti trascorsi nel nostro Paese furono nel<br />
complesso felici e ricchi di prospettive, alcune località furono<br />
foriere di ispirazioni, come La Spezia quando ebbe l’intuizione<br />
del pedale che apre L’oro del Reno; a <strong>Venezia</strong> concluse<br />
il secondo atto del Tristan, a Siena il duomo gli ispirò il santuario<br />
del Graal. Inoltre non è da trascurare il fatto che Cosima<br />
nacque a Como e che Liszt, soprattutto dopo aver preso<br />
gli ordini minori, trascorse molto tempo in Italia. La morte<br />
a <strong>Venezia</strong> non fu un caso, il silenzio che tanto amò della città<br />
lagunare, lo avvolse nel suo ultimo viaggio come un sudario<br />
di suoni velati 3 .<br />
Wagner fu un ottimo camminatore e anche alpinista, nei<br />
suoi soggiorni in Svizzera scalò diverse volte le Prealpi svizzere.<br />
A parte uno sconfinamento a Formazza, durante le gite in<br />
montagna, il primo viaggio in Italia venne realizzato nell’estate<br />
1853, quando lasciò Zurigo per delle cure a Sankt Moritz<br />
e da qui proseguì per Torino, dove arrivò il 29 agosto, ma<br />
la città non gli piacque, proseguì allora per Genova e ne ebbe<br />
una «magnifica impressione», come racconta nella Mia<br />
vita. Il 4 settembre, con un battello, raggiunse La Spezia, lo<br />
colpì la dissenteria ed ebbe bisogno di riposare, cadde in un<br />
dormiveglia in cui ebbe l’intuizione del lungo pedale di mib<br />
che apre L’oro del Reno, ricordò questo sogno sonoro, oltre<br />
che nella sua autobiografia, anche nella lettera che, il 7 novembre<br />
1871, indirizzò a Boito, dopo la première di Lohengrin<br />
a Bologna (che poi fosse proprio così è tutto da dimostrare,<br />
come tanti altri racconti della Mia vita).<br />
Un secondo soggiorno italiano avvenne cinque anni più<br />
tardi, dopo che la moglie Minna aveva scoperto la relazione<br />
di Richard con Mathilde Wesendonck. Wagner fu costretto<br />
a lasciare Zurigo, cercò rifugio a Ginevra, quindi,<br />
il 29 agosto 1858, fu a <strong>Venezia</strong>, dove lo raggiunse<br />
Karl Ritter. La città dipendeva dall’amministrazione<br />
austriaca e questo lo avrebbe tenuto<br />
lontano dalle grane con la polizia tedesca.<br />
Prese alloggio all’hotel Danieli, poi abitò<br />
nel mezzanino di Palazzo Giustiniani, dai<br />
grandi e spogli saloni, con muri ammuffiti<br />
e ricoperti di velluti sbiaditi; qui, dal<br />
suo arrivo fino alla partenza, avvenuta<br />
il 24 marzo dell’anno seguente, lavorò<br />
con regolarità e con sublime ispirazione<br />
al Tristan, in solitudine. L’autunno<br />
e l’inverno veneziano, con le sue brume<br />
ben si addicevano allo stato d’animo.<br />
Solo Ritter, il pianista Winterberger,<br />
allievo di Liszt, l’altro pianista<br />
Tessarin e il principe russo Dolgoruki<br />
riuscirono a frequentarlo. I canti<br />
dei gondolieri gli crearono forti suggestioni<br />
e gli suggerirono la melodia<br />
del pastore nel Tristan. Era circondato<br />
dall’acqua, come i suoi eroi, dal silenzio<br />
rotto solo da vibrazioni<br />
che traducevano la lin-<br />
Richard Wagner.
1813 - 2013<br />
gua in suono.<br />
Fu atterrito dalla vista delle gondole nere, quasi come<br />
se avesse avuto un presagio che una di quelle avrebbe<br />
trasportato la sua salma. I canti dei gondolieri però lo<br />
affascinavano e gli suggerirono il lamento del corno pastore<br />
all’inizio del terzo atto di Tristan. Il tempo sospeso della città<br />
sull’acqua lo faceva sentire beato, è lo stesso tempo spazializzato<br />
che avvolge gli amanti del dramma. Nel silenzio veneziano<br />
riuscì a comunicare al mondo il più sublime lamento<br />
d’amore.<br />
Immergendosi nei meandri sonori del Tristan 4 la sua mente<br />
fu portata in luoghi lontani che evocano il già accaduto e<br />
prefigurano il cosa potrebbe accadere; sono le zone del mito<br />
ma pure quelle dell’inconscio, legato alla vita corrente ma<br />
contemporaneamente lontano dal presente, luoghi dove la<br />
cronologia è oscillante come il rapporto con la realtà. Una<br />
successione di istanti irrelati è ciò che succede anche nell’esperienza<br />
amorosa, dove tutto si concentra sull’oggetto amato<br />
che sospende ogni ordine temporale<br />
e ogni spazio concreto. Certamente<br />
la relazione con Mathilde contribuì alla<br />
creazione della particolare temporalità<br />
spazializzata del Tristan, come fu<br />
determinante il soggiorno a <strong>Venezia</strong>,<br />
luogo sostanzialmente u-topico, fermo<br />
nel tempo e sospeso nello spazio.<br />
<strong>Venezia</strong> non ha un centro, come non<br />
ce l’aveva Wagner nel momento in cui<br />
compose i Wesendonck-Lieder e Tristan<br />
o meglio il suo centro era quello di<br />
un essere instabile, di un amore sfuggente,<br />
di una meta irraggiungibile.<br />
Oltre a questo del 1858-1859 vi furono<br />
altri cinque soggiorni veneziani<br />
(novembre 1861, settembre 1876, ottobre<br />
1880, aprile 1882 e dal 14 settembre<br />
dello stesso anno alla morte) e<br />
ognuno di essi fu causato dall’esigenza<br />
di ritirarsi lontano dall’affaristica volgarità delle città industrializzate<br />
(come più volte ebbe a dire). Di questo primo<br />
soggiorno e del secondo, avvenuto due anni e mezzo dopo,<br />
Wagner ne parla nella Mia vita, nel Diario veneziano e nelle<br />
lettere a Mathilde Wesendonk, mentre degli altri quattro<br />
abbiamo notizie dagli appunti che Cosima prese, nel suo diario<br />
quotidiano, dal 1869 al 1883 5 . Dunque sei furono i soggiorni<br />
veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883, e «all’origine<br />
di ciascuno di essi il bisogno – simile ad un “leit-motiv”<br />
psicologico, con “variazioni” – di fuggire da qualcuno o da<br />
qualcosa, costante “pedale” di una esistenza tormentata, irrequieta,<br />
eternamente insoddisfatta. […] Il bisogno sempre<br />
più acuto, doloroso, di un rifugio spiritualmente sicuro (il<br />
foscoliano “porto” dove trovare quiete) in una città amica,<br />
discreta, capace di accogliere e di comprendere le sue tumultuose<br />
aspirazioni, e avvolgerlo in quel silenzio e in quella solitudine<br />
tanto a lungo vagheggiata» 6 .<br />
Il silenzio dell’inverno veneziano lo avvolse, come ben dice<br />
Pugliese, non era tanto un’assenza di rumori quanto una<br />
quiete interiore che lo sollecitò alla creatività, che dall’interiorità<br />
assolutamente concentrata su se stessa si alzava alle<br />
vette più alte. Riusciva ad avere qualche notizia di Mathilde<br />
da Frau Wille, la quale aveva detto alla signora Wesendonck<br />
che Wagner non possedeva un pianoforte nel suo soggiorno<br />
veneziano: fu così che Mathilde gliene procurò uno che<br />
fece la felicità di Richard. Riuscì ad avere notizie anche da<br />
A sinistra, Mathilde Wesendonck.<br />
A destra, Cosima Wagner.<br />
Minna, la cui salute stava peggiorando, fu Liszt a mandargli<br />
qualche denaro per le cure necessarie alla moglie. A <strong>Venezia</strong><br />
ascoltò le sue prime musiche in territorio italiano, realizzate<br />
dalle Bande militari dei due reggimenti austriaci in sede, si<br />
trattò delle ouverture dal Rienzi e dal Tannhäuser.<br />
Il periodo veneziano fu tormentato: nell’ottobre, Otto<br />
Wesendonck lo informò della morte del loro figlio Guido;<br />
fu per Wagner un colpo assai duro e scrisse ai Wesendonck<br />
per le condoglianze. Furono mesi difficili, trascorsi in solitudine<br />
e con una forte gastrite, il pessimismo lo avvolgeva<br />
tanto da fargli presagire una fine imminente. Il governo di<br />
Sassonia aveva informato quello austriaco della residenza su<br />
suolo veneziano di un suo ricercato, e fu così che il 6 febbraio<br />
1859 gli venne notificato di essere stato bandito da <strong>Venezia</strong>.<br />
Del resto, dopo avergli suggerito il grande duetto d’amore, la<br />
città aveva terminato il suo compito; il 24 marzo 1859 lasciò<br />
la laguna, con in valigia il secondo atto concluso del Tristan.<br />
Partì per Lucerna, via Milano dove si recò alla Scala e dove si<br />
rese conto del lusso esteriore e del degrado del gusto artistico<br />
italiano (forse aveva anche pensato di fermarsi a Milano,<br />
ma la prima impressione negativa cancellò questo pensiero).<br />
L’umore era nero e si sentiva un uomo distrutto e un musicista<br />
da far pietà! Come ci dicono le lettere di questo periodo.<br />
Il 26 marzo lasciò Milano e tornò in Svizzera.<br />
Nel 1861 Wagner scrisse ai Wesendonck della situazione<br />
difficile a Vienna, dove era prevista la rappresentazione del<br />
Tristan ma che trovava molte difficoltà. Forse per rasserenarlo<br />
o forse per inconscio masochismo, i coniugi gli fissarono<br />
un appuntamento a <strong>Venezia</strong>, dove, nel novembre Wagner si<br />
recò, attraversando il Semmering, facendo tappa a Trieste<br />
e giungendo in battello nella città lagunare. Qui trascorse<br />
quattro giorni, dall’8 all’11 novembre, nei quali si rese conto<br />
che il suo rapporto con Mathilde doveva considerarsi concluso.<br />
Otto e sua moglie dimostrarono di aver rinsaldato il<br />
loro rapporto, e per di più lei era incinta. L’unica esperienza<br />
estetica veneziana fu la vista dell’Assunzione di Tiziano che<br />
gli causò una forte emozione, talmente forte da spingerlo –<br />
come lui stesso dichiara nella Mia vita – a riprendere il progetto<br />
dei Maestri cantori. Cosa c’entri l’Assunta con I Maestri<br />
è cosa difficile da capire, probabilmente Wagner si riferiva<br />
all’euforia tipica dei momenti in cui si sente crescere l’energia<br />
creativa, una forte spinta al lavoro, ma anche al fatto che<br />
della sua opera aveva parlato con Mathilde, probabilmente il<br />
giorno prima o il giorno stesso della visita al capolavoro del<br />
Tiziano, chiedendole la restituzione dell’abbozzo che aveva<br />
steso nel 1845 e che le aveva regalato (lei glielo restituì quale<br />
dono nell’imminente Natale). Wagner non aspettò di<br />
opera 23
24<br />
opera<br />
riavere l’originaria bozza, e stese un nuovo copione, pressoché<br />
uguale a quello originario, che evidentemente era rimasto<br />
bene impresso nella sua memoria, e lo spedì all’editore 7 .<br />
Il 14 settembre 1868 ebbe inizio il quarto viaggio di Wagner<br />
in Italia, scese con Cosima attraverso il Gottardo e fece<br />
la prima tappa sul lago Maggiore, poi proseguì per Genova,<br />
dove, per la seconda volta, trascorse giorni felici. Quindi<br />
si recò a Milano per incontrare l’editore Giovannina Lucca<br />
che rilevò i diritti per le sue opere in Italia. La coppia ritornò<br />
in Svizzera passando da Como (la città nativa di Cosima).<br />
Passarono alcuni anni prima che Wagner tornasse in terra<br />
italiana. Fu quando, per riposarsi dalle fatiche dell’allestimento<br />
del Ring a Bayreuth, i Wagner, il 14 settembre 1876,<br />
partirono per l’Italia. Passando da Verona, raggiunsero <strong>Venezia</strong>,<br />
e qui fu recapitata a Wagner una lettera dell’amministratore<br />
del festival, Feustel, che informava il maestro del debito<br />
di centoventimila marchi, una cifra enorme che Wagner<br />
dubitò di poter reperire. Gli fu prospettato di trasferire il festival<br />
a Monaco, ma ovviamente non accettò. Acconsentì però<br />
che La Walkyria fosse staccata dal ciclo e rappresentata da<br />
sola a Vienna (progressivamente dette l’autorizzazione alla<br />
messinscena di questa singola giornata, che fu la più richiesta,<br />
anche in altri teatri).<br />
All’arrivo dell’autunno i Wagner scesero a Napoli, poi proseguirono<br />
per Sorrento, dove ritrovarono Nietzsche, che era<br />
là per curarsi in compagnia di Paul Rée; i vecchi amici s’incontrarono<br />
solo due volte, oramai il loro dialogo si era interrotto.<br />
Quindi i Wagner risalirono verso Roma, dove si trattennero<br />
per quattro settimane, durante le quali Richard fu<br />
festeggiato dall’ambasciatore tedesco von Keudell, che dette<br />
una serata in suo onore, e dalla Reale Accademia di Santa<br />
Cecilia, che lo nominò «socio onorario». Dall’ambasciatore<br />
conobbe Giovanni Sgambati, fu colpito dal suo Quintetto<br />
per pianoforte e lo presentò alle edizioni Schott (che poi<br />
pubblicò molte composizioni di Sgambati), fu uno dei pochi<br />
compositori a cui Wagner degnò attenzione. A Roma Cosima<br />
incontrò la principessa Sayn-Wittgenstein e Wagner conobbe<br />
Gobineau.<br />
Il 3 dicembre Wagner fu a Firenze e il giorno dopo a Bologna,<br />
per la rappresentazione di Rienzi, quindi fece ritorno<br />
nel capoluogo toscano, soggiornando nel bel palazzo Ricasoli,<br />
affacciato sull’Arno; si trattenne quattordici giorni,<br />
durante i quali si recò più volte agli Uffizi, accompagnato<br />
dal barone Liphardt (rimase affascinato soprattutto<br />
dalla Primavera di Botticelli, nella<br />
quale vide trasfigurata Freia). Visitò<br />
anche san Miniato, Fiesole<br />
e Pisa. Ebbe modo di rivedere<br />
Jenny Laussot e di conoscere<br />
il compositore fiorentino<br />
Giuseppe Buonamici, che<br />
era stato allievo di Hans<br />
von Bülow al Conservatorio<br />
di Monaco 8 .<br />
La composizione di<br />
Parsifal procedeva fra<br />
euforie e depressioni,<br />
addirittura alla fine<br />
del 1878 rilesse alcune<br />
partiture di Liszt, soprattutto<br />
La campana<br />
di Strasburgo, per<br />
paura di aver inconsapevolmente<br />
ripreso<br />
qualcosa. In ogni ca-<br />
Giovanni Sgambati.<br />
so, ha la fortuna di poter lavorare senza interruzioni.<br />
Il 31 dicembre del 1879, i Wagner, con i bambini, partirono<br />
per Napoli, dove arrivarono il 4 gennaio installandosi<br />
a Villa d’Angri, stupefacente dimora dalla quale<br />
si gode un panorama mozzafiato che va dal golfo di Napoli<br />
a Posillipo. Con loro era anche Heinrich von Stein, giovane<br />
ma reazionario studioso, precettore del piccolo Siegfried. Alla<br />
Villa andò a trovarli il pittore russo Paul von Joukowsky,<br />
futuro scenografo di Parsifal. I Wagner si recarono a Napoli<br />
più volte, andarono al San Carlo per assistere a una rappresentazione<br />
dell’Ebrea di Halévy e si recarono pure in visita al<br />
Conservatorio di San Pietro a Maiella, ricevuti da un Francesco<br />
Florido esultante. I coniugi si recarono inoltre in visita<br />
ad Amalfi e a Ravello dove, nel parco di Villa Rufolo, Wagner<br />
ebbe l’ispirazione per la messinscena del magico giardino<br />
di Klingsor, nel quale ammiccavano sensuali, fra rosai<br />
profumati, le Fanciulle fiore 9 .<br />
Giunta l’estate, il caldo diventò troppo forte e si formò il<br />
desiderio di un posto che fosse «meno Africa e più Italia»;<br />
Cosima riuscì a trovare un luogo adatto e la famiglia, in agosto,<br />
si trasferì a villa Torre Fiorentina, alle porte di Siena. Risalendo<br />
dalla Costa amalfitana si fermarono a Roma e, prima<br />
di giungere a Siena, rividero Firenze e, per la prima volta,<br />
Pistoia e Perugia; il 22 agosto 10 arrivarono a Siena, dove Wagner<br />
fu affascinato dal duomo e fu proprio dalla cattedrale<br />
della bella città toscana che Joukowsky prese ispirazione per<br />
il tempio del Graal. Liszt trascorse dieci giorni con loro e insieme<br />
al genero Wagner suonò tutto il terzo atto di Parsifal.<br />
Nel frattempo Ludwig aveva acconsentito che Parsifal venisse<br />
rappresentato esclusivamente a Bayreuth.<br />
Il 1 ottobre i Wagner partirono da Siena e, dopo una nuova<br />
sosta a Firenze, arrivarono a <strong>Venezia</strong>. Dal 4 al 30 ottobre<br />
i Wagner furono all’hotel Danieli e poi a palazzo Contarini<br />
delle Figure a <strong>Venezia</strong>. Nel novembre la famiglia si recò a<br />
Palermo, alloggiando prima nel lussuoso Hôtel des Palmes e<br />
successivamente a villa Gangi ai Porrazzi. Qui Wagner riprese<br />
un frammento che aveva abbozzato per il Tristan ma mai<br />
concluso, si tratta di tredici battute in lab che vogliono simboleggiare<br />
il collegamento fra Tristan e Parsifal, il rapporto<br />
fra due epoche della propria vita, ma forse anche la relazione<br />
fra i caratteri dei due protagonisti. Queste battute sono note<br />
come il Tema di Porrazzi e furono regalate a Cosima, la qua-<br />
Paul von Joukowsky.<br />
1813 - 2013
1813 - 2013<br />
le ebbe anche, per il suo compleanno, il dono dell’esecuzione<br />
dell’ouverture Polonia composta da un giovane<br />
Richard nel 1836.<br />
Nella città, dove, tanti anni or sono, senza conoscerla,<br />
aveva ambientato Il divieto d’amare, ora Wagner progettava<br />
anche di scrivere musica orchestrale e di riprendere, come desiderava<br />
e sollecitava Ludwig, I Vincitori, ma l’abbozzo non<br />
era più utilizzabile perché molte idee erano passate a Parsifal.<br />
Gli si presentò Auguste Renoir, che stava facendo un viaggio<br />
in Italia e che avrebbe voluto portare ai fan wagneriani a Parigi<br />
un ritratto del maestro, cosa che avvenne effettivamente;<br />
Wagner disse che nel ritratto di Renoir gli sembrava di essere<br />
un pastore protestante e il pittore, da parte sua, dichiarò che<br />
la testa di Wagner era meravigliosa! 11 Il 20 marzo i Wagner si<br />
trasferirono ad Acireale, insieme a loro il conte siciliano Gravina,<br />
fidanzato di Blandine. Furono testimoni del passaggio<br />
di Garibaldi ferito e ne furono commossi. Ad Acireale Wagner<br />
fu colto da uno spasmo cardiaco, prima avvisaglia di ciò<br />
che lo condurrà alla morte. La famiglia visitò Catania, Giarre,<br />
Riposto e Taormina che, con la sua stupenda posizione,<br />
colpì profondamente Wagner. Ai primi di aprile partirono<br />
per <strong>Venezia</strong>, dove giunsero il 15, trattenendosi per due settimane,<br />
prima di ripartire per Monaco. Nietzsche ascoltò per<br />
la prima volta Carmen.<br />
Il 13 gennaio Richard 1882 terminò Parsifal a Palermo,<br />
anche grazie all’aiuto di Engelbert Humperdink, il giovane<br />
compositore che mise in bella copia la partitura (divenuto<br />
poi famoso per il gustoso lavoro Hänsel und Gretel). Nell’aprile<br />
i Wagner intrapresero il viaggio di ritorno, passando<br />
da Acireale, Napoli e <strong>Venezia</strong>, dove si fermarono all’hotel<br />
Europa. Curiosa coincidenza il fatto che Wagner scrisse in<br />
quel mese a <strong>Venezia</strong> il saggio Sul maschile e il femminile nella<br />
cultura e nell’arte: su un argomento analogo scriverà anche<br />
il suo ultimo saggio, ancora a <strong>Venezia</strong>, Del femminino<br />
nell’umano.<br />
Il 26 luglio, dopo sei anni, il Festspielhaus riaprì per la prima<br />
rappresentazione di Parsifal 12 . Fra gli spettatori ne mancavano<br />
tre illustri: Ludwig, Nietzsche 13 e Bülow. Il festival si<br />
protrasse fino al 29 agosto 14 , e a rassegna terminata, per rilassarsi<br />
dalla tensione e dalle fatiche, i Wagner vollero tornare<br />
in Italia. Giunsero a <strong>Venezia</strong> il 16 settembre, sistemandosi<br />
per alcuni giorni all’Hotel Europa poi a Palazzo Vendramin<br />
Calergi, dove Wagner aveva affittato le stanze del mezzanino<br />
da Maria Carolina duchessa di Berry (che aveva acquistato<br />
il palazzo da Nicolò e Gasparo Vendramin Galergi<br />
e lo aveva restaurato con un buon impianto di stufe: sembra<br />
che Wagner, assai freddoloso, scegliesse questo palazzo,<br />
oltre che per la bella posizione sul Canal Grande, per l’eccellente<br />
impianto di riscaldamento) 15 .<br />
La città ci piace. […] Andiamo sulla Riva dove passeggiamo a<br />
lungo. […] Poi ci rechiamo al giardino pubblico, dove Richard<br />
vuole informarsi se Siegfried possa imparare là a cavalcare. […] Al<br />
giardino Papadopoli, i pappagalli e le belle aiuole piacciono molto<br />
a Richard. […] La vista del Canal Grande, da sotto il ponte di Rialto,<br />
gli procura sempre una grandissima gioia; il ponte stesso con<br />
gli ampi gradini, gli dà un senso di sicurezza. E resta dell’opinione<br />
che nessuna città possa competere con <strong>Venezia</strong>. 16<br />
La salute di Wagner si dimostrò malferma, nel novembre<br />
ebbe un attacco cardiaco, in piazza san Marco. Poco dopo<br />
Cosima festeggiò il suo quarantacinquesimo compleanno e<br />
per l’occasione Richard rielaborò la sua giovanile Sinfonia in<br />
do, che fu eseguita al teatro La Fenice il 24 dicembre, dai docenti<br />
e dagli allievi del Conservatorio. In una lettera del 31<br />
Friedrich Nietzsche.<br />
dicembre, indirizzata all’editore del «Musikalischen Wochenblatt»,<br />
Wagner descrisse con dovizia di particolari la<br />
preparazione del concerto e l’esecuzione, ricordando quando<br />
la partitura venne eseguita la prima volta: allora aveva solo<br />
diciannove anni e il consigliere della Gewandhaus-Konzert,<br />
Rochlitz, fu sorpreso dalla giovane età; Wagner scrisse<br />
anche che lui stesso s’era meravigliato della bontà del suo lavoro<br />
e questo lo convinse che per fare l’artista la dote naturale<br />
è decisiva, infatti, lui aveva seguito i suoi modelli formali,<br />
Mozart e Beethoven, ma il lavoro giovanile si reggeva in piedi<br />
non per l’abilità tecnica ma per il talento.<br />
Era giunto, il 19 novembre, anche Liszt per trascorrere<br />
qualche settimana con i Wagner, per porgere gli auguri<br />
di buon compleanno alla figlia e quelli di Natale a Wagner.<br />
Liszt rimase fino al 13 gennaio dell’anno successivo, quando<br />
ripartì per Budapest. La struggente e melanconica atmosfera<br />
invernale di <strong>Venezia</strong>, ispirò all’abbé, forse in preda a un<br />
presentimento, una delle pagine più belle del suo ultimo periodo<br />
creativo, La gondola funebre, brano che sembra presagire<br />
l’imminente fine di Wagner.<br />
In questi mesi Wagner ebbe un contrasto con Giovannina<br />
Lucca, la quale, a ragione, affermava di avere i diritti anche<br />
su Parsifal, in virtù del contratto stipulato nel 1868. Vi<br />
furono due lettere della Lucca 17 a Wagner, e fu soltanto grazie<br />
ai buoni uffici del dottor Strecker che la questione si appianò,<br />
non andando a intaccare l’esclusiva che Wagner aveva<br />
concesso a Schott.<br />
Le donne, così tanto bramate e che tanta parte ebbero<br />
nell’ispirazione del maestro, furono la causa dell’accelerazione<br />
della fine. All’inizio del 1883, Cosima seppe che sarebbe<br />
giunta a <strong>Venezia</strong> Carrie Pringle, un soprano che aveva<br />
interpretato una Fanciulla fiore alla premiére di Parsifal. Il<br />
12 febbraio vi fu un violento litigio ed è possibile che questo<br />
alterco, come pare sostenne il medico che fu chiamato dopo<br />
il malore di Wagner, sia stato la causa dell’infarto mortale;<br />
il cuore del maestro cessò di battere il giorno dopo, 13 febbraio<br />
1883.<br />
Beniamino Dal Fabbro, nel 1949, raccolse la testimonianza<br />
di Piero figlio di Papete, che fu l’ultimo gondoliere di Wagner,<br />
il quale accompagnò il critico nell’appartamento in cui<br />
Wagner morì e lasciò questa dichiarazione:<br />
Il giorno che gli venne male, Wagner<br />
era appena tornato con mio<br />
padre dal solito giro in gondola.<br />
Lui era qui, sopra il divano<br />
da una persona e mezza, davanti<br />
al tavolino degli scacchi.<br />
Appoggiò la testa sul<br />
tavolino e gli scacchi rotolarono<br />
sul pavimento;<br />
era rimasta in piedi soltanto,<br />
tra i suoi capelli, la<br />
regina nera. Corse mio padre,<br />
chiamò subito la Cosima,<br />
che si trovava dall’altra parte<br />
della casa. In due lo trasportarono<br />
a braccia sul letto, là<br />
nella camera; ma lui era<br />
ormai morto 18 .<br />
Wagner stava lavorando<br />
al saggio Del<br />
femminino nell’umano.<br />
Nietzsche, che stava<br />
scrivendo Zarathustra,<br />
de-<br />
opera 25
26<br />
opera<br />
finirà poi, in Ecce home, «sacra» l’ora<br />
della morte di Wagner. Il giorno dopo,<br />
14 febbraio, Verdi scrisse a Ricordi:<br />
«Triste! Triste! Triste! Vagner<br />
è morto! Leggendone il dispaccio<br />
ne fui atterrito». Bruckner, l’unico<br />
compositore insieme a Sgambati<br />
che Wagner apprezzò al di fuori di<br />
quelli che formavano la Cancelleria<br />
di Bayreuth, stava componendo<br />
la Settima sinfonia, la Coda fu intitolata<br />
Musica funebre per il maestro<br />
defunto.<br />
Il giovane D’Annunzio, che nella<br />
sua prima fase subì fortemente<br />
l’influenza wagneriana, fu fra<br />
coloro che sostennero il feretro<br />
che da palazzo Vendramin fu portato<br />
alla gondola nera che lo condusse<br />
alla stazione. La reazione di<br />
Nietzsche fu dura: «Ora comincio<br />
a riprendermi, e credo proprio<br />
che la morte di Wagner sia<br />
il sollievo maggiore che mi po-<br />
Franz Listz.<br />
1. Filippo Filippi, Secondo viaggio nelle regioni<br />
dell’avvenire, in G. M. Lleonardt, Riccardo Wagner,<br />
Milano, Dumolard 1881, p. 161.<br />
2. Cosima pensò anche di far tradurre diversi scritti e<br />
poesie di Leopardi. In casa Wagner era conosciuta anche<br />
l’attività di Mazzini i cui scritti degli anni trenta sono,<br />
per molti aspetti, vicini a quelli wagneriani degli anni<br />
quaranta-cinquanta.<br />
3. Cfr. Renzo Cresti, Wagner in Italia, “Feeria” n. 42,<br />
Panzano in Chianti settembre 2012.<br />
4. Il Tristan und Isolde è un dramma diverso dagli altri<br />
fin dal titolo, poiché in quasi tutte le altre opere la<br />
titolazione indica il protagonista, in solitudine (Rienzi,<br />
l’Olandese, Tannhäuser, Lohengrin, Siegfried, Parsifal),<br />
mentre qui è l’unione indissolubile ad annunciarsi:<br />
«Il nostro amore, / non si chiama Tristan / e Isolde?»<br />
ma anche la congiunzione infine verrà tolta, Isolde<br />
vuol diventare Tristan e lui vuol divenire lei. È un’opera<br />
che ha l’ambizione di avvicinarsi all’ontologia.<br />
5. Il periodo in cui Wagner periodicamente frequentò<br />
<strong>Venezia</strong> è lungo venticinque anni e alla città lagunare<br />
egli confidò «i suoi malumori, la tristezza di un amore<br />
finito, la malinconia del tempo che passa, il suo lavoro,<br />
il piacere della compagnia dei figli, la profondità del<br />
rapporto con la moglie e, talvolta, in modo inaspettato,<br />
il suo umoristico sarcasmo», la città esprimeva quel<br />
«desolato senso di abbandono che tanto aveva colpito<br />
Wagner la prima volta che la visitò, ma pur sempre scrigno<br />
di sogni e desideri, di bellezze e meraviglie» da Itinerari<br />
veneziani di Richard Wagner, immagini d’epoca<br />
e foto di Mario Vindor, a cura dell’Associazione Richard<br />
Wagner di <strong>Venezia</strong>, Punto Marte, <strong>Venezia</strong> 2008, p. 123.<br />
6. Giuseppe Pugliese, Wagner e <strong>Venezia</strong>: un viaggio<br />
attraverso le immagini, in Itinerari veneziani di Richard<br />
Wagner, cit., p. 7.<br />
7. Durante il viaggio di ritorno a Vienna ebbe la prima<br />
ispirazione musicale dei Maestri cantori e concepì<br />
subito, con la massima precisione, come racconta nella<br />
Mia vita, la parte principale del Vorspiel in do maggiore.<br />
Nell’autunno del 1865 Wagner riprese la partitura di<br />
Siegfried, un miracolo dopo così tanto tempo, dato che<br />
era stata interrotta al secondo atto nel luglio del 1857.<br />
8. Buonamici (Firenze, 1846-1914) fu pianista assai<br />
stimato da Liszt, tanto che questi lo invitò a Weimar<br />
nel 1879. Fu presente alla première di Parsifal a<br />
Bayreuth. Il giorno della partenza di Wagner da Firenze<br />
per Bayreuth, il 17 dicembre, in occasione di un rinfresco<br />
per salutare il maestro, venne eseguito un quartetto<br />
di Buonamici (che aveva composto a Monaco do-<br />
po aver ricevuto i consigli di Rheinberger).<br />
9. A seguito della marcia celebrativa del centenario<br />
della fondazione della città di Philadelphia, che aveva<br />
composto quattro anni prima, pervennero a Wagner<br />
delle proposte di lavoro dagli Stati Uniti e fu quasi per<br />
accettarle, come dimostra il fatto che regalò al figlioletto<br />
Siegfried un libro che illustrava la vita americana. Fra<br />
gli altri, lo stesso Ludwig cercò di distrarlo dal proposito<br />
di recarsi in America, dicendogli che nella terra del<br />
denaro la sua arte non sarebbe mai fiorita, promettendogli<br />
inoltre ancora aiuti economici per Bayreuth.<br />
10. Due giorni prima, da Marienbad, Nietzsche scrisse<br />
a Peter Gast: «Niente può compensare per me il fatto<br />
di aver perduto negli ultimi anni la simpatia di Wagner.<br />
Quante volte sogno di lui, e sempre nello stile dei nostri<br />
rapporti confidenziali di un tempo. Tra noi non è mai<br />
corsa una parola cattiva, neppure nei miei sogni, molte<br />
invece incoraggianti e liete, e con nessuno forse ho mai<br />
riso tanto. Ma ormai è finita», in Carteggio Nietzsche-<br />
Wagner, p. 164.<br />
11. Dallo schizzo che Renoir fece a Palermo ricavò poi<br />
il ritratto, esposto alla biblioteca dell’Opéra.<br />
12. La sala, come già nelle rappresentazioni del Ring,<br />
fu al buio e gli spettatori furono invitati a seguire la musica<br />
in silenzio; s’inaugurò la tradizione di applaudire<br />
solo alla conclusione del secondo e del terzo atto.<br />
13. Nell’estate del 1882, da Tautenburg, Nietzsche<br />
scrisse a Lou Salomé: «Le ultime parole che Wagner<br />
ebbe per me sono la dedica di un bell’esemplare di Parsifal,<br />
“Al caro amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner<br />
membro del Concistoro”. Quasi allo stesso tempo<br />
gli giungeva, inviato da me, il mio volume Umano, troppo<br />
umano e così tutto era chiarito. Ma anche tutto finito»,<br />
in Friedrich Nietzsche, Epistolario, Einaudi, Torino<br />
1977, p. 169.<br />
14. Durante quell’ultima rappresentazione Wagner<br />
diresse il terzo atto, e sono interessanti le testimonianze<br />
che ci raccontano come i tempi della sua direzione fossero<br />
molto più lenti di quelli di Levi.<br />
15. Due mesi dopo la morte di Wagner, venne pubblicato<br />
ad Augusta il libro di Henry Perl, Richard Wagner<br />
in Venedig, nel quale viene descritta la vita della famiglia<br />
Wagner a Palazzo Vendramin Calergi: «Nella stanza<br />
da letto di Wagner tutto contribuiva a creare un’atmosfera<br />
magica, come in un sogno. La luce singolare, come<br />
se fosse giorno eppure così piacevolmente soffusa,<br />
le pareti ricoperte di raso rosa pallido e verde acqua. […]<br />
Il centro della stanza-salone era occupato da un letto,<br />
le cui dimensioni erano decisamente esagerate. Questo<br />
1813 - 2013<br />
tesse capitare» 19 .<br />
Durante il viaggio di ritorno verso<br />
Bayreuth 20 la salma di Wagner fu<br />
onorata da una gran folla, specialmente<br />
a Monaco, dove erano giunte<br />
molte corone di fiori, fra cui quella di<br />
Ludwig, il quale avrebbe preteso di<br />
seppellire lui il corpo dell’amatissimo<br />
amico, cosa che non sarebbe<br />
stata certo sconveniente. Due mesi<br />
esatti dopo la morte di Wagner,<br />
la compagnia di Neumann rappresentò<br />
l’intero ciclo nibelungico<br />
al teatro La Fenice, era il 14<br />
aprile; il 19 si tenne al Conservatorio<br />
un concerto solenne<br />
in memoria del maestro e<br />
una maestosa cerimonia<br />
si svolse sul Canal<br />
Grande. L’anno successivo,<br />
con l’ode barbara<br />
carducciana, Presso<br />
l’urna di Percy Bysshe<br />
Shelley, conclusa il 13 dicembre<br />
1884, ebbe inizio la consacrazione di Wagner<br />
nella letteratura italiana 21 . ◼<br />
letto, a guisa di letto antico, si sollevava dal pavimento<br />
di appena un piede ed era foderato con un pesante raso<br />
color tè ghiacciato. […] Un maestoso pianoforte a coda<br />
era ricoperto pure con una lucida seta sulla quale brillavano<br />
delle rose. Le finestre erano mascherate da tende<br />
in sei strati, dal blu scuro a sfumature più chiare fino<br />
al rosa e verde, con le quali la luce esterna era trattenuta<br />
totalmente. Perfino il giorno, con i suoi umori mutevoli<br />
e con i diversi effetti di luce, non doveva disturbare la<br />
vivificante armonia in questo Eden ricreato artificiosamente!»<br />
Cit. in Sale Richard Wagner, a cura dell’Associazione<br />
Richard Wagner di <strong>Venezia</strong>.<br />
16. Itinerari veneziani di Richard Wagner, cit., pp.<br />
<strong>51</strong>, 52, 73, 57. Questi appunti di Cosima sono tutti volti<br />
ad annotare i (f)atti e le reazioni di Richard, quasi come<br />
se le sue e quelle delle altre persone non esistessero.<br />
L’acqua, i giardini, i cavalli, i pappagalli, le bellezze di<br />
una natura silenziosa attiravano Richard più dei monumenti<br />
e dei musei.<br />
17. Dopo la morte di Wagner, la Lucca si accordò con<br />
Cosima per riconoscere la compartecipazione agli utili<br />
delle rappresentazioni dei drammi wagneriani in Italia<br />
a Siegfried e a Eva. Dal 1888 la casa editrice passò alle<br />
edizioni Ricordi, le quali si erano assai più industrializzate,<br />
abbandonando quella dimensione artigianale<br />
che ancora era conservata dalle edizioni Lucca. Guarda<br />
caso, dopo l’acquisizione dei diritti sui drammi di Wagner,<br />
Giulio Ricordi cambiò idea sul maestro tedesco,<br />
prima bistrattato, in nome della bella melodia italiana,<br />
ora riconosciuto quale genio musicale!<br />
18. Beniamino Dal Fabbro, I bidelli del Walhalla, Parenti,<br />
Firenze 1954, p. 66. La semplice testimonianza<br />
del figlio del gondoliere di Wagner è verosimile; dice<br />
anche, a dimostrazione di quanto Wagner fosse attratto<br />
dal silenzio sonoro dell’acqua veneziana, che «negli<br />
ultimi mesi, quando ormai non stava più bene, voleva<br />
uscire lo stesso e mio padre lo portava in gondola, sempre<br />
per lo stesso giro di canali», pp. 65-66.<br />
19. Da Rapallo, lettera a Peter Gast, datata 19 febbraio<br />
1883, in Friedrich Nietzsche, Epistolario, p. 189.<br />
20. Cosima resse le sorti del festival fino al 1906,<br />
quando si ritirò e passò la direzione a Siegfried, musicista<br />
preparato e uomo di vasta cultura ma assai conservatore,<br />
anche se nei festival che allestì dal 1924 al 1930<br />
tentò qualche prudente innovazione. Cosima morirà<br />
nel 1930, poco dopo morirà anche Siegfried.<br />
21. Cfr. Renzo Cresti, Richard Wagner, la poetica del<br />
puro umano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2012,<br />
anche in edizione inglese Richard Wagner, The Poetics<br />
of the Pure Human.
Beethoven<br />
con il quartetto Belcea<br />
A<br />
San Giovanni Evangelista tutto Beethoven<br />
con il Quartetto Belcea, di formazione inglese,<br />
ma guidato da una splendida violinista rumena<br />
che dà il nome al complesso. Per la Società veneziana<br />
di Concerti il 3 febbraio scorso si è ascoltata una interpretazione<br />
moderna, di impianto antiromantico, molto formalizzata.<br />
Il Quartetto Belcea approfondisce il valore strutturale<br />
della dinamica, come fondamentale caratterizzazione<br />
del pensiero beethoveniano. Ciò è evidente sin dal brano<br />
di esordio, il Quartetto op.18 n. 4.<br />
L’impostazione è apparentemente<br />
settecentesca, ma la differenza delle<br />
gradazioni di intensità, dal pianissimo<br />
alla incisività tagliente, determina<br />
il lucido distacco dell’opera dal precedente<br />
haydniano, chiarificando la novità espressiva.<br />
Il forte carattere oggettivo e intellettuale<br />
Sopra, la Scuola Grande<br />
di San Giovanni Evangelista.<br />
In alto a destra,<br />
il Quartetto Belcea.<br />
Al centro,<br />
Ludwig van Beethoven.<br />
di Mario Messinis<br />
dell’interpretazione è evidente anche nella singolare analisi<br />
contrappuntistica, al di là dei consueti «tre stili» attribuiti<br />
a Beethoven. È quanto si coglie nella corrispondenza e<br />
nella sottigliezza subcutanea dei decorsi polifonici, sia nella<br />
giovanile op.18, come nell’ultimo<br />
capolavoro quartettistico,<br />
l’op. 135. Beethoven è classico<br />
o romantico? Il Quartetto<br />
Belcea crede nel classicismo,<br />
ma con punte<br />
di asciuttezza<br />
strumentale<br />
quasi novecentesca.<br />
È quanto<br />
si è notato<br />
anche nella mirabile<br />
esecuzione<br />
dell’op. 59 n. 1, resa<br />
con tempi più mossi<br />
del consueto e<br />
con tensioni interne<br />
di una<br />
scarnificata<br />
drammaticità.<br />
◼<br />
classica<br />
27
28<br />
classica<br />
Claudio Scimone<br />
dirige l’Orchestra<br />
della Fenice a cura di Andrea Oddone Martin<br />
I<br />
capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart occupano<br />
uno spazio importante nella ricca programmazione stagionale<br />
del Gran Teatro La Fenice di <strong>Venezia</strong>. Principalmente<br />
il trittico dapontiano: Don Giovanni, Nozze di<br />
Figaro e Così fan tutte, meravigliose opere nate dal Genio salisburghese<br />
di innata vocazione teatrale. A incorniciare<br />
la gloriosa triade, una serie di quattro concerti<br />
tenuti dall’Orchestra del Teatro veneziano dedicati<br />
alla musica di Mozart. Il primo appuntamento,<br />
previsto il 26 aprile al Malibran, avrà in programma<br />
la Sinfonia n. 38 kv 504 «Praga», il Concerto<br />
per fagotto e orchestra kv 191 e la Sinfonia n. 35<br />
kv 385 «Haffner». Sul podio a dirigere l’orchestra<br />
salirà Claudio Scimone al quale abbiamo chiesto quali sono<br />
gli aspetti salienti della sua lettura del repertorio mozartiano.<br />
«Ho diretto spesso la musica di Mozart, sia il repertorio<br />
operistico – ad esempio Il flauto magico e Don Giovanni –<br />
che quello sinfonico. Molte delle numerose partecipazioni<br />
dei Solisti Veneti al Festival di Salisburgo, più di una trentina,<br />
hanno avuto in programma il repertorio mozartiano, per<br />
il quale è fondamentale<br />
la ricerca della<br />
giusta sonorità, che,<br />
soprattutto per quel<br />
che riguarda le Sinfonie,<br />
non deve essere<br />
“secca” perché provienedall’intenzione<br />
di un compositore<br />
di opere teatrali. Un<br />
compositore d’opera<br />
che si cimenti nella<br />
stesura di una Sinfonia<br />
non azzera la sua<br />
propensione alla comunicatività,all’ampiezza<br />
e alla varietà<br />
dei suoni di carattere<br />
teatrale, sontuoso.<br />
È all’opposto<br />
dell’arcata sospesa,<br />
lieve, astratta, quella<br />
che un tempo si diceva<br />
“in stile” e che<br />
in sostanza significava<br />
“suonata senza carattere”.<br />
Ritengo che<br />
la musica di Mozart sia “teatrale” persino nei quartetti. D’altra<br />
parte, egli è vissuto tra i cantanti e infatti oltre alle opere<br />
c’è tutta la letteratura straordinaria delle Cantate. Possiamo<br />
prendere come esempio anche Vivaldi: non si può pensare<br />
che fossero compositori diversi il Vivaldi che scriveva l’Estro<br />
Armonico – e quindi il concerto solistico, certamente nato<br />
da un’esperienza operistica – e il Vivaldi che scriveva per il<br />
teatro. V’è una teatralità profonda nella musica strumentale<br />
di Vivaldi, basti pensare alle grandi introduzioni degli archi<br />
in ottava. È tutta musica che viene suonata pensando al-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Malibran<br />
26 aprile, ore 20.00<br />
28 aprile, ore 17.00<br />
la qualità del colore. Da questo punto di vista, possiamo certamente<br />
ravvisare un parallellismo tra i due compositori, entrambi<br />
dominati dal culto del suono, del suono comunicativo,<br />
ricco. Una considerazione a sostegno del mio pensiero,<br />
che si distingue da alcune prese di posizione particolarmente<br />
settarie: il fatto che uno strumento potesse essere un limite<br />
e non una condizione viene provato dall’evoluzione nel tempo<br />
degli strumenti musicali. Un altro esempio: Tartini cercò<br />
continuamente di modificare lo strumento in virtù della<br />
propria idea sonora. Devo il mio approfondimento della musica<br />
di Mozart anche alla personale amicizia con Bernhard<br />
Paumgartner, conosciuto al Mozarteum, dove studiavo con<br />
un altro specialista mozartiano, Carlo Zecchi. In quel luogo<br />
conobbi uno dei miei riferimenti fondamentali per la direzione<br />
d’orchestra, Dmitri Mitropulos. Studiai<br />
con lui a Salisburgo e a Vienna, e anche alla Sca-<br />
la di Milano. Apriremo il concerto che si terrà al<br />
Malibran con la Sinfonia «Praga» e lo chiuderemo<br />
con il finale della «Haffner»; tra le due sinfonie<br />
eseguiremo una composizione giovanile di<br />
Mozart: il Concerto in si bemolle maggiore per<br />
fagotto e orchestra kv 191, avvalendoci dell’eccezionale<br />
fagottista Roberto Giaccaglia».<br />
I Solisti Veneti da lei fondati e diretti sono nel tempo divenuti<br />
celebri per le esecuzioni di musica barocca: si tratta di una<br />
specializzazione?<br />
In realtà, avendo studiato direzione con Franco Ferrara e<br />
con Dmitri Mitropulos non posso che sentirmi un «direttore<br />
romantico». Ma provenendo da una piccola città ho dovuto<br />
creare la mia orchestra, che, per esigenze d’organico, si ri-<br />
volse forzatamente al repertorio barocco al quale mi dedicai<br />
con studi e ricerche, conseguendo, lo posso dire a posteriori,<br />
degli ottimi risultati. Ad esempio fu un successo internazionale<br />
l’esecuzione dell’opera vivaldiana Orlando Furioso – sia<br />
al Filarmonico di Verona che al Théâtre du Chatelet di Parigi<br />
– con Marilyn Horne e la regia di Pier Luigi Pizzi. Il secondo<br />
concerto dei Solisti Veneti aveva in programma Verklärte<br />
Nacht di Arnold Schoenberg; quindi fin già dall’inizio<br />
Claudio Scimone.
le nostre ambizioni avevano un repertorio di vasti orizzonti.<br />
A tutt’oggi i Solisti Veneti spaziano da Giovanni Gabrieli<br />
a composizioni scritte nell’anno in corso, coprendo tutto<br />
l’arco del repertorio cameristico<br />
esistente. Un’orchestra<br />
piuttosto longeva<br />
la nostra, se si pensa che<br />
prossimamente eseguiremo<br />
il nostro seimillesimo<br />
concerto e il prossimo anno<br />
celebreremo il cinquantacinquesimo<br />
anno di attività.<br />
Nel corso del tempo la<br />
compagine ha elevato costantemente<br />
il suo profilo<br />
qualitativo.<br />
Paradossalmente, mi pare<br />
che la cultura in genere, e in<br />
particolare la cultura musicale<br />
in Italia, sia considerata<br />
sempre più, mi permetta<br />
il termine, «accessoria».<br />
È una vergogna del «sistema<br />
Italia», il quale non<br />
capisce (ma spesso non sa,<br />
non conosce) che soprattutto<br />
la musica non è solo<br />
spettacolo, non è riducibile<br />
esclusivamente alla<br />
sua esteriorità: la musica<br />
è il mezzo educativo più<br />
potente che esista, come ci<br />
insegna il Venezuela con<br />
il grande esperimento del<br />
mio amico Antonio Abreu.<br />
Purtroppo l’Italia rimane<br />
monca nonostante gli innumerevoli<br />
esempi mondiali.<br />
Ormai nelle campagne<br />
elettorali la parola<br />
«cultura» non si pronuncia<br />
quasi più se non svilendola;<br />
la parola «musica» è<br />
scomparsa completamente.<br />
Il tutto mentre perfino<br />
la medicina specializzata,<br />
la neurologia, ne riconosce<br />
le qualità, gli effetti tonici<br />
diretti. Per non parlare<br />
degli effetti sociali indiretti:<br />
è sufficiente come esempio<br />
l’attività della West Eastern<br />
Divan Orchestra di<br />
Daniel Barenboim.<br />
La sua laboriosa carriera<br />
è costellata di numerosi<br />
riconoscimenti. Quali<br />
partiture vorrebbe ancora<br />
interpretare?<br />
Mi vengono in mente le<br />
Grandi Sinfonie di Muzio<br />
Clementi, le opere di Boito<br />
e Puccini, come ad esempio<br />
il Capriccio Sinfonico: un repertorio comunemente non<br />
frequentato e tuttavia accolto con successo dal pubblico, co-<br />
Claudio Scimone con i Solisti Veneti.<br />
me capita sempre quando posso eseguirlo. Il mio sogno è di<br />
lavorare ancora nei miei luoghi d’elezione: prediligo dirigere<br />
a <strong>Venezia</strong> oppure a Verona, insomma in Veneto, vicino al-<br />
la mia casa, che a New York, ad esempio. Ciò non è dovuto a<br />
snobismo ma al fatto che il pubblico a me più vicino, quello<br />
col quale nel tempo si sono stabiliti dei legami forti, è anche<br />
quello che mi permette di esprimermi meglio. ◼<br />
classica<br />
29
30<br />
classica<br />
Gabriele Ferro:<br />
da Janáček<br />
a Stravinskij<br />
a cura di Mirko Schipilliti<br />
A<br />
Janáček (cfr. pp. 12-13) Gabriele Ferro accosta,<br />
all’interno della stagione sinfonica della Fenice, un<br />
programma con due capolavori sempre di area slava<br />
ma con riferimenti al Settecento più europeo: la<br />
suite dal balletto Pulcinella di Stravinskij (direttamente<br />
basato su musiche del Settecento italiano,<br />
in particolare di Pergolesi) e la Sinfonia n. 1 Clas-<br />
sica di Prokof ’ev. Un percorso suggestivo se si pensa<br />
all’enorme successo che i compositori italiani di<br />
quel periodo (Traetta, Cimarosa, Paisiello) ebbero<br />
proprio in Russia.<br />
Maestro, abbiamo parlato di Janáček e del percorso<br />
che sta intorno alla messa in opera di una partitura<br />
così complessa. La considera un’opera rivoluzionaria?<br />
Ho diretto più di duecento titoli operistici diversi, toccando<br />
anche Traetta o addirittura Schreker. Janáček è personalissimo,<br />
perché non ha precedenti a cui si è rifatto. È davvero<br />
originale ma se si guarda all’evoluzione della musica,<br />
la dissoluzione dell’armonia era già avvenuta. Tuttavia,<br />
cominciavano a delinearsi principi compositivi<br />
per cui ogni autore elaborava una propria<br />
cellula – un nucleo fortemente diverso<br />
da compositore a compositore –<br />
intorno a cui costruire il brano. Fu Arnold<br />
Schoenberg l’unico che veramente<br />
analizzò sé stesso per arrivare all’elaborazione<br />
di nuove regole attraverso la<br />
dodecafonia.<br />
Cosa la colpisce invece della modernità<br />
di Stravinskij?<br />
In lui c’è l’elemento ritmico,<br />
particolari accenti,<br />
come all’inizio di<br />
Petruška, dove introduceall’improvviso<br />
un inciso<br />
che sballa<br />
tutto. L’eccezionale<br />
e geniale<br />
buon gusto<br />
di Stra-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
22 marzo, ore 20.00<br />
24 marzo, ore 17.00<br />
vinskij faceva creare a freddo questi schemi ritmici, rimescolando<br />
metro ternario e binario ma mantenendo alcuni incisi<br />
sempre identici, che lungo il pezzo dovevano permanere<br />
immutati. Per questo non ha senso, come qualcuno ha detto,<br />
affermare che, a dispetto delle complicazioni ritmiche, la<br />
Sagra della primavera potrebbe essere ridotta ritmicamente<br />
«in quattro».<br />
Vale anche per il neoclassicismo di Pulcinella?<br />
Personalmente detesto qualsiasi neo-classicismo e neo-romanticisimo.<br />
Nel primo Novecento si era fatto molto in Italia<br />
(si pensi a Scarlattiana di Casella o a certe pagine di Respighi),<br />
ma un po’ «deformando» armonicamente una musica<br />
del Settecento. L’unico che riuscì a creare un capolavoro<br />
totale facendo neoclassicismo è stato Stravinskij.<br />
Ho diretto a Parigi un programma con<br />
le arie originali di Pergolesi seguite dalla versio-<br />
ne completa di Pulcinella ed è stato incredibile:<br />
musiche, le prime, che con pochissime modifiche<br />
sono diventate il Pulcinella. Stravinskij ha<br />
talmente assimilato quelle armonie da ricomporle<br />
in un modo totalmente nuovo.<br />
E anche ironico, potremmo dire.<br />
Apparentemente ironico, sembra qualcosa di allegro. Io lo<br />
sento invece come un pezzo drammatico, un fossile, qualcosa<br />
di pietrificato. Non vuole «imitare» ma ci fa rivivere<br />
la sensazione di qualcosa che è stato e che non c’è più. Crea<br />
un senso di straniamento, anche per l’uso speciale del ritmo.<br />
Un mondo completamente diverso da quello del Prokof ’ev<br />
della sinfonia Classica, composta tre anni prima.<br />
Certo. Stravinskij rielabora, destabilizza e, più che stravolgere,<br />
ricompone. In Prokof’ev traspare invece un<br />
classicismo delizioso, più da salotto se vogliamo.<br />
Qualcosa che si tinge di olimpica trasparenza?<br />
Non solo purezza, piuttosto un’idea di fanciullezza,<br />
di finta, voluta, ingenuità.<br />
Rimane costante l’idea, forte, di modernità, e per lei<br />
affrontare il Novecento è sempre imprescindibile, come<br />
lo testimonia la sua lunga esperienza nella musica<br />
contemporanea.<br />
Non credo molto negli interpreti che non hanno<br />
mai diretto musica contemporanea, dove ogni compositore<br />
ha una propria scrittura; persino la musica aleatoria, dove,<br />
praticamente, si crea il pezzo fra varie possibilità di scelta,<br />
ti dà una libertà dal tempo prestabilito,<br />
svincolandoti completamente.<br />
Janáček è molto complesso. La musica,<br />
è difficile?<br />
Molto. I Greci pensavano che<br />
fosse l’unica vera arte. ◼<br />
Hilda Wiener (1877-1940),<br />
Igor Stravinsky<br />
suona il Capriccio<br />
per Piano e Orchestra<br />
(matita su carta 16.8 x 22.8 cm;<br />
con autografo:<br />
«Igor Strawinsky,<br />
Palais de Beaux-Arts in Brussels,<br />
14 December 1930»<br />
commons.wikimedia.org).
Mikhail Pletnëv<br />
e la Kremerata Baltica<br />
alla Fenice<br />
Continua la stagione<br />
della Società <strong>Venezia</strong>na di Concerti<br />
Era il 1997 quando al festival di musica da camera<br />
di Lockenhaus si assistette a una piccola rivoluzione:<br />
il violinista Gidon Kremer presentò<br />
infatti, oltre a tanti famosi musicisti,<br />
una nuova orchestra, la Kremerata Baltica,<br />
composta da ventitré giovani talenti provenienti<br />
da Lettonia, Lituania ed Estonia. L’orchestra<br />
conquistò immediatamente il pubblico presente<br />
alla manifestazione, donando nuova linfa al festival.<br />
La Kremerata Baltica, progetto fondato in<br />
una prospettiva a lungo termine, è stata il regalo che Kremer<br />
ha voluto farsi in occasione del suo cinquantesimo compleanno:<br />
un modo per trasmettere la propria esperienza ai giovani<br />
colleghi provenienti dall’area baltica, regione in cui è<br />
stato promotore e ispiratore della<br />
cultura musicale, senza accettare<br />
compromessi sui livelli qualitativi.<br />
Elemento essenziale del profilo<br />
artistico dell’ensemble è il suo<br />
approccio creativo alla programmazione,<br />
che spesso guarda oltre<br />
le tendenze dominanti per dare<br />
spazio a numerose prime esecuzioni<br />
di opere composte da autori<br />
come Kancheli, Vasks, Desyatnikov<br />
e Raskatov.<br />
La Kremerata sarà ospite<br />
quest’anno della stagione di musica<br />
da camera della Società <strong>Venezia</strong>na<br />
di Concerti – «Aere perennius,<br />
anno ii» –, che il prossimo<br />
20 marzo proporrà sul palcoscenico<br />
del Teatro La Fenice la creatura<br />
di Kremer in un programma<br />
che spazierà dal Concerto per pianoforte<br />
in re minore bwv 1052<br />
di Johann Sebastian Bach a quello<br />
in re maggiore op. 21 di Joseph<br />
Haydn, dal Viatore per orchestra<br />
d’archi di Pēteris Vasks al Concerto<br />
per pianoforte in do maggiore<br />
kv 246 di Wolfgang Amadeus<br />
Mozart.<br />
Nella doppia veste di direttore<br />
e solista al pianoforte, a calcare le<br />
tavole del Teatro veneziano sarà<br />
Mikhail Pletnëv, uno dei più raffinati<br />
artisti del nostro tempo. Figlio di musicisti, si dedica<br />
alle sette note sin da bambino e, giovanissimo, si diploma al<br />
Conservatorio di Mosca. A soli ventuno anni vince il Concorso<br />
Medaglie d’Oro e il primo premio al Concorso internazionale<br />
Čajkovskij. Nel 1990 fonda la Russian National<br />
Orchestra, prima compagine indipendente della storia del-<br />
Kremerata Baltica (kremerata-baltica.com).<br />
di Ilaria Pellanda<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
20 marzo, ore 20.00<br />
la Russia, che sotto la direzione di Pletnëv – che la considera<br />
una delle sue gioie più grandi e per la quale, ancora oggi,<br />
ricopre la carica di direttore artistico e direttore principale<br />
– raggiunge in pochi anni una posizione prestigiosa tra<br />
le orchestre più importanti di tutto il mondo. Membro del<br />
Consiglio culturale russo, nel 2007 Pletnëv riceve un Premio<br />
presidenziale per i suoi contributi alla vita artistica della<br />
nazione. In qualità di direttore ospite sale regolarmente<br />
sul podio con orchestre quali la Philharmonia di Londra, la<br />
Mahler Chamber Orchestra, la Filarmonica di Tokyo, l’Orchestra<br />
del Concertgebouw, la London Symphony Orchestra,<br />
la Filarmonica di Los Angeles e l’Orchestra Sinfonica<br />
di Birmingham. Nel 2008 viene nominato direttore ospite<br />
principale dell’Orchestra della Svizzera Italiana a Lugano.<br />
Nelle vesti di pianista solista e interprete appare<br />
regolarmente nelle capitali musicali di tutto il<br />
mondo. Le sue registrazioni e le esecuzione dal vi-<br />
vo lo mettono in luce come interprete eccezionale,<br />
che si muove in un repertorio d’ampio respiro.<br />
Il «London Telegraph» sottolinea che «Pletnëv<br />
riesce, attraverso la sua mente e le sue dita, a dare<br />
vita alla musica, riempiendola di freschezza e di<br />
spirito». Il «Times», dal canto suo, afferma che il suo modo<br />
di suonare è «di una bellezza incredibile e di una virtuosità<br />
immaginativa prodigiosa».<br />
Le registrazioni effettuate per Deutsche Grammophon<br />
hanno ricevuto negli anni numerosi premi, tra i quali un<br />
Grammy Award nel 2005 per il cd che contiene l’arrangiamento<br />
per due pianoforti della Cenerentola di Prokofiev, eseguito<br />
con Martha Argerich. Per la stessa casa, nel 2007 registra<br />
tutti i Concerti per pianoforte di Beethoven, e il disco<br />
contenente i Concerti n. 2 e n. 4 viene nominato come «Miglior<br />
registrazione di concerto del 2007» dalla Tokyo Record<br />
Academy. ◼<br />
classica<br />
31
32<br />
classica<br />
Conversazioni<br />
angeliche:<br />
il femminino<br />
tra sacro e inconscio<br />
nella musica<br />
del xviii secolo<br />
Due concerti<br />
degli Amici della Musica<br />
di <strong>Venezia</strong><br />
di Paolo Cattelan*<br />
Uno dei capitoli più misteriosi ed affascinanti<br />
della storia dello musica classica è quello dello<br />
«strumento di vetro»<br />
che comincia<br />
a riaffiorare anche in Italia dopo<br />
una rimozione durata secoli.<br />
Lo «strumento di vetro», come<br />
lo chiama Leopold Mozart,<br />
ebbe in realtà molti nomi: verso<br />
la metà del Settecento prese<br />
piede in Inghilterra l’Organo<br />
Angelico, un set di bicchieri di<br />
varia dimensione disposto su di<br />
un tavolo suonato passandovi<br />
sopra delicatamente le mani<br />
inumidite. Nel 1762 veniva<br />
stampato un trattato dedicato<br />
all’arte dei Musical glasses,<br />
scritto dall’attrice e musicista<br />
Anne Ford, una donna anticonformista<br />
che incise profondamente<br />
sul costume inglese.<br />
Poi Benjamin Franklin pensò<br />
di rivoluzionare le caratteristiche<br />
organologiche del nuovo<br />
strumento per renderlo più affidabile, trasportabile e sicuro<br />
per l’esecutore. I bicchieri vennero così sostituiti da coppe di<br />
grandezza digradante, impilate fino a comporre una figura<br />
conica disposta in orizzontale attorno ad un perno rotante<br />
azionato dal suonatore grazie ad una pedaliera posta al di<br />
sotto dello strumento. Girando, le coppe attraversavano per<br />
il lungo una vasca d’acqua e, dal lato opposto all’immersione,<br />
venivano strofinate dalle dita dello strumentista producendo<br />
il suono. Franklin diede un nuovo nome alla sua creatura,<br />
Armonica, ma per farlo conoscere sul continente si affidò<br />
principalmente alla prodigiosa simbiosi musicale di due<br />
donne, due sorelle inglesi: Marianne e Cecilia Davies.<br />
Quest’ultima, che cantava da soprano, divenne quasi l’alter<br />
ego vocale dello strumento di vetro suonato dall’altra. Si<br />
inaugurò così una nuova e duratura associazione simbolica<br />
(ampiamente studiata dalla musicologa statunitense Heather<br />
Hadlock) tra l’Armonica e la voce femminile, lo strumento<br />
di vetro e il femminino. Con una nuova cantata scritta<br />
da Johann Adolf Hasse e Metastasio appositamente per<br />
loro e intitolata L’Armonica le Davies giunsero a Parma in<br />
occasione del matrimonio di Maria Amalia di Asburgo con<br />
il duca Ferdinando di Borbone nel 1769 e fecero in seguito<br />
diversi altri viaggi in italia soggiornandovi per lunghi periodi.<br />
Incrociarono certamente i Mozart a Milano nel 1770 e a<br />
<strong>Venezia</strong> nel febbraio 1771. In una nota inedita del Codice<br />
Gradenigo rilevata da Pier Giuseppe Gillio resta una confusa<br />
memoria delle loro performace: «19 febbraio 1771 / Femmina<br />
forastiera, e sino dalla tenera età fu istruita a maneggiare<br />
uno strumento vitreo inventato da maestro di Matematica<br />
[…] oggi a <strong>Venezia</strong> si è tanto sublimata in più Accademie<br />
filarmoniche rese attonite, e stupefatte stante la soavità di<br />
note canore […]». Frattanto a Vienna l’Armonica cominciò<br />
ad essere richiesta anche da altri musicisti e competenti dilettanti<br />
tra cui il dottor Franz Anton Mesmer propugnatore<br />
della teoria del «magnetismo animale» e buon amico dei<br />
Mozart. Racconta Leopold Mozart che Mesmer possedeva<br />
un esemplare di Armonica «molto più bello di quello che<br />
aveva Ms. Davis. Anche Wolfgang – aggiungeva Leopold –<br />
sarebbe in grado di suonarlo, se solo ne avessimo uno anche<br />
noi». Mesmer cominciò ad impiegare l’Armonica come coadiuvante<br />
nelle proprie terapie «magnetiche» e lo strumento<br />
fu perciò destinato a caricarsi di ulteriori significati: simbolo<br />
del mesmerismo e delle patologie nervose che Mesmer<br />
curava, nonché delle «crisi» che induceva con le sue meto-<br />
diche sui pazienti, pazienti che erano soprattutto donne. Fu<br />
nell’entourage di Mesmer che si scoprì l’ipnosi e il sonnanbulismo<br />
provocato o artificiale, ma poi Mesmer venne messo<br />
sotto accusa ed anche il suono dell’Armonica cominciò ad<br />
essere considerato nocivo tanto per coloro che lo udivano<br />
quanto per coloro che lo suonavano. L’invalidante malattia<br />
nervosa che colpì Marianne Davies (forse dovuta al piombo<br />
contenuto nei bicchieri) peggiorò a tal punto la fama dello<br />
strumento che in alcune città della Germania venne addirittura<br />
proibito. Mozart tuttavia fece in tempo, nel 1791 poco<br />
prima di morire, a regalare due capolavori al repertorio dello<br />
«strumento di vetro»: l’Adagio e Rondò Kv 617 per Armonica<br />
(«Glasharmonika») e strumenti e l’Adagio Kv617a per<br />
Armonica sola. Entrambi questi pezzi furono scritti per Marianne<br />
Kirchgässner, una virtuosa cieca che li portò con sé in<br />
numerose tournée: sono le ultime ispiratissime composizioni<br />
della produzione cameristica mozartiana. È opinione corrente<br />
che l’unico italiano a cimentarsi con «L’armonico a<br />
bicchieri», associandolo non a caso alla rappresentazione di<br />
Le mani di Christa Schoenfeldinger.
stati alterati della coscienza femminile, sia stato, dopo il giro<br />
del secolo, Gaetano Donizetti nella Scena della pazzia della<br />
Lucia di Lammermoor e, come ha dimostrato Emilio Sala,<br />
nel Castello di Kenilworth, opere scritte entrambi per il Teatro<br />
San Carlo di Napoli. Si conserva tuttavia, nella biblioteca<br />
del Conservatorio San Pietro a Majellla, anche un singolare<br />
autografo di Domenico Cimarosa, datato 12 luglo 1780<br />
e intitolato «Aria con Angelico e altri strumenti obbligati»<br />
in cui lo strano strumento e la voce del soprano, che intona<br />
un testo latino vagamente<br />
mottettistico, si impegnano,<br />
un po’ come Donizetti mezzo<br />
secolo dopo, in una lunga<br />
cadenza congiunta. In nessun<br />
caso la scrittura che Cimarosa<br />
riserva all’Angelico<br />
può far pensare ad uno strumento<br />
a pizzico con cui è stato<br />
erroneamente identificato<br />
alla fine dell’Ottocento. Il<br />
testo, poi, con alcune immagini<br />
molto precise, ci instrada<br />
alla giusta identificazione.<br />
È la metafora di una guarigione<br />
interiore («l’anima<br />
oppressa dal peso delle passioni,<br />
è come un uccello che<br />
spicca il volo dall’amica terra<br />
verso un alto monte mosso<br />
dal desiderio di curarsi con le<br />
limpide acque di una fonte pura»),<br />
un’immagine fin troppo significativa e<br />
allusiva. Il movimento di Mesmer nel<br />
1780 si era oramai nuovamente radicato<br />
a Parigi con l’appoggio di Maria Antonietta<br />
e di una vasta rete di Societés de<br />
l’Harmonie connessa con le Logge massoniche.<br />
Mesmer, ricordiamo, faceva risuonare<br />
l’Armonica in un momento preciso<br />
del rituale di guarigione, allorché i<br />
suoi pazienti si immergevano in particolari<br />
vasche, dette baquets, di acqua magnetizzata.<br />
Ma chi poteva essere il destinatario<br />
di quest’Aria di Cimarosa? Forse<br />
Napoli? Qui Carolina d’Asburgo aveva<br />
liberalizzato l’attività massonica e certamente<br />
seguiva da vicino le vicende del<br />
medico tedesco nei rapporti con la regina<br />
di Francia sua sorella, ma non è il solo indizio:<br />
una suggestiva stampa ritrae la pittrice<br />
Angelica Kaufmann, notoriamente<br />
protetta a Napoli dalla regina Carolina,<br />
nel suo studio dove tra tavolozze, cavalletti<br />
e calchi di gesso compare anche<br />
un’Armonica. Tuttavia potrebbe c’entrare<br />
anche <strong>Venezia</strong>, dove Cimarosa doveva<br />
debuttare come operista proprio nell’autunno del 1780.<br />
I legami di Cimarosa con i circoli intellettuali veneziani non<br />
sono per nullla trascurabili ed in gran parte ancora da indagare:<br />
<strong>Venezia</strong> lo accolse bandito e condannato a morte dopo<br />
l’esperienza della Repubblica partenopea; <strong>Venezia</strong>, fin dal<br />
1782, gli offrì lavoro nel particolarissimo luogo dell’Ospedale<br />
dei Derelitti detto «l’Ospedaletto». E per le Figlie<br />
dell’Ospedaletto Cimarosa scriverà in quell’anno ben due<br />
oratori latini, Judith e Absalom alimentandone il repertorio<br />
e il mito: in tutta Europa si guardava infatti agli Ospedali veneziani,<br />
in particolare ai Mendicanti e ai Derelitti, come ai<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
9 marzo, ore 20.15<br />
Conversazioni angeliche.<br />
Il femminino e l’inconscio<br />
nella musica del xviii secolo<br />
musiche di Mozart, Hasse,<br />
Cimarosa, F.X. Süßmayr<br />
Padova<br />
Sala della Carità<br />
29 marzo, ore 21.00<br />
Come piuma sul respiro di Dio.<br />
Figure femminili dell’Antico Testamento<br />
Musiche di A. Sacchini, F.Bertoni,<br />
J.Schuster, D. Cimarosa<br />
Interpreti<br />
Susanna Armani soprano<br />
Andrea Crosara violino<br />
Simone Tieppo violoncello<br />
Bruno Volpato clavicembalo<br />
Christa Schoenfeldinger armonica di vetro<br />
(Wiener Glass Duo)<br />
luoghi di attività di artiste ispirate, in grado di figurare credibilmente<br />
le storie dell’antico testamento in un clima di profetica<br />
esaltazione, quel clima che Jacopo Guarana catturò in<br />
qualche modo negli affreschi che ancor oggi adornano la Sala<br />
della Musica dell’Ospedaletto arrivando a porre in mano,<br />
nel ritratto in primo piano di una delle Figlie, la citazione di<br />
un’aria metastasiana «Contro il destin che freme combatteremo<br />
insieme». Sono dunque le Figlie veneziane le destinatarie<br />
dell’angelica conversazione di Cimarosa? Lo storico<br />
Gerardo Tocchini ci ricorda<br />
che in Francia, collegando<br />
gli esperimenti di Mesmer<br />
alle teorie di Swedenborg, si<br />
cominciò a propugnare il valore<br />
mistico della trance magnetica,<br />
la credenza che giovani<br />
donne-medium potessero<br />
sviluppare una particolare<br />
chiaroveggenza fino a<br />
comunicare con gli angeli,<br />
ma la questione è ancora<br />
aperta. Sull’altro versante<br />
della storia invece, quello<br />
della parodia comica, un altro<br />
veneziano, molto legato<br />
alla massoneria, si distingue.<br />
Questi è Caterino Mazzolà,<br />
il «maestro» di Lorenzo Da<br />
Ponte, il poeta che ridusse<br />
«a vera opera» la Clemenza<br />
di Tito di Mozart aggiustando per lui il vecchio<br />
libretto del Metastasio. A Mazzolà si<br />
devono poi diversi libretti del Turco in Iitalia,<br />
da cui deriverà il capolavoro di Rossini.<br />
Il prototipo della protagonista di quest’opera<br />
è Fiorilla, una giovane moglie che rivuole<br />
la propria libertà dal marito che le è<br />
stato imposto e, paragonandosi allo strumento<br />
di vetro dice di sé: «Sentiste mai<br />
l’Armonica? / se i cavi arguti vetri / esperte<br />
dita premono, / l’udite or lieta or flebile / il<br />
suono modular. / Ma è muta affatto o stridula<br />
/se non si sa suonar».<br />
Si inaugura con due appuntamenti a <strong>Venezia</strong><br />
e a Padova la terza edizione del progetto<br />
di ricerca «Di suoni, di luoghi» promosso<br />
dagli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
con il sostegno della Regione Veneto e del<br />
Comune di Padova, nell’ambito della rassegna<br />
«SacreArmonie» e la collaborazione<br />
del Comune di <strong>Venezia</strong> nell’ambito di<br />
DoVe (Donne a <strong>Venezia</strong>).<br />
Il primo concerto è dedicato alla riscoperta<br />
del repertorio dell’Armonica di vetro<br />
e presenterà diversi inediti per la prima volta<br />
eseguiti in tempi moderni. Il secondo a Padova nella splendida<br />
cornice della Sala della Carità, affrescata da Dario Varotari<br />
con le storie di Maria tratte dai Vangeli apocrifi, presenterà<br />
invece musiche tratte dalle azioni sacre scritte per le Figlie<br />
degli Ospedali veneziani dei Mendicanti e dei Derelitti.<br />
Per informazioni e prenotazioni: www.amicimusicavenezia.it;<br />
info@amicimusicavenezia.it; tel. 3387372286;<br />
0415462<strong>51</strong>4. ◼<br />
*Presidente Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
classica<br />
33
34<br />
classica<br />
La nuova stagione<br />
dell’Agimus di <strong>Venezia</strong><br />
tra musica e filosofia<br />
di Ilaria Pellanda<br />
Il prossimo 10 aprile, alle 17.30 presso l’Ateneo Veneto,<br />
l’Agimus di <strong>Venezia</strong> inaugura la sua nuova stagione<br />
concertistica con un inedito ciclo di incontri filosofico-musicali<br />
realizzato in collaborazione<br />
con lo stesso Ateneo e sostenuto dal Consor-<br />
zio <strong>Venezia</strong> Nuova, dal Festival Suona Francese<br />
(Fondazione Nuovi Mecenati) e dall’Hotel Ca’<br />
Sagredo.<br />
Dedicati al rapporto «Musica e lógos», i quattro<br />
dialoghi si apriranno con un omaggio a Luigi<br />
Nono in occasione del ventennale della fondazione<br />
dell’Archivio veneziano a lui dedicato (cfr.<br />
pp. 36-37 e pp. 38-39). Dopo l’introduzione del presidente<br />
dell’Ateneo Michele Gottardi, Nuria Schoenberg Nono<br />
(presidente dell’Archivio), Guido Barbieri (Rai Radio Tre),<br />
Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano)<br />
e Alvise Vidolin (storico collaboratore alla regia del suono<br />
del maestro veneziano e di tanti illustri protagonisti del<br />
xx secolo) dialogheranno sul tema «L’infinito sorriso delle<br />
onde. Nono, maestro di suoni e silenzi», traendo spunto dal<br />
brano pianistico … sofferte onde serene…, che verrà poi eseguito<br />
da Letizia Michielon – accanto a opere di Chopin e Messiaen<br />
–; sarà inoltre affrontato quel percorso di ricerca sul suono<br />
e sulla parola che da quest’opera introspettiva dedicata a<br />
Maurizio Pollini condurrà alla più stretta collaborazione con<br />
la filosofia di Massimo Cacciari e alla creazione del Prometeo.<br />
Il 16 aprile si potrà partecipare al dialogo tra Lucio Cortella<br />
(Università di <strong>Venezia</strong>) e Oreste Bossini (Rai Radio Tre)<br />
dal titolo «Tra nichilismo e mitologia: Adorno interprete di<br />
Wagner», al quale seguiranno alcune esecuzioni del reper-<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Ateneo Veneto<br />
(e Sale Apollinee<br />
del Teatro La Fenice)<br />
dal 10 aprile al 6 giugno<br />
torio wagneriano affidate agli studenti della classe di canto<br />
del Conservatorio «Giuseppe Tartini» di Trieste; il 23 aprile<br />
Elio Matassi (Università Roma Tre) e Giorgio Appolonia<br />
(Radio della Svizzera Italiana) si incontreranno per discutere<br />
l’idea di musica assoluta, accompagnati successivamente dalle<br />
note di Schumann e Brahms eseguite per l’occasione dal<br />
duo violoncello-pianoforte Luca Provenzani-Fabiana Barbini;<br />
il 30 aprile, infine, protagonisti del nuovo colloquio, che<br />
analizzerà il rapporto tra Mallarmé e la musica del xx e xxi<br />
secolo, saranno Enzo Restagno (direttore artistico del festival<br />
MiTo) e Daniele Martino («Il Giornale della Musica»),<br />
ai quali seguirà l’esecuzione di alcuni brani di Debussy, Messiaen<br />
e Boulez interpretati ancora una volta da<br />
Letizia Michielon.<br />
La stagione dell’Agimus – che si avvale del patrocinio<br />
dei Ministeri dei Beni Culturali e della<br />
Pubblica Istruzione e della collaborazione con<br />
il Teatro la Fenice, il Conservatorio «Benedetto<br />
Marcello» e l’Associazione italo-tedesca di<br />
<strong>Venezia</strong> – proseguirà il proprio cartellone con<br />
una serie di appuntamenti dedicati al rapporto<br />
tra musica e sogno, ispirati nell’anno del bicentenario wagneriano<br />
all’interpretazione che il compositore elaborò della<br />
teoria del sogno di Schopenhauer. Il duo flauto-pianoforte<br />
Stefano Maffizzoni-Valter Favaro<br />
rileggerà (il 2 maggio, ancora<br />
una volta in Ateneo) opere<br />
di Franck e Poulenc; a proposito<br />
dell’influenza esercitata<br />
da Wagner sul simbolismo<br />
francese e del rapporto tra poesia<br />
e mondo onirico, rifletteranno<br />
l’8 maggio Renzo Cresti<br />
e Letizia Michielon in occasione<br />
della presentazione<br />
della recente monografia di<br />
Cresti Wagner e il puramente<br />
umano (lim 2012); seguiranno<br />
esecuzioni di brani di<br />
Liszt, Debussy, Fauré e Ravel<br />
affidate a Marina Feruglio,<br />
Rosanna Guadagno e Biancamaria<br />
Targa, studentesse del<br />
«Tartini» che partecipano al<br />
progetto formativo del Plurimo<br />
Ensemble dedicato ai giovani<br />
talenti emergenti. Il duo<br />
Plurimo Alessandra Trentin<br />
(arpa) e Cecilia Vendrasco<br />
(flauto) chiuderà il 6 giugno la<br />
prima parte della stagione alle<br />
Sale Apollinee della Fenice<br />
con otto partiture appartenenti ai primi cinquant’anni del<br />
xx secolo, composte sullo sfondo di un ambiente musicale<br />
francese pulviscolare, caleidoscopico ma al tempo stesso semanticamente<br />
connotato e attratto dalla ricerca di sfumature<br />
timbriche delicate e soffuse: partiture ispirate dalle immagini<br />
di un paesaggio notturno («Chanson dans la nuit» di<br />
Salzedo) o di un luogo geografico reso evanescente dalla memoria<br />
imprecisa del suono («Deux impressions» di Bozza),<br />
o, ancora, brani che rifuggono le regole sintattiche di una narrazione<br />
musicale per librarsi in fascinose nuance coloristiche<br />
(«Cinq nuances» di Berthomieu). ◼<br />
Luigi Nono, Studi per Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1984)<br />
Archivio Luigi Nono, <strong>Venezia</strong> © Eredi Luigi Nono,<br />
per gentile concessione.
Un concerto<br />
(e un volume)<br />
per Leone Sinigaglia<br />
Una figura da riscoprire quella di Leone Sinigaglia,<br />
compositore nato a Torino nel 1868 e vittima,<br />
con altri illustri colleghi, della censura nazifascista<br />
per le sue origini ebraiche. Solo in tempi<br />
assai recenti la musicologia italiana si è impegnata nella riscoperta<br />
della personalità artistica e umana di Sinigaglia, che<br />
seppe trarre dalla propria formazione internazionale esiti di<br />
grande interesse sia dal punto di vista della musica d’arte, sia<br />
sul fronte di una metodica indagine sul canto popolare della<br />
sua terra, il Piemonte.<br />
Leone Sinigaglia nasce da una famiglia dell’alta borghesia<br />
torinese; le frequentazioni familiari lo mettono in contatto,<br />
fin dalla giovane età, con illustri esponenti del pensie-<br />
ro, delle arti e delle scienze allora residenti in città:<br />
Antonio Fogazzaro, Leonardo Bistolfi, Cesare<br />
Lombroso e Galileo Ferraris. A Torino la prima<br />
formazione musicale, sotto la guida di Giovanni<br />
Bolzoni, avviene in un clima ricco di stimoli e<br />
proficui contatti, dominato dalla figura di Arturo<br />
Toscanini; con Toscanini nascerà un rapporto<br />
di stima e amicizia che tanta importanza avrà<br />
nella diffusione dell’opera di Sinigaglia. Affianca<br />
alla passione per la musica quella per l’alpinismo,<br />
che lo rende protagonista di importanti ascensioni<br />
sulle Alpi occidentali e della scoperta di nuove<br />
vie sulle Dolomiti d’Ampezzo.<br />
Spinto dal desiderio di studiare sotto la guida<br />
di Johannes Brahms, nel 1894 Sinigaglia si trasferisce<br />
a Vienna; Brahms non si dedica all’insegnamento,<br />
ma, in nome della fiducia ispiratagli<br />
dal giovane torinese, lo indirizza presso l’amico<br />
Eusebius Mandyczewski. Con Mandyczewski Sinigaglia<br />
studia cinque anni, durante i quali nasce<br />
lo splendido Concerto per violino e orchestra<br />
in La maggiore, dedicato al violinista bolognese<br />
Arrigo Serato. L’amicizia con Oskar Nedbal e Joseph<br />
Suk, membri del Quartetto Boemo, consente<br />
a Sinigaglia di entrare in contatto con Antonin<br />
Dvořák; nel 1900 l’esperienza di studio con<br />
il compositore boemo lo porta a scoprire il fascino<br />
e il valore storico del canto di tradizione orale. Rientrato<br />
in patria nel 1901, Sinigaglia si dedica al-<br />
Sopra, un momento del concerto di Ferrara.<br />
Al centro, Leone Sinigaglia.<br />
di Annalisa Lo Piccolo<br />
la raccolta e all’indagine sistematica del patrimonio popolare<br />
della collina di Cavoretto, vicino a Torino. Trascrive un’enorme<br />
quantità di melodie e varianti, raccolte dalla viva voce<br />
degli informatori; celebri pagine di Sinigaglia recano traccia<br />
del grande amore per la musica popolare, come le Danze Piemontesi<br />
e la Suite per orchestra «Piemonte», lavori legati alla<br />
personalità di Toscanini, che di frequente li eseguirà in Italia<br />
e negli Stati Uniti; i primi anni del Novecento vedono la<br />
nascita inoltre dell’Ouverture «Le baruffe chiozzotte», lavoro<br />
di grande brio e freschezza melodica.<br />
Nei decenni successivi la produzione di Sinigaglia diminuisce<br />
notevolmente, impermeabile alle avanguardie emergenti<br />
nel panorama musicale del Novecento (dodecafonia, serialità,<br />
neoclassicismo); sono anni comunque assai ricchi di contatti<br />
e relazioni con interpreti e impresari, che vedono la sua<br />
musica conquistare numerose platee italiane e internazionali.<br />
La svolta antisemita del regime fascista condanna l’opera di<br />
Sinigaglia all’oblio: la sua musica è bandita da qualsiasi esecuzione<br />
pubblica e quanto edito a stampa viene ritirato dalla<br />
circolazione.<br />
Il compositore si spegne il 16 maggio 1944 a causa di una<br />
sincope cardiaca, nel momento in cui le guardie della milizia<br />
nazifascista, per arrestarlo, irrompono nella camera<br />
dell’Ospedale Mauriziano, ove si era rifugiato<br />
grazie all’aiuto dell’amico Luigi Rognoni.<br />
Il Comitato per i Grandi Maestri, in collaborazione<br />
con l’Università di Ferrara, ha voluto ricordare<br />
Leone Sinigaglia con un concerto monografico<br />
tenutosi lo scorso 15 gennaio presso il Teatro<br />
Comunale, nell’ambito delle celebrazioni per il<br />
Giorno della Memoria 2013. La serata si è aperta<br />
con Regenlied, da Zwei Charachterstücke für Streichorchester<br />
op. 35, composizione degli anni viennesi.<br />
Assai convincente l’esecuzione dell’Orchestra<br />
Città di Ferrara, diretta da Marco Zuccarini,<br />
attenta all’intima cantabilità, alle atmosfere traslucide<br />
e idilliache di questa deliziosa miniatura.<br />
A seguire Romanza e Umoresca per violoncello e<br />
orchestra op. 16, pagine giocate su una ricca varietà<br />
di contrasti tematici. Il violoncellista italo-argentino<br />
Fernando Caida Greco ha saputo coglierne<br />
le diverse atmosfere emotive, sicuro negli episodi<br />
di virtuosismo e capace di grande espressività<br />
nei momenti più lirici e melodici. In conclusione<br />
il Concerto per violino e orchestra in La maggiore<br />
op. 20, affidato all’ìarco della giovane bolognese<br />
Laura Marzadori, in grado di affrontare con maestria<br />
e disinvoltura l’ampia gamma di difficoltà<br />
tecniche presentate da questa pagina, in un dialogo<br />
sempre equilibrato tra orchestra e solista.<br />
La serata è stata anche l’occasione per presentare<br />
il volume Leone Sinigaglia. La musica delle alte<br />
vette, scritto da Gianluca La Villa e Annalisa Lo<br />
Piccolo e pubblicato da Gabrielli editori. ◼<br />
contemporanea<br />
35
36<br />
contemporanea<br />
I primi vent’anni<br />
dell’Archivio Luigi Nono<br />
di <strong>Venezia</strong><br />
a cura di Letizia Michielon<br />
Minuta, con due grandi occhi azzurri che vibrano<br />
di luce, Nuria Schoenberg Nono emana<br />
una energia alacre e silenziosa, sempre profondamente<br />
entusiasta. Con creatività ha dedicato<br />
la propria vita a custodire il lascito culturale e umano<br />
di due compositori cruciali del xx secolo: il padre Arnold,<br />
il cui spirito innovatore e sperimentatore continua a vivere<br />
nel cuore di Vienna, al Centro Schoenberg, e il marito Luigi<br />
Nono, che, a quasi venticinque anni della morte, ispira studiosi<br />
e musicisti di tutto il mondo grazie a un Archivio unico<br />
nel suo genere, fondato a <strong>Venezia</strong> vent’anni fa, oggi operante<br />
nella Sala delle Colonne dell’ex Convento dei Santi Cosma e<br />
Damiano alla Giudecca. Due istituzioni volute con forza da<br />
questa preziosa figura di archivista, nata a Vienna, cresciuta<br />
in California e da cinquant’anni residente a <strong>Venezia</strong>: un<br />
esempio mirabile di come la storia possa dialogare con il presente,<br />
nutrendolo e intrecciandosi con il futuro. Ideali, d’altronde,<br />
che animavano sia Nono che Arnold Schoenberg.<br />
L’Archivio Luigi Nono (aln), per esempio, si profila come<br />
spazio di conservazione ma anche di creazione e formazione.<br />
Consente agli studiosi di consultare liberamente l’ampio<br />
lascito del compositore, comprendente manoscritti, lettere,<br />
nastri, libri e partiture, fotografie, programmi di sala,<br />
manifesti, recensioni e saggi critici; ma, come ha sottolineato<br />
Massimo Cacciari, questo luogo rappresenta anche<br />
l’«immagine di quel laboratorio, di quell’inesausto “sperimentare”,<br />
di quel “cammino” che è l’opera di Nono, della sua<br />
generosità, della sua “curiosità” mai vana, dell’apertura del<br />
suo ascolto». Secondo il filosofo veneziano «sarà impossibile<br />
comprendere l’opera di Nono senza conoscere quest’Archivio.<br />
Così come è impossibile conoscere la musica contemporanea<br />
senza ascoltare Nono».<br />
Abbiamo incontrato Nuria Nono nella sua casa della Giudecca<br />
per chiederle di illustrarci alcuni dei numerosi progetti<br />
in programma quest’anno.<br />
Quali iniziative avete ideato per festeggiare il ventennale?<br />
Nel 2013 abbiamo in programma molti eventi volti a celebrare<br />
in modo nuovo la musica e il pensiero di mio marito, attraverso<br />
una stretta collaborazione con altre istituzioni. Per<br />
valorizzare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, stiamo<br />
preparando alcuni progetti multimediali, tra cui la realizzazione<br />
di una mappa di <strong>Venezia</strong> che consenta un tour virtuale<br />
nei luoghi della biografia umana e artistica di Gigi. Il lavoro<br />
informatico e grafico sarà realizzato grazie alla collaborazione<br />
con due Istituti del territorio veneto: il dei (Dipartimento<br />
di Ingegneria Informatica dell’Università di Padova)<br />
e l’Accademia delle Belle Arti di <strong>Venezia</strong>. Entro la fine del<br />
2013 si intende creare un prototipo che sarà implementato e<br />
raffinato informaticamente nel 2014, e presentato ufficialmente<br />
nel 2015 in<br />
occasione dei venticinque<br />
anni della<br />
morte di mio marito.<br />
Stiamo poi elaborando<br />
un documentario<br />
sui<br />
vent’anni di attività<br />
dell’aln, comprendentevideointerviste,commento<br />
di documenti<br />
e montaggio<br />
di video finora<br />
consultabili solo in<br />
Archivio.<br />
Da sempre dedicate<br />
molta attenzione<br />
alle giovani<br />
generazioni di<br />
artisti.<br />
Certo, abbiamo<br />
per esempio in<br />
programma una<br />
collaborazione tra<br />
l’aln e l’Accademia<br />
di Belle Arti<br />
di <strong>Venezia</strong> (Corso<br />
di Arti e Musiche<br />
Contemporanee).<br />
Il progetto prevede<br />
un ciclo di cinque incontri sulla musica e il pensiero di Nono;<br />
la proiezione di un documentario a lui dedicato, Archipel<br />
Luigi, una esposizione-installazione delle opere realizzate<br />
dagli studenti dell’Accademia veneziana ai Magazzini del<br />
Sale, e infine un seminario didattico, a cura di Veniero Rizzardi,<br />
che preluderà all’audizione di A floresta é jovem e cheja<br />
de vida (1966) – nella versione a otto canali – e alla visione<br />
del filmato di Theo Gallehr (1966) sull’opera, accompagnata<br />
da una selezione di fonti documentarie che illustrano<br />
Nuria Schoenberg Nono<br />
con una classe del Liceo musicale «Pigafetta» di Vicenza<br />
che ha fatto visita all’Archivio nella primavera-estate del 2012<br />
(per gentile concessione dell’Archivio Luigi Nono).
la genesi della composizione. A floresta venne concepita negli<br />
anni sessanta insieme allo scrittore Giovanni Pirelli come<br />
ipotesi di nuovo teatro musicale basato su testi documentari<br />
(lettere, dichiarazioni, discorsi) che dovevano riflettere l’esperienza<br />
soggettiva della partecipazione alla lotta politica.<br />
Essa divenne il modello per quasi tutti i lavori composti nei<br />
dieci anni successivi e fu l’opera che, come direttore e regista<br />
del suono, accompagnò in varie tournée più a lungo di ogni<br />
altra. Non venne però mai fissata in una partitura: soltanto<br />
nel 1998 l’editore Ricordi affidò a Maurizio Pisati e Veniero<br />
Rizzardi il compito di ricostruire un testo eseguibile basato<br />
sui numerosi documenti cartacei, sonori, visivi depositati<br />
presso l’Archivio Nono. Nella versione discografica del 1966<br />
fu operato un montaggio di materiali che sono tuttora conservati:<br />
è così possibile oggi sincronizzare le parti isolate dei<br />
solisti originali (voci, clarinetto, percussioni) alle otto tracce<br />
del nastro base e diffondere l’insieme secondo la disposizione<br />
spaziale prevista da Gigi. Questa nuova realizzazione sperimentale<br />
permette un ascolto dell’opera in condizioni molto<br />
vicine a quelle del concerto, con il vantaggio di disporre<br />
dell’interpretazione delle voci originali.<br />
Per valorizzare l’attività non solo compositiva ma anche<br />
analitica di suo marito,<br />
presenterete poi<br />
il cofanetto Arnold<br />
Schoenberg, Variationen<br />
für Orchester<br />
op. 31 (Colophon,<br />
Belluno,<br />
2011).<br />
Si tratta di una<br />
pubblicazione della<br />
faln realizzata<br />
in collaborazione<br />
con la Fondazione<br />
Giorgio Cini,<br />
Istituto per la Musica,<br />
che verrà proposta<br />
al pubblico<br />
alla Cini da Daniel<br />
Baremboim. Alla<br />
sua lectio magistralis<br />
seguiranno due<br />
sedute dedicate alle<br />
analisi dei compositori<br />
e alla storia<br />
dell’interpretazione<br />
musicale.<br />
Per quanto riguarda<br />
i progetti esterni?<br />
In occasione dei<br />
cinquant’anni della<br />
morte di Karl Amadeus<br />
Hartmann, parteciperò alla tavola rotonda «Projektinsel<br />
Hartmann-Nono» che si terrà allo Stadtmuseum di Monaco<br />
i prossimi 20 e 21 marzo. L’Archivio presenterà una selezione<br />
di lettere tra Nono e Hartmann, che saranno anche<br />
pubblicate nella Festschrift.<br />
Quali sono le novità relative ai progetti di ricerca e<br />
formazione?<br />
Presso la Zürcher Hochschule der Künste si svolge un seminario<br />
sulla «Prassi esecutiva della musica elettronica. Gli<br />
anni dello Studio di Fonologia», mentre in collaborazione<br />
con l’Università di Pavia è in programma un ciclo di seminari<br />
sulle questioni editoriali di Intolleranza 1960. Stiamo infi-<br />
L’Archivio Luigi Nono di <strong>Venezia</strong>.<br />
ne lavorando a una tavola rotonda tra soci fondatori e membri<br />
dei nostri organi, in programma a fine 2013, ove sarà tracciato<br />
un bilancio dell’“impact factor” della faln sugli studi<br />
e sulle esecuzioni della musica di Nono in Italia e all’estero.<br />
Quali nuove pubblicazioni sono attese per quest’anno?<br />
Segnalo in particolare quella relativa al carteggio Luigi Nono-Giuseppe<br />
Ungaretti, a cura di Maria Carla Papini e Paolo<br />
Dal Molin per i tipi del Saggiatore. Sono testi di notevole<br />
interesse per argomenti, durata (1950-1969) e «aperture».<br />
Quale futuro immagina per l’Archivio Nono?<br />
Nel corso di questi anni il lavoro svolto è stato molto intenso,<br />
abbiamo potuto garantire agli studiosi di tutto il mondo<br />
un servizio di alto profilo che ci ha procurato una stima riconosciuta<br />
a livello internazionale. Ci auguriamo di poter<br />
mantenere anche in futuro questa qualità, grazie anche al generoso<br />
sostegno di enti privati, oltre che di quelli pubblici,<br />
provati dalla crisi economica.<br />
A cosa ci invita oggi Luigi Nono?<br />
Ha sempre meditato sul tema della sofferenza umana: quella<br />
personale, quella di chi vive con durezza la realtà della fabbrica,<br />
la povertà in paesi lontani, o la mancanza di libertà nei<br />
governi repressivi, desiderando che tutti conoscessero que-<br />
sti fatti; c’è un messaggio di speranza, un messaggio che implica<br />
un impegno di cambiamento, rinnovamento, così come<br />
lui ha sempre sperimentato. Era un uomo concreto, il suo<br />
modo di fare non metteva in soggezione le persone, amava<br />
ascoltarle.<br />
Come incide la sua esperienza estetica e creativa sulle nuove<br />
generazioni di musicisti?<br />
Mi sembra che i giovani compositori siano influenzati dalle<br />
sue opere elettroniche, dalla sua ricerca sullo spazio e sul<br />
tempo e che in loro stia rinascendo un’attenzione all’aspetto<br />
espressivo e conoscitivo della musica, anche grazie all’utilizzo<br />
delle nuove tecnologie. Mio padre disse una volta a un<br />
critico che lo stile è come un vestito: passata la moda decade,<br />
mentre ciò che resta è il contenuto dell’idea. ◼<br />
contemporanea<br />
37
38<br />
contemporanea<br />
Luigi Nono<br />
di Veniero Rizzardi<br />
Forse è una domanda futile, ma a qualcosa può magari<br />
servire chiedersi che cosa sarebbe stato della<br />
fortuna postuma di Luigi Nono se non esistesse da<br />
vent’anni un Archivio (cfr. pp. 36-37, ndr.) che, ad<br />
appena tre anni dalla morte (1990), ne raccoglieva e ne ordinava<br />
tutto il lascito, e cominciava a promuovere un’attività<br />
di studio molto intensa, che aveva da subito visibili effetti<br />
sulla ricezione e la diffusione della sua musica. Forse era soltanto<br />
una coincidenza, ma una coincidenza storica: Nono<br />
veniva a mancare a un’età non avanzata, meno di settant’anni,<br />
in un momento molto particolare non soltanto della sua<br />
carriera e della sua stessa fortuna di compositore, ma anche<br />
della vicenda della musica del Novecento, sullo sfondo della<br />
fine del «secolo breve». Proviamo a rileggerla rapidamente,<br />
questa carriera, riprendendo qualche luogo comune, naturalmente<br />
per ribaltarlo.<br />
A chi abbia qualche familiarità con le storie della musica recente,<br />
senza per questo esserne esperto o appassionato, la figura<br />
di Nono evoca quasi sempre l’immagine, magari non<br />
esclusiva ma certo caratterizzante, del musicista politico,<br />
dell’artista che subordina la soggettività al credo collettivo,<br />
la ricerca di un’espressione convincente alla finalità agitatoria.<br />
Si tratta di un pregiudizio formatosi davvero in un’altra<br />
epoca, ma occorre anche dire che Nono stesso, per qualche<br />
tempo, non ha scoraggiato questa semplificazione. Lo stesso<br />
carattere della persona, un affascinante intreccio di mitezza<br />
e di irruenza, corrispondeva bene al suo stile di artista impegnato,<br />
che sul finire degli anni cinquanta aveva fatto sue le tesi<br />
di Jean Paul Sartre sulla letteratura come strumento di testimonianza<br />
e lotta politica, rendendo del tutto esplicita una<br />
tendenza latente fin dalle primissime opere. Come negli Epitaffi<br />
per Federico Garcìa Lorca del 1952-53, dedicati ai combattenti<br />
della guerra civile di Spagna – pezzo d’Europa allora<br />
saldamente in mano a una dittatura fascista – ma già l’opera<br />
prima, le Variazioni Canoniche sulla serie dell’op. 41 di<br />
Arnold Schoenberg erano costruite appunto a partire dall’O-<br />
de a Napoleone Buonaparte, invettiva di Byron contro i tiranni,<br />
intonata dal padre della dodecafonia nella sua vena più<br />
brillante e sarcastica. E così il giovane Nono scriveva il suo<br />
manifesto, dichiarando di avere scelto il suo modello: modello<br />
di artista progressivo, che compone con acuta coscienza<br />
di ciò che la storia ha consegnato nelle sue mani e altrettanta<br />
responsabilità verso ciò che essa gli richiede. Fin dall’inizio<br />
dunque la poetica di Nono è orientata in direzione opposta<br />
al perfezionamento di una maniera, ma piuttosto alla ricerca<br />
di soluzioni tecnicamente più avanzate, che sappiano stimolare<br />
l’ascolto dei contemporanei, e la partecipazione alla<br />
civiltà della musica – che per Nono diventa a un certo punto<br />
funzione esplicitamente politica.<br />
La posizione di questo giovane artista, nell’Europa e ancor<br />
più nell’Italia degli anni cinquanta, era molto singolare.<br />
Destinato dal talento e da una costellazione culturale originale,<br />
orientata, anche per tradizione familiare, alla cultura<br />
nordeuropea, Nono, insieme al suo «fratello maggiore»<br />
Bruno Maderna, si era trovato a rappresentare la nuova musica<br />
italiana in un giovane e dinamico consesso internazionale,<br />
quello che si ritrovava<br />
ogni anno per pochi<br />
densissimi giorni nella<br />
piccola città tedesca di<br />
Darmstadt. Sostenuto<br />
dal prestigio di un grande<br />
direttore d’orchestra<br />
e apostolo della musica<br />
nuova, Hermann Scherchen,<br />
e poi da una solida<br />
rete di rapporti intessuti<br />
da un influente gruppo<br />
di critici militanti, produttori<br />
radiofonici e direttori<br />
artistici, Nono<br />
aveva esordito in Germania,<br />
salutato come<br />
giovane radicale tra i più<br />
dotati e interessanti, ma<br />
per diversi anni sarebbe<br />
stato pressoché ignorato<br />
in patria. Nel 1956 compone<br />
Il canto sospeso, su<br />
lettere di condannati a<br />
morte della resistenza<br />
europea (si badi, non solo<br />
italiana), una composizione<br />
che dovrà attendere diversi anni per essere ascoltata<br />
fuori dalla Germania, e per moltissimo tempo più chiacchierata<br />
che veramente ascoltata. Il canto sospeso, composizione<br />
sempre citata come esempio di opera in perfetto equilibrio<br />
tra impegno civile e impegno tecnico-compositivo, in cui<br />
Nono condensa la sua caratteristica, efficacissima «drammaturgia<br />
dell’ascolto», viene pubblicata, come registrazione,<br />
per la prima volta negli anni novanta, così come sarà solo<br />
nel 2000 che verranno raccolti in italiano i suoi numerosi<br />
scritti, a dieci anni dalla sua scomparsa. Prima di allora, del<br />
pensiero e delle idee mese nero su bianco da Nono nel suo Paese<br />
non si è discusso come si sarebbe altrimenti potuto.<br />
L’Italia si accorge di questo maestro in un momento che per<br />
lui stesso è di svolta; ed è un autentico choc. L’azione scenica<br />
Intolleranza 1960, la prima sua realizzazione teatrale, va<br />
in scena alla Fenice nell’aprile del 1961, una delle «prime»<br />
Luigi Nono, 1969<br />
(Archivio Luigi Nono, <strong>Venezia</strong>;<br />
© Eredi Luigi Nono, per gentile concessione).
più tumultuose del secolo. È un’irruzione di espressionismo<br />
tecnicamente aggiornato e potenziato, con parti registrate<br />
su nastro e diffuse da un sistema di altoparlanti che avvolge<br />
la platea, e una componente scenica nuovissima, dominata<br />
dal segno di Emilio Vedova. È un teatro totale in cui accanto<br />
all’allegoria c’è l’attualità del lavoro in miniera dei lavoratori<br />
emigrati, le torture poliziesche, i disastri naturali colposi.<br />
Nono sta svoltando verso un’ancora maggiore sperimentazione<br />
tecnica, la scoperta della musica elettroacustica, un approfondito<br />
scavo dell’espressione vocale. L’intento politico<br />
è ormai esplicito tuttavia, e nella sua speciale drammaturgia<br />
prende sempre la forma di ritratti esistenziali di singole figure<br />
la cui dimensione politica scaturisce, o è posta in evidenza,<br />
quasi sempre da un lutto. Ma non c’è mai nulla di celebrativo<br />
o di oleografico nella musica che Nono scrive – si dovrebbe<br />
dire «fa», perché a un certo punto la scrittura è solo<br />
uno tra i momenti della creazione e della performance, a cui<br />
Nono partecipa direttamente – come direttore e regista del<br />
suono – e soprattutto questa musica è accompagnata da una<br />
forte determinazione da parte del suo autore a cercare modi<br />
nuovi e diversi di farla<br />
ascoltare, fuori dai festival<br />
di musica contemporanea,<br />
soprattutto fuori<br />
dall’«avanguardia»,<br />
verso un pubblico non<br />
specializzato, politicamente<br />
amico. Non sarà<br />
facile questa quadratura<br />
del cerchio, e il problema<br />
rimarrà irrisolto,<br />
sospeso, fino a quando<br />
la rivoluzione dell’ascolto<br />
postulata da Nono<br />
si compie più tardi,<br />
al volgere degli anni ottanta,<br />
in un’ultima fase<br />
che in apparenza abbandona<br />
l’ispirazione<br />
politica. Nell’Italia della<br />
metà degli anni settanta,<br />
mentre il Partito<br />
Comunista Italiano<br />
raggiunge il massimo<br />
della sua presenza sociale<br />
e del suo peso politico,<br />
Nono, che ne teme<br />
l’istituzionalizzazione, compie una delle sue caratteristiche<br />
«rotture»: si rivolge ora ai temi del mito, dell’esperienza mistica,<br />
e la sovversione auspicata è semmai quella «insospettata»<br />
della poesia di Jabès. Svolta poetica che si accompagna<br />
ancora una volta a una svolta tecnica, con la scoperta dell’elaborazione<br />
del suono interattiva, in tempo reale, che muta<br />
completamente il rapporto con l’interprete. Nono esplora<br />
la natura del suono, la sua materia, mentre lo trasforma e<br />
lo proietta nello spazio come mai prima: è un tratto di sperimentazione<br />
che si ricollega però alla pratica degli amati maestri<br />
del Cinquecento veneziano nella cappella di San Marco.<br />
Nel corso degli anni ottanta fioriscono così opere straordinariamente<br />
delicate e imponenti al tempo stesso, fatte di<br />
soffi, sussurri, voci remote e improvvise esplosioni. Le ultime<br />
opere, con Prometeo che in qualche modo le compendia,<br />
sono vere e proprie meditazioni sonore che riguadagnano a<br />
Alcuni schizzi allestiti nello studio di <strong>Venezia</strong>, 1983<br />
(foto di Luigi Nono; Archivio Luigi Nono, <strong>Venezia</strong><br />
© Eredi Luigi Nono, per gentile concessione).<br />
Nono, tra l’altro, il favore unanime della critica, prima divisa<br />
dallo spartiacque politico.<br />
Gli anni ottanta erano quelli in cui la musica contemporanea<br />
si stava polarizzando tra «nuova complessità» e «nuova<br />
semplicità», tra scrittura utopica e banalità postmoderne.<br />
Nono andava in controtendenza rispetto ad ambedue, ma<br />
attorno a questa sua singolarità si stava creando anche una<br />
certa mitologia, non tanto diversa da quella che veniva allora<br />
costruita attorno a un enigmatico e controverso compositore<br />
«esoterico», Giacinto Scelsi.<br />
Ecco: se non altro, l’avvio, promosso dall’Archivio Luigi<br />
Nono, di uno studio basato sulla documentazione del processo<br />
creativo ha permesso di mitigare molto presto questa<br />
sorta di «canonizzazione», riconducendo l’opera di Nono<br />
alle sue premesse tecniche, materiali (incluso il lavoro sulle<br />
fonti poetiche, beninteso), mettendo in evidenza i forti<br />
motivi di continuità attraverso le differenti fasi e «rotture»<br />
della sua produzione, ricostruendo un’immagine unitaria<br />
che ha potuto recuperare all’ascolto dei contemporanei tutti<br />
quei lavori che si ritenevano, a torto, consegnati alle circo-<br />
stanze dell’epoca: le composizioni ad alto tasso di impegno<br />
tecnico degli anni cinquanta, quelle «politiche» degli anni<br />
sessanta e settanta.<br />
Nono non ha avuto allievi, e la sua influenza non si è fatta<br />
sentire come avrebbe potuto, soprattutto presso le generazioni<br />
più giovani: moltissimi ormai sono i compositori fuggiti<br />
da un Paese che da anni non offre alcuna opportunità di<br />
carriera, e di necessità rifugiatisi presso lidi più accoglienti,<br />
come la Francia, dove però le istituzioni di formazione e ricerca<br />
imprimono un marchio «di scuola», tradizionalmente<br />
piuttosto tecnicistico.<br />
Rispetto a questa realtà, il lavoro condotto dall’Archivio<br />
può svolgere una funzione di raccordo molto importante.<br />
Nei suoi vent’anni ha infatti promosso ricerca, analisi, edizioni,<br />
seminari d’interpretazione, ricostruzioni esecutive,<br />
attività di documentazione di ogni genere. Si tratta di un lavoro<br />
a tutto campo che può mantenere in vita, rinnovandola<br />
secondo i mutamenti delle prospettive scientifiche, l’opera<br />
del compositore in modo tale da mantenerne alta la possibilità<br />
di una reale trasmissibilità. ◼<br />
contemporanea<br />
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contemporanea<br />
Sulla Biennale Musica<br />
Una lettera<br />
di Luigi Abbate<br />
Caro Direttore,<br />
ho apprezzato l’attenzione riservata da <strong>Venezia</strong>-<br />
Musica e dintorni all’ultima edizione della Biennale<br />
Musica. Certo, sarebbe stato curioso che un<br />
periodico con un titolo come quello che dirigi non avesse dedicato<br />
particolare riguardo all’importante manifestazione<br />
italiana di musica d’oggi che da decenni a <strong>Venezia</strong> si tiene.<br />
Cionondimeno, destinare ben cinque pezzi sull’argomento<br />
non è cosa da poco, specie se si considera la pressoché totale<br />
nullità degli spazi offerti alla critica musicale dalla stampa<br />
nazionale. Non sono stato presente all’ultimo festival, quindi<br />
l’ampio spazio è stato utile strumento d’informazione e opportunità<br />
dialettica. In particolare le perplessità espresse da<br />
Mario Gamba e Giordano Montecchi mi spingono a qualche<br />
riflessione di rilancio. Gamba si chiede perché in Biennale<br />
Musica è ammesso ciò che non lo è nella sezione arte o cinema,<br />
ossia porre al centro del programma autori ormai storicizzati.<br />
E, sempre Gamba, rammaricandosi dell’esclusività della<br />
presenza di musica contemporanea «colta», lamenta l’assenza<br />
di musiche «altre». Ovviamente molte sono le ragioni<br />
di questo oggettivo stato di cose, da quelle più prosaicamente<br />
economiche a quelle «alte» dell’estetica e degli studi sulla ricezione.<br />
Rimaniamo solo su queste ultime. Se ci riferiamo alla<br />
Biennale, è inevitabile notare il fatto che sia arte che cinema<br />
considerano nel proprio dna, ben più della musica, l’integrazione<br />
con il «diverso», sia esso inteso come semplice materiale,<br />
concreto o linguistico, sia nelle sue derive concettuali, sia<br />
ancora per la prerogativa (sempre di arte e cinema) di abbracciare<br />
con forza emotiva gli ambiti più distanti del cosiddetto<br />
«sociale». La musica, arte «ineffabile» per eccellenza, cede<br />
facilmente alle lusinghe dell’autoreferenzialità e pone acerrime<br />
resistenze a tali attitudini. Per esempio la fisicità, a volte<br />
cruenta (si pensi alla Body Art nelle manifestazioni ormai storicizzate<br />
del Leone d’oro Marina Abramovich o, prima di lei,<br />
di Gina Pane), dell’esperienza artistica non trova uno spazio<br />
paritetico nella musica, a meno che non si vogliano considerare<br />
«body music» i giochi percussivi del corpo di un Bobby<br />
Mc Ferrin. Maurizio Mochetti dice che il suono non è prerogativa<br />
del musicista. Pensiero disarmante per chi musicista è,<br />
e quindi considera anche concettualmente il suono e tutto ciò<br />
che a esso afferisce un appannaggio, viceversa ritenendo che<br />
altre vocazioni e competenze ne facciano uso come di un’arma<br />
impropria. In realtà sarà il caso di valutare anche qui, come<br />
altrove, pariteticità delle vocazioni-competenze altrui. Vi<br />
sono artisti – e qui sarebbe lunga la lista – che usano il suono,<br />
sia come fenomeno assoluto che nel suo articolarsi con l’immagine,<br />
la forma plastica, in modo ben interessante, non solo<br />
presentandolo nel ruolo consueto di «esperienza-d’ascolto»,<br />
ma anche facendolo interagire con la componente simbolicoconcettuale<br />
che tanto si ritrova nelle arti visive degli ultimi anni.<br />
Un esempio per tutti: l’installazione di Arcangelo Sassolino<br />
vista di recente nell’omaggio a Bacon offerto dal fiorentino<br />
Palazzo Strozzi, dove protagonista è appunto il suono prodotto<br />
da un gioco di corde pericolosamente tese all’inverosimile,<br />
proposto a intervalli più o meno regolari. Saggio fra mille<br />
possibili di idee e relative realizzazioni che pongono sotto luce<br />
nuova la poetica cageana del rapporto suono-silenzio, e alle<br />
quali anche i compositori potrebbero (ri)fare un pensiero di<br />
riflesso. Se non altro – detto scherzosamente – per fare in modo<br />
che proprio il collega artista, con le sue sempre più frequenti<br />
incursioni sonoro-musicali, non finisca per espropriare anche<br />
i (poveri) ambiti di competenza del compositore, e quindi<br />
i sempre più risicati spazi di sopravvivenza di quest’ultimo. E,<br />
tanto per restare nel gioco dei paragoni fra discipline storicamente<br />
care alla Biennale veneziana, vien da dire che fra i critici,<br />
gli studiosi, gli esperti, alla musica son mancate quelle figure-chiave<br />
che viceversa non sono certo mancate alle arti visuali.<br />
Figure che la Biennale ben conosce, ispiratori di movimenti<br />
che loro stessi hanno definito e storicizzato: un Germano Celant,<br />
esegeta dell’Arte Povera, un Achille Bonito Oliva, archimandrita<br />
della Transavanguardia.<br />
La pratica artistica, e in particolare quella della Performing<br />
Art, suggerisce un possibile ritorno di fiamma della convivenza<br />
fra autore, in particolare, virtuoso, ed esecutore. Convivenza,<br />
ovvio, non solo relegata al jazz e non solo nel jazz capace di<br />
risultati di indubbio interesse sul fronte dell’equidistanza fra<br />
bravura e qualità. Esperienze meno stimolanti si incontrano<br />
laddove a una notevole maestria performativa si accompagna<br />
una sostanziale povertà di stimoli ed esiti compositivi. Peggio<br />
ancora quando la povertà accomuna sia l’aspetto compositivo<br />
che quello esecutivo. Anche qui gli esempi non mancano,<br />
e con loro certi atteggiamenti che paiono veri cavalli di Troia<br />
per far passare come «alto» un tipo di approccio alla composizione<br />
che strizza l’occhietto all’easy listening commercialmente<br />
potabile. Interessante poi notare come un genere abitualmente<br />
associato all’improvvisazione nel tempo si sia cristallizzato<br />
in formule ormai manieristiche. La performance di<br />
Braxton intinta nell’accademismo che ha deluso Gamba mi<br />
ha ricordato un concerto seguito alcuni anni fa alla Casa da<br />
Música di Porto, la cui mirabile acustica concorreva a esaltare<br />
la prova dell’eccellente Dave Holland e del suo gruppo; la<br />
quale, per precisione esecutiva pareva più vicina allo standard<br />
di un Arturo Benedetti Michelangeli che quello della vecchia,<br />
fumosa cantina.<br />
Ma è l’intervento di Giordano Montecchi a mettere il dito<br />
nella piaga. Spinto a <strong>Venezia</strong> dai concerti con le musiche<br />
dei più giovani, e – dice – diviso a metà fra speranza e timore<br />
di delusione, scoprendo prevalere alla fine la seconda attitudine,<br />
Giordano esordisce con la domandina sorniona: «Sono io<br />
o è lei? È la sclerosi dell’ascoltatore divenuto incapace di sorprendersi?<br />
O è lei, la musica, quella musica che via via si è fatta<br />
più anemica e replicante?» Chi, come me, si ritrova a cavalcare<br />
entrambe le tigri, coltivando con la composizione l’orticello<br />
di un narcisismo creativo, ma anche testimoniando con la<br />
scrittura un disagio della creatività e della critica alla creatività<br />
medesima, queste domande se le pone due volte. E subito gli<br />
Anthony Braxton.
vien da porsi la domanda sotto la seguente forma: comporre<br />
come urgenza e denuncia, oppure no? Ebbene, lo confesso: io<br />
– ma forse come me anche altri colleghi autori – amerei lasciare<br />
un segno come lo ha lasciato la Tracy Chapman di Behind<br />
the Wall, la cui melopea a cappella canta con forza degna di<br />
epos omerico della violenza perpetrata entro le mura domestiche,<br />
o il Chico Buarque di A Construção, le cui ciniche sostituzioni<br />
di parole nel testo su gesti di ballata fan rabbrividire<br />
chi è sensibile alla tragedia delle morti bianche. Amerei farlo,<br />
e ci provo usando strumenti appropriati a disegnare una forma<br />
meno autoreferenziale, una forma nuova di impegno, magari<br />
rivissuta nella poesia declinata al femminile, quella delle<br />
martiri (nel senso antico di testimoni) della modernità: Sylvia<br />
Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi… Ci proviamo,<br />
a lasciare un segno, e a fare in modo che questo segno<br />
arrivi a un pubblico. Ben venga quello della Biennale Musica,<br />
meglio ancora se giovane. Se poi prevale la «sclerosi dell’ascoltatore<br />
(e del critico, benché sensibile e avveduto) incapace<br />
di sorprendersi», forse c’è anche un problema, come si diceva<br />
una volta, «di contesto». In fondo il Brahms che invidiava<br />
a Johann Strauss il motivo di An der schönen blauen Donau<br />
a pensarci bene ci ha lasciato tempi di Ländler che non son da<br />
meno per purezza formale e forza evocativa. E non sono meno<br />
«semplici (einfach)»: sono solo meno «popolari».<br />
La reiterata assenza delle musiche altre denunciata sia da<br />
Gamba che da Montecchi è un problema vero, e al tempo stesso<br />
un falso problema. L’urgenza stringente, improrogabile nei<br />
desiderata musicali del mondo giovanile spinge all’allarme.<br />
Ormai anche in Italia rap e hip hop han superato per interesse<br />
pop e rock. Ma soprattutto il download, a norma o illegale<br />
che sia, i contatti in YouTube, e il grande equivoco generato<br />
dall’immediatezza di accesso a un presunto comporre nell’epoca<br />
del sampler e dei software virtuali autocompositivi. E ancora,<br />
l’inclinazione di alcune star dell’esecuzione «classica»<br />
verso più o meno personali letture dell’altra musica, rock-popjazz-ethno-ecc.<br />
Insomma, tutti temi da mettere in conto per<br />
tentare una risposta alla «domandina». Montecchi auspica<br />
l’invenzione di nuovi spazi per la produzione. E quali potrebbero<br />
essere, per esempio in Italia, gli spazi deputati per la produzione<br />
del nuovo in musica? Ma i Conservatori di musica,<br />
naturalmente! Infatti non lo sono per niente. Lo sono invece,<br />
e tanto, avvinghiati nella morsa letale di una riforma che,<br />
basandosi su un approccio ancora tristemente neoidealistico,<br />
produce, nei suoi migliori saggi, asfittici esercizi di stile (qualcosa<br />
del genere ci racconta Gamba, citando una collaborazione<br />
fra Biennale e Conservatorio veneziano). Ma nella realtà<br />
dei fatti che cos’è diventato il Conservatorio di musica? Delle<br />
originarie «Arti e Mestieri», grazie a surrettizie manipolazioni<br />
degli intellettualismi e della burocrazia s’è trasformato<br />
in una aberratio institutionalis. Le cause: una riforma avviata<br />
dall’alto, per giunta priva del completamento del cursus accademico<br />
con la mancata istituzione dei livelli superiori, una balorda<br />
promiscuità di competenze e velleità scientifico-didattiche.<br />
Pianisti, tubisti, violinisti, bassisti e fisarmonicisti: tutti<br />
insieme appassionatamente preoccupati di congedare tesi di<br />
laurea elegantemente rilegate e titolate, ma che stringi stringi<br />
si riducono a compilazioni a volte costellate di refusi se non<br />
di errori di ortografia. Già, la chimera delle lauree triennali e<br />
biennali, garbata sintesi di un arrampicarsi sugli specchi verso<br />
il riconoscimento professionale prima ancora che artistico del<br />
ruolo del musicista. E il compositore, l’allievo di composizione,<br />
dico, caso estremo di una situazione del genere? Quando<br />
arriva a terminare il corso va alla ricerca della griffe accademica,<br />
giustamente meglio se lontano dall’Italia, da annotare sul<br />
curriculum, e da cercare di monetizzare nelle proprie aspira-<br />
Tracy Chapman.<br />
zioni di carriera. E a mio avviso è qui, per noi musicisti, il vero<br />
«morbo – riprendo ancora le parole di Montecchi – che consuma:<br />
un’insufficienza culturale che è la madre di tutte le corruzioni<br />
e degenerazioni della politica come della cittadinanza».<br />
Allora, giusto per rincarare la dose, spostandoci dalla formazione<br />
alla produzione e diffusione, completiamo il quadro<br />
mettendoci dentro altre idiosincrasie, altri malcostumi tutti<br />
italici, e facciamolo con una «domandina» alla Montecchi:<br />
ma l’Italia della musica è forse migliore di quella della politica,<br />
dell’economia, della finanza o del sindacalismo? Sarà che<br />
anche in musica legami e amicizie personali, lassismo di editori<br />
e direttori artistici, una declinazione «postmoderna» del<br />
gramsciano intellettuale organico non fiacchino la serenità di<br />
giudizio, il gusto – diciamolo con semplicità – per il bello, e<br />
financo la forza dell’invenzione, il faticoso – perché tale è –<br />
impegno del comporre? Se poi parlassimo dell’eterna incompetenza<br />
dei responsabili culturali non addetti ai lavori? E vogliamo<br />
tirare in ballo un altro baraccone tutto italico: la siae?<br />
Ma no, meglio di no. «Restiamo – sempre per citare il nostro<br />
Giordano – al pessimismo della musica».<br />
Vorrei aggiungere ancora un ricordo. Proprio Montecchi ha<br />
ben presente una bella masterclass di Uri Caine, organizzata<br />
dal neonato (e troppo presto abortito) Dipartimento di Nuove<br />
Pratiche Musicali, iniziativa della quale Giordano, insieme<br />
ad altri colleghi tra cui il sottoscritto, fu promotore presso il<br />
Conservatorio di Parma. Giusto per dire che tra i cascami di<br />
una vetusta istituzione cose buone si potevano, e ancora oggi<br />
si possono continuare a fare. Era il 2001. Fu un momento importante,<br />
specie per giovani strumentisti e compositori poco<br />
avvezzi all’esperienza dell’improvvisazione; tutti impegnati<br />
in una rilettura di Caine, allora inedita e battezzata per l’occasione,<br />
delle Variazioni Diabelli. Due anni dopo il simpatico<br />
Uri fu chiamato a <strong>Venezia</strong> per dirigere la Biennale Musica.<br />
Un’edizione, quella del 2003, frizzante, che pareva innovativa,<br />
ma messa in piedi frettolosamente, e non solo ma forse<br />
anche per questo ridotta a una vetrina di musica jazzisticoebraico-newyorkese<br />
o poco più. Alla fine, gira e rigira, dalla<br />
morsa «anemica e replicante» non se ne esce vivi. Ma forse<br />
un giorno, Giordano Montecchi, magari nominato a sua volta<br />
alla direzione della Biennale Musica, saprà smentire l’infausta<br />
tradizione.<br />
Dei contributi, caro Direttore, che hai pubblicato sull’argomento,<br />
e specie dei due che ho citato, ho apprezzato l’onestà<br />
intellettuale. Mi auguro che <strong>Venezia</strong>Musica e dintorni altri<br />
di questo tenore ne faccia seguire.<br />
Con stima,<br />
Luigi Abbate<br />
contemporanea<br />
41
42<br />
l’altra musica<br />
Francesco De Gregori:<br />
storie senza fine<br />
Il cantautore romano<br />
presenta<br />
«Sulla strada»<br />
di John Vignola<br />
Ancora sulla strada, Francesco De Gregori.<br />
Un disco uscito da poco, su cui vale la pena di<br />
soffermarci, un tour che imita da vicino quello di<br />
uno dei suoi miti, Bob Dylan, nel cambiare direzione,<br />
stile, musicisti, e addirittura un audiolibro in cui la sua<br />
voce legge nientemeno che Cuore di tenebra, pubblicato<br />
da Emons.<br />
La verità, ammesso che ce ne sia una sola, è che il<br />
Principe è uscito da un esilio puramente artistico,<br />
qualche anno fa, che lo aveva reso quasi inavvicinabile<br />
ai cronisti musicali. Era il 2005, l’epoca di Pezzi,<br />
e De Gregori aveva ricominciato a parlare, era<br />
sceso in mezzo alla gente, una figura un po’ papale,<br />
ma del resto appropriata, per colmare la distanza, sempre<br />
più ampia, fra se stesso e la percezione del pubblico. Il decennio<br />
precedente era stato segnato da qualche grande canzone,<br />
ma soprattutto da una serie di dischi<br />
dal vivo affastellati, tirati via<br />
senza troppo riguardo per la voce<br />
né attenzione per gli arrangiamenti.<br />
Come il suo punto costante<br />
di riferimento d’Oltreoceano, si<br />
limitava a salutare, quasi apostrofandola,<br />
la platea, per poi inanellare<br />
una serie di brani in successione<br />
rapida e velocissima, con una voce<br />
incrinata, più che dal tempo, dal<br />
tentativo di essere in leggero ritardo<br />
con la trama sonora.<br />
Da Amore nel pomeriggio, del<br />
2001, ma soprattutto da Il fischio<br />
del vapore, dell’anno successivo,<br />
pensato assieme a Giovanna Marini,<br />
il percorso del cantautore romano<br />
ha ripreso una sua forza poetica<br />
importante, mescolando sempre<br />
di più il folk, la tradizione, con<br />
la sua passione per il rock’n’roll.<br />
Poi, è arrivato il resto: tante interviste<br />
e altrettante partecipazioni<br />
radiofoniche, qualche comparsata<br />
televisiva, addirittura un film quasi<br />
autobiografico, Finestre rotte, girato<br />
da Stefano Pistolini e presentato<br />
alla scorsa Mostra del Cinema<br />
di <strong>Venezia</strong>, la collaborazione<br />
sui palchi di mezza Italia con Ambrogio<br />
Sparagna e la sua Orchestra<br />
Popolare Italiana. Infine, è arrivato<br />
Sulla strada, sorta di corrimano<br />
in studio per i suoi nuovi concerti.<br />
Evitiamo, anche qui, a fatica, la tentazione piuttosto stucchevole<br />
di accostare Sulla strada a Tempest di Bob Dylan,<br />
anche se una linea di contatto esiste: la vivacità. Così come<br />
il più grande cantautore americano continua a sorprendere<br />
per l’uso della voce e per la libertà dell’ispirazione, così<br />
il Principe non si adagia né si ripiega su se stesso. Lo ha fat-<br />
Padova<br />
Gran Teatro Geox<br />
13 aprile, ore 21.30<br />
to di più in passato, magari, anche se ci sarebbe da aprire una<br />
discussione sulla faccenda: oggi le canzoni che sta portando<br />
in giro per l’Italia hanno la freschezza dell’ispirazione.<br />
La sua è una storia in cui musica popolare, rock, poesia, inquietudine<br />
e splendida presunzione continuano a deflagrare<br />
fra di loro. Nessuna scorciatoia nei testi, che inanellano figure<br />
sfumate, dolenti, perentorie, dalla parte degli ultimi e<br />
qualche volta intonate dai primi, ben consapevoli di avere la<br />
dote dell’ispirazione.<br />
La «Belle epoque» che fu, mai così vicina, nei suoi risvolti<br />
drammatici, il «Passo d’uomo» che è l’unico da percorrere,<br />
la gazzarra disumana di un «Omero al Cantagiro» (con la<br />
voce di Malika Ayane, che fa capolino anche nella «Ragazza<br />
del ’95»), folclore tipicamente italiano un po’ da rimpiangere<br />
e un po’ da dimenticare, l’ironia che si sposa col senso<br />
di tragedia: tasselli di un viaggio di quarantadue<br />
minuti e di nove canzoni in cui la musica è compagna<br />
fedele. Gli arrangiamenti di Nicola Piovani<br />
(«Guarda che non sono io»), l’immancabile mano<br />
di Guido Guglielminetti e la scelta di danzare<br />
sul falsopiano della nostra tradizione, quella percorsa<br />
da festival strapaesani e solcata da una abbacinante<br />
strada da macinare: un disco libero, dove<br />
i ricordi del passato, inevitabili, («Showtime») rifuggono<br />
ogni stucchevolezza.<br />
Non che tutto sia oro lucentissimo: quelli che hanno ama-<br />
to il recente Pezzi (uno dei suoi album migliori, per dire) lamenteranno<br />
magari la mancanza di grinta, qua e là, e di un<br />
pezzo davvero memorabile. Chi scrive, sobriamente, applaude<br />
la bravura di un Francesco De Gregori ancora in stato di<br />
grazia, capace di farsi riconoscere fra tutti e di non strafare.<br />
Non possiamo, per ora almeno, volere di più. ◼
Sinead O’Connor<br />
sbarca in Fenice di Giuliano Gargano<br />
Diciamoci la verità. Lo sforzo è apprezzabile,<br />
la caparbietà pure. Il rimettersi in gioco è importante.<br />
Ma anche la più buona volontà<br />
– se non accompagnata da<br />
una produzione che sia anche lontanamente<br />
confrontabile con l’exploit che ti ha cambiato<br />
la vita – è insufficiente per tornare appunto<br />
a quei livelli. Ed ecco allora che per parlare<br />
di Sinead O’Connor, per la prima volta a<br />
<strong>Venezia</strong> in aprile, bisogna tornare indietro al<br />
1990. La giovane cantante irlandese incide la<br />
cover di un brano che Prince, il folletto<br />
di Minneapolis, aveva scritto a metà<br />
degli anni ottanta per il gruppo<br />
musicale The Family. La canzone<br />
è «Nothing Compares<br />
2 U». Una ballata struggente<br />
e malinconica,<br />
accompagnata da un<br />
video – girato a Parigi<br />
– tanto essenziale<br />
quanto intenso: a<br />
lunghi primi piani<br />
del volto di Sinead<br />
si sovrappongono<br />
riprese nella<br />
capitale francese.<br />
Per certi<br />
versi, sembra<br />
l’antenato di<br />
un’altra bella<br />
e triste canzone,«Someone<br />
Like You»<br />
di Adele, il cui<br />
video è girato<br />
all’ombra della<br />
torre Eiffel.<br />
Verso la fine del<br />
brano – subito dopo<br />
la frase «All<br />
the flowers that<br />
you planted, Mama,<br />
in the backyard<br />
/ All died when you<br />
went away» (Tutti<br />
i fiori che hai piantato<br />
nel giardino di<br />
dietro, mamma / sono<br />
morti quando sei<br />
andata via) – due lacri-<br />
Sinead O’Connor<br />
(foto di BarryMcCall).<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro La Fenice<br />
2 aprile, ore 21.00<br />
me solcano il viso della cantante. Il successo è planetario: il<br />
singolo raggiunge il primo posto in classifica in Australia,<br />
Austria, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera,<br />
Regno Unito e Stati Uniti. Il video vince anche l’Mtv Video<br />
Music Awards nel 1990, e si tratta della prima volta per<br />
una donna.<br />
Sulla scia dello strepitoso successo di quella canzone – diventata<br />
ormai un classico – la O’Connor piazza un altro paio<br />
di singoli, «The Emperor’s New Cloche» e «Three Babies»,<br />
tutti inclusi nell’album I Do Not Want<br />
What I Haven’t Got.<br />
E poi… e poi bisognerebbe stendere un ve-<br />
lo sugli anni successivi. La O’Connor resta al<br />
centro delle cronache, ma mai per motivi musicali.<br />
Tra i momenti più controversi, quello<br />
in cui strappa – durante un concerto – la foto<br />
di papa Giovanni Paolo ii. E poi gli scontri<br />
con i colleghi (Frank Sinatra voleva prenderla<br />
a pedate nel fondoschiena), il flirt con il cantante<br />
dei Red Hot Chili Peppers Anthony Kiedis. Seguono<br />
anni bui, con un tentato suicidio, la<br />
scoperta di soffrire di un disturbo bipolare,<br />
l’ordinazione all’interno di un<br />
movimento cattolico irlandese…<br />
A quasi un quarto di secolo da<br />
quei momenti di gloria, Sinead<br />
O’Connor è di nuovo sul<br />
palco. Martedì 2 aprile sarà<br />
dunque alla Fenice con una<br />
tappa del suo «The Crazy<br />
Baldhead Tour»: ad accompagnarla<br />
ci saranno<br />
Graham Henderson (tastiere),<br />
Robert McIntosh<br />
(chitarra), John<br />
Reynolds (batteria),<br />
Clare Kenny (basso),<br />
Brooke Supple (chitarra).<br />
Al centro del<br />
suo concerto l’ultimo<br />
cd, How About I Be Me<br />
(And You Be You)?, uscito<br />
nel 2012: è addirittura<br />
il nono album della cantante<br />
irlandese, prodotto<br />
da John Reynolds e distribuito<br />
dall’etichetta inglese<br />
One Little Indian. Dieci<br />
brani (salutati in modo non<br />
proprio entusiastico da parte<br />
della critica, e con zero commenti<br />
su iTunes), ai quali, gioco<br />
forza, verranno intervallati<br />
i successi di venticinque anni<br />
fa. Ma se è lo scotto da pagare<br />
per riascoltare «Nothing<br />
Compares 2 U»… ◼<br />
l’altra musica 43
44<br />
l’altra musica<br />
Un «Fantasma»<br />
per esorcizzare<br />
i propri demoni<br />
I Baustelle in concerto a Padova<br />
di Gianni Sibilla<br />
La morte esiste ancora, eccome. Solo che un<br />
consolidato luogo comune dei media e dell’industria<br />
culturale vuole che non se ne parli. La si celebra,<br />
perché è un evento che genera indotto<br />
– in fin dei conti, alla fine delle classifiche di<br />
ogni anno ci sono i dischi di cantanti scomparsi<br />
prematuramente.<br />
È un luogo comune soprattutto nazionale, perché<br />
ci sono band anglosassoni come i Grateful<br />
Dead che sulla morte hanno costruito un immaginario,<br />
visivo e musicale, anche scherzandoci,<br />
esorcizzandola, elaborando. Ma cantarla, da vivi, no, non in<br />
Italia. Quello non è tollerato da noi: genera sorrisini, scherno,<br />
battutine. C’è il rischio, concretissimo e amplificato dal<br />
chiacchiericcio libero sul tazebao globale dei social network,<br />
di passare per pesanti, presuntuosi intellettualoidi.<br />
Tradotto: ci vuole un gran coraggio a sparire completamente<br />
per quasi tre anni e scegliere una canzone come «La<br />
morte (non esiste più)» come primo singolo del ritorno. Oggi<br />
gli artisti non staccano mai: twittano, postano, bloggano.<br />
Non i Baustelle: da I mistici dell’occidente (2010) a oggi erano<br />
praticamente scomparsi, senza quell’ossessione al presenzialismo<br />
digitale odierno.<br />
Non c’è alterità, non c’è snobismo, non c’è provocazione.<br />
C’è solo la scelta di un proprio percorso: Francesco Bianconi,<br />
Rachele Bastreghi, Claudio Brasini di coraggio ne hanno<br />
da vendere, da tempi non sospetti. E la scelta di una canzone<br />
così stupisce solo chi li conosce superficialmente. Una gran<br />
canzone, melodica e retrò al punto giusto, ottima introduzione<br />
a un disco ancora più coraggioso di quel brano che – ti-<br />
Padova<br />
Gran Teatro Geox<br />
29 marzo, ore 21.00<br />
tolo a parte – è fieramente «pop».<br />
Fantasma è un disco orgogliosamente inattuale, un piccolo<br />
trattato sulla canzone italiana e sugli arrangiamenti orchestrali,<br />
che però non ha la pretenziosità (e la noia) che un<br />
saggio accademico può avere e che una raccolta di canzoni<br />
non ha.<br />
«Ma, credimi, non c’è alcuna differenza tra fare un disco<br />
così e fare un disco di Jovanotti»: ho letto questa frase nei<br />
meandri di Facebook, in risposta a qualche recensione postata<br />
e discussa vigorosamente. Siamo un Paese di allenatori<br />
della nazionale di calcio e di critici musicali... Il «critichino»<br />
aveva ragione: questa frase è vera, ma nel senso opposto<br />
a quello scherno e a quel disprezzo che il suo anonimo autore<br />
intendeva esprimere.<br />
Perché Fantasma è un disco frutto di una ricerca<br />
molto diversa da quella che Lorenzo Cherubini<br />
fa nei suoi dischi, ma altrettanto profonda: ci<br />
sarebbe da scrivere un saggio solo sui suoni, sugli<br />
strumenti e sugli arrangiamenti di questo nuovo<br />
album, inciso con un’orchestra, la FilmHarmony<br />
Orchestra di Wroclaw/Breslavia, arrangiata da<br />
Enrico Gabrielli.<br />
Viene in mente un’altra parola, desueta e inattuale pure<br />
quella: «concept album» – una parola che gli stessi Baustelle<br />
ostentano nel comunicato stampa di presentazione del disco.<br />
Nell’immaginario degli ascoltatori questa definizione evoca<br />
tentativi – goffi o, peggio, pretenziosi – di usare le canzoni<br />
come capitoli di libro, di<br />
narrare con un linguaggio<br />
che non è quello del pop.<br />
Invece Fantasma è proprio<br />
questo: un «song cycle» sia<br />
lirico che musicale, con una<br />
sua organicità.<br />
Fate una prova: prendete<br />
il libretto (questo è un disco<br />
da avere nel caro, vecchio,<br />
formato fisico), leggete<br />
i testi, che peraltro sono<br />
giustificati, senza gli «a capo»<br />
delle strofe. Leggeteli<br />
dal primo all’ultimo. Tutto<br />
fila come un unico racconto.<br />
Le parole non andrebbero<br />
mai separate dalla<br />
musica, dall’interpretazione.<br />
Ma il gioco in Fantasma<br />
funziona, eccome.<br />
Poi ascoltate le canzoni:<br />
trovate voi qualcuno che<br />
sappia mettere assieme De<br />
André (la voce di Bianconi<br />
ricorda quella del Maestro,<br />
a tratti), Morricone e la musica per film, quella sinfonica, la<br />
musica concreta, il pop «remmiano» cantato in romanesco<br />
(«Contà l’inverni») e la canzone melodica italiana. Trovate<br />
qualcuno che sappia mettere assieme tutto questo senza<br />
sembrare «retromaniaco», come direbbe Simon Reynolds.<br />
Sarà interessante vedere come il Fantasma si materializzerà<br />
sul palco, spogliato in larga parte della presenza dell’orchestra<br />
(che sarà in scena solo nelle prime date del tour). Un<br />
Fantasma senza veli è ancora più evocativo, pauroso, inquietante.<br />
E forse è proprio questo l’effetto che vogliono ottenere<br />
i Baustelle: costringervi ad affrontare i vostri demoni. Sarete<br />
in grado di esorcizzarli? ◼<br />
Baustelle (foto di Gianluca Moroso).
Gli anni ottanta<br />
dei Litfiba rivivono<br />
in concerto<br />
di Guido Michelone<br />
Sono tornati. I Litfiba da qualche mese sono di<br />
nuovo assieme dopo che la brusca separazione tra i<br />
due leader: Piero Pelù, il cantante, e Ghigo Renzulli,<br />
la chitarra solista. Nella storia del rock succede<br />
infatti anche questo: basti pensare a quando, durante<br />
gli anni novanta, Mick Jagger e Keith Richard,<br />
ovvero i Rolling Stones, comunicavano tra loro solo<br />
attraverso i rispettivi avvocati, per capire la tortuosità<br />
delle dinamiche di gruppo in un ambito – la popular<br />
music – dove industria e showbiz comandano<br />
su arte e creatività col pugno di ferro. Del resto il<br />
nocciolo della questione che vede, nel 1999, Pelù abbandonare<br />
Renzulli (o viceversa) riguarda proprio il valore da attribuire<br />
all’identità poetica del duo dopo diciannove anni di<br />
onorata attività, al contempo popolare e trasgressiva, canzonettistica<br />
e rockettara: dunque, per il nuovo millennio, ritorno<br />
all’originaria funzione alternativa o svolta verso un ancor<br />
più tranquillo successo commerciale?<br />
Come si sa, Pelù intraprende la carriera solista con alti e<br />
bassi, mentre Renzulli prosegue con il gruppo assumendo un<br />
nuovo cantante senza però bissare l’exploit precedente. Ma<br />
i Litfiba, in quanto tali, necessitano di una front line Pelù-<br />
Renzulli, due figure complementari, due musicisti simbiotici,<br />
due immagini piratesche del rock italiano, due corpi in<br />
scena, due menti artisticamente inscindibili l’una dall’altra.<br />
E dire che la band si costituisce un’identità faticosamente,<br />
cominciando dall’underground fiorentino che già alla fine<br />
degli anni settanta, sulle ceneri del punk tricolore, può vantare<br />
una scena giovanile di tutto rispetto negli ambiti del-<br />
Litfiba (foto di Alexandra Morris, litfiba.net).<br />
Padova<br />
Gran Teatro Geox<br />
6 aprile, ore 21.30<br />
la ricerca sonora, teatrale, letteraria, visiva, eccetera. I Litfiba<br />
anzitutto scelgono il nome dall’indirizzo telex della sala<br />
prove utilizzata presso la via De’ Bardi al numero civico 32:<br />
quindi L (prefisso telex) + IT (Italia) + FI (Firenze) + BA<br />
(via De’ Bardi); oltre Pelù e Renzulli ci sono Antonio Aiazzi<br />
alle tastiere, Francesco Calamai alla batteria e soprattutto<br />
Gianni Maroccolo al basso (destinato poi a un’importante<br />
sodalizio con i gruppi emiliani cccp e csi). Ben presto l’accoglienza<br />
riservata al quintetto da un pubblico generazionale<br />
sempre più allargato, porta i Litfiba a compiere un salto di<br />
qualità – caso più unico che raro nella scelta indie nostrana<br />
–, diventando la sola band tricolore a fregiarsi del titolo<br />
di rock star attraverso album memorabili – Desaparecido,<br />
17 re, Litfiba 3, El diablo, Terremoto, Spi-<br />
rito, Mondi sommersi, Infinito –, una band che, pur<br />
concedono via via larghi spazi a una comunicativa<br />
poppeggiante, mantiene integerrima l’essenza – di<br />
Pelù e compagnia – di musici, cantastorie toscanacci,<br />
personaggi ribelli, fuorilegge e contestatori.<br />
A emergere sia dai dischi recenti (Insidia, Essere o sembrare,<br />
Grande nazione) che sul palco – anche oggi i Litfiba danno<br />
il meglio di sé dal vivo, con i nuovi ingressi di Daniele Bagni,<br />
Federico Sagona, Cosimo Zannelli, Luca Martelli – ci sono<br />
la voce e il volto di Pelù tra l’ironico sberleffo, la recita animalesca,<br />
la selvaggeria gaglioffa, e l’aplomb del Renzulli chitarrista,<br />
al contempo compositore e intellettuale del gruppo.<br />
Se ne sentiranno delle belle, insomma, in questo nuovo<br />
tour battezzato «Trilogia 1983-1989» – con l’esclusiva partecipazione<br />
di altri due componenti fondatori della band,<br />
Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi – che, partito il 26 gennaio<br />
dall’Arena di Mendrisio, sta percorrendo l’Italia intera<br />
con tappe a Milano, Bologna, Fontaneto d’Agogna, Cortemaggiore,<br />
Napoli, Roma e Padova.<br />
Concludono idealmente i Litfiba: «Ci piace molto spaziare<br />
tra i generi, anche perché in trent’anni, trentadue oramai,<br />
che suoniamo insieme è cambiato il mondo intorno a noi ed<br />
è cambiata anche la musica, quindi giustamente essere al passo<br />
con i tempi, anche se può sembrare una formula un po’<br />
“paracula”, in realtà non lo è». ◼<br />
l’altra musica 45
46<br />
l’altra musica<br />
In un disco di cover<br />
ecco le radici rock<br />
di Anastacia<br />
di Tommaso Gastaldi<br />
Il contrario non esiste. Quantomeno come complimento<br />
detto nei confronti di una voce. Non esistono<br />
«neri con la voce da bianco» e di certo se a qualche discografico<br />
saltasse in mente di lanciare un artista con<br />
questa caratteristica, la cosa non farebbe vendere più dischi.<br />
La definizione «bianco con la voce da nero», invece,<br />
riguarda una precisa qualità vocale volta a<br />
indicare una particolare timbrica tipica dei canta-<br />
ti afroamericani particolarmente adatta al canto,<br />
emessa però dalle corde vocali di un corpo umano<br />
di origine caucasica. Oggi, in tempi di politically<br />
corrected, è più probabile che si parli di voce<br />
soul, ma di fatto il risultato non cambia. Anastacia<br />
appartiene senza alcun dubbio a questa categoria di cantanti.<br />
La sua è una voce molto potente, che ha estensione e tono<br />
unici, il tutto incastonato in un corpo di notevole bellezza.<br />
Paradossalmente all’inizio della sua carriera tutte queste<br />
virtù non giocarono<br />
a suo favore, visto<br />
che nessun produttore<br />
si sentiva di accollarsi<br />
il rischio di lanciare<br />
un’artista che<br />
non aveva una collocazione<br />
discografica<br />
precisa. Tocca allora<br />
inventarselo questo<br />
nuovo genere, mescolando<br />
pop soul e<br />
rock, ovvero lo sprock,<br />
come lei stessa l’ha<br />
battezzato. La svolta<br />
avviene alla fine degli<br />
anni novanta, quando<br />
Anastacia vince<br />
un programma per la<br />
ricerca di nuovi talenti<br />
musicali, The Cut,<br />
in pratica l’antesignano<br />
degli attuali talent<br />
show. Ottiene immediatamente<br />
un contratto<br />
discografico e<br />
un ampio riscontro<br />
di pubblico e di elogi<br />
anche da parte di<br />
illustri colleghi come<br />
Elton John e Michael<br />
Jackson. Il suo primo<br />
album, I’m Not that<br />
Kind, viene pubblicato nell’estate del 2000 anticipato a febbraio<br />
dal singolo «I’m Outta Love»: proprio questa canzone<br />
ottiene subito un enorme successo mondiale e, anche grazie<br />
ai successivi singoli estratti, il disco vende ben cinque milioni<br />
di copie solo nel primo anno d’uscita. La sua fama raggiunge<br />
molti paesi, compresa l’Italia, dove Luciano Pavarotti<br />
la chiama a duettare con lui nell’edizione del Pavarotti &<br />
Friends del 2001. Purtroppo non riesce a sfondare in Ameri-<br />
Padova<br />
Gran Teatro Geox<br />
8 aprile, ore 21.30<br />
ca, suo paese natale: nata a Chicago, Anastacia è poi cresciuta<br />
a New York assieme alla madre attrice di Broadway, vivendo<br />
quindi a stretto contatto con il mondo dello spettacolo.<br />
Sviluppa in questi anni la sua attitudine musicale, spinta<br />
dall’ambiente in cui vive e dalla passione di sua mamma per<br />
Barbra Streisand ed Elton John, che rimane ancora oggi l’artista<br />
preferito da Anastacia. Con il secondo album, pubblicato<br />
alla fine del 2001, arriva in poco tempo a vendere dieci di<br />
milioni di copie: Freak of Nature, scherzo della natura, come<br />
la definivano, madre compresa, tutti quelli che si stupivano<br />
di una voce così forte in quella «strana» figura femminile.<br />
Quando le cose sembrano finalmente girare per il verso giusto<br />
viene sottoposta a un intervento chirurgico per rimuovere<br />
un cancro al seno, con la conseguente pausa dal lavoro. La<br />
malattia però non riesce a scalfire il suo carattere<br />
forte, che già in passato l’aveva aiutata a superare<br />
le difficoltà dovute al morbo di Crohn. In greco<br />
il suo nome significa «colei che nascerà ancora»<br />
e nel suo caso nessun nome avrebbe potuto essere<br />
migliore: lasciata alle spalle la malattia, ritorna<br />
sulle vette delle classifiche mondiali nel 2004<br />
con l’omonimo album Anastacia. Un’analisi sincera<br />
della malattia e del difficile rapporto col padre sono i temi<br />
portanti del disco, supportato nelle vendite da hit come<br />
«Left Outside Alone» e «Sick and Tired». Negli anni a<br />
seguire intraprende una lunga e fortunata tournée, il «Live<br />
at Last Tour», duetta<br />
con Eros Ramazzotti<br />
nel brano «I Belong<br />
to You», pubblica<br />
il best of Pieces of a<br />
Dream (2005) e lancia<br />
un suo profumo<br />
e una propria linea di<br />
moda. Cambiata casa<br />
discografica e supportata<br />
da un team di<br />
produttori di primo<br />
livello, nel 2008 esce<br />
il disco Heavy Rotation,<br />
che però non riesce<br />
a raggiungere gli<br />
stessi volumi di vendita<br />
dei lavori precedenti.<br />
Benché il successivo<br />
tour ottenga<br />
un numero di spettatori<br />
importante, negli<br />
ultimi anni è iniziato<br />
un periodo di<br />
riflessione per la carriera<br />
di Anastacia,<br />
in cerca di ritrovare<br />
l’ennesima resurrezione<br />
artistica. In<br />
quest’ottica la recente<br />
uscita di It’s a Man’s<br />
World è una produzione<br />
di buona fattura<br />
in attesa di un disco di inediti già in lavorazione. Si tratta<br />
infatti di un disco di cover di brani di gruppi rock che lei stessa<br />
ha amato e comprende brani tra gli altri di Aerosmith, Oasis,<br />
U2, Guns n’ Roses e Rolling Stones. Nel frattempo non<br />
ci resta che goderci dal vivo tutta la bravura di questo bellissimo<br />
«scherzo della natura». ◼<br />
Anastacia.
Max Gazzè<br />
canta<br />
«Sotto casa» di Guido Michelone<br />
«A ce Max Gazzè in una recente intervista –. In<br />
me piace la musica che abbia una melodia,<br />
una complessità anche armonica – di-<br />
passato ho fatto dei testi in cui c’era da de-<br />
codificare un significato, in cui si doveva andare un po’ oltre<br />
quella che era l’espressione superficiale del testo.<br />
Però credo che le canzoni debbano avere una loro<br />
condizione al di là della necessità di dover tradur-<br />
re un linguaggio». Le canzoni, in tal senso, devono<br />
narrare qualcosa: «Come un amore primordiale,<br />
qualcosa che non ha bisogno di essere decodificato<br />
e che arriva così com’è. Invece, nei testi<br />
più complicati, a volte è più importante l’assonanza,<br />
la musicalità stessa delle parole, al di là del loro significato<br />
letterario».<br />
Ma c’è pure, nell’arte di questo singolare cantautore, una<br />
velata ironia, che «è un po’ una mia caratteristica, un mio<br />
stile, un modo di proporre dei temi che, raccontati o espressi<br />
in maniera drammatica, rischierebbero di diventare pesanti.<br />
L’ironia è un modo di far arrivare dei concetti senza renderli<br />
drammatici. Si tratta comunque di uno stile: il sarcasmo<br />
e una forma di cinismo fanno parte non solo del mio modo<br />
di fare musica ma anche di quello con il quale mi esprimo<br />
nei testi».<br />
Romano di nascita con origini siciliane, cantautore, ma anche<br />
valido strumentista alla chitarra e al contrabbasso, Max<br />
Gazzè, fa parte di quella schiera non foltissima – assieme ad<br />
Alex Britti, Cristina Donà, Daniele Silvestri, Carmen Con-<br />
Max Gazzè (foto di Barbara Oizmud, maxgazze.it).<br />
Roncade (Tv)<br />
New Age Club<br />
15 marzo, ore 21.00<br />
soli, Niccolò Fabi (cfr. vmed n. 50, pp. 32-33), Samuele Bersani<br />
– che a metà degli anni novanta rinnova il pop italiano,<br />
avvicinandosi più alla musica leggera raffinata piuttosto che<br />
guardare al mito alternativo del folksinger impegnato.<br />
Nato a Roma nel 1967, Gazzè trascorre infanzia e giovinezza<br />
in Belgio, dove a sei anni inizia a studiare pianoforte,<br />
a quattordici strimpellare il basso elettrico, a sedici a suonare<br />
con gruppi diversi nei localini di Bruxelles. Per cinque anni,<br />
a Londra, fa parte dei 4 Play 4, band inglese in stile northern-soul,<br />
dal pionieristico acid-jazz. Con la band si trasferisce<br />
nel sud della Francia, dove lavora anche come produttore<br />
artistico; il rientro in Italia, nel 1991, è dedicato invece alla<br />
sperimentazione: in piccolo studio si dedica alla composizione<br />
di colonne sonore, iniziando altresì collaborazioni importanti<br />
con Frankie hi-nrg mc e i citati Britti,<br />
Fabi, Silvestri.<br />
Il primo album a nome Max Gazzè, Contro<br />
un’onda del mare, esce nel gennaio 1996: presentato<br />
in versione acustica nel tour di Franco Battiato,<br />
inaugura il sodalizio con la Virgin Records,<br />
la celebre etichetta britannica, che lo promuove<br />
per via di un talento originale in grado manifestare,<br />
in ogni disco, una notevole diversità di climi musicali<br />
che s’abbina alla scioltezza nella stesura dei testi, e che porta<br />
Gazzè a un ottimo successo<br />
di pubblico e di critica.<br />
Per il secondo album, La<br />
favola di Adamo ed Eva<br />
(1998), le liriche vengono<br />
scritte insieme al fratello<br />
Francesco Gazzè, in un anno<br />
che vede Max protagonista<br />
di due mosse autoriali:<br />
una canzone, «O Caroline»,<br />
per l’album di tributo a<br />
Robert Wyatt (The Different<br />
You-Robert Wyatt e noi), e<br />
l’invito al Premio Tenco, ossia<br />
il festival della canzone<br />
d’autore che si tiene a Sanremo.<br />
Da allora però risultano<br />
più frequenti le apparizioni<br />
all’altra rassegna – quella più<br />
commerciale – della città dei<br />
fiori, in cui presenta brani efficaci<br />
ma alquanto mainstream<br />
per forma e contenuto;<br />
sono del resto queste le peculiarità<br />
di un artista che dal<br />
2000 a oggi firma altri sette<br />
cd: Max Gazzè (Gadzilla),<br />
Antecedentemente inedito,<br />
Ognuno fa quello che gli pare?, Un giorno, Tra l’aratro e<br />
la radio, Sotto casa; e due raccolte: Raduni 1995-2005 e The<br />
Best of Platinum.<br />
Un messaggio comune a tutte le sue canzoni? La filosofia di<br />
Max Gazzè forse può essere riassunta in un’altra sua riflessione<br />
molto attuale: «Forse la formula sarebbe semplicemente<br />
pensare che essere sintonizzati su una sola frequenza non<br />
escluda l’esistenza di tutte le altre, e forse arrendersi di fronte<br />
al fatto che molte convenzioni e regole che ci siamo creati<br />
non hanno fatto altro che sostituire una nostra “tecnologia<br />
interna” con una tecnologia esterna che ci ha allontanati<br />
dal capire tantissime cose, che per esempio antiche e rigogliose<br />
civiltà, come quella degli Egizi o dei Sumeri, avevano<br />
intuito profondamente. Da questo punto di vista, il progresso<br />
non ci ha aiutato». ◼<br />
l’altra musica 47
Al Fondamenta Nuove<br />
tre inediti concerti<br />
Cominciata lo scorso novembre, continua la stagione<br />
musicale del Teatro Fondamenta Nuove.<br />
Il prossimo 14 marzo approda in laguna il sassofonista<br />
Colin Stetson per un concerto da solista.<br />
Nato ad Ann Arbor e oggi residente a Montreal, città<br />
molto vivace dal punto di vista musicale, Stetson – che è attualmente<br />
negli Arcade Fire accanto al talentuoso Bon Iver,<br />
e che ha suonato anche con Tom Waits e David Byrne, con<br />
i Tv On the Radio e con Anthony Braxton, con Lou Reed,<br />
Jolie Holland, Sinead O’Connor e altri ancora – ha conquistato<br />
e incantato con i suoi dischi, in particolare New History<br />
Warfare Vol. 2: Judges, pubblico e critica<br />
per la capacità di trarre da uno strumento<br />
timbricamente estremo come il sax bas-<br />
so sonorità di notevole impatto emozionale.<br />
Con l’uso della respirazione circolare, della<br />
voce, di microfoni e di tecniche non convenzionali,<br />
Stetson – che, oltre ai sassofoni, suona<br />
anche il clarinetto, la cornetta, il corno e<br />
il flauto – inventa spazi sonori in cui trovano<br />
buon agio minimalismo e free, post-rock<br />
e avanguardia.<br />
A seguire, il 9 aprile alle 18.00, in occasione<br />
del concerto dei Konono n. 1 (ore 21.00),<br />
si terrà una tavola rotonda che vedrà protagonisti<br />
Vincent Kenis (direttore di Crammed<br />
Disc e primo promotore del gruppo sulla scena musicale<br />
europea) e Serena Facci (etnomusicologa – Università di<br />
Roma «Tor Vergata»). L’appuntamento, che viene proposto<br />
A sinistra, Konono n. 1.<br />
A destra, Colin Stetson.<br />
di Ilaria Pellanda<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Fondamenta Nuove<br />
14 marzo, ore 21.00<br />
Colin Stetson (sassofoni)<br />
9 aprile, ore 21.00<br />
Konono n. 1<br />
11 aprile, ore 21.00<br />
Peter Brötzmann & Paal Nilssen-Love<br />
congiuntamente all’Istituto Interculturale di Studi Musicali<br />
Comparati della Giorgio Cini, invita a una riflessione sulla<br />
musica africana. Come già messo in luce nell’evento dello<br />
scorso anno, «Re:African:Mix», la scena creativa del continente<br />
offre molti spunti che permettono di confrontarsi con<br />
la sostanziale transculturalità dei fenomeni musicali contemporanei,<br />
della quale i Konono n. 1 sono un esito tra i migliori.<br />
Proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, si<br />
tratta di un gruppo di musicisti d’ispirazione tradizionale:<br />
stabilitisi a Kinshasa, la città che negli anni sessanta era stata<br />
centro propulsore della nuova musica urbana congolese, hanno<br />
elettrificato i propri strumenti utilizzando materiale di recupero.<br />
Ne è derivato un mutamento radicale della timbrica,<br />
vicina all’estetica del rock e della musica elettronica più estrema<br />
e rumorista. Il gruppo fa uso di tre likembe (lamellofoni<br />
con risuonatore a scatola) elettrificati (medio, acuto e basso)<br />
ed equipaggiati con microfoni costruiti artigianalmente<br />
usando vecchi magneti d’automobili, di grandi megafoni<br />
risalenti all’epoca coloniale e comprende<br />
inoltre una sezione ritmica che mescola<br />
percussioni tradizionali ad altre ricavate<br />
da materiale di recupero. Ne risulta un effetto<br />
distorsivo e ipnotico delle sonorità in<br />
una non facile unione tra tradizione e tecnologia,<br />
tra ritmi centro-africani, modalità<br />
sonore proprie del punk-rock e il sound<br />
«duro» della dance music elettronica.<br />
L’11 aprile, sempre alle 21.00, sarà la volta<br />
del duo formato da Peter Brötzmann (sassofoni,<br />
clarinetto, tarogato) e Paal Nilssen-<br />
Love (batteria), nomi di culto del jazz creativo<br />
degli anni sessanta e settanta in grado<br />
di forgiare una musica urgente, contemporanea<br />
ed energica nell’improvvisazione. Brötzmann e Nilssen-Love<br />
si incontrano musicalmente nel 1998, collaborano<br />
in molti gruppi – dagli Hairy Bones all’Ada Trio, passando<br />
per l’esperienza del Chicago Tentet di Brötzmann – e, come<br />
duo, incidono per l’etichetta norvegese Smalltown Supersound<br />
i dischi SweetSweat e Woodcuts. ◼<br />
l’altra musica 49
50<br />
l’altra musica<br />
Se tu prenderai marito<br />
Cantare al femminile di Gualtiero Bertelli<br />
me moroso m’à mandato a dire / che me proveda<br />
ch’el me vol lassare / e mi g’ò mandà a<br />
«El<br />
dir che so modista / e de morosi ghe n’ò sento<br />
in lista».<br />
«… le vilote che ancor sopravvivono vengono ora cantate<br />
a semplice sollazzo dalle nostre donne del popolo, massime<br />
nelle corti e ne’ campieli (piccolo piazze tra case) ove vivono<br />
in più comunanza e libertà. Le accompagnano al suono del<br />
cembalo a sonagli, intessendovi anco un ballo, che al pari del<br />
canto e del suono vilota si chiama. Per solito la più attempata<br />
donna della brigata è quella che canta le vilote e dà nel cembalo,<br />
mentre le altre più giovani ballano» (Angelo Dalmedico,<br />
Canti del popolo veneziano, 1848).<br />
Angelo Dalmedico pubblica questi suoi Canti del popolo veneziano<br />
in una città appena liberata e trasformata in repub-<br />
blica mazziniana. Sull’onda dell’entusiasmo dedica la prima<br />
edizione della sua raccolta al Cittadino Daniele Manin. Le<br />
note vicende storiche lo inducono a non insistere su questa<br />
dedica nella sua seconda edizione del 1857.<br />
Le parole della villotta e l’introduzione dell’autore ci restituiscono<br />
uno spaccato di vita femminile veneziana estremamente<br />
vivace e «moderno». Che le donne di <strong>Venezia</strong> e dintorni<br />
fossero non proprio «remissive» ce l’aveva già detto<br />
Goldoni con le femmine emancipate ed astute delle sue commedie<br />
«borghesi». Ma le strofette improvvisate e poi ripetute<br />
ci dicono anche come si è sviluppata questa indipendenza:<br />
«so modista». Lavoro, esco di casa, posso trovarmi con altre<br />
donne e ballare, parlare, creare complicità. Più tardi, all’inizio<br />
del secolo scorso, compariranno anche canti di tenore rivendicativo<br />
che, per il linguaggio con cui sono espressi, attestano<br />
lo sviluppo dell’organizzazione sindacale delle donne<br />
veneziane. Le filandine in sciopero contro il caposala tiranno:<br />
«…E anca el caposala / che no xe bon da niente / ghe vegna<br />
un assidente / su la punta del cuor». Le impiraresse «tuto fogo<br />
ne le vene» pronte a scendere in lotta, ancora una volta,<br />
contro «le mistre che vorave tuto quanto a magnar lore…»<br />
e a «desfarghe el cocon», quello che oggi, con il nostro polimorfismo<br />
linguistico, chiameremmo «chignon».<br />
Siamo nell’immediato primo dopoguerra, il «biennio rosso»<br />
sta infiammando l’Italia, si canta «Via, via la borghesia,<br />
l’agrario e il pipì» e si occupano le fabbriche mentre i fascisti<br />
assaltano le Case del Popolo, le redazioni dell’«Avanti»,<br />
le sedi sindacali. C’è tutto un clima intorno che spinge alla<br />
solidarietà non solo di classe, ma espressamente di genere. Le<br />
vilote, le ninnananne, i lamenti e persino i canti d’amore e le<br />
«canzonette» precedenti e successivi a quel periodo ci narrano,<br />
senza alcuna intenzione propagandistica, di questa lunga<br />
marcia che va dal disagio all’individuazione esplicita di bisogni<br />
e diritti.<br />
Alla figlia di vent’anni che vuol prendere marito, un tema<br />
molto frequentato dal canto popolare di ogni parte d’Italia,<br />
la madre toscana documentata dal Giannini nella seconda<br />
metà dell’Ottocento risponde: «Se tu prenderai marito /<br />
qualche cosa hai da sofrì /… / il marito all’osteria / sempre a<br />
bevere e a mangià / e io in casa coi figlioli / sempre a piange e<br />
sospirà». Le fa eco la Malcontenta, una ninnananna che viene<br />
ancora dalla Toscana: «Babbo va all’osteria / mamma tribola<br />
tuttavia / Babbo mangia il baccalà / mamma tribola a<br />
tutt’andà».<br />
Un’altra ninnananna, questa volta trentina, predice: «Dormi<br />
mia bella dormi / sul tuo letto di rosa / che quando sarai<br />
sposa / non dormirai così /... / che quando sarai mamma /<br />
non dormirai così. / … / che quando avrai dei figli / non dor-<br />
mirai così». Insomma una vita dannata dalla povertà e dalla<br />
dipendenza dal marito nelle diverse previsioni materne. Purtroppo<br />
il più delle volte vere, e non solo ieri. Progressivamente,<br />
seppur lentamente, il lamento si riveste di consapevolezza,<br />
la rivendicazione da privata diviene pubblica, la speranza diritto,<br />
la protesta lotta esplicita.<br />
«Questa xe la cale de le alte mura / dove che gera inamorà<br />
‘na volta – canta il moroso (forse) pentito – so vegnù a veder<br />
se ti xe risolta / che amor vecio torna un’altra volta». Idealmente<br />
la risposta potrebbe essere questa: «Vorave che piovesse<br />
macaroni / che la tera fusse tuta informa giada / che<br />
i corni del mio ben fusse pironi / che gusto de magnar ‘sti<br />
macaroni».<br />
Scherzi, lazzi di una serata in compagnia rimasti impressi<br />
nella memoria collettiva? Probabilmente sì. Nulla però s’imprime<br />
per caso, ma resta perché stupisce, colpisce, in qualche<br />
modo fa clamore o prurito. E un po’ alla volta cambia anche<br />
il comune sentire.<br />
I drammi della storia incalzano e funzionano da acceleratore<br />
di processi sociali altrimenti lenti e controversi. «Son maritata<br />
giovane / l’età di quindici anni / Mio marito è morto, / è<br />
morto militar. / E son rimasta vedova / con due figli al cuor. /<br />
…. / Tutte le ore che passano / mi sento di morir, / E devo andare<br />
in ‘Merica, /‘Merica a lavorar». Due tragedie che hanno<br />
cambiato l’Italia e il mondo, la grande guerra e l’emigrazione,<br />
si saldano e ciò ci restituisce la drammaticità di mille immagini<br />
di distruzione, miseria, abbandoni.
«Chi ama la guerra sono òmini tristi, / privi di scienza e di<br />
cuore cattivo; / fossero stati invece i socialisti, / il mio figlio<br />
sarebbe ancora vivo. / La guerra è bella pe’ capitalisti, / perché<br />
ritrovan sempre il loro attivo: / dalle imposte che tengono<br />
impiegate / dicono sempre: Armiamoci ed andate» conclude<br />
la plebea nel suo contrasto con l’aristocratica a proposito<br />
della guerra di Tripoli. La moglie toscana con quattro figli<br />
grida: «E anche al mi’ marito tocca andare / a fa’ barriera<br />
contro l’invasore, /… / E avevano ragione i socialisti: / ne more<br />
tanti e ‘un semo ancora lesti; / ma s’anco ‘r prete dice che<br />
dovresti, / a morì te ‘un ci vai, ‘un ci hanno cristi. / E a te, Cadorna,<br />
‘un mancan l’accidenti, / ché a Caporetto n’hai ammazzati<br />
tanti; / … / E ‘un me ne ‘mporta della tu’ vittoria ,/<br />
perché ci sputo sopra alla bandiera; / sputo sopra l’Italia tutta<br />
‘ntera / e vado ‘n culo al re con la su’ boria». La rabbia è forte,<br />
si accumula, esplode, esploderà ancora più forte: «Maledetto<br />
sia Cadorna / prepotente come d’un cane / vuol tenere<br />
la terra degli altri / che i tedeschi sono i padron». La disperazione<br />
accomuna i responsabili, Cadorna e i signori: «Ma quei<br />
vigliacchi di quei signori / che hanno gridato viva la guerra / e<br />
ne avesse un figlio morto in guerra / viva la guerra non gride-<br />
ran mai più». Le donne a casa, nei paesi sparsi lungo il fronte<br />
si fanno carico di vecchi e bambini, lavorano in quel che resta<br />
dei loro campi, spesso incalzate dai nostri soldati che fuggono,<br />
da quelli nemici che arrivano, invadono, violentano e<br />
rubano quel poco che c’è da rubare. «Veder le nostre mame /<br />
coi lor cari bambini / corevano spaventate / spaventate da la<br />
paura / perchè tiravan giusto /giù in pianura. / Veder le nostre<br />
case / che andavano giù per tera / alora ci siamo acorti / di<br />
questa guera / Veder ste signorine / con le sotane strete / che<br />
andavano gridand o/ con la forsa del municipio /voliamo la<br />
bandiera / de l’armistizio».<br />
Il fascismo tenta di arrestare il processo di sviluppo della<br />
coscienza e dell’autonomia femminile: inneggia alla massaia<br />
madre di tanti figli da donare alla patria e cerca di contenere<br />
le gonne che si accorciano, i vitini da vespa, le signorine grandi<br />
firme, l’avanzata della modernità. «Non è tollerabile che,<br />
specialmente i giornali di moda, pubblichino fotografie di<br />
donne magrissime» sentenzia una delle innumerevoli «veline»<br />
quotidianamente inviate ai giornali. Le donne di città, le<br />
magrissime da contrapporre ai robusti e prolifici fianchi della<br />
madre italiana, sono dipinte come piccoloborghesi viziate<br />
e dispotiche: «La ragazza che è impiegata / come sta sacrificata<br />
/ Va in ufficio strapazzata / perché s’ha da maritar. / Maritata<br />
sai che fa / dice a lui:”Voglio pranzar / o ti adatti a cucinar<br />
/ o mi porti al restaurant”». E, naturalmente, il nemico si<br />
annida altrove. La canzone infatti continua: «Il bolscevismo<br />
/ la donna l’applica / ma vuol mangiar, vestir, goder / e lavo-<br />
rar non ne vuol saper / Il bacio che ti dà / ben caro fa pagar /<br />
Tutto per essa e niente a te / questo è l’effetto che fa il soviet».<br />
Paradossalmente però proprio il fascismo, con le sue adunate<br />
e esercitazioni, le sue iniziative sportive e ricreative, contende<br />
il diritto/dovere di educare le signorine alle famiglie e alla<br />
Chiesa. Entra in sotterranea rotta di collisione con organizzazioni<br />
potenti come l’Azione Cattolica, convoglia in organizzazioni<br />
di genere provenienze sociali diverse facendo convivere<br />
ragazze bassamente scolarizzate con figlie della buona<br />
borghesia destinate a studi ben più ambiziosi, riducendo, con<br />
le divise, anche le evidenti differenze di censo. È certamente<br />
un effetto collaterale imprevisto e forse sottovalutato dagli alti<br />
strateghi dell’educazione fascista, ma di fatto la suddivisione<br />
in organizzazioni distinte per età e genere funziona anche<br />
da catalizzatore del processo modernista specialmente nelle<br />
zone urbane del settentrione. E si creano persino occasioni di<br />
rapporto tra i generi: «Con le Piccole Italiane / Il Balilla è cavalier:<br />
/ dell’Italica dimane / è l’ardito messagger! / Il Balilla<br />
è un buon fratello, / all’appello è pronto ognor: / come il sasso<br />
di Perasso / per l’Italia ci lancia il cor! / Balilla cuor d’oro… /.<br />
La partecipazione significativa di donne alla lotta di liberazione<br />
dal nazismo<br />
e dal fascismodette<br />
certamente<br />
un buon rilievo<br />
alla questione<br />
femminile,<br />
ma la cultura di<br />
un Paese ottenebrato<br />
da un<br />
ventennio di<br />
propaganda, di<br />
isolazionismo e<br />
di conseguente<br />
ignoranza non<br />
si cambia in un<br />
momento, neppure<br />
con il mutamento<br />
di regime<br />
istituzionale, con l’allargamento del diritto di voto a<br />
tutti i cittadini della repubblica, con la promulgazione di un<br />
documento straordinario qual è la nostra Costituzione. Nella<br />
maggioranza dei casi i rapporti tra i generi, dentro e fuori<br />
della famiglia, resteranno per lungo tempo immutati. Lo testimonia<br />
questa canzone di Virgilio Savona e Age incisa nel<br />
1944 da Lucia Mannucci, sposatasi proprio in quell’anno con<br />
Savona, ma non ancora voce femminile del Quartetto Cetra<br />
(lo diventerà tre anni dopo): «Mi rimproveri sempre / mi stai<br />
sempre a sgridar / Dici: non vuoi far mai niente / solo guai<br />
sai combinar / Che vuoi di più che devo far / per non sentirmi<br />
più sgridar / farò la brava e tu vedrai / che d’ora in poi non<br />
faccio più guai /… / saprò camicie stirar / lavar vestiti saprò /<br />
invece di riposar / tutta la casa ti luciderò… /». La fine ironia<br />
di Savona si coniuga in questo brano con la sua attenzione ai<br />
problemi sociali che nel tempo ci lascerà canzoni, registrazioni<br />
e libri (spesso in collaborazione con Michele L. Straniero)<br />
molto importanti.<br />
Dai giorni dell’Italia liberata la questione femminile ha<br />
assunto e continua ad assumere un’importanza sempre più<br />
determinante per lo sviluppo della democrazia; i canti delle<br />
donne accompagnano ancora tutti i passi del movimento<br />
femminile e femminista. In un mondo in cui ancora le donne<br />
vengono stuprate e uccise, soprattutto tra le mura domestiche,<br />
cantare al femminile significa non cedere alla paura e<br />
alla sopraffazione, rivendicare per tutti il diritto alla dignità<br />
e alla vita. ◼<br />
l’altra musica <strong>51</strong>
52<br />
l’altra musica<br />
Il corpo sonoro<br />
di Ravenna<br />
Nasce il progetto<br />
«Buco bianco»<br />
di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio<br />
buco bianco, nella teoria della relatività<br />
generale, è una regione ipotetica di spa-<br />
«Un<br />
ziotempo nella quale non si può entrare<br />
dall’esterno, ma dalla quale la materia e la<br />
luce possono solamente fuoriuscire. In questo senso è l’opposto<br />
di un buco nero, nel quale si può entrare dall’esterno, ma<br />
dal quale nulla, inclusa la luce, ha la possibilità di fuoriuscire.<br />
Alcuni pensano pertanto che i buchi bianchi possano essere<br />
l’altra estremità di un tunnel spazio-temporale che collega<br />
un buco nero con regioni molto lontane dell’universo o<br />
addirittura con altri universi».<br />
Il progetto si propone di indagare, attraverso un’ampia<br />
mappatura, il corpo sonoro del territorio di una città. Ravenna<br />
è una realtà geograficamente unica che si presenta agli<br />
occhi dello straniero come un corpo inafferrabile, irriducibile,<br />
incommensurabile, labirintico. Già immerso nelle acque<br />
a partire dal suo nome originario (Ravenna, «fluire di<br />
acque»), il corpo sonoro di Ravenna è da sempre in continua<br />
metamorfosi, si proietta verso il mare e allo stesso tempo<br />
sprofonda in se stesso. Inseguendo le traiettorie degli animali,<br />
sostando a lungo nei loro regni, per lo più nascosti e paralleli<br />
al fluire della vita contemporanea, il progetto tenta di<br />
comporre, mediante la tecnica lenticolare del micromosaico,<br />
un corpo sonoro sottile di origine antichissima, che travalica<br />
i confini fisici e temporali della città, le sue torri, i suoi muri,<br />
le sue barriere. Un corpo immaginale e sonoro sospeso, a metà<br />
dell’andirivieni perpetuo di acque tra le paludi e il mare,<br />
un corpo mantice, attraversato da forze opposte, aperto, tramite<br />
la sua porta sul mare, verso il lontano.<br />
È possibile individuare il suono originario e fondativo di<br />
una città? Questo suono è lo stesso che gli animali che oggi<br />
ne popolano il territorio ascoltavano anticamente? Ne sono<br />
essi stessi parte, corpo? È possibile isolarlo dai suoni generati<br />
dall’umano o si è definitivamente compromesso? È possibile<br />
l’epifania genuina di uno, due, cento organi sonori pulsanti<br />
autentici in un territorio così stratificato? Quali sono<br />
le linee di attrito tra il mondo sonoro animale e quello umano?<br />
C’è una guerra sonora in corso tra essi? Quali sono le architetture/timpano<br />
che risuonano e permettono di entrare<br />
in contatto profondo con questo corpo sonoro? Quali sono<br />
le sue porte, i suoi passaggi, i suoi guardiani, le sue geometrie<br />
archetipiche e fondative? È possibile restituire la testimonianza<br />
dello stupore di uno sguardo straniero a contatto<br />
per la prima volta con il territorio di Ravenna? Editare un<br />
dizionario sonoro percettivo del suo paesaggio? Così come,<br />
nell’ipotesi della teoria della relatività, la materia e la luce attraversano<br />
un tunnel spaziotemporale mettendo in connessione<br />
due universi lontani nel tempo tramite due buchi o coni,<br />
uno detto «nero» e uno detto «bianco», uno attrattivo e<br />
l’altro irradiante, uno appartenente all’orizzonte del passato<br />
e l’altro all’orizzonte del futuro, mettersi in ascolto del corpo<br />
sonoro di una città significa porsi all’incrocio dei due orizzonti,<br />
al centro del tunnel spaziotemporale, farsi membrana<br />
del timpano e duplice cono: da un lato attrarre i materiali sonori<br />
dell’universo grossolano e dall’altra irradiarli in quello<br />
sottile, immaginale, restituendoli alla città.<br />
Per tanto, come due antenne all’erta in costante movimento,<br />
dal gennaio 2012 stiamo raccogliendo un materiale<br />
sonoro molto ampio, da rielaborare e articolare in varie<br />
declinazioni:<br />
1) un ascolto pubblico/concerto da realizzare in uno spa-<br />
zio vasto, all’aperto, che restituisca la sensazione di orizzontalità<br />
estesa, con il supporto di un sistema di diffusione sonoro<br />
adeguato a un sound design per spazi di grandi dimensioni;<br />
una sinfonia fondativa, che ripercorra l’architettura emozionale<br />
del nostro viaggio, dove l’ascoltatore sia posto al centro<br />
di un micromosaico sonoro vibrante, fluido. A Ravenna<br />
abbiamo individuato come luogo ideale l’ippodromo della<br />
città, con il posizionamento degli ascoltatori al centro del<br />
prato all’interno dell’anello delle corse e a partire da un mimetismo<br />
sonoro con la vitalità ambientale dell’ippodromo<br />
stesso, come porta all’origine del viaggio. Immaginiamo al<br />
centro dello spazio di ascolto un buco rettangolare di grandi<br />
dimensioni, un «mundus» (fossa fondativa), catalizzatore<br />
degli sguardi e degli ascolti, una presenza/assenza cui affacciarsi<br />
e tramite la quale discendere verso il corpo sonoro<br />
della città.<br />
2) un portale internet o catalogo sonoro pubblico, una<br />
mappa interattiva del corpo sonoro della città, che contenga<br />
un dizionario del paesaggio: un glossario di voci straniere,<br />
un’indicizzazione emotiva, testimonianza in lingua straniera<br />
dello stupore di chi si trova per la prima volta di fronte<br />
al paesaggio ravennate. Si prevedono per questo una serie parallela<br />
di registrazioni con ospiti stranieri, immigrati e non,<br />
nei cuori pulsanti del corpo sonoro cittadino, da realizzare<br />
entro il 2013. Contestualmente alle presentazioni del portale<br />
alcuni incontri pubblici con filosofi o pensatori che si siano<br />
posti la questione dell’estraneità in tempo di deterritorializzazione.<br />
Tra questi Jean Luc Nancy e Paul Virilio.<br />
3) una pubblicazione sonora, sintesi di tutto il progetto. ◼
Roberto Herlizka<br />
e il genio<br />
di Glenn Gould<br />
«Il soccombente» di Bernhard<br />
approda al Goldoni<br />
Andrà in scena nel mese di aprile al Goldoni di<br />
<strong>Venezia</strong> Il soccombente di Thomas Bernhard nella<br />
riduzione che dall’omonimo romanzo ha curato<br />
Ruggero Cappuccio. L’opera tratta del fittizio rapporto<br />
tra il famoso pianista canadese Glenn Gould<br />
e due suoi giovani compagni di studio al Mozar-<br />
teum di Salisburgo negli anni cinquanta. Sotto la<br />
guida di Vladimir Horowitz il trio studia musica<br />
e al tempo stesso sviluppa un rapporto di amicizia<br />
che si rivelerà drammatico per tutti e fatale<br />
per uno dei tre, il soccombente appunto. Il narratore<br />
e il suo amico Wertheimer<br />
abbandonano gli studi di pianoforte<br />
appena si rendono conto del<br />
genio superiore di Gould quando<br />
lo sentono suonare le Variazioni<br />
Goldberg di Bach. Protagonista<br />
della pièce diretta da Nadia Baldi<br />
– una produzione del Teatro Segreto<br />
di Roma che ha debuttato nel<br />
novembre 2012 al Teatro Comunale<br />
di Formello – è Roberto Herlitzka,<br />
che ci ha presentato il personaggio<br />
che incarna sulla scena.<br />
«Si tratta dell’autore del libro,<br />
che finge – o immagina, o ricorda<br />
– di essere stato compagno di<br />
studi di Glenn Gould e di un altro<br />
pianista o aspirante tale, e di<br />
aver assistito alla distruzione di<br />
questo terzo collega, Wertheimer,<br />
che soccomberà alla genialità<br />
di Gould: non sopportando di<br />
non essere in grado di eguagliarlo,<br />
o comunque di emularlo, finirà<br />
infatti per suicidarsi. In scena<br />
con me c’è Marina Sorrenti, che<br />
scandisce alcune parole ricorrenti<br />
nel testo e che incarna un paio<br />
di personaggi femminili. Uno<br />
di questi è la sorella di Wertheimer,<br />
che ha un ruolo fondamentale<br />
nella vicenda: la donna assiste<br />
e subisce il fratello per anni, riuscendo<br />
a liberarsi dalla sua morsa<br />
solo una volta dopo essersi sposata e trasferita a vivere altrove.<br />
Per Wertheimer sarà proprio questo abbandono il colpo<br />
fatale che lo spingerà al suicidio».<br />
Il personaggio narrante, l’autore, che modalità di sconfitta<br />
vive?<br />
Roberto Herlitzka e Marina Sorrenti<br />
nel Soccombente di Thomas Bernhard<br />
secondo Nadia Baldi (foto di Gabriele Gelsi).<br />
a cura di Ilaria Pellanda<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Teatro Goldoni<br />
10 aprile, ore 20.30<br />
11 aprile, ore 16.00<br />
Si ritira quasi subito dalle proprie aspirazioni musicali, convincendosi<br />
o riconoscendo di non essere un artista dell’interpretazione<br />
pianistica e rifugiandosi nell’intenzione di dedicarsi<br />
alla filosofia, che, dice lui stesso, nemmeno sa bene cosa<br />
sia; piuttosto, egli si adombra in una sorta di disinteresse, di<br />
restringimento in se stesso che rappresenta quasi una metafora,<br />
un’immagine con cui Thomas Bernhard vuole forse significare<br />
il suo modo di vivere e di vedere il mondo.<br />
Cosa emerge dalla riduzione curata da Cappuccio, quali temi<br />
cari all’autore?<br />
Uno di questi è lo sguardo negativo nei confronti del mondo,<br />
che Bernhard esprime senza mai cadere nel banale grazie<br />
alla sua grande capacità di ironia. Dal testo emerge la storia<br />
della disfatta di una persona, che soccombe a causa del suo<br />
essere dotata di una sensibilità e di una raffinatezza mentale<br />
eccessive; se ne potrebbe dedurre che colui che ha troppe<br />
qualità e che non presenta una qualche forma di<br />
ottusità nei confronti del mondo, alla fine soc-<br />
comberà. Difatti il personaggio di Gould, che è<br />
guardato con grande ammirazione e amore anche<br />
dall’autore stesso, si rivela una persona quasi<br />
priva di sensibilità tranne che nei confronti della<br />
propria arte: una sorta di «specializzato» che<br />
ha rinunciato, anche per natura, a<br />
tutto il resto. Invece Wertheimer<br />
non rinuncia a nulla e sarà proprio<br />
il suo eccesso di immedesimazione<br />
nelle cose e negli eventi a<br />
portarlo alla propria distruzione.<br />
Che tipo di lavoro ha affrontato<br />
con la regista Nadia Baldi?<br />
Abbiamo voluto cercare un modo<br />
nel recitare che riuscisse a intrigare<br />
il pubblico, l’ascoltatore,<br />
pensando quindi a una possibile<br />
varietà di toni. Ricordandomi<br />
della materia musicale, che poi è<br />
fondamentale e alla base di questo<br />
testo, ho pensato di trovare<br />
dei tipi di variazione al mio linguaggio<br />
che in qualche maniera<br />
potessero ricordare proprio una<br />
partitura. Il libro stesso è scritto<br />
in questo modo, perché lo stile di<br />
Bernhard, per la ripetitività, per i<br />
temi che ricorrono, per i cambiamenti<br />
di ritmo e di velocità, ricorda<br />
proprio l’andamento delle Variazioni<br />
di Bach. Nadia ha inoltre<br />
sposato alle azioni mie e di Marina<br />
alcune immagini, che durante<br />
la messinscena vengono proiettate<br />
alle nostre spalle e che sono<br />
molto funzionali allo spettacolo.<br />
Che ruolo ha il gesto (penso anche<br />
al gesto musicale) in questa pièce?<br />
Anche se alcuni movimenti<br />
evocano degli stati d’animo – soprattutto<br />
quelli di Wertheimer –, in realtà non vanno molto<br />
al di là del sedersi o del camminare in un certo modo: sulla<br />
scena passo da un leggio a un altro (uno più basso e uno<br />
più alto), oppure mi siedo su una grande poltrona situata nel<br />
mezzo del palco che diventa una specie di centro delle azioni:<br />
queste comprendono anche gli interventi della Sorrenti, che a<br />
volte incarna la sorella di Wertheimer e altre diventa un contrappunto<br />
musicale mentre ripete alcune parole, quasi una<br />
specie di colpi di tamburo o di bordone. ◼<br />
prosa 53
54<br />
prosa<br />
A voce alta<br />
Sul «Soccombente»<br />
di Thomas Bernhard di Eugenio Bernardi<br />
Anni fa, quando Adelphi pubblicò Perturbamento<br />
(1981), un attore-regista italiano ne fu fulminato<br />
e pensò subito di ricavarne uno spettacolo. Gli<br />
occorreva il permesso dell’autore, per cui andò in<br />
Austria, scovò la casa di Bernhard in mezzo alla campagna<br />
e si appollaiò nel boschetto circostante finché l’autore impietosito<br />
non lo fece entrare in casa. L’attore-regista gli parlò<br />
con entusiasmo del progetto che voleva assolutamente re-<br />
alizzare andando in scena lui stesso, ma trascinandovi anche<br />
la moglie malaticcia e perfino la figlioletta renitente. Bernhard,<br />
a quanto pare, lo ascoltò con sorprendente benevolenza,<br />
ma non disse né sì né no. Qualche tempo dopo, l’attoreregista<br />
si rivolse a me in quanto traduttore, e mi chiese di collaborare<br />
al progetto, per cui aveva già definito tutto, non solo<br />
la scena, ma perfino gli abiti che i personaggi avrebbero indossato,<br />
fra cui ricordo un certo tipo di loden, quello autentico,<br />
una specie di pastrano. Da parte mia, prima di mettermi<br />
al lavoro, volevo avere l’autorizzazione dell’autore e gli telefonai.<br />
Lasciava a me la decisione, disse, ma non capiva perché<br />
l’attore-regista volesse adattare per il teatro un testo in prosa,<br />
quando c’era una commedia bell’e pronta, in cui un attore-regista<br />
metteva in scena un proprio testo facendo recitare<br />
la moglie malaticcia e anche la figlioletta renitente. Il testo in<br />
questione si chiamava Der Theatermacher (Il teatrante) che<br />
Franco Branciaroli sta portando in tournée proprio in questi<br />
mesi. C’era davvero da chiedersi se Bernhard non fosse stato<br />
ispirato proprio da quell’incontro con l’attore-regista italiano<br />
e dai racconti di costui sulla moglie malaticcia e la figlioletta<br />
renitente. Le date lo fanno supporre e anche (o soprattutto)<br />
la capacità di Bernhard di trarre profitto anche dal<br />
minimo evento della sua solitaria vita quotidiana. Il progetto<br />
non ebbe seguito anche perché a Perturbamento seguirono<br />
altre traduzioni dello stesso autore, testi meno complicati<br />
di quella prima esplosione del talento bernhardiano in Italia.<br />
Con il suo progetto quell’attore-regista toccava comunque<br />
un punto sostanziale della poetica dell’autore austriaco che<br />
per esitazioni editoriali arrivava tardi in Italia, e nei Paesi di<br />
lingua tedesca, oltre che per la provocazione delle sue tematiche,<br />
aveva suscitato quello stesso tipo di reazione: già i suoi<br />
primi lettori avevano intuito che quelle pagine andavano lette<br />
a voce alta, erano una specie di partitura, reclamavano una<br />
partecipazione fisica che era anche una specie di solidarietà.<br />
Ma di cosa parlava quella voce così suasiva, anzi ossessiva?<br />
Parlava per lo più di quanto fosse difficile scrivere un’opera,<br />
non un’opera qualunque, s’intende, ma un’opera che inglobasse<br />
scienza, letteratura e filosofia in modo tanto esausti-<br />
A sinistra, Glenn Gould.<br />
A destra, Thomas Bernhard nel 1987<br />
(commons.wikimedia.org).<br />
Sopra, Franco Branciaroli<br />
nel Teatrante (foto di Umberto Favretto).
vo da imporsi come una visione del mondo, fosse una vera riproduzione<br />
sulla carta di quel complesso e sfuggente meccanismo<br />
che è il pensiero, e alla fine si presentasse, per dirla<br />
con uno di questi personaggi, come una «giacca da mettere<br />
definitivamente addosso al mondo». Imprese folli, degne<br />
del presidente Schreber, ma non del tutto estranee a tentativi<br />
dello stesso tipo che la letteraura moderna, e in particolare<br />
quella asburgica, aveva intrapreso, si pensi a Musil, a Broch.<br />
Nel caso di Bernhard però nella furia intellettuale-creativa<br />
dei personaggi vi è sempre la coscienza dell’impossibilità<br />
dell’obiettivo, della vanità dello sforzo, della sua assurdità:<br />
per alcuni già scrivere la prima frase dell’opus che hanno<br />
in mente è impossibile, anche perché il linguaggio si ribella<br />
alle costrizioni imposte dalla grammatica e alla fine ognuna<br />
di queste avventure intellettuali, sul cui orizzonte splende la<br />
In alto, Robert Musil<br />
(commons.wikimedia.org).<br />
Qui sopra, Hermann Broch.<br />
perfezione inattingibile dell’arte 1 , risulta disumana. Di questi<br />
sforzi ogni volta la narrazione non fa che percorrere il tracciato<br />
che è nello stesso tempo la testimonianza di una «volontà<br />
di arte» come la intendevano Nietzsche e Worringer,<br />
e la rappresentazione di un’impossibilità, di un fallimento.<br />
Proprio perché in una cultura al tramonto, imprese di questo<br />
tipo si rivelano iperboliche, sempre ai bordi della follia,<br />
incalzate nella loro ossessività dal pensiero della morte, esse<br />
possono collocarsi solo su uno sfondo altrettanto eccessivo<br />
tramite la rappresentazione drastica, ossessiva, radicale<br />
dell’ambiente in cui esse sorgono e con cui ogni conciliazione<br />
è esclusa, ogni compromesso impossibile in quanto esse<br />
ne rappresentano la massima opposizione. In questo senso va<br />
letto il Bernhard denigratore dell’Austria di oggi con tutti i<br />
cliché diffusi dalle mode letterarie e dalle aziende turistiche,<br />
l’Austria indegna del suo grande<br />
passato e della esplosione di creatività<br />
che caratterizzò la sua cultura<br />
alla svolta del secolo.<br />
Il soccombente ripropone queste<br />
tematiche con nuove varianti,<br />
ma anche con maggior forza<br />
di persuasione. Grossolanamente<br />
riassumendo, si tratta della storia<br />
di tre pianisti, di cui uno è il<br />
narratore,il secondo un suo amico<br />
di nome Wertheimer e il terzo<br />
Glenn Gould. I tre s’incontrano<br />
a Salisburgo a un corso di perfezionamento<br />
tenuto da Horowitz.<br />
Gould si rivela subito un genio e<br />
provoca una crisi radicale negli<br />
altri due. Ma mentre il narratore<br />
abbandona definitivamente il<br />
pianoforte e le proprie ambizioni,<br />
Wertheimer continua a scervellarsi<br />
su quell’esperienza, a dipendere<br />
da quello smacco al punto<br />
da togliersi la vita pochi giorni<br />
dopo la morte del pianista americano.<br />
Chi sopravvive è il narratore<br />
che, a differenza di Wertheimer, tenta di razionalizzare<br />
quell’esperienza traumatica scrivendo un saggio sul pianista<br />
famoso e su quello fallito, sul progetto culminato nel successo<br />
e su quello finito nella sconfitta.<br />
Si è notato che per la prima volta in Bernhard qui compare<br />
un artista che riesce a realizzare un ideale di perfezione. Eppure<br />
il titolo non allude a costui, ma a Wertheimer che è appunto<br />
il fallito. Ad attirare il narratore infatti non è solo lo<br />
splendore inattingibile di Gould, ma anche o soprattutto la<br />
vita disperata di Wertheimer, quell’andare a tentoni nell’oscurità<br />
peraltro tanto simile al procedere di questo testo che<br />
oscilla tra ciarle e sentenze, comicità e disperazione, fra l’attrazione<br />
della catastrofe e un’accanita urgenza di razionalità.<br />
Tutto questo mima d’altro canto anche l’atteggiamento<br />
del lettore stesso, trascinato di pagina in pagina da una voce<br />
suasiva che gli racconta i suoi stessi pensieri.<br />
E l‘esito della seduzione è proprio qui: nel coinvolgere il lettore<br />
trasportandolo in un gorgo in cui tutto viene rimesso in<br />
gioco, tutto appare incerto e provvisorio e dove l’umanità di<br />
un fallito è altrettanto attraente quanto la gloria dell’interprete<br />
perfetto. ◼<br />
1. Di questa bellezza, nel Soccombente vi è un ricordo legato a <strong>Venezia</strong>,<br />
ossia una rappresentazione alla Fenice del Tancredi di Rossini, molto<br />
probabilmente quella memorabile con Marilyn Horne e Lella Cuberli<br />
(1982).<br />
prosa 55
56<br />
prosa<br />
Le verità<br />
si scontrano<br />
nell’«Orazio»<br />
di Heiner Müller di Peter Kammerer<br />
Come nessun altro autore di teatro Heiner Müller<br />
rifiuta le soluzioni. Il sipario si chiude, le ferite<br />
si aprono. Müller ama met-<br />
tere lo spettatore davanti all’aporia,<br />
alla situazione insolubile. È lo spettatore<br />
che deve fare la sua scelta tra errori<br />
impossibili da evitare. Così Müller spinge<br />
il teatro didattico di Brecht alle sue estreme<br />
conseguenze.<br />
Nel suo L’Orazio, scritto nel 1968 come<br />
commento agli eventi praghesi dello<br />
stesso anno, accade questo: Roma e Alba,<br />
città nemiche, devono difendersi con-<br />
tro gli etruschi, un nemico esterno che minaccia ambedue<br />
le città. Di fronte a questa contraddizione principale le due<br />
città compongono il loro dissidio minore con un duello tra<br />
due campioni risparmiando così «gli altri<br />
(per la lotta) contro il nemico comu-<br />
ne». La sorte sceglie per Roma un Orazio,<br />
per Alba un Curiazio, fidanzato con<br />
la sorella dell’Orazio. Quest’ultimo vince.<br />
Il Curiazio chiede pietà, il vincitore però<br />
«cacciò la sua spada in gola al Curiazio».<br />
Roma esulta, ma la sorella davanti<br />
alla tunica insanguinata del suo sposo grida:<br />
«Roma, restituiscimi quello che stava dentro questa tunica».<br />
Il fratello vincitore, infastidito per il pianto della sorella,<br />
l’ammazza. «E questo accada a ogni donna romana /<br />
che pianga il nemico». Il giubilo ammutolisce. Poi gli uni<br />
gridano: «Onorate il vincitore» e gli altri: «Processate l’assassino».<br />
Il popolo deve decidere se il merito cancelli la colpa<br />
o se la colpa cancelli il merito. «E il popolo rifletteva sul-<br />
Marghera<br />
Teatro Aurora<br />
13 aprile 2013, ore 21.00<br />
L’Orazio di Heiner Müller<br />
ideazione Simone Laggia<br />
interpreti Ilaria Cecchinato,<br />
Camilla Grandi, Ilaria Penzo,<br />
Enrico Silvestri, Ilaria Squarise<br />
diretto da Elena Casalin, Simone Laggia<br />
All’Aurora la versione<br />
della Vanguardia Nonsensista,<br />
giovane formazione mestrina<br />
la indivisibilità / della persona che aveva compiuto / azioni<br />
così diverse».<br />
La soluzione che Müller propone seguendo le fonti antiche<br />
(il primo libro della storia di Roma di Livio) è un compromesso<br />
solo in apparenza salomonico. L’Orazio-vincitore viene<br />
incoronato con l’alloro e portato sugli scudi dalla truppa.<br />
Poi l’Orazio-assassino, persona indivisibile, viene giustiziato<br />
con la scure e gettato ai cani. «E chi nominerà la sua colpa<br />
/ e non nominerà il suo merito / se ne stia come un cane tra<br />
i cani». Perché le parole devono rimanere pure, «non possono<br />
essere spezzate / nell’ingranaggio del mondo». Altrimenti<br />
«l’inconoscibilità delle cose è mortale» e distruggerà<br />
la società. Ma si tratta di una soluzione «provvisoria», di<br />
una verità «impura». Il dilemma morale<br />
non può trovare altra soluzione finché c’è<br />
guerra, finché regna la violenza.<br />
Lo stesso tema dell’uccidere con necessità<br />
e dell’uccidere senza necessità viene<br />
trattato da Müller in Mauser (1970). Ma<br />
chi riesce ancora a distinguere? È la pistola,<br />
la Mauser, che sviluppa una sua dinamica<br />
propria. «Parla, compagno Mauser»,<br />
cantava Majakowski. Nella dinamica<br />
delle uccisioni di massa un rivoluziona-<br />
rio inizia a uccidere per abitudine. Ora anche lui deve essere<br />
eliminato nel nome della rivoluzione. Il verso «anche l’erba<br />
dobbiamo strappare, perché rimanga verde» diventa un<br />
ritornello del dramma. La storia non procede<br />
verso un progresso glorioso, ma si ri-<br />
vela essere una macelleria assurda. Solo la<br />
purezza della parola rimane come ultima<br />
speranza. C’è una immagine teatrale, cara<br />
a Müller sin dal 1956, quando Chruščëv<br />
denunciava i crimini di Stalin: «I monumenti<br />
cominciano a sanguinare. Questo è<br />
il momento della verità».<br />
Nel testo di L’Orazio manca qualsiasi indicazione delle<br />
parti. Non si sa chi dice che cosa. È un testo corale. Gli eroi<br />
A sinistra, La Vanguardia Nonsensista,<br />
L’Orazio di Heiner Müller.<br />
A destra, Cavalier d’Arpino, Combattimento<br />
degli Orazi e Curiazi, 1612-1613 (Roma, Musei Capitolini).
non ci sono più. Con questa soluzione Müller offre l’occasione<br />
per una drammaturgia innovativa. Tutti possono/devono<br />
parlare e chi parla ha ragione. Le verità si scontrano. Il<br />
dramma didattico di Brecht è ridotto a un «modello». Il teatro<br />
di Müller porta in scena il confronto tra modelli vari o<br />
l’inserimento di un modello in un altro testo. Müller stesso<br />
mettendo in scena nel 1988 a Berlino Est Lo stakanovista<br />
ha voluto interrompere, o meglio, rompere quel testo inserendo<br />
L`Orazio in modo che un testo illuminasse l’altro.<br />
Lo scontro tra i testi, lo scontro tra situazioni e logiche diverse<br />
ci fa capire, nel teatro di Müller, il progresso e il fallimento<br />
della storia. Anche il suo teatro rappresenta, come sosteneva<br />
Schiller, poco amato da Müller, il vero tribunale della storia.<br />
Ma non è l’autore e non è nemmeno il coro a pronunciare<br />
una sentenza riservata unicamente a quell’altro coro, costituito<br />
dagli spettatori. ◼<br />
Un estratto da «L’Orazio»<br />
«Questo spettacolo è infame! Perfino gli albani<br />
Non potrebbero reggerlo senza vergogna.<br />
Gli etruschi sono schierati in armi<br />
attorno alla nostra città, e Roma spezza<br />
la sua spada migliore.<br />
Pensate a una cosa sola,<br />
pensate a Roma».<br />
Ma un romano lo rimbecca:<br />
«Roma ha molte spade;<br />
nessun romano vale meno di Roma,<br />
altrimenti Roma non vale niente».<br />
E un altro romano grida, indicando<br />
con il dito il luogo<br />
dove sta accampato il nemico:<br />
«L’etrusco raddoppia la sua potenza<br />
se Roma si dimezza per un contrasto di pareri<br />
in un processo intempestivo».<br />
Sopra, La locandina di Mauser<br />
secondo la compagine brasiliana<br />
Grupo Caos e Acaso de Teatro.<br />
A destra, Heiner Müller.<br />
E il primo insiste:<br />
«Un discorso non detto<br />
appesantisce il braccio che regge la spada;<br />
una discordia dissimulata<br />
dirada le schiere nella battaglia.<br />
Allora, per la seconda volta, i littori<br />
sciolgono l’abbraccio degli Orazi, e i romani<br />
si armano, ognuno con la sua spada:<br />
e anche chi teneva l’alloro, o la scure,<br />
si arma con la sua spada,<br />
così che adesso la sinistra<br />
tiene l’alloro, o la scure,<br />
e la destra la spada.<br />
Per un attimo, gli stessi littori,<br />
devono deporre le insegne<br />
della loro carica per rimettere<br />
a ognuno la spada nella cintola,<br />
e poi riprendono in mano fascio e bipenne.<br />
Ma l’Orazio si piega<br />
per prendere la sua spada,<br />
quella insanguinata,<br />
che stava nella polvere.<br />
E i littori, con fascio e bipenne,<br />
glielo impediscono.<br />
Allora il padre dell’Orazio<br />
prende anche lui la sua spada<br />
e va ad alzare con la sinistra<br />
quella, insanguinata, del vincitore,<br />
che era un assassino.<br />
E i littori glielo impediscono.<br />
Alle quattro porte venne rinforzata la guardia,<br />
e si andò avanti con il processo,<br />
mentre si aspettava il nemico.<br />
Quello dell’alloro dice:<br />
«Il suo merito estingue la colpa».<br />
Ma quello della scure ribatte:<br />
«La sua colpa estingue il merito».<br />
Quello dell’alloro chiede:<br />
«Si può processare un vincitore?»<br />
Ma quello della scure chiede:<br />
«Si può acclamare un assassino?»<br />
Allora, quello dell’alloro:<br />
«Chi processa l’assassino<br />
processa il vincitore».<br />
E quello della scure:<br />
«Chi acclama il vincitore<br />
acclama l’assassino».<br />
Il popolo rifletteva sulla indivisibilità<br />
della persona che aveva compiuto<br />
azioni così diverse.<br />
E taceva.<br />
Ma quello dell’alloro<br />
e quello della scure<br />
continuavano a chiedere<br />
se una cosa potesse essere fatta<br />
senza l’altra,<br />
che l’avrebbe disfatta.<br />
Da: Heiner Müller, Teatro I (Filottete,<br />
L’Orazio, Mauser, La missione,<br />
Quartetto), Ubulibri, Milano 1991.<br />
prosa 57
58<br />
prosa<br />
Lo splendido<br />
«Panico»<br />
di Luca Ronconi<br />
E ancora Spregelburd<br />
con «Todo»<br />
di Alessio Nardin<br />
di Leonardo Mello<br />
«È bia continuamente aspetto. Si capisce imme-<br />
un diavolo di commedia, che si presenta in<br />
un modo e poi man mano che la conosci cam-<br />
diatamente, anche alla lettura, che è una specie<br />
di puzzle ironicamente filosofico, però ti dà l’impressione<br />
che questo sia solo un aspetto superficiale, di immagine.<br />
Poi, lavorandoci, ti accorgi che è tutto profondamente strutturato,<br />
che le battute si incatenano l’una all’altra secondo<br />
un principio preciso, e non secondo i canoni della commedia<br />
d’intrattenimento. Imbocchi<br />
una strada perché ti<br />
sembra l’unica possile, necessaria<br />
e sufficiente, ma poi<br />
ti rendi conto che la strada non è mai dritta, che è un percorso<br />
accidentato e pieno di trappole. [...] Gli attori tendono per<br />
loro natura ad affezionarsi al personaggio, e pensano che sia<br />
quest’ultimo a determinare le situazioni. Invece nel Panico<br />
l’autore si diverte a mettere i personaggi in condizioni particolari<br />
per vedere come reagiscono. E capita spesso che un personaggio<br />
venga spossessato delle proprie battute, che vengono<br />
dette anche da qualcun altro. È una commedia piena di<br />
trabocchetti». Così Luca Ronconi, nell’intervista di Oliviero<br />
Ponte di Pino per il programma di sala, descrive Il panico<br />
di Rafael Spregelburd, che segue la messinscena, altrettanto<br />
splendida, della Modestia. E da queste parole è facile comprendere<br />
perché il maestro romano, da sempre incline alle<br />
sfide drammaturgiche e ai testi sfaccettati e complessi, rivolga<br />
così tanta attenzione al giovane autore dell’Eptalogia di<br />
Hieronymus Bosch (scelto, insieme a Gombrowicz, Pirandello<br />
e Scabia, anche per il decimo anno di attività del Centro<br />
Teatrale Santacristina, in cui è stata analizzata L’inappetenza,<br />
cfr. vmed n. 49, pp. 50-<strong>51</strong>).<br />
Difficile riassumere in poche parole la «trama» della<br />
pièce: come sempre infatti il drammaturgo argentino moltiplica<br />
i livelli, interseca le storie, offre esche spesso ingannevoli<br />
agli spettatori, costruendo un collage di grande potenza teatrale.<br />
Così, si incontrano una madre e i suoi due figli all’af-<br />
fannosa ricerca della chiave di una cassetta di sicurezza dove<br />
è contenuta l’eredità del padre/marito appena morto. Ma<br />
presto si scopre che questi aveva un’amante, cui aveva destinato<br />
una casa che ora una zelante quanto pasticciona agente<br />
immobiliare tenta disperatamente di allocare. Un altro quadro<br />
è poi quella della coreografa di fama che striglia i propri<br />
danzatori, tra i quali la figlia del famoso padre defunto. E così<br />
via in un incastro le cui tessere si dipanano e combaciano<br />
del tutto soltanto alla fine. Ma – al di là della mobilità delle<br />
situazioni, cui contribuisce efficacemente la scena «sghemba»<br />
di Marco Rossi – due sono i piani che si incontrano nello<br />
spettacolo: il primo è quello dei vivi, ritratti come sempre<br />
da Spregelburd in una dimensione grottesca di quotidianità,<br />
che ne mette spietatamente in luce le meschinità e i limiti;<br />
il secondo appartiene ai morti, e in particolare a quell’uomo<br />
appena scomparso, che nessuno ormai vede e sente più e<br />
intorno al quale però ruota tutta la vicenda. Qui l’affanno,<br />
l’ansia e la vertiginosità nevrotica dell’esistenza contemporanea<br />
sembrano finalmente trovare una pacificazione.<br />
Luca Ronconi, al solito, allestisce uno spettacolo strepitoso,<br />
che – nella sua coesione – mette in risalto anche l’aspetto<br />
meno ludico e più graffiante del teatrista porteño, in molte<br />
rappresentazioni oscurato dalla valorizzazione del conge-<br />
gno comico. In un’ambientazione neutra, che ricorda forse<br />
le astratte geometrie della mente o del sogno, il regista colloca<br />
magistralmente un cast stellare di attori. Essendo impossibile<br />
citarli tutti si ricordano almeno Francesca Ciocchetti e<br />
Maria Paiato, ormai espertissime interpreti spregelburdiane<br />
dopo il successo della citata Modestia, la pungente figura della<br />
coregorafa incarnata da Manuela Mandracchia, la sciatta,<br />
esilarante agente immobiliare di Iaia Forte e le giovani e bravissime<br />
Lucrezia Guidone e Clio Cipolletta.<br />
Sempre sul versante Spregelburd, una fresca, avvincente<br />
prova è poi stata quella della giovane compagnia trentina<br />
Evoè!Teatro, che ha allestito Todo (Tutto), un testo che nella<br />
sua tripartizione affronta i binomi cruciali Stato/burocrazia,<br />
arte/commercio, religione/superstizione. La semplice e<br />
indovinata regia di Alessio Nardin lascia campo libero agli<br />
attori – Silvio Barberio, Emanuele Cerra, Martina Galletta,<br />
Gabriella Italiano, Matteo Spiazzi, tutti molto convincenti<br />
– e permette loro, nella moltiplicazione dei ruoli, di esprimersi<br />
al meglio dando luogo a uno spettacolo teso e appassionante.<br />
◼<br />
A sinistra, Todo di Evoè!Teatro.<br />
A destra, una scena del Panico di Rafael Spregelburd<br />
secondo Luca Ronconi (foto di Luigi Laselva).
I Premi Ubu:<br />
proposte di modifica<br />
di Oliviero Ponte di Pino*<br />
Continua il dibattito intorno ai Premi Ubu,<br />
il più importante riconoscimento del teatro italiano.<br />
Oliviero Ponte di Pino, membro del direttivo<br />
dell’Associazione Ubu per Franco Quadri – organismo<br />
promotore della manifestazione dopo la scomparsa del<br />
grande critico che l’ha istituita – esprime alcune considerazioni<br />
e pone alcuni interrogativi, anche sulla base di precedenti interventi<br />
di artisti e critici.<br />
Sono ormai due le edizioni dei Premi Ubu senza Franco<br />
Quadri, assegnati in due emozionanti serate al Piccolo Teatro<br />
«Paolo Grassi».<br />
Il bilancio è senz’altro positivo. Dopo la scomparsa del suo<br />
fondatore e animatore, non era affatto scontato che l’iniziativa<br />
potesse avere un seguito e mantenere la sua autorevolezza.<br />
La vitalità del Premio Ubu, con il successo di pubblico e<br />
di stampa delle due serate, è una conferma della bontà dell’idea<br />
originaria e dell’utilità di un riconoscimento che ormai<br />
fa stabilmente parte del panorama teatrale italiano. Una ulteriore<br />
riprova viene dal fatto che i premiati segnalino con<br />
enfasi il riconoscimento ricevuto nella documentazione che<br />
producono, nei loro curricula e nelle inserzioni pubblicitarie<br />
degli spettacoli.<br />
Va subito aggiunto che dare continuità all’iniziativa non è<br />
stato facile, in primo luogo per l’esiguità delle risorse. Nel<br />
2011 è stato possibile organizzare la serata grazie al contributo<br />
una tantum (purtroppo!) di Unicredit, nel 2012<br />
grazie al sostegno del Comune di Milano – Assessorato<br />
Cultura, Moda e Design, e alle quote d’iscrizione<br />
all’Associazione Ubu per Franco Quadri.<br />
Anche per questo assumono grande valore<br />
la fiducia e l’ospitalità del Piccolo Teatro di Milano,<br />
che ha accolto le serate al Teatro Grassi, sostenendo<br />
anche tutti i costi «tecnici».<br />
Il merito del successo va condiviso anche con<br />
i più di sessanta critici e studiosi (di tutte le tendenze)<br />
che hanno partecipato alle votazioni, e<br />
che hanno così contribuito anche a rafforzare l’identità<br />
e la credibilità del premio.<br />
Un altro risultato positivo è la realizzazione<br />
dell’elenco degli spettacoli della stagione, uno<br />
strumento ritenuto indispensabile dai votanti, visto<br />
che contiene gli spettacoli che hanno debuttato<br />
nella «finestra temporale» presa in considerazione<br />
in ciascuna votazione (1 luglio-30 giugno), con funzione<br />
di promemoria, sia per gli spettacoli inclusi sia per quelli<br />
esclusi dalle candidature. Una quota rilevante del budget<br />
delle edizioni 2011 e 2012 del Premio Ubu è stata destinata<br />
proprio ai redattori che hanno inserito le produzioni nel database<br />
(che è a disposizione di tutti, indicizzato e ricercabile<br />
alla pagina www.ateatro.org/premioubu2012.asp). L’iniziativa<br />
è ancora più significativa perché si pone in continuità<br />
con il Patalogo e con l’elenco degli spettacoli della stagione<br />
che apriva ogni edizione dell’Annuario del teatro curato<br />
da Franco Quadri: questo censimento, che procede ormai<br />
dal 1978, è un prezioso patrimonio di tutto il teatro italiano.<br />
In questi due anni, il Premio Ubu è dunque riuscito a darsi<br />
continuità, cercando di mantenere le proprie caratteristiche<br />
e la propria unicità, tra mille altri premi teatrali attivi oggi<br />
nel nostro Paese. Tuttavia non può restare immobile, uguale<br />
a se stesso. Deve evolvere. O meglio, deve continuare a evolvere,<br />
così come ha fatto con la guida di Franco Quadri per<br />
più di trent’anni: come ha detto Sergio Escobar, direttore del<br />
Piccolo Teatro, «lo spirito originario va mantenuto, ma con<br />
il coraggio di una nuova interpretazione, di nuovi metodi e<br />
strumenti» («la Repubblica», 11 dicembre 2012).<br />
Proprio per questo sono particolarmente utili le sollecitazioni<br />
arrivate ai curatori del premio, sia da altri autorevoli<br />
uomini di teatro, sia dalla stampa, sia dagli stessi giurati, su<br />
differenti versanti.<br />
La composizione della giuria<br />
Per l’edizione 2011 si era deciso di mantenere stabile la composizione<br />
della giuria, ma già nell’edizione successiva è stato<br />
deciso di cambiarne leggermente la composizione.<br />
Sono infatti stati chiamati a partecipare tre nuovi criticistudiosi;<br />
mentre alcuni giurati «storici» non hanno partecipato<br />
alla votazione, perché assurti a ruoli direttivi in importanti<br />
realtà teatrali italiane, oppure perché spettatori<br />
non sufficientemente «assidui» nella stagione di riferimento.<br />
Insomma, la composizione della giuria continua inevitabilmente<br />
a cambiare, cercando di restare fedele ai criteri seguiti<br />
da Franco Quadri: serietà e indipendenza dei giurati,<br />
una base sufficientemente ampia per rappresentare una realtà<br />
variegata e dispersa sul territorio e dunque di intercettare<br />
il «nuovo», ovunque si presenti. Da questo punto di vista,<br />
l’evoluzione della giuria riflette la necessità di un ricambio<br />
generazionale.<br />
Una seconda criticità riguarda la provenienza geografica<br />
dei giurati. L’aveva segnalata nel 2011, con la consueta franchezza,<br />
Simone Nebbia su «Teatro & Critica» (http://<br />
www.teatroecritica.net/2011/12/atlante-xii-da-utopiaal-premio-ubu-bene-comune/):<br />
«Abbiamo rintracciato<br />
una tendenza nord-centrica che marginalizza il centro-sud<br />
Italia e lanciato un nuovo capitolo del discorso<br />
attorno alla credibilità di un premio che troppo<br />
poggia sulla capacità di giro, sia degli spettacoli<br />
che dei giurati votanti»; la «tendenza territoriale<br />
si dimostra evidente dalla provenienza<br />
(stanziale, dunque) dei giurati: su 53 soltanto<br />
17 sono sotto Firenze che ne ha 4, con 14 romani<br />
e 3 miseri sotto Roma». Questa “tendenza<br />
padana” era stata rimarcata anche da<br />
Camilla Tagliabue: «Si ha la sensazione, più<br />
che in passate edizioni, che gli Ubu 2011 siano<br />
stati assegnati con il manuale Cencelli (...):<br />
l’alloro più ambito (...) è andato a Dopo la battaglia<br />
(...) e The History Boys (...), prodotti rispettivamente<br />
da Emilia Romagna/Roma e Milano, i<br />
tre centri del potere teatrale. Eppure la geopolitica<br />
sta cambiando (...). Nord, comunque, straccia<br />
Sud: Napoli non pervenuta e il leccese Mario Perrotta si aggiudica<br />
un riconoscimento speciale» («Il Fatto Quotidiano»,16<br />
dicembre 2011).<br />
Per quanto riguarda il «manuale Cencelli», una giuria abbastanza<br />
numerosa e che non prevede riunioni plenarie o assemblee<br />
operando in una dinamica di referendum, ne rende<br />
praticamente impossibile l’applicazione: caso mai a spingere<br />
verso la concentrazione dei voti è il meccanismo del<br />
ballottaggio.<br />
Del resto, la risposta più efficace alla «perplessità geopolitica»<br />
è arrivata dalla stessa Camilla Tagliabue, nel pezzo che<br />
ha dedicato all’edizione 2012: «Luca Ronconi (…) è rimasto<br />
a bocca asciutta, e con lui il Piccolo Teatro di Milano. Ma è<br />
tutta la città a uscire sconfitta a favore del Sud», e segue l’elenco<br />
dei «sudisti» trionfatori nel 2012, da Antonio Latella<br />
a Lino Fiorito, da Saverio La Ruina a Daria Deflorian,<br />
prosa - commenti 59
60<br />
prosa - commenti<br />
da Lucia Calamaro a Punta Corsara... («Il Fatto Quotidiano»,<br />
11 dicembre 2012).<br />
Sempre sul versante della composizione della giuria, Elio<br />
De Capitani, pluripremiato Ubu, suggerisce un cambiamento<br />
radicale: «Propongo che nella giuria entrino anche gli artisti<br />
premiati e con i critici vadano a formare una patafisica<br />
antiaccademia teatrale. Perché mantengano autorevolezza<br />
devono creare adesione, partecipazione, coinvolgimento.<br />
Devono essere una festa di tutti» («la Repubblica», 11 dicembre<br />
2012). Al di là del fatto che le due serate al Piccolo<br />
Teatro sono state senz’altro caratterizzate da grande «adesione,<br />
partecipazione, coinvolgimento» del mondo teatrale,<br />
il suggerimento di De Capitani porta senz’altro molto lontano<br />
dall’ispirazione iniziale di Franco Quadri e dalla sua valorizzazione<br />
del ruolo specifico dei critici e degli studiosi di<br />
teatro. Del resto non mancano in Italia esempi di riconoscimenti<br />
nati con le migliori intenzioni e progressivamente risucchiati<br />
da logiche corporative e autocelebrative.<br />
Il lavoro dei giurati<br />
Un secondo livello di criticità viene rilevato da un altro membro<br />
di «Teatro & Critica», il direttore della rivista Andrea<br />
Pocosgnich, uno dei nuovi membri della giuria del Premio<br />
Ubu: «Neanche nel migliore dei mondi possibili ogni criti-<br />
co/giurato riuscirebbe ad assistere a tutti gli spettacoli prodotti<br />
nel Paese, ma il fatto che questo non avvenga neppure<br />
per gli spettacoli finalisti mette decisamente in crisi l’intero<br />
metodo di valutazione» (http://www.teatroecritica.<br />
net/2012/12/lettera-aperta-all’associazione-ubu-per-franco-quadri/).<br />
Pocosgnich propone un’ambiziosa soluzione:<br />
«Progettare una festa del teatro, un momento di trasparente<br />
dibattito. Che si apra un tavolo progettuale per trovare le<br />
risorse economiche, i partner e gli spazi con i quali creare, in<br />
una tempistica di 2/3 anni, un modello chiaro e funzionale.<br />
Una strada percorribile potrebbe essere quella di relazionarsi<br />
con più soggetti produttivi nell’ottica di istituire delle giornate<br />
nelle quali spettatori e giurati possano assistere a tutte<br />
le opere finaliste, sarebbe una festa del teatro e un importante<br />
momento di riflessione per critici, studiosi e appassionati».<br />
La proposta riprende quella già lanciata una anno prima,<br />
sempre su «Teatro & Critica», da Simone Nebbia, quando<br />
chiedeva «una vera e propria rassegna» dove «si portino in<br />
scena gli spettacoli, tutti i giurati li vedano, una vera settima-<br />
na della critica con tanto di concorso».<br />
A Pocosgnich ha risposto su questa rivista Roberta Ferraresi<br />
(un’altra neo-giurata, assai attiva sul piano editoriale e<br />
online sul Tamburo di Kattrin): «Senza valutarne la realizzabilità<br />
in senso economico e organizzativo – posto che, nel<br />
momento in cui l’iniziativa passasse di mano alle strutture<br />
produttive, si concretizzerebbe un orizzonte di conflitto difficilmente<br />
gestibile –, questa stimolante idea sul modello del<br />
tedesco Theatertreffen rischia di restare un’interessante utopia»<br />
(cfr. vmed n. 50, p. 56). Insomma, al di là delle difficoltà<br />
pratiche pressoché insormontabili, nota la Ferraresi, una proposta<br />
di questo genere rischia di riportare il premio all’interno<br />
delle logiche del teatro italiano, rischiando di comprometterne<br />
l’indipendenza e alla lunga l’autorevolezza.<br />
Per quanto riguarda la composizione della giuria, si è già accennato<br />
all’inevitabile ricambio, che è già in corso. Il direttivo<br />
della Associazione Ubu per Franco Quadri ha ricevuto<br />
alcune candidature (e autocandidature), e altre presumibilmente<br />
ne riceverà in futuro: verranno tutte vagliate con la<br />
massima cura.<br />
Le categorie<br />
Un secondo versante di criticità viene rilevato da Claudia<br />
Cannella, in una e-mail all’Associazione Ubu: «Forse anche<br />
le categorie del<br />
premio andrebbero<br />
adeguate ai tempi...».<br />
Renato Pa la zzi,<br />
nell’accompagnare<br />
le sue candidature al<br />
primo turno, scriveva:<br />
«Urge, forse, individuare<br />
nuove categorie<br />
che consentano di<br />
diversificare meglio,<br />
di distinguere tra creazioni<br />
fortemente innovative,<br />
come Reality,<br />
per fare un esempio,<br />
e spettacoli di<br />
grande respiro produttivo<br />
come The Coast<br />
of Utopia, che chiaramente<br />
non possono<br />
essere valutati con lo<br />
stesso metro».<br />
Alla prova dei fatti, i<br />
due spettacoli indicati<br />
da Palazzi hanno vinto entrambi premi «maggiori». Di<br />
fatto, all’interno del meccanismo del Premio Ubu esiste da<br />
sempre la possibilità di valorizzare produzioni e realtà «anomale»<br />
e «fortemente innovative», grazie alla categoria delle<br />
«segnalazioni». La storia di questi decenni dimostra che<br />
molte realtà scoperte e lanciate da un riconoscimento in questa<br />
categoria sono poi approdate ai premi maggiori.<br />
Sono poi arrivate alcune proposte specifiche sulle diverse<br />
categorie in cui è articolata la scheda di votazione.<br />
Andrea Pocosgnich esprime i suoi dubbi su diverse denominazioni.<br />
In primo luogo la «Regia»: «Possiamo pensare<br />
ancora alla regia come quell’attività che ha il compito di far<br />
confluire insieme tutte le pratiche e le professionalità del teatro<br />
dirigendole come si dirige un’orchestra? Che fine fanno<br />
le regie collettive oppure, al contrario, gli artisti che lavorano<br />
solo su se stessi?<br />
Perplessità da parte di Pocosgnich anche sulla categoria<br />
«Attore» («Reputiamo sia utile sostituirlo o affiancarlo con
il termine performer») e su quella «Attore/Attrice protagonista<br />
e non protagonista» («Risultano estremamente limitanti<br />
perché riferite a un modello di teatro che è uno e uno<br />
solo dei tanti, legato a certe forme codificate, cui non tutti<br />
i lavori contemplati nella valutazione fanno riferimento»).<br />
Elio De Capitani propone invece di inserire un’ulteriore<br />
categoria, «Costumi»: «Assurdo che non ci sia»; Roberta<br />
Ferraresi suggerisce di inserire le «Musiche».<br />
Nell’insieme, i suggerimenti rientrano in due tipologie. Da<br />
un lato si propone una diversa dicitura per alcune categorie<br />
già presenti. Dall’altro si suggerisce l’inserimento di nuove<br />
categorie. O meglio, in diversi casi, il loro reinserimento: nelle<br />
prime edizioni del premio erano infatti previsti riconoscimenti<br />
sia per i «Costumi» (a partire dal Patalogo uno) sia<br />
per il «Miglior spettacolo con musiche» (a partire dal Patalogo<br />
due). Ben presto era stato ritenuto opportuno far cadere<br />
queste categorie, perché difficilmente si approdava a ri-<br />
sultati significativi: proprio per questo era stata coniata una<br />
nuova «categoria-ombrello», «Risultati tecnici da segnalare»<br />
(dal Patalogo quattro), diventata poi – attraverso varie<br />
denominazioni – il più generico «Segnalazioni» (a partire<br />
dal Patalogo nove).<br />
Commenta la stessa Roberta Ferraresi, sul versante della<br />
precisione nomenclatoria e delle categorizzazioni: «L’elasticità<br />
di tali divisioni [tra categorie, ndr.] è stabilita innanzitutto<br />
dai referendari che le votano: un indizio, per quanto<br />
riguarda la categoria «Attore», è la presenza (peraltro non<br />
inedita) di uno dei più affermati prototipi dell’attore-autore<br />
italiano, Saverio La Ruina. Oppure, basti pensare al recente<br />
predominio di una generazione tutta nuova di registi che –<br />
proprio in questi anni in cui la categoria sembra in crisi, guadagnando<br />
un proprio prefisso “post-“, e proprio in un Paese<br />
dove, a differenza della scena internazionale, non l’ha mai<br />
fatta veramente da padrona – da qualche tempo sta scuotendo<br />
i palcoscenici nostrani: quest’anno presente con Antonio<br />
Latella e Marco Tullio Giordana, ma anche, negli anni scorsi,<br />
con il coreografo Virgilio Sieni. Definizioni più precise –<br />
come è stato proposto – volte a introdurre la cosiddetta “ricerca”,<br />
la danza o la performance, oltre a contraddire in parte<br />
il piglio transdisciplinare che distingue i Premi fin dall’origine,<br />
rischierebbero forse di valorizzare ulteriormente divisioni<br />
e promuovere addirittura ghettizzazioni».<br />
Roberta Ferraresi identifica poi alcune «categorie di fat-<br />
to» non ufficiali emerse dai risultati di questi anni: «Basti<br />
pensare alla consistente presenza di alcune strutture che si<br />
distinguono per particolari slanci produttivi, (…) realtà che<br />
propongono progettualità culturali di ampio respiro, (…) il<br />
versante pedagogico-formativo»; del resto è propria questa<br />
una delle caratteristiche del Premio Ubu: «Non si limita al<br />
livello estetico», ma «lascia emergere le pressioni produttive<br />
e il lavoro dei tanti spazi che costellano la penisola, così come<br />
il lavoro dei numerosi maestri che si muovono oggi dentro e<br />
– soprattutto – fuori il teatro».<br />
Rapporti con le istituzioni<br />
Un ultimo fronte riguarda il ruolo e i rapporti istituzionali<br />
del Premio Ubu. Scrive, sempre nella sua e-mail, Claudia<br />
Cannella: «Forse bisognerebbe convincere un’istituzione<br />
(...) a farsi patron del Premio, che poi gestirebbe in accordo<br />
con l’Associazione...».<br />
Attualmente l’unico partner istituzionale del Premio Ubu<br />
(attraverso l’Associazione Ubu per Franco Quadri che lo cura)<br />
è – tramite l’Assessorato Cultura Moda e Design – il Comune<br />
di Milano (che si può dire da sempre partner del Premio,<br />
con piccole interruzioni). Il Premio Ubu si celebra dalle<br />
sue origini a Milano, a Milano ha sempre avuto sede la Ubulibri.<br />
Anche in considerazione della «milanesità» di Franco<br />
Quadri, l’archivio della Ubulibri-Franco Quadri è affidato<br />
a un’istituzione cittadina come la Fondazione Arnoldo e<br />
Alberto Mondadori.<br />
Negli scorsi mesi, sono stati presi (o richiesti) contatti con<br />
realtà che operano in altre città italiane, e che potrebbero<br />
proporsi di ospitare la manifestazione.<br />
Di tutto questo, ne discuteremo a Milano<br />
Quelli qui raccolti sono alcuni dei suggerimenti ricevuti,<br />
in via privata o pubblicamente, sull’evoluzione del Premio<br />
Ubu. Sono tutte proposte che meritano di essere discusse<br />
nel dettaglio, anche a partire dal dibattito che si è già aperto,<br />
fuori e dentro l’Associazione, e che può arricchirsi di ulteriori<br />
contributi. Alla prossima Assemblea dell’Associazione<br />
Ubu per Franco Quadri (in programma a Milano il 23 marzo),<br />
i soci potranno approfondire i diversi punti. ◼<br />
*Membro del direttivo Associazione Ubu per Franco Quadri<br />
prosa - commenti 61
62<br />
arte<br />
«Postwar<br />
Protagonisti italiani»<br />
secondo<br />
Luca Massimo Barbero<br />
di Ilaria Pellanda<br />
A<br />
poco più di dieci giorni dalla<br />
chiusura della bellissima – è proprio<br />
il caso di dirlo – mostra dedicata<br />
a Capogrossi (cfr. vmed n. 48,<br />
pp. 52-53), lo scorso 23 febbraio la Collezione<br />
Peggy Guggenheim ha inaugurato il proprio<br />
2013 con «Postwar. Protagonisti italiani».<br />
Affidata ancora una volta alla cura di Luca Massimo Barbero,<br />
la nuova esposizione affianca cinque capisaldi del nostro<br />
secondo dopoguerra: Lucio Fontana (1899-1968), Piero Do-<br />
razio (1927-2005), Enrico Castellani (n. 1930), Paolo Scheggi<br />
(1940-1971) e Rodolfo Aricò (1930-2002) sono infatti gli<br />
ospiti d’onore di un percorso che si snoda in sale monografiche<br />
e che «rilegge» l’idea di arte italiana a partire dal superamento<br />
dell’Informale.<br />
L’allestimento, che si sviluppa cronologicamente stanza per<br />
stanza, presenta la sperimentazione di ciascun autore e dimostra<br />
come, proprio a partire da Fontana, le generazioni<br />
successive abbiano raggiunto pienamente un linguaggio pittorico<br />
personale in un momento ben specifico della loro produzione,<br />
tra gli anni sessanta e settanta del xx secolo.<br />
In veste di padre ideale delle ricerche artistiche contemporanee<br />
del secondo dopoguerra italiano e internazionale,<br />
è dunque Lucio Fontana ad aprire l’esposizione. Insieme ad<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Collezione Peggy Guggenheim<br />
fino al 15 aprile<br />
alcune tele emblematiche del suo percorso – si guardi a Concetto<br />
spaziale del 19<strong>51</strong> e Concetto spaziale del 1957, opere che,<br />
da poco donate alla Peggy Guggenheim, incarnano rispettivamente<br />
l’invenzione monocroma del concetto spaziale<br />
«buchi» e la sua opera più propriamente materica, realizzata<br />
con pietre interpretabili come chiaro «residuo» dell’Informale<br />
–, nella sala a lui dediacata è presente Quanta (1960),<br />
magistrale lavoro proveniente dalla Fondazione Lucio Fontana<br />
di Milano: si tratta di nove elementi rossi tridimensionali,<br />
una sorta di costellazione con buchi e tagli che anticipano<br />
le shaped canvases, tele sagomate tipiche dell’arte americana<br />
di quegli anni. Nella sua essenzialità concettuale<br />
questo lavoro dialoga in contrappun-<br />
to con le ceramiche degli anni cinquanta, fra<br />
le quali emergono tre piatti la cui creatività è<br />
in bilico tra il Barocco e la grande deflagrazione<br />
dell’Informale.<br />
Si incontrano quindi cinque opere di Piero<br />
Dorazio, tra i fondatori della pittura astratta italiana, i cui reticoli<br />
ottici e strutturali si espandono sulla tela – ad esempio<br />
in Antelucano del 1962 – a illustrare una luminosità e un percorso<br />
rigoroso del segno, che si articola in incroci<br />
ma soprattutto in colore. La ricerca astratta<br />
dell’artista emerge con vigore nel dipinto Mar<br />
maraviglia, sempre del ’62, e in Unitas del 1965,<br />
opera perno di questa seconda sala insieme alla<br />
monumentale tela Durante l’incertezza (’65).<br />
Superficie, sintesi e grande oggettivazione<br />
della ricerca sono il risultato della sala dedicata<br />
a Enrico Castellani, che catalizza lo sguardo<br />
dell’osservatore sull’ipnotica Superficie angolare<br />
rossa del 1961, esposta accanto a Superficie<br />
bianca del 1967 e a Superficie bianca del 1974,<br />
qui presentata al pubblico per la prima volta.<br />
La sala di Paolo Scheggi riporta all’attenzione<br />
le innovative ricerche visive dell’artista toscano:<br />
su una parete scorrono le tre Intersuperfici bianche<br />
a cui fanno da contraltare le tre Intersuperfici<br />
della cromia nera. Ai due estremi opposti della<br />
sala, Intersuperficie curva arancio (1969) e Intersuperficie<br />
curva rossa vanno a creare un notevole<br />
effetto cromatico. Il nome di queste tele rimanda<br />
al percorso che lo sguardo compie attraverso<br />
i diversi piani che le compongono e allude<br />
all’interazione dello spettatore con esse.<br />
L’esposizione si chiude con l’approfondimento<br />
dedicato a Rodolfo Aricò in due sale che presentano<br />
quelle opere che, realizzate tra il 1966 e<br />
il 1970, vedono la definizione della sua particolarissima<br />
pittura oggettuale: quelle shaped canvases<br />
che l’artista matura confrontandosi con le<br />
indagini internazionali sulla riduzione espressiva,<br />
dall’astrazione post-pittorica di Morris Louis<br />
e Kenneth Noland alle volumetrie strutturali e primarie<br />
del Minimalismo di Donald Judd e Sol LeWitt. L’origine<br />
delle forme di Aricò è una sorta di grande nuova meditazione<br />
contemporanea della cultura visiva europea: un percorso<br />
a ritroso che parte dalle avanguardie storiche d’inizio Novecento<br />
per approdare alla relazione attiva con la pittura prospettica<br />
rinascimentale di Paolo Uccello, espressa dall’opera<br />
del 1970 che porta proprio il nome dell’artista fiorentino,<br />
Studio 2. Paolo Uccello. ◼<br />
Paolo Scheggi (1940-1971)<br />
Intersuperficie curva dal giallo, 1969<br />
(acrilico su tele sovrapposte, cm 120x120;<br />
Collezione Franca e Cosima Scheggi).
Tiepolo torna<br />
a Villa Manin<br />
Nel 1971, in occasione del secondo centenario<br />
della morte di Tiepolo padre, ebbe luogo a Villa<br />
Manin una mostra che permise al grande pubblico<br />
di conoscere uno dei più<br />
importanti artisti veneziani del Settecento<br />
(se non addirittura il più importante di tut-<br />
ti). Dopo più di quarant’anni, si ripropone<br />
ora nello stesso luogo una nuova esposizione<br />
monografica a lui dedicata. Tante cose sono<br />
cambiate in tutto questo tempo: per cominciare,<br />
la grandiosa villa dell’ultimo doge di<br />
<strong>Venezia</strong> è divenuta referente culturale a livello<br />
non solo locale ma anche nazionale. Poi, gli studi sul pittore<br />
sono immensamente progrediti, in gran parte grazie al lavoro<br />
di restauro di diverse sue opere, alcune delle quali abbia-<br />
mo oggi la possibilità di ammirare esposte. Insieme a queste,<br />
è raccolta un’accurata selezione di disegni e dipinti di diverso<br />
formato e tematica, che abbracciano tutta la vita «produttiva»<br />
di Giambattista, dalle sue prime esperienze alla matu-<br />
Giambattista Tiepolo, Il Tempo scopre la Verità,<br />
Pinacoteca di Vicenza.<br />
di Eva Rico<br />
Villa Manin<br />
Passariano di Codroipo (Ud)<br />
«Giambattista Tiepolo»<br />
fino al 7 aprile<br />
rità creativa, e ci permettono, appunto, di apprezzare la sua<br />
evoluzione stilistica e l’inesauribile inventiva.<br />
Per quanto riguarda le opere restaurate, a Villa Manin possiamo<br />
ammirare il ciclo tiepolesco di soprarchi e pennacchi<br />
della chiesa veneziana dell’Ospedaletto, con il Sacrificio di<br />
Isacco e la serie di Profeti, Evangelisti e Dottori della Chiesa.<br />
Questo lavoro, portato a termine da un giovanissimo Tiepolo,<br />
può oggi essere osservato da vicino, dopo l’opera di pulitura<br />
e restauro necessaria a causa dell’incendio sofferto dalla<br />
chiesa il 4 maggio 2010, che rovinò irrimediabilmente il soprarco<br />
con i Santi Girolamo e Agostino. Così<br />
l’occasione è doppia: non solo contempliamo<br />
queste opere quasi come fossero appena<br />
state create dai pennelli dell’allora ventenne<br />
Giambattista, ma abbiamo anche la probabilmente<br />
irripetibile opportunità di vederle<br />
da vicino, giacché a breve torneranno al<br />
posto per cui furono create e che loro corrisponde,<br />
a un’altezza di tredici metri e mez-<br />
zo da terra!<br />
Ecco poi la grandiosa tela tratta dal Duomo di Este, Santa<br />
Tecla intercede per la liberazione della città di Este dalla<br />
pestilenza, un capolavoro della maturità dell’artista dove<br />
egli mette in pratica la sua famosa dichiarazione secondo<br />
la quale «li pittori devono procurare riuscire nelle opere<br />
grandi (...), quindi la mente del pittore deve sempre tendere<br />
al Sublime, all’Eroico, alla Perfezione». Il dipinto, di grandi<br />
dimensioni (675 x 390), fa riferimento alla terribile epidemia<br />
di peste del 1630, la stessa di cui parla ampiamente<br />
Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, e per la quale, fra<br />
molti altri edifici votivi, si costruì a <strong>Venezia</strong> la chiesa della<br />
Salute. Più di un secolo dopo (1758), la città di Este volle<br />
ricordare la sconfitta dell’epidemia grazie all’intervento<br />
di Santa Tecla, e si rivolse a Giambattista Tiepolo, che allora<br />
godeva già di grande fama. In mostra si può vedere anche<br />
un interessantissimo video che illustra passo a passo lo<br />
stupefacente lavoro di restauro.<br />
E per documentare l’evoluzione stilistica del Tiepolo fra<br />
questi due capolavori restaurati si inserisce un gran numero<br />
di opere di piccole dimensioni e di disegni, che comprendono<br />
tutta la produzione del maestro. Troviamo deliziosi<br />
bozzetti per dipinti di grande formato che ricordano<br />
le note parole di Sebastiano Ricci, senza dubbio messe<br />
in pratica da Giambattista: «Perché questo non è modello<br />
ma quadro terminato (...). Questo piccolo è l’originale, e la<br />
pala d’altare è la copia». Ai quadri di soggetto religioso si<br />
affiancano dipinti profani, che non solo danno conto della<br />
grande cultura di Tiepolo, ma ricordano pure le sue feconde<br />
frequentazioni, come quella con i Zanetti, con Scipione<br />
Maffei e, in particolare, con Francesco Algarotti, al quale<br />
lo stesso Tiepolo, mentre lavorava in Villa Cordellina a<br />
Montecchio, infastidito per la lontananza da <strong>Venezia</strong> e per<br />
le continue occasioni mondane, scrisse: «Giuro che mi sarebbe<br />
più caro stare un giorno in compagnia sua e di parlare<br />
di pittura che tutti li divertimenti di questa villa, che mi<br />
creda non è pochi». In cambio, il pittore ottenne i più entusiastici<br />
elogi dal letterato, che lo considerava «il miglior<br />
pittore di <strong>Venezia</strong>, l’uomo più amabile che si possa desiderare»,<br />
e con il quale dichiarava di aver stretto «l’amicizia<br />
più pura immaginabile».<br />
Insieme a queste pitture, negli ampi spazi espositivi si incontra<br />
una considerevole raccolta di disegni preparatori,<br />
schizzi, appunti fatti a penna, inchiostro o acquarello, paesaggi<br />
più o meno fantastici, bizzarri pulcinella, studi anatomici<br />
e ritratti, come quello bellissimo del figlio Lorenzo.<br />
Tanto la mostra come il catalogo sono stati curati da Giuseppe<br />
Bergamini, Alberto Craievich e Filippo Pedrocco. ◼<br />
arte 63
64<br />
fotografia<br />
La parola<br />
a Gianni Berengo Gardin<br />
a cura di Denis Curti<br />
Centotrenta fotografie rigorosamente in<br />
bianco e nero, questa è la tua «cifra» stilistica.<br />
Da sempre prediligo il bianco e<br />
nero, i miei maestri (Henri Car-<br />
tier Bresson e Willy Ronis fra tutti) mi hanno<br />
fatto conoscere una poetica fotografica che<br />
era tutta in bianco e nero. Ma non si tratta solo<br />
di una questione generazionale, penso che il<br />
colore distragga il fotografo e chi guarda le immagini.<br />
Penso che il colore sia per il paesaggio,<br />
il bianco e nero è per il reportage: gli eventi, la<br />
storia. Comunque, detto per inciso, nel bianco e nero esistono<br />
tutte le sfumature di bianco e dei grigi. C’è la ricchezza dei<br />
sentimenti di una narrazione lineare e coerente.<br />
Il tuo lavoro di reporter dura da oltre cinquant’anni e tu hai<br />
spaziato nel tempo e nei luoghi. Come ci si sente di fronte a tante<br />
storie vissute?<br />
Ho cominciato nel 1954 a lavorare seriamente con la macchina<br />
fotografica. Anzi, a me piace dire che è più di mezzo secolo,<br />
perché fa più impressione. Finché ci sarà la salute continuerò<br />
a fare questo mestiere. Anche in questo periodo lavoro<br />
parecchio e a oggi ho realizato più di duecento fotolibri. Dagli<br />
esordi come reporter alla realizzazione di progetti sociali<br />
ho archiviato oltre 1.500.000 di negativi. Ho girato il mondo<br />
con la macchina fotografica al collo e ho sempre usato la<br />
pellicola.<br />
<strong>Venezia</strong><br />
Casa dei Tre Oci<br />
Gianni Berengo Gardin<br />
«Storie di un fotografo»<br />
fino al 12 maggio<br />
1. 2.<br />
In questo mezzo secolo qual è stato l’evento o l’anno che maggiormente<br />
hanno caratterizzato la storia contemporanea?<br />
Senza dubbio il Sessantotto, sia per i movimenti politici sia<br />
per l’inchiesta che feci con Carla Cerati nei manicomi per<br />
Franco Basaglia e che prese il nome di «morire di classe». Negli<br />
anni settanta, invece, mi ha segnato il reportage fatto con<br />
Cesare Zavattini su Luzzara. Più recentemente, la ricerca condotta<br />
sugli zingari che mi ha portato a vivere in tre campi nomadi.<br />
Esempi di questi reportage sono esposti nella mostra e<br />
nel libro Storie di un fotografo ai Tre Oci. Ho<br />
scelto poche immagini. Quelle più significati-<br />
ve, per lasciare spazio a una mostra più ampia,<br />
con una narrazione visiva più aperta e più concentrata<br />
sulla figura umana.<br />
Da qui la tua continua attenzione agli occhi e<br />
ai volti della gente, ai luoghi del lavoro.<br />
Il mio lavoro non è assolutamente artistico. E<br />
non ci tengo a passare per un artista. L’impegno<br />
stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale<br />
e civile. Oggi, purtroppo, non va più così: è un’esperienza<br />
diversa, un lavoro portato avanti con le gallerie. Per me, in-<br />
vece, è inconcepibile fare una copia in tiratura di pochi esemplari:<br />
la fotografia deve andare o sulle riviste o sui libri. D’altra<br />
parte, la macchina fotografica non nasce per fare della pittura.<br />
Nonostante la lunga carriera senti ancora la voglia di fotografare,<br />
da dove ti arriva tutta questa energia?<br />
Dal bisogno di raccontare, soprattutto di documentare. Sono<br />
tuttora coinvolto di quello che faccio, non è routine, e vivo<br />
come testimone del nostro tempo.<br />
La fotografia diventa la testimonianza. Quello che ci fa ricordare<br />
come eravamo e come è cambiata la nostra vita, non<br />
solo il paesaggio .<br />
Parlando di reportage, ma soprattutto di narrazione, la foto-
grafia resta ancora un fatto culturale?<br />
Per quanto mi riguarda ho sempre raccontato il nostro tempo.<br />
La vita politica, i cambiamenti sociali, gli eventi che hanno<br />
marcato la storia del nostro Paese. Le fotografie sanno cogliere<br />
uno spaccato del nostro tempo e questo è certamente<br />
un fatto culturale.<br />
Con questa grande mostra, cosa vuoi raccontare che non è ancora<br />
stato detto?<br />
Credo che in questa retrospettiva<br />
ci sia tanto mondo,<br />
un racconto per immagini.<br />
Credo che non esca solo il<br />
mio punto di vista ma un insieme<br />
di visioni passate, ma<br />
che ci riguardano ancora oggi.<br />
Ci sono storie con tanta<br />
quantità umana che ci permette<br />
di ragionare, ma anche<br />
di guardare avanti con<br />
maggiore consapevolezza.<br />
In cosa queste immagini<br />
raccontano il nostro Paese?<br />
La vita per le strade, la<br />
gente che si incontra per caso,<br />
gli abbracci sorprendenti<br />
e spontanei, in ogni foto,<br />
ciascuno di noi ritrova un<br />
po’ di se stesso, della sua storia,<br />
dei suoi ricordi. Le fol-<br />
le, l’infanzia e il tempo, il<br />
lavoro. Tutto questo ci porta<br />
a ricordare, a pensare, a<br />
ragionare.<br />
A proposito del reportage<br />
sugli zingari, cosa hai imparato<br />
ad apprezzare di questo<br />
popolo?<br />
La generosità, la poesia e la<br />
musica. Per me è stato difficile<br />
entrare in quel mondo.<br />
Gli zingari sono sempre<br />
prevenuti nei confronti<br />
della macchina fotografica<br />
proprio perché, solitamente,<br />
si fotografa il lato negativo<br />
della realtà. Ho scoperto,<br />
poi, che durante la guerra<br />
nella ex Yugoslavia fuggivano<br />
molti delinquenti che,<br />
giunti in Italia, si andavano<br />
a «nascondere» all’interno<br />
dei campi nomadi grazie al<br />
fatto che parlavano la stessa<br />
lingua.<br />
In una scala ipotetica di valori<br />
qual è il segno distintivo<br />
della tua carriera, intendo<br />
dire: qual è la spinta che ti permette di scattare una determinata<br />
foto? Curiosità, umanità, ricerca della verità?<br />
Credo nella convinzione e nell’importanza di essere testimoni<br />
della storia. Credo nella persuasione e nel potere che le<br />
© Gianni Berengo Gardin/Contrasto<br />
1. Lido di <strong>Venezia</strong> 1958.<br />
2. <strong>Venezia</strong> 1959 (piazza San Marco).<br />
3. <strong>Venezia</strong> 1958.<br />
4. Yugoslavia 1979.<br />
3.<br />
4.<br />
immagini hanno di suscitare emozioni e possibilmente delle<br />
reazioni che possono generare certi scatti.<br />
Cosa ti resta di questa, oserei dire, inestimabile collezione di<br />
immagini: ricordi, consapevolezza, nostalgia?<br />
Naturalmente tanti ricordi, ma una cosa mi è molto cara: la<br />
consapevolezza di essere riuscito a raccontare storie senza pregiudizi.<br />
Credo che questo sia un modo per rendere più leggibile<br />
la complessità del mondo<br />
Qual è il ruolo del fotografo?<br />
Sono tanti i ruoli, o meglio i tipi di fotografi: chi fa architettura,<br />
paesaggio, ritratto… Io sono un narratore, voglio raccontare<br />
delle storie, fotografo la gente di tutti i giorni, quelli che<br />
non vengono notati, cerco di fare foto serie e non dei gossip.<br />
A chi devi il tuo successo?<br />
Devo tutto alle mie macchine fotografiche, soprattutto la<br />
mie Leica, vere e fedeli compagne di vita, usare la macchina<br />
fotografica ancora oggi mi fa andare avanti e guardare al futuro.<br />
◼<br />
fotografia 65
66<br />
in vetrina<br />
Fondazione Levi:<br />
dieci anni di concerti<br />
per le Sacre Ceneri<br />
di Giorgio Busetto<br />
Nel 2003, con l’avvento alla presidenza di Davide<br />
Croff, la Fondazione Ugo e Olga Levi si propose<br />
di contribuire all’offerta culturale di <strong>Venezia</strong><br />
successiva al Carnevale con un concerto di musica<br />
sacra quaresimale da tenere il mercoledì delle Ceneri. Si<br />
trattava di corrispondere ad una richiesta che da più parti si<br />
era levata in rapporto all’annosa questione della cattiva distribuzione<br />
dei programmi di maggiore attrattiva<br />
turistica, vale a dire mostre e spettacoli, che si<br />
condensavano e spesso sovrapponevano in determinati<br />
periodi dell’anno, lasciandone piuttosto<br />
vuoti certi altri. Passata la sbornia del Carnevale<br />
bisognava attendere la Pasqua per vedere rimettersi<br />
in moto la macchina dell’offerta culturale.<br />
A quel tempo si chiedeva, o almeno lo chiedevano<br />
le categorie economiche interessate, di incentivare<br />
il turismo, che pur continuava a crescere,<br />
con il consueto strascico di polemiche, sicché<br />
tanto il Promove quanto l’apt aderirono all’iniziativa<br />
nella prima edizione del 2004.<br />
La direzione scientifica della Fondazione era<br />
all’epoca retta da Giulio Cattin, per decenni docente<br />
di storia della musica a Padova, oggi presidente<br />
onorario della Levi, mentre tra gli studiosi<br />
a lui più vicini operavano Giovanni Morelli,<br />
che professava musica contemporanea nell’ateneo<br />
veneziano di Ca’ Foscari, e Antonio Lovato,<br />
allievo di Cattin, lui pure docente a Padova e<br />
suo successore alla guida del Comitato scientifico<br />
della Levi dal 2006.<br />
Cattin apriva il primo libretto di sala di quella che sarebbe<br />
poi divenuta una serie che ha ora toccato le dieci unità, con<br />
una sorta di brevissimo editoriale, che introduceva e motivava<br />
la manifestazione dettando la linea che sarebbe poi stata<br />
sempre seguita: «Quest’anno, per la prima volta, la Fondazione<br />
Ugo e Olga Levi ha pensato d’inaugurare il tempo<br />
della Quaresima con un concerto di musica sacra che segni<br />
nettamente l’avvenuta conclusione del Carnevale. La liturgia,<br />
con il rito delle Ceneri, costituisce di per sé un segnale<br />
inequivoco e forte, ma è forse possibile offrire un messaggio<br />
che, altrettanto chiaramente indichi la realtà di un cambiamento<br />
e lo faccia in una forma più facilmente comprensibile<br />
all’uomo d’oggi.[…] L’esecuzione, pur proponendosi come<br />
momento di seria riflessione, con la bellezza dei suoi brani<br />
non rinuncia ad essere occasione di godimento spirituale».<br />
Sono concetti che più avanti saranno ripresi da Lovato con<br />
riferimento alla teologia della croce: «L’iniziativa […] intende<br />
contribuire alla riscoperta di questo patrimonio di profondo<br />
significato religioso e culturale, realizzando con cadenza<br />
annuale l’ascolto di composizioni originali attraverso<br />
l’esecuzione di complessi specializzati».<br />
Nonostante queste dichiarate intenzioni e l’attiva partecipazione<br />
di Chorus, Associazione di numerose chiese di <strong>Venezia</strong>,<br />
non mancò qualche polemica di fonte ecclesiastica,<br />
che vedeva nella circostanza più apprezzato l’aspetto ludico<br />
spettacolare che non quello meditativo proprio della preghiera<br />
in musica, che caratterizza il canto sacro come colloquio<br />
col divino.<br />
Per le prime due edizioni del concerto Cattin scelse di avvalersi<br />
del Coro Athestis diretto da Filippo Maria Bressan,<br />
con un programma inaugurale di testi di Palestrina, Monteverdi<br />
e Scarlatti, disposti secondo lo schema di una liturgia<br />
eucaristica in «una sorta di escursione fra vetta e vetta<br />
della più sofisticata ricerca di innovazioni stilistiche dell’arte<br />
polifonica» e nel secondo anno «un arduo confronto fra le<br />
espressioni della ispirazione mistica del sentimento penitenziale<br />
fra età barocca e immediata contemporaneità» (Morelli)<br />
con Desprez, Palestrina e Allegri alternati a Urmas Sisask.<br />
Per la terza edizione del 2006 Morelli propose a Cattin di<br />
virare su un programma etnomusicologico, segnalando per<br />
l’esecuzione tre gruppi popolari di grande tradizione storica:<br />
«I Cantor ed Monc» di Monchio delle Corti (Parma); la<br />
«Compagnia Sacco» di Ceriana Ligure (Imperia) e il gruppo<br />
siciliano de «I Lamentatori di Montedoro» (Caltaniset-<br />
ta). L’iniziativa, rafforzata dall’adesione, che non sarebbe più<br />
venuta meno, della Fenice e della Cassa di Risparmio di <strong>Venezia</strong>,<br />
riscosse un grande successo di pubblico e così si stabilizzò<br />
la ricorrenza, celebrata sempre, sino alla nona edizione<br />
del 2012, nella chiesa di Santa Maria Formosa.<br />
Dalla quarta edizione del 2007, attesa la maturità dell’evento,<br />
Lovato introdusse una formulazione a carattere seriale,<br />
dedicando ogni anno ad un secolo, presentando il concerto<br />
con un dotto libretto di sala, videoregistrando le esecuzioni,<br />
in modo da disporre di materiali documentari relativi alla<br />
prassi esecutiva e da poterli anche tradurre in cd o dvd.<br />
L’avvio con l’Ensemble Oktoechos – Schola Gregoriana di<br />
<strong>Venezia</strong>, direttore Lanfranco Menga, è proposto come «un<br />
invito a ripartire dalle radici della nostra civiltà con un programma<br />
di testi e canti del periodo medievale, in cui intonazioni<br />
monodiche […] si alternano a composizioni della prima<br />
polifonia d’arte e con testimonianze prossime alla sensibilità<br />
popolare». Da questo concerto la Fondazione Levi ha pubblicato<br />
con l’editore Tactus di Bologna il cd Crucem tuam<br />
adoramus, in cui è presente anche una delle prime polifonie,<br />
le Lamentationes a due voci di Johannes de Quadris, musicus<br />
in San Marco agli inizi del sec. xv:<br />
Il passo successivo (2008) programma una serie di Laude,<br />
«cantasi come» e intonazioni «a modo proprio» dei secoli<br />
xiii-xvi nell’esecuzione dell’Ensemble Micrologus diretto<br />
da Patrizia Bovi, che mantiene il carattere religioso e popolare<br />
come aspetto caratteristico dei canti, pur se elevati ad<br />
Le edizioni 2012 (sopra) e 2009 (a fronte) del concerto delle Ceneri.
un rango letterario superiore, marcato infine dall’autorialità<br />
di un Leonardo Giustinian, il cui vasto repertorio è stato<br />
fissato nelle edizioni della Fondazione Levi da Francesco<br />
Luisi (1983).<br />
Nel 2009 l’Ensemble Orologio diretto da Davide De Lucia<br />
programma Polifonie, cori spezzati e concerti policorali a San<br />
Marco nel Cinquecento: è il trionfo del rinascimento veneziano,<br />
con Willaert, Cipriano de Rore, Merulo, Gioseffo Guami,<br />
Croce, Usper, Grillo e soprattutto i Gabrieli.<br />
Nel 2010, in coerenza coll’andamento a suo tempo annunciato,<br />
tocca alla musica del Seicento e poiché ricorrono i trecentocinquant’anni<br />
dalla nascita di Alessandro Scarlatti, il<br />
concerto Musica policorale. Musica per la Settimana Santa è<br />
interamente dedicato a questo autore, ed è eseguito dall’Orchestra<br />
Barocca e dal Coro della Mitteleuropa, con la direzione<br />
di Romano Vettori e trasmesso in diretta da 3 Channel<br />
tv – Canale SKY Italia 872. Il concerto viene per l’occasione<br />
presentato con una tavola rotonda dedicata a Scarlatti,<br />
con interventi di Benedikt Poensgen, Hans Jörg Jans, Luca<br />
Della Libera, Dinko Fabris, Paolo Cattelan, Paolo Cecchi<br />
e Romano Vettori.<br />
Frattanto il Concerto per le Ceneri ha accresciuto di anno<br />
in anno il proprio pubblico e la propria fama e ha ormai conquistato<br />
una menzione nella Guide verte della Michelin del<br />
2011. Anche in quest’anno l’esecuzione è stata magistrale,<br />
con Riccardo Favero che dirige l’Oficina Musicum su testi<br />
di Antonio Lotti e soprattutto di Dietrich Buxtehude, tanto<br />
che la Fondazione decise di pubblicare in dvd tutta questa<br />
parte col titolo abbreviato: Membra Iesu nostri.<br />
Nel 2012 Sergio Balestracci dirige l’Ensemble La Stagione<br />
Armonica su un programma dal titolo Meditazioni musicali<br />
per i 50 anni della Fondazione Levi che allinea musiche di<br />
Baldassarre Galuppi (Qui tollis peccata mundi), Bonaventura<br />
Furlanetto e Johann Adolf Hasse. Il concerto ha aperto le<br />
celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di istituzione<br />
della Levi ed è stato perciò preceduto da una tavola rotonda<br />
che è stata anche un’occasione di presentazione del restauro<br />
di Palazzo Giustinian Lolin, dove si è svolta, nel salone di<br />
rappresentanza del primo piano nobile. Il tema era «Musica<br />
e musicologia: prospettive della Fondazione Levi a 50 anni<br />
dalla nascita» e sono intervenuti il vicepresidente della Fenice<br />
Giorgio Brunetti, il presidente della federazione nazionale<br />
delle corali Sante Fornasier, il direttore della rivista «Amadeus»<br />
Gaetano Santangelo e Lovato, mentre la manifestazione<br />
è stata presieduta da Croff.<br />
Nel frattempo è cambiato il parroco di Santa Maria Formosa<br />
e col nuovo curato le esigenze liturgiche hanno impedito<br />
lo svolgimento del concerto all’ora consueta e dunque si<br />
è dovuta scegliere una nuova sede: grazie alla collaborazione<br />
dell’Istituto di Santa Maria della Pietà che ha messo a disposizione<br />
la famosa chiesa di Vivaldi affacciata sul bacino di<br />
San Marco qui si è tenuta l’edizione 2013, Canti della Passione<br />
e di lode tra spirito romantico e culto dell’antico, musiche<br />
dell’Ottocento eseguite dall’ensemble Reale Corte Armonica<br />
«Caterina Cornaro» (soli e coro da camera) con l’Orchestra<br />
da camera «Lorenzo Da Ponte», con la direzione di Roberto<br />
Zarpellon. Marco Manzardo, che ha curato l’iniziativa,<br />
ha recuperato nella Biblioteca della Fondazione Levi un<br />
inedito Miserere di Antonio Buzzolla conservato nel fondo<br />
musicale della Procuratoria di San Marco lì depositato. Nel<br />
programma figuravano poi un canto funebre rinascimentale<br />
di Michael Weisse musicato da Johannes Brahms; uno<br />
Stabat Mater di Pierluigi da Palestrina nella revisione di Richard<br />
Wagner, proposto come omaggio al sommo compositore<br />
tedesco nella ricorrenza del secondo centenario della nascita;<br />
e un Te Deum di Felix Mendelssohn-Bartholdy, fiorito<br />
di echi di Giovanni Gabrieli, Monteverdi e Bach: due opere<br />
giovanili di due dei massimi esponenti del romanticismo tedesco<br />
a fronte di due canti della Passione di scuola italiana.<br />
Nell’insieme dunque la serie dei concerti delle Ceneri disegna<br />
un percorso coerente, persino didattico, che risente nella<br />
formazione dei programmi del rigoroso lavoro musicologico<br />
che sta loro alle spalle e che ben corrisponde alle scelte che da<br />
decenni hanno caratterizzato l’attività della Fondazione Levi<br />
e che negli ultimi anni si son venute precisando ulteriormente<br />
nelle direzioni della divulgazione quale corollario necessario<br />
della ricerca, come pure dell’esecuzione altrettanto<br />
corrispondente al lavoro musicologico.<br />
La lunga durata nel tempo consente di trarre un bilancio<br />
dell’esperienza di questi dieci concerti. Va sottolineato<br />
che la ritualità dell’appuntamento consente<br />
da un lato la crescita del pubblico, sempre<br />
più numeroso e preparato, dall’altro l’affinamento<br />
di numerosi aspetti organizzativi, mentre<br />
appare quasi come una rassegna di belle competenze<br />
musicali, per lo più venete, affermate o da<br />
valorizzare. Va anche sottolineato come il concerto<br />
delle Ceneri si collochi nei programmi della<br />
Levi come tappa particolarmente espressiva di<br />
un assai vasto lavoro sulla musica sacra, quasi di<br />
ideale ricongiungimento col sostegno dato nei<br />
primi anni del Novecento da Ugo Levi all’opera<br />
di Lorenzo Perosi. Il concerto delle Ceneri si<br />
intreccia così con altre ricerche, dalla musica di<br />
San Marco alla diffusione intercontinentale della<br />
policoralità, dal movimento ceciliano all’etnomusicologia,<br />
dalla pratica di comporre ed eseguire<br />
nelle chiese antiche di <strong>Venezia</strong>, alla storia<br />
musicale e organologica degli organi.<br />
Appaiono ormai maturi i tempi per lanciare<br />
nuovi progetti di ricerca ed esecuzione, su cui<br />
dovrebbe la comunità veneziana, nell’insieme delle sue organizzazioni<br />
musicali o con componenti musicali, motivarsi.<br />
Le tradizioni della musica sacra; l’esigenza da più parti manifestata<br />
di ripensarne la presenza anche nell’ambito delle forme<br />
attuali della liturgia; la possibilità di connetterla con la<br />
possente rilevanza delle arti sacre figurative e architettoniche;<br />
e altresì con l’offerta culturale della città: tutto questo<br />
induce a pensare che si potrebbe ben dare vita ad un festival<br />
di musica sacra capace di mettere in evidenza aspetti più sobri<br />
ed elevati della possibile fruizione del patrimonio storico<br />
di <strong>Venezia</strong> di quanto attualmente non avvenga. ◼<br />
in vetrina 67
68<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
Il provetto stregone<br />
Mario Bortolotto<br />
e le vie della musicologia (6)<br />
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini<br />
Capita sovente che, giunti ormai a uno stadio<br />
molto avanzato di un progetto, di un’impresa,<br />
spunti dal niente un dato, un’informazione, un<br />
dettaglio, che illumina di nuova luce il cammino<br />
percorso e da percorrere, induce a ripensare il già fatto,<br />
imprime un nuovo indirizzo al da farsi. Questa nostra indagine<br />
intorno alla musicologia italiana e internazionale<br />
dell’ultimo cinquantennio a partire dalla produzione critica<br />
di Mario Bortolotto non è propriamente giunta a conclusione:<br />
mancherebbero all’appello svariati interventi (su Richard<br />
Strauss, sui<br />
compositori russi<br />
dell’Ottocento<br />
e del primo Novecento,<br />
sulla Nuova<br />
musica: argomenti<br />
tutti oggetto di<br />
ricerche svolte dal<br />
Nostro; sul suo lavoro<br />
come critico<br />
musicale in quotidiani<br />
e periodici,<br />
sul suo stile letterario,<br />
ecc.). Come<br />
però certo saprete,<br />
dal prossimo<br />
numero «<strong>Venezia</strong>-<br />
Musica e dintorni»<br />
cambia editore,<br />
impostazione,<br />
contenuti, e può<br />
anche darsi che del<br />
tutto legittimamente<br />
i nuovi promotori<br />
non siano<br />
interessati a proseguire<br />
nell’esame<br />
delle anse, dei promontori, delle vie maestre, dei meandri, dei<br />
misteri, delle ambiguità, delle intuizioni, delle scoperte proprie<br />
a una disciplina ormai adulta e tutt’altro che stagnante o<br />
paludata. Nel qual caso, cercheremo una soluzione alternativa;<br />
nel frattempo sia però resa grazia a Leonardo Mello e alla<br />
redazione tutta del nostro amato bimestrale.<br />
Ebbene, proprio adesso che l’avventura si avvia forse alla fine,<br />
in una recensione (capitatami per caso tra le mani) a Consacrazione<br />
della casa, la raccolta di saggi sul teatro in musica<br />
comparsa nell’82 presso Adelphi, rinvengo una definizione<br />
di Bortolotto che più appropriata non si può: la si deve (stavo<br />
per scrivere: ovviamente) ad Alberto Arbasino e la si poté<br />
leggere sull’«Espresso». Chi è dunque Bortolotto? «L’infido<br />
maestro insostituibile». Titolo oltretutto imperfettibile<br />
per questo progetto editoriale, ad averlo scoperto prima. Sarà<br />
per un’altra (speriamo prossima) volta.<br />
Intanto, un rendiconto e un bilancio su un’attività a prima<br />
vista secondaria nell’iter umano e professionale di un uomo<br />
1. L’originale è conservato nel Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus<br />
internazionale di musica, Latina.<br />
2. Gianni Cesarini, Bortolotto lascia l’Orchestra Rai, «Il mattino», XCVI/305,<br />
3 novembre 1987.<br />
votato specialmente alla speculazione intellettuale (non conosco<br />
molti lettori altrettanto incalliti e onnivori). In effetti,<br />
tra gli studiosi e i critici puri non è comune la disponibilità<br />
a «sporcarsi le mani» nella palude dell’organizzazione artistica:<br />
si possono ricordare i casi di Loris Azzaroni (un breve<br />
incarico al Comunale di Bologna), di Fedele d’Amico (Maggio<br />
musicale fiorentino 1985), di Claudio Gallico (Festival di<br />
Sabbioneta), di Giorgio Pestelli (un mandato all’Orchestra<br />
rai di Torino), e pochissimi altri. Ma ecco che Ennio Speranza<br />
(specialista di Britten e di musica strumentale italiana tra<br />
xix e xx secolo, chitarrista, narratore, drammaturgo, docente<br />
al Conservatorio di Frosinone) ci squaderna dinanzi agli occhi<br />
venticinque anni abbondanti di teoria e pratica della programmazione,<br />
da Bortolotto esercitata a più livelli, in luoghi<br />
e àmbiti diversi (teatri d’opera esclusi): s’inizia nel 1969<br />
con una Rassegna del pianoforte contemporaneo a Bergamo<br />
e Brescia (già l’anno prima l’imminente direttore artistico<br />
interpella per lettera Goffredo Petrassi chiedendogli<br />
espressamente di comporre un nuovo brano per tastiera: invano)<br />
1 e si finisce nel ’96 a Roma con i consigli elargiti alle dame<br />
dell’<strong>Euterpe</strong> (ma vale la pena di ricordare una recentissima<br />
appendice: il ciclo pianistico «suggerito» a Giorgio Ferrara<br />
per il Festival dei due mondi 2012). La collaborazione<br />
più lunga, sfaccettata e proficua resta quella con l’Orchestra<br />
Scarlatti di Napoli (1977-1987): per la caccia alle rarità, certo<br />
(Giorgio Pestelli, nel commentare Dopo una battaglia. Origini<br />
francesi del Novecento musicale – Adelphi, Milano 1992<br />
– attirò l’attenzione sull’abbondanza di spunti che il volume<br />
offriva a un direttore artistico curioso, dimenticando però di<br />
avvertire che Bortolotto li aveva già sperimentati quasi tutti<br />
in proprio), ma anche per la scoperta di nuovi talenti direttoriali<br />
(Bruno Moretti, Daniel Oren), per la capacità di persuadere<br />
artisti affermati a saggiare vie nuove (Gavazzeni). A conclusione<br />
del mandato decennale così Bortolotto riassumeva<br />
la sua permanenza sotto il Vesuvio: «Ho approfondito la conoscenza<br />
del repertorio e sono stato bene a Napoli. Ho anche<br />
imparato a mangiare la mozzarella […]. Non c’è mica molto<br />
altro [sottinteso: di buono a Napoli]» 2 . ◼<br />
Mario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).
Mario Bortolotto<br />
organizzatore musicale<br />
Non posso certo dirmi un «bortolottiano perfetto»,<br />
benché abbia «letto tutti i libri» suoi –<br />
non proprio tutti, diciamo quasi tutti, tenendo<br />
sommamente in considerazione il saggio su Petrassi<br />
1 , fonte per me di continua ispirazione, e i due volumi su<br />
musica francese e russa 2 . Mai ho avuto la fortuna di frequentare<br />
Mario Bortolotto né di confrontarmi con lui, né di essergli<br />
conoscente o amico, com’era il caso di molti tra i relatori<br />
al convegno di Latina del 2007. Anzi, per essere più preciso<br />
e spudoratamente autobiografico, la mia viva frequentazione<br />
assume i connotati della singolarità. Ero infatti a Perugia<br />
il 28 settembre 1994, per assistere a una messinscena della<br />
Orleanskaja Deva (Pulzella d’Orleans) di Čajkovskij. Dopo<br />
lo spettacolo, all’uscita del teatro, invitato a cena da un amico,<br />
vengo presentato a Mario Bortolotto. Mi ero laureato due<br />
anni prima,<br />
ero più giovane<br />
e non<br />
troppo sveglio,<br />
e, avendo<br />
letto alcune<br />
sapide<br />
ardue trattazioni<br />
di<br />
Bortolotto,<br />
mi ero fatto<br />
di lui un’idea<br />
ben granitica,solida,<br />
quindi<br />
errata. Credo<br />
fossimo<br />
in quattro,<br />
non di più:<br />
ci siamo avviati<br />
nella<br />
notte vagando alla ricerca di un luogo in cui mangiare, ma<br />
più giravamo più il fato remava contro di noi facendoci raggiungere<br />
una selva di ristoranti sprangati. Nel frattempo, comunque,<br />
Mario Bortolotto ci e mi deliziava con commenti<br />
sull’opera, giudizi arguti su Čajkovskij, condendo il tutto<br />
con gustosi motti e considerazioni salaci. Infine, l’unico<br />
ristorante aperto nei paraggi si rivelò una pizzeria del tutto<br />
improbabile, ipergiovanilistica, decisamente fuori luogo<br />
per una tranquilla conversazione musicale: luci sparate, musica<br />
techno pop ad alto volume e, soprattutto, ingombranti<br />
affreschi alle pareti, nei quali erano raffigurati degli implacabili<br />
Astérix, Obélix e persino Idéfix, il cane di Obélix, alle<br />
prese con singolari pizze capricciose o margherite. Insomma,<br />
i nostri discorsi – e i nostri abiti – divergevano completamente<br />
dal luogo in cui ci trovavamo, anche se pian piano<br />
trovammo il modo di adattarci, visto che ancor oggi ricordo<br />
quella nottata come uno dei più divertenti dopo teatro<br />
che abbia mai trascorso. In quell’occasione mi fu rovesciata<br />
addosso una tale quantità di boutades che rimpiango di non<br />
aver avuto con me un piccolo registratore: Bortolotto vatici-<br />
Georg Philipp Telemann.<br />
Francesco Manfredini.<br />
Luigi Boccherini.<br />
di Ennio Speranza<br />
nò scherzosamente, ma non troppo di un’esemplare «fase<br />
terza», di cui non parlerò nemmeno sotto tortura. Racconto<br />
queste amenità anche per ribadire la mia invidia nei confronti<br />
di chi, con ben altra profondità e diuturnità, ha potuto<br />
e può frequentare le opinioni concrete e pulsanti di Mario<br />
Bortolotto, ma soprattutto per avvalorare un certo grado di<br />
superficialità del mio intervento. Mi piacerebbe in qualche<br />
modo perorare la causa della superficialità: alle volte la «superficie»<br />
può raccontarci cose interessanti tanto quanto la<br />
«profondità», e credo che per discettare su alcuni fenomeni<br />
si debba non solo scavare, ma contemplare ciò che accade a<br />
livello del suolo, «vedere l’effetto che fa» – dopo Mallarmé,<br />
Jannacci: un effetto della liquidità contemporanea.<br />
Prendiamo allora in considerazione un’attività come quella<br />
dell’organizzazione musicale e soprattutto della direzione<br />
artistica: è un lavoro in cui più di altri ci si sporca le mani, in<br />
cui si viene a patti con il compromesso, in cui si deve purtroppo<br />
essere capaci di colpi a cerchi, botti e quant’altro, soprattutto<br />
in un Paese difficile come l’Italia. Ma è altresì un lavoro<br />
che consente di verificare delle intuizioni, di portare a esiti<br />
pratici dei ragionamenti, di consegnare a un pubblico l’esecuzione<br />
di musica in cui si crede o che si ritiene «giusto» che<br />
il pubblico conosca. Una questione di superficie, appunto: da<br />
un lato si scava, si studia, si analizza, si distingue, si concettualizza,<br />
dall’altro ci si può sbizzarrire e si può fare in modo<br />
che un repertorio, un gruppo di composizioni o un singolo<br />
brano musicale venga effettivamente ascoltato, valutato, apprezzato<br />
o rifiutato. È innegabile che la musica vada prima<br />
di tutto, oppure diciamo soprattutto ascoltata; e si perdoni<br />
la banalità dell’asserto. E per uno studioso così magmatico,<br />
turbinoso, curioso, amante della liminarità, di rivoli poco<br />
battuti tanto quanto di fiumi di ampia portata, poter organizzare<br />
stagioni concertistiche dev’essere stata una grande<br />
sfida, forse un bel divertimento, di là dalle ineschivabili<br />
rogne e delle innumerevoli «gatte da pelare», che certo in<br />
simili occasioni non mancano mai. Non conoscendo le vicende,<br />
le modalità, le circostanze in cui tali compiti furono<br />
espletati e non avendo informazioni di prima mano, e nemmeno<br />
volendo scadere nell’aneddotica o nella chiacchiera,<br />
non posso che rivolgermi alla «superficie», ossia alla collana<br />
di programmi che ho potuto consultare. Non importa cosa<br />
li ha prodotti, quali situazioni, difficoltà o magari polemiche<br />
ci furono dietro: mi piacerebbe constatare se mettendo<br />
in fila tali programmi sia possibile cogliere delle ricorrenze,<br />
dei motivi principali e secondari, o semplicemente registrare<br />
quello che i frequentatori di un’istituzione musicale han-<br />
Il provetto stregone 69
70<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
no ascoltato grazie a un impegno che presupponeva dei ragionamenti,<br />
delle linee di tendenza, dei gusti, delle opportunità,<br />
forse anche una diversità di approccio rispetto alle predilezioni<br />
e alle posizioni critiche – invero tante e altamente<br />
motivate, talvolta in controtendenza con opinioni diffuse o<br />
sin troppo docilmente accettate – che è possibile attribuire a<br />
Bortolotto attraverso la lettura dei suoi saggi.<br />
Il Nostro ha dapprima contribuito, insieme a Camillo Togni,<br />
alla programmazione artistica d’una rassegna a latere<br />
del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo,<br />
rassegna dedicata alla musica pianistica contemporanea che<br />
fu varata sei anni dopo l’avvio del festival vero e proprio, ossia<br />
nel 1969. E questo per diversi anni, almeno sino al 1977.<br />
Quindi, Bortolotto è stato direttore artistico dell’Orchestra<br />
«Alessandro Scarlatti» di Napoli della rai dal 1977<br />
al 1987 e dell’Associazione musicale <strong>Euterpe</strong> di Roma dal<br />
1990 al 1996 (benché in forma non ufficiale). Tre lunghe,<br />
considerevoli porzioni di tempo, in cui è sicuramente possibile<br />
rintracciare delle direttrici.<br />
Per quanto riguarda le rassegne inserite nel Festival pianistico<br />
di Brescia e Bergamo, essendo queste dedicate alla musica<br />
cosiddetta contemporanea, alla Nuova musica del se-<br />
condo Novecento, è difficile individuare una precisa scelta<br />
di campo: tutti i compositori più o meno rappresentativi di<br />
quegli anni vi hanno fatto la loro comparsa, nel segno però,<br />
come sostenuto allora da Bortolotto, di un’opposizione ai comuni<br />
festival che si presentavano «senza eccezioni all’insegna<br />
dell’anonimia e del casuale affastellamento» 3 . Vi è da<br />
dire che, pur componendo programmi filigranati e vari, in<br />
cui sono presenti esponenti delle più disparate tendenze, i<br />
singoli concerti possiedono un impianto fortemente coeso e<br />
ricco di risonanze interne. Invece, a una prima rapida scorsa<br />
dei cartelloni napoletani riportati dalla «Nuova rivista musicale<br />
italiana» – spesso sotto forma di rapide segnalazioni<br />
o di stringate recensioni collettive – è possibile notare come<br />
la programmazione sembra essere una diretta conseguenza<br />
dell’idea per cui la storia della musica sia intreccio di relazioni,<br />
labirinto da districare, mescolanza non casuale di tendenze<br />
e personaggi, non museo granitico di soli padri fondatori.<br />
Oggi questa tendenza, anche in musicologia, è ovvia, direi<br />
patente, ma una trentina di anni fa lo era assai meno.<br />
Così, già nella prima stagione che vede la direzione artistica<br />
di Bortolotto, quella del 1977, appare lampante la volontà<br />
di ampliare lo spettro delle proposte mediante tre azioni programmatiche<br />
che lasciano trasparire posizioni critiche ben<br />
ponderate: a) i capolavori riconosciuti e amati non vengono<br />
fuori dal nulla, ma prendono vita da ciò che gira loro intorno,<br />
spesso trascendendo il contesto storico-sociale-geografico<br />
in cui nascono. Mi sia consentita a questo punto la licenza<br />
di una citazione: «Se si vuole conoscere un Paese occorre<br />
frequentare gli scrittori minori, i soli che ne riflettano la vera<br />
natura. Gli altri denunciano o trasfigurano le nullità dei<br />
loro compatrioti: non vogliono e non possono mettersi sullo<br />
stesso piano. Sono testimoni sospetti» 4 . Questa frase è frutto<br />
dell’intelligenza e del gusto per il paradosso dello scrittore<br />
franco-romeno Emil Cioran 5 e, a mio parere, esprime una indubitabile<br />
verità. La stessa cosa può dirsi per i musicisti. Ogni<br />
tanto frequentare i presunti minori può essere utile, oppure,<br />
ancora meglio, metterli in parallelo con i presunti maggiori:<br />
si scopriranno relazioni, false relazioni, affinità, moti paralleli<br />
o contrari, divergenze, e la realtà di un clima, di un ambiente<br />
non potrà che venire fuori con una maggiore intensità prismatica;<br />
b) la perla rara, il bravo figlio dimenticato, non è infrequente,<br />
anche nei compositori più noti e saccheggiati. Perché<br />
non mettere in condizione il pubblico di conoscere tali<br />
reietti e di goderseli? Ancora un esempio personale: nutro<br />
una passione speciale per un breve brano di Čajkovskij datato<br />
1884, l’Elegia in sol maggiore per orchestra d’archi dedicata<br />
a Ivan<br />
Va s i l ’e v i č<br />
Samarin, attore<br />
e regista<br />
dal musicistasommamenteapprezzato.<br />
È un pezzo<br />
patetico<br />
e incantevole<br />
che purtropposinora<br />
non sono<br />
mai riuscito<br />
ad ascoltare<br />
dal vivo<br />
(e che neancheBortolotto<br />
mi risulta<br />
abbia<br />
mai programmato); c) la musica d’oggi deve contare su spazi<br />
propri ed essere presentata in concerti dalla forte coerenza<br />
interna (e questo, oltre che al Festival di Bergamo e Brescia,<br />
accadde anche a Taormina nel 1975 6 , poi a Napoli all’inizio<br />
del mandato, tramite l’istituzione di un breve festival intitolato<br />
«Nuova Musica e oltre», che, pur non avendo avuto vita<br />
durevole, presentò un ampio ventaglio di musiche e musicisti),<br />
ma deve essere altresì incistata con cura in una programmazione<br />
più varia, tale da evitare il ghetto, la sin troppo<br />
pericolosa aura del concerto per addetti ai lavori, e da meglio<br />
mettere in evidenza i nessi tra chi è venuto prima e chi dopo.<br />
Prendiamo alcuni concerti dalla prima stagione e notiamo,<br />
per esempio, una serata che unisce la Sinfonia in do minore<br />
n. 95 (1791) di Haydn alla March for the Royal Society of Musicians<br />
(1792) dello stesso, la Sinfonia concertante K. 297 di<br />
Mozart a un Concerto in re maggiore di Francesco Manfredini<br />
(1680 ca-1748 ca); oppure un altro appuntamento in cui<br />
Mozart (la Gran partita K. 361) viene affiancato da Hummel,<br />
e Vivaldi da Telemann. Per quanto riguarda specificamente<br />
il primo punto possiamo citare un concerto del 22 ot-<br />
Jan Křtitel Václav Kalivoda.<br />
Karl Amadeus Hartmann.<br />
Jean Claude Risset.
tobre 1982, che vede il Concerto per pianoforte e orchestra<br />
K. 488 di Mozart preceduto da una sinfonia di August Carl<br />
Ditters von Dittersdorf (in do maggiore, Die vier Weltalter,<br />
ossia «Le quattro età del mondo», la prima delle sinfonie<br />
sulle Metamorfosi di Ovidio) e, prima, le Quattro danze dal<br />
Don Juan di Gluck emergere dopo la Serenata in do maggiore<br />
dal Concentus musico-instrumentalis di Johann Joseph Fux.<br />
Il concerto seguente, 29 ottobre ’82, affermerà gli stessi princìpi:<br />
Sinfonia K. 161 di Mozart, Sinfonia concertante per<br />
flauto, oboe e orchestra di Ignaz Moscheles, Adagio, Tema<br />
e Variazioni op. 102 per oboe e orchestra di Hummel e una<br />
Sinfonia del men che celebre violinista e compositore boemo<br />
Jan Křtitel Václav Kalivoda (Praga 1801-Karlsruhe 1866).<br />
Lavori insoliti fanno capolino inaspettatamente, ma organicamente,<br />
in locandine in cui non mancano riconosciuti capolavori:<br />
Mozart, Concerto per pianoforte K. 595, Serenata<br />
notturna n. 6 in re maggiore K. 239, Serenata per archi op.<br />
58 di Čajkovskij, il poema sinfonico Kikimora op. 63 di Anatolij<br />
Konstantinovič Ljadov (Pietroburgo 1855-Novgorod<br />
1914): è questo un programma della stagione 1978-1979, stagione<br />
che accolse la prima esecuzione italiana della Sinfonia<br />
(già Sonatina) in mi bemolle maggiore di Richard Strauss<br />
a s s i e m e<br />
al più notoConcerto<br />
per oboe<br />
e orchestra<br />
(e al Concerto<br />
per<br />
oboe e violino<br />
in do minore<br />
BWV<br />
10 6 0R d i<br />
J.S. Bach).<br />
Naturalmente<br />
non<br />
mancano,<br />
anzi abbondano,<br />
i concertimono<br />
g r a f ici:<br />
sempre nella<br />
stagione<br />
d’esordio ne contiamo di dedicati a Boccherini, a Weber e<br />
a Stravinskij; e in seguito, cito fra i tanti, a Franz Berwald<br />
(1978), a Gabriel Fauré (1979) 7 , a Samuel Barber (1980), a<br />
Max Reger (1981). Ma anche quando le monografie saranno<br />
meno temerarie – dedicate, per esempio, a Strauss o a Mozart,<br />
– la pagina poco o nulla ascoltata, la pagina sottovalutata<br />
non mancherà di fare capolino.<br />
Sempre nella stagione 1978-1979 viene presentata in sei serate<br />
l’integrale dei pezzi per pianoforte e orchestra dell’amato<br />
Camille Saint-Saëns, credo per la prima e unica volta in<br />
Italia, ma vi sono anche appuntamenti riservati solo a Mario<br />
Zafred, Bruno Bettinelli, Nino Rota 8 . Nel 1980, quale corollario<br />
a una mostra sul Settecento napoletano promossa dalla<br />
soprintendenza ai Beni culturali, il cartellone incluse cinque<br />
concerti esplicitamente collegati all’esposizione: se oggi un<br />
interesse così pronunciato a pagine ignote o quasi di Giordani,<br />
Leo, Paisiello, Sacchini, Alessandro Scarlatti può risultare<br />
per nulla innovativa, oltre trent’anni fa le cose non dovevano<br />
essere così pacifiche, anche perché le occasioni per ascoltare,<br />
persino su disco, tale musica se non mancavano del tutto<br />
Ada Gentile.<br />
Marcella Mandanici.<br />
Emanuel Nunes.<br />
certo erano assai risicate. Il ciclo prevedeva, tra l’altro, la Sinfonia<br />
di concerto grosso n. 5 di Alessandro Scarlatti, la Sinfonia<br />
funebre di Paisiello (scritta su invito di Napoleone per<br />
commemorare la morte del generale Louis Lazaire Hoche e<br />
riutilizzata nel 1799 per la scomparsa di Pio VI!), l’intermezzo<br />
Fra’ Donato di Antonio Sacchini, un intero concerto dedicato<br />
a Domenico Cimarosa: l’ouverture dei Traci amanti,<br />
un Concerto in sol per due flauti e orchestra e l’assai più noto<br />
Maestro di cappella. Primizie e bizzarrie, pagine inusuali<br />
o dimenticate, costellavano del resto anche gli incontri musicali<br />
ideati da Bortolotto per il Festival dei due mondi a Spoleto<br />
tra il 1979 e l’inizio del decennio successivo.<br />
Per quanto riguarda la musica del secondo Novecento, abbiamo<br />
già accennato al festival «Nuova Musica e oltre», che<br />
presentò innumerevoli pagine fresche di stampa o giù di lì<br />
accanto a grandi numi tutelari: citiamo la tappa iniziale della<br />
prima rassegna, dedicata ad Anton von Webern, e poi un<br />
concerto monografico su Schoenberg 9 ; ma in seguito furono<br />
ascoltate musiche di Pennisi, Ferrero, Clementi, Canino,<br />
Robert Mann, Sciarrino, Takemitsu, Ives, Stockhausen,<br />
Feldman, Kagel, Varèse, Boulez, Cage, Christian Wolff, Togni,<br />
Luis de Pablo, Bussotti, ecc., in programmi spesso ar-<br />
ticolati su tematiche ben precise o su affinità tra gli autori;<br />
ma anche nella stagione concertistica ufficiale numerosi sono<br />
stati i contatti con i compositori novecenteschi di tutte<br />
le tendenze. Si succedono così le serate monotematiche su<br />
Giorgio Federico Ghedini, Guido Turchi, Hans Werner<br />
Henze, Mario Zafred (stagione 1977), Hindemith (26 novembre<br />
1982), ancora Henze (23 dicembre 1983), Karl Amadeus<br />
Hartmann (20 aprile 1984), ma anche intriganti binomi<br />
o trinomi: nel 1981, il 6 febbraio Franz Schreker (Intermezzo<br />
op. 8 per archi; Kammersymphonie) e Handel/Schoenberg<br />
(Concerto per quartetto d’archi e orchestra del 1933,<br />
che ascoltato a bruciapelo potrebbe far pensare a Stravinskij),<br />
il 15 maggio Kurt Weill (Concerto per violino e strumenti<br />
a fiato op. 12), Luigi Nono (Incontri per 24 strumenti) e Arnold<br />
Schoenberg (Kammersymphonie n. 2 op. 38); il 16 dicembre<br />
1983, Luis De Pablo (Latidos; Concerto per clavicembalo,<br />
una versione del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra<br />
preparata appositamente per la Scarlatti su richiesta<br />
di Bortolotto), Aldo Clementi (Sinfonia da camera), Tomás<br />
Marco (Concierto de Alma per violino e archi); il 30 marzo<br />
1984, Schumann (Introduzione e Allegro appassionato<br />
op. 92 per pianoforte e orchestra), Schubert (Sinfonia in si<br />
minore n. 8 Incompiuta), Schumann trascritto da Adorno<br />
(Kinderjahr, sei pezzi dall’Album für die Jugend op. 68) e<br />
Il provetto stregone 71
72<br />
Mario Bortolotto e le vie della musicologia<br />
Schubert trascritto da Webern (cinque Lieder).<br />
Naturalmente con minori mezzi economici a disposizione<br />
e in un diverso contesto come quello dell’Associazione <strong>Euterpe</strong><br />
di Roma, Bortolotto, volgendosi quasi esclusivamente<br />
alla musica da camera, cerca comunque di compiere un percorso<br />
simile, privilegiando l’alternanza di composizioni conosciute<br />
a brani di più raro ascolto, oppure elaborando programmi<br />
che prevedano accostamenti magari inediti, ma congrui.<br />
Pochissimi esempi dal 1990: 8 febbraio, Boulez (Sonatina<br />
per flauto e pianoforte), Ravel (Chansons madecasses;<br />
Habanera), Debussy (Syrinx; Sonata per flauto, arpa e viola;<br />
En blanc et noir); 5 aprile: monografia su Chopin (Studi<br />
op. 10 e op 25, ma anche i tre Studi per il metodo Moscheles-<br />
Fétis); 10 maggio: Franck (Preludio, Aria e Finale), Alkan<br />
(Sinfonia per pianoforte solo), Ravel (Miroirs). Oppure vi sono<br />
serate dedicate a musicisti contemporanei, come quella<br />
in onore di Petrassi del 4 maggio 1994, mentre il 15 gennaio<br />
1991 un concerto con un organico non comune, flauto chitarra<br />
clavicembalo, prevede, nella seconda parte, alcuni pezzi<br />
per tastiera di Rameau, la Sonata in si minore per flauto e b.c.<br />
BWV 1030 di Bach, e, nella prima parte, brani per chitarra<br />
e flauto di Ada Gentile (Quick Moments), Marcella Manda-<br />
nici (Counterparts II), Iván Vándor (Esquisse en noir), Francesco<br />
Pennisi (Méliès, da Esequie della luna), Giuseppe Soccio<br />
(Lisar: a solo d’insieme per flauto basso e chitarra), infine<br />
un brano di Čajkovskij, la Ninna nanna op. 16 n. 1, trascritta<br />
da Aldo Clementi per flauto contralto, celesta e chitarra.<br />
Il 31 ottobre 1991 flauto e clavicembalo alternano sapientemente<br />
musica di contemporanei a maestri dell’età barocca: a<br />
Grund per flauto e nastro magnetico (1984) di Emanuel Nu-<br />
1. Mario Bortolotto, Il cammino di Goffredo Petrassi,<br />
«Quaderni della Rassegna musicale», 1,<br />
1964 (L’opera di Goffredo Petrassi), pp. 11-79.<br />
2. Id., Dopo una battaglia. Origini francesi del<br />
Novecento musicale, Adelphi, Milano 1992<br />
(«Saggi. Nuova serie», 9); Id., Est dell’Oriente.<br />
Nascita e splendore della musica russa, Adelphi,<br />
Milano 1999. («Saggi. Nuova serie», 33).<br />
3. Mario Messinis, Da Brescia – Il festival internazionale<br />
pianistico dedicato a Schumann – La<br />
prima rassegna di musica pianistica contemporanea<br />
– I «February pieces» di Cornelius Cardew,<br />
«Nuova rivista musicale italiana», III/4, luglioagosto<br />
1969, pp. 740-743: 741.<br />
4. Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati,<br />
traduzione italiana di Luigia Zilli, Adelphi, Mi-<br />
lano 1991 («Biblioteca Adelphi», 243), p. 102;<br />
ed. or. De l’inconvénient d’être né, Gallimard,<br />
Paris 1973 («Les essais», 186).<br />
5. Tra l’altro ricordo che Mario Bortolotto è stato<br />
splendido traduttore di una delle ultime fatiche<br />
di Emil Cioran, ossia Confessioni e anatemi,<br />
Adelphi, Milano 2007 («Biblioteca Adelphi»,<br />
<strong>51</strong>5); edizione originale Aveux et anathèmes,<br />
Gallimard, Paris 1987 («Arcades»).<br />
6. Nell’ambito dell’Estate musicale di Taormina,<br />
XIV Festival internazionale, 2-10 agosto<br />
1975, si tenne un seminario di studi musicali sul<br />
tema «Il pianoforte oggi» a cura di Mario Bortolotto<br />
(con concerti dal 2 agosto al 7 agosto).<br />
7. Ne parla Fedele d’Amico, Che gioia, è un tipo<br />
da salotto (4 maggio 1980), in Id., Tutte le crona-<br />
nes seguono brani di François Couperin; al Cassandra’s Dream<br />
Song per flauto solo (1970) di Brian Ferneyhough succede<br />
la Sonata 4 dall’op. 20 per flauto e clavicembalo di Michel<br />
Corrette; dopo Les Tourbillons per flauto e clavicembalo<br />
di Fabrizio De Rossi Re è la volta di Jean-Philippe Rameau<br />
(dal Primo libro delle Pièces de clavecin: Preludio, Allemanda,<br />
Corrente, Sarabanda, Giga); Passages per flauto e nastro<br />
magnetico (1982) di Jean Claude Risset precede la Sonata in<br />
la BWV 1032 di Bach.<br />
Potrei naturalmente continuare su questo tono elencando<br />
altri concerti e autori, ma credo che, seppur superficialmente,<br />
i contrassegni illustrati risultino piuttosto chiari. Riguardo<br />
invece alle concordanze ovvero divergenze del Bortolotto<br />
studioso dal Bortolotto organizzatore, se da una parte è<br />
innegabile la funzione propedeutica svolta da alcune scelte<br />
in vista delle due grandi monografie apparse negli anni novanta<br />
(sulla musica in Francia e in Russia tra Ottocento e<br />
primo Novecento), dall’altra mi sembra che certa granitica<br />
impostazione del suo pensiero critico non trovi riscontro in<br />
un’offerta di nomi, scuole, opere ed epoche oltremodo ampia,<br />
anche a tener conto dell’organico da camera dell’Orchestra<br />
Scarlatti e della sua vocazione al repertorio preclassico e<br />
classico.<br />
Vorrei alloraconcludere,<br />
senza<br />
che ciò appaiapiaggeria,<br />
dicendo<br />
che mi piacerebbeoggiascoltare<br />
quei concerti<br />
o almeno<br />
tipologie<br />
di concerto<br />
simili, e seguirestagioni<br />
tanto doviziose<br />
e rifinite.<br />
Mi piacerebbealtresì,<br />
da parte<br />
di più o meno auguste istituzioni musicali, un poco di curiosità<br />
in più. Insomma, mi aspetto, prima o poi, di ascoltare<br />
dal vivo la mia amata Elegia di Čajkovskij. Chissà, forse non<br />
sono l’unico. ◼<br />
François Couperin.<br />
Michel Corrette.<br />
Fabrizio De Rossi Re.<br />
che musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a<br />
cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione<br />
di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de<br />
Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni,<br />
Roma 2000, III (1979-1989), pp. 1805-1808.<br />
8. In proposito si legga: Id., Lo sventurato non<br />
firmò (7 gennaio 1979), ivi, pp. 1675-1678: 1676.<br />
9. Al pianoforte di Schoenberg era stata dedicata<br />
la terza Rassegna di musica contemporanea:<br />
Messinis, Da Brescia – L’ottava edizione del Festival<br />
pianistico internazionale di Brescia e Bergamo<br />
dedicata a Liszt e al suo tempo – La rivelazione<br />
del sovietico Lazar Berman Una importante<br />
rassegna schoenberghiana, «Nuova rivista<br />
musicale italiana», V/4, luglio-agosto 1971, pp.<br />
679-681: 680-681.
Le recensioni<br />
di Giuseppina La Face Bianconi<br />
Gloria Staffieri, musicologa romana, affronta<br />
una sfida davvero ambiziosa: tracciare un profilo<br />
complessivo della storia dell’opera italiana in tre<br />
volumi Carocci destinati a Università e Conservatori,<br />
ma anche ai melomani colti. Il secondo e il terzo sportello<br />
del trittico avranno uno sviluppo cronologico (Sei-Settecento<br />
e Otto-Novecento, fino alla Turandot di Puccini: dopo<br />
di che si fanno ancora delle opere in Italia ma l’opera italiana<br />
in quanto genere coerente tramonta).<br />
Il volume introduttivo – il solo<br />
finora uscito – ha invece impianto<br />
sistematico e tematizza i caratteri costitutivi<br />
del genere, osservati e comparati<br />
sincronicamente anziché diacronicamente.<br />
Il titolo, Un teatro tutto<br />
cantato, punta immediatamente sulla<br />
specificità essenziale di questa stupenda<br />
invenzione italiana, comparsa<br />
a Firenze sullo scorcio del Cinquecento<br />
e diffusasi in tutto il globo. Staffieri<br />
riconosce la costituzione pluridimensionale<br />
del teatro d’opera ma non esita<br />
ad affermare la «centralità della musica»:<br />
la drammaturgia operistica si<br />
fonda infatti sulla «forza attrattiva»<br />
che la musica, in primis il canto, «è in<br />
grado di esercitare sul testo verbale»;<br />
parole e musica, a loro volta, intrecciano<br />
un rapporto complesso con la dimensione<br />
scenica, in una «gerarchia<br />
a polarità variabili», in un «sofisticato<br />
contrappunto di codici e di messaggi».<br />
Nella seconda metà del volume<br />
Staffieri delinea i tratti generali delle<br />
strutture formali di base dell’opera<br />
italiana: Ad onta delle cento varianti,<br />
si constatano persistenze significative,<br />
nel rapporto tra ritmo poetico e frase<br />
musicale come nello spicco dei moduli<br />
d’«intonazione vocale». Il manuale,<br />
ricco di spunti, ben argomentato,<br />
criticamente aggiornato, getta salde<br />
basi concettuali per il disegno storico<br />
che seguirà.<br />
L’Edizione nazionale delle opere di<br />
Giacomo Puccini, che prevede la pubblicazione<br />
delle partiture, dell’epistolario<br />
e delle mises en scènes, decolla<br />
da quest’ultima sezione. Michele<br />
Girardi, puccinista di lungo corso, associato<br />
nella Facoltà di Musicologia<br />
dell’Università di Pavia-Cremona,<br />
presenta l’edizione critica della messinscena<br />
che Albert Carré, il direttore<br />
dell’Opéra-Comique, realizzò d’intesa col musicista per<br />
la «prima» francese della Madame Butterfly nel dicembre<br />
1906, protagonista la moglie di Carré, Marguerite. L’iniziativa<br />
è propizia: nell’èra delle regìe «trasgressive» lo studioso<br />
e il melomane hanno così modo di ricostruire mentalmente<br />
l’aspetto e la dinamica di uno spettacolo sontuoso, che fu<br />
concepito sotto lo sguardo vigile e partecipe di Puccini, arrivato<br />
due mesi prima a Parigi. La documentazione consiste<br />
Gloria Staffieri, Un teatro tutto cantato.<br />
Introduzione all’opera italiana,<br />
Roma, Carocci, 2012, 191 pp.,<br />
isbn 978-88-430-6576-9, 17 euro.<br />
Giacomo Puccini, «Madama Butterfly»:<br />
mise en scène di Albert Carré,<br />
edizione critica di Michele Girardi,<br />
Torino, edt, 2012<br />
(«Edizione nazionale delle opere di Giacomo Puccini.<br />
Livrets de mise en scène e disposizioni sceniche», 4),<br />
xii-215 pp., isbn 978-88-6040-521-0, 39 euro.<br />
Giulia Giachin, Il viandante e il tramonto.<br />
Mozart e le fonti del Lied romantico,<br />
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012<br />
(«Musica e Letteratura», 12),<br />
xii-224 pp., isbn 978-88-6274-326-6, 18 euro.<br />
Elisabetta Fava, Voci di un mondo perduto.<br />
Mahler e il “Corno magico del fanciullo”,<br />
ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 13),<br />
v-308 pp., isbn 978-88-6274-418-8, 20 euro.<br />
Chiara Garzo, «In a Garden Shady»<br />
All’ombra di un giardino.<br />
Studio su Benjamin Britten,<br />
ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 14),<br />
xiii-115pp., isbn 978-88-6274-422-5, 16 euro.<br />
in una puntuale annotazione manoscritta, mista di parole e<br />
schemi grafici, che battuta per battuta descrive sia l’impianto<br />
scenico sia le posizioni e i movimenti di attori, cori e comparse.<br />
Il curatore l’ha opportunamente corredata dei rinvii al<br />
testo italiano e allo spartito standard:<br />
vediamo dunque idealmente scorrere<br />
– per così dire fotogramma dopo fotogramma<br />
– l’azione scenica e musicale.<br />
In appendice, uno stralcio dei Souvenirs<br />
di Carré, un glossario di termini<br />
scenotecnici e di voci giapponesi, e<br />
il facsimile del libretto francese. Un lavoro<br />
di grande pregio.<br />
Le Edizioni dell’Orso hanno aggiunto<br />
tre titoli alla serie «Musica e<br />
Letteratura», collana cara agli amanti<br />
del Lied. Giulia Giachin, docente di<br />
Storia della musica nel Conservatorio<br />
di Torino, rintraccia nella liederistica<br />
di Mozart i primi germogli e fermenti<br />
di una sensibilità protoromantica: intuizione<br />
plausibile, alla luce della loro<br />
recezione e discendenza. All’altro<br />
estremo della parabola storica, Elisabetta<br />
Fava, ricercatrice nell’Università<br />
di Torino, ricostruisce il profondo<br />
debito ideale di Gustav Mahler nei<br />
confronti della cornucopia originaria<br />
del Lied poetico romantico, la raccolta<br />
Des Knaben Wunderhorn di von Arnim<br />
e Brentano (1805). Chiara Garzo,<br />
docente di scuola secondaria, affronta<br />
infine una selezione ristretta ma squisitissima<br />
di liriche solistiche e corali di<br />
Benjamin Britten: spiccano i sonetti<br />
del poeta barocco John Donne (1945) e l’inno a santa Cecilia<br />
su versi di W.H. Auden (1942). Nelle tre monografie si coglie<br />
l’impronta metodologica e stilistica del magistero universitario<br />
di Giorgio Pestelli, promotore della bella collana. ◼<br />
carta canta — libri 73
74<br />
carta canta — libri<br />
«Forma divina»,<br />
gli scritti<br />
di Fedele d’Amico<br />
di Jacopo Pellegrini<br />
Un libro a lungo invocato, atteso, desiderato: se<br />
ne parlava da oltre un ventennio, da quando cioè<br />
Mario Bortolotto, commemorando in un articolo<br />
la figura di Fedele d’Amico (1912-1990),<br />
sollecitò una raccolta dei suoi programmi di sala, convinto<br />
che ne sarebbe sortita una (quasi) storia dell’opera memoranda.<br />
L’idea accese la fantasia di molti, ma soprattutto si abbarbicò<br />
nella mente di Suso Cecchi d’Amico, vedova del critico<br />
e studioso romano oltre che celeberrima sceneggiatrice cinematografica.<br />
Sempre ella andò rimuginandola, mai si stancò<br />
di patrocinarla presso amici studiosi editori. Anche quando,<br />
nel corso degli anni, maturarono e videro la luce, di d’Amico,<br />
una raccolta di saggi e articoli 1 ; un’antologia di scritti dedicati<br />
al teatro d’opera 2 ; volumi su Rossini 3 e su Puccini 4 ; l’integrale,<br />
in tre tomi, degli articoli scritti per «L’Espresso» 5 ; i<br />
carteggi con Arnheim 6 e con Berio 7 .<br />
La realizzazione di un sogno, il sogno di Suso, l’adempimento<br />
di una preghiera da molti condivisa: ecco cos’è Forma<br />
divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, ottantuno scritti<br />
(sessantanove sul teatro in musica da Gluck a Berio, passando<br />
per Mozart, Beethoven, Rossini, Bellini, Donizetti,<br />
Verdi, Wagner – soltanto Tristan, – Berlioz, Massenet,<br />
Čajkovskij, Musorgskij, Puccini, Schoenberg, Berg, Bartók,<br />
Menotti, Rota e parecchi altri, un intervento dal titolo In<br />
che senso la crisi dell’opera di argomento novecentesco, undici<br />
sulla danza da Adam a Hindemith, Čajkovskij Stravinskij<br />
Falla inclusi) in due tomi di complessive 578 pagine, dovuti a<br />
uno dei «grandissimi musicologi italiani del secondo Novecento»<br />
(così il risvolto di copertina); anzi, se posso azzardare<br />
un parere personale, l’unico della sua generazione, insieme<br />
a Nino Pirrotta, in grado di uscire a testa alta da un eventuale<br />
confronto con i «prodotti» delle scuole germanica e anglosassone<br />
(questione d’idee, certo, ma anche, forse soprattutto,<br />
di metodo). Solo che a differenza di Pirrotta, d’Amico<br />
ha sempre rifiutato per sé la qualifica professionale di musicologo,<br />
preferendo quella di «giornalista, critico musicale»,<br />
ancor oggi leggibile sull’elenco telefonico (recte: Pagine<br />
bianche) di Roma.<br />
E tutto sommato, a questo dono meraviglioso procuratoci<br />
dall’intraprendenza di Giorgio Pestelli (a lui dobbiamo<br />
anche una Prefazione di esemplare limpidezza), dalla lungimirante<br />
liberalità della Fondazione Spinola Banna per l’arte<br />
(che ha sostenuto finanziariamente la stampa dei volumi<br />
presso l’editore Olschki di Firenze), dalla curatela meticolosa,<br />
fin maniacalmente pignola di Nicola Badolato e Lorenzo<br />
Bianconi, maestro e allievo nell’alacre fucina del dams<br />
bolognese: che soddisfazione leggere un libro pressoché privo<br />
di errori, che gioia maligna scovare in pagine così amorosamente<br />
vagliate il refuso sfuggito all’occhio di lince (p. 53,<br />
riga 6: la lingua più che «razionale» sarà «nazionale»; p.<br />
341, riga 8: «1960»); tutto sommato, dicevo, l’unico appunto<br />
che mi sento di poter muovere alla pubblicazione è il ricorso,<br />
nel sottotitolo, alla parola «saggi» in luogo del più neutro<br />
«scritti» (vedi Un ragazzino all’Augusteo, libro ordinato<br />
dall’autore poco prima di morire) o addirittura della locuzione<br />
«programmi di sala» (i testi estranei a questo genere<br />
letterario sono solo quattro). Poiché del saggio, nonostante<br />
l’abile difesa di Pestelli («veri e propri “saggi”, per la solidi-<br />
tà tecnica, la portata effettiva delle idee messe in gioco e la facoltà<br />
tipicamente saggistica di restituire motivi o pretesti intellettuali<br />
in immediatezza di intuizioni e verità di emozioni»),<br />
queste pagine non mi sembrano (voler) esibire né il tono<br />
né l’andamento: troppo incandescente la materia versata<br />
con mano fermissima sulla pagina, troppo polemica e battagliera<br />
la natura dello scrittore per adattarsi al passo austero,<br />
pacato nelle argomentazioni (anche quelle avverse a qualcosa<br />
o qualcuno) ma perentorio nelle conclusioni della tradizione<br />
saggistica. Più della verità vera (cui sempre ambisce la trattatistica<br />
di profilo alto), a d’Amico importa prendere per mano<br />
il lettore, condurlo lungo un percorso da lui accuratamente<br />
Fedele d’Amico,<br />
Forma divina.<br />
Saggi sull’opera lirica e sul balletto,<br />
a cura di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi,<br />
prefazione di Giorgio Pestelli,<br />
Leo S. Olschki editore, Firenze 2012,<br />
due volumi, pp. 580, 54 euro.<br />
predisposto secondo le più ferree leggi della retorica, comunicargli<br />
la maggiore quantità possibile d’informazioni, infine<br />
proporgli una prospettiva ermeneutica, una chiave di lettura,<br />
che vada oltre il giudizio di valore (peraltro non scansato,<br />
come era invece buona regola in ambito accademico: in<br />
Orfeo ed Euridice il quadro dei Campi elisi costituisce «forse<br />
[…] la vetta di tutto Gluck»; per Bohème si parla di «livello<br />
sommo» e di fattura miracolosa), per riportare ogni titolo<br />
a un quadro storico-sociale-artistico più vasto e articolato.<br />
Per d’Amico, molto attento al nesso società-cultura, è però<br />
l’opera d’arte a improntare di sé un’epoca non viceversa (lo<br />
sottolinea anche Pestelli), secondo una prospettiva che fonde<br />
idealismo (più gentiliano che crociano, direi) e materialismo<br />
storico. E la trasmissione dell’essenza (scil. della grandezza)
di un determinato lavoro, esaurita l’esposizione serrata di argomenti<br />
razionali e verificabili, si affiderà di preferenza a un<br />
messaggio emotivo, a una comunicazione simpatetica, alla<br />
complicità tra autore-guida e lettore-discepolo: i famosi finali<br />
«travolgenti» di d’Amico, col loro «effetto-sorpresa»,<br />
di subitanea illuminazione. Scelgo a mo’ d’esempio quello di<br />
Traviata, dove oltretutto la strategia emozionale del coinvolgimento<br />
è apertamente dichiarata: nell’ultimo atto Violetta<br />
«campeggia sola […]. Piuttosto, accanto a lei sentiamo la presenza<br />
nostra, di noi spettatori, chiamati a raccolta da quella<br />
sorta di rullo di tamburi che all’inizio e poi nel corso del suo<br />
ultimo canto gli accordi ribattuti dell’intera orchestra pia-<br />
nissimo vanno evocando; […] [un] muto corteggio; nel quale<br />
volenti o nolenti ci troviamo coinvolti, irrefrenabilmente<br />
commossi. Commossi ancora oggi, pensate un po’, nel bel<br />
mezzo del mondo di oggi. E senza rossore».<br />
Ho parlato di strategie retoriche, e le righe appena citate<br />
consentono di saggiare con l’orecchio (se lette a voce alta)<br />
la qualità di una lingua che dietro l’apparenza colloquiale<br />
diretta comunicativa, svela abbondantissime «ricercatezze<br />
linguistiche e concettuali» ancora tutte da studiare<br />
(più d’un accenno in proposito si trova nella Nota al testo di<br />
Bianconi, da cui traggo la citazione). Ho parlato anche di accumulo<br />
di informazioni storiche sulle singole partiture (genesi,<br />
circolazione, varianti tra edizioni diverse, ecc.), il che,<br />
com’è stato sottolineato, fa di d’Amico un antesignano degli<br />
studi sulla fortuna di un autore o di un’opera, quella che<br />
i tedeschi hanno battezzato Rezeptionsgeschichte e che in italiano<br />
si suole tradurre con Storia della ricezione ossia recezione<br />
(due scuole di pensiero diverse e contrapposte). Ma a<br />
enumerare le intuizioni, le anticipazioni di d’Amico si farebbe<br />
notte (a p. 348 si trova una definizione di «musica di scena»<br />
in puro stile Dahlhaus, ma con svariati anni di anticipo<br />
sull’ammirato collega tedesco), e poi si correrebbe il rischio<br />
di cadere nella trappola di chi vuole a tutti i costi nobilitare<br />
l’oggetto delle proprie ricerche, renderlo accetto alla casta accademica<br />
(le resistenze a d’Amico non mancano, sulla base<br />
di una sua presunta non «scientificità»).<br />
Il d’Amico studioso (e, insieme, critico) che detta testi di<br />
Fedele d’Amico.<br />
presentazione per i teatri italiani, vale di per sé e vale moltissimo:<br />
ha ragione Mario Messinis quando avverte che in<br />
quasi tutti si può trovare materia per un libro. Forma divina<br />
riporta all’incirca l’ottantacinque per cento di una produzione<br />
che copre un arco ultratrentennale (dai primi anni<br />
cinquanta alla fine degli ottanta), e che in misura preponderante<br />
trovò accoglienza all’Opera di Roma, di cui d’Amico,<br />
nel corso degli anni sessanta (gestione Palmitessa-Bogianckino),<br />
curò personalmente il settore editoriale, rinnovando<br />
alle radici l’idea stessa di programma di sala. Non mi è<br />
possibile riferire nel dettaglio il pensiero di d’Amico sull’opera<br />
in musica (centralità della voce, dunque dell’interprete,<br />
sulla scia di Paul Bekker<br />
e del suo libro Wandlungen<br />
der Oper, 1934) o<br />
sui singoli compositori<br />
(l’«eterno gioco mozartianodell’ambiguità»;<br />
Rossini antidrammatico<br />
e antiromantico<br />
– forse l’unica prospettiva<br />
sorpassata, per quanto<br />
molti la condividano<br />
ancora; Berlioz prenovecentesco;<br />
il Verdi «quarto<br />
stato»: ed è perciò un<br />
vero peccato che manchi<br />
il commento a Falstaff –<br />
è riprodotta solo la parte<br />
relativa alla nascita e alla<br />
creazione dell’opera,<br />
dove si evidenziano «le<br />
relazioni non passeggere<br />
con la contemporanea<br />
cultura musicale europea»:<br />
lo si può leggere<br />
nella Guida all’opera, a<br />
cura di Gioacchino Lanza<br />
Tomasi, Mondadori, 1971 e successive ristampe; la modernità<br />
del «decadente» Puccini, ecc. ecc.). E in fondo, non<br />
sarebbe neanche giusto. La gioia del nutrimento intellettuale<br />
e, al contempo, l’emozione propriamente fisica che la penna<br />
di d’Amico sa comunicare, è un’esperienza che ciascun lettore<br />
deve compiere da solo. ◼<br />
1. Fedele d’Amico, Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali, a cura<br />
di Franco Serpa, Einaudi, Torino 1991 («Saggi», 748).<br />
2. Id., Scritti teatrali 1932-1989, prefazione di Gioacchino Lanza<br />
Tomasi, Rizzoli, Milano 1992.<br />
3. Id., Il teatro di Rossini, Il mulino, Bologna 1992 («Universale<br />
paperbacks», 271). Si tratta, in origine, di dispense universitarie<br />
già pubblicate nel 1968 (De Santis, Roma), ’74 (ELIA, Roma) e ’82<br />
(Bulzoni, Roma).<br />
4. Id., L’albero del bene e del male. Naturalismo e decadentismo in<br />
Puccini, a cura di Jacopo Pellegrini, introduzione di Enzo Siciliano,<br />
Maria Pacini Fazzi, Lucca 2000 («La rosa», 4).<br />
5. Id., Tutte le cronache musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll.,<br />
a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi<br />
d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio<br />
Pestelli, Bulzoni, Roma 2000.<br />
6. Id. – Rudolf Arnheim, Eppure, forse, domani. Carteggio 1938-1990,<br />
a cura di Isabella d’Amico, prefazione di Franco Serpa, Archinto,<br />
Milano 2000.<br />
7. D’Amico – Luciano Berio, Nemici come prima. Carteggio 1957-<br />
1989, a cura di Isabella d’Amico, introduzione di Enzo Restagno,<br />
Archinto, Milano 2002.<br />
carta canta — libri 75
ASSOCIAZIONE CULTURALE<br />
COMPAGNIA DE CALZA<br />
«I ANTICHI»<br />
FONDATA DA ZANE COPE<br />
VENEZIA<br />
CARNEVAL DE VENETIA<br />
MASCARAR<br />
2013-2014<br />
TRADIZIONE E TRASGRESSIONE<br />
Campo San Maurizio 2677 – San Marco - <strong>Venezia</strong> – 30124 ITALIA<br />
e-mail: info@iantichi.org<br />
www.iantichi.org<br />
arte grafica jsb+lc
L’opera dei libertini<br />
Dobbiamo al compianto Giovanni Morelli<br />
un’intuizione che, divulgata nel 1975 in un articolo<br />
mio e dell’amico Thomas Walker (anch’egli<br />
così presto scomparso), ha poi attecchito nella<br />
storiografia musicale: a <strong>Venezia</strong>, negli anni trenta e quaranta<br />
del Seicento, l’incubazione del teatro d’opera come impresa<br />
economica e come genere letterario e drammatico-musicale<br />
poté avvenire anche perché vi trovò un ambiente intellettuale<br />
propizio. Il riferimento è<br />
al libertinismo professato<br />
dagli Accademici Incogniti<br />
riuniti attorno a Giovan<br />
Francesco Loredano.<br />
Molti drammaturghi veneziani<br />
che nei primi decenni<br />
scrivono per i teatri<br />
d’opera – Giacomo Badoaro,<br />
Giulio Strozzi, Gian<br />
Francesco Busenello, Michelangelo<br />
Torcigliani, Paolo<br />
Vendramin – sono affiliati<br />
all’Accademia degli Incogniti,<br />
un sodalizio informale<br />
ma efficiente nei termini<br />
di una moderna «politica<br />
culturale», per l’influsso<br />
che esercita sull’editoria, il consumo letterario, la vita teatrale.<br />
Gli Incogniti idolatrano G.B. Marino e il suo poema<br />
erotico, l’Adone (all’Indice); coltivano uno scetticismo radicale<br />
in campo storico, politico, filosofico, morale; professano<br />
(sulla scia dell’aristotelico patavino Cesare Cremonini)<br />
la mortalità dell’anima; riconoscono nelle religioni null’altro<br />
che, machiavellicamente, un’utile impostura politica per<br />
tenere a freno le masse; predicano e praticano una disinibita<br />
e versatile libertà sessuale; stigmatizzano la corruzione delle<br />
corti, a cominciare da quella papale; in compenso ostentano<br />
un’indefettibile lealtà alle istituzioni della Serenissima.<br />
La quale di buon grado chiude un occhio sulla tracotanza<br />
intellettuale di questi letterati scavezzacolli. Siamo nell’età<br />
dell’Interdetto: estromessi i Gesuiti, all’ombra del Leone di<br />
san Marco si gode una libertà ignota altrove in Italia.<br />
Non ci sono documenti espliciti che teorizzino o documentino<br />
l’impegno diretto dell’Accademia nella gestazione<br />
e sviluppo del teatro d’opera. Ma cento indizi confermano<br />
che gli Incogniti vi ebbero lo zampino.<br />
In particolare, alcuni di loro fu-<br />
rono fautori di quel Teatro Novissimo,<br />
eretto nel 1641 dietro San Zanipolo,<br />
che durò pochi anni ma varò le<br />
stupefacenti invenzioni scenotecniche<br />
di Giacomo Torelli, il geniale ingegnere<br />
fanese dell’Arsenale, e lanciò<br />
la Finta pazza di Giulio Strozzi,<br />
musica di Francesco Sacrati, la prima<br />
opera che fece il giro di tutt’Italia<br />
e nel 1645 fu rappresentata a Parigi,<br />
sempre con Torelli scenografo.<br />
La finta pazza esibisce temi squisitamente<br />
«incogniti»: la simulazione e<br />
la dissimulazione, l’inganno e il disinganno;<br />
derisione e sarcasmo come<br />
visione del mondo; l’amore e il sesso<br />
di Lorenzo Bianconi<br />
Jean-François Lattarico,<br />
Venise «incognita».<br />
Essai sur l’académie libertine au xvii e siècle,<br />
Paris, Honoré Champion, 2012, 490 pp.,<br />
isbn 978-2-7453-2276-0, euro 100.<br />
Libertini italiani.<br />
Letteratura e idee tra xvii e xviii secolo,<br />
a cura di Alberto Beniscelli,<br />
Milano, rccs Libri, 2011<br />
«Biblioteca Universale Rizzoli – Classici moderni»),<br />
xli-911 pp., isbn 978-88-17-05060-9, euro 16,90.<br />
Gli Incogniti e l’Europa,<br />
a cura di Davide Conrieri,<br />
Bologna, I Libri di Emil, 2011,<br />
isbn 978-88-96026-84-7, 332 pp., euro 26.<br />
come propellenti irrefrenabili della vita e della storia; l’impostura<br />
come strumento necessario della politica; la glorificazione<br />
di <strong>Venezia</strong> come legittima discendente dell’antica<br />
Troia in opposizione alla decadente Roma. È imminente l’edizione<br />
critica del dramma, a cura di Nicola Michelassi (Firenze,<br />
Olschki); il quale intanto, in un’importante miscellanea<br />
su Gli Incogniti e l’Europa curata da Davide Conrieri,<br />
ha anticipato un ampio capitolo sulla folgorante fortuna<br />
dell’opera.<br />
Un saggio copioso e importante, apparso or ora in Francia,<br />
offre finalmente un’ordinata mappa intellettuale e tematica<br />
della produzione letteraria degli Incogniti. Nella sua Venise<br />
«incognita», l’italianista Jean-François Lattarico (da tem-<br />
po ne attendiamo l’edizione critica dei drammi del Busenello)<br />
traccia un completo diagramma dell’ideologia «incognita»<br />
come si manifesta in particolare nei due generi letterari<br />
moderni prediletti dagli Accademici: il romanzo e appunto<br />
il dramma per musica. Due capitoli chiave nel libro di Lattarico<br />
concernono proprio Strozzi e Busenello. Il lavoro offre la<br />
più coerente e sistematica analisi finora disponibile su questa<br />
humus, così fertile, così ricca di sali e succhi che anche attraverso<br />
il melodramma continuarono a vivificare l’intelligenza<br />
e la sensibilità italiana ed europea dell’età moderna. Già,<br />
perché è ben vero che il libertinismo degli Incogniti sfiorì nel<br />
corso del secondo Seicento; e che anche un dramma come La<br />
finta pazza, fuori di <strong>Venezia</strong>, mitigò di un bel po’ gli ammicchi<br />
più caustici e derisorii. Ma qualcosa dello spirito libertino<br />
si mantenne, si propagò e si diffuse, e per li rami si perpetuò<br />
in un genere – l’opera in musica – che nei tumulti dell’animo<br />
e dei sensi ha saputo penetrare con uno sguardo disincantato<br />
e scettico. Dai drammi degli Incogniti un filo sottile<br />
ma tenace discende fino alle Nozze<br />
di Figaro, a Così fan tutte, al Ballo<br />
in maschera, alla Bohème, al Cavaliere<br />
della rosa, al Giro di vite.<br />
Per colmo di fortuna, la bur dell’editore<br />
Rizzoli ha pubblicato or non è<br />
molto una ricca antologia dei Libertini<br />
italiani dei secoli xvii e xviii,<br />
egregiamente curata dall’italianista<br />
Alberto Beniscelli, professore all’Università<br />
di Genova (e melomane): il<br />
pingue ed economico volume è organizzato<br />
per temi – filosofia religione<br />
scienza eros antropologia politica –<br />
sicché il lettore curioso dispone ora<br />
di una bussola affidabile per circumnavigare<br />
a bell’agio il bizzarro arcipelago<br />
libertino. ◼<br />
carta canta — libri 77
78<br />
carta canta — libri<br />
Il «Lohengrin»<br />
di Quirino Principe,<br />
prima tappa<br />
di un progetto<br />
imponente<br />
di Leonardo Mello<br />
Quirino Principe è uno dei musicologi e critici<br />
musicali italiani più importanti e riconosciuti<br />
a livello internazionale. Alla sua costante<br />
attività pubblicistica affianca da sempre quella<br />
di saggista e scrittore (fondamentali, per fare<br />
solo due esempi, le monografie da lui dedicate a Mahler e a<br />
Strauss). Ma riassumere in poche righe la poliedricità del suo<br />
pensiero e dei suoi interessi sarebbe un’impresa impossibile,<br />
per cui passiamo subito a parlare di Lohengrin – Wagner e<br />
noi, la sua ultima fatica (Jaca Book, 2012). Il libro è la prima<br />
tessera di un progetto imponente, intitolato «La spada della<br />
dualità», che prevede quattordici volumi, dedicati appunto<br />
ai quattordici Musikdramen wagneriani, dall’incompiuto<br />
Die Hoczeit («Le nozze») al Parsifal. L’omaggio al Genio di<br />
Lipsia – che procede parallelo a quello ideato dal Teatro alla<br />
Scala in occasione del bicentenario della nascita di Wagner e<br />
Verdi, e che ha preso avvio a dicembre proprio con il Lohengrin<br />
allestito da Claus Guth e diretto da Daniel Barenboim<br />
– è dunque solo il primo di una serie di avvincenti capitoli<br />
wagneriani che inaugurano anche – dopo l’Atlante storico<br />
della musica nel Medioevo, curato da Vera Minazzi e Cesarino<br />
Ruini – il dipartimento «Jaca Musica». La nuova traduzione,<br />
accompagnata dal testo a fronte, comprende anche<br />
due celebri «scarti», vale a dire, come spiega l’autore stesso,<br />
«la seconda parte del racconto di Lohengrin, la preghiera di<br />
lui sulla navicella alla fine dell’opera (una preghiera che nella<br />
versione definitiva e a tutti nota è “muta”) e […] l’addio al cigno<br />
pronunciato da Goffredo di Bramante, personaggio che<br />
nel definitivo disegno drammaturgico […] è interpretato da<br />
un mimo, poiché non parla e, naturalmente, non canta». Alla<br />
sua versione del testo lo studioso accosta anche un magnifico<br />
saggio, dove l’opera viene contestualizzata, analizzandone<br />
la genesi compositiva, le origini e la leggenda: «Leggenda?<br />
Sì, certamente, ma anche qualcosa di più – afferma –. La leggenda<br />
può essere “metastoria”, qualcosa che la fantasia lascia<br />
Lohengrin alla Scala<br />
(foto di Rudy Amisano - teatroallascala.org).<br />
fiorire dalla storia cosiddetta<br />
reale come variazione<br />
su un tema. Oppure, può<br />
essere “antistoria”, qualcosa<br />
che non è stato ma poteva<br />
essere, e per magia potrebbe<br />
ancora essere. Certo, la<br />
leggenda colora e arricchisce<br />
il mondo, ma non ne<br />
trasmuta l’essenza. Appartiene<br />
alla sfera dell’accadere,<br />
e si configura tutta nello<br />
spazio-tempo. Vertiginosamente<br />
più in alto è il mito,<br />
che appartiene alla sfera<br />
dell’essere, ed è ontologicamente<br />
diverso dal mondo:<br />
è indipendente dal tempo e<br />
dallo spazio. L’accadere gli<br />
è indifferente. Mito non è<br />
metafora né antistoria, non<br />
è ciò che è stato né ciò che<br />
non è stato ma sarebbe potuto<br />
essere. Il mito è Essere<br />
sempre, e ciò che in esso<br />
si cela (o si rivela a lampi) è<br />
un sistema di archetipi, di<br />
“symbolische Formen” così<br />
come Ernst Cassirer le<br />
ha definite, di “Gestalten”<br />
preannunciate da folgoranti<br />
immagini eidetiche,<br />
quelle che ci sfiorano inafferrabili<br />
nei sogni. Nei sogni?<br />
È una seducente direzione<br />
per chi voglia mettersi<br />
in cammino e cercare le<br />
orme di uno che potrebbe<br />
essersi chiamato davvero<br />
Lohengrin e Loherangrin,<br />
e che addirittura potrebbe<br />
essere esistito» (p. 76) . E<br />
tra mito e sogno la scrittura<br />
limpida e documentatissima<br />
di Quirino Principe costruisce<br />
un percorso davvero<br />
appassionante sulle tracce<br />
del cavaliere del cigno e<br />
sulla materia epica da cui<br />
sorge grazie all’arte di Richard<br />
Wagner. ◼<br />
Quirino Principe,<br />
Lohengrin – Wagner e noi,<br />
nuova traduzione<br />
con testo a fronte del libretto,<br />
Editoriale Jaca Book,<br />
Milano 2012,<br />
pp. 120, 10 euro.<br />
La spada della dualità<br />
1. Lohengrin<br />
Wagner e noi<br />
2. Tannhäuser<br />
L’umano atterrito<br />
dal soprannaturale<br />
3. Tristano e Isotta<br />
Eros, o lo specchio della dualità<br />
4. Il divieto d’amare<br />
Dualità nella dualità:<br />
lo pseudo-teorema di<br />
Burckhardt<br />
5. Rienzi<br />
Scelte fatali,<br />
ovvero la malattia<br />
chiamata «storia»<br />
6. L’olandese volante<br />
L’umano turbato dalla leggenda<br />
7. Le fate<br />
L’umano sedotto<br />
dall’impossibile fiaba<br />
8. L’oro del Reno<br />
L’umano consumato dal mito:<br />
l’origine di tutto<br />
9. La Valchiria<br />
L’umano consumato dal mito:<br />
l’eros<br />
10. Sigfrido<br />
L’umano consumato dal mito:<br />
il potere<br />
11. Il crepuscolo degli Dei<br />
L’umano consumato dal mito:<br />
la fine di tutto<br />
12. Parsifal<br />
L’umano nel labirinto<br />
degli archetipi<br />
13. I maestri cantori di<br />
Norimberga<br />
La piramide, la base e il vertice<br />
14. Le nozze<br />
La dualità<br />
di compiuto e incompiuto
Una bambina,<br />
la sua guerra<br />
Ci sono molti modi di raccontare una guerra. In<br />
particolare la seconda guerra mondiale, il più<br />
cruento e sanguinario dei conflitti (almeno fino<br />
a ora),<br />
ha avuto in quasi<br />
settant’anni un<br />
flusso inesausto di<br />
narrazioni, letterarie,<br />
teatrali, cinematografiche.<br />
È dunque difficile<br />
sorprendersi e appassionarsiall’ennesima<br />
cronaca di<br />
quei tempi bui. Eppure<br />
il magnifico<br />
libro di Maria Luisa<br />
Semi riesce in<br />
quest’impresa quasi<br />
impossibile: nel<br />
suo Una bambina,<br />
la sua guerra infatti<br />
gli eventi che hanno<br />
funestato il nostro<br />
Paese sono rivisti<br />
attraverso il ricordo<br />
di una bimba<br />
che cresce (e soffre)<br />
con loro. Supportata<br />
da un’invidiabile<br />
memoria (come<br />
lei stessa affermanell’introduzione),<br />
l’autrice ri-<br />
di Leonardo Mello<br />
Maria Luisa Semi,<br />
Una bambina, la sua guerra,<br />
prefazione di Riccardo Calimani,<br />
Edizioni Studio lt2, <strong>Venezia</strong> 2012,<br />
pp. 94, euro 13.<br />
percorre gli anni del fascismo, i razionamenti, le campagne<br />
belliche, i bombardamenti, le persecuzioni razziali, la Liberazione.<br />
Ma lo fa – senza che il discorso divenga mai posticcio<br />
– dal punto di vista di chi non può comprendere (eppure<br />
comprende) l’enormità di quanto sta accadendo ai propri<br />
familiari, a una mamma volitiva e determinata, che segue<br />
dovunque – almeno fin dove le è possibile – il marito richiamato<br />
più volte al fronte. Quello che affascina non è tanto<br />
l’argomento quanto il modo inedito di trattarlo, la visuale<br />
infantile che mette sullo stesso piano un rifugio antiaereo e<br />
un pezzo di cioccolata, un lodevole ottenuto a scuola e la sorpresa<br />
per l’arrivo di una sorellina o di un fratellino. Il dramma<br />
di una famiglia nativa di Capodistria e trasferitasi a <strong>Venezia</strong><br />
(solo la protagonista nasce in laguna) si intreccia con le<br />
tante inquietudini dell’infanzia, trascritte quasi stenograficamente,<br />
tanto che il lettore non può che immedesimarsi e<br />
riportare alla mente le proprie. Ma in questa scrittura piana<br />
e paratattica, sempre stupita eppure mai buonista, si annida<br />
la tragedia che ha contraddistinto più generazioni, la paura<br />
come sentimento dominante, l’orrore di un bambino ucciso<br />
dai sciavi (una delle pagine più dure e dirette). Per giungere<br />
infine all’epigrammatico e tutt’altro che consolatorio epilogo,<br />
nel quale mamma e papà – professore di liceo e partigiano<br />
– a guerra abbondantemente finita tornano, tra l’ostilità<br />
diffusa del nuovo occupante, a rivedere la propria terra.<br />
Un libro avvincente e istruttivo, che meriterebbe di circolare<br />
nelle aule scolastiche. ◼<br />
Relazioni<br />
e osmosi<br />
tra cinema e teatro<br />
il problema dei rapporti<br />
tra il cinema e il teatro, relazioni che, nel<br />
«Nell’affrontare<br />
corso degli anni e dello sviluppo di queste<br />
due forme espressive, si sono via via declinate<br />
secondo i principi dell’osmosi, dell’arricchimento<br />
o della netta opposizione,<br />
il nostro intento è lontano<br />
dal voler verificare se lo<br />
schermo possa considerarsi<br />
un’estensione della scena o,<br />
viceversa, la ribalta un dispositivo<br />
della narrazione<br />
di minor valore rispetto alla<br />
settima arte. Ciò che più<br />
ci preme affrontare è invece<br />
l’analisi di alcuni momenti,<br />
e di alcuni esempi,<br />
in cui cinema e teatro sembrano<br />
rincorrersi continuamente.<br />
In altre parole,<br />
poiché sono molti gli auto-<br />
ri che hanno dimostrato di<br />
non temere contaminazioni<br />
e poiché sullo schermo<br />
sono ricorrenti le situazioni<br />
in cui il teatro viene a intersecarsi<br />
con il cinema in<br />
una continua comunione<br />
Marina Pellanda,<br />
Cinema e teatro.<br />
Influssi e contaminazioni<br />
tra ribalta e pellicola,<br />
Carocci editore, Roma 2012,<br />
pp. 112, euro 12.<br />
di ruoli, interferenze e risonanze, abbiamo dunque cercato<br />
di tessere un vero e proprio racconto dei legami che possono<br />
instaurarsi tra queste due arti della rappresentazione». Questo<br />
è l’inizio del magnifico Cinema e teatro. Influssi e contaminazioni<br />
tra ribalta e pellicola di Marina Pellanda, prolifica<br />
studiosa della settima arte che ha al suo attivo, tra i molti<br />
titoli, anche due importanti monografie dedicate a Gian<br />
Maria Volonté e Marco Bellocchio. Il libro, nelle sue 110 pagine,<br />
si presenta avvincente e leggibile senza rinunciare mai<br />
a una rigorosa scientificità. Come dichiarato programmaticamente,<br />
lungi dall’essere un lavoro di mera compilazione,<br />
il volume si avvicina al tema (cruciale) attraverso un percorso<br />
ad exempla, partendo ovviamente e necessariamente dalle<br />
origini del mezzo cinematografico, e dalle differenze che<br />
sin da subito caratterizzano le due forme espressive, differenze<br />
rinvenibili prima di tutto «nella diversa modalità di fruizione<br />
da parte dello spettatore». La parte forse più appassionante<br />
è però quella che segue, dedicata al teatro greco e<br />
shakespeariano (e alle loro connessioni), indagati attraverso<br />
un’eterogenea selezione di lungometraggi, da Vogliamo vivere<br />
di Ernst Lubitsch e La dea dell’amore di Woody Allen<br />
alle versioni di Otello create da tre grandi artisti come Orson<br />
Welles, Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini (lo splendido<br />
Cosa sono le nuvole). Si prosegue con un fitto capitolo incentrato<br />
sull’arte dell’attore (e sulle modificazioni in essa stimolate<br />
dalla macchina da presa) per concludere con «L’opera<br />
filmata», dove protagonista è il teatro musicale, materia<br />
di molti celebri film, tra cui – per citare solo alcuni titoli –<br />
Casta Diva di Carmine Gallone, Senso di Luchino Visconti<br />
e il Flauto magico firmato da Ingmar Bergman (1974) e Kenneth<br />
Branagh (2006). In estrema sintesi, un libro denso, ricco<br />
e per tutti i palati. (l.m.) ◼<br />
carta canta — libri 79
80<br />
Anno X - marzo / aprile 2013 - n. <strong>51</strong> - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
• Luigi Abbate (pp. 40-41)<br />
Compositore<br />
• Eugenio Bernardi (pp. 54-55)<br />
già Ordinario di Letteratura Tedesca<br />
all’Università Ca’ Foscari di <strong>Venezia</strong><br />
• Gualtiero Bertelli (pp. 50-<strong>51</strong>)<br />
Cantautore<br />
• Lorenzo Bianconi (p. 77)<br />
Università di Bologna<br />
• Giorgio Busetto (pp. 66-67)<br />
Direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi<br />
Università Ca’ Foscari di <strong>Venezia</strong><br />
• Paolo Cattelan (pp. 32-33)<br />
Musicologo<br />
Presidente degli Amici della Musica di <strong>Venezia</strong><br />
• Renzo Cresti (pp. 22-26)<br />
Musicologo<br />
• Denis Curti (pp. 64-65)<br />
Direttore scientifico Casa dei Tre Oci (<strong>Venezia</strong>)<br />
• Luigi De Angelis (p. 52)<br />
Regista<br />
Fondatore di Fanny & Alexander<br />
• Vitale Fano (pp. 14-15 e p. 19)<br />
Musicologo (Università di Padova)<br />
• Giuliano Gargano (p. 43)<br />
Giornalista<br />
• Tommaso Gastaldi (p. 46)<br />
Giornalista freelance<br />
• Peter Kammerer (pp. 56-57)<br />
Università di Urbino<br />
Traduttore<br />
• Giuseppina La Face Bianconi (p. 73)<br />
Università di Bologna<br />
• Annalisa Lo Piccolo (p. 35)<br />
Musicologa<br />
Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
Le collaborazioni di questo numero<br />
Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
• Andrea Oddone Martin (pp. 28-29)<br />
Critico musicale<br />
• Mario Messinis (pp. 16-17 e p. 27)<br />
Critico musicale<br />
• Guido Michelone (p. 45 e p. 47)<br />
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano<br />
Conservatorio di Musica «Antonio Vivaldi»<br />
di Alessandria<br />
Critico musicale<br />
• Letizia Michielon (pp. 36-37)<br />
Musicista<br />
Critico musicale<br />
• Jacopo Pellegrini (p. 68 e pp. 74-75)<br />
Critico musicale<br />
• Oliviero Ponte di Pino (pp. 59-61)<br />
Critico teatrale<br />
• Franco Pulcini (pp. 8-9)<br />
Musicologo<br />
• Eva Rico (p. 63)<br />
Storica dell’arte<br />
• Veniero Rizzardi (pp. 38-39)<br />
Musicologo<br />
• Mirko Schipilliti (pp. 12-13 e p. 30)<br />
Musicista<br />
Critico musicale<br />
• Gianni Sibilla (p. 44)<br />
Giornalista musicale (rockol.it)<br />
• Arianna Silvestrini (p. 18)<br />
Giornalista freelance<br />
• Ennio Speranza (pp. 69-72)<br />
Musicologo<br />
• Massimo Tria (pp. 10-11)<br />
Università Ca’ Foscari di <strong>Venezia</strong><br />
• John Vignola (p. 42)<br />
Critico musicale<br />
Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
la critica oggi<br />
(parte quarta)<br />
Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241<br />
Eresia della felicità a <strong>Venezia</strong><br />
La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice<br />
la critica oggi<br />
(parte terza)