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inedita energia Attilio Bertolucci - Eni

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Nel luglio del 1955 usciva il primo numero della<br />

nuova moderna rivista di eni “Il Gatto Selvatico”. Pagine a colori, vignette,<br />

resoconti di vita aziendale, racconti di autori importanti e tante rubriche per la<br />

famiglia: medicina, arredamento, moda, cucina, persino una sezione dedicata<br />

ai neologismi. <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong>, scelto da Enrico Mattei come direttore della<br />

rivista, aveva saputo raccogliere attorno a sé un circolo di scrittori e intellettuali<br />

di altissimo valore: Carlo Emilio Gadda, Giuseppe Dessì, Natalia Ginzburg,<br />

Goffredo Parise, Leonardo Sciascia e molti altri.<br />

Poeta, critico e giornalista, <strong>Bertolucci</strong>, nei primi anni, era stato allievo di<br />

Roberto Longhi e professore di storia dell’arte a Parma. Per questo motivo<br />

fin dal 1956 sceglie di dedicare la controcopertina della rivista ad alcune brevi<br />

lezioni dedicate ai grandi capolavori della pittura. I testi, dal taglio fortemente<br />

divulgativo e accompagnati sempre dalla riproduzione dell’opera a colori,<br />

rappresentano una sintesi puntuale e appassionata dei principali protagonisti<br />

e movimenti dai maestri del passato (Giotto, Leonardo, Caravaggio) fino<br />

alle avanguardie del Novecento (“gli ismi dell’arte moderna”, secondo una<br />

definizione di Luigi Capuana).<br />

In occasione del Festivaletteratura 2011, eni ha scelto di pubblicare<br />

integralmente le lezioni di storia dell’arte di <strong>Bertolucci</strong>, che rappresentano la<br />

sintesi più efficace e articolata di un progetto editoriale fortemente innovativo,<br />

a metà strada tra approfondimento e divulgazione, cultura e mediazione sociale.<br />

L’introduzione è curata da Gabriella Palli Baroni, autorevole studiosa dell’opera<br />

poetica e saggistica di <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong>.<br />

lezioni di storia dell’arte<br />

<strong>inedita</strong> <strong>energia</strong> <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> per “Il Gatto Selvatico” 1955-1964<br />

<strong>inedita</strong> <strong>energia</strong><br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong><br />

lezioni di storia dell’arte<br />

per “Il Gatto Selvatico” 1955-1964<br />

“Insisteremo poi anche nella presentazione della<br />

pittura, della quale era giusto far conoscere gli antichi capolavori, ma è<br />

altrettanto giusto presentare i contemporanei, tanto più quanto meno<br />

essi sono conosciuti e apprezzati”<br />

dicembre 1956<br />

“Vorremmo tracciare un panorama dell’arte, non<br />

soltanto italiana, del nostro tempo, così discussa e, ci pare, così mal<br />

conosciuta nelle sue origini, nelle sue tendenze, nelle sue personalità di<br />

maggior rilievo. Le riproduzioni a colori aiuteranno a comprenderla e<br />

giudicarla meglio di mille ragionamenti critici”<br />

febbraio 1957<br />

“Vi abbiamo dato delle indicazioni per decifrare<br />

il quadro che vi sta davanti, ma può darsi che voi ne ricaviate tante altre<br />

immagini e suggestioni: non scoraggiatevi né, se possibile, indignatevi:<br />

questa pittura è molto vicina alla musica, e voi non chiedete mai alla<br />

musica di dirvi esattamente qualcosa”<br />

dicembre 1960<br />

in copertina e nell’introduzione, foto di <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong><br />

per gentile concessione degli eredi


<strong>inedita</strong> <strong>energia</strong><br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong><br />

lezioni di storia dell’arte<br />

per “Il Gatto Selvatico” 1955-1964


3 introduzione<br />

29 i maestri della pittura<br />

99 i ritratti, i paesaggi e le nature morte<br />

181 gli “ismi” dell’arte moderna<br />

⎡ Racconto di storia dell’arte a puntate:<br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> e “Il Gatto Selvatico”<br />

di Gabriella Palli Baroni<br />

3<br />

La vera vita era quella dell’opera d’arte,<br />

insostituibile miracolo<br />

Anna Banti ⎦<br />

Educato nella «piccola capitale» di Parma; nutrito dalle opere<br />

di Antelami, del Correggio, del Parmigianino; allievo a Bologna di Roberto<br />

Longhi; sodale di Francesco Arcangeli, successore di Longhi alla cattedra bolognese;<br />

amico del critico Roberto Tassi, <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> ha una lunga frequentazione<br />

con l’arte.<br />

Esordisce con brevi cronache di eventi locali sui fogli della sua città, “Aurea<br />

Parma”, “La Fiamma”, per avviarsi con respiro più ampio sulla “Gazzetta di<br />

Parma” soprattutto a partire dal dopoguerra, affiancando gli interventi di critica<br />

d’arte alla cronaca cinematografica e ad articoli su argomenti letterari. L’arte figurativa,<br />

che inizia ad insegnare prima della guerra e riprende dopo il ’46 presso<br />

il Convitto Maria Luigia di Parma, occupa un posto importante tra gli interessi<br />

del poeta giornalista, che, mentre tiene saltuariamente sulla “Gazzetta” una<br />

rubrica con lo pseudonimo di “Cennino”, firma alcuni reportage dalle Biennali<br />

di Venezia del 1948 e 1950; si sofferma a lungo sulle mostre veneziane dedicate nel<br />

’49 a Giovanni Bellini; continua l’insegnamento, una volta trasferitosi a Roma nel<br />

1951, presso il Liceo Virgilio; scrive di mostre d’arte contemporanea tra il ’56 e il<br />

’57 per la “Fiera Letteraria” e condivide con Tassi e altri amici la direzione della


ivista “Palatina”, negli stessi anni in<br />

cui si avvia e si sviluppa la Storia dell’arte<br />

del “Gatto Selvatico”.<br />

La sua tastiera è multiforme e il giornalismo<br />

è il grande veicolo della sua<br />

cultura. Una cultura sempre più vasta<br />

nel panorama internazionale, aperta<br />

ai campi più diversi, accompagnata<br />

da viva sensibilità artistica, da grande<br />

intelligenza critica mai esibita, ma<br />

profonda, da linguaggio trasparente<br />

e affabile, da modernità di sguardo su<br />

persone ed eventi, su poeti, narratori,<br />

pittori, raccontati con indipendenza di<br />

giudizio, con verità umana.<br />

Non solo. Se aveva coltivato la propria<br />

pagina con molta attenzione a periodi-<br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> nel 1934, dopo la pubblicazione ci stranieri e nazionali, aveva anche più<br />

di “Fuochi in Novembre”<br />

volte partecipato a progetti di riviste<br />

letterarie, rivelando – sin dal primo<br />

tentativo, la rivista “La Certosa di Parma”, ideata negli anni 1928-29 – visione non<br />

provinciale, ricchezza di idee («parlare di cinema di pittura di tutto insomma»)<br />

e sguardo curioso e aperto sul mondo. L’aspetto che il poeta pare tenere sempre<br />

al centro del suo interesse sono la modernità degli argomenti e la risposta del<br />

pubblico – lettori di articoli o spettatori di film o visitatori di mostre d’arte – che<br />

<strong>Bertolucci</strong> considera interlocutore privilegiato e di cui si deve coltivare intelli-<br />

genza e buon gusto con prodotti di alta qualità, utili e dilettevoli, secondo l’antico<br />

binomio illuministico. Per queste ragioni, «per la grande curiosità per infinite<br />

cose», qualità che deve essere propria di un giornalista, a lui si era rivolto Enrico<br />

Mattei. E per <strong>Bertolucci</strong> fu l’inizio di un’esperienza straordinaria:<br />

«È stato un senso come di avventura pionieristica per me molto vitalizzante, in un<br />

campo nuovo, moderno, che mi faceva sentire nel mio tempo, pienamente inserito;<br />

non come si dice dei poeti “sempre chiuso nella torre d’avorio”, ma, invece,<br />

immerso nella realtà viva e contemporanea».<br />

Era il 1955 quando giunse ad <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong>, poeta e scrittore affermato,<br />

l’invito a dirigere il giornale aziendale che Enrico Mattei voleva realizzare per<br />

la grande famiglia di <strong>Eni</strong>: un mensile d’informazione, di promozione aziendale,<br />

di divulgazione culturale, che testimoniasse il grande momento espansivo della<br />

compagnia petrolifera e costituisse il legame democratico tra uomini e donne –<br />

operai, tecnici e dirigenti – nella comune appartenenza e identità. «Il giornale<br />

che faremo noi», precisò Mattei, «deve essere lo stesso, democraticamente possibile,<br />

cioè leggibile, dal Presidente della Repubblica al più lontano dei nostri<br />

perforatori, anche fuori d’Italia». E il consenso di <strong>Bertolucci</strong> fu pieno, tanto da<br />

avviare una delle più importanti esperienze nel campo delle testate industriali<br />

italiane, che si affiancò a “Comunità” , fondata da Adriano Olivetti nel 1946,<br />

a “Pirelli”, diretta da Leonardo Sinisgalli dal 1948 e a “Civiltà delle macchine”<br />

fondata dallo stesso Sinisgalli nel 1953, ma anche, per restare nel campo<br />

economico proprio di <strong>Eni</strong>, a “Esso Rivista” della Standard Oil, rivista patinata<br />

e destinata alle pubbliche relazioni, non certamente rivolta ai dipendenti, per<br />

i quali si stampava, con le parole di <strong>Bertolucci</strong>, un misero bollettino. E se la<br />

4 5


scelta grafica ed editoriale del rotocalco fu agile e moderna, il titolo «estroso e<br />

apparentemente enigmatico», consigliato dal poeta, apparve assai «allegro e di<br />

bel suono», allusivo com’era sia ai pozzi petroliferi sia ai ricercatori di petrolio,<br />

uomini «avventurosi e avventurieri». “Il Gatto Selvatico” piacque molto<br />

a Mattei e ospitò in ogni numero un disegno di Maccari, un vero e proprio<br />

editoriale ironico e graffiante su fatti di costume. Si realizzava così pienamente<br />

l’antico progetto bertolucciano di un giornale culturale: rubriche importanti e<br />

impegnate, non «brodetti, ma succhi d’informazione»; settori di cultura affidati<br />

a penne competenti e valide; documentazione sicura dei fatti del presente e della<br />

realtà viva, industriale e non; attenzione ad un pubblico vero.<br />

Così, se il rotocalco doveva avere un buon numero di pagine destinate alle attività<br />

di <strong>Eni</strong>, agli sviluppi della ricerca e dell’espansione in Africa e in Medio Oriente,<br />

agli accordi internazionali, alle prospettive in campo energetico e alle notizie<br />

aziendali, molto spazio fu via via riservato agli argomenti di attualità e d’informazione,<br />

alle «aperture interessanti sulla vita e sul mondo». Particolare fu l’attenzione<br />

pedagogica verso il lettore, che, non solo era invitato a partecipare negli spazi di<br />

svago o di scrittura creativa, di cucina o di moda o di sport, ma era guidato verso<br />

scelte letterarie di alta qualità, grazie alla penna di scrittori e poeti (da Gadda<br />

a Caproni, Comisso, Bassani, da Gatto a Cassola e La Capria, per fare qualche<br />

nome), a rubriche fisse dedicate a libri, al cinema, alla lingua italiana, e grazie a<br />

incursioni nel territorio della letteratura classica e moderna anche straniera (Proust<br />

nel maggio 1956 o Eliot nel dicembre 1957).<br />

È all’interno di questa grande proposta culturale, «piacevole e istruttiva», che<br />

nascono le controcopertine d’arte. <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> le ricordava con malcelato<br />

orgoglio:<br />

«Sempre la prima pagina era dedicata a qualche<br />

attività aziendale: ad un’inaugurazione, ad un<br />

evento del Gruppo. Nell’ultima – e questa è stata<br />

un po’ una mia trovata, visto che era disponibile il<br />

colore – è iniziata una interminabile storia dell’arte<br />

divisa per generi e scuole, che ha avuto molto<br />

successo. Tanto che l’Associazione per la libertà<br />

della cultura fondata da Silone, mi aveva chiesto<br />

di poterne ricavare dei volumetti che avrebbe poi<br />

fatto diffondere. Potevano essere un avvio a una<br />

storia dell’arte molto piacevole e non pedante.<br />

Il che dimostra come questo giornale entrasse<br />

anche in case come quella di un famoso scrittore<br />

e quanto potesse essere apprezzato».<br />

E finalmente, quello che è stato a lungo e più<br />

volte comunicato a chi scrive, il desiderio di veder<br />

pubblicate le pagine d’arte del “Gatto Selvatico”,<br />

trova ora vita rinnovata.<br />

6 7<br />

i<br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> mentre prepara<br />

la lezione in classe al liceo Virgilio.<br />

Roma, 1951<br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> si è sempre considerato, nelle conversazioni<br />

e negli scritti, allievo di un connaisseur e storico dell’arte di eccezionale valore,<br />

Roberto Longhi. E certamente da lui apprese lo sguardo acuto del conoscitore,<br />

imparò a penetrare i segreti del laboratorio dell’artista, quasi per riprodurre con


le parole, come osservava Emilio Cecchi, le forme e i modi dell’arte. Storicismo,<br />

rapporti tra tradizione e innovazione, studio delle ragioni interne dell’opera,<br />

dei valori espressivi, compositivi e coloristici, dello stile sono all’origine della<br />

sua interpretazione critica. Ma all’origine vi è anche la sua inesausta e personale<br />

ricerca nel campo dell’arte «più vera del vero»; quel saper riconoscere la poesia che,<br />

coniugandosi con l’artigianato della pittura o della scultura, potevano sollecitare il<br />

suo animo e portarlo alla presa di coscienza dell’intima sostanza dell’opera, della<br />

sua vita artistica assoluta.<br />

Se nei primi interventi la sua tastiera si articola tra arte e letteratura con pochi<br />

scritti su pittori locali come Carlo Mattioli (Mattioli a Bergamo) o su generi minori<br />

e popolari come le Maestà contadine (Sculture sull’Appennino), altre collaborazioni<br />

di maggior peso datano agli anni Cinquanta e testimoniano sia l’affinarsi del suo<br />

sguardo critico sia la nascita, soprattutto a partire dal 1948, della sua grande prosa<br />

culturale. Sono dapprima itinerari critici d’arte contemporanea, ‘passeggiate’ al<br />

modo di Virginia Woolf, ora una Rassegna significativa di arte contemporanea, ora<br />

reportage dalla Biennale di Venezia del ’48 e del ’50 sopra ricordati. Sono cronache<br />

che non nascondono l’entusiasmo del corrispondente della “Gazzetta di Parma”<br />

davanti alla prima esposizione, la quale, dopo quello che egli chiamò «noioso<br />

oscuramento fascista», si apriva alla moderna arte europea, ai Turner, agli amati<br />

Impressionisti, a Manet, Renoir, Cézanne, Degas, Picasso, Braque, Rouault, ai<br />

metafisici italiani e all’incantevole Morandi. Nella seconda Biennale è il rosso dei<br />

Fauves a entusiasmarlo, sono la «felicità» e il «calore» di Bonnard a commuoverlo,<br />

perché in essi trova gli stessi temi della vita quotidiana che erano suoi: «le stesse<br />

ombre colorate, la stessa felicità non grossa, ma consapevole, seppur non sembri, della<br />

propria fugacità». Ma datano al ’49 anche gli articoli su Giovanni Bellini, che si<br />

leggono ora in Aritmie e che mostrano sapienza nel rilevare i valori espressivi, spaziali<br />

e plastici di un’opera, nel cogliere i rapporti tra visione naturale e invenzione<br />

pittorica. Se si esclude un Picasso scritto per “Paragone”, di cui è redattore dal ’51<br />

e poco altro, ma si considera il quotidiano insegnamento, che interruppe nel ’54,<br />

la Storia dell’arte figurativa per il “Gatto Selvatico”, fu l’esito naturale e quanto<br />

mai desiderato di un metodo storico-critico non astratto, ma registrato per molti<br />

anni in lezioni tenute a giovani liceali, che aveva coinvolto ed educato con la sua<br />

passione, con la duttilità dei suoi raccordi, con i rapidi e illuminanti richiami di<br />

letteratura, di cinema e di musica, che qui ritornano preziosi, con l’indubbia capacità<br />

di trasformare in racconto una vicenda di vita e d’arte.<br />

Il progetto giornalistico apparve subito assai interessante e originale per la sede cui<br />

fu riservato, per il pubblico cui fu rivolto e per il risultato. Di Longhi <strong>Bertolucci</strong><br />

realizzava pienamente il metodo critico appreso durante le lezioni bolognesi e la<br />

lunga frequentazione, ma lo raffinava e lo faceva più “suo” grazie all’esperienza<br />

della poesia (sono gli anni in cui, pubblicata nel 1951 La capanna indiana, si avvia il<br />

romanzo in versi La camera da letto). Il dettato è di grande cordialità e naturalezza,<br />

sul registro di un linguaggio medio mai accademico né sontuoso, privo di artifici<br />

e del gusto arcaizzante ed espressionistico, filologico del maestro, pur essendo<br />

sapientemente scandito dai termini tecnici necessari alla conoscenza artistica; un<br />

dettato lucido e piano, inventivo, arricchito dal gusto della confidenza e della<br />

variazione, che gli sono riconosciute come virtù supreme.<br />

Sono queste le caratteristiche salienti della sua prosa, dal colore vivo, addolcito dal<br />

calore del suo sentire, da una vibrazione segreta d’esistenza, fermato su quanto gli<br />

è più caro, su un passaggio di tempo, su un un’intermittenza del cuore. Si rivolge<br />

spesso ai suoi lettori, con un “voi” assai familiare e amichevole, chiamandoli di<br />

frequente a osservare, a riflettere, a ritornare sul già detto e a riprendere scuole e<br />

8 9


linee artistiche, a condividere infine la sua lettura. «Questa che vedete» – scrive ad<br />

esempio presentando la Madonna col Figlio della Sacra Rappresentazione di Bellini<br />

– è una delle tante che Giovanni Bellini ha dipinto. Eppure guardatela»; o ancora<br />

(ma gli esempi possono essere molti), ricordando che spesso Leonardo e gli altri<br />

grandi pittori tra Quattrocento e Cinquecento sono entrati nella cultura comune,<br />

magari attraverso «un’oleografia appesa nella stanza da letto», aggiunge non senza<br />

un sorridente lampo d’ironia: «È giusto che sia così, ma è augurabile che ormai,<br />

con le tante forme di divulgazione che ci sono in giro, (mettiamoci pure modestamente<br />

anche le controcopertine del “Gatto Selvatico”) il gusto si vada allargando<br />

e approfondendo, così che l’occhio possa ugualmente godere, l’animo parimente<br />

commuoversi, del morbidissimo, sapientissimo sfumato di Leonardo e del severo<br />

chiaroscuro di Giotto».<br />

Di più, il non essere obbligato, proprio per la sede scelta, a considerazioni e<br />

riferimenti biografici minuziosi accresce la libertà critica e stilistica dello scrittore<br />

e permette, proprio com’egli aveva osservato in Cecchi, la giusta misura dell’essay<br />

a lui congeniale. Di questa giusta misura, contenuta in modo perfetto sulla<br />

pagina, il poeta conservava un piacevole ricordo, vantando la perfetta rispondenza<br />

dell’articolo, dettato alla segretaria, alla pagina, sulla quale si ammira l’opera o il<br />

particolare: «Dettavo le controcopertine senza mai dover aggiungere o togliere una<br />

singola parola o frase».<br />

i<br />

La Storia dell’arte, composta di 89 tavole, fu pubblicata sul mensile<br />

dal dicembre 1955 al dicembre 1964, portata a termine da <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> malgrado<br />

avesse lasciato la direzione del giornale dopo la tragica morte di Enrico<br />

Mattei. Una sola tavola, Cristo deriso di Rouault, è collocata nelle pagine interne<br />

del numero di dicembre ’57, dovendosi completare nell’ultima il disegno di Dino<br />

Vignali in copertina. <strong>Bertolucci</strong> aveva manifestato il suo disappunto in occasione<br />

della pubblicazione di una storia dell’arte italiana, un Tutto Longhi, senza una sola<br />

illustrazione, chiosando: «Che risulta peggio che dimezzato, tradito, ridotto a<br />

esempio di puro belletrismo, quasi esempio ‘di sartoria, di pseudo eleganza’ per<br />

dirla […] con le parole sottili e inappellabili del mio antico maestro». Era infatti<br />

ben vivo in lui il ricordo durante le mattine nevose, nell’aula delle proiezioni,<br />

del «commento del Maestro alle immagini nuove ed emozionanti della lanterna<br />

magica», dei «tagli inediti e fulminei», già incontrati nella prima edizione del Piero<br />

come «cosa nuovissima», delle giornate intere che il grande connaisseur passava a<br />

visitare con i suoi allievi palazzi e chiese mai prima visti da nessuno, a sfogliare<br />

libri e scorrere montagne di fotografie.<br />

Ecco pertanto decidere di costruire la propria pagina critica intorno a una riproduzione,<br />

che poteva conservare i colori e colpire immediatamente l’occhio<br />

del lettore. E la scelta non poteva essere che nella direzione dei capolavori, dal<br />

momento che egli credeva fermamente che soltanto la poesia fosse portatrice di<br />

verità assolute, superando il contingente e il divenire sì che, libera dalle scorie e<br />

dai limiti del momento storico, potesse entrare, con le parole di Proust, nel «tempo<br />

allo stato puro».<br />

Muovendosi tra storia, scienza dell’arte, ricerca ed estro individuali nel segno<br />

delle ragioni dell’uomo e della poesia, tracciando cronologicamente all’interno<br />

di ogni sezione per i suoi lettori le linee portanti ed essenziali di epoche storiche<br />

ed esperienze artistiche, <strong>Bertolucci</strong> parla della nascita di un genere; mostra i nodi<br />

cruciali, le connessioni e le distanze; disegna una mappa, non dettagliata ma certamente<br />

esauriente, dei tempi e delle correnti, per giungere ogni volta all’artista<br />

10 11


esemplarmente scelto e all’opera singola che ne dimostri l’altezza e l’originalità.<br />

Quando, per esigenze della sua storia a puntate, <strong>Bertolucci</strong> deve riprendere fenomeni<br />

artistici già presentati non è mai ripetitivo, ma sa variare sia i suoi incipit a<br />

carattere generale, in cui inserisce artisti importanti per lo sviluppo dell’arte, sia<br />

gli elementi di raccordo tra un’epoca e l’altra, disegnando panorami con semplicità<br />

e fluidità, trasparenza e chiarezza. E se è inevitabile richiamare nomi già presenti<br />

in articoli precedenti, lo scrittore sa sempre ricreare lo spirito del tempo e il carattere<br />

saliente dell’acquisizione o della rivoluzione del singolo artista per il divenire<br />

dell’arte occidentale.<br />

Scorrono quindi dinanzi al suo lettore, chiamato ad osservare e a condividere i<br />

pregi e l’essenza dell’opera, i movimenti più significativi della classicità e della<br />

modernità, il loro pieno affermarsi e il loro affievolirsi per opera degli epigoni e dei<br />

dilettanti, l’affacciarsi del nuovo in polemica con l’antico, il paese e la civiltà che<br />

l’ha generato, fino a considerare nuovi metodi come la fotografia, che contamina<br />

positivamente «con la sua obiettività, i suoi tagli reali» la pittura di un Courbet<br />

(Signore sulla Senna), i cui quadri da «un’obiettività all’apparenza fotografica, raggiungono<br />

una severa monumentalità, un senso d’assoluto e di necessario», mentre<br />

una «certa animalità malinconica, un certo peso greve del corpo» fa pensare a Baudelaire.<br />

Non solo. Se consideriamo la sezione in cui Courbet è inserito, Gli “Ismi”<br />

dell’arte moderna, appare subito la dote somma dello scrittore di percorrere esperienze<br />

complesse con penna sicura, sapendo perfettamente districarsi nel territorio<br />

più vivo e fertile dell’arte otto-novecentesca. È chiaro che su qualche movimento,<br />

come il Romanticismo, il Realismo o l’Impressionismo, egli torna ad insistere,<br />

avendone già parlato in altra sezione, ma quella è anche l’occasione per meglio<br />

definire e soprattutto per presentare un pittore tralasciato in altra sede (Ragazza<br />

che si pettina di Renoir avrebbe potuto essere collocata nella serie dedicata al ritrat-<br />

to), al quale non si voleva rinunciare,<br />

per la straordinaria rispondenza<br />

tra il soggetto umile, la domestica<br />

del pittore d’origine contadina nel<br />

profilo leggermente camuso, e la<br />

sublimazione della bellezza. Di altri<br />

movimenti mostra tutta la novità,<br />

facendo nomi di artisti coevi, rivelando<br />

debiti e distacchi, riferendo anche<br />

i principi teorici che li hanno sorretti,<br />

ma isolando il quadro che ha superato<br />

le teorie col fuoco dell’immaginazione<br />

e dell’arte: il puntinismo<br />

di Seurat (Pomeriggio domenicale sulla<br />

Grande Jatte), che ricompone il quotidiano<br />

in un’«assorta sublime distanza»;<br />

il fauvismo di Derain (Vigneto in<br />

primavera), che ritrae la natura caricando<br />

i colori e tutto agitando in un<br />

impeto di «ebbrezza»; l’espressionismo<br />

di Macke (Passeggiata sul ponte),<br />

che, risentendo della scomposizione<br />

cubista, non cela la malinconia dell’anima<br />

germanica; il surrealismo di<br />

Dalì (Giraffa che brucia), che insegue<br />

un suo incessante immaginare (sogno<br />

12 13<br />

La famiglia <strong>Bertolucci</strong> al completo. Da sinistra in piedi<br />

Giuseppe, Bernardo, <strong>Attilio</strong> e la moglie Ninetta. Parma, 1958


o incubo?); l’astrattismo di Kandinsky (Triangoli in curva), che mescola fantasia e<br />

geometria in una partitura che si avvicina alla musica. Quella musica che, come la<br />

letteratura, rintocca di frequente nei commenti di <strong>Bertolucci</strong>, indicando affinità e<br />

superamento dei confini tra le arti.<br />

Un discorso a parte merita l’articolo sul Futurismo, perché ne riconosce la funzione<br />

di rottura nel panorama italiano e la risonanza internazionale, ma ne limita<br />

la portata teorica (le «enunciazioni di principio, formulate più che altro da Marinetti,<br />

sono spesso confuse e qualche volta ingenue»), salvando peraltro la tensione<br />

coloristica, la scomposizione delle forme plastiche, il dinamismo della luce e il<br />

fare della pittura uno strumento di conoscenza. Di questo l’esempio più alto è il<br />

quadro Stati d’animo I - Gli addii di Boccioni, opera che, superando divisionismo e<br />

cubismo, trasferisce in unità movimento, visualizzazione di sentimenti per onde<br />

cromatiche e realtà.<br />

i<br />

L’humus in cui l’artista si è formato, gli studi e gli incontri,<br />

le curiosità e le specializzazioni, sono la premessa storico-critica perché si entri<br />

nella lettura-traduzione verbale del testo figurativo. Traduzione verbale che si<br />

avvale sì del linguaggio letterario, ma allo stesso tempo, con Longhi, «di forme<br />

di linee e colori». Non mancano le indicazioni delle somiglianze tra pittori anche<br />

lontani del tempo, di fonti classiche nel moderno, di anticipazioni (Velázquez che<br />

guarda a Caravaggio; El Greco ai bizantineggianti e ai Veneziani, al Tintoretto<br />

in particolare; Goya che da radici accademiche giunge a un’arte solo ‘sua’); di<br />

accostamenti che possono apparire sorprendenti (tra le «ombre dirupate e ferme»<br />

dell’autoritratto di Cézanne e il volto dell’Adamo di Masaccio, ad esempio, o tra<br />

i ritmi degli oggetti nello spazio di Morandi e la monumentalità di Giotto e di<br />

Masaccio o, ancora, tra la poesia «ampia e distesa» degli operai di Léger e le «serene<br />

decorazioni a fresco delle cattedrali antiche»); di approdi di grande novità morale<br />

e stilistica preannunzio di modernità, come accade in Picasso che rende omaggio a<br />

Las Meninas o in Monet , che rimanda, con esito meno potente, al Tre maggio 1808<br />

di Goya. Ma riconoscere una tradizione, uno stile, suggerisce Marisa Volpi, era<br />

proprio di Longhi come lo era «leggere l’opera nei mezzi d’espressione che fossero<br />

luce, colori, composizione».<br />

A Longhi e al suo storicismo stilistico risalgono certamente le due linee interpretative<br />

dell’arte italiana: quella disegnativa, che si distende in linea plastica e<br />

in linearistica, al cui centro è l’uomo (linea umanistica), come osserviamo nei<br />

primi testi su Cimabue, Giotto (con richiami a Masaccio), su Cosmé Tura (con<br />

richiami alla scultura di Donatello, a Mantegna e ad altri ferraresi, Ercole Roberti<br />

e Francesco del Cossa) e, proseguendo nelle tavole, su Leonardo e Caravaggio<br />

per giungere a Giovanni Fattori e a Pietro Longhi; quella coloristica, che ha al<br />

suo centro la grande «sintesi prospettica di forma e colore» identificata da Longhi<br />

in Piero della Francesca, da cui nasce la «rivoluzione» di Giovanni Bellini e dei<br />

Veneziani e che prosegue, con variazioni dovute alle mutate condizioni storiche,<br />

sino a influenzare l’Impressionismo. Anche il testo su Canestra di frutta di Caravaggio,<br />

introdotto dal «soffio impetuoso» che trasforma il classicismo idealizzante<br />

del Rinascimento in realismo di tale potenza da aprire la strada a tutta la pittura<br />

europea del Seicento, trova nelle lezioni longhiane, la sua prima fonte. Non solo<br />

quello che Longhi definisce «specchiatura diretta della realtà», qui diviene «presa<br />

diretta sulle cose, sugli uomini, che popolano quadri sacri e profani con la stessa<br />

carica di vita e di sangue», ma la scelta della natura morta da presentare ai lettori<br />

del “Gatto Selvatico”, che definisce la «prima» nella storia dell’arte non in fun-<br />

14 15


zione di racconto, ma di soggetto del quadro, evoca la «natura morta per sé sola»<br />

di cui parla Longhi, ripetendone anche l’interpretazione là dove scrive che «ci<br />

presenta un cestino vero, della frutta vera, anche bacata, delle foglie vere, anche<br />

appassite». Non diversamente leggiamo in Caravaggio del maestro bolognese: «Il<br />

Caravaggio aveva invece dipinto la cestina comune dell’affittacamere colma di<br />

frutta a buon mercato; dove perciò accanto alla mela sana, non mancava mai quella<br />

bacata; così come nei pampini del Bacco, accanto alle foglie virenti, ci sono anche<br />

quelle vizze e scolorite, come Dio manda».<br />

Da queste linee portanti si diramano le sezioni dedicate alle diverse esperienze<br />

europee dei secoli che vanno dal Quattro-Cinquecento al Seicento e ai secoli<br />

seguenti, sempre con un occhio assai attento al rapporto tra civiltà e suoi contrasti<br />

e cambiamenti, vita individuale e opere. Le influenze del classicismo fiorentino<br />

emergono subito nella pittura tedesca con Dürer, che manifesta il bisogno di far<br />

propria l’armonia italiana, coniugandola con la natura aspra e dolente della sua<br />

anima nordica; anima che prevale, senza compromessi con il bello, nel «troppo<br />

umano» e nel sentimento religioso e tragico di Grünewald, mentre Altdorfer sente<br />

la natura «con un soffio così grandioso da anticipare Hölderlin e Beethoven» e ne<br />

fa lo sfondo di un evento sacro svariante di tinte di grande forza poetica. Trattando<br />

poi della pittura fiamminga è naturale che sia sottolineata la natura più empirica<br />

dell’arte di Fiandra rispetto alla più ideologica arte italiana. Eppure quanti<br />

interscambi vengono alla luce dalla presentazione di <strong>Bertolucci</strong> sì che l’impronta<br />

fiamminga si coglie nei quattrocentisti ferraresi, in Antonello da Messina, mentre<br />

impronte francesi e della nostra arte si ravvisano in Van der Weiden e in Van Eych.<br />

Nella lettura dei dipinti offerti allo sguardo dei lettori emergono, accanto al virtuosismo<br />

tecnico, la «resa lenticolare della realtà » del Ritratto dei coniugi Arnolfini di<br />

Jan Van Eych, divenuto «pura contemplazione e astrazione»; l’aderenza alla realtà<br />

di un giorno qualsiasi nei Cacciatori nella neve di Bruegel il Vecchio; gli umori<br />

naturalistici e vitali e l’armonia di contrastanti colori del Paesaggio con Filemone e<br />

Bauci di Rubens.<br />

Anche nella pittura spagnola acquisizione individuale e spirito dell’età si connettono,<br />

sì che El Greco è accostato a Velázquez e a Goya, ma unico a rappresentare<br />

la grande arte di chi ha dipinto, con sintesi visionaria e deformazione irrealista,<br />

deformazione già presente nell’arte dai pittori senesi a Simone Martini a Modigliani,<br />

un ritratto (Frate Ortensio Paravicino) in cui si esprime il «fuoco notturno di<br />

un volto», in gara con la drammaturgia del Don Carlo di Verdi. Allo stesso modo<br />

l’illusionismo di Velázquez, che si rifà a Caravaggio e più indietro a Masaccio e a<br />

Giotto, ferma in Las Meninas con una straordinaria verità un «gruppo di famiglia<br />

spassionato, privo di qualsiasi appiglio intellettuale, di qualsiasi intenzionalità»,<br />

sì che pare che non sia l’arte a riprodurre la vita, ma sia la vita stessa ad aprirsi su<br />

un giorno perduto. Goya infine rappresenta nel drammatico Tre maggio 1808 la<br />

realtà della violenza e della miseria nel suo farsi, ma la sublima investendola del suo<br />

impegno morale e stilistico.<br />

Altra è l’aria che si respira al leggere le tavole della pittura inglese, con risultati alti<br />

a partire dal Settecento e inoltrandosi nell’Ottocento da parte di artisti capaci di<br />

rappresentare la società del loro tempo. Ricorrono qui i nomi di poeti assai frequentati<br />

da <strong>Bertolucci</strong>, Coleridge e Wordsworth accanto ai pittori Turner e Constable<br />

per il sentimento e l’elegia della natura che essi esprimono in sommo grado.<br />

16 17<br />

i<br />

Verità del reale e creazione artistica divengono lungo gli articoli<br />

un binomio indissolubile su cui insistono le predilezioni e le scelte di Ber-


tolucci; e certamente fu la frequentazione dell’arte moderna e contemporanea a<br />

influire sulla sua pagina, che si fa più complice e appassionata quando si sposta tra<br />

’800 e ’900. Allora si colgono alcune istanze che lo rendono più vicino a Francesco<br />

Arcangeli nel lasciar affiorare, pur con tratti lievi e mai insistiti, referenti<br />

psicologici ed esistenziali. A differenza di Longhi che, crocianamente, riteneva<br />

che fosse il poeta a «trasfigurare per via di linguaggio l’essenza psicologica della<br />

realtà», mentre il pittore «ne trasferisce l’essenza visiva», era stato infatti Arcangeli<br />

a spostare l’accento sul valore esistenziale dell’arte, sottolineando la «condizione<br />

e l’essenza ultima dell’arte come peso e necessità di vita», come coscienza della<br />

condizione umana e del passare del Tempo. Aggiungeva inoltre che, se vi è una<br />

specificità dell’arte «per cui arte è arte e non altra cosa», essa è anche legata «con<br />

radice profonda a un certo esistere nella vita». Ed era stato <strong>Bertolucci</strong> a rammentare<br />

a Vittorio Sereni che Arcangeli in un «bellissimo saggio sugli impressionisti»<br />

aveva parlato anche per la loro poesia: una poesia del «tempo fisico», con Sereni<br />

«fedele al tempo vissuto» e capace di rinnovare lo sguardo sulla natura e di mettere<br />

a fuoco, sui dati dell’esperienza, lampi di verità.<br />

Il pensiero dell’esistenza umana si accentua particolarmente quando affronta la<br />

pittura americana e la pittura dell’età industriale. Un terreno che conosce assai<br />

bene, incontrato nei molti film da lui visti e nei molti romanzi letti, un mondo che<br />

lo appassiona al pari dei grandi poeti anglosassoni che hanno determinato la sua<br />

formazione. E se i cenni a Melville o a Stephen Crane sono rapidi, com’è giusto,<br />

essi servono a dare sostanza di luoghi e di cultura al mondo artistico. Dall’America<br />

emerge così Homer, che, già disegnatore dalla penna incisiva di istantanee di<br />

guerra, anticipa il taglio cinematografico nella composizione di un Gioco di ragazzi<br />

usando colori del tutto nuovi, caldi di terra e di legno: «È l’ora di un giorno qualunque<br />

rapita per sempre al flusso crudele del tempo, e divenuta, per l’obiettività<br />

estrema del pennello che l’ha colta, di un incanto<br />

remoto, straziante». Torna il grande cinema<br />

americano di Griffith e di Chaplin, capace di<br />

rendere l’intreccio di durezza e di speranza (il<br />

Monello fu un film fondamentale della formazione<br />

di <strong>Bertolucci</strong>) nella lettura del Ponte di Willis<br />

Avenue di Ben Shahn, non opera di denuncia ma<br />

verità della solitudine, senza sentimentalismi o<br />

ornamenti.<br />

Non poteva una rivista come “Il Gatto Selvatico”,<br />

che aveva accompagnato come house organ<br />

gli sviluppi di una grande compagnia industriale,<br />

tralasciare l’arte dell’età delle macchine.<br />

E <strong>Bertolucci</strong> non si sottrae al compito, pur<br />

avendo, come si è detto, lasciato la direzione<br />

dopo la morte di Mattei. Naturalmente registra<br />

il rifiuto di quei pittori che, contro la meccanizzazione,<br />

desiderano tornare alla natura;<br />

manifesta, scrivendo del Futurismo, riserve per<br />

gli esiti che portarono al Fascismo, ma presenta,<br />

per sottolineare il momento più ottimistico<br />

della rivoluzione industriale, il quadro Esperimento<br />

con una pompa ad aria dell’inglese Joseph<br />

Wright. È un artista minore, ma <strong>Bertolucci</strong> sa che talvolta i minori possono<br />

illuminare un’epoca, aggiungere, come in questo dipinto, umanità all’esperimento<br />

scientifico nella desolazione dello sguardo di bambini. Nell’Ottocento è<br />

18 19<br />

<strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> mostra un disegno di Zavattini<br />

esposto nella casa del regista in via Carini.<br />

Roma, anni ‘70


Turner a dipingere Pioggia, vapore e velocità con spirito naturalistico e romantico.<br />

Ma l’opera che <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> predilige tra i quadri che raffigurano temi e<br />

stazioni è ancora un Monet, La stazione di Saint-Lazare, che non documenta ma<br />

interpreta cromaticamente il tema.<br />

Sembra che siano piuttosto gli innesti di poesia nella registrazione della vita contemporanea<br />

a colpire il critico d’arte: l’aeroplano che s’innalza nella «ferma, stupefatta<br />

atmosfera di un pomeriggio di domenica» di Pescatori con la lenza di Rousseau;<br />

le macchine inutili, non prive di grazia di Parata amorosa di Francis Picabia; il<br />

mostro che avanza, incubo o proiezione dell’inconscio, vaga immagine d’uomo,<br />

macchina inutile ornata da una assurda manica di pizzo dell’Elephant Celebes di<br />

Max Ernst; la resa <strong>inedita</strong>, senza realismo polemico né patetismo, del quotidiano<br />

degli operai nello studio per I costruttori di Léger; la sintesi di stile del Camion giallo<br />

di Mario Sironi, stile «impastato e doloroso» che affianca al mezzo meccanico<br />

le orbite vuote delle case delle periferie urbane, simbolo della triste condizione<br />

operaia; il trofeo di cucina tra pittura e scultura infine della Stufa di Claes<br />

Oldenburg, la cui adesione alla Pop art significa documentare con ironia o forse<br />

con critica «spietata» oggetti della società dei consumi, oggetti dell’uso comune<br />

che sopravvivono solo grazie al gesto dell’artista. E si noti come anche dinanzi a<br />

molte di queste opere, fortemente allusive alla modernità, <strong>Bertolucci</strong> porti sempre<br />

il suo sguardo all’indietro ora all’arte classica ora alla moderna (le decorazioni a<br />

fresco delle cattedrali antiche per Léger o i maestri italiani classici e Cézanne per<br />

Sironi).<br />

In questo modo la Storia dell’arte di <strong>Attilio</strong> <strong>Bertolucci</strong> trova uno sviluppo coerente<br />

che abbraccia in una visione aperta e continuamente vitale le linee profonde, ma<br />

mai perse, di un processo che per lo scrittore nasceva dalla vita e dall’umano e,<br />

con succhi ispiratori diversi e nuovi, alla vita tornava. Come Longhi gli aveva<br />

insegnato: «cavare sempre qualcosa di vero, un segno di vita e dunque d’arte, il cui<br />

motivo unico, anche nell’età di maggior formalismo […] è la vita e non può essere<br />

altro» (L’ora della lezione).<br />

Il ricorso ai principi della «fedeltà al vero» e della libertà creativa dell’artista è<br />

evidente già nelle prime tavole di Storia della pittura: se sull’astratto fondo oro del<br />

Profeta della Madonna in Maestà di Cimabue la plasticità ridona «forza morale» alla<br />

figura umana e anticipa l’umana sintesi di Giotto, è nel bellissimo pezzo su Piero<br />

della Francesca ch’egli riconosce nel ritratto di Battista Sforza il «vero trasposto<br />

sul piano dell’arte con una fedeltà assoluta». Ma si rammenti: per <strong>Bertolucci</strong><br />

«fedeltà dell’arte» significa ricreazione e invenzione. È la sua poetica ad essere<br />

tangente a questo principio, cui resterà legato durante tutta la sua opera, trasfigurando<br />

la vita nella poesia della grandiosa Camera da letto. Nel racconto d’arte<br />

del “Gatto Selvatico” egli ritorna con insistenza alla «fedeltà al vero», accostando<br />

quei pittori che hanno saputo restituire visione e durata alla realtà da essi<br />

percepita e contemplata. È dapprima Morandi, a lui carissimo, che nella Natura<br />

morta «senza scomporre il vero, come Picasso, deformarlo, come Modigliani, ha<br />

saputo ricrearlo per noi in maniera miracolosa». Ma, dopo di lui inserito a buon<br />

diritto nella Storia della pittura, vengono altri maestri, gli artisti vissuti tra ’800 e<br />

’900 che aveva maggiormente ammirato nelle esposizioni veneziane, alle quali<br />

si è accennato, artisti i cui nomi si riaffacciano nelle tavole della rivista di <strong>Eni</strong>,<br />

resi protagonisti di passi in cui più vibrante e partecipe appare la sua esposizione.<br />

Certe intime risonanze, vere e proprie intermittenze del cuore, si manifestano<br />

con gli impressionisti e i paesaggisti, i pittori d’interni, i contemporanei. Anche<br />

risultati più duri calligraficamente (vedi l’espressionismo di Macke) che fanno<br />

pensare a fratture dell’animo, lasciano echi sulla pagina, mentre, d’altro canto,<br />

egli si rifugia nella freschezza e nella felicità «incantevole» dei fauves dall’«allegra<br />

20 21


fiammata», di tutti quei pittori supremi che hanno saputo dipingere «un po’ di luce<br />

vera», come recita l’epigrafe da lui apposta ai suoi versi giovanili.<br />

Quando apre la sezione Maestri della pittura moderna il suo consenso è pieno per<br />

quella «liberazione dell’artista da temi e da regole d’obbligo», già avviato in Italia<br />

dai Macchiaioli e dal maggiore tra questi, Giovanni Fattori, ma portato avanti<br />

da personalità più spiccate in Francia. Ed è Monet, il più puro e a lui affine, ad<br />

inaugurare la serie con Neve ad Argenteuil, in cui la «resa precisa eppur poetica della<br />

natura, colta nel fluire del tempo, nel mutare delle ore, nel trascolorare dei colori»<br />

sa dare eternità alla fugace ora del giorno «con tanta verità e poesia, con tanta<br />

poesia appunto perché con tanta verità». Ma anche Cézanne, che dall’impressionismo<br />

si allontana per superarne la visione sensuale e istantanea, ricostruisce il vero<br />

(I giocatori di carte) in una «sintesi prima mentale, poi formale, poderosa, eterna».<br />

Non lontano dalla libertà degli impressionisti, da lui accentuata, è Van Gogh, che<br />

piegando la natura alle più intense emozioni, cerca nello Scolaro un’interiore significazione,<br />

la verità psicologica di una solitudine che i colori rivestono; e ancora,<br />

in questa serie di pittori di grande rinnovamento pittorico, Gauguin, che, dipingendo<br />

le Femme de Tahiti ou sur la plage dona «forme semplici e colori interi» a paesi<br />

e volti primitivi; Matisse (Donna con la collana d’ambra) che fa «squillare» i colori<br />

in accostamenti inusitati, trasferiti la linea e i colori reali in direzione simbolica;<br />

Utrillo, i cui paesaggi e i cui angoli di Monmartre (Rue l’Abreuvoir) sono «inventati,<br />

anche se con fedeltà al vero, e quasi sognati […] visione che è dell’anima prima<br />

che dei sensi»; Modigliani (Ragazza con trecce), che reinventa nella sua «dolcissima<br />

e pura linea allungata» quello che nella sua vita di maudit vede ogni giorno;<br />

Chagall (Il gallo), che, partendo dal sogno arriva alla realtà e la crea «nel suo ritmo<br />

teneramente fantastico, nella sua invenzione freschissima, nel colorismo candido,<br />

barbarico e raffinato»; il mistico Rouault (Cristo deriso), che ha rappresentato il<br />

22 23


dramma della Passione «spremendo dalla vita del suo tempo i motivi del dolore<br />

e dell’amore, della speranza»; Mondrian (Albero rosso) infine, artista che chiude<br />

l’esperienza figurativa della natura per aprirsi all’assoluto di forme astratte, accordi<br />

chiaroscurati a «scacchiera di colori», reticoli spezzati.<br />

Il tema del ‘vero’, unito a quello della natura, percorre naturalmente, insito com’è<br />

nel cuore e nella mente di <strong>Bertolucci</strong>, anche le altre sezioni ed in particolare quelle<br />

dedicate al paesaggio: facendo scorrere davanti al suo lettore l’arte del paesaggio<br />

attraverso i secoli, da quinta teatrale sublimemente semplice nell’arte trecentesca<br />

al lucido senso spaziale, narrativo e drammatico dell’arte del Quattrocento, ai<br />

paesisti veneti agli Impressionisti, «supremi poeti della natura», lascia affiorare il<br />

pensiero del rapporto con la propria terra, che il pittore, come il poeta, trasferisce<br />

idealizzata sul piano dell’arte. E mentre, passando al secolo dei Lumi, mette in<br />

risalto l’intelligenza razionale e lucida della natura e il rilievo dato alla precisione<br />

ottica e cristallina (il «nitore favoloso» di Canaletto, ma l’opera riprodotta, Veduta<br />

della Gazzada, è oggi attribuita al nipote Bernardo Bellotto), già ci conduce, spostandosi<br />

all’Ottocento, nuovamente nel terreno impressionista.<br />

i<br />

È sulla luce che poggiano alcune tra le interpretazioni più<br />

significative di <strong>Bertolucci</strong>, quella stessa luce che, nelle sue prime raccolte in versi,<br />

rivela le cose, le illumina, bagna l’intonaco, tenendo lontana l’ombra dalla soglia<br />

della casa, il buio del dolore. Sono soprattutto le prove luministiche di Vermeer<br />

a rivelare l’intreccio di verità e poesia, la resa artistica del sentimento del Tempo.<br />

Modello altissimo, del quale <strong>Bertolucci</strong> propone sia La donna che scrive una lettera<br />

alla presenza della domestica sia La merlettaia, Jan Vermeer rappresentò la quiete<br />

dell’anima seicentesca, offrendo una meditazione assorta, intensa, quasi «metafisica»,<br />

della vita domestica, nell’immobilità e nella relazione spaziale delle figure,<br />

nella magia sapiente della luce che ora bagna la porosità dorata della parete, l’incontrarsi<br />

di luce e ombra sul volto della ricamatrice, ora intride e modella col suo<br />

«miele» la stanza e la scrivente della Lettera, mentre il Tempo si percepisce nel suo<br />

lento scorrere. Ancora la luce e il Tempo sono il segreto sia della scena notturna<br />

della Lampada a petrolio di Bonnard, lampada che «rode» l’oscurità del crepuscolo<br />

«tutto dorando e avvampando nel suo quieto, meraviglioso filare», sia del Duetto<br />

di Braque, le cui scomposizioni cubiste lasciano riconoscere la forma delle cose<br />

nel gioco di una luce «capricciosa e insieme geometrica», nel passaggio prezioso<br />

di luce-ombra e addirittura in «una sonorità un po’ stridula, agra ma fresca». Luce<br />

e ombra sono parte della tavolozza del poeta di Viaggio d’inverno, la raccolta in<br />

cui più insistente si fa il pensiero della fine e della corsa inarrestabile del tempo<br />

umano. Eppure è all’arte, ai suoi messaggi, che <strong>Bertolucci</strong>, il quale intitola un suo<br />

componimento La consolazione della pittura, chiede non solo la perfezione della<br />

forma, il sentimento dell’uomo e della natura, ma anche ristoro e conforto dall’inesorabilità<br />

del transito perenne della vita. Anche nelle tavole del “Gatto Selvatico”<br />

si odono sparsi echi di un mondo lacerato, amari pensieri che riguardano il<br />

presente, le sue contraddizioni, la precarietà del divenire. Il passato ne è investito,<br />

come nel testo su Giotto: «È a Giotto, come a Dante, che possiamo chiedere<br />

insieme la consolazione dell’arte e il messaggio spirituale: perché la nostra epoca,<br />

non meno dura di quella in cui essi vissero, ne sente, malgrado le apparenze,<br />

profondamente l’esigenza». O ancora in Tiziano, dove, dopo aver magistralmente<br />

letto la Flora, cui il «pennello carico di succhi e intriso di luce» dà unità, rendendola<br />

simbolo della bellezza e della gioventù, annota: «Al nostro occhio, e al nostro<br />

animo di moderni, avvezzi ad un’arte duramente impegnata a rappresentare un<br />

24 25


mondo lacerato e ferito, la colata aurea di luce e colore che è la Flora tizianesca può<br />

alle prime apparire lontanissima, irraggiungibile. Ma basta che ci lasciamo andare,<br />

perché ne restiamo dolcemente sommersi, e, alla fine, consolati e come guariti».<br />

Ma quando il poeta si avvicina al contemporaneo, più frequente si fa il richiamo<br />

ai turbamenti della vita, alla durezza della civiltà di massa e delle megalopoli (si<br />

leggano le parole dedicate ai «relitti angosciosi» del Ponte di Willis Avenue di Ben<br />

Shahn). Basti ricordare quanto scrive sulla pittura americana, sull’Action painting<br />

e su Pollock in particolare, la cui pittura è evocata, con Giovanni Raboni, dagli<br />

effetti di «colata informe» e di «sgocciolamento e oltraggio» della sintassi di alcune<br />

liriche di Viaggio d’inverno.<br />

Egli sa bene che la magia o il mistero dell’arte fanno scoprire atmosfere impensate,<br />

connessioni segrete tra ciò che è trascorso e l’improvviso affiorare della memoria<br />

involontaria, delle evocazioni e delle epifanie che interrompono il viaggio senza<br />

ritorno. Sono l’arte e la poesia «a salvarci», scrisse in una recensione ad una mostra<br />

del pittore Pompilio Mandelli alla Medusa del 1957, commosso da «una giornata<br />

di una vita così intensa da stordire», da una «piena d’amore per la bella natura che<br />

in questo momento è così, e così non sarà più e nemmeno noi, se non ci fosse la<br />

poesia, l’arte a salvarci». Sono quasi le stesse parole usate nell’agosto 1961 per Las<br />

Meninas di Velázquez «finestra aperta su un giorno del tempo perduto (ma fermato<br />

per sempre con una verità da stordire)».<br />

All’arte dunque il compito di dare ai luoghi, alle cose e ai volti, alle ore del giorno e<br />

alle stagioni il colore e la forma d’assoluto; il compito di arrestarli «per sempre», di<br />

rivelare il loro mistero, l’atemporalità del loro essere così e non più altro, l’essenza<br />

di «Verità e Bellezza - Bellezza e Verità». È il verso che chiude l’Ode su un’urna greca<br />

di Keats, verso che <strong>Bertolucci</strong> fece suo perché è questo il privilegio dell’arte: «dare<br />

eternità alle cose». Investite dal motivo del Tempo le opere d’arte, che la penna<br />

del poeta descrive dall’interno, facendole esistere con le sue parole, portano tutte,<br />

accanto alla perfezione tecnica e visiva di linee, volumi, spazi, forme e colori, il<br />

segno di un mondo perduto e di un tempo senza tempo, che è impregnato, come<br />

scrive di Chardin, di una poesia «tanto più straordinaria quanto più segreta» e della<br />

«luce vera» e perenne di un momento di vita e di poesia.<br />

26 27


Cimabue<br />

Giotto<br />

Piero della Francesca<br />

Giovanni Bellini<br />

Cosmè Tura<br />

Leonardo da Vinci<br />

Tiziano Vecellio<br />

Caravaggio<br />

i maestri della pittura<br />

Pietro Longhi<br />

Giovanni Fattori<br />

Claude Monet<br />

Paul Cézanne<br />

Vincent Van Gogh<br />

Paul Gauguin<br />

Henry Matisse<br />

Maurice Utrillo<br />

Amedeo Modigliani<br />

Marc Chagall<br />

Georges Rouault<br />

Piet Mondrian<br />

Pieter Bruegel il Vecchio<br />

Hieronymus Bosch<br />

Rembrandt<br />

Jan Vermeer<br />

Diego Velázquez<br />

Francisco Goya<br />

Matthias Grünewald<br />

Albrecht Altdorfer<br />

William Turner<br />

John Constable<br />

Antonio Ligabue


dicembre 1955<br />

⎡ Madonna in Maestà<br />

Cimabue<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

La pittura italiana comincia con Cimabue, che nato a Firenze<br />

nel 1240 e morto circa nel 1302, innesta sulla tradizione preziosa ma sterile del<br />

bizantinismo, dominante da secoli non soltanto in Oriente ma anche in Occidente,<br />

il vigoroso realismo della scultura romanica.<br />

Il frutto supremo di questa sintesi sarà la pittura di Giotto, del tutto compiuta nel<br />

suo linguaggio formale, inconfondibilmente italiana come la poesia di Dante a<br />

essa contemporanea.<br />

In questo particolare della Madonna che sta agli Uffizi, la personalità di Cimabue<br />

si afferma in tutta la sua severa grandezza: dal fondo oro, ancora astratto, secondo<br />

la maniera simbolistica dei bizantini, ma già reso concreto per il trono che vi si<br />

inserisce dando una illusione nuova di profondità, il Profeta si stacca con una forza<br />

indicibile.<br />

La plasticità con cui è resa la sublime figura del vecchio non è un puro risultato<br />

tecnico di superamento della piattezza cui era ridotta la pittura precedente,<br />

ma un’altissima affermazione di forza morale. Cimabue, ridando corpo alla<br />

figura umana, come avevano fatto qualche tempo avanti nella pietra e nel marmo<br />

Benedetto Antelami e Nicola Pisano, libera la pittura dal formalismo calligrafico<br />

dei bizantini.<br />

Per molti italiani Cimabue rimane il mitico maestro di Giotto, il pittore già<br />

affermato e disinteressato che un giorno, per caso avendo scoperto un pastorello<br />

intento a disegnare sulla pietra, lo porta con sé e ne fa il più grande pittore del<br />

secolo. Non sappiamo quanto ci sia di vero nella leggenda, quel che è certo è che<br />

31


Cimabue rappresenta un momento necessario nella storia dell’arte, fra la splendente<br />

ma fredda tecnica bizantina e la pittura di Giotto, umanissima anche se tutta<br />

vibrante di sentimento religioso.<br />

Purtroppo, di Cimabue rimangono pochissime opere sicure: gli affreschi notevolmente<br />

guasti della Basilica superiore di San Francesco in Assisi, la Madonna in<br />

Maestà da cui è tratto il particolare che pubblichiamo, e qualche altro dipinto su<br />

tavola.<br />

febbraio 1956<br />

⎡ Madonna di Ognissanti<br />

Giotto<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

i<br />

Giotto è nato a metà del Duecento come Dante: la sua importanza<br />

per la storia della pittura non è inferiore a quella che ha l’autore della<br />

Divina Commedia per la storia della letteratura. Entrambi avevano avuto, l’uno in<br />

Guinizelli l’altro in Cimabue, l’avvio giusto: ma quanta strada in avanti dovevano<br />

poi percorrere. Tanta che noi oggi, guardando alle loro opere, sentiamo che i<br />

secoli e le personalità, anche grandissime, venute dopo di loro, non hanno aggiunto<br />

nulla di essenziale alla loro compiuta perfezione.<br />

È a Giotto, come a Dante, che possiamo<br />

chiedere insieme la consolazione dell’arte<br />

e il messaggio spirituale: perché la nostra<br />

epoca ne sente profondamente l’esigenza.<br />

Già del tutto libero dalle astrattezze<br />

bizantine, Giotto, rinarrando nei cicli<br />

di affreschi di Assisi e di Padova le<br />

storie di san Francesco e di Gesù, racconta<br />

sublimemente la storia dell’uo-<br />

32 33


mo, le sue gioie, i suoi dolori, le sue angosce e la sua speranza. Infatti la divinità<br />

non è per lui superbamente stilizzata, ma umilmente resa nel suo peso corporeo,<br />

veramente incarnata. Lo spazio, come si vede nel trono di questo particolare della<br />

Madonna che sta agli Uffizi, è appena segnato illusionisticamente sul fondo ancora<br />

dorato; ma le figure, per effetto del chiaroscuro possente, risaltano con una plasticità<br />

mai prima raggiunta nella pittura. Severità e dolcezza si fondono in questi volti<br />

presi nell’estasi della contemplazione, eppure consapevoli della condizione umana.<br />

Il colore, come sarà in tutta la pittura fiorentina sino a Masaccio e a Michelangelo,<br />

non squilla né splende, ma si distende quietamente entro la struttura monumentale<br />

del volume, non già a rivestirlo, ma a rivelarlo con maggior forza. Il più antico dei<br />

grandi pittori italiani è anche il più moderno: mentre la fastosa ricchezza coloristica<br />

e il virtuosismo tecnico dei maestri del Rinascimento, pur suscitando in noi ammirazione<br />

e stupore, raramente ci commuovono, le figure gravi, gli sfondi essenziali, i<br />

colori sobri di Giotto trovano la più grande rispondenza nel nostro animo.<br />

È a Giotto, come a Dante, che possiamo chiedere insieme la consolazione dell’arte<br />

e il messaggio spirituale: perché la nostra epoca, non meno dura di quella in cui<br />

essi vissero, ne sente, malgrado le apparenze, profondamente l’esigenza.<br />

marzo 1956<br />

⎡ Ritratto di Battista Sforza<br />

Piero della Francesca<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

i<br />

Con Piero della Francesca siamo già nel Rinascimento: la<br />

pittura, che abbiamo visto in Cimabue liberarsi con difficoltà dai legami della<br />

sublime ma sterile astrazione bizantina, e in Giotto farsi di una concretezza tanto<br />

più assoluta quanto più ferreamente armata di spirito religioso, ha già avuto nei<br />

primi del Quattrocento, in Masaccio, chi le ha dato la forza di poggiare del tutto,<br />

intrepida, sulla terra.<br />

L’Umanesimo, con la riscoperta e lo studio degli antichi, ha fornito agli artisti gli<br />

strumenti per misurare lo spazio, sì da poter inserire l’uomo, per la prima volta<br />

sentito nel suo peso corporeo ma equilibrato di consapevolezza spirituale, entro<br />

la Natura. Che si apre, come vedete in questo paesaggio slontanante all’infinito<br />

dietro il profilo cristallino della duchessa Battista Sforza, non più scenario inventato<br />

dal vero ma vero trasposto sul piano dell’arte con una fedeltà assoluta.<br />

Il volume del busto fermo e del volto impassibile, che fa pensare alla geometrica<br />

esattezza della scultura egizia, viene ravvivato dal tocco della luce meridiana<br />

che intride le perle della collana come, in una rispondenza perfetta, le<br />

merlature dei castelli: cui il grande pittore ha dato insieme funzione simbolica<br />

di emblema della signoria ducale e naturalistica di rappresentazione del paese<br />

umbro-tosco-marchigiano.<br />

Questo ritratto, che si trova agli Uffizi con quello, compagno, di Federico di<br />

Montefeltro duca d’Urbino e marito di Battista Sforza, fu dipinto dal pittore della<br />

Francesca circa nel 1465. Piero della Francesca è l’espressione più alta della maturità<br />

piena e dorata cui l’arte italiana è giunta a metà del Quattrocento: in questo<br />

quadro piccolo eppure senza limiti confluiscono la plasticità di Masaccio e la luce<br />

di Domenico Veneziano, la scienza prospettica di Paulo Uccello e persino il colorismo<br />

prezioso dei fiamminghi. Tutti questi precedenti, che rappresentano la varia<br />

essenza del primo Rinascimento figurativo, al fuoco intellettuale della mente di<br />

Piero, teorico oltre che creatore sommo, raggiungono una nuova, originalissima,<br />

inimitabile sintesi.<br />

34 35


La lezione di armonia dell’arte pierfranceschiana troverà rispondenza soltanto in<br />

Raffaello, che senza indebolirne la struttura, l’addolcirà miracolosamente.<br />

aprile 1956<br />

⎡ Sacra conversazione Giovannelli<br />

Giovanni Bellini<br />

Gallerie dell’Accademia - Venezia ⎦<br />

i<br />

A metà del Quattrocento, portata avanti dal supremo sforzo<br />

conoscitivo e creativo dei maestri toscani, la pittura italiana fiorisce con una ricchezza<br />

mai prima raggiunta. E fiorisce un po’ dovunque, traendo dalla terra d’origine<br />

i succhi vitali che la nutrono e la differenziano, pur nella generale, aurea<br />

misura del Rinascimento.<br />

Già in questo secolo la grande alternativa alla tradizione plastica toscana vien data<br />

dai pittori di Venezia, compresi quelli che nell’entroterra ricevono la mobile luce<br />

naturale della laguna e il sublime riflesso del colorismo bizantino, tenacissimo qui<br />

anche per il durare dei rapporti commerciali con l’Oriente.<br />

La Madonna che riproduciamo, e che si trova nella Galleria dell’Accademia di<br />

Venezia, è opera della prima maturità di Giovanni Bellini, figlio e fratello di<br />

pittori, quasi simbolicamente rappresentativo, nella sua carriera d’artista, di tutto<br />

il cammino della pittura veneziana. Partito infatti dalla maniera ancora un po’<br />

chiusa nel formalismo protorinascimentale del padre Jacopo, divenuto poi più<br />

liberamente spaziale nella composizione e morbidamente naturale nella resa delle<br />

figure, finirà per toccare la nuova sintesi espressiva di luce e colore dei suoi grandi<br />

scolari all’alba del Cinquecento, da Giorgione al Tiziano.<br />

Quante Madonne sono state dipinte nell’arte italiana, da Cimabue al Tiepolo.<br />

Eppure, se anche vi si sono cimentati uomini della forza di Giotto e dell’Angelico,<br />

di Raffaello e del Correggio, bisogna dire che quelle di Giovanni Bellini hanno<br />

saputo più di tutte le altre darci quel senso di divino e umano insieme, di umile e<br />

di regale che caratterizza per noi la figura della Madre di Dio. Questa che vedete<br />

è una delle tante che Giovanni Bellini ha dipinto, non è neppure la più famosa.<br />

Eppure guardatela: spira dal suo volto di giovinetta-madre una tale dolcezza, dolcezza<br />

che si rivela anche nel gesto delle mani aperte a raccogliere il Figlio, da<br />

lasciarci commossi sino al turbamento. E dietro di lei il paesaggio, sopito in una<br />

luce di tarda primavera, ha già l’autonoma poesia che trionferà nel Cinquecento<br />

veneziano e che troverà i suoi ultimi, grandi poeti negli impressionisti.<br />

maggio 1956<br />

36 37<br />

i<br />

⎡ San Domenico<br />

Cosmè Tura<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

Il Quattrocento in Italia non vede soltanto fiorire in pittura la<br />

scuola severamente umanistica che da Masaccio porterà poi sino a Michelangelo, e<br />

la scuola più apertamente naturalistica dei veneti, che da Giovanni Bellini si estenderà<br />

sino al glorioso meriggio tizianesco. Altre scuole pittoriche, sotto l’impulso<br />

del fecondo metodo di ricerca rinascimentale, si affacciano sulla scena artistica<br />

italiana: fra queste, prepotentissima, quella ferrarese.<br />

In essa si assommano e vengono mirabilmente potenziati quei caratteri di realismo<br />

espressivo che già albeggiavano in tutta la pittura settentrionale del Trecen-


to, differenziandone lo stile, pur nella comune ispirazione mistica, dalla solenne<br />

maniera giottesca.<br />

Su questa base tradizionale nel Nord Italia, e più generalmente nel Nord Europa,<br />

s’innesta nella prima metà del secolo l’alto insegnamento di Donatello, le cui<br />

opere padovane, dalla statua equestre del Gattamelata ai rilievi bronzei per l’altare<br />

di Sant’Antonio, saranno guida a tutti gli artisti settentrionali, compreso il<br />

grande Mantegna. Ma i ferraresi, da Cosmè Tura a Ercole Roberti a Francesco<br />

del Cossa, nomi di personalità fortissime ma purtroppo non ancora giunte alla<br />

cultura comune, possono conoscere e seguire altri pittori del tempo, come Piero<br />

della Francesca e il fiammingo Rogier van der Weyden. Dal primo impareranno a<br />

segnare gli spazi nella luce, dal secondo a inseguire la realtà sin nelle sue minuzie.<br />

Questo San Domenico che vi balza agli occhi, forse per la prima volta, dalla mirabile<br />

tavola degli Uffizi, è una delle opere meritatamente più famose di Cosmè<br />

Tura, e rappresenta in modo perfetto le alte qualità della pittura ferrarese del<br />

Quattrocento. Può darsi che la resa aspra del reale, in cui Tura è maestro, possa alle<br />

prime dispiacere. Ma non bisogna fermarsi alle apparenze: emulo in quest’opera<br />

dei grandi scultori del suo tempo, il pittore ferrarese ha qui voluto e saputo modellare<br />

con il colore la forma del corpo umano, con tale vigore, che la figura del santo<br />

sembra veramente uscir fuori dal fondo. Ma la durezza incisiva dei contorni, la<br />

quasi rupestre anfrattuosità dei panneggi, la dolorosa povertà del colore non sono<br />

fine a se stesse. Non si tratta insomma d’una fredda esercitazione di virtuosismo o<br />

di bravura. La figura del santo infatti è portata nel suo insieme, malgrado l’estrema<br />

finitura dei particolari realistici, su un piano di suprema spiritualità.<br />

Nel ricco e vario panorama della pittura italiana del Quattrocento oltre il paesaggio<br />

netto e puro dei toscani e il dolcissimo dei veneti, questa natura scoscesa e aspra dei<br />

ferraresi ha ben diritto di venire considerata e ammirata, senza riserva alcuna.<br />

giugno 1956<br />

⎡ Annunciazione<br />

Leonardo da Vinci<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

Nella seconda metà del Quattrocento la pittura, dopo il vario<br />

e arduo sperimentare dei maestri che, sull’esempio degli antichi, avevano ripreso<br />

possesso della natura dopo il lungo sogno mistico del Medioevo, si avvia a un<br />

approfondimento sempre maggiore delle conquiste di prima. Inizia cioè quel glorioso<br />

momento di assoluta padronanza dei mezzi formali che permetterà a uomini<br />

come Michelangelo e Leonardo, Raffaello e Tiziano e Correggio, di portare, in<br />

maniera diversa ma arcanamente concorde, l’arte italiana a un punto di sublime,<br />

unica pienezza e perfezione.<br />

Il primo, e il più rappresentativo anche se per l’inquietudine che lo muoveva in<br />

tante direzioni di ricerca poté portare a compimento un minor numero di opere,<br />

fu Leonardo da Vinci. Educato alla severa disciplina formale del Pollaiolo e del<br />

Verrocchio, scultori oltre che pittori e scultori in un certo senso anche quando<br />

dipingevano, Leonardo proprio per il magistero plastico da essi appreso, si spinse<br />

infinitamente oltre, temperando la cruda luce del formalismo sino allora dominante,<br />

con la prima ombra di un poetico naturalismo. Il passaggio non è brusco,<br />

eppure a ben guardare in pochissimi anni il mutamento è sostanziale, prodigioso.<br />

Questo particolare dell’Annunciazione che sta agli Uffizi, e che si presume datare<br />

agli anni 1470-75, quando ancora Leonardo lavorava nella bottega del Verrocchio,<br />

sembra nella figura dell’angelo così morbidamente, nuovamente sfumata,<br />

simbolicamente annunciare il nuovo corso dell’arte italiana. I profili dell’angelo<br />

e dei cipressi hanno ancora la purezza di linea della grande tradizione quattrocentesca<br />

fiorentina, ma sembra di vederli poco a poco intridersi di una lievissima<br />

38 39


Leonardo si spinse infinitamente oltre, temperando<br />

la cruda luce del formalismo sino allora dominante,<br />

con la prima ombra di un poetico naturalismo.<br />

bruma che dalle misteriose lontananze del fondo giunge sino ai bei fioretti del<br />

prato. Questa bruma si addenserà poi nelle opere più mature di Leonardo, sino<br />

a vincere del tutto la cristallina linearità che ancora si riconosce nello stupendo<br />

“angelo annunziante”, la cui figura segna veramente il punto di passaggio da un<br />

secolo all’altro, con quell’anticipo che sempre i geni riescono ad avere sul tempo<br />

del calendario.<br />

Leonardo e gli altri grandi pittori del favoloso periodo di fioritura artistica che<br />

va dalla seconda metà del Quattrocento alla prima del Cinquecento, rientrano, se<br />

pure un po’ superficialmente, nella cultura figurativa comune, magari per merito<br />

di un’oleografia appesa nella stanza da letto. È giusto che sia così, ma è augurabile<br />

che ormai, con le tante forme di divulgazione che ci sono in giro, (mettiamoci<br />

pure modestamente anche le controcopertine del “Gatto Selvatico”) il gusto<br />

si vada allargando e approfondendo così che l’occhio possa ugualmente godere,<br />

l’animo parimente commuoversi, del morbidissimo, sapientissimo sfumato di<br />

Leonardo e del severo chiaroscuro di Giotto.<br />

settembre 1956 ⎡ Flora<br />

Tiziano Vecellio<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

40 41<br />

i<br />

Venezia, che già nel Quattrocento, specie con Giovanni Bellini,<br />

dispiega in pittura un’attitudine unica alla resa coloristica del mondo naturale<br />

e soprannaturale, nel Cinquecento porta, con Giorgione, Tiziano e Veronese,<br />

questa sua misteriosa magia cromatica alle più alte, estreme risultanze. Abbiamo


detto mistero e magia non perché vogliamo tenere in scarsa considerazione il<br />

fattore tecnico, negli artisti veneziani anzi fondamentale; ma perché tradizione<br />

bizantina, contatti con l’arte orientale, influssi del naturalismo fiammingo,<br />

non basteranno mai a svelare l’enigma di una pittura che, per esempio nel tardo<br />

Tiziano, bruciati i vincoli del disegno rappresenta con interezza l’universo per<br />

pura virtù di colore.<br />

Eppure, nato a Pieve di Cadore nel 1485, morto a Venezia nel 1576, Tiziano fu<br />

un uomo semplice, nulla più, all’apparenza, di un artigiano supremo, pronto ad<br />

accontentare tanto chi gli chiedeva soggetti sacri, quanto chi gliene sollecitava<br />

di profani, con una versatilità incredibile. L’unità alle opere, arcanamente, la<br />

dava col suo pennello carico di succhi e intriso di luce che in questa Flora degli<br />

Uffizi ha saputo, da una disciolta chioma bionda, da un indumento intimo rilasciato,<br />

da una manciata di fiori freschi cavare una figura eterna, un simbolo<br />

quasi della bellezza e della gioventù umane.<br />

Al nostro occhio, e al nostro animo di moderni, avvezzi ad un’arte duramente<br />

impegnata a rappresentare un mondo lacerato e ferito, la colata aurea di luce e<br />

colore che è la Flora tizianesca può alle prime apparire lontanissima, irraggiungibile.<br />

Ma basta che ci lasciamo andare, perché ne restiamo dolcemente sommersi,<br />

e, alla fine, consolati e come guariti.<br />

Si potrebbe, per Tiziano, riprendere il detto di Rossini su Mozart: non essere<br />

egli il musicista più grande (che forse era Beethoven) bensì “la Musica”. Così se<br />

diremo che Giotto è il pittore più grande, lasciateci aggiungere che Tiziano è<br />

“la Pittura”.<br />

i<br />

ottobre 1956 ⎡ Canestra di frutta<br />

Caravaggio<br />

Pinacoteca Ambrosiana - Milano ⎦<br />

Lo splendore meridiano del Rinascimento non poteva durare<br />

in eterno: nella seconda metà del Cinquecento le condizioni storiche mutate, e<br />

soprattutto la nuova spiritualità, nata dall’avvicendarsi drammatico di Riforma e<br />

Controriforma, favoriscono l’avvento di una nuova arte che prenderà il nome di<br />

Barocco. Un’arte che, discendendo da quella rinascimentale, l’innova e trasforma,<br />

muovendola tutta col suo soffio impetuoso. In questo momento di crisi, ma<br />

crisi estremamente creativa e salutare, il giovane Michelangelo Merisi (vissuto a<br />

Caravaggio presso Bergamo nel 1573, morto tragicamente, dopo una vita avventurosissima,<br />

sul lido malarico di Porto Ercole nel 1610) s’inserisce di prepotenza<br />

con la sua personalità di una forza senza pari.<br />

È vero che quel realismo con il quale egli spazza via le ormai esaurite forme del<br />

classicismo idealizzante era una tendenza antica e incorreggibile dell’arte italiana<br />

settentrionale, ma egli sa portarlo per la prima volta a risultati assoluti. Tanto che<br />

nel Seicento tutta la pittura europea, assetata di realtà, procederà per la strada aperta<br />

da lui così violentemente: non ricordiamo qui i notevoli, ma minori caravaggeschi<br />

italiani, ma Rembrandt e Vermeer, Velázquez e i Le Nain. Il Caravaggio, con la<br />

sua presa diretta sulle cose, sugli uomini, che popolano quadri sacri e profani con<br />

la stessa carica di vita e di sangue, dà via libera a tutta la pittura moderna, fino agli<br />

impressionisti. E il taglio non prefabbricato, bensì istantaneo delle scene, che luce<br />

e ombra contrastanti animano con straordinaria evidenza, non trova conferma nel<br />

miglior cinematografo, pur esso volto alla resa realistica, immediata del mondo?<br />

Nel loro curiosare instancabile per le strade dell’Italia secentesca, gli occhi del<br />

42 43


Il taglio istantaneo delle scene, che luce e ombra contrastanti<br />

animano con straordinaria evidenza, non trova conferma<br />

nel miglior cinematografo?<br />

grande pittore lombardo, romano per necessità, non incontrarono soltanto vecchi<br />

cenciosi da mutare in profeti, ragazzotti protervi da atteggiare a Bacchi o a Narcisi,<br />

umanissime popolane da innalzare a Madonne. Così un giorno si posarono su una<br />

cestina di frutta (s’immagina, con quegli ultimi fichi e quella prima uva che se<br />

fosse di settembre, sarebbe del settembre 1595), e così nacque la prima “natura<br />

morta”. A guardar bene, di nature morte se ne incontrano anche di più antiche,<br />

nella storia dell’arte, ma sempre in funzione di un racconto, che è il vero soggetto<br />

del quadro; qui, nel quadro, che sta all’Ambrosiana di Milano, il racconto è nella<br />

“natura morta” medesima, che ci presenta un cestino vero, della frutta vera, anche<br />

bacata, come quella mela in primo piano, delle foglie vere, anche appassite, come<br />

quelle a destra. La “natura morta” che più tardi, in mano a mestieranti, si farà stucchevole<br />

esercizio di bravura, ritroverà la sublime verità caravaggesca soltanto nel<br />

secondo Ottocento, con Cézanne, le cui mele un po’ agrette e ammaccate e i cui<br />

umili piatti da cucina, stanno, come questa cestina dell’Ambrosiana, all’inizio di<br />

una grande rivoluzione artistica.<br />

dicembre 1956 ⎡ Lo studio del pittore<br />

Pietro Longhi<br />

Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano - Venezia ⎦<br />

44 45<br />

i<br />

Col Settecento la pittura a soggetto sacro e storico va sempre<br />

più svuotandosi di significato e di contenuto in una resa ufficiale di pure virtù<br />

decorative e scenografiche. Bisogna riconoscere che anche per questa strada senza<br />

uscita la scuola veneziana riesce a dare, specialmente con il Tiepolo e il Piazzetta,


delle opere d’una grandiosità di impianto e d’una ricchezza di colore non indegne<br />

del passato.<br />

Ma quella ormai era una direzione sterile: la miglior pittura europea del Seicento,<br />

dietro l’eroica spinta di Michelangelo da Caravaggio, s’era volta verso la<br />

realtà, magari umile, della vita quotidiana, ottenendo poi i più splendidi risultati<br />

fuori d’Italia nell’Olanda di Rembrandt e di Vermeer. Da noi, nel Settecento,<br />

per ragioni sociali ed economiche è Venezia che può con maggior libertà profittare<br />

di questa apertura. Lo fa in tono minore, lasciando che il Tiepolo, con i<br />

suoi soffitti memori del Veronese ma tanto più vacui, ne rappresenti la tradizione<br />

più illustre.<br />

Intanto però gli artisti autenticamente nuovi, quelli più carichi di avvenire, s’accontentano,<br />

come il Canaletto e il Guardi, di ritrarre la laguna o il Brenta, o di<br />

fermare sulla tela, come fa Pietro Longhi, gli interni della vivacissima borghesia<br />

e della piccola e media nobiltà veneziana. Erano gli anni, non dimentichiamolo,<br />

di Carlo Goldoni e del suo teatro intriso di realtà sino alla punta dei capelli, una<br />

realtà colta nelle piazzette, nelle botteghe del caffè, nei salotti e persino nelle<br />

cucine, nei guardaroba, nelle stirerie. Nessuna meraviglia che il grande commediografo,<br />

tanto più grande quanto più pago di descrivere, apparentemente, il<br />

piccolo, lodasse in modo esplicito il Longhi e il suo “penel che cerca il vero”.<br />

Un vero che si poteva trovare molto vicino, nella sala del Concertino, o dove il<br />

Maestro di ballo impartiva lezioni di minuetto, o il Sarto provava l’abito o, anche<br />

più vicino, dove il Pittore stesso attendeva al ritratto della dama. Come nel quadro<br />

qui riprodotto che sta alla Galleria dell’Accademia di Venezia.<br />

Il pittore in zimarra verdastra è al cavalletto, attento a rendere con fedeltà (e non<br />

senza una punta sorniona di ironia) la Dama – una specie di pupattola in grande<br />

abito di seta gialla che sembra sentir frusciare anche al più piccolo movimento – e<br />

il Cavalier servente in elegante costume nero oro e verde, la maschera forse fastidiosa<br />

tirata da parte con negligente eleganza.<br />

Una cosa, pare, da nulla, ma con essa il pittore ha reso insieme l’ultima essenza di<br />

una società e il profumo di un’epoca. Che chiedergli di più? I migliori pittori del<br />

secolo successivo, gli impressionisti e i macchiaioli, non si proporranno, né otterranno,<br />

di più e di meglio.<br />

gennaio 1957 ⎡ Riposo<br />

Giovanni Fattori<br />

Galleria d’Arte Moderna - Firenze ⎦<br />

46 47<br />

i<br />

Con Fattori siamo già oltre la metà dell’Ottocento: c’è stata la<br />

rivoluzione francese e, non meno importante, la rivoluzione industriale, che sono le<br />

due premesse fondamentali della democrazia moderna. Il pittore non dipinge più,<br />

o solo raramente, per l’edificazione del fedele o per il piacere del principe, ma per<br />

se stesso o per quel suo simile, che dovrebbe intenderlo appieno, che è il borghese.<br />

Ma l’artista va avanti più velocemente del suo pubblico, che lo raggiungerà soltanto<br />

quando lo sforzo per mantenersi integro e fedele ai propri ideali lo avranno portato<br />

alla povertà e alla morte. Questo non accade sempre, ma è frequente nel secolo scorso,<br />

così creativo e ricco di novità non facili ad apprendersi subito nel campo dell’arte.<br />

Che, affrancatasi dai soggetti obbligati, si va affrancando pure dagli schemi stilistici<br />

e cerca nella realtà della vita i suoi contenuti e insieme i suoi colori e le sue luci.<br />

Esce all’aria aperta, il pittore dell’Ottocento, sia nato in Francia o in Italia, e coglie<br />

il mutevole volto delle cose con la freschezza di chi scopre il mondo per la prima


Superato il formalismo e il descrittivismo minuto,<br />

Fattori raggiunge una essenzialità di composizione,<br />

una solidità di volumi e una forza di colore uniche.<br />

volta. I risultati più grandiosi di detta liberazione dell’arte si hanno in Francia<br />

con i pittori impressionisti, da Manet a Cézanne. L’Italia però non resta indietro.<br />

Mentre la cultura ufficiale premia i freddi narratori murali di lontani eventi<br />

storici, Fontanesi in Piemonte, Gola in Lombardia, ma specialmente Fattori e<br />

i suoi compagni “macchiaioli” in Toscana, affermano con sincerità e vigore le<br />

ragioni dell’arte nuova. Non vengono subito apprezzati, ma lentamente la loro<br />

umile e pure profonda resa figurativa dalla realtà contemporanea si afferma come<br />

l’espressione più autentica della pittura del tempo.<br />

Guardate questo Riposo di Giovanni Fattori. Il pittore è uscito dallo studio nell’ora<br />

bruciata della siesta e non ha dovuto cercarsi tanto intorno per trovare una materia<br />

conveniente, gli è bastato fissare intensamente un muro calcinato di sole alla cui<br />

scarsa ombra i barrocciai si sono fermati, stanchi con le loro stanche bestie. È solo<br />

un momento della giornata, ma strappato al flusso del tempo, è consegnato, per<br />

così dire, all’eterno. L’episodico il pittore lo supera del tutto, anche se le luci e<br />

le ombre sono quelle precise dell’ora che lo ha visto uscire col cavalletto. La sua<br />

umanità infatti gli fa sentire la condizione dei propri simili, e ci mette anche le<br />

povere bestie da fatica, con una sorta di nuova religiosità che lo conduce a una<br />

sintesi non indegna dell’antica pittura della sua terra.<br />

Superato il formalismo, ma pure ogni descrittivismo minuto, Fattori in questa e<br />

nelle altre opere sue migliori, raggiunge una essenzialità di composizione, una<br />

solidità di volumi e una forza di colore uniche. I suoi paesaggi non vuoti e disabitati<br />

ma dolorosamente, solennemente riempiti dalla presenza dell’uomo, sono fra<br />

le più alte espressioni della pittura, non soltanto italiana, dell’Ottocento.<br />

48 49<br />

i


marzo 1957 ⎡ Neve ad Argenteuil<br />

Claude Monet<br />

The National Museum of Western Art - Tokyo ⎦<br />

Nel principio era l’impressionismo. Nel principio della pittura<br />

moderna, s’intende, per quanto, a voler esser sottili, non si finirebbe mai di retrocedere,<br />

nel cercare l’atto di nascita di questa benedetta pittura moderna, croce e<br />

delizia di quanti, sia pur superficialmente, s’interessano ai quadri.<br />

L’impressionismo infatti è la scuola artistica che segna l’inizio della liberazione<br />

dell’artista da temi e da regole d’obbligo: non a caso esso nasce nella Parigi del<br />

secolo scorso, nell’ambiente cioè più adatto a superare i vincoli degli argomenti<br />

nobili, adatti cioè alla pittura, e delle proporzioni, coloriture, ombreggiature,<br />

pure nobili, perché affermatesi nel corso dell’arte classica. Qualcosa di simile, un<br />

moto parallelo di affrancamento dai soggetti storici e dai canoni del bello ideale,<br />

si ebbe in Italia coi macchiaioli. Ma la Francia nella seconda metà dell’Ottocento<br />

era, come già l’Italia nel Cinquecento, destinata a portare avanti con maggior<br />

autorità, e per il suo peso storico e culturale e per la maggior ricchezza di personalità<br />

di primo piano, aspirazioni di rinnovamento comuni al secolo. Che, malgrado<br />

tutto questo, Parigi, la ville-lumière, la città faro, non fosse ancora pronta nel 1874 a<br />

capire e gustare la nuova arte, lo dimostra il fatto che i maestri poi diventati famosi<br />

dovettero esporre le loro opere nello studio di un fotografo amico e coraggioso,<br />

Nadar, non in un “Salone” per esposizioni. E fu allora che gli intenditori, avendo<br />

il pittore Claude Monet intitolato un suo quadro Impressione al levar del sole definirono<br />

tutti gli espositori, ironicamente, “impressionisti”. A eccezione di due o<br />

tre, tutti i critici incoraggiarono il pubblico allo scherno e al disprezzo verso quei<br />

pittori che avevano osato abbandonare gli eroi greci e romani per la gente di tutti<br />

i giorni, i paesaggi d’Arcadia per i giardini pubblici, e, orrore, gli studi per l’aria<br />

aperta. La battaglia per l’arte nuova, cominciata sotto auspici così infausti, in pochi<br />

anni venne vinta in maniera clamorosa e totale: alla fine del secolo non c’era più<br />

pittore che non dipingeva “all’impressionista”.<br />

Il pittore del quale oggi presentiamo questo delizioso Effetto di neve ad Argenteuil è<br />

proprio quel Claude Monet il cui quadro diede origine al nome della scuola. Altri<br />

artisti del suo gruppo, Édouard Manet, Edgar Degas, Auguste Renoir ebbero<br />

forse una maggiore capacità d’invenzione e un più ampio respiro nella composizione,<br />

ma nessuno lo uguagliò nella resa precisa eppure poetica della natura, colta<br />

nel fluire del tempo, nel mutare delle ore, nel trascolorare della luce. In questo<br />

senso egli è il più puro degli impressionisti, l’unico forse cui l’appellativo, non in<br />

senso negativo, ma positivo, possa applicarsi senza incertezze.<br />

Il quadro che presentiamo, e che è del 1875, un anno dopo la famosa mostra da<br />

Nadar, rivela bene il carattere dell’arte monettiana. Che per essere volta, sia pure<br />

con freschezza e immediatezza uniche, a rapire alla giornata appena un momento<br />

qualunque, umilissimo, non è affatto superficiale ed esterna. In quell’aria grigia di<br />

neve, vibrante di impercettibili riflessi che egli ha reso con incomparabile delicatezza,<br />

gli uomini sono delle piccole sagome scure, appena distinguibili da case, piante,<br />

cespugli. Eppure come giusta è la loro apparizione in quest’ora del giorno, e la loro<br />

solitudine: tale da dare un senso d’eternità alla fugace ora del giorno in cui sono stati<br />

colti dal pittore con tanta verità e con tanta poesia. Con tanta poesia appunto perché<br />

con tanta verità. Questo è il dono della pittura impressionista all’arte, dono tanto<br />

più grande nei suoi creatori. Col tempo anche il dipingere all’aria aperta diventerà<br />

un’abitudine, una maniera. Ma l’arte allora sarà andata avanti in nuove direzioni, per<br />

merito di altri artisti e proprio perché il senso più vero della rivoluzione impressionista,<br />

la libertà dell’artista, doveva rimanere, e rimane, valida per sempre.<br />

50 51


aprile 1957 ⎡ I giocatori di carte<br />

Paul Cézanne<br />

Musée d’Orsay - Parigi ⎦<br />

La seconda metà del secolo scorso vede affermarsi le scuole artistiche,<br />

impressionismo in pittura, naturalismo e verismo in letteratura, che rompendo<br />

con le forme ormai fruste delle tradizioni classica e romantica, s’accostano<br />

agli uomini e alle cose direttamente e direttamente li rappresentano sulla tela e<br />

sulla pagina. Da Manet a Monet a Renoir a Degas è tutto un trionfo di colori, di<br />

luci e di ombre, per la prima volta colorate come nella realtà, in lode della vita nei<br />

suoi aspetti più incantevoli e fuggitivi.<br />

Fu una scoperta e un accrescimento di gran valore per l’arte, che però non poteva<br />

essere ridotta a una funzione puramente edonistica, di assaporamento cioè della<br />

bellezza e della gioia, senza seri pericoli di scadimento verso la superficialità.<br />

Ma, come accade sempre nei momenti vivi e vitali, entro l’impressionismo stesso<br />

c’erano le premesse di una evoluzione e di un approfondimento. Doveva toccare<br />

al provenzale Paul Cézanne di sentire drammaticamente questa esigenza e di portarla<br />

a risultati in sé grandiosi e di incalcolabile peso per il futuro.<br />

Formatosi nell’impressionismo e impadronitosi appieno dei suoi mezzi, Cézanne<br />

doveva ben presto isolarsi dalla vita parigina in cui gli altri pittori del suo tempo<br />

trovavano i succhi per la propria arte, e confinarsi nella sua terra solitaria con la<br />

mente e l’occhio volti ad andare oltre le apparenze, a estrarre l’intimo significato<br />

della realtà e a tradurlo in forme e colori di una potenza e di una gravità pari a<br />

quelle dei maestri antichi, da Giotto a Masaccio.<br />

Guardate questi Giocatori, che il grande artista ha dipinto circa nel 1892. È chiaro<br />

che sono ispirati dal vero, ma altrettanto chiaro, specie se messi a raffronto dell’u-<br />

manità colta istantaneamente dagli impressionisti contemporanei, che il pittore li<br />

ha ripensati e, per così dire, ricostruiti in una sintesi prima mentale, poi formale,<br />

poderosa, eterna. Si è detto, con frase felice ma un po’ sbrigativa, che “Cézanne fu<br />

il solidificatore dell’impressionismo”. La possiamo anche accettare, pur che non la<br />

limitiamo al fatto che in lui la realtà è espressa in volumi solidi e fermi mentre in<br />

Monet, mettiamo, è tutta tremula e vibrante.<br />

Il pulviscolo luminoso di Monet era l’espressione di una visione sensuale della vita<br />

che Cézanne non poteva accettare. La sua, come risulta dai Giocatori (pensate alla<br />

tentazione di fare l’aneddoto divertente con il tipo che bara, l’ingenuo che si lascia<br />

imbrogliare) è una visione della vita profondamente religiosa e sofferta. Con lui,<br />

come in altro modo con Van Gogh, Gauguin e Seurat, dei quali parleremo, la<br />

felice età dell’impressionismo entra in crisi, vengono gettati i semi della tormentata<br />

arte del nostro secolo.<br />

maggio 1957 ⎡ Lo scolaro<br />

Vincent Van Gogh<br />

Museu de Arte - San Paolo ⎦<br />

52 53<br />

i<br />

Un recente film americano, Brama di vivere, ha popolarizzato<br />

Van Gogh come nessun altro dei maestri, dei pionieri, che hanno aperto la strada<br />

all’arte nuova. La vita tormentata del pittore olandese, nato a Groot-Zundert nel<br />

1853 e uccisosi in Francia con un colpo di rivoltella nel 1890, si prestava esemplarmente<br />

a divulgare in maniera accessibile a tutti il dramma del creatore nel<br />

mondo moderno. Ma il racconto cinematografico ha esigenze di spettacolo cui


non ci si è potuti, con tutta la buona volontà, sottrarre: il fatto positivo di Brama di<br />

vivere resta, discutibili che siano situazioni e dialoghi, d’aver fatto fiorire, e sarebbe<br />

meglio dire esplodere, sullo schermo, nei loro colori e linee deliranti, tanti capolavori<br />

del grande Vincent.<br />

Il quale, in modo del tutto antitetico a Cézanne, che abbiamo visto “solidificare<br />

l’impressionismo”, cercando di risolverne la crisi in una severa sintesi di volume<br />

e di colori richiamante la pittura dei primitivi, va oltre l’impressionismo in un<br />

certo senso accentuandone la libertà e sfrenandosi in una soggettività assoluta. Ma<br />

mentre gli impressionisti, con felice passività, si accontentavano di ridare, esaltandone<br />

le meravigliose apparenze, le luci e le ombre della natura, in cui l’uomo si<br />

perdeva quasi, Van Gogh doveva rovesciare i termini del rapporto. E in che modo?<br />

Proprio rendendo la natura partecipe intera del suo dramma interiore, piegandola<br />

quindi a esprimere, ora col giallo dei girasoli ora col verde cupo dei cipressi, le<br />

emozioni intensissime della sua anima.<br />

Non arriva alla deformazione, Van Gogh, né inventa o scompone e ricompone<br />

come faranno più tardi Matisse e Modigliani, Picasso e Braque, ma fruga<br />

nell’uomo e nel paesaggio e ne estrae<br />

Mentre gli impressionisti si accontentano la significazione interiore, ora d’una<br />

di ridare le luci e le ombre della natura, vitalità quasi ebbra, ora d’uno squal-<br />

Van Gogh rovescia i termini del rapporto lore tremendo. Gli basta un frutteto<br />

rendendo la natura partecipe intera<br />

in fiore, un vecchio contadino con le<br />

del suo dramma interiore.<br />

mani rapprese, un caffè di notte, una<br />

sedia impagliata per dirci sull’esistenza<br />

qualcosa di essenziale e di assolutamente nuovo, che ci arricchirà per sempre.<br />

È passato il tempo che i suoi segni vorticosi, le sue sagome tagliate con l’accetta<br />

facevano scandalo; le quadricromie delle sue tele più famose, attaccate al muro,<br />

54 55


magari con una puntina da disegno, sono un po’ nelle case di tutti, specie nelle<br />

stanze dei giovani. Così questo bambino che anni fa avreste trovato forse brutto, o<br />

per lo meno per niente grazioso, non può oggi non commuovervi profondamente<br />

nella sua verità psicologica, non incantarvi nella gamma squillante dei colori che<br />

ne rivestono con un contrasto tipicamente vangoghiano, l’impaccio, la scontrosa<br />

solitudine.<br />

Si può dire che l’esempio di Van Gogh ha rappresentato un pericolo per tanti<br />

artisti venuti dopo, che si sono sentiti autorizzati da lui a certi eccessi di forma e<br />

di colore che potevano trovare una giustificazione soltanto nell’autentico dramma<br />

interiore sfociato nel colpo di rivoltella del tragico 27 luglio del 1890. Ma sia lui<br />

sia Cézanne hanno saputo aprire una via ai migliori, lasciando possibilità di esprimersi<br />

e di procedere avanti in maniera del tutto originale.<br />

giugno 1957 ⎡ Femmes de Tahiti ou sur la plage<br />

Paul Gauguin<br />

Musée d’Orsay - Parigi ⎦<br />

i<br />

Compagno, per un certo periodo, di Vincent Van Gogh, e non<br />

soltanto nelle battaglie artistiche ma anche nella vita domestica, Paul Gauguin è,<br />

come il suo difficile amico, fra i continuatori e rinnovatori dell’impressionismo,<br />

fra i fondatori della pittura moderna.<br />

Giunto all’arte abbastanza tardi, dopo esser stato avviato per una strada non sua,<br />

egli doveva in un primo tempo seguire, nel dipingere, la naturalezza e la felicità<br />

degli impressionisti, specie di Pissarro. Ma non era uomo, e artista, da acconten-<br />

56<br />

Guardate le due fanciulle tahitiane colte nella loro monumentale<br />

fissità, reali eppure simboliche, figure dell’eterna giovinezza<br />

umana non ancora guastata dalla civiltà.


tarsi di rapire, per dirla con Dante, “l’ora del tempo e la dolce stagione”; lo tormentavano<br />

ed esaltavano problemi di natura religiosa e morale cui avrebbe voluto<br />

dare forma e colore con l’arte cui s’era dedicato.<br />

Gli sembrava necessario superare i limiti d’una pittura che non andava oltre i sensi:<br />

e in questo le sue esigenze coincidevano con quelle di Cézanne e di Van Gogh. Ma<br />

mentre gli altri due, artisti certamente più originali e grandi di lui, trovarono in<br />

se stessi, il primo in un approfondimento severo, il secondo in uno scatenamento<br />

selvaggio, la via d’uscita, egli la cercò fuori, e la trovò, ma naturalmente più superficiale<br />

e meno duratura.<br />

Preso infatti da un’estrema scontentezza per il mondo civile in cui viveva, e che<br />

gli appariva falso e corruttore di quanto è per natura più bello nell’uomo, partì<br />

per Tahiti e vi si trapiantò con decisione irrevocabile, sicuro di aver ritrovato il<br />

paradiso perduto. Qualcosa di simile aveva fatto, emigrando nelle stesse plaghe<br />

incantate del Pacifico meridionale, lo scrittore inglese Robert Louis Stevenson.<br />

Decisamente i mari del Sud, sul finire dell’800, erano considerati un toccasana,<br />

dagli intellettuali europei.<br />

Paul Gauguin nelle isole inselvatichì quel tanto che gli permise di vivere assieme alla<br />

bella gente indigena, a contatto della dolce natura del luogo, in una comunione di<br />

grande importanza per la sua arte. Che a Tahiti fiorì rigogliosa, riuscendo non soltanto<br />

a descrivere paesi e figure, ma a interpretarli in forme semplici, in colori interi,<br />

secondo la tradizione e il gusto primitivi di quei popoli cui egli s’era mescolato.<br />

Guardate le due fanciulle tahitiane colte nella loro monumentale fissità, reali<br />

eppure simboliche, figure dell’eterna giovinezza umana non ancora guastata dalla<br />

civiltà. La spiaggia solitaria nei suoi piani ampi e immobili è come un fondo di<br />

bassorilievo contro cui i bronzei corpi delle donne severamente drappeggiate nelle<br />

vesti di un rosso e di un viola arcani risaltano con grande suggestione. Sono questi i<br />

risultati più convincenti di Gauguin, che in altri suoi quadri corre pericoli opposti,<br />

dell’eccessivo decorativismo e del troppo marcato simbolismo.<br />

luglio 1957 ⎡ Donna con la collana d’ambra<br />

Henry Matisse<br />

Collezione privata ⎦<br />

58 59<br />

i<br />

Con Matisse siamo ormai nel Novecento, anche se il grande<br />

pittore francese, nato nel 1869, si formò e diede le prime prove della sua schietta<br />

e felice natura di pittore nel secolo scorso. Più che gli impressionisti, che pure<br />

sentiva vicini per l’amore della vita, egli studiò e seguì i decadenti come Moreau e<br />

i postimpressionisti, specie Van Gogh, lontanissimi da lui come spirito. Ma erano<br />

moderni, nuovi, o tali a lui sembravano: il loro ripudio della linea e del colore reali<br />

per una linea e un colore simbolici, in un certo senso astratti, lo sollecitarono a<br />

tentare la nuova maniera che prese il nome di “fauvisme”. Come dire, traducendo<br />

alla lettera, “belvismo”.<br />

Il curioso appellativo venne trovato da un critico d’arte che, veduta alla prima<br />

mostra del gruppo capeggiato da Matisse (si era nel 1903) una scultura di tipo<br />

rinascimentale, scrisse che si trattava di un Donatello fra i “fauves”, o “belve” che<br />

noi dir si voglia. Ben altre “belve” si dovevan presentare di lì a poco nel campo<br />

dell’arte, ma le grandi pennellate di rosso e di nero, gli arabeschi di linea di Matisse<br />

e dei suoi compagni allora sembrarono, a dir poco, ruggiti.<br />

Oggi tutta l’attività pittorica e grafica di Henri Matisse, conclusasi soltanto<br />

qualche anno fa dopo un corso lunghissimo e ricchissimo, ci sembra esemplare


per chiarezza di forma e limpidezza di colore, in un certo senso classica. Tale da<br />

star vicina senza sfigurarci ai più perfetti esempi d’arte decorativa del passato, dai<br />

vasi greci alle vetrate gotiche, agli smalti limosini.<br />

Non si vuole, parlando d’arte decorativa, limitare Matisse, ma fissarlo e intenderlo<br />

il più precisamente possibile. Si guardi questa Collana d’ambra: la figura femminile<br />

non ha rilievo né lo sfondo profondità. Ma chi oserebbe rimproverarlo al pittore,<br />

chi oserebbe rimproverare ai maestri di Ravenna d’averci dato delle figure e degli<br />

sfondi di un’assoluta piattezza? Ma quali compensi nel colore, che squilli in questa<br />

Collana d’ambra con una schiettezza, sia in sé sia nei rapporti e negli accostamenti,<br />

veramente e del tutto nuova. Il rosso, il bianco, il giallo e il nero sembrano trovati<br />

per la prima volta dal pittore, inventati da lui; e il verde e il blu s’accordano<br />

mirabilmente, smentendo tutta una tradizione che li vuole nemici inconciliabili.<br />

Sino alla fine, quando vecchissimo si dovrà accontentare di ritagliar carte colorate<br />

(ma con quale sapienza poi facendole figurare uccelli in volo, ballerine) Matisse<br />

sarà il pittore della “gioia di vivere”. Che è anche il titolo di un suo famoso pannello<br />

giovanile. Il pittore dei giardini assolati e delle stanze aperte sui giardini assolati<br />

e delle donne che entro quelle stanze e quei giardini vibrano e splendono, belle e<br />

indifferenti come palme rivierasche.<br />

Partito dal drammatico Van Gogh, compagno di battaglia artistica del violento<br />

Picasso, Matisse ha saputo dimostrare che anche nell’età moderna è possibile<br />

un’arte non drammatica, non violenta, ma dolce e felice, consolante.<br />

i<br />

agosto 1957 ⎡ Rue l’Abreuvoir, Montmartre<br />

Maurice Utrillo<br />

Collezione privata ⎦<br />

Maurice Utrillo, nato nel 1883 a Montmartre, dall’acrobata,<br />

modella e pittrice Suzanne Valadon e da padre ignoto, doveva morire nel 1955,<br />

dopo una vita disordinata e sciaguratissima ma riscattata da un’attività artistica<br />

miracolosamente pura e coerente. Il vizio del bere che l’accompagnò dalla prima<br />

giovinezza alla morte non gli offuscò il cuore né l’occhio, che mantenne limpidi<br />

come quelli di un pittore primitivo.<br />

Si è voluto insistere più del solito sui dati biografici dell’artista, perché essi fanno<br />

da sfondo contrastante e illuminante insieme a un’opera che non potrebbe essere<br />

più quieta e dolce. Formatosi nel momento di trapasso dall’impressionismo al<br />

post-impressionismo nelle sue varie diramazioni (espressionismo, cubismo),<br />

Utrillo si crea uno stile del tutto originale, fatto di umile accettazione del vero<br />

e di contemporanea, naturale trasfigurazione poetica del vero medesimo. Come<br />

dire che egli accetta da un lato di cercare ispirazione nel piccolo mondo che lo<br />

circonda, come avevano fatto con più foga e vena gli impressionisti, dall’altro<br />

riuscendo a intridere le sue casette, i suoi caffeucci e i suoi omini e donnine di<br />

una candida stupefazione.<br />

Varrà la pena di ricordare a questo proposito un fatto singolare e significativo:<br />

Utrillo, quando era più intossicato dall’alcool e non poteva uscire a dipingere le<br />

sue predilette straducole e piazzette parigine, le copiava da certe cartoline da pochi<br />

soldi. Metodo insensato, si direbbe. Eppure dal grigiore anonimo delle fotografie<br />

egli sapeva cavare una soavissima festa di colori e uno struggente senso della<br />

poesia che è nelle cose di tutti i giorni. In questo senso, pur senza deformare come<br />

60 61


gli espressionisti o scomporre come i cubisti, Utrillo è un pittore del Novecento:<br />

infatti i suoi paesaggi non sono captati oggettivamente dalla realtà come quelli<br />

impressionisti, ma inventati, anche se con fedeltà al vero, e quasi sognati.<br />

Si guardi la Rue l’Abreuvoir, Montmartre che riproduciamo: tutto vi è vero ma tutto<br />

è fissato in una visione che è nell’anima prima che nei sensi. La strada, presa da un<br />

punto di vista qualsiasi (potrebbe esser anche quella d’un fotografo ambulante)<br />

è resa anche più deserta e silenziosa dalle figurine che la percorrono, indistinte<br />

e patetiche come in un ricordo, o, appunto, in un sogno. Su questa trama umile<br />

però, come l’azzurro del cielo e il verde degli alberi e il blu di un’insegna e il rosa<br />

o il bianco di una facciata o di una cupola suonano teneri e argentini e come si<br />

accordano in una netta e libera armonia!<br />

È stato detto che Utrillo è un artista religioso, e non a torto: la conversione al<br />

cattolicesimo degli ultimi anni non è che la conferma di un anelito spirituale<br />

che nessuna intemperanza dei sensi riuscì mai a vincere. Sta a dimostrarlo tutta la<br />

pittura di Utrillo, che anche nei momenti più bui della sua vita seppe dipingere<br />

con il candore e la freschezza con cui dipingevano i pittori del Due e Trecento.<br />

settembre 1957 ⎡ Ragazza con le trecce<br />

Amedeo Modigliani<br />

Collezione privata ⎦<br />

i<br />

È la prima volta che un nome italiano compare in questo nostro<br />

rapido panorama sulla pittura moderna: un italiano che, purtroppo, visse la sua<br />

intensa e dolorosa stagione artistica fuori dal suo Paese, in quella Parigi che dal<br />

62 63


secondo Ottocento al primo Novecento è stata il centro più vitale della civiltà<br />

europea. Ma, nato a Livorno nel 1884, per quanto trasferitosi in Francia poco più<br />

che ventenne, Modigliani rimarrà sempre un pittore toscano, un erede e un rinnovatore<br />

della tradizione linearistica di Simone Martini.<br />

A Parigi l’avevano chiamato, risplendenti da lontano, personalità e movimenti del<br />

postimpressionismo, da Toulouse-Lautrec a Cézanne, dal Fauvismo al Cubismo, e<br />

lo colpì particolarmente l’appena rivelata scultura negra, che tanto significò anche<br />

per Picasso. Ma non si creda che tutto<br />

Ancora sino a qualche anno fa<br />

questo guazzabuglio intorbidisse il<br />

c’era chi rimproverava a Modigliani<br />

suo limpido occhio italiano. Da così<br />

i suoi visi lunghi, le sue tinte piatte.<br />

varie forme e stili e colori Modigliani<br />

Vi sentireste voi di fare altrettanto?<br />

ricava per sé quel tanto che gli serve<br />

per filare con la matita disegni d’una<br />

purezza incredibile, stendere sulla tela quadri d’una sintesi suprema. I soggetti per<br />

questo uomo “umano, troppo umano” sono quasi esclusivamente figure di amici e<br />

di amiche, tutt’al più di bambini e bambine del quartiere dove vive: insomma quel<br />

che egli vede ogni giorno nel suo lucido delirio (malato di tubercolosi aggravò la<br />

situazione dandosi all’alcool e alle droghe) e che rifiorirà nella pagina di taccuino<br />

o sulla tela in quella sua inconfondibile linea allungata, serpentina eppure dolcissima.<br />

Per quattordici anni, dal 1906 al 1920, la sua fu un’esistenza tutta dedicata all’arte<br />

e a quei paradisi artificiali con i quali cercava di dimenticare il male che aveva<br />

dentro. Egli fu veramente un “maudit” (maledetto), e ci scherzava, poiché gli<br />

amici lo chiamavano “Modì”, che si pronunzia allo stesso modo. Per quanto<br />

apprezzato negli ultimi tempi dai migliori, non riuscì a sistemarsi e finì all’Ospedale<br />

della Carità il 25 gennaio del 1920. La moglie, Jeanne, non resistette e si<br />

uccise poco dopo. Ma guardate la Ragazza con le trecce qui riprodotta, e v’accorgerete<br />

come da una esistenza così sciagurata sia potuto nascere un fiore tanto puro:<br />

è questo il miracolo eterno dell’arte. Affondato nel disordine artistico e morale<br />

della Parigi in cui visse, disordine però di vita e di fermenti creativi, egli ritraendo<br />

la ragazzina di Montmartre, forse una figlia del suo portinaio, ci ridà dopo secoli<br />

quell’emozione che soltanto i senesi, con la loro linea irreale e il loro colore puro<br />

avevano saputo prima darci. Ancora sino a qualche anno fa c’era chi rimproverava<br />

a Modigliani i suoi visi lunghi, le sue tinte piatte. Vi sentireste voi di fare altrettanto?<br />

ottobre 1957 ⎡ Il gallo<br />

Marc Chagall<br />

Centre Pompidou - Parigi ⎦<br />

64 65<br />

i<br />

Marc Chagall è un altro straniero, come Picasso, come Modigliani,<br />

venuto a Parigi nei primi anni di questo secolo per aggiornarsi sulle nuove<br />

mode artistiche. Come i primi due egli, lontanissimo da casa, non solo non<br />

rinnega lo spirito della propria terra, ma, sollecitato dalla nostalgia, ne estrae i<br />

succhi più profondi inventando, per così dire, una pittura russa che in Russia forse<br />

non era mai esistita. Nato a Vitebsk nel 1887 da un piccolo mercante di pesce,<br />

studiò pittura alla scuola di Belle Arti di Pietroburgo, allora, come ora, retta da<br />

maestri quanto mai accademici. La sua natura insieme rivoluzionaria e fantastica<br />

non poteva piegarsi alle regole di meschino pseudonaturalismo della scuola; il<br />

1910 lo vede già a Parigi abbeverarsi alle torbide ma vitali linfe del fauvismo e del


cubismo. Neppure queste scuole però, che pure esercitarono un’azione positiva,<br />

liberatrice, sul giovane pittore russo, possono insegnare molto a un artista così<br />

singolare, anche nei suoi limiti. Allo stesso modo Chagall non avrà da insegnare<br />

nulla di utile a nessuno: non si immagina senza fastidio qualcuno che imiti i suoi<br />

colori irreali, le sue composizioni assurde, i suoi stravolgimenti.<br />

La grande novità di Chagall rispetto agli artisti più innovatori del suo tempo, sia<br />

nel colore, come Matisse, sia nella resa dello spazio e della forma, come Picasso,<br />

consiste nel fatto che mentre essi partono sempre dalla realtà, sia pure per arrivare<br />

poi chissà dove, il pittore russo invece parte sempre dal sogno. Non è detto d’altra<br />

parte che nel sogno le cose debbano necessariamente modificarsi, quello che è<br />

certo è che esse non obbediscono più alle leggi della gravità e del tempo. Così<br />

in Chagall i fidanzati del piccolo villaggio russo volano senza accorgersene al di<br />

sopra delle casette e delle cupole, mentre senza nessuno stridore dal fondo si profila<br />

la sagoma della Torre Eiffel: il tutto canta in colori, dal rosa al verde all’azzurro<br />

al rosso all’arancione, che non hanno nessun riferimento alle forme sulle quali<br />

sono stesi. Colori simbolici, dunque, ma alla cui origine sono simboli dei quali<br />

noi ignoriamo il significato. E anche questo rientra nella logica illogica dei sogni,<br />

che ci deliziano o ci impauriscono sin che siamo addormentati, e non ci dicono<br />

più nulla appena svegli.<br />

Così, con la medesima libertà con la quale vi lasciate incantare da un sogno mattutino<br />

(anche Dante diceva che sono i più belli), abbandonatevi al sortilegio dipinto<br />

di Marc Chagall che vi presentiamo: un’opera fra le più caratteristiche del maestro<br />

nel suo ritmo teneramente fantastico, nella sua invenzione freschissima, nel suo<br />

colorismo insieme candido, barbarico e raffinato.<br />

i<br />

novembre 1957 ⎡ Cristo deriso<br />

Georges Rouault<br />

Museum of Modern Art (MoMA) - New York ⎦<br />

Con tanti “ismi” che si sono succeduti vertiginosamente, quale<br />

più quale meno giustificato, sulla scena artistica da cinquanta anni a questa parte,<br />

Georges Rouault non sapresti proprio a quale, sia pure alla lontana, assegnarlo.<br />

Parigino che più non si potrebbe (il pittore nacque a Rue de la Villette il 27<br />

maggio del 1871) Rouault fu scolaro del simbolista Gustave Moreau, vicino ai<br />

“fauves”, precursore degli espressionisti, ma in fondo l’unico maestro che gli abbia<br />

veramente insegnato qualcosa è il vetraio Hirsch, presso il quale fu apprendista sui<br />

quattordici anni. A Mastro Hirsch erano state portate allora, perché le riparasse,<br />

delle vetrate antiche, e furono esse, come Rouault stesso doveva poi riconoscere, a<br />

folgorarlo sulla via di Damasco. Tutta la lunga, operosa vita del pittore è stata dedicata<br />

a dipingere quadri che s’avvicinassero alla solenne sintesi formale e coloristica<br />

delle vetrate medievali, e soprattutto alla loro grandiosa suggestione mistica.<br />

Perché, va detto subito, Georges Rouault vuol essere ed è sinceramente e senza<br />

sforzo un artista religioso. Precisiamo: cristiano. Come lo erano appunto i grandi<br />

anonimi maestri, costruttori e scultori e vetrai, che innalzarono verso il cielo e<br />

decorarono le sublimi cattedrali romaniche e gotiche. Questo parigino che non<br />

s’è quasi mai allontanato da Parigi, e che la metropoli ha conosciuto in tutti i suoi<br />

aspetti, non esclusi i più orrendi, ha quasi sempre rinarrato nelle sue composizioni<br />

il dramma della Passione. Ma non s’è ispirato che guardandosi attorno, spremendo<br />

dalla realtà quotidiana quei motivi di dolore e d’amore, di tragedia e di speranza che<br />

formano l’insostituibile messaggio del Vangelo. Le figure di Cristo e dei suoi carnefici<br />

vivono nelle sue tele come contemporanee a noi, nella loro tragica fissità, nel<br />

66 67


loro colore spesso e severo che s’illumina misteriosamente come quello delle vetrate<br />

antiche. Oltre alle immagini ispirategli dalla fede, Rouault non ha quasi altro ritratto<br />

che pagliacci da circo e donne perdute, considerati con profonda, cristiana pietà.<br />

Il Cristo deriso del Museo d’arte moderna di New York vi colpirà alle prime atrocemente,<br />

ma alla fine la profonda stanchezza e bontà che emana dalla figura dell’Uomo-Dio<br />

non potrà non commuovervi. Da molto tempo nessun pittore aveva<br />

saputo esprimere con tanta autenticità e forza l’essenza del cristianesimo. È miracoloso,<br />

e giusto, che Rouault lo abbia saputo fare non isolandosi, ma vivendo nel<br />

proprio tempo, non chiudendo gli occhi sul male, ma guardandolo senza paura,<br />

nella certezza che il bene esiste.<br />

Anche in questo il grande pittore francese si riallaccia alla tradizione più antica e<br />

alta dell’arte del suo paese, che è quella medievale.<br />

Gli anonimi maestri che hanno fatto fiorire dalla terra di Francia le meravigliose<br />

cattedrali, e le hanno adornate di statue e vetrate e affreschi e tavole sublimi di<br />

trascendenza religiosa, s’erano ispirati alla vita entro la quale erano immersi, con<br />

la stessa nuda, assoluta sincerità.<br />

dicembre 1957<br />

i<br />

⎡ L’albero rosso<br />

Piet Mondrian<br />

Gemeentemuseum - L’Aia ⎦<br />

Piet Mondrian è il più assoluto e intransigente dei pittori<br />

astrattisti, ed è giusto con lui chiudere la serie dedicata alla pittura moderna, dato<br />

che dopo l’astrattismo non si vede che ci possa essere: forse soltanto la tela bianca o<br />

macchiata dal colore spruzzato a caso dall’alto (anche questo, state sicuri, s’è fatto,<br />

ma a noi non interessa più).<br />

Mondrian invero non ha mai lasciato nulla al caso, se mai ha troppo fidato<br />

sull’intelligenza, troppo poco sul sentimento. Nato in Olanda, dopo un primo<br />

periodo naturalista, del quale ci rimangono opere assai belle, come il Paesaggio con<br />

nube rossa (1908) in cui la sintesi non è ancora arrivata alla geometria, egli parte<br />

per Parigi, meta obbligata di tutta, o quasi, la pittura giovane nel primo quarto del<br />

nostro secolo.<br />

Fauvismo, espressionismo, cubismo, tramontata la felice giornata impressionista<br />

col finire dell’Ottocento, tengono vittoriosamente il campo. Ma Mondrian, coi<br />

suoi occhialetti lucidi, più da scienziato forse che da artista, non si butta allo<br />

sbaraglio con gli uni o con gli altri: guarda, giudica, sceglie. E fa poi a modo suo.<br />

A questo periodo d’esperienze varie e contrastanti appartengono alcuni capolavori<br />

di Mondrian. Basti ricordare la serie dell’“albero de L’Aia”, un grande albero dalla<br />

chioma amplissima che egli si porta nel cuore come un’ossessione e che ci dà sulla<br />

tela, sempre uguale e sempre diverso, con la fantasia e il rigore con cui i musicisti<br />

del Settecento variavano un medesimo tema.<br />

Quello che vedete è L’albero rosso, che si può considerare l’addio definitivo di<br />

Mondrian alla natura e al figurativo. Comincia, dopo qualche non felice esperimento<br />

cubista, il periodo neoplastico: pazienti ricerche di accordi a scacchiera con colori<br />

chiari e scuri, composizioni di più e di meno, reticoli spezzati. A questo punto,<br />

nel sempre più arduo cammino verso quello che egli considera l’assoluto dell’arte,<br />

Mondrian decide, come uno scalatore di cime che si sbarazzi del bagaglio superfluo<br />

per sopportare meglio l’aria rarefatta delle altitudini, di limitare le linee a verticali<br />

e orizzontali, i colori a rosso, giallo e blu. E basta? Proprio così, e niente di più.<br />

Tipica di tale orientamento è la Composizione in rosso giallo e blu (1929) (notare<br />

68 69


Mondrian decide, come uno scalatore di cime che si sbarazzi<br />

del bagaglio superfluo per sopportare meglio l’aria rarefatta<br />

delle altitudini, di limitare le linee a verticali e orizzontali,<br />

i colori a rosso, giallo e blu.<br />

che Mondrian, a differenza di certi falsi astrattisti dell’ultima ora, non cerca di<br />

gonfiare il significato dei suoi quadri con titoli simbolici. Si limita a indicazioni<br />

di pura verità).<br />

Non c’è molto da dire d’una tela così priva di qualsiasi appiglio naturalistico o<br />

psicologico, bisogna contentarsi, se si può, di goderne i colori puri, i ritmi di linee.<br />

Sino alla morte, che lo colse a New York, dove s’era trasferito dopo l’invasione delle<br />

sue due patrie, l’Olanda e la Francia, Mondrian non fece che ripetere all’infinito<br />

il suo alto gioco intellettuale di linee e di colori, portando la pittura ai limiti del<br />

nulla, ma salvandosi. Dimostrando almeno, sempre, una serietà assoluta, e una<br />

buona fede indubbia.<br />

Non si vuole qui cercare di giustificare, tanto meno additare come esempio,<br />

un’arte così impenetrabile “ai non addetti ai lavori”, cioè a chi non è critico o<br />

artista egli stesso, in grado di apprezzare la sua nobiltà e sottigliezza, di valutare la<br />

sua suprema perfezione formale.<br />

Forse l’importanza più grande di Mondrian sarà in futuro da valutare rispetto<br />

all’influenza, enorme, avuta da lui sulla scuola d’architetti nordici che fondò, si<br />

può dire, quello stile moderno, a superfici lisce, che dopo una lunga e non facile<br />

battaglia sembra aver vinto dovunque.<br />

Quando vedete uno stabilimento, o un palazzo d’uffici, o una villa che vi<br />

convincono particolarmente per il gioco di superfici di colori e di linee, gioco in<br />

cui non entra nessuno degli elementi che fecero grandi le architetture del passato,<br />

ripensate a Mondrian, ai suoi quadri che probabilmente non vi hanno troppo<br />

convinto. E riconoscetegli qualità anticipatrici e profetiche non comuni.<br />

70 71<br />

i


febbraio 1961 ⎡ Cacciatori nella neve<br />

Pieter Bruegel il Vecchio<br />

Kunsthistorisches Museum - Vienna ⎦<br />

Il più sorprendente forse, il più attuale pittore della sorprendente<br />

e attuale, anche se lontana negli anni, scuola fiamminga, è Pieter Bruegel (1525-<br />

1569), comunemente conosciuto sotto il nome di Bruegel il Vecchio: la sua<br />

famiglia infatti conta altri pittori assai notevoli, seppure nessuno che gli possa stare<br />

vicino. La sua qualità più singolare è il rapporto diretto e profondo con la natura<br />

e con gli uomini della terra in cui è nato.<br />

Vissuto in pieno Rinascimento, e sia pure entro una civiltà un po’ eccentrica<br />

rispetto all’Italia, del Rinascimento culla indiscussa, Bruegel non soggiace<br />

minimamente al fascino di quella idealizzazione che, giustificata nei sommi come<br />

Raffaello e Michelangelo, aveva in sé i pericoli della maniera e dell’accademismo.<br />

Il nostro artista non rifiuta le conquiste che l’arte ha fatto nel suo secolo, ma non se<br />

ne lascia neppure dominare, servendosene con tranquilla ma assoluta padronanza.<br />

Già i suoi soggetti, ben di rado di carattere ufficiale e celebrativo, significano<br />

molto, nella loro aderenza alla realtà. Si tratta di feste paesane, di proverbi<br />

figurati, di stagioni dell’anno, insomma di un materiale molto legato alla vita del<br />

popolo da cui egli viene e dal quale egli non si distacca mai, ricavandone umori<br />

e succhi ricchissimi per la sua fantasia. Così, messo a raffronto con i pittori più<br />

rappresentativi del suo secolo, che sono, come abbiamo visto, volti a ottenere<br />

l’essenza sublime della realtà, egli sembra a un tempo più antico e più nuovo, più<br />

simile agli artisti dell’ultimo Medioevo, scrupolosi osservatori del vero, e a quelli,<br />

mettiamo, dell’Ottocento, di nuovo portati a stare vicini all’umile, al quotidiano.<br />

Eppure non c’è niente di più fantastico e lirico, per esempio, dei paesaggi di Pieter<br />

Bruegel. Guardate questo che, dipinto nel 1565, sta al Museo di Storia dell’Arte di<br />

Vienna. Il titolo, non sappiamo bene se originale o dato più tardi, è Cacciatori nella<br />

neve; qualcuno lo chiama L’inverno. Non ha molta importanza, quel che è certo è che,<br />

ammesso pure che il soggetto principale del quadro sia la raffigurazione di cacciatori<br />

che tornano stanchi verso casa, il tema profondo dell’opera è la vita dell’uomo, non<br />

sentita allegoricamente, ma data con una verità incredibile, guardando con occhio<br />

limpido l’ora di un giorno qualsiasi nella sua luce irripetibile. Non si finirebbe mai di<br />

guardarlo questo paese nevoso e aperto nel quale non sta accadendo nulla di speciale:<br />

cacciatori camminano seguiti da cani, contadini lavorano attorno a un fuoco, altra<br />

gente si muove più lontana, altra lontanissima pattina sul ghiaccio mentre un uccello<br />

si stacca dai rami nudi, altri stanno fermi sui rami stessi che ancora orlano una neve<br />

fresca. La composizione non ha nulla di preordinato, è tagliata in modo che noi<br />

possiamo cogliere un’inquadratura essenziale, ma non l’unica. Si fosse spostato a<br />

destra o a sinistra, col suo obiettivo supremo, il pittore ci avrebbe dato altrettanta<br />

verità e altrettanta poesia: c’è sì equilibrio, ma senza simmetria, un equilibrio<br />

ottenuto con una naturalezza che ha qualcosa di magico. E non è un tale risultato il<br />

più alto che un artista possa ottenere?<br />

aprile 1961 ⎡ La nave dei folli<br />

Hieronymus Bosch<br />

Musée du Louvre - Parigi ⎦<br />

72 73<br />

i<br />

All’inizio la differenza fra pittura (e civiltà) fiamminga e pittura<br />

(e civiltà) olandese non è rilevante. Poi, e possiamo precisare, nel Seicento, la più


settentrionale delle terre basse, appunto l’Olanda, porta a una dorata, assoluta<br />

maturità la sua vocazione borghese ed esprime una cultura artistica di originalità e<br />

modernità sorprendenti, inconfondibili. Basterà far due nomi, quello tempestoso<br />

di Rembrandt e quello sereno di Vermeer, per evocare una delle punte più alte<br />

non soltanto della pittura europea ma dello spirito umano. Dopo l’eroico sforzo<br />

del Rinascimento italiano, culminante e già volto alla crisi in Michelangelo, era<br />

fatale un’alternativa (apparentemente) “in minore”, una discesa dall’Olimpo nella<br />

vita di tutti i giorni: vedi scuola d’anatomia, paziente ora di cucito (Rembrandt<br />

e Vermeer). L’una e l’altra, si capisce, sublimate dalla fantasia poetica, cromatica e<br />

luministica, dei due maestri.<br />

Fra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, dicevamo, l’anima<br />

olandese non si era ancora formata, e placata, nella consapevolezza della propria<br />

singolarità. Erano anni turbati e turbolenti. Riforma e controriforma segnavano<br />

con il loro contrasto pugnace e vitale<br />

il destino dell’Europa. In questo<br />

interessantissimo momento della<br />

storia dei paesi che si chiameranno<br />

in seguito Belgio e Olanda nascono<br />

e fioriscono Pieter Bruegel il Vecchio<br />

(del quale abbiamo parlato fra i<br />

fiamminghi) e Hieronymus Bosch, le cui bizzarre invenzioni pittoresche risentono<br />

certamente del processo di trasformazione spirituale in atto. Non è facile scoprire<br />

i nessi precisi che corrono tra ideologia e arte, specie quando si tratti di arte vera:<br />

ma è un fatto che i pacifici mostri popolanti le parabole e i proverbi figurati dei<br />

due grandi pittori alludono enigmaticamente, eppure incontrovertibilmente, alla<br />

congiuntura religiosa, politica e sociale in cui il mondo s’è venuto a trovare.<br />

74 75<br />

Non tanti anni dopo, William Shakespeare<br />

parla d’un “racconto privo di senso, pieno<br />

di rumore e di furia, recitato da un idiota”.<br />

Non vi pare che siamo molto vicini<br />

a Hieronymus Bosch?


Dei due l’artista più completo è Bruegel, cui è permessa una possibilità di riposi<br />

e distensioni (descrizioni di paesaggio) che a Bosch non è concessa. Ma entro i<br />

limiti, non angusti, della sua commedia fantastica, Maestro Geronimo è grande:<br />

lui, in fondo, l’unico vero surrealista della storia dell’arte, ma non tale per vacuità<br />

bensì per pregnante forza intellettuale. Guardate a questo strano “vascello”,<br />

dipinto circa nell’anno 1500, e ora al Louvre. Da notare, subito, la smania da cui<br />

è preso il bel campionario d’umanità meschina e goffa imbarcata nel barcherozzo<br />

che non si muoverà mai in contrasto con la pace della natura che sta nel fondo. C’è<br />

chi mangia e chi suona, chi s’arrampica per una magra cuccagna e chi sfinito, nudo<br />

come un verme, tenta dall’acqua scura di aggregarsi; e c’è, assai significativo, chi<br />

s’affaccia come per rimettere. Insomma, senza che se ne possa trarre un significato<br />

chiaro e razionale (ma come sarebbe possibile in tale materia?), riusciamo però a<br />

leggere nel suggestivo quadro di Bosch un’allegoria, una delle tante che un artista<br />

può concepire, della vita. Non tanti anni dopo un altro grande del Nord, William<br />

Shakespeare, non doveva parlare d’un “racconto privo di senso, pieno di rumore<br />

e di furia, recitato da un idiota”?<br />

Non vi pare che siamo molto vicini a Hieronymus Bosch?<br />

maggio 1961 ⎡ Cena in Emmaus<br />

Rembrandt<br />

Musée du Louvre - Parigi ⎦<br />

i<br />

Di tutti i grandi olandesi Rembrandt è quello che, pur conservando<br />

e anzi potenziando i caratteri precipui della scuola cui appartiene, meno, a<br />

prima vista, alla scuola stessa fa pensare. Così accade, mettiamo, di Michelangelo<br />

nei riguardi della tradizione fiorentina, senza la quale è inimmaginabile, ma che<br />

trascende in tal misura da non ricondurvici mai, se non dopo un esame lungo e<br />

particolareggiato, minuto. Nell’uno e nell’altro l’universalità, seppur nutrita di<br />

succhi originari, è preminente, e non è soltanto un raggiungimento ma un’aspirazione,<br />

un’esigenza ansiosa, continua, insaziabile.<br />

Rembrandt Van Rijn nasce nel 1606 e muore nel 1669, in pieno meriggio barocco,<br />

ma a differenza di Rubens che assume le grandiose e qualche volta un po’ vacue<br />

invenzioni formali provenienti dall’Italia per riempirle di carne e di sangue,<br />

insomma di natura, alla nordica, non si lascia troppo commuovere dalle novità. Se<br />

c’è un pittore che gli insegna qualcosa è Caravaggio, l’antibarocco, la cui ricerca<br />

luministica non è mai fine a se stessa, anzi sempre portata avanti in funzione drammatica:<br />

umana, troppo umana, per dirla con Nietzsche.<br />

Mentre la buona pittura olandese del suo tempo tende a specializzarsi, Rembrandt<br />

non ha nessuna intenzione di farsi buon ritrattista, o paesaggista, o internista, o<br />

naturamortista. Egli non si pone limiti di soggetti, passa dal religioso al profano,<br />

dal mitologico al quotidiano, dalla vicenda biblica alla scena di genere, superandone<br />

ogni volta i limiti in una resa che ha, nella sublimazione del naturale e dell’umano,<br />

un carattere universale assoluto. Parlavamo di Michelangelo: l’italiano, erede<br />

della classicità, idealizza l’uomo, lo deifica in un certo senso; Rembrandt, figlio<br />

del naturalismo nordico, umanizza sino ai limiti più simili la divinità, insomma<br />

compie l’operazione inversa. Per questo egli, nei tempi moderni, dal secolo scorso<br />

in qua, ha esercitato una suggestione (più che un’influenza) senza pari, e tanto<br />

sugli scrittori che sui pittori. I raggiungimenti più alti del Realismo e dell’Impressionismo,<br />

in letteratura e nelle arti figurative, quell’eroico, e spesso riuscito, tentativo<br />

di portare alla poesia le cose e gli uomini di tutti i giorni non hanno in tutta<br />

76 77


la storia dello spirito creativo occidentale un precedente, un incoraggiamento più<br />

persuasivo dell’opera immensa dell’olandese. Nei grandi quadri densi di colore<br />

come nei foglietti d’album appena toccati dal segno infallibile della penna che con<br />

un solo tratto apre l’infinito d’un cielo, Rembrandt è sempre pervicacemente,<br />

implacabilmente se stesso: un ricercatore instancabile e intrepido, ma pieno di<br />

profonda pietà, del vero. Chi non ricorda quei suoi vecchi, apostoli o mendicanti<br />

(apostoli come mendicanti, mendicanti come apostoli), le cui rughe come dirupi<br />

accolgono voragini d’ombra, i cui occhi ai limiti del buio eterno, raccolgono però<br />

con disperata serenità un oro incredibile di luce terrena?<br />

Non è possibile dare con un’opera idea della complessità e unicità di questo pittore,<br />

perciò, tralasciando le più celebri, come la Ronda di notte o La lezione d’anatomia,<br />

abbiamo scelto una scena sacra, che mostra più evidente l’originale maniera che<br />

Rembrandt ha di sentire a modo suo, traducendoli in una visione tutta interiorizzata,<br />

d’una sintesi suprema, soggetti già mille volte trattati dall’arte precedente. Si<br />

tratta qui della Cena in Emmaus che sta al Louvre, quella cena che i grandi veneti,<br />

poco prima, avevano celebrato con tanto fasto, e che qui è ridotta a così povera,<br />

eppure sublime, cosa. La presenza di Cristo risorto nell’ambiente corroso dall’ombra<br />

intride santamente l’ambiente stesso, e le figure, d’una luce insieme spirituale<br />

e vera, e il colore, da questo accordo, prende una sostanza ineffabile, ma sensibilissima.<br />

Lo spirito così s’incarna miracolosamente, si fa visibile, palpabile.<br />

i<br />

giugno 1961 ⎡ La merlettaia<br />

Jan Vermeer<br />

Musée du Louvre - Parigi ⎦<br />

Se di quel secolo d’oro della pittura olandese che è il Seicento<br />

Rembrandt rappresenta l’anima inquieta e tempestosa, Vermeer rappresenta<br />

proprio il contrario: la pazienza, la calma, l’accettazione della piccola realtà quotidiana,<br />

virtù che sul piano sociale e storico si usano definire borghesi, magari con<br />

una sfumatura dispregiativa. Eppure con le virtù suddette, che in lui sono prima<br />

morali che artistiche, Vermeer arriva, parallelamente a Rembrandt, a una profondità<br />

e a una perfezione che hanno dell’assoluto.<br />

Nato nel 1632 a Delft (di cui ha lasciato una Piccola veduta indimenticabile) e<br />

morto, ancora giovane, nel 1675, dopo essersi mosso ben poco di casa, Vermeer<br />

risente, come tutti i pittori europei del tempo, dell’influenza, forse mediata ma per<br />

questo non meno autentica, del Caravaggio, del quale accoglie soprattutto le scoperte<br />

in fatto di luce e d’ombra. Naturalmente come carattere e come ispirazione<br />

non si potrebbero trovare due personalità più distanti, antitetiche.<br />

La riscoperta di Vermeer, apprezzatissimo in vita poi a lungo negletto, si ha a metà<br />

del secolo scorso, e il merito è da attribuire a un critico francese, Thoré-Bürger: il<br />

che si spiega con l’Impressionismo, nascente appunto in quegli anni, e tendente a<br />

dare il massimo valore all’esaltazione del vero attraverso il colore e la luce, cioè a<br />

quanto il pittore olandese aveva saputo fare come nessun altro.<br />

È vero che i temi umili sono comuni nel Seicento, specie olandese: ma visti sotto<br />

un’angolazione pittoresca, anticipatrice di un’arte “di genere” sono sempre in<br />

pericolo di cadere nel banale. Mentre Vermeer, con la sua meditazione lenta e<br />

assorta, riesce a trasporre temi come “la ricamatrice”, “il pittore nello studio”,<br />

78 79


la “stradina dell’ospizio” a un cielo fermo, spassionato, quasi metafisico, che fa<br />

pensare alla sublimità di Piero della Francesca, mettiamo, cioè al meno pittoresco<br />

degli artisti. Come è stato detto, Vermeer trasforma “le occupazioni più ordinarie<br />

in riti miracolosi”, e lo fa, allo stesso modo che, più tardi (con maggior coscienza<br />

e pena) Cézanne, portando a una sintesi solenne, religiosa, i gesti e i moti e gli<br />

elementi, in sé triti, delle figure umane più comuni.<br />

Ma guardiamo La merlettaia del Louvre, dipinta circa nel 1665, nella piena e ahimè<br />

fugace maturità dell’artista. Il fondo è d’un oro spesso, caldo; è muro, ma lasciato<br />

alla sua pura materialità, o appena intaccato dalla firma Meer, diviene, a furia di<br />

concretezza, astratto come un fondo-oro medievale o come una pittura informale.<br />

Ma non è fine a se stesso, contro la sua sostanza porosa, imbevuta di luce<br />

diurna, la figura della donna intenta al suo lavoro e vestita d’un giallo che s’accorda<br />

meravigliosamente, prende una sorta di domestica monumentalità. Ma che cos’è<br />

la sua fronte, cos’è il suo naso in cui luce e ombra sembrano baciarsi in un incontro<br />

struggente? Per non parlare di stoffe, tappeti, fili di seta: lasciati nel loro naturale,<br />

leggero e familiare disordine, eppure composti in un ordine tale da poter affrontare<br />

l’eternità. Ancora una volta verità e poesia sono la stessa cosa.<br />

agosto 1961 ⎡ Las Meninas<br />

Diego Velázquez<br />

Museo Nacional del Prado - Madrid ⎦<br />

i<br />

Senza esser stato un teorico vero e proprio, Diego Velázquez<br />

(1599-1660) ha, in una sua definizione alla buona della pittura, affermato che<br />

questa dev’essere “l’arte di combinare tocchi colorati su di una superficie bianca,<br />

per il piacere degli occhi”, fondando in tal modo, per così dire, l’arte moderna.<br />

Naturalmente non è perché abbiano conosciuto la frase citata sopra che gli impressionisti,<br />

per parlare dei più diretti e famosi eredi del grande pittore spagnolo, si<br />

sono dimostrati tanto coerenti con essa, ma perché devono aver visto i quadri suoi<br />

che ne provano in modo lampante la verità.<br />

Profondamente legato alla terra in cui nacque e visse, la cui natura e il cui carattere<br />

egli esprime nella propria arte con la stessa pienezza con cui Cervantes l’esprime<br />

nel suo libro immortale, Velázquez ha avuto però gli occhi e la mente ben aperti<br />

su quanto la pittura europea, specie l’italiana, andava producendo di più nuovo e<br />

vitale in quegli anni. È indubbio che l’intrepida rivoluzione realistica del Caravaggio<br />

ha contato molto nella sua formazione, altrettanto indubbio che i suoi risultati<br />

sono diversissimi da quelli del nostro.<br />

Il Caravaggio è essenzialmente, se non esclusivamente, drammatico: a tale scopo<br />

egli, pur ponendosi di fronte alle cose con una presa diretta, libera da ogni schema<br />

intellettuale e formale, tende a una sintesi, appunto drammatica, e perciò riduce,<br />

elimina quanto non serva all’efficacia del suo possente teatro. E in questo, scavalcato<br />

il classicismo cinquecentesco, si ricongiunge a Masaccio, che a sua volta si<br />

ricongiunge a Giotto.<br />

Velázquez invece, con una sorta di olimpica passività, vede tutto e riproduce tutto,<br />

arrivando a un illusionismo tale da impaurire chi guardi i suoi quadri, restando<br />

dubbioso e incerto, non sapendo bene se quello che gli sta davanti è l’arte riproducente<br />

la vita o la vita stessa nel suo impassibile fluire.<br />

Velázquez ha dipinto quadri religiosi e mitologici, ritratti di grandi e di mendicanti,<br />

persino paesaggi puri e semplici. Ma il soggetto non ha mai contato per lui<br />

che, per esempio, Venere e Vulcano se li è cercati fra la gente, e che poi non ha<br />

80 81


neppure tentato di sublimare o, perlomeno, di nobilitare, convinto che la sublimazione<br />

per lui non poteva altro avvenire che attraverso la combinazione di tocchi<br />

colorati su di una superficie bianca, nella quale egli sapeva di non avere rivali. Non<br />

sapremmo come meglio farvi intendere ciò che mostrandovi questo grande particolare<br />

dello straordinario quadro che è Las Meninas (Le Damigelle d’onore), dipinto<br />

da Velázquez, nel 1656, e ora appeso<br />

al Prado come una finestra aperta su<br />

un giorno del tempo perduto (ma<br />

fermato per sempre con una verità da<br />

stordire).<br />

La tela, abbiamo detto, è più grande<br />

e comprende tutta intera una stanza<br />

del palazzo reale vista dal pittore in uno specchio posto pressapoco dove ora<br />

siamo noi che guardiamo. In primissimo piano sta un grosso cane sonnacchioso,<br />

un po’ più indietro, nel mezzo, protagonista l’Infanta Margherita, circondata<br />

da damigelle e anche da nane; più indietro, di poco, il pittore davanti al<br />

quadro; più indietro ancora, in uno specchio appeso alla parete il Re e la Regina;<br />

infine, al di là di una porta aperta, in una luce più spirabile, un sovrintendente<br />

di corte. Aggiungiamo subito, per confermarvi l’assoluta informalità della scena,<br />

che il telaio a sinistra di voi che guardate non è così tagliato nel particolare, ma<br />

così perché il pittore lo ha visto e tagliato così. Sembra che non abbia voluto<br />

significare nulla, il pittore, con questo gruppo di famiglia spassionato, privo di<br />

qualsiasi appiglio intellettuale, di qualsiasi intenzionalità. Eppure guardandolo<br />

ci sembra di aver visto tutta la Spagna, col bruno della sua terra e il miele<br />

della sua luce, con la dignità e la tristezza della sua gente, e tanto, tanto altro.<br />

Volevamo aggiungere, e non solo per darvi una notizia curiosa, che l’ultimo grande<br />

82 83<br />

Guardando “Las Meninas” ci sembra<br />

di aver visto tutta la Spagna, col bruno<br />

della sua terra e il miele della sua luce,<br />

con la dignità e la tristezza della sua gente,<br />

e tanto, tanto altro.


pittore spagnolo, Pablo Picasso, è stato talmente incantato e turbato, di recente,<br />

dal ricordo di questo quadro, che non vede da moltissimi anni, di rifarlo, deformandolo,<br />

squinternandolo, ribaltandolo in una serie sorprendente di “omaggi”<br />

apparentemente sacrileghi ma in fondo estremamente rispettosi, intelligenti, illuminanti.<br />

settembre 1961 ⎡ Il tre maggio 1808<br />

Francisco Goya<br />

Museo Nacional del Prado - Madrid ⎦<br />

i<br />

La grande pittura spagnola, che ha il suo culmine nel Seicento,<br />

chiude più tardi di tutte le altre scuole europee, con la personalità inquieta e<br />

inquietante di Francisco Goya, nato e cresciuto nel Settecento e morto nel primo<br />

Ottocento. Forse le date della sua biografia (1746-1828) aiutano a spiegare la sua<br />

straordinaria evoluzione, dall’origine quasi, mai del tutto, accademica, alla conclusione<br />

estremamente personale, anticipatrice delle riuscite più profondamente<br />

e liberamente moderne dell’arte venuta dopo. È naturale cioè che la storia, con i<br />

suoi accadimenti formidabili, dalla crisi dell’ancien régime alla Rivoluzione a Napoleone<br />

alla Restaurazione, abbia contribuito con i suoi traumi a drammatizzare il<br />

progresso della pittura goyesca. Ma quanti altri non sentirono neppure in superficie<br />

quello che egli sentì in maniera così lacerante, negli stessi anni.<br />

Erede della tradizione in cui eccelse Velázquez, Goya ci ha lasciato una serie di<br />

ritratti singoli e di famiglia che uniscono un’incantevole resa delle sete e dei velluti<br />

cangianti che sono il vanto della moda settecentesca a una fulminea, impietosa<br />

La rappresentazione de “Il tre maggio 1808” trascende il dato<br />

storico, diventa simbolo perenne della bestialità umana<br />

esaltata dall’odio fazioso.<br />

84 85


caratterizzazione psicologica dei personaggi, accordo che sembrerebbe difficile,<br />

anzi impossibile, e ha in lui la naturalezza misteriosa della vita. In questa serie<br />

stanno i principi e le maye, vestite e nude, i generali e i fanciulli, rapiti al tempo,<br />

fermi per l’eternità, come lo sono, belle e insieme orribili, le farfalle che l’entomologo<br />

racchiude nelle sue vetrine.<br />

Ci ha lasciato anche una serie di festose decorazioni, che sembrano librate ai ritmi<br />

delle musiche contemporanee, Goya. Ma forse la più alta espressione del suo genio<br />

si trova nelle opere tarde, disegni e pitture dedicate ai disastri della guerra e alle<br />

follie in genere dell’umanità. Rapacità e demenza, lussuria e avarizia e tanti altri<br />

vizi (e così poche virtù) non sono da lui personificati in figure allegoriche, come<br />

nella pittura antica, ma esemplificati in episodi che, tratti dalla cronaca o nati<br />

dagli incubi notturni risultano ugualmente agghiaccianti e pure, alla fine, in virtù<br />

dell’umana passione che li anima, fortificanti.<br />

Il quadro che mostriamo, e che sta al Prado di Madrid, è un esempio supremo di<br />

questa fase dell’arte di Goya: s’intitola Il tre maggio 1808. La pittura è circa del 1815,<br />

e potrebbe dirsi il ricordo di una giornata vissuta con angoscia dal pittore, anche se<br />

non abbiamo la certezza che egli abbia potuto assistere a scene del genere, frequenti<br />

quando Gioacchino Murat si accanì contro gli spagnoli, in un primo tempo favorevoli<br />

e poi ostili ai francesi. Non importa: la rappresentazione trascende il dato<br />

storico, diventa simbolo perenne della bestialità umana esaltata dall’odio fazioso.<br />

A un certo punto, anzi, si potrebbe dire che Goya va anche più in là, ponendo quasi<br />

alla pari, come burattini mossi da un Fato invisibile, sia gli innocenti, le vittime,<br />

sia gli assassini, gli esecutori del crimine. I primi, nel loro infantile, incomposto<br />

tentativo di affrontare in qualche modo una situazione impossibile, ci mostrano i<br />

loro visi, magari se li coprono, ma sono tutti identificabili nella loro miseria, gli<br />

altri, chiusi nelle uniformi e negli alti berretti, non mostrano invece nessun tratto<br />

delle loro fisionomie, che sono anzi impossibili a immaginarsi, come cancellate<br />

dall’orrendo atto cui sono intenti, cui sono condannati. La scena si svolge presso<br />

un pendio giallastro (l’eterno giallo spagnolo) alla luce di un lanternone accecante,<br />

mentre nel fondo, contro un cielo notturno, le case, la chiesa degli uomini<br />

hanno appena una consistenza larvale. Non c’è composizione, nel senso classico<br />

della parola, ma la bruta realtà colta nel suo improvviso accadere, nei suoi colori<br />

veri e tuttavia sublimati dall’impegno morale dell’artista.<br />

A questo quadro si è ispirato, decine d’anni dopo, Édouard Manet, ma la sua<br />

opera, elegantissima, rimane molto al di sotto dell’originale. Del resto tutti gli<br />

artisti appunto impegnati, o “engagés” hanno sempre guardato a Goya, senza mai<br />

raggiungerlo.<br />

novembre 1961 ⎡ Altare di Isenheim, Crocifissione e Deposizione<br />

Matthias Grünewald<br />

Musée d’Unterlinden - Colmar ⎦<br />

86 87<br />

i<br />

A differenza di Dürer, del quale è contemporaneo, Matthias<br />

Grünewald non tenta di correggere il suo aspro idioma germanico con la lingua<br />

misurata e classica del Rinascimento italiano. Tedesco è e tedesco vuol rimanere,<br />

il nostro pittore: in questo senso mirabile esempio di fedeltà al proprio<br />

sangue e alla propria terra, alla propria tradizione, per tutti gli artisti nordici<br />

venuti dopo di lui.<br />

In effetti, quando all’alba del nostro secolo l’Europa si caccerà nell’avventura delle<br />

avanguardie, differenziandosi però nelle varie nazioni, i tedeschi con l’espressio-


Questa tenerezza di materia pittorica fiorita ai margini<br />

della pura tragedia, in Grünewald ha un’autenticità,<br />

una necessità interiore commovente.<br />

nismo si rifaranno soprattutto a uomini come Grünewald. E che cos’è l’espressionismo<br />

se non quella componente eterna dell’arte tedesca volta, senza compromissioni<br />

con il bello, alla espressione, appunto, dell’umano, a costo di giungere al<br />

troppo umano?<br />

L’umano, che gli artisti del nostro secolo andranno cercando entro lo squallore<br />

delle città industriali e lo stridore di denti delle solitudini nevrotiche, un pittore<br />

vissuto fra la fine del Quattro e il principio del Cinquecento poteva trovarlo benissimo<br />

nei temi religiosi cristiani. Che, è vero, molti, anche grandi, artisti italiani di<br />

quegli anni avevano tradotto in termini di perenne felicità cromatica e compositiva,<br />

ma presi alla lettera, dalle nude pagine dei testi sacri, e trasportati in linguaggio<br />

figurativo attraverso una meditazione sincera, grondavano addirittura di umanità.<br />

Su questa via Matthias Grünewald è un artista, un poeta verrebbe da dire, da<br />

mettere fra i supremi dell’arte occidentale. La sua narrazione della Passione di<br />

Cristo, che sta a Colmar, in Alsazia, e che è la sua opera più giustamente famosa, fa<br />

impallidire al confronto, come resa drammatica dell’evento, gran parte delle tante<br />

Passioni dipinte per secoli in Europa.<br />

Noi vi diamo qui il punto centrale del complesso e sublime polittico, quello che<br />

rappresenta Cristo crocifisso tra Maria, la Maddalena e san Giovanni. Già il paesaggio,<br />

con la sua cortina di nuvole, appena lividamente aperto nel lontano sui monti<br />

abbrunati, parla eloquentemente della tragedia toccata al Figlio di Dio. Il quale,<br />

ingigantito fisicamente rispetto alle altre figure senza tener nessun conto dell’ormai<br />

diffusa misura del corpo umano, soffre per tutti noi in una contrattura muscolare<br />

e spirituale insieme che rasenta il grottesco. Proprio come sarà nelle cose più<br />

autentiche della scuola espressionistica. La Croce stessa, il cartello stesso con la<br />

dicitura INRI, sono dolorosamente malpiallati, scentrati, insomma torturati: la<br />

sofferenza dell’artista non ha mai un attimo di quiete, una distrazione.<br />

88 89


Ma che dire della Maria tutta bianca nel volto e nel misero petto entro il bianco<br />

del manto, di una spettralità che non ha uguale in tutta la pittura? Che dire di<br />

san Giovanni col suo ditaccio puntato, a costo, pur di essere esplicito, di rasentare<br />

la goffaggine? Anche l’agnellino simbolico presso il calice dorato non ha nulla<br />

di grazioso, nell’atteggiamento troppo scopertamente simbolico: tuttavia il suo<br />

impaccio, il suo corpicciolo un po’ sformato diventano, in virtù dell’emozione<br />

dell’artista, estremamente patetici.<br />

Nell’orrore, anche coloristico, dell’opera l’oro della chioma di Maddalena, che<br />

ha la nervosità vegetale delle radici quando vengono allo scoperto, s’accorda poi<br />

meravigliosamente col rosa della veste. Questa tenerezza di materia pittorica<br />

fiorita ai margini della pura tragedia è una di quelle apparenti dissonanze di cui<br />

l’arte moderna s’è fatta paladina anche troppo cosciente, ma che in Grünewald ha<br />

un’autenticità, una necessità interiore commovente.<br />

dicembre 1961 ⎡ Resurrezione di Cristo<br />

Albrecht Altdorfer<br />

Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie - Vienna ⎦<br />

i<br />

L’altro artista della scuola tedesca che presentiamo è Albrecht<br />

Altdorfer, nato a Ratisbona nel 1480 e morto circa nel 1538: siamo ancora nel<br />

periodo di Dürer e Grünewald, fra la fine del Quattro e il principio del Cinquecento,<br />

in quel singolare, fecondo momento in cui la pittura nordica viene colpita<br />

dall’affermarsi possente del Rinascimento italiano. Dalla reazione, in parte negativa<br />

in parte positiva, risultante dallo scontro di due antitetiche maniere artistiche<br />

e, prima, da due contrastanti concezioni della vita come sono la germanica e l’italiana,<br />

nasce il singolare fascino della pittura di Dürer, Grünewald, Altdorfer.<br />

È chiaro che questi artisti non vengono domati dalla misura classica rinata in Italia<br />

con l’Umanesimo, è chiaro pure che ne vengono, in un certo senso, ipnotizzati:<br />

così, senza tradire la vocazione naturalistica che tante grandi cose ha fatto loro<br />

compiere nel periodo, lunghissimo al Nord, del Gotico, apprendono a sfondare<br />

per mezzo della prospettiva, nata a Firenze, lo spazio. I contatti che essi possono<br />

stabilire con la scuola che domina, attraverso Roma, il mondo occidentale, non<br />

sono sempre diretti, avvengono spesso per via di stampe e incisioni fedeli sino a<br />

un certo punto allo spirito degli originali. Invece le testimonianze dell’arte nata<br />

libera e un po’ selvatica dalla loro terra e dal loro popolo le hanno sempre sotto<br />

gli occhi nelle chiese, nei conventi, nei castelli. E hanno sotto gli occhi l’umanità<br />

e, soprattutto, quella natura indomabile, quell’eterna foresta che già compare nei<br />

fondi sacri del Medioevo e sarà motivo supremo nel grande momento romantico,<br />

sia in pittura sia in poesia e in musica.<br />

In questo senso Albrecht Altdorfer è il più germanico di tutti gli artisti tedeschi:<br />

da lui la natura è sentita come da nessun altro, con un soffio così grandioso da<br />

anticipare veramente Hölderlin e Beethoven. Guardate questa Resurrezione di<br />

Cristo, che faceva parte di un grande polittico posto sull’altare di San Floriano,<br />

nell’Alta Austria, e paragonatela mentalmente con qualche Resurrezione famosa<br />

dell’arte italiana, mettiamo con quella di Piero Della Francesca che sta a Borgo<br />

San Sepolcro. Il nostro pittore ha composto la scena con il rigore assoluto di<br />

un drammaturgo classico, senza concedersi nessuna distrazione, senza cedere a<br />

nessuna tentazione di pittoresco. Ecco invece Altdorfer far cadere il momento<br />

sublime della Resurrezione entro il più incredibile sfondo di tutta la pittura<br />

dell’epoca, quasi volendo che l’evento sacro abbia un corrispettivo altrettanto<br />

90 91


sorprendente e meraviglioso nella natura. Mentre in primo piano Gesù, alto sul<br />

sepolcro, abbacina e quasi tramortisce i soldati che erano stati posti di guardia<br />

e gli angeli, lontano, al di là dei pini e dei monti, il sole che sorge vince vittoriosamente<br />

la luna che tramonta. È tutto un cangiare e trascolorare e rifulgere<br />

e impallidire di tinte d’una straordinaria forza poetica e insieme di una quasi<br />

scientifica precisione. Qui il naturalismo nordico, non applicato rigidamente,<br />

ma sentito con profonda partecipazione spirituale, dà qualcosa che mai l’arte<br />

italiana, erede di Atene e di Roma, aveva toccato.<br />

febbraio 1962 ⎡ Piroscafo nella tempesta di neve<br />

William Turner<br />

Tate Gallery - Londra ⎦<br />

i<br />

Se il Settecento vede in Inghilterra una fioritura di deliziosi<br />

ritrattisti, spesso molto sensibili anche alle bellezze della natura in cui essi immergono<br />

i loro personaggi, l’Ottocento assiste, nell’isola, all’esplosione di una grande<br />

poesia e di una grande pittura. L’una e l’altra mosse da quello spirito romantico<br />

che, pur toccando i risultati supremi nella Germania di Goethe e di Beethoven,<br />

è in Inghilterra ricchissimo, libero da certi eccessi ideologici che gravano invece<br />

non soltanto alcuni aspetti dell’arte germanica, ma pure di quella francese, negli<br />

stessi anni.<br />

Sono due le figure veramente rappresentative della pittura inglese dell’età romantica:<br />

Turner e Constable. È singolare come la poesia, forse con un certo anticipo,<br />

presenti allora in Inghilterra due personalità che rispondono a quelle dei pittori<br />

Il tutto è preso in un vortice nel quale siamo presi anche noi,<br />

in una sorta di ebbrezza esaltante, simile a quella<br />

che ci possono dare certi “fortissimi” della musica romantica.<br />

92 93


nominati sopra. Vogliamo dire Coleridge e Wordsworth, il primo nella sua tendenza<br />

al fantastico più simile a Turner, il secondo nella sua quieta, virgiliana elegia<br />

più simile a Constable. Le affinità, non volute, sono impressionanti.<br />

Turner nacque a Londra nel 1785 e vi morì nel 1851, e viaggiò molto, specialmente<br />

in Svizzera e in Italia allora molto di moda. Egli dipinse soggetti di ogni genere,<br />

ispirandosi ora alla storia, come nella sua famosa Distruzione di Sodoma, ora alla<br />

cronaca, come nell’altrettanto e forse più famoso Incendio del Parlamento, ora ispirandosi<br />

alla natura nel suo variare infinito. Ma quali che fossero i contenuti delle<br />

opere che intraprendeva, la vigorosa fantasia creatrice del pittore riusciva a esprimersi<br />

liberamente. Con una libertà tale anzi che molte volte gli ambienti accademici<br />

e la critica lo biasimarono con una severità che non mostrarono per nessun<br />

altro artista del suo tempo. Ma proprio perciò la sua fama andò sempre crescendo,<br />

ed è ormai certo che gli impressionisti francesi ricevettero da lui il primo avvio per<br />

le loro ricerche. C’è un viaggio a Londra di Claude Monet, con una sua visita alla<br />

Tate Gallery, all’origine del movimento che doveva trasformare la pittura europea<br />

a metà del secolo scorso.<br />

Il quadro che vi mostriamo sta appunto alla Tate Gallery, si intitola Piroscafo nella<br />

tempesta di neve ed è stato positivamente definito da Ruskin “apocalisse dei cieli”,<br />

negativamente da un critico del quale il nome non direbbe nulla “dipinto di bolle<br />

di sapone e di calcina”.<br />

Si racconta che per dipingerlo Turner si fosse fatto legare all’albero di una nave,<br />

naturalmente non meno nei pasticci di quella che vedete qui presa in un turbine<br />

incredibile. Turbine di colore, naturalmente, insieme descrittivo e fantastico,<br />

secondo il carattere apparentemente contraddittorio ma invece mirabilmente<br />

coerente dell’artista. Siamo ai limiti non solo dell’impressionismo, ma addirittura<br />

dell’informale: un informale non di maniera, come quello di molti pittori di oggi,<br />

ma estratto dalla natura. La nave la vedete, sarà stata una nave moderna, allora,<br />

tanto è vero che va già a vapore e butta fuori il fumo, un fumo che si confonde con<br />

le nubi, l’acqua, la neve. Il tutto è preso in un vortice nel quale siamo presi anche<br />

noi, in una sorta di ebbrezza esaltante, simile a quella che ci possono dare certi<br />

“fortissimi” della musica romantica.<br />

marzo 1962 ⎡ Il cottage di Sir Richard Steele, Hampstead<br />

John Constable<br />

Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection - Yale ⎦<br />

94 95<br />

i<br />

John Constable, nato nel 1776 e morto nel 1837, vive a cavallo<br />

dei due secoli, nel momento più grande e creativo del Romanticismo europeo.<br />

Ma si sa che in Inghilterra questo movimento nasce in anticipo e con caratteri<br />

tutti suoi, più liberi e naturali che altrove. Anche in questo, come in tante altre<br />

cose, gli isolani procedono empiricamente, senza troppo preoccuparsi di dare<br />

una base teorica o, come si direbbe oggi, ideologica alla loro azione. Il che li<br />

rende immuni dai pericoli dell’astrazione, della rigidezza, del fanatismo.<br />

Nella seconda metà del Settecento, certamente per giusta reazione all’eccesso di<br />

razionalità cui si era voluto sottoporre l’arte nei primi cinquant’anni del secolo,<br />

nei quali trionfa l’Illuminismo, vanno nascendo qua e là fermenti, in tutti i campi<br />

dello spirito, cui noi oggi abbiamo dato il nome di anticipazioni preromantiche. E<br />

l’Inghilterra ne è più ricca di ogni altro paese: la poesia giovanile di Wordsworth<br />

e di Coleridge e la contemporanea, parallela pittura di Constable e di Turner ne<br />

sono gli esempi più singolari.


Nessuno di questi artisti schietti e autentici potrebbe venire classificato romantico<br />

in senso stretto, nessuno di essi infatti si preoccupa di stare ai temi che il movimento<br />

propone, come vi saranno invece i tedeschi e i francesi. Quello che essi<br />

sentono di dover seguire è soltanto la propria anima, che, come giusto, in quegli<br />

anni aspira a una sorta di comunione intera con la natura.<br />

Prendiamo Constable. Questo straordinario poeta del colore e della luce ha<br />

dichiarato più di una volta che l’unica sua preoccupazione era quella di sentire<br />

“con umile cuore” quanto c’era di già nelle siepi, nei campi, nei cieli. Una disposizione<br />

questa che verrà portata alle conseguenze estreme dagli impressionisti, ma<br />

che in fondo era stata sempre presente a tutti grandi paesisti, da Poussin a Claudio<br />

Lorenese agli olandesi, ai veneziani come il Guardi e il Canaletto: e non si potrebbe<br />

risalire anche molto più indietro, spostandoci dalla poesia in colori a quella in<br />

parole, sino al Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche?<br />

Il quadro che vedete, e che sta in una collezione privata britannica, rappresenta<br />

Hampstead. Gli inglesi vi riconoscono, sulla destra, il “cottage” che appartenne<br />

al famoso saggista Steele e un po’ in tutto il primo piano i luoghi di Clarissa, il<br />

famoso best-seller di Richardson. Ma a noi questo importa ben poco, quello che<br />

importa è la meravigliosa resa del paese, tutto rorido di rugiada mattutina e fresco<br />

di verdi e di bianchi da un lato, caldo di bruni dall’altro, stemperato di viola di<br />

grigi e di azzurri nel fondo infinito. Non manca un cenno di racconto nella carrozza<br />

in discesa per la strada che divide in due la composizione e nelle figurette<br />

della sinistra (meno necessaria perché forse un po’ troppo corposa quella femminile<br />

al limite del quadro): e questo non è affatto per dispiacerci, tenuto com’è su<br />

un piano di discrezione castissima. Ben altro peso avranno i racconti della pittura<br />

romantica propriamente detta, molto spesso anticipatrice dei più frastornanti film<br />

storici in technicolor dei nostri giorni.<br />

settembre 1962 ⎡ La Troika<br />

Antonio Ligabue<br />

Collezione privata ⎦<br />

Dopo due francesi, un italiano: Antonio Ligabue da Reggio<br />

Emilia. Il tipo è altrettanto bizzarro, ma in maniera diversa, che Rousseau e Bauchant,<br />

e altrettanto autentico, e non professionale, pittore.<br />

Individuare il suo “status”, la sua condizione prima, così da affibbiare al suo nome<br />

un aggettivo come si è fatto con “doganiere” ed “erborista” per i due maestri d’oltr’Alpe,<br />

non è facile, è forse impossibile. Si potrebbe provare con “vagabondo”,<br />

lasciando alla parola tutte le sue ambiguità, i suoi riflessi cangianti, il suo bene e il<br />

suo male. Così che in essa spiri quell’aria libera, di strada aperta e spazzata dal vento,<br />

e insieme ristagni quell’afrore acre, un po’ ferino, di vita irregolare, che sentiamo in<br />

alcuni grandi poeti dell’età moderna, da Rimbaud a Verlaine a Campana.<br />

Ligabue è un uomo della bassa reggiana, un figlio di quella gente alacre e sanguigna<br />

che ha costruito sulla riva emiliana del Po una serie di piccole città stupende,<br />

Boretto, Gualtieri, Suzzara, Guastalla, dotandole di una campagna fra le meglio<br />

coltivate del mondo. Si capisce che in tanta concretezza di interessi e sana, violentemente<br />

sana, accettazione della vita, un uomo come Ligabue non potesse trovare<br />

un ritmo d’esistenza misurato e tranquillo. Tuttavia egli non si è distaccato da<br />

questo ambiente, anzi vi si è immerso sino al collo, cavandone un sacco di guai<br />

e di ispirazione. Se avesse emigrato verso le grandi città, dove persino i sarti e gli<br />

osti proteggono gli artisti, vestendoli e ingrassandoli, avremmo un professionista<br />

del pennello di più e un pittore di meno.<br />

Ligabue è rimasto nella sua patria, si muove fra Reggio e la zona rivierasca su delle<br />

motociclette assurde (pare che ne abbia una quindicina, tutte degne del cimitero<br />

96 97


delle macchine), vive quella vita singolare che il suo temperamento, venuto in<br />

conflitto con la realtà dell’ambiente, gli procura. È ospite un giorno di questo<br />

mezzadro, l’altro di quel fittavolo: gente soda e allegra che finisce per appendere<br />

in tinello, vicino alle fotografie ingrandite dei familiari scomparsi, i poetici sogni<br />

colorati dell’amico, e compagno di tavola, Antonio Ligabue.<br />

Il quale ha avuto il suo scopritore, il suo Apollinaire, nello scultore Mazzacurati,<br />

che gli ha organizzato mostre, portato critici illustri. Ma il nostro “vagabondo”<br />

è rimasto sempre lo stesso, non è uscito dal suo mondo limitatissimo e smisurato.<br />

Cosa dipinge, e come dipinge Ligabue? I soggetti sono vari, sia dal vero (ma come<br />

fossero inventati), per esempio coniglioni e gatti di cortile, che inventati (ma<br />

come fossero veri), per esempio combattimenti di leoni e di tigri nella foresta. Il<br />

suo segno è forte, aspro, e se è morbido ha la morbidezza un po’ ruvida della lana<br />

filata in casa; il suo colore è intatto, diretto come quello degli attrezzi agricoli e<br />

degli utensili domestici. Le sue immagini, così, prendono un rilievo robusto, da<br />

intaglio ligneo ravvivato per virtù di una vernice rustica e favolosa.<br />

Il quadro che vi presentiamo non è dei più comuni, come tema, nell’opera<br />

dell’artista, innamorato di flora e fauna africana, conosciute attraverso enciclopedie<br />

popolari e libri per scuole inferiori. Questa Troika, che probabilmente trae<br />

il suo soggetto da una lettura romanzesca di Ligabue, è una delle poche narrazioni<br />

pittoriche dei nostri tempi. Sullo stupendo sfondo della steppa presa nella<br />

bufera di neve uomini e animali lottano con atterrita (o allegra) ferocia. Il moto<br />

è vorticoso, incredibile, ma la composizione regge a meraviglia, tanto che l’opera<br />

nella sua bruta, fulminea espressività, sembra d’altra parte alla lontana echeggiare<br />

remoti esempi di pittura classica, come il supremo mosaico alessandrino della<br />

Battaglia di Isso.<br />

98


Giorgio Morandi<br />

Cimabue<br />

Antonello da Messina<br />

Tiziano Vecellio<br />

Rembrandt<br />

Jean-Baptiste-Siméon Chardin<br />

Paul Cézanne<br />

Pablo Picasso<br />

i ritratti, i paesaggi<br />

e le nature morte<br />

Paul Klee<br />

Ambrogio Lorenzetti<br />

Beato Angelico<br />

Pieter Paul Rubens<br />

Canaletto<br />

Alfred Sisley<br />

André Derain<br />

Francisco de Zurbarán<br />

Édouard Manet<br />

Georges Braque<br />

Jan Van Eyck<br />

El Greco<br />

Albrecht Dürer<br />

Thomas Gainsborough<br />

Ben Shahn<br />

Henri Rousseau<br />

André Bauchant<br />

Jan Vermeer<br />

Pierre Bonnard<br />

Albrecht Altdorfer<br />

Jacob van Ruisdael<br />

Arnold Böcklin


febbraio 1957 ⎡ Natura morta<br />

Giorgio Morandi<br />

Collezione eni ⎦<br />

Il Novecento, nella sua prima metà, ha visto in letteratura<br />

e musica, architettura, pittura e scultura, un così vertiginoso avvicendarsi di<br />

scuole e personalità, che la gente, incapace di tenervi dietro, ha pensato bene di<br />

disinteressarsene del tutto rifugiandosi nel passato e nelle sue opere stagionate e<br />

sicure. Ma era inevitabile che l’assoluta libertà conquistata dagli artisti nel secolo<br />

precedente, sia rispetto ai temi che alle forme, provocasse una notevole confusione;<br />

altrettanto naturale che il pubblico alle prime non riuscisse ad orientarsi.<br />

Eppure cubismo e futurismo, espressionismo e surrealismo, per non nominare<br />

che i movimenti più conosciuti ed importanti, non nacquero da un capriccio,<br />

ma risposero a esigenze autentiche di rinnovamento dei temi, appunto, e delle<br />

forme.<br />

Già sul finire dell’Ottocento Paul Cézanne aveva reagito all’estrema passività<br />

degli impressionisti di fronte al vario e mutevole flusso della realtà, cercando di<br />

ridare alla realtà stessa una struttura mentale, solidificandone la materia in forme<br />

monumentali, solenni, religiose. Ma il suo eroico sforzo per riportare la pittura<br />

sul piano di spiritualità che essa aveva toccato nei tempi di più grande splendore,<br />

da Giotto a Masaccio a Michelangelo a Poussin, se chiuse definitivamente l’età di<br />

creazione felice dell’impressionismo, ne aprì una anche troppo inquieta e soggetta<br />

all’invenzione intellettuale.<br />

Dal suo quadro La capanna del Giura, circa del 1904, ai primi paesaggi cubisti<br />

dipinti in Spagna nel 1906 da Pablo Picasso corre un legame evidente: nell’uno<br />

e negli altri è in atto una geometrizzazione della natura. Ma mentre Cézanne<br />

101


tendeva a un nuovo, severo ordine delle cose, Picasso si avviava verso la lacerazione<br />

di ogni ordine.<br />

Per quanto più imponenti in Francia, dove gli immigrati Picasso (spagnolo), Modigliani<br />

(italiano), Chagall (russo) e i francesi Matisse, Rouault, Braque seppero<br />

variamente e validamente portar-<br />

Senza scomporre il vero, come Picasso, le su un piano di creatività estetica,<br />

o deformarlo, come Modigliani,<br />

le scuole di avanguardia allignarono<br />

Morandi ha saputo ricrearlo per noi<br />

anche fra noi.<br />

in maniera miracolosa.<br />

Nel primo quarto del secolo tutti i<br />

pittori che oggi risultano aver rinnovato<br />

l’arte italiana, da Carrà a De Chirico, da De Pisis a Morandi, furono “futuristi”<br />

o “metafisici”, “primitivisti” o “espressionisti”. Furono: ma tutti a modo<br />

loro superarono ben presto la fase rivoluzionaria dei puri esperimenti tornando,<br />

senza rinnegare quanto avevano ottenuto nella ricerca, nella tradizione, spesso<br />

arricchendola.<br />

Il più dotato e insieme il più controllato di questi artisti è il bolognese Giorgio<br />

Morandi.<br />

Egli non si è mai mosso dalla sua terra e non si è allontanato da pochi temi profondamente<br />

sentiti: il paesaggio emiliano nella sua più umile accezione, gli oggetti<br />

più quotidiani e polverosi della casa. Non sembri poco. In una continua ricreazione<br />

compositiva e cromatica le case e le piante, le lucerne e le bottiglie di Giorgio<br />

Morandi assumono aspetti che non finiscono mai di stupirci e di incantarci.<br />

Lo spazio fra un albero e un muro, fra una scatola e un mobile diventa volta a volta<br />

lirico o drammatico in Morandi; così come i toni del colore, variando appena,<br />

generano accordi di diversa ma sempre altissima intensità. Senza scomporre il<br />

vero, come Picasso, o deformarlo, come Modigliani, Morandi ha saputo ricrearlo<br />

102 103


per noi in maniera miracolosa. Si guardi la natura morta riprodotta accanto, che<br />

è sul finire del periodo detto “metafisico”, nel quale Morandi ritrova la severa<br />

misura, la solidità della pittura italiana prima del Cinquecento.<br />

I ritmi dell’ambiente spaziale e degli oggetti inseriti sono monumentali come in<br />

Giotto o Masaccio, i colori, in funzione di tale composizione, sono tenuti su toni<br />

gravi che rintoccano in noi lungamente.<br />

Non è che un momento nell’infinita varietà, dietro l’apparente monotonia, della<br />

grande opera morandiana, che ne ha altri di più rapita felicità, di incantevole<br />

abbandono in una gamma che non ha forse uguali nell’arte italiana e, possiamo<br />

aggiungere, mondiale della nostra epoca. La quale, non si nega, sarà anche nell’arte<br />

come in tutto il resto travagliata da una crisi profonda, rispetto ad altre più fortunate,<br />

una crisi però che trova una interpretazione e insieme un superamento in<br />

artisti come Giorgio Morandi, che ne ha sentito le contraddizioni ma le ha sapute<br />

vincere sul piano eterno dell’arte.<br />

gennaio 1958<br />

⎡ Ritratto di Paquio Proculo<br />

da Pompei<br />

Museo Archeologico Nazionale - Napoli ⎦<br />

i<br />

Quand’è che l’uomo ha cominciato a ritrarre il volto dell’uomo,<br />

cioè se stesso, usando pennello e scalpello? Si può risalire molto indietro nei<br />

secoli, e incontrare l’uomo divinizzato o il dio umanizzato, si possono trovare<br />

infinite testimonianze della continua e sempre diversa ricerca condotta nell’intento<br />

di figurare quella piccola cosa che pure sta al centro dell’universo: l’uomo.<br />

Ma noi, in questa nuova serie di tavole a colori abbiamo voluto limitare il campo,<br />

puntando esclusivamente sul ritratto. La sublime esattezza dello Scriba egizio, l’ideale<br />

perfezione dei cavalieri del Partenone, e più tardi, i giganti della Cappella<br />

Sistina, rappresentano il volto dell’uomo, e in maniera suprema: ma non per<br />

questo rientrano nel nostro assunto, che è di dare volti di persone realmente esistite,<br />

umili o grandi che fossero, e che l’arte ci ha tramandati nelle loro fisionomie e<br />

nei loro atteggiamenti, per sempre.<br />

Non potremmo che iniziare con un’opera romana: i romani infatti avranno<br />

imparato questo dagli etruschi, quest’altro dai greci, nel ritratto però sono stati<br />

i primi. La loro concretezza, il loro senso della realtà li ha portati, in letteratura<br />

e nelle arti, a non divagare dalla vita, ma a cercare di renderla il più veracemente<br />

possibile, senza preoccuparsi di raggiungere un’ideale forma di bellezza, di<br />

grazia o di forza.<br />

Esemplare per ferma asciutta resa dei caratteri fisici e morali dell’individuo è la<br />

ritrattistica scultorea romana: chi non ricorda almeno qualcuna di quelle teste<br />

che fanno rivivere, con un’evidenza impressionante, la gente d’allora?<br />

Ma anche la pittura, della quale purtroppo sono rimaste poche cose, e non certo<br />

in buono stato, vanta qualche pezzo stupendo del genere. Primo fra tutti questo<br />

doppio ritratto pompeiano in cui il panettiere e duumviro Paquio Proculo è<br />

visto accosto alla moglie, in un istante di vita rapito al tempo, di una verità stupefacente.<br />

I due si sono messi un po’ come quando si va dal fotografo, e il fotografo, scusate,<br />

il pittore, li ha un tantino arrangiati, pregando lei di prender quell’atteggiamento<br />

di riflessione domestica, lui non sappiamo bene di che fare. Comunque lei ha eseguito<br />

per benino l’ordine, lui non ce l’ha fatta, ha portato nervosamente la mano<br />

al petto, e si è bloccato del tutto, “guardando”, come si dice, “in macchina”.<br />

104 105


Insomma è davvero come una suprema fotografia, non scattata e impressa macchinalmente,<br />

ma eseguita con pazienza e genio da un uomo che, postosi davanti<br />

al vero, lo ha saputo cogliere in pieno, analizzandolo prima minutamente, portandolo<br />

poi a una sintesi perfetta.<br />

febbraio 1958<br />

⎡ San Francesco<br />

Cimabue<br />

Basilica di San Francesco - Assisi ⎦<br />

i<br />

Il volto umano che vi presentiamo oggi è il volto di un santo,<br />

quello del Poverello d’Assisi. La vita e l’arte, nei secoli che sono passati da quando<br />

l’anonimo pittore romano ha ritratto i due sposi che avete conosciuto l’altra volta,<br />

sono state profondamente trasformate dall’avvento del cristianesimo.<br />

Perché la vita potesse uniformarsi ai precetti della fede, sentita con fortissima<br />

intensità, era necessario che l’arte, pur senza venir meno al suo compito, che è<br />

quello di rappresentare, si mettesse al servizio della fede medesima. Né la bellezza<br />

e armonia fisica, perseguite dalla grande arte greca, né l’individuazione realistica<br />

del carattere individuale, ricercata dall’arte romana, sono fra gli scopi che il<br />

pittore, lo scultore medioevale si prefiggono. Quel che importa, raccontando per<br />

immagini la Storia sacra o le vite dei santi, è l’edificazione religiosa dell’anima del<br />

credente, che a quelle immagini si è rivolto per chieder conforto e speranza.<br />

L’età in cui quest’arte tocca il più alto respiro mistico insieme alla più grande forza<br />

espressiva si ha in Italia fra la seconda metà del Duecento e la prima del Trecento:<br />

un’età tutta riverberata dalla parola e dall’azione francescane. Ed ecco Cimabue,<br />

comunemente noto quale scopritore e maestro di Giotto, ma in effetti pittore<br />

grande egli stesso, darci in uno degli affreschi della Basilica del Santo ad Assisi,<br />

un’immagine di Francesco che è sì supremamente idealizzata, ma che è anche un<br />

ritratto vero e proprio.<br />

Contro il fondo di cielo, che i guasti del tempo non ci impediscono di sentire di un<br />

azzurro paradisiaco, il santo, umilissimo nella tonaca, nel gesto, nello sguardo, ma<br />

trasfigurato dal nimbo d’oro che ne afferma in maniera fulgente la santità, è pur<br />

sempre un uomo come noi. Lo scrupolo con cui l’artista, dopo secoli di quell’astrattezza<br />

bizantina che aveva ridotto la figura umana a larva simbolica, ha reso<br />

i tratti della fisionomia, soffermandosi sulle rughe minute, sulla rada zazzeretta,<br />

sulla barba stenta, sulle pupille ardenti, è un segno di rinnovamento che ha un’importanza<br />

grandissima. L’arte è tornata a guardare l’uomo e lo guarda più a fondo<br />

che non abbia mai fatto prima.<br />

aprile 1958<br />

106 107<br />

i<br />

⎡ Ritratto d’uomo<br />

Antonello da Messina<br />

Galleria Borghese - Roma ⎦<br />

Il Quattrocento segna la riscoperta delle opere d’arte antiche, romane e greche,<br />

più romane che greche, e insieme, in un certo senso conseguente, un appassionato<br />

interesse all’uomo e alla natura. I toscani, Brunelleschi, Donatello, Masaccio,<br />

sono i pionieri di questo rinnovamento prima spirituale che formale: la prospettiva<br />

e la resa plasticamente rigorosa del corpo umano trovano nei tre, un architetto,<br />

uno scultore, un pittore, i fondatori supremi, mai più eguagliati.


A metà del secolo Piero della Francesca fa irrompere la luce vera negli spazi e sulle<br />

figure, ed è ancora un passo avanti in quella parabola rinascimentale che toccherà<br />

il suo zenit glorioso, ma già con le prime ombre crepuscolari, nel Cinquecento di<br />

Raffaello e Michelangelo, del Correggio e di Tiziano.<br />

Di volti umani, di ritratti per la nostra breve storia, il Rinascimento ne ha moltissimi<br />

e di una varietà infinita. Noi abbiamo voluto darvene uno estremamente<br />

rappresentativo e di grande bellezza, ma non conosciutissimo. E di un maestro,<br />

Antonello da Messina, che racchiude in una sintesi unica non solo i valori dell’arte<br />

italiana del suo tempo, ma anche di quella nordica, fiamminga, che parallelamen-<br />

te, seppur in maniera autonoma e in<br />

un certo senso contrastante, svolge la<br />

stessa ricerca e tende allo stesso risultato<br />

di rappresentazione dell’uomo e<br />

della natura.<br />

L’ignoto che vi guarda dalla tavoletta della Galleria Borghese qui riprodotta<br />

è stato dipinto circa nel 1473. S’immagina che Antonello se lo sia fissato con<br />

attenzione e pazienza infinite, secondo il metodo appunto dei fiamminghi, e<br />

lo dimostra l’ombra lieve della barba sul volto, la minuzia puntigliosa con cui<br />

sono stati ripresi uno per uno i cigli. Ma d’altra parte come italiano, classico il<br />

volume del viso visto di tre quarti, il fusto geometrico del petto, in cui le pieghe<br />

dell’abito diventano come scanalature d’un’antica colonna.<br />

In Antonello veramente confluiscono e si fondono in maniera mirabile tutti gli<br />

elementi della cultura quattrocentesca. Per giungere alla sua sublime riuscita<br />

formale Antonello ha bruciato gli elementi, per lui secondari, della psicologia<br />

individuale. Il suo Ignoto resta per noi veramente ignoto, misterioso, inaccessibile.<br />

Ma non chiediamo ad Antonello quello che egli non può, non vuole darci<br />

108 109<br />

In Antonello confluiscono e si fondono<br />

in maniera mirabile tutti gli elementi<br />

della cultura quattrocentesca.


e che ci verrà offerto con dovizia dagli artisti del secolo che segue quello in cui<br />

egli visse e intrepidamente operò.<br />

giugno 1958<br />

⎡ Ritratto di uomo dagli occhi glauchi<br />

Tiziano Vecellio<br />

Galleria Palatina, Palazzo Pitti - Firenze ⎦<br />

i<br />

Il Cinquecento, che porta avanti le conquiste tecniche dell’arte<br />

quattrocentesca, senza naturalmente superarne l’assoluta fermezza stilistica, è ricchissimo<br />

di ritratti, ed era veramente imbarazzante sceglierne uno che rappresentasse<br />

il secolo. Alla fine ci siamo decisi per questo Tiziano, che sta a Firenze, alla<br />

Galleria Pitti, dopo essere entrato nelle raccolte medicee per via d’eredità, dalla<br />

famosa quadreria dei Duchi d’Urbino.<br />

Per tale provenienza c’è chi ha creduto di identificare, nel misterioso gentiluomo<br />

che ci guarda con i suoi occhi verdi, Guidobaldo da Montefeltro, mentre<br />

altri lo hanno chiamato Ippolito Riminaldi, o il Duca di Norfolk, o più genericamente<br />

“l’Inglese”.<br />

Mentre l’Ignoto di Antonello da Messina, che avete ammirato nel numero scorso,<br />

era tale per completa mancanza di dati, questo Signore di Tiziano lo è divenuto<br />

per eccesso di ipotesi anagrafiche. Ma non ci dispiace che non si sappia bene chi<br />

sia questo misterioso personaggio il cui abito scuro viene appena ravvivato dal<br />

bianco azzurro del colletto e dall’oro fulvo della collana; inutile sottolineare<br />

il meraviglioso accordo di colori che il grande pittore veneto sa comporre con<br />

questi tre semplici elementi. Non ci dispiace, dicevamo, perché ormai, affidata<br />

al pennello trasfiguratore di Tiziano, la figura non è più di persona storica ma<br />

ideale.<br />

Quell’accrescimento di valori psicologici che è la novità del Cinquecento rispetto<br />

al Quattrocento, tocca qui una delle sue punte più alte. Eroe di romanzo più che,<br />

ripetiamo, personaggio storico, è questo giovane trentenne la cui leggera trascuratezza<br />

nei capelli, nei baffi e nella barba non è certo indizio di sciatteria, ma piuttosto<br />

di quella “sprezzatura” che il contemporaneo Baldassar Castiglione riteneva<br />

prerogativa essenziale del cortigiano. C’è qualcosa di più, però, dell’eleganza, in<br />

questo gentiluomo: una malinconia un po’ febbrile, un ardore trattenuto che gli<br />

occhi, specchio dell’anima, hanno rivelato al pittore e il pittore ha reso con verità<br />

e poesia incomparabili.<br />

Non si dimentica facilmente un uomo come questo, dopo averlo visto anche in<br />

una semplice riproduzione: fermatolo sulla tela in un momento della sua vita,<br />

Tiziano ce lo ha fatto conoscere nella sua interezza fisica e spirituale, per sempre.<br />

luglio 1958<br />

110 111<br />

i<br />

⎡ Ritratto di vecchio<br />

Rembrandt<br />

Galleria degli Uffizi - Firenze ⎦<br />

Questo Ritratto di vecchio, che sta agli Uffizi, è opera tarda del<br />

grande pittore olandese Rembrandt, databile fra il 1664 e il 1669, anno di morte<br />

dell’artista. L’aureo Rinascimento è lontano, con la sua estiva pienezza e felicità,<br />

e la pittura fiorisce splendidamente fuori dal suo centro, l’Italia, con lo spagnolo<br />

Velázquez, gli olandesi Rembrandt e Vermeer.


Eppure il fatto rivoluzionario che aveva suscitato tale nuova libertà, tale vitale<br />

affrancamento dagli schemi gloriosi ma ormai esauriti dal classicismo, si deve a<br />

un italiano, al lombardo Caravaggio, che nella Roma del primo Seicento rivolge<br />

sul vero, bello o brutto non importa<br />

purché sia vero, un implacabile raggio<br />

di luce. Alla quale, nelle sue opere, si<br />

oppone un’ombra altrettanto forte,<br />

con effetti di severa, corposa drammaticità.<br />

Rembrandt ricevette la lezione cara-<br />

vaggesca, nel tempo della sua formazione, da pittori del Nord che erano stati a<br />

Roma, soprattutto da Gherardo delle Notti e da Adamo Elsheimer. Ma era artista<br />

troppo originale per non procedere oltre: dove era luce, per lui fu mezza luce,<br />

dove era ombra, penombra. Alla fulminea rivelazione del carattere umano ottenuta<br />

dal Caravaggio con violenta rapidità, Rembrandt fa succedere una lentissima<br />

scoperta dell’anima, scoperta portata sino alle profondità più nascoste. Insomma il<br />

riflettore cede il posto allo scandaglio.<br />

Favorito dalla possibilità, maggiore nel suo paese, di trattare temi del vivere quotidiano,<br />

Rembrandt dipinge con la stessa sublime verità ronda di notte e lezioni<br />

di anatomia, autoritratti e buoi squartati. Qui è un vecchio che ci ha consegnato<br />

per l’eternità: un vecchio che potrebbe essere un profeta biblico o il rabbino della<br />

comunità israelita, come si è variamente pensato. Ma non importa molto saperlo;<br />

non ci basta averlo conosciuto nella sua dolorosa realtà di vecchio uomo giunto<br />

ai confini di un’ombra che è nel quadro insieme materiale e spirituale, tremenda?<br />

112 113<br />

Alla fulminea rivelazione del carattere<br />

umano di Caravaggio, Rembrandt<br />

fa succedere una lentissima scoperta<br />

dell’anima, scoperta portata<br />

sino alle profondità più nascoste.<br />

i


agosto 1958<br />

⎡ Fanciullo con trottola<br />

Jean-Baptiste-Siméon Chardin<br />

Musée du Louvre - Parigi ⎦<br />

Quell’accostamento alla realtà che abbiamo visto realizzato nel<br />

sublime vecchio di Rembrandt, e che è la conquista più grande dell’arte del Seicento,<br />

sembra nel secolo successivo perder d’intensità, esaurirsi. Il bel Settecento,<br />

che finirà, è vero, nel bagno di sangue della Rivoluzione, nasce e procede sotto il<br />

segno della grazia e della frivolezza, il suo stile dominante si chiama Rococò, la<br />

sua aria musicale più fortunata minuetto. E sia pure che oggi la pittura di Watteau,<br />

la musica di Mozart rivelano spesso una malinconia, un dolore profondi.<br />

Comunque, riguardandoci la pittura di quell’età per cercarvi un volto umano da<br />

far entrare nel nostro piccolo museo immaginario, le troppe damigelle e i troppi<br />

cavalieri anche di mano di pittori buoni, ci hanno piuttosto annoiati. A controbilanciarli,<br />

è vero, bastan da soli i burattini che il pennello impietoso del pittore<br />

spagnolo Francesco Goya ha cavato fuori dalla società del tempo. Ma non abbiamo<br />

voluto rattristarvi con le sue sagome grottesche, ci siamo rivolti, per rappresentare<br />

il Settecento, a un pittore il cui occhio sa essere acuto ma sereno: il francese<br />

Chardin.<br />

Nato nel 1699 e morto nel 1779, egli non accetta supinamente la moda, come<br />

fanno tanti, né si ribella come pochissimi, come Goya appunto. Ma si rivolge a<br />

quelle persone, e a quelle cose, che meno sono state falsate dal polverio delle ciprie<br />

e dal luccichio degli ori: guarda e dipinge bambini e fantesche e rami di cucina<br />

e porcellane domestiche. Artista di una singolarità suprema, se mai gli vogliamo<br />

trovare dei precedenti, possiamo fare il nome di qualche olandese del Seicento,<br />

come Vermeer e De Hooch. Se poi dovessimo trovargli, cosa pure difficile, dei<br />

seguaci, non ci fermeremmo alla pittura di genere dell’Ottocento cui, visto superficialmente,<br />

potrebbe far pensare, bensì a qualche moderno, sopra tutti a Giorgio<br />

Morandi.<br />

Guardate il giovinetto che gioca con la trottola (il quadro si trova al Louvre): è<br />

vestito, naturalmente, alla moda, come la mamma (già una borghese, forse, più<br />

che un’aristocratica) ha voluto fargli. Ma non ci svapora dentro, anzi vi si fissa in<br />

una ferma, eterna solidità. La sua attenzione al gioco ha una serietà intensissima:<br />

guardategli gli occhi, la bocca, le mani. Straordinario poi è l’accordo delle forme,<br />

dal foglio arrotolato al calamaio al libro al corpo del giovinetto, e dei colori, bruni<br />

verdi bianchi azzurri, tenuti su un piano di infinita discrezione. Come fosse del<br />

Mozart nei suoi momenti di più alta serenità.<br />

settembre 1958<br />

⎡ Autoritratto<br />

Paul Cézanne<br />

Hermitage - San Pietroburgo ⎦<br />

114 115<br />

i<br />

L’Ottocento, nella sua prima metà, è tutto intento alla scoperta<br />

della natura: prima sono i romantici, che dipingono i paesaggi guardando al vero<br />

ma rendendolo interprete dei propri sentimenti; poi i naturalisti, che si accostano<br />

anche più da vicino al vero sforzandosi di darlo sulla tela col massimo di obiettività;<br />

infine gli impressionisti, che tendono ad annullarsi in una totale adesione alla<br />

luce e al colori del vero medesimo.<br />

Corot, Courbet e Monet sono i tre più puri e significativi rappresentanti delle<br />

tendenze suddette; e non è da meravigliarsi che siano tutti francesi, perché nel


secolo scorso il centro artistico d’Europa non è più Firenze, o Roma, o Venezia,<br />

ma Parigi.<br />

Dal seno dell’Impressionismo, ma in reazione alla sua passività intellettuale e alla<br />

sua dissoluzione formale, esce nella seconda metà del secolo l’artista che saprà<br />

ridare, e senza sforzarli, significato all’aspetto delle cose e anima al volto dell’uomo:<br />

Paul Cézanne.<br />

È ancora un francese, ma del Sud, di quella Provenza fatalmente volta ai soffi del<br />

Mediterraneo e agli influssi della civiltà latina. Egli con Parigi è stato in contatto,<br />

ma non si è mai allontanato dalla terra, che gli ha dato i natali e i succhi immemorabili<br />

di una tradizione, fornendogli insieme il nutrimento quotidiano di una<br />

realtà paesistica e umana di severa autenticità.<br />

Con lui il ritratto, che era andato via via scadendo in rigida ufficialità o in lezioso<br />

sentimentalismo, si rifà misura nuda della condizione umana. Il contadino e la<br />

vecchia donna di casa, il mercante di quadri Vollard o il pittore stesso assumono<br />

nella fedele e insieme trasfiguratrice traduzione figurativa di Paul Cézanne una<br />

monumentalità di costruzione e una religiosità di espressione che non si erano più<br />

viste nell’arte da secoli. Questo che vedete è un autoritratto del pittore, dipinto<br />

circa nel 1880, alle porte cioè di quella belle époque che farà la fortuna degli artisti<br />

più abili nell’adulare col pennello le belle signore scollate e i gentiluomini col<br />

frac. Se i piacevoli quadri dei pittori mondani possono magari ridarci il senso<br />

superficiale dell’epoca, le severe pitture di Cézanne soltanto possono restituircene<br />

l’anima segreta e più vera.<br />

Una sofferta consapevolezza scava intorno agli occhi del pittore, nel quadro che vi<br />

sta davanti, ombre dirupate e ferme simili a quelle dell’Adamo di Masaccio, mentre la<br />

superficie sferica del cranio splende di un oro antico non meno austero e solenne di<br />

quello delle teste dei profeti di Cimabue. I riferimenti che si sono fatti non indicano<br />

una ricerca voluta, ma un’affinità del tutto spontanea, che si spiega con il senso di<br />

spiritualità profonda ritrovato dall’artista in se stesso. I maestri antichi possedevano<br />

naturalmente quella spiritualità di concezione, quella fermezza d’esecuzione che<br />

Paul Cézanne dovette, con tanta fatica, riportare nell’arte contemporanea.<br />

ottobre 1958<br />

⎡ Ritratto di Ambroise Vollard<br />

Pablo Picasso<br />

Museo Puškin - Mosca ⎦<br />

116 117<br />

i<br />

Dall’ultimo Cézanne al primo Picasso cubista il passo non è poi<br />

tanto lungo: l’evoluzione del secondo non è immaginabile senza la dura lezione<br />

del primo, anche se in essa entrano poi altre componenti, innanzitutto, come è<br />

naturale, la personalità dell’artista medesimo, tanto più curiosa, instabile e imprevedibile<br />

di quella del Maestro.<br />

Ma ricordate l’Autoritratto di Cézanne pubblicato nel numero scorso, con quella<br />

forma data in una sintesi suprema, quasi più da vetrata che da pittura, di pezzature<br />

solenni di colore?<br />

Ebbene, in questo Ritratto del mercante d’arte Vollard, del Museo d’Arte Moderna<br />

di Mosca, dipinto da Pablo Picasso fra il 1909 e il 1910, è come se la vetrata fosse<br />

stata infranta e ricomposta poi in un’unità formale che non tiene conto della realtà<br />

oggettiva, ma si ispira a una visione interna, soggettiva della realtà stessa.<br />

La reazione immediata alla maniera cubista di Picasso e di Braque, parallela alla<br />

futurista, viva in Italia negli stessi anni di poco precedenti la prima guerra mondiale,<br />

fu di indignato stupore. Ma ormai, in quarant’anni il Cubismo è stagionato,


118 119<br />

e stagionato bene a differenza di tanti altri movimenti d’avanguardia, i quadri dei<br />

suoi maestri più autentici resistono nella loro intelaiatura spezzata ma coerente,<br />

di una saldezza, malgrado le sciabolate di colore e chiaroscuro (forse, in virtù di<br />

esse), non comune.<br />

Può darsi, anzi è molto probabile che gran parte dei lettori del “Gatto Selvatico”<br />

abbia, alle prime un moto negativo, riguardo a questa testa ferita, tartassata, spezzata,<br />

e inclusa in uno spazio sfaccettato sino all’inverosimile: un moto, insomma,<br />

simile a quello che salutò il primo apparire della pittura cubista. Ci si chiederà<br />

forse: “Che cosa vuol dire? Perché terremotare<br />

così una forma che durava Non è facile in poche righe spiegare un<br />

da millenni ed entro la quale nei vari fenomeno così complesso come il Cubismo.<br />

secoli ci si era pure potuti esprimere Una personalità come quella di Picasso<br />

in modi vari, come dimostra anche la non si lascia certo incasellare facilmente.<br />

serie del Volto dell’Uomo?”.<br />

Non è facile in poche righe spiegare un fenomeno così complesso come il Cubismo,<br />

una personalità come quella di Picasso che non si lascia certo incasellare facilmente.<br />

È un fatto che il Cubismo coincide con la crisi di una civiltà e ne anticipa e<br />

simbolicamente prefigura gli eventi dolorosi: la guerra, la prima grande guerra di<br />

tipo moderno non doveva ridurre, poco tempo dopo, l’uomo sia nel fisico sia nello<br />

spirito a una figura altrettanto ferita, spezzata, tartassata?<br />

D’altra parte, l’arte pure era in crisi e l’artista non aveva forse altra via per salvarla<br />

che quella della rottura e della ricostruzione, come altre volte era avvenuto,<br />

seppure meno drammaticamente. Come quando i cristiani avevano rifiutato la<br />

bellezza pagana per faticosamente ridarcene un’altra, più profonda, all’apparenza<br />

probabilmente più brutta di quella classica.


novembre 1958<br />

⎡ Senecio<br />

Paul Klee<br />

Kunstmuseum - Basilea ⎦<br />

Se Picasso, spingendo oltre la ricerca formale di Cézanne,<br />

tortura e infrange una tradizione figurativa millenaria, Paul Klee addirittura la<br />

nega, ricominciando daccapo.<br />

Nato nel 1879 a Berna, a Berna muore nel 1942, dopo aver soggiornato a lungo<br />

nella Germania pre-hitleriana, dove fra il 1920 e il 1930 con Kandinskij e Mondrian,<br />

pittori come lui, contribuisce in maniera decisiva alla nascita dell’architettura<br />

dalla quale è stato trasformato l’aspetto delle città in cui viviamo. Sono stati detti,<br />

Klee, Kandinskij e Mondrian, i re magi dell’astrattismo: ammesso, si capisce, che<br />

l’astrattismo stesso possa venir considerato un dono per noi.<br />

Ma, senza entrare in un discorso che vorrebbe ben altro spazio, possiamo dir subito<br />

che è improprio chiamar Klee astrattista. Artista singolare sì, anzi singolarissimo, ma<br />

concreto quanti mai ve ne furono. Egli, come abbiamo detto prima, rifiuta di servirsi<br />

della grammatica e della sintassi elaborate in tanti secoli d’arte occidentale: egli cioè,<br />

dopo averle ben studiate, intendiamoci, si libera delle nozioni di anatomia, di prospettiva,<br />

di chiaroscuro, e si rifà dal principio. Come un bambino ritrova le forme e i<br />

colori semplici e assoluti, e inventa, instancabile e puro come un bambino, appunto,<br />

che sia stato lasciato solo e voglia consolarsi ricostruendo il mondo a modo suo.<br />

È lecito – si dirà – far questo? Tale dubbio ha un fondamento, certo, ma tutta l’opera<br />

di Klee sta lì a dimostrare che, per eccezione, la cosa è stata non soltanto lecita, ma<br />

tale veramente da rinverginare e ridare freschezza e forza, espressività e commozione,<br />

a un’arte, la pittura, che sembrava aver detto tutto, esaurendosi per sempre.<br />

Si chiama Senecio il tipo che vi sta davanti nella riproduzione a colori (il quadro<br />

invece è conservato gelosamente nel Kunstmuseum di Basilea): e ci pare indubbio<br />

che sia un volto umano, anche se ottenuto facendo ruotare una sorta di compasso<br />

imperfetto e nel cerchio così ottenuto includendo due palline in funzione di<br />

occhi, una riga storta invece di naso, un quadratino figurante la bocca. Il tutto poi<br />

dando da sorreggere a un collo e a delle spalle non meno approssimativi, infantilmente<br />

geometrici. E come se non bastasse macchiando qua e là di giallo e di rosa,<br />

di rosso e di blu e di viola.<br />

A questo punto che voto gli dareste a questo cattivo scolaro che si diverte a scarabocchiare<br />

carte, tele, tavolette, qualsiasi cosa gli capiti sotto mano? Uno zero,<br />

forse. Eppure questo quadro, che è del 1922, assolve, come nessun altro del nostro<br />

tempo, al compito primo del ritratto: dare, per mezzo di linee e di colori, il volto<br />

e l’anima dell’uomo. È un uomo, quello di Klee, che ha perduto non soltanto<br />

i paramenti, ma la fierezza che poteva avere, poniamo, l’uomo del Tiziano; un<br />

uomo che non ha più neppure la dignità torturata che aveva l’uomo di Cézanne.<br />

È l’anonimo uomo, il piccolo uomo del nostro tempo, un po’ buffo e un po’ triste,<br />

l’uno e l’altra cosa mischiate come lo sono i colori incerti eppure, anzi proprio per<br />

questa incertezza così nuovi, freschi, poetici, di Paul Klee.<br />

dicembre 1958<br />

⎡ Paesaggio con architetture<br />

da Boscoreale<br />

Museo Archeologico Nazionale - Napoli ⎦<br />

120 121<br />

i<br />

La pittura di paesaggio, come genere a sé stante, viene tardi<br />

nella storia dell’arte: nel Seicento all’incirca, e la sua nascita si accompagna a quella


della natura morta. L’una e l’altra sono favorite dall’evoluzione religiosa e sociale<br />

dell’Europa e fioriscono più rigogliosamente in quei paesi dove tale evoluzione si<br />

svolge con un ritmo più intenso e rapido.<br />

Ma non bisogna credere che i pittori prima d’allora non abbiano sentito la natura:<br />

alcuni fra i più straordinari paesaggi stanno nello sfondo di quadri d’argomento<br />

sacro, o mitologico, o storico e i fotografi moderni, con la loro possibilità di estrarre<br />

particolari e di ingrandirli senza snaturarli, hanno ricavato da essi capolavori<br />

sorprendenti, passati prima quasi inosservati.<br />

Se vogliamo iniziare la nostra storia della pittura paesistica come abbiamo già<br />

fatto con quella del ritratto, rifacendoci all’età greco-romana, dovremo ricorrere a<br />

Pompei, che è una miniera preziosa in questo campo, anche se gli esemplari da essa<br />

conservatici sono da considerare secondari rispetto alle opere dei maestri ellenistici<br />

da cui derivano. Le pareti pompeiane recano alternate, qualche volta abilmente<br />

mischiate, scene di carattere mitologico e decorazioni di puro intento decorativo.<br />

E di paesaggi noi ne troviamo sia, mettiamo, nello sfondo di un’illustrazione<br />

ad affresco dell’Odissea, sia nei riquadri di una finta architettura ornamentale.<br />

Nelle une e nelle altre è avvertibile subito la sapienza prospettica, ovviamente non<br />

fondata, come sarà nel nostro Rinascimento, su rigorose leggi geometriche, ma su<br />

un libero, empirico illusionismo.<br />

La pittura bizantina, e per un certo tempo quella medioevale che da essa nasce e<br />

faticosamente si affianca, perderà del tutto questa capacità di rendere la lontananza,<br />

che è fondamentale nel paesaggio. I decoratori pompeiani, che erano molto<br />

probabilmente poco più che artigiani di buona scuola, sanno invece, a piccoli<br />

tratti di pennello “compendiari”, quasi impressionistici, dare il senso della profondità,<br />

qualche volta persino far circolare fra le architetture e le quinte d’alberi<br />

un’arietta viva e vibrante, a modo suo vera.<br />

Nelle scene di genere, nelle decorazioni architettoniche che miracolosamente si<br />

sono salvate sui muri di Pompei, ride un paesaggio facile, che ha il profumo, per<br />

noi patetico, di antiche vacanze e villeggiature. Non è molto, se si pensa che la<br />

poesia contemporanea, Virgilio per esempio, raggiunge nel paesaggio un respiro<br />

profondo, che sarà quello del romanticismo più grande e puro, di Constable e di<br />

Corot, e in altre arti, del Leopardi della Quiete dopo la tempesta, del Beethoven della<br />

Sesta sinfonia.<br />

Ma accontentiamoci, gustiamo riconoscenti quel po’ di verde che l’antico pittore<br />

ha saputo fermare per noi sul muro, di primavera da tanto tempo perduta.<br />

gennaio 1959<br />

⎡ Castello in riva a un lago<br />

Ambrogio Lorenzetti<br />

Pinacoteca Nazionale - Siena ⎦<br />

122 123<br />

i<br />

Sono passati secoli e secoli dai due paesaggini con i quali vi<br />

abbiamo fatto conoscere il modo d’intendere la natura dell’antichità classica a<br />

questa veduta di castello sul mare, dipinta da Ambrogio Lorenzetti nella prima<br />

metà del Trecento e conservata alla Pinacoteca di Siena.<br />

E che secoli: prima il rigore antinaturalistico dei bizantini, poi la confusione e il<br />

disagio creato dalle invasioni barbariche, fanno sì che l’interesse dell’artista sia per<br />

lungo tempo distratto dalla contemplazione del paesaggio e dalla successiva resa in<br />

linguaggio figurativo. Del resto il cielo stesso, per ragioni religiose, non è, per tutto<br />

il Medio Evo, dato in oro, cioè trasfigurato, e quindi ridotto, a puro simbolo?<br />

Il paesaggio ricomincia a comparire consistente, anche se strettamente legato al


Il castello, la chiesetta lontana, i campi coltivati si distendono<br />

in uno spazio che non ha ancora la sicurezza geometrica<br />

della prospettiva, ma è già di un illusionismo quanto<br />

mai naturale e persuasivo.<br />

racconto cui fa da scena, in Giotto. I monti scheggiati, i prati trapunti di fioretti<br />

preziosi, gli alberi disegnati contro l’azzurro del cielo sono già, negli affreschi di<br />

Assisi e di Padova dedicati alle vite di san Francesco e di Cristo, scoperte commoventi<br />

della bellezza del creato.<br />

Ma saranno i senesi, specie i Lorenzetti, e in particolare Ambrogio, a risentire<br />

per primi la poesia di un paesaggio in se stesso. Famosissimo esempio di questa<br />

vocazione sono gli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena con il Buon Governo e<br />

Mal Governo nella città e nelle campagne: il pretesto allegorico-didattico si risolve in<br />

una serie di paesaggi urbani e rurali animati di figurette cittadine e campagnole<br />

incantevoli.<br />

Ma forse il supremo paesaggio della maniera senese è la veduta che vi sta davanti<br />

agli occhi, opera certa di Ambrogio, databile poco avanti il 1348, nella cui peste i<br />

due fratelli pittori morirono. Qui non ci sono figure a turbare il silenzio della riva<br />

di mare segnata dalle chiome di scuri alberi che ci fanno pensare ai lecci della costa<br />

toscana. E il castello, la chiesetta lontana, i campi coltivati si distendono in uno<br />

spazio che non ha ancora la sicurezza geometrica della prospettiva (scoperta ai primi<br />

del Quattrocento), ma è già di un illusionismo quanto mai naturale e persuasivo.<br />

Come tutti i bei paesaggi, da quelli pompeiani a quelli di Giorgio Morandi, questo<br />

frammento di terra toscana di Ambrogio Lorenzetti ci invita alla quiete, alla dolcezza<br />

di una stagione immutabile.<br />

124 125<br />

i


febbraio 1959<br />

⎡ Deposizione dalla croce<br />

Beato Angelico<br />

Museo Nazionale di San Marco - Firenze ⎦<br />

Son trascorsi circa cento anni dal piccolo paesaggio lacustre<br />

del Lorenzetti alla città murata e turrita che vi presentiamo oggi, e che sta nello<br />

sfondo della famosa Deposizione del Beato Angelico nel convento fiorentino di San<br />

Marco.<br />

Anni di gran peso, specie nella storia dell’arte: ai primi del Quattrocento infatti,<br />

un architetto, uno scultore e un pittore, Brunelleschi, Donatello e Masaccio,<br />

hanno compiuto una vera e propria rivoluzione, ispirandosi all’“antico” per<br />

creare un “nuovo” carico di straordinarie possibilità future. Da essi, per la prima<br />

volta, lo spazio viene reso con giustezza geometrica attraverso la scienza della<br />

prospettiva, e il corpo, modellato nella sua pienezza, fatto poggiare sulla terra con<br />

tutto il suo peso.<br />

Ma a noi qui interessa il paesaggio, e abbiamo voluto darne un esempio in cui la<br />

nuova impostazione spaziale fosse usata in una accezione del tutto poetica.<br />

Il Beato Angelico che, come è noto, appartenne all’ordine dei Domenicani,<br />

dovendo dipingere per il suo convento, insieme a tanti altri soggetti sacri, una<br />

Deposizione, volle aprire dietro la tragica scena, da lui sentita più con pietà che con<br />

drammaticità, un paesaggio che a un tempo rappresentasse e inventasse.<br />

Non c’è dubbio che quegli alberelli svelti, quelle merlature e quelle coltivazioni<br />

di schietta e magra misura appartengano alla Toscana, e basta aver fatto in treno<br />

la linea Firenze-Roma per ritrovarne dei frammenti nella realtà d’oggi. Ma anche<br />

senza troppo fissarci sulla costruzione ideale che domina la città, è pur legittimo<br />

sentire questo paesaggio come una cosa di sogno nelle sue giustapposizioni di<br />

colori puri e irreali (verdi e azzurri nelle facciate, rossi nei tetti), nei suoi ritmi di<br />

linee in un certo senso precubisti.<br />

È chiaro che il nostro fraticello, fraticello ma gran pittore, avrà inteso, accingendosi<br />

a un soggetto di tale solennità come la Deposizione, darle una scena, uno sfondo di<br />

alta, appunto ideale, dignità. Ma d’altra parte quale via migliore per arrivarvi che<br />

quella dei colli della sua Fiesole, con siepi, cipressi, messi, persino pagliai, e torri,<br />

torri a non finire, sotto le nuvole ferme della tarda primavera, della prima estate?<br />

Il tutto naturalmente andava trasfigurato, trasposto nel silenzio dell’eternità; ma<br />

anche a questo l’Angelico doveva arrivare senza fatica, per impeto mistico e ardore<br />

sincero d’artista. Così, quasi senza volerlo, egli ci ha lasciato, raccontando la storia<br />

di Gesù, un paesaggio della sua Toscana che non ha uguali nel campo delle arti<br />

figurative ma soltanto in quello della poesia.<br />

aprile 1959<br />

⎡ Amor sacro e amor profano<br />

Tiziano Vecellio<br />

Galleria Borghese - Roma ⎦<br />

126 127<br />

i<br />

Il Cinquecento, che porta a dorata maturazione le scoperte e<br />

invenzioni del gran secolo che l’ha preceduto, vede nella pittura, come nelle altre<br />

arti figurative, la pienezza della rappresentazione dell’uomo, sia quando essa si<br />

propone fini di edificazione religiosa, sia quando, ogni giorno di più, si abbandona<br />

a una lode esaltante, anche se trasposta in termini mitologici, della vita terrena.<br />

Ma il paesaggio, che già fece da quinta teatrale sublimemente semplice nell’arte<br />

trecentesca e che venne reso con lucido senso spaziale ma sempre a scopi di


ambientazione narrativa e drammatica nell’arte quattrocentesca, non è meno altamente<br />

sentito e stupendamente reso, specie nella pittura veneta, forse la più rappresentativa<br />

del periodo. È sempre in secondo piano, naturalmente, il paese, ma<br />

pur legato alla struttura generale dell’opera, risulta già godibile come quando, più<br />

tardi, verrà preso come oggetto principale dal pittore. Tanto è vero che i primi<br />

grandi paesisti italiani, nel Settecento, sono i veneti e che, più avanti, gli impressionisti,<br />

supremi poeti della natura, si richiamano alla pittura veneta del Cinquecento,<br />

specie al Tiziano.<br />

Ed è proprio di Tiziano il paesaggio che vedete oggi, allo stesso tempo ispirato alle<br />

dolci, alte terre cadorine da cui il pittore veniva (avete notato i tetti spioventi tipici<br />

delle case di montagna?) e ideale, misterioso come i paesaggi lo sono, mettiamo,<br />

nella contemporanea poesia di Ludovico Ariosto. I veneti, abbiamo detto, la<br />

natura l’hanno guardata sempre con occhio limpido e dipinta con una meravigliosa<br />

capacità di ritrarre trasfigurando; già nel tardo Quattrocento Giovanni Bellini<br />

ne ha dati alcuni indimenticabili. Sarà però il Giorgione, maestro del Tiziano, a<br />

portare alla perfezione questo tipo di paesaggio ideale e reale insieme.<br />

Il borgo lacustre che vedete è certamente stato suggerito dalla memoria al pittore,<br />

nato a Pieve di Cadore, borgo appunto alpestre e lacustre insieme, ma è diventato<br />

sotto il suo pennello un paese di sogno in cui pastori e cavalieri, pecore e lepri e<br />

cani da caccia si muovono sì ma non realisticamente, con una grazia silente simile a<br />

quella che hanno le figure nei sogni. L’ora, come si può intendere dalla luce di miele<br />

scurito che intride le case, è crepuscolare, la stagione primaverile o estiva, come si<br />

capisce dalla ricca fronda degli alberi: ma sono un crepuscolo e una primavera che<br />

non finiranno mai, ed è questo il privilegio dell’arte, di dare un’eternità alle cose.<br />

Uno degli elementi più altamente magici della scena è il cielo con quelle strisce<br />

alterne che sembrano rimare insieme come in un’ottava del tempo.<br />

Ora vorremmo farvi una domanda: avevate mai visto prima questo paesaggio?<br />

Forse no, forse sì se avevate guardato attentamente quell’Amor sacro e amor profano<br />

che è una delle meraviglie della Galleria Borghese di Roma: il nostro paesaggio<br />

sta proprio nel suo fondo.<br />

maggio 1959<br />

⎡ Paesaggio con torre<br />

Pieter Paul Rubens<br />

Staatliche Museen, Gemäldegalerie - Berlino ⎦<br />

128 129<br />

i<br />

Nel Seicento si leva il gran vento del movimento barocco e<br />

scompiglia architetture e statue, figure e paesaggi in pittura, parole in poesia.<br />

Quella scoperta della natura che abbiamo visto timidamente affacciarsi in Lorenzetti,<br />

irrobustirsi ma sempre in una luce interiore di misticismo nell’Angelico,<br />

dispiegarsi ricca e matura in Tiziano, si fa prepotente, persino drammatica in certi<br />

pittori del Nord, in Rembrandt, in Rubens.<br />

Proprio perché l’uomo diventa sempre più il vero protagonista dell’arte, come<br />

dimostra la poesia tragica e comica di William Shakespeare, anche il paesaggio si<br />

intride di umanità, si fa interprete di umanità, passa dal ruolo di scena fissa e un<br />

po’ ferma per azioni storiche e religiose a quello di argomento centrale del quadro.<br />

Naturalmente su questa via le diverse personalità degli artisti si comportano in<br />

modo vario: così, in contraddizione al movimento proprio del barocco, il grande<br />

Vermeer dipinge paesaggi di una calma assoluta. Ma è secentesca la libertà di<br />

guardare al paesaggio quotidiano, al ritratto quotidiano senza bisogno di giustificazioni<br />

storico-religiose.


In questo “Paesaggio” di Rubens la genialità del movimento<br />

barocco si ritrova, espressa con suprema libertà,<br />

nelle volute delle nuvole, nei raggi obliqui che le attraversano.<br />

Noi tuttavia abbiamo voluto che il gran secolo venisse rappresentato, in questa<br />

serie, da un pittore che ne è incarnazione incomparabile, Pieter Paul Rubens.<br />

Nato nel 1577 e morto nel 1640, partecipe appassionato delle due civiltà artistiche<br />

fiamminga e italiana, egli è specialmente, e a ragione, famoso per le grandi<br />

composizioni piene di trasporto, per i nudi ricchi di linfa e di sangue, per i ritratti<br />

veementi. Gli ampi, luminosi, aperti paesi entro cui la sua commedia umana si<br />

svolge non sono meno rappresentativi del suo genio tipicamente barocco.<br />

Anche più intimamente significante della sua novità ci pare questo piccolo Paesaggio<br />

con torre (cm 23 x 30), che appartiene agli ultimi anni della sua vita e nel quale<br />

la genialità del movimento barocco si ritrova, espressa con suprema libertà, nelle<br />

volute delle nuvole, nei raggi obliqui che le attraversano. Dagli argenti, dai grigi<br />

e rossastri e verdi dell’acqua, dei cespugli, della torre al celeste e ai rosa e gialli dei<br />

lontani di terra e di cielo, è tutto un accordo delicato e possente insieme, anticipatore<br />

dei soffi romantici di Constable, di Delacroix e, per passare a un’altra arte,<br />

restando però in terra nordica, agli squarci naturali di Ludwig Van Beethoven, il<br />

Beethoven della Sesta sinfonia.<br />

giugno 1959<br />

⎡ Veduta della Gazzada con Villa Falzi<br />

Canaletto (oggi attribuito a Bernardo Bellotto)<br />

Pinacoteca di Brera - Milano ⎦<br />

130 131<br />

i<br />

Il Settecento è stato detto il secolo dei lumi per il predominio<br />

che in esso ha avuto la ragione, appunto, illuminante, e il grande sviluppo che,<br />

conseguentemente, vi hanno preso le scienze. Ma non è vero quel che i romanti-


ci, più tardi, si sono affannati a voler dimostrare: che proprio per colpa di quella<br />

benedetta Ragione (scritta con la R maiuscola e posta quasi sugli altari) l’Arte sia<br />

decaduta miserevolmente.<br />

Certo che, a paragone della grandiosità, qualche volta vuota, del Seicento e del<br />

soffio, spesso retorico, dell’Ottocento, l’aurea mediocrità, intesa nel senso positivo<br />

che le dava Orazio, del Settecento, può figurare quasi povera. Guardiamo però più<br />

da vicino, accontentandoci di restare nel nostro campo, la pittura, e vedremo che<br />

senza intraprendere imprese eroiche, uomini come Chardin e Watteau in Francia,<br />

Goya in Spagna, Guardi e Canaletto in Italia, precisiamo, a Venezia, hanno raggiunto<br />

vette supreme; e com’era naturale, nel senso della civiltà del secolo, cioè di<br />

una intelligenza lucida della natura e degli uomini.<br />

Il paesaggio che vi sta davanti, e che si trova nella Pinacoteca di Brera a Milano, è<br />

opera del Canaletto (1697-1768), uno dei grandi paesisti veneziani del Settecento.<br />

Abbiamo scelto questa Veduta della Gazzada presso Varese perché le sue immagini di<br />

Venezia, le sue e quelle del Guardi, sono anche troppo note. Qui siamo ormai in<br />

pieno liberi da qualsiasi soggezione a un racconto religioso o storico che sia. Il pittore<br />

si è posto davanti al paese, la dolce verde piana lombarda con la sua frangia alpestre<br />

all’orizzonte, e l’ha ritratta così com’è. Non siamo proprio all’istantanea degli<br />

impressionisti, c’è ancora un filtro intellettuale fra l’artista e la natura. È quello che,<br />

sia pure a ritmo libero e arioso, ordina la composizione (già la parola composizione<br />

significa intervento della mente, perché no, della ragione) in una metrica, la scandisce<br />

con le figurette dei villici, che sono insieme ancora quelli della tradizione arcadica<br />

e quelli veri, del Varesotto: verissimi, tanto che pare d’udirlo spronare nel suo<br />

dialetto asprigno i bovi, quello in brache rosa che guida il carro a destra della villa.<br />

Il più alto raggiungimento poetico del Canaletto sta nella sua precisione ottica, e il<br />

suo occhio e il suo pennello, ugualmente limpidi, hanno, anche in questo stupen-<br />

do quadro, rinnovato il miracolo pittorico, che consiste nella resa cristallina del<br />

paesaggio in una prospettiva e in una atmosfera d’un nitore favoloso.<br />

È la stessa lucida, appena vibrante natura che s’incontra, negli stessi anni, negli<br />

squarci lirici del migliore Parini.<br />

luglio 1959<br />

⎡ Le point du jour<br />

Alfred Sisley<br />

Collezione privata ⎦<br />

132 133<br />

i<br />

L’Ottocento è così volto alla contemplazione e alla scoperta e<br />

alla lode del paesaggio, in poesia come in pittura, che la scelta d’un dipinto che ne<br />

racchiudesse l’infinita varietà era impresa disperata. Si sarebbe forse dovuto dividere<br />

il secolo in due belle metà, dar da rappresentare la prima a un romantico, che<br />

so all’inglese Constable o al francese Corot o all’italiano Fontanesi, riservando la<br />

seconda a un impressionista, o, per restare in casa nostra, a un macchiaiolo.<br />

Ci siamo decisi a non fare ingiustizie, abbiamo scelto un paesaggio solo, di un<br />

impressionista, ma vibrante d’un così sottile lirismo da poterlo considerare degno<br />

erede della più bella qualità del romanticismo: il trasferimento alla natura dei<br />

palpiti che sono privilegio dell’anima umana.<br />

Il quadro che vedete è intitolato Le point du jour (che traducemmo, ma è meno<br />

suggestivo, All’alba) ed è stato dipinto da Alfred Sisley (1839-1899) nel 1877, come<br />

potete leggere anche voi nella data posta vicino alla firma nel quadro a destra.<br />

Sisley non è uno dei nomi più grandi della grande pittura francese del secolo<br />

scorso. Eppure è uno degli artisti più puri e più rappresentativi di quella straordi


naria stagione pittorica che vide un gruppo di personalità di primo piano uscire<br />

dagli studi e dalle accademie per entrare in contatto diretto con la natura, all’aria<br />

aperta, per esser precisi en plein air.<br />

Mentre Manet e Renoir, Degas e Cézanne hanno finito poi, e proprio per questo<br />

hanno toccato raggiungimenti impensati e sorprendenti, per tradire il primitivo, semplice<br />

assunto, Monet e soprattutto Sisley, sono rimasti fedeli al verbo impressionista.<br />

Ma nell’apparente semplicità, che ricchezza, anche in questo paesaggio! Ci sta<br />

davanti un tipico fiume francese, con la riva allegra di case (svetta persino un primo<br />

camino di fabbrica, non rimosso dal pittore per ragioni di purezza estetica), il cielo<br />

alto, grigio e azzurro stemperantisi l’uno nell’altro: il tutto sospeso nel silenzio di un<br />

inizio di giornata, appunto, che s’immagina sarà fervida di opere, di voci, di vita.<br />

È questo messaggio di vita che ci commuove nella pittura impressionista, che ce<br />

la rende così vicina e toccante. Essa sembra dirci, ci dice anzi, che tutta la realtà è<br />

bella, anche la più umile, e presa così come è, senza che noi interveniamo a comporla,<br />

ad abbellirla, a poeticizzarla. Naturalmente quel che è giusto della natura,<br />

lo è anche dell’uomo. E qui l’impressionismo tocca le scoperte, le conquiste essenziali<br />

del secolo.<br />

agosto 1959<br />

⎡ Battelli nel porto<br />

André Derain<br />

Collezione Gygi - Berna ⎦<br />

i<br />

Se era difficile racchiudere in un paesaggio, in un artista solo<br />

tutto l’Ottocento, dalla romantica scoperta del bello naturale (ai suoi inizi) alla<br />

134<br />

I colori, se li analizzate uno per uno, a freddo, li troverete<br />

forse arbitrari, ma l’insieme suona vivo e allegro e ventilato,<br />

proprio come un giorno di vacanza in riva al mare.


ealistica e impressionistica presa di possesso dell’aria aperta (verso la metà) all’inquieta<br />

e tormentata interpretazione del visibile (sul finire), diventa quasi disperata<br />

una simile impresa per il Novecento.<br />

Innanzitutto perché i movimenti artistici che nei secoli precedenti si seguivano<br />

con ritmo lentissimo e quasi senza scosse, nel nostro si succedono vertiginosamente,<br />

ora affiancandosi ora contrastandosi, di continuo variando il panorama dell’arte,<br />

rendendolo estremamente mutevole, inafferrabile. Così che le personalità più<br />

deboli, da un anno all’altro sono tentate di cambiar maniera; mentre le più forti e<br />

inventive pare si divertano a presentarsi, una stagione dopo l’altra, sempre diverse<br />

e spesso contraddittorie. Su quale movimento dunque fermarci, su quale artista,<br />

perché ci dia il paesaggio più rappresentativo del tempo in cui viviamo?<br />

E c’è di più, una ragione anche più intrinseca, per spiegare il nostro imbarazzo.<br />

Gli artisti, pittori e scultori, non hanno certamente cessato di guardare la natura,<br />

ma non si accontentano più di renderla quale si presenta ai loro occhi. E la scompongono,<br />

o semplificano, o complicano, o trasformano in mille modi, tanto da<br />

cavarne qualcosa di sempre nuovo e sorprendente, soltanto dopo lungo, attento<br />

e intelligente esame rivelantesi quel che in definitiva è: un paesaggio. Alcune di<br />

queste, chiamiamole così, operazioni, sono legittime, altre no. Non è qui il luogo<br />

di tornare sullo spinoso argomento.<br />

Accontentiamoci di presentare un’opera, e un artista, che pur significativi dell’arte<br />

moderna, non sono andati tanto in là da perdere il contatto con il pubblico anche<br />

non specializzato. Il quadro che vi sta davanti è del pittore francese André Derain<br />

(1880-1954) ed è stato dipinto nel 1905, quando l’artista giovane apparteneva<br />

al movimento dei fauves (come dire delle belve), un movimento che dava del<br />

mondo una visione semplificata e colorata all’estremo, ma non deformata, non<br />

spezzata, non trasposta. Il titolo è Battelli nel porto, e in effetti si vedono un porto<br />

e dei battelli, e delle figure, dei monti, delle nuvole e cielo e spiagge. I colori, se<br />

li analizzate uno per uno, a freddo, li troverete forse arbitrari (la sabbia non è mai<br />

rossa, né il cielo giallo e verde, né il mare verde come nel quadro di Derain), ma<br />

l’insieme suona vivo e allegro e ventilato, proprio come un giorno di vacanza in<br />

riva al mare, e per nulla arbitrario. Una fusione come d’accordi musicali un po’<br />

striduli ma chiusi nel giro d’un’aria luminosa e spirabile, è la qualità indubbia di<br />

quest’opera, ancora nella scia dell’ultimo Ottocento (Van Gogh e Gauguin) ma<br />

già in vista della terra di terremoti artistici e spirituali che è il ’900.<br />

settembre 1959<br />

⎡ Natura morta<br />

da Ercolano<br />

Museo Archeologico Nazionale - Napoli ⎦<br />

136 137<br />

i<br />

Dopo la storia del paesaggio che, incorporato per molti secoli<br />

in pitture di soggetto religioso o storico, trova all’inizio dell’età moderna sempre<br />

più piena autonomia sino a divenire uno dei generi artistici più coltivati e amati,<br />

passiamo a una piccola storia della natura morta. Essa ha avuto un destino molto<br />

simile a quello del paesaggio: è nata, o meglio rinata, come genere a se stante, negli<br />

stessi anni in cui nasceva, o meglio rinasceva, il paesaggio, e si è poi diffusa con<br />

molta fortuna, naturalmente modificandosi e trasformandosi nei secoli.<br />

Per tutto il lungo e grande corso della pittura medioevale il predominio in ogni<br />

manifestazione dello spirito dei valori religiosi aveva permesso tutt’al più al pittore<br />

di stendere, e con la maggior sobrietà possibile, delle nature morte sui deschi delle<br />

“ultime cene”. Ma se torniamo più indietro, se ci spingiamo sino al mondo clas


sico greco-romano, ne possiamo trovare di vere e proprie, dipinte per il piacere<br />

dell’occhio, magari con l’intento di stuzzicare l’appetito. Intendiamo parlare delle<br />

nature morte su tavoletta, ad affresco e a mosaico, che si sono scoperte qua e là<br />

e specie negli scavi di Pompei ed Ercolano e che testimoniano quanto tali soggetti<br />

piacessero allora. Per lo più, come nelle nature morte moderne, ci si sono<br />

scoperte qua e là, specie in posizione bene equilibrata, oggetti inanimati (natura<br />

morta, diciamo noi, e per indicare la stessa cosa “vita ferma”, dicono i tedeschi), nella<br />

maggior parte dei casi cibarie, sia di origine animale sia vegetale, e oggetti o fiori.<br />

Mentre il mosaico e l’affresco recavano queste nature morte insieme a paesaggi e<br />

scene, il tutto legato in un ampio disegno decorativo, le tavolette servivano quasi da<br />

“cotillon”, o dono di ospitalità, e le nature morte in esse dipinte avevano una sorta<br />

di funzione commemorativa di banchetti, cene e simili.<br />

Ma non importa molto a noi oggi quale fosse il motivo pratico per cui esse erano<br />

nate. Quel che conta è il risultato artistico raggiunto, e bisogna dire che, almeno in<br />

alcune di quelle opere miracolosamente restituiteci dagli scavi, esso è di alta qualità.<br />

Può ben darsi che a commissionare la natura morta che riproduciamo (sta al<br />

Museo Nazionale di Napoli, viene da Ercolano ed è stata probabilmente dipinta<br />

nel primo secolo dopo Cristo) fosse un ghiottone, un degustatore di frutti di mare<br />

rari e di selvaggina frolla. La resa pittorica però è di una tal delicatezza che non<br />

ne emana nessuna suggestione gastronomica troppo evidente. Sui due piani della<br />

composizione, che vogliono scompartire illusionisticamente lo spazio, uccello e<br />

aragosta, vaso e conchiglie e piccolo tridente, risaltano tenui e pure distinti in un<br />

accordo di verdi e di rosa che anticipa, per la sua delicata giustezza, pittori come<br />

De Pisis e Semeghini.<br />

i<br />

ottobre 1959<br />

⎡ Tarsia con ampolle, vasi e libri<br />

Anonimo tedesco<br />

Collezione privata ⎦<br />

Per tutto il Medioevo la natura morta, le poche volte che appare<br />

nella pittura a mosaico, su affresco o su tavola, è in angoli di composizioni religiose:<br />

quelle specialmente raffiguranti la Nascita della Madonna o l’Ultima cena,<br />

che di per se stesse invitano alla descrizione di ambienti domestici e di oggetti<br />

familiari. Come asciugamani, brocche d’acqua, tovaglie con pani e vino, piatti e<br />

bicchieri. Naturalmente questi non minuziosamente resi, assaporati come nella<br />

pittura antica e, più tardi, in quella moderna, da Caravaggio a noi, ma dati con<br />

sobrietà, verrebbe da dire con frugalità, nei loro tratti essenziali, e intrisi di una<br />

luce ineffabile.<br />

Nel Rinascimento le cose cambiano. I primi a guardare di nuovo da vicino paesaggi<br />

e fiori, lini e porcellane, insomma tutto quanto rappresenta il tema quasi<br />

immutabile della natura morta, furono i fiamminghi. Essi sono legati ancora al<br />

soggetto sacro, ma non lo trasfigurano come gli italiani, anzi lo rendono il più<br />

possibile immerso nella realtà nella quale vivono: pare che uomini e cose e paesi,<br />

prima di venir dipinti, siano da essi stati visti con una lente. In Jan e Hubert Van<br />

Eyck e in Rogier Van der Weyden, nei loro grandi quadri sacri e profani, sono<br />

reperibili nature morte d’una verità allucinante, surreale per eccesso quasi di<br />

realismo.<br />

Ma le prime nature morte vere e proprie della pittura europea avanti Caravaggio,<br />

se ci vengono sempre dal Nord, dalle Fiandre e dalla Germania, hanno un precedente<br />

italiano, le tarsie che, in cori di chiese e studioli di palazzi principeschi,<br />

rappresentano esempi singolarissimi d’arte rinascimentale. Negli intarsi su legno<br />

138 139


dei fratelli Lendinara, di Baccio Pontelli e altri supremi artigiani, operosi sotto<br />

l’influenza di uomini come Piero della Francesca, s’aprono i primi paesaggi e<br />

le prime nature morte del tutto liberi della storia dell’arte moderna. In pittura<br />

però, sicuramente ispirandosi ai giochi prospettici delle tarsie italiane, è soltanto in<br />

Fiandra e in Germania che, già dalla fine del Quattrocento, si hanno quadri rappresentanti<br />

pure e semplici nature morte. A dire il vero essi sembrano ancora forse<br />

particolari di quadri a soggetto, ma è molto significativo che siano stati dipinti per<br />

il puro gusto di mostrare degli oggetti.<br />

L’opera che vi mostriamo, e che appartiene a una collezione privata americana,<br />

è di un maestro tedesco, del quale s’è perduto il nome: gli storici dell’arte<br />

hanno creduto di poterla datare fra il 1470 e il 1480. Rappresenta, è chiaro, un<br />

angolo di parete per metà occupata da un armadietto semiaperto e per l’altra<br />

metà da una nicchia in cui ampolle e anfore, vasi e libri si compongono in una<br />

silente armonia che anticipa i più grandi natura-mortisti dei secoli seguenti, da<br />

Chardin a Morandi. L’elemento più italiano, più legato agli inganni ottici delle<br />

tarsie, è l’armadietto, descritto però con una minuzia naturalistica tipicamente<br />

nordica. La parte inferiore del quadro, con la boccia che riflette una finestra<br />

aperta sull’azzurro d’un cielo lontanissimo, discende invece dai Van Eyck, straordinari<br />

anticipatori di queste trovate insieme tecniche e poetiche. Ma un certo<br />

puntiglio nel non dimenticare neppure, per esempio, la cordicella che tiene<br />

unite le chiavi, non è la spia dell’origine germanica di questo tanto rifinito<br />

quanto misterioso quadro?<br />

i<br />

novembre 1959<br />

⎡ Natura morta<br />

Francisco de Zurbarán<br />

Norton Simon Museum of Art - Pasadena ⎦<br />

Il Cinquecento, nei suoi maestri supremi, da Michelangelo a<br />

Raffaello, dal Correggio al Tiziano, porta l’arte a un grado tale di idealizzazione<br />

che la natura morta, riscoperta, anzi reinventata nel Quattrocento, sparisce quasi<br />

del tutto dalla pittura. Non è che non sia possibile ritagliarne, anche di saporose,<br />

specie nei Veneti; o frugando di scovarne delle vere e proprie, soprattutto spingendosi<br />

al sempre naturalistico Nord: ma restano secondarie rispetto allo spirito<br />

del secolo, la cui tensione è volta verso ben altro.<br />

Ma ecco che, diminuita tale tensione e trasformatesi le invenzioni sublimi dei<br />

grandi in formule manieristiche o, peggio, accademiche, sorge la necessità di riaccostarsi<br />

alla natura, fonte inesauribile d’ispirazione e di rinnovamento per le arti.<br />

L’uomo cui è dato di ridare vita e moto alla pittura è Michelangelo da Caravaggio,<br />

la cui persino brutale presa sulle cose se suscitò alle prime reazioni negative<br />

violente, finì con l’imporsi e influenzare non soltanto l’Italia, ma l’Europa tutta,<br />

specie l’Olanda e la Spagna, che sulla via da lui eroicamente aperta procedettero<br />

con meravigliosa ricchezza di personalità, da Rembrandt a Velázquez.<br />

A noi qui oggi non importa tracciare la linea dell’arte caravaggesca nei suoi punti<br />

fondamentali: ci interessa invece sottolineare il fatto che il Maestro lombardo,<br />

nella sua infaticabile ricerca di contenuti nuovi e freschi, abbia ripreso anche il<br />

tema della natura morta, finito prima di lui in mano a semplici e mediocri decoratori.<br />

Allo stesso modo che i personaggi del dramma sacro venivano da lui rinverginati,<br />

col trarne le fisionomie e gli atteggiamenti dalla vita di tutti i giorni,<br />

pure uva e mele e fichi e foglie ritrovarono in lui la verità delle loro forme, anche<br />

140 141


sgraziate, anche deformate. Le frutta mostrano il baco, i viticci si accartocciano:<br />

le cose mostrano d’essere soggette a decadenza e morte come gli uomini. Non<br />

basta, perché, nella cestina del famoso quadro che sta alla Pinacoteca Ambrosiana<br />

di Milano, la composizione e la luce sono di una libertà straordinaria che aiuterà<br />

tutto il secolo.<br />

Abbiamo voluto, a rappresentare la natura morta appunto del secolo, scegliere un<br />

pittore spagnolo, Francisco de Zurbarán.<br />

Egli è, come il più grande Velázquez, uno dei non pochi caravaggisti spagnoli del<br />

Seicento, con quel tanto di diverso dal maestro italiano che il carattere del paese,<br />

la civiltà, e naturalmente la personalità comportano. In lui, più che l’asprezza della<br />

scoperta del vero, che gli si ricompone in una certa monumentalità compositiva,<br />

è fortemente caravaggesco il valore della luce e dell’ombra messi a contrasto al<br />

fine di dare contenuto drammatico all’opera. Non è che il bellissimo quadro con<br />

limoni aranci e rosa sia propriamente drammatico, ma è alto e solenne il modo<br />

d’intendere le umili cose rappresentate. Nessun compiacimento, diciamo, gastronomico;<br />

nessuna troppo scoperta ricchezza coloristica; nessuna intenzione di<br />

meravigliare con l’abilità della resa di questo o quel dettaglio. Tutt’altro: sul fondo<br />

scuro (anche questo un motivo caravaggesco) i tre protagonisti (cioè il piatto con i<br />

limoni, la cestina con gli aranci, l’altro piattino con la rosa e il bicchiere) spiccano<br />

per l’essenzialità grave, quasi religiosa della loro forma e del ritmo spaziale in cui<br />

sono chiusi. Bisognerà arrivare alle nature morte di Cézanne per trovare una tale<br />

altezza morale impiegata per un’occasione tanto modesta, all’apparenza, come la<br />

natura morta.<br />

Il numero delle nature morte dipinte nel Seicento, dalle Fiandre all’Italia alla<br />

Spagna è infinito, ma mentre la più gran parte di esse per quanto piacevole non ci<br />

dice più nulla, ci serve tutt’al più per decorare una parete, gli agri limoni, la cestel-<br />

la dorata e gli aranci compatti e la delicatissima rosa di Zurbarán ci incantano e<br />

commuovono profondamente, trattenendo a lungo il nostro sguardo in una sorta<br />

di meditazione che non si vorrebbe mai interrompere. Che è l’effetto di tutta la<br />

grande pittura, quali siano i suoi argomenti, dai bisonti di Altamira alle bottiglie<br />

di Giorgio Morandi.<br />

dicembre 1959<br />

⎡ La tovaglia bianca<br />

Jean-Baptiste-Siméon Chardin<br />

Art Institute - Chicago ⎦<br />

142 143<br />

i<br />

Il Settecento è un secolo molto più ricco e vario, molteplice e<br />

inquieto, di quanto non si sia soliti pensare: è sì il secolo dell’opera buffa ma anche<br />

della Rivoluzione Francese, del rococò ma pure di Bach. In pittura, ufficialmente<br />

dominano le accademie, come in letteratura; ma di contro nascono e si affermano<br />

generi e personalità che sono la negazione delle accademie stesse. Basterà citare la<br />

pittura di paesaggio e il romanzo, frutti l’una e l’altro di un affetto al reale assolutamente<br />

libero da ogni schema e da ogni regola.<br />

Anche la natura morta gode di tale privilegio, appunto perché ritenuta in un certo<br />

senso genere inferiore, di consumo quotidiano. Ed è proprio in Francia, dove<br />

l’accademismo prospera all’ombra gloriosa, anche se già avviata al declino, della<br />

Corte, che opera, fra il 1728 e il 1770, Jean-Baptiste-Siméon Chardin, forse il più<br />

grande naturamortista di tutti i tempi. Il pittore, mentre altri popolava di grandi<br />

scene leggermente noiose i saloni di ricevimento, s’accontentava di piccole commissioni:<br />

un quadretto per studio o “boudoir”, un parafuoco per caminetto, una


coppia di sovraporte. E i soggetti non andavano che raramente al di là del vaso<br />

di fiori della tavola apparecchiata, della pipa appoggiata alla cassettina dei colori,<br />

e simili argomenti della vita di tutti i giorni. Tutt’al più, se si spingeva sino alla<br />

figura umana, era per ritrarre una bambina con il volano, una servente con una<br />

brocca di latte, uno studentello chino sul foglio.<br />

E non si creda che i contemporanei, gli uomini sensibili e intelligenti, non avessero<br />

capito come la musica da camera di Chardin la vincesse su quella per orchestra<br />

dei grossi decoratori di regge e di chiese. Diderot, in una sua pagina dedicata al<br />

pittore, parla di “magia”: che è la parola giusta per esprimere quel che si sente<br />

davanti alle composizioni così realistiche eppure così misteriose del francese.<br />

Scrive Diderot: “Non si riesce a capire il segreto di questa magia. Sono degli<br />

strati spessi di colore applicati gli uni sugli altri, il cui effetto spira dal fondo alla<br />

superficie. Delle volte si direbbe che un vapore sia soffiato sulla tela; altre che vi sia<br />

stata gettata una schiuma leggera. Avvicinatevi e tutto si appiattirà e confonderà;<br />

allontanatevi, tutto si chiarirà e ricreerà…”.<br />

Chardin si riattacca agli Olandesi, specie a Vermeer, altro grande poeta delle umili<br />

cose, e quindi indirettamente al Caravaggio, e porta sino a Cézanne, a Morandi<br />

che è il pittore del nostro tempo più vicino a lui.<br />

Il quadro che vedete, e che sta all’Art Institute di Chicago, era originariamente<br />

posto davanti a un camino: funzionava insomma da trompe l’oeil, da inganno ottico.<br />

Potrebbe sembrare questa una destinazione modesta, ma che cos’è il fine dell’arte<br />

se non quello di ridarci la vita, la realtà, in modo tale che ci venga quasi voglia<br />

di toccare con mano? Quella tovaglia semisparecchiata, quel pane trinciato, quel<br />

bicchiere non colmo, quel coltello posato solo per tre quarti, tutte quelle cose che<br />

egli ha visto e fermato per sempre nella luce vera dell’ora in cui dipingeva, sono<br />

impregnate di una poesia tanto più straordinaria quanto più segreta. Dovranno<br />

passare centocinquant’anni perché la letteratura arrivi coscientemente a effetti di<br />

tale realismo “magico”. È un fatto ben singolare, in fondo profondamente giusto,<br />

che con tanti merletti e trine e broccati il Settecento brilli oggi per noi più che in<br />

ogni altra cosa nella tela spiegazzata di un’umile tovaglia.<br />

gennaio 1960<br />

⎡ Natura morta con violette<br />

Édouard Manet<br />

Collezione privata ⎦<br />

144 145<br />

i<br />

A metà dell’Ottocento la pittura si evolve, parallelamente ma<br />

con maggior forza e spontaneità che la letteratura, verso una presa di contatto<br />

diretta con la realtà, in via di rapida trasformazione per impulso della civiltà<br />

industriale: nasce la stupenda fioritura dell’Impressionismo. Il movimento, si sa, è<br />

francese, e non deve meravigliare il fatto che dall’Italia, dall’Olanda, dalla Spagna<br />

il centro artistico si sposti a Parigi, per tutto il secolo scorso punto d’incontro veramente<br />

unico di tutte le correnti spirituali nuove. Va tuttavia ricordato che l’Italia,<br />

pur intenta al faticoso travaglio dell’unità, possiede scuole e individui che conducono<br />

in porto, contro l’indifferenza o l’ostilità degli ambienti ufficiali, esperienze<br />

assai vicine a quelle dei francesi.<br />

La novità fondamentale dell’Impressionismo è l’uscita all’aria aperta dei pittori,<br />

la loro volontà di ritrarre la natura quale è senza ricostruirla mentalmente, senza<br />

disegnarla dunque, lasciando che i colori, le luci, le ombre si trasmettano al quadro<br />

nella loro fioritura ricca, varia, imprevedibile. A qualcosa del genere, specialmente<br />

alla liberazione del colore da ogni soggezione alla forma chiusa del disegno,


Guardate l’ombra che il mazzo di violette getta sul piano:<br />

è un’ombra colorata perché, lo hanno scoperto proprio<br />

gli impressionisti in questi anni, le ombre sono colorate, non nere.<br />

erano arrivati anche, quasi senza accorgersene, i veneziani del Cinquecento, specie<br />

Tiziano vecchio.<br />

Se il paesaggio, anche l’inedito paesaggio urbano, è il tema preferito dagli impressionisti,<br />

anche la natura morta è stata da essi coltivata con successo, sia nella fase<br />

prima, più felice e forse più superficiale, della loro storia sia in quella terminale,<br />

che vede i due grandi liquidatori del movimento stesso, Cézanne e Van Gogh,<br />

accettare la natura morta ma soltanto per piegarla, il primo a una potente sintesi<br />

formale, il secondo a una drammatica violenza espressionistica.<br />

La natura morta che presentiamo, e che appartiene a una collezione privata parigina,<br />

è stata dipinta da Édouard Manet verso il 1870, nel momento di più fortunata<br />

creatività dell’Impressionismo. Le poche cose rappresentate, un ventaglio, un<br />

foglio scritto e un mazzo di violette, sono rese con una rapidità di tocco fulminea,<br />

colte veramente nello stato di grazia che il caso, forse una mano femminile, ha<br />

suscitato con un accostamento del tutto, appunto, casuale eppure stupendo, destinato<br />

all’eterno. Nel piccolo quadro (cm 21 x 27) l’essenza dell’Impressionismo è<br />

miracolosamente data in tutta la sua pienezza. Guardate per esempio l’ombra che<br />

il mazzo di violette getta sul piano in cui esso è stato posato: è un’ombra colorata,<br />

perché, lo hanno scoperto proprio gli impressionisti in questi anni, le ombre sono<br />

colorate, non nere, come voleva la tradizione.<br />

Allo stesso modo che la suprema eleganza decorativa della natura morta pompeiana,<br />

il rigore stilistico di quella quattrocentesca, la corposità solenne e la delicatezza<br />

poetica di quelle secentesca e settecentesca, parlavano per tutta un’epoca, così<br />

l’umido, fragrante mazzolino di viole di Manet ci dà, con la suggestione profonda<br />

delle cose semplici ma vere, il senso intero della gioia di vivere, della libertà dei<br />

sentimenti che improntano la vita di Parigi, città-chiave dell’epoca, nella piena<br />

maturità dell’Ottocento.<br />

147


febbraio 1960<br />

⎡ La scatola del tabacco<br />

Georges Braque<br />

Collezione privata ⎦<br />

La reazione all’Impressionismo, che stemperava la realtà<br />

nella luce rendendola nelle sue forme estreme pura musica di colore e, appunto,<br />

di luce, comincia già nel secolo scorso in seno all’Impressionismo stesso, con<br />

Cézanne. Egli risolidifica la realtà, ridà peso alle cose, grave misura allo spazio.<br />

E, nelle ultime opere dipinte all’alba del nostro secolo, inizia quel processo di<br />

scomposizione cristallina del mondo visibile che, subito dopo di lui, Picasso<br />

Braque e Gris porteranno alle estreme conseguenze con il Cubismo.<br />

Non è qui il caso di ridare una definizione di questa scuola. Basterà ricordare<br />

che essa tende a riunire su una stessa tela molti aspetti di uno stesso oggetto che<br />

viene presentato, come è stato detto “spezzato, spiegato in tutte le sue facce,<br />

aperto dall’interno, un po’ alla maniera che lo concepiscono i bambini, non tale<br />

quale si vede, ma tale quale si pensa”.<br />

Pressapoco dal 1906 al 1910-12 dura l’età del Cubismo puro, severo: in questi<br />

anni Picasso e Braque dipingono paesaggi, nudi, ritratti e nature morte che<br />

danno alle cose una monumentalità, sia pure rotta e ferita, straordinaria, potenziata<br />

da una gamma di colori d’una sobrietà unica. Ma mentre Picasso mostra<br />

già un temperamento drammatico, addirittura tragico, che si rivelerà nell’infinita<br />

serie di trasformazioni successive, Braque taglia e scompone e ricompone<br />

con grande delicatezza, quasi che i poveri oggetti che ritornano sempre nella<br />

tematica cubista, come pipe bicchieri chitarre, fossero di una materia preziosa.<br />

E prezioso è certamente il colore, in Braque, sia il poco grigio e bruno, verde<br />

e argento dell’epoca più propriamente cubista, sia quello più ricco di pasta e<br />

più vario della sua successiva evoluzione che lo riaccosta alla realtà visibile pur<br />

lasciandolo sempre assai libero.<br />

Diamo qui un’opera abbastanza recente del grande maestro francese, una natura<br />

morta intitolata La scatola del tabacco, che appartiene a una collezione privata<br />

francese e rappresenta in maniera perfetta il Braque maturo. Si tratta di una<br />

natura morta in senso abbastanza tradizionale: infatti ci sta dinnanzi un tavolo<br />

sul quale sono posati la scatola del tabacco che dà il titolo al quadro, un bicchiere,<br />

delle noci, una pipa, un limone. Ma lo spazio è, sia pur lievemente, ricostruito<br />

con la mente; le luci e le ombre sono inventate e disposte secondo un ritmo<br />

interno, non secondo il capriccio dell’ora che passa. L’insieme di queste comuni<br />

cose risulta di una nobiltà e di una grazia incomparabili, di un mistero che<br />

fa pensare ai momenti più alti della storia della natura morta, a Zurbarán per<br />

esempio. L’accordo dei toni tutto di terre, d’argille, di verdi, con gli improvvisi,<br />

inaspettati, incredibili neri vellutati e bianchi squillanti è inconfondibilmente<br />

braquiano. Se volessimo, in tutta l’arte contemporanea, trovare un altro pittore<br />

capace d’interpretare con una tale padronanza e una tale riservatezza, una tale<br />

novità e una tale misura il vecchio ma inesauribile tema della natura morta,<br />

dovremmo tornare in Italia, a Giorgio Morandi.<br />

148 149<br />

i


gennaio 1961<br />

⎡ Ritratto dei coniugi Arnolfini<br />

Jan Van Eyck<br />

National Gallery - Londra ⎦<br />

Le prime grandi personalità della pittura fiamminga sono<br />

Rogier Van der Weyden e Jan Van Eyck, operanti entrambi nella prima metà del<br />

Quattrocento, negli anni cioè che in Italia nasceva, pieno di forza morale e di<br />

lucida intelligenza della natura e dell’uomo, il Rinascimento. Si è detto anzi che i<br />

due grandi nordici prima nominati sono dei paralleli dei nostri Masaccio e Piero<br />

della Francesca e in genere degli artisti che da noi hanno, sull’esempio liberamente<br />

interpretato dagli antichi, rinnovato architettura, scultura e pittura.<br />

Ma, e questo li distingue nettamente ma anche li limita, se non sul piano dell’arte<br />

su quello della cultura, mentre gli italiani si sono mossi nella loro rivoluzione con<br />

una precisa coscienza teorica, oggi si direbbe ideologica, dell’impresa assunta, i<br />

fiamminghi avrebbero portato avanti<br />

Ci troviamo di fronte a un prodigio<br />

la loro scoperta della natura empiri-<br />

di virtuosismo tecnico, di resa lenticolare camente e quasi senza accorgersene.<br />

della realtà, e tuttavia ci sentiamo<br />

Così, mentre gli artisti del Rinasci-<br />

profondamente commossi dinanzi a questo mento italiano operano una sintesi,<br />

momento di vita di tutti i giorni rapito quelli di Fiandra procedono analitica-<br />

al tempo.<br />

mente: una bella differenza, dunque.<br />

Eppure, visti oggi nella luce storica del<br />

periodo cui gli uni e gli altri appartengono, gli italiani e i fiamminghi rientrano<br />

in una armonia intera e insieme diversa, in una concordia discorde meravigliosa.<br />

La primavera della pittura fiamminga corrisponde al tempo in cui le Fiandre, che<br />

150 151


coprivano pressapoco il territorio del Belgio odierno, e che avevano avuto prima<br />

una tradizione politico-sociale di tipo comunale e borghese, entrano in contatto<br />

col mondo aristocratico borgognone. Il sano, ma un po’ ruvido tessuto popolare<br />

originario fiorisce così di eleganze cortesi, cavalleresche, tipiche della tradizione<br />

francese.<br />

Van der Weyden e i Van Eyck riescono a conservare quell’attaccamento alle cose<br />

che era caratteristico da sempre nel loro paese e a innestarvi il prezioso gusto della<br />

“dolce Francia”. Va ricordato poi qui che i due mirabili pittori fiamminghi fecero<br />

il viaggio d’Italia, come allora si diceva, e vi lasciarono un’impronta e ne ricavarono<br />

insegnamenti: la pittura ferrarese del Quattrocento per esempio apprese<br />

molto da essi, pure Antonello da Messina venne impressionato dalla loro maniera,<br />

mentre essi d’altra parte non restarono insensibili allo splendore artistico delle<br />

nostre varie scuole d’allora.<br />

Caratteristica dell’arte fiamminga è l’accostamento diretto, assolutamente privo di<br />

mediazioni intellettuali, alle cose. Guardate questo straordinario piccolo quadro<br />

(cm 33 x 22); è il ritratto di Giovanni Arnolfini e della moglie, dipinto a tempera<br />

e olio (i fiamminghi furono fra i primi a usare l’olio) circa nel 1434 e conservato<br />

oggi alla National Gallery di Londra. Jan Van Eyck, avuto l’incarico di fare il<br />

ritratto di famiglia di questo certamente benestante mercante italiano, si propose,<br />

quasi per scommessa con se stesso, di fare entrare in una superficie limitatissima<br />

non solo la patetica coppia, ma pure la loro stanza da letto, divertendosi poi a includere,<br />

per mezzo di uno specchio tondo appeso a una parete, una visione anche più<br />

minuscola eppure sempre nitidissima, della scena. Ci troviamo di fronte a un prodigio<br />

di virtuosismo tecnico, di resa lenticolare della realtà, e tuttavia ci sentiamo<br />

profondamente commossi dinanzi al mistero che riesce a essere questo momento<br />

di vita di tutti i giorni rapito al tempo. L’estrema punta di poesia di questo quadro<br />

che, pur assolvendo al compito cui normalmente oggi servono le fotografie di<br />

famiglia, riesce a toccare il sublime della pura contemplazione e dell’astrazione ai<br />

limiti dell’ossessiva rappresentazione del vero, ci sembra raggiunto dal pittore in<br />

quello scorcio di cielo che si intravede dalla finestra aperta e che illumina dei frutti<br />

posati sul davanzale e su un cassettone che anticipano i più severi e lirici pittori di<br />

nature morte dei tempi moderni, da Paul Cézanne a Giorgio Morandi.<br />

marzo 1961<br />

152 153<br />

i<br />

⎡ Paesaggio con Filemone e Bauci<br />

Pieter Paul Rubens<br />

Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie - Vienna ⎦<br />

Pieter Paul Rubens, nato verso la fine del Cinquecento, vive in<br />

piena epoca barocca: un’epoca che egli, per quanto fiammingo, eccentrico cioè<br />

rispetto alla culla del movimento, vogliamo dire l’Italia, rappresenta compiutamente.<br />

Ma è dopo una presa di contatto con l’ambiente italiano che Rubens dispiega<br />

con più vigore e sicurezza la sua maniera nuova, gareggiando con gli architetti<br />

e gli scultori in procinto di cambiare il volto delle città, specie in Roma, mentre<br />

i pittori, sull’esempio severo di Caravaggio, vanno cercando una resa diretta della<br />

realtà che è antitetica alla trasfigurazione del barocco. Se si eccettuano gli autori<br />

delle grandi cupole che fingono popolosi cieli nelle chiese mosse e fastose e che<br />

sono soprattutto dei decoratori, non troviamo in Italia un pittore barocco della<br />

forza e della genialità di Rubens.<br />

Può anche darsi che sia per la sua origine fiamminga, il suo affondare le radici, non<br />

nell’implacabile tradizione, come è degli italiani venuti dopo il Rinascimento, ma


nel terreno ricco di umori, di vita che è il naturalismo perenne dell’arte di casa<br />

sua. Comunque, se dovessimo scegliere una pittura, una sola, che rappresentasse<br />

l’età in cui opera e giganteggia Gian Lorenzo Bernini, in cui fiorisce il colonnato<br />

di San Pietro, dovremmo rivolgerci a Rubens. L’imbarazzo per noi, semmai,<br />

verrebbe dalla ricchezza d’una messe di opere quasi sterminata, in cui storia sacra<br />

e mitologia pagana, vita domestica e allegoria, ritratti e paesaggi si mescolano<br />

vorticosamente.<br />

Quel rapporto non mediato con il vero che abbiamo visto essere la qualità essenziale<br />

dei fiamminghi nel Quattrocento e nel Cinquecento, resiste inalterato nel<br />

Seicento, con questo pittore che s’innamora delle novità italiane ma per diventare<br />

ancor più fiammingo, insomma ancor più se stesso. La sua vena poderosa non<br />

temeva gli argini dei temi prefabbricati e delle commissioni ufficiali, da lui ogni<br />

volta travolti con un’urgenza di invenzioni compositive, con un fiotto di colore<br />

che sembra non debbano mai, non dico esaurirsi, ma neppure placarsi. Data la<br />

varietà e molteplicità della sua immensa opera, non ci illudiamo certo, presentando<br />

un quadro solo, di dare un’idea del genio di Rubens. Tuttavia il Paesaggio<br />

con Filemone e Bauci che vi mostriamo e che sta nella Pinacoteca di Vienna, può<br />

servire come utile introduzione al grande pittore barocco. In esso il movimento,<br />

aspirazione prima e suprema di tutti gli artisti della scuola, è già nel soggetto, in<br />

quella bufera che squassa molta parte, non tutta, intendiamoci, dell’eroico paese<br />

che si profonda davanti ai nostri occhi. Tale bufera è voluta da Giove, che vediamo<br />

in atto di giustiziere, per punire gli uomini ingrati verso gli dèi, eccezion fatta dei<br />

vecchi sposi, Filemone e Bauci, seduti presso lui e Mercurio. Il turbine rovinoso<br />

occupa la parte centrale della tavola, perché quasi a bilanciare la quiete selvosa e<br />

ombrosa in cui stanno le figure, al di là dei vortici di vento e degli scrosci d’acqua,<br />

si distende una pianura celeste, soleggiata, che forse la furia degli elementi non toc-<br />

cherà. Guardate dunque che complessità in un quadro solo, che apertura naturale e<br />

che capacità di fantasticare insieme: in questo senso Rubens non è più soltanto un<br />

barocco, ma un romantico, un anticipatore incredibile. Per trovare qualcosa che<br />

rassomigli a quest’opera in cui i colori del nembo e quelli dell’arcobaleno sono stati<br />

miracolosamente rapiti alla natura, bisogna arrivare molto in là, alla Sesta sinfonia<br />

di Ludwig Van Beethoven.<br />

luglio 1961<br />

⎡ Ritratto di Frate Ortensio Paravicino<br />

El Greco<br />

Museum of Fine Arts - Boston ⎦<br />

154 155<br />

i<br />

Dai primitivi castigliani e catalani a Pablo Picasso, la linea della<br />

pittura spagnola è terribilmente coerente, e la sua coerenza si chiama passione,<br />

persino violenza. Sia che essa affronti, aggredisca verrebbe voglia di dire, il mondo<br />

esterno, sia che azzardi intrepida gli abissi dell’interiorità, i tortuosi meandri<br />

dell’anima, il suo piglio, il suo impeto sono sempre tesi al massimo.<br />

Abbiamo nominato i grandi maestri anonimi del romanico e del gotico che aprono,<br />

e Picasso che in un certo senso chiude, un millennio di arte iberica; noi però prenderemo<br />

in esame tre pittori del momento centrale di questa storia: il Greco, Velázquez,<br />

Goya. Un arco di anni che va dal Cinquecento all’Ottocento e il cui culmine può<br />

identificarsi col Seicento e col suo massimo, e massimo rappresentante dell’intera<br />

pittura spagnola come Cervantes lo è della letteratura, Diego Velázquez.<br />

È piuttosto singolare che il primo grande nome dell’arte di Spagna sia un nome<br />

greco: Dominikos Theotokópoulos, denominato appunto “el Greco” da chi


accolse e diede onore e forma all’esule venuto, via Italia, dal paese natio in decadenza<br />

verso un paese, com’era allora la Spagna, in piena fortuna.<br />

Nato nel 1541, Dominikos Theotokópoulos ebbe una prima attività giovanile<br />

legata alla maniera degli eterni pittori bizantineggianti di casa sua, dai quali<br />

apprese forse il prestigioso modo d’impastare colori; portatosi a Venezia subì il<br />

fascino dei sommi cinquecentisti, specie del Tintoretto, cui era affine per sentimento<br />

drammatico della vita, per concezione drammatica dell’arte: i precedenti<br />

greci e veneziani non saranno mai dimenticati dal pittore, anche se sarà la Spagna<br />

a rivelarlo interamente a se stesso.<br />

Non è facile in poche righe racchiudere il senso dell’opera maggiore del Greco:<br />

soggetti religiosi e storici o mitologici, ritratti e persino paesaggi sono bruciati<br />

dal suo fuoco interiore e purificati in una suprema sintesi visionaria che<br />

raggiunge l’altezza lirica dei grandi mistici contemporanei san Giovanni della<br />

Croce e santa Teresa d’Avila e anticipa le più sconvolgenti avventure dell’arte<br />

moderna. Quello che salta subito all’occhio nella pittura del Greco è la distorsione<br />

delle figure e delle cose: c’è stato pure chi ha detto che con un buon paio<br />

d’occhiali il Greco avrebbe dipinto in un altro modo. È una sciocchezza che<br />

non merita di venir confutata. La deformazione irrealista, dai pittori cretesi<br />

a Simone Martini, dal Theotokópoulos a Modigliani, è un fatto che ricorre<br />

fatalmente a distanza di secoli, nella storia dell’arte; è una necessità dunque, più<br />

che legittima, se chi se n’è servito ha potuto raggiungere, come i sunnominati,<br />

risultati tanto straordinari.<br />

Provate a immaginare il mondo del Greco perfettamente a centro e vi crollerà tutta<br />

la poesia che lo sostiene, che lo rende così appassionante per noi. Allo stesso modo<br />

illimpidendo, rasserenando la sua tavolozza febbrile, che pare aver mischiato ai gialli<br />

ai verdi ai neri ai rosa agli argenti fiele lagrime e sangue (e un po’ di zolfo inferna-<br />

le) si toglierebbe l’altro elemento essenziale di quest’arte misteriosa e conturbante.<br />

Quello che vedete è un particolare del gran ritratto seduto di Frate Ortensio Felice<br />

Paravicino, predicatore alla corte di Filippo III, professore all’Università di Salamanca<br />

e poeta, ritratto che sta al Museo di Boston. È il volto d’un intellettuale,<br />

non sappiamo quanto naturalmente allungato e affilato o quanto deformato dalla<br />

fantasia del pittore. Il pennello vorticoso e divorante del Greco ha eliminato ogni<br />

particolare inutile per restituire l’essenziale, quella sorta di fiore notturno del<br />

volto (con i particolari meravigliosi degli occhi fissi e della bocca amara esprimenti<br />

l’ardore inquieto dell’anima) che affiora dal bruno della tonaca e dal fianco<br />

opalescente del gran colletto monacale cinquecentesco quasi per ammonirci e per<br />

comunicarci il suo messaggio di fede, dritto e affilato come una lama.<br />

Qui la pittura, con i suoi mezzi, gareggia con la drammaturgia: si pensa al Verdi<br />

Shakespeariano del Don Carlo, che ha evocato “la volta nera dell’Escurial” e la<br />

malinconia della Spagna cinquecentesca. E in tal modo si fa lode grande tanto al<br />

pittore quanto al musicista.<br />

ottobre 1961<br />

156 157<br />

i<br />

⎡ Ritratto di Johann Kleberger<br />

Albrecht Dürer<br />

Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie - Vienna ⎦<br />

Il primo grande nome della pittura tedesca, Albrecht Dürer,<br />

s’incontra abbastanza tardi, fra la fine del Quattro e il principio del Cinquecento,<br />

quando cioè il soffio rinnovatore dell’Umanesimo italiano comincia a farsi sentire<br />

per tutta l’Europa.


Si sa che il Nord, anche il Nord Italia, tradizionalmente naturalistico ed espressionistico,<br />

tenta di resistere al rigore di sintesi del Classicismo, rinato a Firenze con Brunelleschi,<br />

Donatello e Masaccio nei primi decenni del Quattrocento e poi affermatosi<br />

vittoriosamente, magari senza esser sempre capito per intero, un po’ ovunque.<br />

C’è chi addirittura non ne vuol sapere e continua a cullarsi nel sogno del gotico<br />

fiorito, possiamo fare pure due nomi italiani, quello del Pisanello e quello del Crivelli;<br />

c’è invece chi sente lo “shock” della nuova arte, e insieme della nuova concezione<br />

del mondo e della vita, e vuol<br />

Tante contraddizioni formano un’unità sapere, sentire, capire: primo tra tutti<br />

stringente e profonda, uno stile<br />

è Albrecht Dürer. Nato a Norimber-<br />

inconfondibile e duraturo: riflettono infatti ga nel 1471 (morirà nella sua città nel<br />

veramente la personalità tormentata 1528) Dürer si nutre dei succhi d’una<br />

e complessa dell’artista.<br />

cultura, quella appunto del Nord<br />

Europa, che è in un certo senso l’opposto<br />

della cultura italiana rinascimentale, dalla quale viene attratto invece perché<br />

è essa che, in quegli anni, significa progresso, avvenire.<br />

Da questa volontà di capire, e di dominare la natura Dürer sarebbe portato a smentire<br />

l’eredità del suo sangue di pittore nordico, con dietro tutta una tradizione di<br />

analisi minuta, persino cocciuta della realtà. Una tradizione che poteva vantare<br />

maestri non inferiori agli italiani, specie in terra fiamminga. Il dissidio non verrà<br />

mai sanato, nel pittore tedesco: ma è proprio questa condizione torturata e consapevole<br />

a fare l’originalità e la grandezza di Dürer.<br />

Egli compie viaggi in Italia, studia accanitamente questo o quell’artista, come a<br />

volergli rapire il segreto di una serenità, d’un’armonia che a lui sono negati. Ma<br />

non importa: il suo genio creativo continua (e guai se così non fosse) a nutrirsi<br />

dell’antico “humus” nordico, e non c’è una sola sua opera che non denunci<br />

158 159


inequivocabilmente la sua natura, appunto, nordica, tedesca. Il taglio delle sue<br />

Madonne può anche richiamare il Bellini, lo spazio dei suoi paesi addirittura Raffaello,<br />

ma poi una certa flava durezza nelle prime e azzurra asperità nei secondi<br />

parlano l’eterno, dolente, linguaggio germanico.<br />

Guardate il Ritratto di Johann Kleberger, dipinto da Dürer nel 1526 (due anni prima<br />

della morte) ed esposto alla Pinacoteca di Vienna: da una parte vorrebbe essere<br />

un medaglione romano (non manca neppure la scritta latina tutt’intorno al busto<br />

possente), dall’altra è un ritratto di contemporaneo, tutto vibrante d’una inquietudine<br />

che era tipica dei tempi e del paese di Dürer nell’età della Riforma. Per<br />

non dire dei quattro simboli che rompono così nordicamente la grigia severità<br />

della pietra (anch’essa romana) da cui balza fuori la bellissima testa: sono in basso<br />

lo stemma e il cimiero del Kleberger, in alto un segno zodiacale, forse sempre<br />

riferito alla persona effigiata, e la famosa firma AD (Albrecht Dürer) con la data<br />

in bel corsivo romano. Tante contraddizioni formano invece un’unità stringente<br />

e profonda, uno stile inconfondibile e duraturo: riflettono infatti veramente la<br />

personalità tormentata e complessa dell’artista.<br />

gennaio 1962<br />

i<br />

⎡ Il signore e la signora Brown di Trent Hall<br />

Thomas Gainsborough<br />

Collezione privata ⎦<br />

L’Inghilterra, che ha una grandissima letteratura, non può vantare<br />

né una musica né una pittura (e scultura) altrettanto grandi. Tuttavia dal Settecento<br />

a oggi l’isola ha dato alcuni pittori originali che non solo entrano degnamente nel<br />

panorama dell’arte occidentale moderna, ma svolgono nell’evoluzione delle forme<br />

figurative un ruolo di primo piano. Basti qui ricordare che Claude Monet ebbe<br />

l’avvio alla sua rivoluzione pittorica, segnata dal quadretto Impression (da cui nacque<br />

ufficialmente l’impressionismo), dai quadri di Turner visti a Londra.<br />

I primi nomi importanti della pittura inglese s’incontrano, abbiamo detto, nel<br />

Settecento, e sono contemporanei ai nomi dei primi romanzieri. Gli uni e gli<br />

altri hanno saputo fermare nelle loro opere la società del proprio tempo, questo<br />

è il primo merito che gli si deve riconoscere. Smollett, Richardson, Fielding,<br />

Goldsmith, Jane Austen hanno i loro paralleli in Reynolds, Stubbs, Raeburn,<br />

Gainsborough: negli uni e negli altri è lo specchio fedele, quasi impassibile, della<br />

gente che in quel secolo ha più contato in Inghilterra, dalla nobiltà alla borghesia. È<br />

necessario aggiungere che i pittori, lavorando quasi sempre su commissione, erano<br />

tenuti a un rispetto maggiore delle convenienze che non gli scrittori? Eppure, a<br />

saperli leggere, i ritratti singoli e di famiglia del Settecento inglese scoprono, della<br />

psicologia individuale dei personaggi dipinti, più di quanto non parrebbe.<br />

Intanto sta nascendo il gusto per la natura, quel gusto che darà i suoi frutti più ricchi<br />

e sorprendente nella pittura di Constable e di Turner, nella poesia di Coleridge e di<br />

Wordsworth. Ma sarà già il morire del secolo, nel vento impetuoso di una nuova era.<br />

Prendiamo dunque Thomas Gainsborough, tipico, paradigmatico artista dell’Inghilterra<br />

settecentesca, maestro insuperato di quel genere educato e gentile di<br />

ritrattistica che, rifacendosi alla grande maniera di Van Dyck, operoso con straordinaria<br />

fortuna più di un secolo addietro in Inghilterra, la traduce e come trascrive<br />

in termini minori ma sinceri e autentici. Guardate qui questo quadro, dipinto<br />

verso il 1756, intitolato Il signore e la signora Brown di Trent Hall. Essi, lo si capisce<br />

benissimo, sono andati a fare un giro in campagna nella loro proprietà, si sono<br />

portati la bambina e il cane e ora riposano e, nello stesso tempo, si atteggiano<br />

160 161


secondo le norme della naturalezza e del buon gusto, davanti al pittore. Sembrerebbe<br />

un tale tema privo di qualsiasi possibilità di vibrazione, per un artista. Non<br />

siamo più in secoli eroici, quando il ritrattato poteva pretendere di venire trasfigurato<br />

e idealizzato, non siamo ancora in tempi in cui, come accadrà nella seconda<br />

metà del secolo decimonono, le persone finiranno per essere stemperate nella luce<br />

alla stregua degli alberi, delle nuvole. Ma Gainsborough è proprio il pittore, e<br />

anche il poeta, di questo momento di transizione, in cui è possibile ancora ritrarre,<br />

nella loro quieta malinconia, degli individui immergendoli in una natura che è<br />

loro congeniale.<br />

Non è una pittura sublime questa, eppure vi è in essa una così delicata ma vera<br />

resa della realtà, un senso così struggente, anche se tenuto “in minore”, dell’ora<br />

irripetibile del giorno e di chi ne è come intriso e stupefatto, da poter stare vicino<br />

a quanto di più bello il secolo ha creato in questo senso, da Chardin al Canaletto.<br />

maggio 1962<br />

⎡ Il ponte di Willis Avenue<br />

Ben Shahn<br />

Museum of Modern Art (MoMA) - New York ⎦<br />

i<br />

Ben Shahn è il pittore, e l’illustratore (in senso buono), più<br />

rappresentativo del secondo tempo dell’arte americana. Nell’Ottocento, dopo i<br />

candidi ritrattisti anonimi dell’età romantica, dopo il solitario Ryder, e l’europeizzante<br />

Mary Cassatt, il primo artista veramente autonomo nato e operante negli<br />

Stati Uniti era stato, come abbiamo visto, Homer. Un parallelo, minore ma degno,<br />

del miglior Twain.<br />

Con il Novecento e l’industrializzazione rapida, impietosa del grande paese prima<br />

pionieristico, cacciatore e agricolo, la società e la realtà stessa si modificano profondamente:<br />

le acque s’intorbidano, i cieli si sporcano e le fisionomie induriscono.<br />

Lo scrittore più onesto e vero, anche se ingrato, di questa età è Dreiser, l’autore di<br />

Una tragedia americana. Ma i più straordinari interpreti del primo Novecento americano<br />

si esprimono con un mezzo del tutto nuovo, il cinema: facciamo subito i<br />

nomi di Griffith e di Chaplin. La durezza di vita e insieme la resistenza dell’amore<br />

e della speranza nelle città degli Stati Uniti non hanno trovato un poeta più assoluto<br />

dell’autore del Monello, nel ventennio che apre il nostro secolo. Il pittore lo<br />

troveranno soltanto dopo il ’30, in un altro immigrato come Chaplin, Ben Shahn,<br />

nato in Russia e portato laggiù, bambino.<br />

Un americano al cento per cento dunque, anche se nato nella vecchia Europa, per<br />

quanto il fulgore, quasi da icone, di certe tinte shanhiane possa ricollegarsi all’eterna<br />

tradizione postbizantina dell’arte religiosa russa.<br />

Ma Ben Shahn che si forma e ha il suo momento creativo primo e più intenso fra il<br />

finire degli anni Venti e gli anni Trenta, cioè fra proibizionismo, crisi economica<br />

e New Deal roosveltiano, è traumatizzato (positivamente) e ispirato a fondo dalla<br />

realtà che lo circonda e che trova in lui testimone a un tempo candido come un<br />

miniatore medioevale e amaro come un agitatore sindacale.<br />

Consapevole, esperto di maniere artistiche contemporanee, ben raramente, o<br />

malamente, volte ai fatti della vita sociale e politica, Ben Shahn, con una spregiudicatezza<br />

che ricorda Bertold Brecht, capace di usare i trovati dell’avanguardia<br />

letteraria ai fini della propaganda, piega magari le prospettive del surrealismo e<br />

l’arabesco di Klee per commemorare pateticamente Sacco e Vanzetti e accusare<br />

i loro falsi testimoni e ipocriti giudici. In questa direzione (sono gli anni della<br />

miglior narrativa sociale americana, gli anni di Furore di Steinbeck) il nostro atti-<br />

162 163


vista dipinge quadri e muri, disegna manifesti, illustra libri, senza mai scadere a<br />

decorativo. È un decennio stupendo di operosità, del quale vi diamo una delle cose<br />

più belle, la pittura intitolata Il ponte di Willis Avenue. Non è proprio un quadro<br />

di denuncia precisa, storica, è un pezzo di realtà che in mano a un altro avrebbe<br />

potuto diventare un piacevole, anche poetico, paesaggio con figure. Ma Shahn vi<br />

è se stesso come non mai: soltanto la terribile città americana può lasciare relitti<br />

angosciosi quali le due vecchie ancorarsi a così angoscioso porto, una panchina<br />

verde contro le travature metalliche d’un ponte. È una pittura che dice qualcosa<br />

con le parole di tutti i giorni, ma dopo averle pietrificate per sempre, al sicuro<br />

dalla caricatura e dal sentimentalismo. A cento anni da Daumier, l’americano Ben<br />

Shahn ha saputo ritrovare la difficile strada della pittura impegnata e libera. A tal<br />

punto libero da ottenere dei rossi degni di Bisanzio dal minio antiruggine d’una<br />

struttura di ferro.<br />

luglio 1962<br />

⎡ La zingara che dorme<br />

Henri Rousseau<br />

Museum of Modern Art (MoMA) - New York ⎦<br />

i<br />

Diciamo subito che il termine “pittore della domenica” è<br />

improprio, se applicato ad artisti come Henri Rousseau e gli altri, dei quali parleremo<br />

in questa breve serie. La locuzione, piuttosto espressiva, viene dal francese<br />

e tende a qualificare quei signori che, lavorando tutta la settimana in una professione<br />

seria, si divertono la domenica con tele e pennelli. Per la più parte di queste<br />

oneste persone il dipingere sarebbe dunque nient’altro che un hobby. Ma tale<br />

poteva chiamarsi per Henri Rousseau (1844-1910), anche se il suo scopritore e<br />

primo critico, il poeta Apollinaire, lo conobbe che stentava la vita come un impiegatucolo<br />

del dazio parigino? (da cui il soprannome pittoresco di “Doganiere”).<br />

Il nostro omino, oltre che dipingere, scriveva commedie e componeva valzer,<br />

caduti oggi nel più completo, e giusto, oblio. Mentre i suoi quadri stanno al<br />

Louvre e nelle più famose collezioni private del mondo, e ce ne fossero in giro,<br />

arriverebbero ai prezzi altissimi dei grandi impressionisti e dei pochi antichi che<br />

costano come gli impressionisti.<br />

Non è facile in poche righe (e forse neppure lo sarebbe in molte) spiegare il<br />

mistero Rousseau: in tutto e per tutto piccolo travetto leggermente svitato, meno<br />

che in pittura dove si dimostra sempre inventore poeticissimo, dal punto di vista<br />

diciamo, del contenuto, ed esecutore impareggiabile, da quello della forma. Pur<br />

restando, e sta qui l’enigma, quasi puerile nella scelta dei soggetti (basti qualche<br />

titolo, Il poeta e la sua Musa, Il gioco del pallone, L’incantatrice di serpenti) e quasi goffo<br />

nella composizione e nel disegno. Insomma, in un certo senso Rousseau è davvero<br />

un pittore della domenica, in un altro è il pittore più straordinario dei tempi<br />

moderni, l’unico che non si sia accontentato di guardare e riprodurre quanto i suoi<br />

occhi avevano veduto, ma abbia saputo inventare, creare, come facevano i maestri<br />

del Medioevo. Ai quali appunto egli va accostato, per il candore e la freschezza con<br />

cui sa unificare in unica, visionaria maniera, le giungle, da lui viste tutt’al più nelle<br />

illustrazioni dei romanzi d’avventura, e i calessi di Pére Juniet, le allegorie della<br />

guerra e le passeggiate dei borghesi nei viali del parco di Saint Cloud.<br />

È probabile che Apollinaire e Picasso e gli altri che per primi lanciarono il vecchio<br />

impiegatucolo si siano, in un primo tempo, divertiti, e magari un po’ commossi,<br />

con le sue goffe favole dipinte, spinti anche dal gusto polemico di scandalizzare gli<br />

ambienti ufficiali delle accademie e delle riviste perbene.<br />

164 165


Ma ormai sono passati troppi anni perché il gioco, se tale fosse, possa reggere.<br />

I quadri del Doganiere Rousseau non soltanto hanno resistito, ma fuori dall’aneddoto<br />

e dal mito splendono oggi più meravigliosi che mai, per virtù propria.<br />

Quello che vi proponiamo è uno dei più sorprendenti dei suoi quadri, La zingara<br />

che dorme (1897), che sta al Museo dell’Arte Moderna di New York: uno di quei<br />

soggetti in cui esotismo da quattro soldi, deserto luna leone, e oggetti domestici,<br />

mandolino brocchetta, si armonizzano arcanamente in una sorta di sogno silente<br />

dai colori incredibili eppure giusti come nel più raffinato dei pittori tonali. Avete<br />

visto che sul disco della luna è abbozzato un volto, come nelle lune dipinte dai<br />

bambini? Basterebbe questo a qualificare Rousseau per sempre, se la logica contasse<br />

qualcosa nell’arte. Sì, era un impiegatucolo un tantino svitato, che suonava<br />

male il violino, il Doganiere, e dipingeva la faccia alla luna. Eppure era un gran<br />

pittore, uno di quei grandi pittori che sono anche grandi poeti, sempre più rari,<br />

con i tempi che corrono.<br />

agosto 1962<br />

i<br />

⎡ Festa della Liberazione<br />

André Bauchant<br />

Centre Pompidou - Parigi ⎦<br />

Anche il secondo, dei “non professionisti”, di cui dobbiamo<br />

parlare, è francese. Si chiama André Bauchant, è nato nel 1871 e morto,<br />

vecchissimo, nel 1959: aveva dunque circa trent’anni verso il 1900, quando il<br />

primo, grande, ancora insuperato degli “ingenui”, Henri Rousseau, veniva scoperto<br />

e rivelato da Apollinaire, prima a una cerchia ristretta, poi, poco a poco,<br />

al grande pubblico che bene o male si interessa dell’arte. Ma non si può parlare<br />

di una qualche contemporaneità di lavoro dei due pittori, infatti Bauchant non<br />

si mette a dipingere che dopo la prima guerra mondiale, a quarantasei anni<br />

suonati.<br />

È possibile pensare che il doganiere non c’entri per nulla nella decisione presa dal<br />

giardiniere, frutticultore, erborista Bauchant? Non è facile mai scoprire i giochi<br />

delle influenze, quando non siano in qualche modo dichiarate, nelle opere degli<br />

artisti. E si sa che certe cose girano, entrano in circolo, agiscono misteriosamente<br />

in noi, anche senza che ce ne accorgiamo.<br />

Vissuto sempre in campagna, Bauchant, a differenza di Rousseau che vi si affacciò<br />

qualche volta dalla cinta daziaria di Parigi, magari in occasione di un matrimonio,<br />

dovrebbe essere molto più pittore naturale del grande confratello. Eppure, se si<br />

tolgono alcuni bei paesaggi e vasi di fiori, tutta la pittura che conta di Bauchant è<br />

tutt’altro che naturale, nel senso che la parola ha dagli impressionisti a questa parte.<br />

È anzi una pittura occulta, o meglio nutrita di cultura, anzi di libri di cultura varia<br />

e un po’ singolare, da biblioteca di persona che sta in campagna e non bada molto<br />

ad aggiornarsi. Dobbiamo dirvi qualche titolo indicativo? Eccoveli: Omero incoronato,<br />

La partenza di Giovanna d’Arco, Laura e Petrarca.<br />

Ma come ha affrontato questi soggetti, che in mano a qualsiasi pittore di mestiere<br />

diventerebbero impossibili, addirittura orripilanti?<br />

È qui che Bauchant dimostra di appartenere alla famiglia di Rousseau: egli infatti<br />

riesce a credere al “soggetto”, quindi a figurare, mettiamo, Omero come un buon<br />

vecchio barbuto, sulla testa del quale muse alate vanno agitando palme e ghirlande.<br />

Accettato questo, la sua mano non sapiente, piuttosto goffa, di dilettante,<br />

riesce a rendere tutto credibile, un po’ come riusciva ai piccoli pittori medioevali<br />

nelle loro predelle candide e lucenti.<br />

166 167


Assuntosi qualche volta l’impegno di celebrare un fatto contemporaneo, come<br />

accadde nel 1945, quando dipinse la Festa della Liberazione, che vi presentiamo,<br />

Bauchant riuscì a rendere mitico, favoloso, l’avvenimento da lui visto, ma da lui<br />

anche trasfigurato in una sorta di sogno assurdo e incantevole. Guardate: le montagne,<br />

gli alberi, le villette, le tende del circo, le bandierine, per quanto riportati<br />

sulla tela con quel suo tremulo pennello, corrispondono probabilmente alla realtà<br />

che egli ebbe sotto gli occhi, mentre la gente, la buona gente allegra e un po’ tonta<br />

della kermesse patriottica, è tutta ripensata, ed è proprio il caso di dirlo, rivestita,<br />

dalla fantasia del pittore. Per Bauchant, anche più che per Rousseau, è difficile<br />

trovare la chiave del mistero artistico. Si rasenta sempre l’errore, l’infantilismo e<br />

forse il trucco, ma si resta sempre incantati, molto di più che di fronte a qualsiasi<br />

altra pittura dei nostri tempi. Non ci rimane dunque che accettare e ringraziare.<br />

novembre 1962<br />

⎡ Donna che scrive una lettera<br />

alla presenza della domestica<br />

Jan Vermeer<br />

National Gallery of Ireland - Dublino ⎦<br />

i<br />

Come è possibile trovare dei passaggi, e ritagliarli mentalmente,<br />

in tanta pittura antica a tutt’altro volta che a descrivere la natura, così si<br />

possono scoprire, seppure in minor misura, interni in opere d’arte di vario soggetto,<br />

comunque ben lontane da una cosciente intenzione di poesia domestica. I<br />

più begli interni involontari, e i più cari, che si possano vedere prima del Seicento,<br />

l’età borghese in cui nasce il lirismo borghese che porta alla pittura appunto d’in-<br />

terno, sono scopribili nelle Nascite della Vergine. In esse, e giustamente, la tradizione<br />

permette al pittore d’ispirarsi alla vita quotidiana: e il pittore ne approfitta<br />

con gioia, ambientando il lieto evento sempre in stanze mobiliate, rallegrate da<br />

fuochi presso cui le parenti e le serve si danno da fare per aver acqua calda, salviette<br />

asciutte. Si potrebbero citare molti esempi di questa vena familiare della pittura<br />

sacra, ma basterà ricordarne uno molto antico, sublime: quello di Pietro Cavallini<br />

nella serie di mosaici che stanno in Santa Maria in Trastevere, in Roma.<br />

Abbiamo voluto iniziare questa breve serie dedicata all’intimità della casa con il<br />

primo e il più grande pittore di questo genere, Vermeer. Ci siamo già occupati di<br />

lui dando un breve profilo della pittura olandese, ripeteremo quindi soltanto i dati<br />

essenziali che lo riguardano. Nato nel 1632, a Delft, e morto nel 1675, il pittore<br />

ha avuto una vita calma, tutta dedicata al lavoro, raro ma intensissimo. Apprezzato<br />

dai contemporanei, quasi dimenticato durante il tempo della prima posterità,<br />

viene riscoperto nella seconda metà dell’Ottocento, quando gli impressionisti<br />

rieducano l’occhio della gente ad assaporare insieme il valore profondo delle cose<br />

umili e la qualità della materia pittorica presa nell’incantesimo della luce vera. Ed<br />

è singolare che questo poeta delle ore quiete, eterne, fluenti nella vita dei giorni<br />

comuni abbia preso il suo avvio dal grande poeta tragico, dei momenti supremi e<br />

irripetibili, Michelangelo da Caravaggio.<br />

Quasi tutta la pittura di Vermeer è pittura di interni: sia che egli ritragga la serva<br />

che versa il latte o la signora che pesa l’oro, o la cucitrice in bianco, o la damigella<br />

alla spinetta, o il pittore nello studio. Quella che vi presentiamo oggi è ancora una<br />

signora, ma nell’atto di scrivere una lettera, mentre la sua serva l’aspetta, forse per<br />

portarla, la lettera in via di essere scritta, al destinatario. La cosa più straordinaria<br />

di questo quadro non è tanto la resa della stanza, intrisa del consueto miele di<br />

luce filtrata dai vetri, di altri meravigliosi interni del pittore olandese. Una luce<br />

168 169


che modella le braccia e le maniche della scrivente, accarezza il lustro pavimento<br />

a quadri, lambisce la tenda quasi umettandola… Di simili prove di poesia pittorica,<br />

più precisamente luministica, Vermeer ne ha date sempre, e anche con più<br />

prestigiosa bravura. Qui quello che prende di più è il senso del tempo che scorre e<br />

che è stato ottenuto dal pittore, misteriosamente eppure in maniera estremamente<br />

piana e semplice, stabilendo il rapporto spaziale fra la figura seduta, reclinata,<br />

intenta, gremita di sentimento della signora che scrive e quella della donna in piedi<br />

che aspetta, di un’immobilità geometrica, cristallina, svuotata in un certo senso<br />

d’ogni possibilità di pensiero personale. In questo intervallo di spazio i minuti<br />

scorrono come in una clessidra. Il vero protagonista del quadro è il tempo: non a<br />

caso l’uomo che al tempo ha dedicata l’opera più grande, Marcel Proust, poneva<br />

Vermeer al di sopra di tutti pittori.<br />

dicembre 1962<br />

i<br />

⎡ La lampada a petrolio<br />

Pierre Bonnard<br />

Fitzwilliam Museum - Cambridge University, Cambridge ⎦<br />

Bisogna arrivare a un altro grande periodo della civiltà borghese,<br />

la fine dell’Ottocento, per trovare un pittore d’interni, Bonnard, degno del<br />

grande Vermeer.<br />

È vero che i tempi sono cambiati, che la classe nata dalla decadenza della nobiltà<br />

non è più in giovanile ascesa ma in lento, eppure dolce, declino: ciò non toglie<br />

che un filo sottilissimo e tuttavia intatto leghi i due pittori e apparenti in maniera<br />

inequivoca la poesia dei loro quadri.<br />

La borghesia non è più la ristretta e pugnace classe mercantile del Seicento olandese,<br />

è una classe, ormai, per così dire, senza classe. Infatti ha vinto, si è allargata<br />

all’infinito, conglobando un po’ tutto, lasciandosi soltanto ai margini la marea<br />

ancora trattenuta ma ribollente del proletariato e, al capo opposto, il rivoletto perdentesi<br />

nel puro formalismo della nobiltà. Pure l’arte, attraverso il travaglio di più<br />

di due secoli pieni di genio e di inquietudini, ha subito un’evoluzione straordinaria.<br />

Ma siamo sempre lì, in Bonnard, siamo sempre nell’ordine di un’idea della vita<br />

che al suo centro ha la casa, la famiglia, di un’idea dell’arte che rispetta le cose e il<br />

loro ordine. Non durerà a lungo, fra qualche anno Picasso e Braque cominceranno<br />

a scomporre, a deformare: e sarà uno dei segni, non il meno importante, della fine,<br />

anche, della borghesia.<br />

Il quadro che vi presentiamo s’intitola La lampada a petrolio ed è stato dipinto da<br />

Pierre Bonnard nel 1898. Il pittore, nato nel 1867 e morto nel 1947, era nel pieno<br />

del suo primo periodo di attività, quello in cui è più vicino agli impressionisti.<br />

Più tardi la tavolozza gli si schiarirà e alleggerirà, senza per questo perdere di<br />

nervo, forse per un accostamento all’alta decorazione del suo coetaneo Matisse.<br />

Qui il suo pennello è ricco e intride di una materia calda e tangibile la tela,<br />

tutta da godere, verrebbe voglia di dire, da mangiare, con gli occhi. Si tratta, lo<br />

vedete bene, di una scena domestica notturna. I muri della stanza sono impastati<br />

insieme, s’immagina più che non si distingua perfettamente, di carta da parati e<br />

di prima oscurità, che la luce della lampada rode ma non vince: in primo piano<br />

invece, dove la lettrice sta intenta sul libro aperto in mezzo al tavolo, arde e<br />

ronza in pieno la vera protagonista, la lampada, tutto dorando e avvampando nel<br />

suo quieto, meraviglioso filare.<br />

Anche in questa tela, come nel Vermeer, il tempo è percepibile ed è il segreto della<br />

poesia pittorica: è il sentimento del suo fluire, misteriosamente ottenuto dall’arti-<br />

170 171


sta, a far sì che un soggetto di per sé banale venga sublimato a una significazione<br />

che ci tocca tutti.<br />

“…perché si può estrarre della bellezza da tutto…”, scriveva Bonnard in questi<br />

anni: e lo dimostrava all’altra estremità dell’Europa, con lo stesso senso di chiusura<br />

un po’ egoista ma patetica della classe borghese declinante quell’altro grande poeta<br />

del morire del secolo che è Anton Čechov.<br />

febbraio 1963<br />

i<br />

⎡ La battaglia di Isso<br />

Albrecht Altdorfer<br />

Alte Pinakothek - Monaco ⎦<br />

Il paesaggio, che nei primi tempi della pittura non è mai autonomo<br />

ma fa da scenario al dramma, o al racconto, quasi sempre sacri, che si svolgono<br />

in primo piano, vuole, per la maggior parte dei casi, dare a chi lo guardi il senso di<br />

trovarsi di fronte alla natura quale è.<br />

Ma vi sono, e vi sono sempre stati, degli artisti che hanno cercato, non di rappresentare<br />

ma di inventare, sia pure partendo dal vero e sottoponendolo a un’operazione<br />

trasfiguratrice simile a quella che avviene in noi incoscientemente quando dormiamo,<br />

più esattamente quando sogniamo.<br />

C’è tutta una linea di paesaggisti fantastici, più ricca nei paesi nordici che da noi,<br />

anche se da noi è nato un anticipatore del genere straordinario e cosciente: Leonardo<br />

da Vinci.<br />

Il primo pittore di questa maniera singolare che si ritrova, più o meno scoperta<br />

e apprezzata, in tutti i periodi dell’arte e che fiorisce, ormai scatenata e un<br />

172 173


po’ mostruosa, nella nostra epoca, con la scuola surrealista, è il tedesco Albrecht<br />

Altdorfer. Nato circa nel 1480 e morto nel 1538, Altdorfer è uno di quegli artisti<br />

nordici che hanno vissuto l’esperienza rinascimentale in maniera riflessa e stravolta:<br />

il suo accanimento descrittivo lo porta lontano dalla realtà che, secondo<br />

l’insegnamento degli antichi, gli italiani, da Masaccio e Donatello in poi, avevano<br />

saputo conquistare. In lui, in un certo senso, il fantastico nasce da un eccesso di<br />

fedeltà alla natura, o meglio da un equivoco, dalla illusione cioè di poter abbracciare<br />

la natura intera e intera rappresen-<br />

Proprio perché “fatto tutto della sostanza tarla. Con più consapevolezza tali fini<br />

dei sogni” per dirla con Shakespeare, se li propone anche il primo Roman-<br />

il paesaggio di Altdorfer ci piace,<br />

ticismo, non per nulla nato nel paese<br />

ci incanta.<br />

d’origine del pittore, la Germania.<br />

Il quadro che vi facciamo vedere, e<br />

che sta alla Alte Pinakothek di Monaco, si intitola La battaglia di Alessandro. Un<br />

quadro storico dunque? Nelle intenzioni forse, ma nei risultati, anche per il gioco<br />

di simbologie (la lotta del sole che si libera dalle nuvole significa la lotta di Alessandro<br />

contro il nemico, mentre il paesaggio infinito allude alle conquiste immense<br />

del re), del tutto fantastico e, perché no, surrealista.<br />

Proprio perché “fatto tutto della sostanza dei sogni” per dirla con Shakespeare,<br />

il paesaggio di Altdorfer ci piace, ci incanta, mentre i paesaggi di Canaletto e di<br />

Monet, insomma dei paesisti naturali, ci incantano perché sono fatti della sostanza<br />

della realtà.<br />

i<br />

marzo 1963<br />

⎡ Cimitero Ebraico<br />

Jacob van Ruisdael<br />

Detroit Institute of Arts - Detroit ⎦<br />

A distanza di circa un secolo dall’Altdorfer, è ancora un pittore<br />

del nord, Jacob van Ruisdael (1628-1682) a darci dei paesaggi che han l’aria più<br />

d’esser stati captati da un sogno che presi dalla realtà di tutti i giorni. Ruisdael non<br />

è sempre fantastico come nel quadro che vi mostriamo: olandese, appartiene al più<br />

grande momento dell’arte del suo paese, un momento, si sa, realistico, sia pure in<br />

un’accezione altissima, con possibilità di sublimazione del mondo visibile, supreme.<br />

Ruisdael è soprattutto, quasi con monotonia, paesista, e nella resa della natura<br />

olandese, con le sue terre basse e i suoi orizzonti infiniti, mossi da nuvole errabonde,<br />

non ha rivali. Quando nell’epoca romantica, tra la fine del Sette e i primi<br />

dell’Ottocento, pittori come Constable e Turner avidamente si rivolgono ad acque<br />

e cieli e selve, in gara coi poeti Wordsworth e Coleridge, non possono non tener<br />

conto di chi aveva aperto loro, tanti anni prima, la strada, di Ruisdael soprattutto.<br />

Che anticipa non soltanto l’elegia dei grandi spazi aperti, ma l’invenzione dei paesaggi<br />

drammatici, con rovine gotiche e una vaga aria di fantasmi nelle immediate<br />

vicinanze se non proprio in scena.<br />

Perché proprio di scenografia, ma poetica e autosufficiente, non funzionale in<br />

rapporto al teatro, viene di parlare, davanti a certe pitture del maestro olandese.<br />

A questo Cimitero ebraico, per esempio, che sta in America, al Detroit Institute of<br />

Arts: un capolavoro di coerenza, pur nel suo accostamento tutt’altro che logico di<br />

castello smozzicato, avelli ebraici, alberi folgorati e squassati dal vento, arcobaleno.<br />

Elementi che, alcuni disegni preparatori lo attestano senza equivoci, Ruisdael<br />

ha tratto dalla realtà, ma di diversi luoghi, e che qui ha unificato in una visione<br />

174 175


di straordinaria suggestione lirico-drammatica, memore ancora della grandezza<br />

d’impianto del paesaggio ideale che Rubens aveva mutuato dai veneziani rinverginandolo<br />

sul vero della propria terra, e rorido già degli umori romantici di là da<br />

venire.<br />

aprile 1963<br />

⎡ L’isola dei morti<br />

Arnold Böcklin<br />

Metropolitan Museum of Art - New York ⎦<br />

i<br />

Anche se l’area, diciamo, mediterranea non manca di artisti<br />

visionari, è l’Europa del Nord che, in ogni secolo, ne ha dati di più. Merito (o<br />

colpa) del clima che, con le sue lunghe nebbie, favorirebbe in letteratura le storie<br />

di spettri, in pittura i paesaggi di fantasia: così la pensava qualche allegro critico<br />

positivista, e non è detto che avesse del tutto torto.<br />

Il pittore che oggi vi presentiamo, Arnold Böcklin è uno svizzero, formatosi<br />

nell’ambiente tedesco, ma vissuto a lungo in Italia, più precisamente in Toscana,<br />

come deve sapere chi conosca la Versilia, e più precisamente Forte dei Marmi,<br />

dove una bella casetta bianca che ospitò l’autore dell’Isola dei morti, lo ricorda con<br />

una lapide al distratto bagnante. Nato nel 1827 e morto nel 1901, Böcklin appartiene<br />

alla cultura del Naturalismo e del Verismo, anche se è nato a Romanticismo<br />

trionfante (e già declinante), ma si oppone al proprio tempo, e in questo è un po’<br />

un fratello minore di Richard Wagner. Entrambi prolungano il sogno romantico,<br />

entrambi lo mischiano di fermenti nuovi, naturalistici appunto e decadenti, giungendo<br />

a risultati nuovi, impuri ma ricchi e, alla fine, coerenti e legittimi.<br />

Böcklin si oppone, s’è detto, al proprio tempo, rifiutando di copiare il vero, e si<br />

sottrae alla natura che lo circonda per gran parte della sua vita, velando di brume<br />

fantastiche la luce italiana.<br />

Mistero, morte, senso dell’infinito sono componenti perenni del suo spirito e la<br />

sua creazione artistica ne è sempre dominata, anche se egli si volga, per ispirazione,<br />

al paesaggio mediterraneo e alla mitologia greca.<br />

Il quadro che vi mostriamo, e che sta al Metropolitan Museum di New York, è<br />

uno dei più famosi di Böcklin, e s’intitola L’isola dei morti. Molto liberamente l’idea<br />

della strana composizione venne suggerita al pittore dall’isola di San Michele,<br />

nella laguna veneziana: ma non fu che una suggestione, e resterebbe assai deluso<br />

chi volesse ritrovare, con una gitarella in motoscafo, questo singolare scenario.<br />

Abbiamo nominato Wagner, c’è venuta alla penna la parola scenario: indubbiamente<br />

Böcklin è una sorta di grandissimo scenografo per opere che non furono<br />

mai scritte, ma che avrebbero potuto esserlo soltanto dall’autore del Vascello fantasma<br />

e del Parsifal. Pittore letterario, dunque, Böcklin? In un certo senso sì, ma<br />

pure pittore vero, capace di sostanziare la propria complessa visione, certo gonfia<br />

di umori culturali, in un colore ricco, stupendo se pure tutto accordato su una<br />

gamma grave e profonda. Le due monumentali quinte di roccia e architettura<br />

misteriosamente compenetrantesi, il folto di cipressi, la barca silente col suo spettrale<br />

ospite, l’acqua immobile non restano invenzione, o peggio, trovata della<br />

mente, ma vivono perché vibrano in un accordo insolito di colore e di luce-ombra.<br />

176 177<br />

i


maggio 1963<br />

⎡ Costa Classica<br />

Paul Klee<br />

Nationalgalerie, Museum Berggrün, Staatliche Museen - Berlino ⎦<br />

Nel nostro secolo di paesaggi captati al sogno, o comunque<br />

all’io interiore, più che ripresi dalla natura, ce ne ha dati anche troppi, la pittura.<br />

I metafisici, i surrealisti non hanno saputo fare quasi altro, mentre i cubisti e i<br />

futuristi alla natura hanno guardato, ma per poi scomporla e torturarla, sino a<br />

renderla quasi irriconoscibile. Se mai la rarità sono i paesaggi veri e propri, di<br />

lettura agevole, e tuttavia non anacronistici: benedetti naturalmente, ci vengano<br />

da Bonnard o da Utrillo, da De Pisis o Carrà o Morandi, da Soutine o Kokoschka.<br />

Per mostrarvi un paesaggio vera-<br />

Klee è andato più in là nel rapire<br />

mente singolare, lontano dalle noiose<br />

il suo tempo effimero, per restituircelo formule dei professionisti dell’irre-<br />

sulla tela divenuto geometria e musica.<br />

alismo, degno come invenzione dei<br />

maestri sin qui illustrati, siamo ricorsi<br />

a un pittore dei più straordinari del Novecento, e di tutta la storia dell’arte: Paul<br />

Klee. Un nordico, ancora una volta, e una personalità estremamente ricca e complessa,<br />

alla cui lucida mente risale in gran parte il merito, o la responsabilità dell’architettura<br />

funzionale e dell’astrattismo: un nordico, dicevamo, che non si dimentica<br />

mai di esserlo, tanto meno quando scende, ed accade molto spesso, alle rive<br />

del Mediterraneo.<br />

Per essere precisi, Klee si trovava in Sicilia quando dipinse questa Costa classica,<br />

dalle parti di Ragusa. Il terreno in Germania cominciava a scottargli, la Bauhaus<br />

che lo aveva fra i suoi docenti era già stata fatta segno di attacchi dai nazisti, alla<br />

vigilia d’impadronirsi del potere. Sulle rive del mare siciliano il pittore ritrovava<br />

178 179


una calma, una possibilità di meditazione poetica meravigliosa. E questo paesaggio<br />

è uno dei frutti più belli: avvicinato, per il gioco delle sue linee orizzontali,<br />

a “una partitura” e detto, “per l’accordo ampio dell’insieme, per il respiro che vi<br />

alita, più una sinfonia che un quadro”, in effetti ha di comune con la musica la<br />

capacità di dare per astrazione la natura, conservandone la luce e la vibrazione<br />

profonda. Mare, roccia, brevi spiagge, dadi di case e macchie di ulivi splendono<br />

nel sole meridiano. “Midi le juste y compose de feux – La mer, la mer toujours<br />

recommencée”, ha scritto sul Mediterraneo Paul Valéry: “Meriggio il giusto vi<br />

compone il mare – Di fuochi, il mare che si crea e ricrea”. E Klee è andato anche<br />

più in là nel rapire il suo tempo effimero per restituircelo sulla tela divenuto geometria,<br />

musica appunto. Chi altri, nella nostra epoca, ha saputo darci paesaggi<br />

altrettanto veri e fantastici come questo?<br />

180


John Constable<br />

Gustave Courbet<br />

Pierre-Auguste Renoir<br />

Georges Seurat<br />

André Derain<br />

gli “ismi”<br />

dell’arte moderna<br />

August Macke<br />

Umberto Boccioni<br />

Salvador Dalì<br />

Vasilij Kandinskij<br />

Winslow Homer<br />

Jackson Pollock<br />

Georges Braque<br />

Joseph Wright of Derby<br />

Claude Monet<br />

Henri Rousseau<br />

Francis Picabia<br />

Max Ernst<br />

Fernand Léger<br />

Mario Sironi<br />

Claes Oldenburg


aprile 1960<br />

⎡ Cattedrale di Salisbury dal giardino del vescovado<br />

John Constable<br />

Victoria & Albert Museum - Londra ⎦<br />

Cominciamo dal Romanticismo, che è il primo movimento<br />

spirituale, con profondi riflessi in tutte le arti, dell’età moderna, età moderna che<br />

nasce con lui, da lui. Si può dire, anzi, che prima del Romanticismo le scuole artistiche<br />

non sono mai state del tutto consapevoli di quanto andavano portando di<br />

nuovo, anche se, per virtù di personalità d’eccezione, mettiamo un Masaccio, un<br />

Caravaggio, in breve tempo trasformavano il volto stesso della bellezza.<br />

Il Romanticismo, si sa, è legato al profondo rinnovamento di pensiero che si<br />

determina in Europa nella seconda metà del Settecento, e che ha le giustificazioni<br />

teoriche più alte nell’opera di alcuni grandi filosofi tedeschi, suscitatori e interpreti<br />

di un moto di liberazione dell’individualità umana che ancor oggi agisce<br />

nella vita di tutti noi. Ma non è qui il momento di spiegare diffusamente che<br />

cosa sia il Romanticismo, ci basterà illustrarlo nelle arti figurative, per essere più<br />

precisi, nella pittura. Va subito detto, e questo vale anche per tutti gli altri aspetti<br />

del movimento in questione, che quell’aspirazione a liberamente sentire e liberamente<br />

esprimere la commozione che si prova di fronte all’universo, è un’esigenza<br />

eterna dell’umanità. Così non è difficile trovare spunti romantici molto addietro,<br />

persino nel mondo classico, che dovrebbe esserne, a rigore, del tutto privo. Resta<br />

tuttavia che, soltanto sulla fine del secolo diciottesimo e all’inizio del decimonono,<br />

alcuni artisti hanno saputo, hanno voluto rompere con tutti gli schemi tradizionali,<br />

ponendosi in contatto diretto con la natura, cercando di lasciarsi penetrare<br />

da essa per potere poi restituire la sua essenza con la maggior verità possibile. Per<br />

la prima volta essi hanno avuto coscienza di poter effondere la piena dei propri<br />

183


Il segreto di Constable sta proprio nell’umiltà, nella capacità<br />

di vedere la rugiada sulle foglie, la luce sull’acqua e sulle pietre,<br />

e di sentirle come proiezioni del proprio affetto per l’universo.<br />

sentimenti in maniera totale, senza doverla arginare entro limiti di contenuto e di<br />

forma. Oggi a noi è evidente che quei limiti da essi così entusiasticamente superati,<br />

non solo non furono dannosi, ma probabilmente utili agli artisti venuti prima,<br />

che seppero essere tanto più vittoriosamente se stessi, quanto più umilmente si<br />

adattarono superandoli, a quei limiti.<br />

L’importante però è che i romantici sentissero, e riuscissero a portare a termine,<br />

l’impresa sentita con tanta necessità. Il guaio venne quando i seguaci, gli imitatori<br />

inerti, credendo di spezzare a loro volta delle catene, non fecero che adottarne<br />

delle altre.<br />

Abbiamo voluto dare, come esempio di pittura romantica, il quadro di un inglese,<br />

John Constable (1776-1837): innanzitutto perché è un grande pittore, poi perché<br />

nelle varie serie pubblicate fino a oggi, la pittura inglese, certamente molto meno<br />

ricca della nostra e di altre europee, ma non priva di personalità affascinanti, meritava<br />

di fare almeno una comparsa.<br />

I francesi con Delacroix, per esempio, hanno un artista che del Romanticismo<br />

dà un’idea forse più suggestiva e forte, ma anche, qualche volta, minata da vizi<br />

che invece il pittore inglese non sfiora neppure, come la retorica. Constable ha<br />

dipinto questa Cattedrale di Salisbury dal giardino del vescovado nel 1823 in piena primavera<br />

romantica. È evidente nel quadro l’amore per la natura, immenso, trepido<br />

come nel contemporaneo Leopardi, in un certo Beethoven (La pastorale): contro<br />

il grande cielo percorso da nuvole in transito si distende la cattedrale gotica (i<br />

romantici riscoprirono il gotico e persino ne abusarono, alla fine) mentre verso<br />

di noi si proiettano prato e viali, animali e uomini nell’umida tenerezza dell’ora<br />

assunta a simbolo quanto mai aperto e toccante dell’anima del pittore.<br />

“Con umile cuore” Constable, sono parole sue, camminò instancabile per sentieri<br />

e campi e giardini d’Inghilterra, rispondendo con tutto il suo animo a tutto<br />

184 185


quanto si presentava al suo occhio appassionato e tranquillo. Il segreto sta proprio<br />

nell’umiltà, nella capacità di vedere la rugiada sulle foglie, la luce sull’acqua e sulle<br />

pietre, e di sentirle come proiezioni del proprio affetto per l’universo. Persino le<br />

figurette di signore e signori oziosi, a passeggio, prendono un che di patetico e di<br />

assoluto, sotto il suo pennello magico. E sono il tocco più inglese di quest’opera<br />

che appartiene di diritto al miglior Romanticismo europeo.<br />

maggio 1960<br />

⎡ Signore sulla Senna<br />

Gustave Courbet<br />

Musée du Petit Palais - Parigi ⎦<br />

i<br />

A metà dell’Ottocento il Romanticismo in senso stretto ha già<br />

detto tutto quello che doveva dire, ha perduto lo slancio e il soffio che aveva, si è<br />

fatto modo di costume minore: le sue invenzioni più esterne, mettiamo i chiari di<br />

luna su castelli in rovina o le fanciulle sognanti al terrazzo, fanno la delizia soltanto<br />

dei dilettanti.<br />

Come sempre accade, il movimento nuovo, che viene a prendere il posto di<br />

quello esaurito, parte in polemica con l’antico, non riconoscendone i meriti; ma<br />

è fatale, perché l’arte si evolva, anche una certa ingiustizia. Il Realismo, a differenza<br />

del Romanticismo, non nasce in Germania per poi diffondersi nel resto<br />

d’Europa, ma in Francia, dove afferma la sua necessità sia nel campo della letteratura<br />

sia in quello delle arti figurative, e s’accompagna a tutto un moto spirituale<br />

tendente a uniformare il pensiero filosofico a quello scientifico. Inoltre, con<br />

l’affermarsi della rivoluzione industriale, si fanno urgenti le istanze sociali, più<br />

186<br />

Non si tratta soltanto di costume: una certa animalità<br />

malinconica, un certo peso greve del corpo rappresentano<br />

qualcosa di molto nuovo nell’arte del secolo.


o meno soddisfatte ormai quelle di carattere nazionale, promosse dal Romanticismo.<br />

In più è da tener presente che la nascente fotografia viene a influenzare, con la sua<br />

obiettività, i suoi tagli reali, la pittura. Ci si accosta insomma all’uomo e all’ambiente<br />

che lo circonda per ritrarli quali sono, non quali si sognerebbero. Il pittore<br />

che, con più compiutezza e nello stesso tempo con più libertà, rappresenta il movimento<br />

realista è Gustave Courbet, un uomo di assoluta integrità, che ha saputo,<br />

guardandosi d’attorno con lo scrupolo di documentarsi ai fini della ricerca della<br />

verità, trovare, come nessun altro, la poesia.<br />

Certi suoi grandi quadri, che so, quello in cui egli si ritrae con gli amici nello<br />

studio in atto di dipingere un nudo, o l’altro rappresentante un funerale in provincia,<br />

partendo da un’obiettività all’apparenza fotografica, raggiungono una severa<br />

monumentalità, un senso di assoluto e di necessario che l’arte da molto tempo non<br />

ci aveva più dato. I suoi borghesi in abito borghese non sono per nulla aneddotici,<br />

ma anzi solenni, quasi religiosi: tali sono, in altre sue opere, l’uomo che spacca le<br />

pietre, il pensatore politico Proudhon in mezzo alla famiglia. Anche quando fa del<br />

puro paesaggio, tutt’al più animato da cervi fuggenti o in lotta, Courbet tende al<br />

concreto e ottiene il poetico.<br />

Guardate il quadro che vi presentiamo, che è intitolato Signore sulla Senna e sta<br />

al Museo di Belle Arti della Città di Parigi. È stato dipinto nel 1856, ed è chiaro<br />

che le due signore accaldate, in riposo sulla riva del fiume, vestono, si pettinano<br />

proprio secondo la moda dell’anno. Il pittore le ha colte nella loro realtà precisa,<br />

ma non si tratta soltanto di costume: una certa animalità malinconica, un certo<br />

peso greve del corpo rappresentano qualcosa di molto nuovo nell’arte del secolo,<br />

che possono ritrovarsi nella poesia del contemporaneo Baudelaire, nella narrativa<br />

dell’altro contemporaneo Gustave Flaubert. Queste due donne potrebbero<br />

benissimo uscire dalle Fleurs du mal, dalla Éducation sentimentale. Anche gli alberi,<br />

l’erba, la barca, la corrente, il cielo hanno la compattezza delle due protagoniste,<br />

una compattezza ritrovata dopo secoli di decorazione, idealizzazione. Ma durerà<br />

poco, già si avvicina l’impressionismo che, dando preminenza alla luce, scioglierà<br />

di nuovo le forme. Così Courbet resta un po’ una eccezione, o poco più, e il movimento<br />

realista, che in letteratura avrà lunga vita, si trasforma ed evolve verso altre<br />

maniere, ugualmente valide, ma certamente di minore forza morale.<br />

giugno 1960<br />

⎡ Ragazza che si pettina<br />

Pierre-Auguste Renoir<br />

Metropolitan Museum of Art - New York ⎦<br />

188 189<br />

i<br />

Il realismo in pittura non dura molto, almeno in senso stretto.<br />

Nella seconda decade dell’Ottocento a Parigi, allora centro irradiatore della vita<br />

intellettuale europea, è già vivo e operante l’Impressionismo. Che, in un certo<br />

senso, porta avanti le conquiste del movimento precedente: ma nello stesso tempo,<br />

come accade nella storia dei movimenti artistici, lo distrugge.<br />

La grande novità dell’Impressionismo è l’uscita all’aria aperta, ai fini, innegabilmente,<br />

di poter rappresentare con maggiore evidenza la realtà. Ma succede che il pittore,<br />

abbandonato lo studio di proposito e portatosi fuori, si lascia prendere, inebriare<br />

dalla luce naturale, la quale con la sua violenza o dolcezza, a seconda delle ore, finisce<br />

per smangiare i contorni già tanto faticosamente segnati da artisti come Courbet.<br />

Una delle scoperte, non soltanto tecniche, di quel gruppo di grandi pittori che<br />

militò nelle file dell’Impressionismo, è che pure le ombre, in virtù della luce, hanno


colore. Ogni cosa ha colore, in quei meravigliosi cronisti della vita contemporanea<br />

che sono Manet e Monet, Sisley e Pissarro, Degas e Renoir: ma specialmente nelle<br />

opere di quest’ultimo. Nato nel 1841 e morto nel 1919, Pierre-Auguste Renoir non<br />

si mosse quasi mai, nella sua lunga vita, da Parigi e dai suoi sobborghi. Si racconta<br />

che quando egli ebbe notizia della fuga di Gauguin verso Haiti, fuga originata da<br />

insofferenza per il mondo civile, scuotendo la testa esclamò: “Ma perché? Si dipinge<br />

così bene a Batignolles…”. Che è appunto un sobborgo di Parigi.<br />

Per parte sua Renoir non aveva torto, se gli riusciva di fare, di un ballo al Moulin<br />

de la Galette, una scena di gioia panica, un inno alla vita degno dei Baccanali del<br />

Tiziano o delle Cene di Paolo Veronese. E che cosa non riuscì a cavare fuori da<br />

una passeggiata di signore e bambine per un viale, o da un’affacciarsi di signore<br />

e gentiluomini da un palco, o da infiniti altri “piccoli nulla”, per dirla con il suo<br />

contemporaneo Paul Verlaine, impressionista della penna.<br />

Guardate qui la forza e la tenerezza, la monumentale pienezza e la trascolorante<br />

vibrazione di questa semplice Ragazza che si pettina. Sappiamo benissimo chi è la<br />

ragazza: nient’altro che la giovane domestica del pittore, la si riconosce dai capelli<br />

d’oro (ma un oro in cui si nasconde l’iride di un meraviglioso arcobaleno cromatico)<br />

e dal profilo leggermente camuso, d’origine certo contadina. Eppure, anche<br />

se venuta a Parigi per farsi magari la dote lavorando nella famiglia borghese di<br />

Renoir, la nostra fanciulla di campagna doveva finire per rappresentare una sublimazione<br />

della bellezza che alcuni critici, non a torto, hanno riportato alla Grecia,<br />

alle sue divinità quali noi le conosciamo nel modellato dei grandi scultori classici.<br />

A distanza di poco più di mezzo secolo dal suo periodo di fioritura più gloriosa<br />

l’Impressionismo ci appare oggi come una delle età più splendide di tutta la storia<br />

dell’arte umana e delle più ricche e consolanti.<br />

luglio 1960<br />

⎡ Pomeriggio domenicale sulla Grande Jatte<br />

Georges Seurat<br />

Art Institute - Chicago ⎦<br />

Le prime, inevitabili, reazioni all’Impressionismo, quelle<br />

giuste, da non confondersi con quelle sussiegose degli ambienti artistici ufficiali,<br />

vengono da uomini cresciuti e formatisi in seno all’impressionismo stesso. Facciamo<br />

tre nomi soltanto: Seurat, Cézanne, Van Gogh. Ma sono tre nomi senza<br />

i quali la pittura moderna non esisterebbe, e non esisterebbe l’uomo moderno,<br />

con una certa sensibilità, una certa anima. E la natura non ci sembrerebbe più<br />

povera se non avessimo imparato a conoscerla a fondo con la guida di quei tre<br />

grandi scopritori di tesori, sino al loro avvento, nascosti?<br />

Dei tre Seurat è forse il meno popolare, e si può capire il perché. Innanzitutto ci<br />

ha lasciato poche opere (Seurat è morto giovane e ha lavorato con grande lentezza,<br />

compiendo appena qualche capolavoro assoluto); poi ha chiuso la sua visione del<br />

mondo in una sintesi formale così alta e severa da sembrare, a un occhio superficiale,<br />

persino freddo e inanimato. È che a differenza degli impressionisti, tutti<br />

abbandonati e passivi di fronte alla natura, egli, sia pure con dolcezza di poeta,<br />

impone un ordine spaziale e temporale, cromatico e luministico al disordine della<br />

realtà. In questo si riallaccia a una tradizione che ha i suoi esemplari supremi nella<br />

scultura egizia, nella pittura di Piero della Francesca.<br />

Nato in un’età di ricerca scientifica, Seurat chiede alla scienza un supporto alla<br />

sua intuizione, e chiama “puntinismo” il suo metodo di “sintesi ottica dei colori<br />

e dei toni, cioè delle luci e delle loro reazioni (ombre), secondo la legge del contrasto,<br />

della gradazione, dell’irradiazione”. Ci sarebbe da citare a lungo dai suoi<br />

scritti, anche sull’impaginazione (o composizione), sul valore della linea oriz-<br />

190 191


Seurat non ha rifiutato il quotidiano, ma lo ha fermato<br />

e trasfigurato, ricomponendolo in un’armatura di linee<br />

ascensionali e orizzontali.<br />

zontale, sui colori “contrari” e “complementari”. Ma sono norme che hanno<br />

servito a non pochi pittori, dopo di lui, finiti nel nulla. Dunque non è il “puntinismo”<br />

o “divisionismo” che ci interessa in Seurat, ma quanto egli ha saputo<br />

realizzare, seguendo e di continuo superando col fuoco della fantasia i principi<br />

fissati. Prendiamo uno dei suoi quadri più famosi, un quadro che richiese un<br />

anno di lavoro e infiniti studi, abbozzi, schizzi, il Pomeriggio domenicale sulla<br />

Grande Jatte, che sta all’Art Institute di Chicago, e venne esposto a una mostra di<br />

impressionisti nel 1886 suscitando grande scandalo, il ritiro di Monet, Renoir,<br />

Sisley.<br />

È chiaro che, ad artisti tesi ad affermare la vita nel suo fluire caldo, nel suo trascolorare<br />

vibrante, un’opera come questa deve esser sembrata mostruosa. Lo<br />

stesso pomeriggio, nello stesso luogo Monet, Renoir e Sisley avrebbero ricavato<br />

ben altri succhi e linfe. Seurat non ha rifiutato il quotidiano, ma lo ha fermato<br />

e trasfigurato, ricomponendolo in un’armatura di linee ascensionali e orizzontali<br />

che accolgono il colore, le luci, le ombre in un’assorta, sublime distanza. I<br />

canottieri lontani, e sulla ripa erbosa le signore e i signori in riposo o in lento<br />

transito, i bambini che giocano, i cani che si muovono fiutando, e tanto ancora<br />

viene accolto, di questa cosa estremamente qualunque che è un pomeriggio<br />

festivo a fiume, dal pittore, e composto in una sintesi che non ha nulla di voluto,<br />

di preordinato, ma esce, fatalmente, da un’altissima meditazione, morale prima<br />

che formale.<br />

i<br />

193


agosto 1960<br />

⎡ Vigneto in primavera<br />

André Derain<br />

Kunstmuseum - Basilea ⎦<br />

La stagione impressionista (è giusto dare al corso temporale d’un<br />

movimento d’arte così dolcemente arreso alla meteorologia il nome di stagione) è<br />

entrata in crisi quando Seurat ha voluto imbrigliarla in un rigore di ricerca scientifica,<br />

Cézanne piegarla alle severe esigenze della sua moralità, Van Gogh forzarla<br />

a esprimere la sua agitazione, psichica prima che intellettuale. La crisi fu salutare:<br />

l’eterna primavera dell’Impressionismo era un assurdo, un’evoluzione e trasformazione<br />

si mostrava necessaria. Dall’opera di rottura dei tre maestri eretici nominati<br />

nascono i movimenti e le personalità che continuano e portano avanti la rivoluzione<br />

annunciatasi con il Romanticismo e il Realismo, esplosa con l’Impressionismo.<br />

Il messaggio, l’insegnamento di Seurat non verrà inteso a fondo che tardi, specie<br />

in Italia, con Carrà e Morandi, nelle loro più alte meditazioni spaziali debitori<br />

certo al pittore francese, al più italiano dei pittori francesi, debitore forse a sua<br />

volta ai nostri quattrocentisti, a Piero della Francesca soprattutto.<br />

Da Cézanne invece nasce il cubismo, e gran parte dell’arte del Novecento; mentre<br />

da Van Gogh nasce l’altro aspetto di quest’arte, l’espressionista, come vedremo.<br />

Ma dal pittore olandese esce fuori anche un movimento, il fauvisme (quasi intraducibile,<br />

si dovrebbe dire belvismo, perché fauve vuol dire belva, o fiera…) di<br />

minor portata e di durata più breve degli altri, eppure degno d’esser ricordato.<br />

Non soltanto perché, durante la sua allegra fiammata, da essa vengono riverberati<br />

artisti come Matisse, Braque, Derain, memorabili per lunga e varia operosità; ma<br />

per aver dato, all’alba del Novecento, una serie di pitture d’una freschezza, d’un<br />

brio incantevoli, che non periranno.<br />

I fauves accolgono, di Van Gogh, la maniera vorticosa, il colore inventato, i tagli<br />

impreveduti, non la motivazione interna di tutto questo, che informerà l’espressionismo.<br />

Guardate questo Paesaggio di André Derain, conservato al Museo di Basilea.<br />

È un quadro del 1905 circa: in quegli anni erano vivi ancora, e operanti, Renoir e<br />

Monet, Picasso s’approntava dall’ultimo Cézanne a estrarre il cubismo. Le estreme<br />

stille del miele impressionista gocciavano dai pennelli dei vecchi Renoir e Monet,<br />

attardatisi a vivere in epoca nuova, ma forse non c’era più chi sapesse gustarle. Allora,<br />

prima che Picasso rimettesse tutto in discussione, spazio eccetera, vi fu ancora, purtroppo<br />

fugacissima, una schiarita solare in cui a un pittore vero, a un giovane, fu<br />

concesso di dipingere un paesaggio, con alberi, cielo, monti lontani e omini dentro,<br />

non ancora ribaltati e disarticolati. Riconoscibili anzi, e molto cari, alberi, cielo,<br />

monti lontani e omini dentro, nella rapida felicità della scrittura pittorica, entusiasta<br />

di ritrarre la natura e di lodarla in una sorta d’ebbrezza che muove un po’ tutto, e<br />

carica le tinte, magari le stravolge, a esprimere lo stato d’animo dell’artista. Proprio<br />

il metodo, se così possiamo chiamarlo, di Vincent Van Gogh, che vi tornerà certo<br />

subito alla memoria, a vedere questo bel paesaggio. Ma la musica è ben diversa, tanto<br />

più piacevole, qui, ma tanto meno grande e commovente.<br />

settembre 1960<br />

⎡ Passeggiata sul ponte<br />

August Macke<br />

Hessisches Landesmuseum - Darmstadt ⎦<br />

194 195<br />

i<br />

L’arte del nostro secolo ha i suoi precedenti in quel grande<br />

momento della cultura figurativa europea che va sotto il nome di Impressionismo.


In senso stretto a esso appartengono soltanto Monet, Sisley, Renoir (già meno<br />

Manet e Degas, personalità che si riallacciano, per l’acuto interesse ai valori del<br />

disegno e della forma conchiusa, alla pittura antica); vi rientrano poi, ma quasi<br />

come delle quinte colonne intenzionate a buttar tutto all’aria, i grandi rivoluzionari<br />

Cézanne e Van Gogh.<br />

Dalla solidificazione della fluida materia impressionistica operata dal primo,<br />

nasce, nel ’900, il Cubismo, mentre dalla distorsione e deformazione della<br />

materia stessa, operata da Van Gogh, deriva l’Espressionismo. Da Van Gogh (e<br />

dal suo fratello minore in arte Gauguin) viene anche, come abbiamo visto, il<br />

Fauvismo che accoglie la deflagrazione coloristica del maestro fiammingo, ma<br />

la traduce in termini di ebbrezza e allegria, cioè la falsa, sia pure per raggiungere<br />

una sua verità autonoma. Gli eredi autentici di Van Gogh sono quei tedeschi, e<br />

nordici in genere, che proprio in polemica all’Impressionismo classico inventano<br />

la parola Espressionismo per identificare un movimento nuovo che tende,<br />

giusta appunto le idee di Van Gogh, non a ricevere passivamente e passivamente<br />

rendere la natura nel suo indifferente, anche se meraviglioso fluire, ma a interpretare<br />

questa natura, a farla testimone dell’anima dell’artista, dei suoi drammi,<br />

delle sue ansie.<br />

L’Espressionismo, che ha, oltre Van Gogh, un precursore nel norvegese Munch,<br />

è stato il movimento artistico, e anche letterario, più vivo della Germania nei<br />

primi anni del nostro secolo: vi sono passati pure, per trovare però la loro vera<br />

ispirazione più tardi, nel cosiddetto Astrattismo, Kandinskij e Klee, e Kokoschka,<br />

che evolve in un suo romanticismo moderno del tutto indipendente dai moduli<br />

stilistici espressionisti.<br />

Gli espressionisti tipici sono Nolde, Marc, Macke, del quale vi presentiamo Passeggeri<br />

sul ponte, dipinto circa nel 1912 e conservato al Museo di Darmstadt. Non è<br />

un’opera gradevolissima (accade spesso che gli espressionisti di stretto rigore siano<br />

piuttosto spiacevoli), e dal punto di vista stilistico un po’ impura. Infatti il paesaggio<br />

si riattacca, ma con durezza calligrafica, a Cézanne, e risente delle scomposizioni<br />

cubiste del primo Picasso, come dimostra la franta immagine del ponte. Ma<br />

nelle figure umane, ognuna chiusa nel proprio dolore, nella propria solitudine, v’è<br />

la nota inconfondibile, originale, e ancora commovente per noi, dell’Espressionismo.<br />

Che è in fondo il rivelarsi dell’anima tedesca nei suoi momenti migliori, di<br />

ripiegamento su se stessa, di meditazione e contrizione. Forse il difetto di questa<br />

pittura sta nell’essere letteraria: d’altra parte è da dire che in letteratura lo stesso<br />

stato d’animo ha prodotto un poeta grandissimo, uno dei più alti e significativi del<br />

nostro tempo, Franz Kafka.<br />

ottobre 1960<br />

⎡ Stati d’animo I - Gli addii<br />

Umberto Boccioni<br />

Museum of Modern Art (MoMA) - New York ⎦<br />

196 197<br />

i<br />

Finalmente un italiano: Umberto Boccioni, che con Severini,<br />

Balla, Carrà e il teorico, quasi agitatore politico più che letterato, Filippo<br />

Tommaso Marinetti, partecipò alla fondazione del Movimento Futurista (atto di<br />

nascita ufficiale il Manifesto, pubblicato dal giornale francese “Figaro” il 20 febbraio<br />

1909). Si tratta del primo “ismo”, del primo movimento artistico italiano di<br />

rottura, che abbia risonanza e importanza extranazionale. C’erano stati nell’Ottocento<br />

uomini e gruppi che avevano lavorato sul serio seguendo, con autonomia,<br />

ma pure con una certa timidezza, i grandi esempi del Romanticismo e dell’Im-


Il Futurismo rinnova l’aria chiusa dell’arte italiana,<br />

ancora legata alla tradizione accademica più retriva.<br />

pressionismo: basti ricordare da un lato Fontanesi, dall’altro la scuola macchiaiola.<br />

L’uno e l’altra restano fenomeni altamente locali.<br />

Ma il Futurismo fu, sin da principio, ben consapevole della propria funzione nella<br />

cultura artistica europea, e quindi assai attivo e combattivo. Parallelo al Cubismo,<br />

più rigoroso e mentale nei suoi due fondatori, Picasso e Braque, ma anche più<br />

limitato, il movimento italiano tende a sommuovere un ambiente, il nostro, più<br />

pigro e inerte di quello francese, e a dare una forma nuova a una realtà nuova.<br />

Le enunciazioni di principio, formulate più che altro da Marinetti, sono spesso<br />

confuse e qualche volta ingenue (“la locomotiva è bella come la Vittoria di Samotracia”),<br />

però senza dubbio vitali. E nel campo delle arti figurative l’aspirazione<br />

alla resa del movimento attraverso la scomposizione delle forme plastiche, la tensione<br />

del colore, il dinamismo della luce, si dimostra positiva. In vari modi, fra<br />

il 1909 e il 1915, con l’opera dei suoi artisti migliori, il Futurismo rinnova l’aria<br />

chiusa dell’arte italiana, ancora legata alla tradizione accademica più retriva, e<br />

realizza alcune opere che stanno fra le più significative dell’Avanguardia europea.<br />

E come appaiono ben stagionate, le pitture e sculture di Carrà, Boccioni, Balla,<br />

Severini, Soffici di quegli anni, a chi le guardi oggi, come vittoriose sul tempo,<br />

sulla prima, più difficile posterità.<br />

Il quadro che riproduciamo è di Umberto Boccioni, calabrese, vissuto fra Parigi,<br />

Berlino, Roma e Milano, caduto, volontario, nei primi mesi della prima guerra<br />

mondiale: Boccioni è la personalità più pura e moralmente alta del Futurismo.<br />

Le sue esperienze artistiche prefuturiste sono influenzate dal divisionismo e dal<br />

postimpressionismo, ma informate a uno spirito di ricerca del tutto personale,<br />

tendente a fare della pittura uno strumento di conoscenza intera della realtà.<br />

A questo, possiamo ben affermarlo oggi, egli arrivò nel momento futurista,<br />

l’ultimo della sua breve e intensa carriera. S’intitola, la pittura che vedete, Stati<br />

198 199


d’animo - Gli addii, e fa parte di una serie volta appunto alla visualizzazione di<br />

fatti interiori, quali possono essere gli addii fra persone care, e insieme alla resa<br />

del movimento, sempre presente in un’opera futurista autentica. Il punto centrale<br />

del quadro è, come si indovina facilmente, una locomotiva che s’avvia, e<br />

cui turbina d’attorno un paese fuggente che confonde elementi della realtà e<br />

patetiche ondulazioni cromatiche, simboliche di “stati d’animo” come precisa<br />

il titolo. Ricordi del divisionismo, echi del cubismo si perdono nella nuova,<br />

inconfondibilmente italiana unità dell’opera, tipica del tempo più creativo e<br />

serio del Futurismo.<br />

novembre 1960<br />

⎡ Giraffa che brucia<br />

Salvador Dalì<br />

Kunstmuseum - Basilea ⎦<br />

i<br />

Il Surrealismo, che ha dei precedenti vicini nella pittura metafisica<br />

inventata da Carrà e De Chirico verso il 1914-15 e lontani in personalità<br />

estrose e fantastiche quali Pieter Bruegel il Vecchio e Bosch, nasce come movimento<br />

letterario, più che figurativo, nell’immediato primo dopoguerra. E nasce<br />

con una teoria sua, volta a liberare la creazione artistica da qualsiasi intervento<br />

della ragione, portando quindi alle estreme conseguenze certi dati dell’estetica<br />

romantica. Lasciamo da parte la letteratura surrealista, i suoi esperimenti di<br />

“scrittura automatica” eseguita dal poeta come sotto dettatura da parte del suo<br />

inconscio, e vediamo il significato che la pittura surrealista, in concreto, viene a<br />

prendere nella evoluzione della pittura moderna.<br />

Un fatto che bisogna subito notare è che i surrealisti, in polemica con tutte le<br />

scuole precedenti dall’Impressionismo al Cubismo, ridanno importanza preminente<br />

al soggetto. Un quadro surrealista è un quadro che si può raccontare, senza<br />

in fondo fargli perdere molto del suo fascino. Tanto è vero che i maggiori pittori<br />

di questo singolare movimento accettano le regole del disegno e della pittura tradizionale,<br />

per porle però al servizio di una fantasia quanto mai libera e sregolata.<br />

I valori formali, messi in evidenza dai critici della pura visibilità, cioè la plasticità<br />

delle forme, l’accordo dei toni, sono cose che non interessano minimamente a<br />

pittori come Max Ernst o Salvador Dalí, tutti perduti dietro la trasposizione nel<br />

quadro del loro incessante immaginare.<br />

Non è senza significato che Salvador Dalí appunto, procedendo per questa via,<br />

sia arrivato a fare, o tentare di fare, dell’arte anche con mezzi molto singolari e<br />

lontani dalla pura pittura: costruendo per esempio gioielli animati, addirittura<br />

modellando la propria figura umana in singolare maniera (tutti hanno veduto<br />

nei rotocalchi i suoi lunghi baffi impomatati), arzigogolando avventure l’una più<br />

assurda dell’altra.<br />

A questo punto c’è da chiederci se siamo ancora nel campo dell’arte o in quello<br />

della mistificazione pubblicitaria. L’obiezione è stata fatta più d’una volta al pittore<br />

spagnolo, che non soltanto non se l’è presa, ma ha esplicitamente dichiarato che la<br />

mistificazione è uno degli elementi primi dell’opera d’arte.<br />

Il quadro che vi mostriamo e che sta in una galleria di Basilea, è del 1935 e s’intitola<br />

Giraffa che brucia. Come vedete, nel quadro c’è in effetti una giraffa che<br />

brucia, ci sono anche, più in primo piano, delle figure fantomatiche di donne in<br />

atteggiamento di recitazione melodrammatica, il lungo corpo serpentino trafitto<br />

in vario modo da pugnali, stampelle, cassetti e cassettini. Dietro di esse un grande<br />

spazio scenografico che ricorda le piazze italiane di De Chirico, e un immenso<br />

200 201


cielo azzurro, dipinto senza alcuna preoccupazione di resa atmosferica della luce.<br />

Il quadro è certamente suggestivo, lo è come certi sogni, certi incubi che tutti<br />

possiamo avere sperimentato, ed è altrettanto, come dire, infastidente. Se lo scopo<br />

primo di Dalí era di metterci addosso disagio e inquietudine, possiamo dire che la<br />

sua è un’opera riuscita. Come eccezione possiamo anche accettarla, ma riteniamo<br />

che il fine dell’arte in generale debba essere ben altro.<br />

dicembre 1960<br />

⎡ Triangoli in curva<br />

Vasilij Kandinskij<br />

Collezione privata ⎦<br />

Chiudiamo questa rassegna dei movimenti artistici nati nell’età<br />

moderna, rassegna che si è aperta con il Romanticismo, senza il quale tutto<br />

quanto è venuto dopo non avrebbe potuto essere, con l’Astrattismo. Il termine<br />

è oggi usato in maniera molto ela-<br />

Non scoraggiatevi né, se possibile,<br />

stica e include, non sempre propria-<br />

indignatevi: questa pittura è molto vicina mente, tutti quanti i movimenti non<br />

alla musica, e voi non chiedete mai alla figurativi succedutisi da trenta, forse<br />

musica di dirvi esattamente qualcosa.<br />

quarant’anni a questa parte. A voler<br />

essere precisi, bisognerebbe distaccarne<br />

almeno la cosiddetta pittura informale, che in un certo senso alla maniera<br />

astratta reagisce, sia pure avendo in comune con essa il rifiuto della figura. Ma noi<br />

non arriveremo sino agli ultimi sviluppi, non andremo oltre l’Astrattismo inteso<br />

quale movimento storico ben definito e concluso. Un’esatta data di nascita, quale<br />

i<br />

202 203


quella che dà al Futurismo il manifesto del 1909, non è possibile fissarla, per questa<br />

scuola, ma è possibile vedere verso il 1919-20 i tre artisti più rappresentativi, e i<br />

primi, del movimento, già operanti, e con piena coscienza critica, nella nuova<br />

direzione.<br />

Si tratta di Vasilij Kandinskij, Piet Mondrian e Paul Klee. Li abbiamo messi in<br />

ordine di età, dal più vecchio, nato nel 1866 al più giovane nato nel 1879: comunque,<br />

lo vedete bene anche voi, quando cominciano a dipingere astratto hanno<br />

dietro di sé un buon numero d’anni nei quali non è che siano stati inattivi, ma<br />

sono passati attraverso varie esperienze, prima fra tutte quella espressionistica,<br />

dominante nei paesi nordici. Ed è bene qui ricordare che Kandinskij è nato a<br />

Mosca, Mondrian nella città olandese di Amersfoort, Klee a Münchenbuchsee, in<br />

Svizzera. I paesi latini, cui pure si deve il Cubismo e il Futurismo e il Surrealismo,<br />

non hanno meriti (o, se volete, colpe) nella formazione di quest’ultima diavoleria,<br />

che però accetteranno, sia pure poi trasformandola a modo loro.<br />

A questo punto ci si potrebbe chiedere quale dei tre artisti debba considerarsi il<br />

vero fondatore del movimento. Togliamo, e sappiamo di non fargli nessun torto,<br />

Klee dalla gara; le risorse di questo artista, probabilmente il più grande della<br />

triade, sono tali che non ci perde nulla a levargli la paternità dell’Astrattismo.<br />

Tanto più che a guardarlo attentamente è sempre così concreto, inventato, magari<br />

sognato: sarebbe ora di staccarlo da una compagnia che è stata sua più all’apparenza<br />

che nella sostanza. Ora, fra Kandinskij e Mondrian, possiamo stabilire questo<br />

rapporto: Kandinskij ha contato di più, sia teoricamente sia in concreto per la<br />

nascita dell’Astrattismo, Mondrian ha portato più avanti, a conseguenze estreme,<br />

quanto il maestro russo aveva intuito e in parte realizzato.<br />

Diciamo in parte, e infatti mentre Mondrian nella sua lunga operosità astratta<br />

arriva a puri incroci di linee rette e a puri accordi di colori assoluti, Kandinskij<br />

anche quando, come nel quadro chi vi presentiamo dipinto nel 1927 (sta in una<br />

collezione privata di Monaco), non si propone altro, come dice il titolo, che di<br />

rappresentare Triangoli in curva, si lascia ancora dominare dalla fantasia, che è,<br />

malgrado la geometria, insistita e ossessiva, delle forme, fantastica. Dal nero della<br />

notte nordica, un nero forse di notte infantile, emergono i triangoli e i cerchi<br />

colorati e formano, ma per dissolversi poi e trasformarsi, villaggi, approdi marini<br />

con variopinti piroscafi attraccati e tante altre cose vere e immaginarie: quelle che<br />

potete leggere voi in questa scrittura ideografica così vicina a quella dei bambini<br />

che giocano con le costruzioni. E non soltanto le forme sono più varie e libere che<br />

in Mondrian, ma anche i colori tutt’altro che fermi e immutabili, svarianti anzi<br />

sempre un po’ come sono i colori delle nuvole e delle acque.<br />

Vi abbiamo date delle indicazioni per decifrare il quadro che vi sta davanti, ma<br />

può darsi che voi ne ricaviate tante altre immagini e suggestioni: non scoraggiatevi<br />

né, se possibile, indignatevi: questa pittura è molto vicina alla musica, e voi non<br />

chiedete mai alla musica di dirvi esattamente qualcosa.<br />

aprile 1962<br />

⎡ Gioco di ragazzi<br />

Winslow Homer<br />

Butler Institute of American Art - Youngstown ⎦<br />

204 205<br />

i<br />

Sì, esiste una pittura americana. Ce ne siamo accorti tardi,<br />

come ci eravamo accorti tardi che esisteva una letteratura americana: l’una e l’altra<br />

hanno avuto dei timidi inizi quando gli europei trapiantati nella nuova terra,<br />

arrivati a una certa stabilità sociale ed economica, si sono preoccupati di avere dei


libri da leggere, dei quadri da appendere alle pareti. Così, nei primi tempi, si sono<br />

avuti più che altro dei prodotti un po’ bastardi, tendenti a ripetere i modi, le forme<br />

di quanto le civiltà artistiche europee, tutt’altro che primitive negli anni della<br />

primitiva arte americana, offrivano.<br />

Ma ben presto la forza delle cose, la novità dell’ambiente naturale e delle situazioni<br />

umane favorirono il vigoreggiare di creatori indipendenti, comunque capaci<br />

di trasformare qualsiasi dato avessero preso dai movimenti culturali dell’Europa<br />

contemporanea. Per fare un solo esempio: è chiaro che il gran Melville non<br />

avrebbe scritto Moby Dick, se non ci fosse stato il Romanticismo, da Coleridge a<br />

Victor Hugo, ma è pure incontestabile che il poema della balena bianca trascende<br />

e supera vittoriosamente i limiti dell’imitazione, addirittura assurge al cielo dell’epica,<br />

che nessuno scrittore ottocentesco europeo ha invece mai toccato.<br />

Questi sono fatti ormai acquisiti. La pittura americana del secolo scorso è una<br />

scoperta molto più recente e, bisogna riconoscerlo, molto meno emozionante. I<br />

veri grandi nomi della pittura d’oltreatlantico appartengono al Novecento, che<br />

verso la metà, tra il 1945 e oggi, ha avuto nella scuola dell’astratto-espressionista,<br />

il cui centro è New York, il fatto artistico più importante, più carico d’avvenire<br />

di tutto il periodo.<br />

L’Ottocento, ripetiamolo, non ha nomi d’artisti da mettere vicino a quelli di scrittori<br />

come Poe, Melville, Hawthorne, Whitman, Twain, ma qualche figura vera,<br />

tipica, è degna d’esser ricordata, da Ryder a Homer, che vi presentiamo oggi e che,<br />

senza grandi voli, ha dipinto la realtà naturale e sociale del suo paese, in maniera<br />

autentica, durevole. Per quanto egli sia stato a Parigi, non si può dire che abbia<br />

risentito in modo decisivo l’influenza dei tanti grandi pittori colà operanti. L’unico<br />

parallelo possibile è quello con Courbet, che può avere confortato Homer nella<br />

scelta dei temi più umili e quotidiani. Disegnatore forte e preciso (gli si devono<br />

istantanee di guerra civile che ricordano quelle del narratore Stephen Crane); dal<br />

1860 circa al 1900, il nostro artista ha dipinto un po’ di tutto, con preferenza negli<br />

ultimi anni per i temi marini, affrontati con uno scrupolo di verità e con un certo<br />

lirismo. Ma per noi l’Homer più interessante è quello del periodo di mezzo, in<br />

cui egli diventa una sorta di Mark Twain del pennello, un descrittore cioè, all’apparenza<br />

quasi giornalistico ma capace in effetti di arrivare a una fermezza e a una<br />

poesia singolari e del tutto americane.<br />

Guardate questo Gioco di ragazzi, dipinto nel 1872. Il taglio, che in altri artisti<br />

realisti, per esempio in Courbet, risente della fotografia “posata”, qui addirittura<br />

anticipa, non la fotografia, ma il cinema, magari in technicolor. Lo diciamo senza<br />

ironia e in un’accezione positiva: per un pittore americano, senza tradizione dietro<br />

le spalle di moduli compositivi illustri ma esauriti, posare l’occhio sulla realtà con<br />

il candore e l’ampiezza di visuale di una macchina da presa, non era affatto un<br />

male. Il quadro sta davanti a noi sincero, mosso e insieme fermo, un po’ greve,<br />

nella sua minuzia descrittiva, ma riscattato dalla banalità per via d’un sentimento<br />

della vita largo e affettuoso, umanissimo. È l’ora di un giorno qualunque rapita<br />

per sempre al flusso crudele del tempo, e divenuta, per l’obiettività estrema del<br />

pennello che l’ha colta, di un incanto remoto, straziante. E il colore dominante, il<br />

caldo colore che ritorna dalla terra al fustagno ai volti all’indimenticabile baracca<br />

di legno, è qualcosa di nuovo, di inedito, rispetto a tutta la pittura venuta prima.<br />

Un colore, appunto, americano.<br />

206 207<br />

i


giugno 1962<br />

⎡ Profumo<br />

Jackson Pollock<br />

James Goodman Gallery - New York ⎦<br />

Dopo il momento ottimistico, rappresentato dall’obbiettività<br />

di Winslow Homer, e quello polemico ma non pessimistico, rappresentato dalla<br />

deformazione espressionistica di Ben Shahn, la pittura americana sembra staccarsi<br />

dalla realtà ambientale e umana del paese in cui fiorisce per adeguarsi a un movimento<br />

artistico internazionale e sradicatissimo, l’astrattismo.<br />

Vi sono dei precorrimenti, degli anticipi, ma isolati e senza seguito: in effetti il<br />

trapianto delle tendenze avanguardistiche europee nel vergine terreno americano<br />

e, di conseguenza, l’inserimento della scuola di New York vicino alla scuola di<br />

Parigi, si ha negli anni dal ’45 in poi. Con una voracità e una capacità di assimilazione<br />

incredibili, i giovani pittori statunitensi si cibano di Picasso e di Klee, dei<br />

dadaisti e dei surrealisti e degli astrattisti, restituendone i modi con libertà e autonomia<br />

impensabili nel vecchio mondo.<br />

Anche negli anni dell’apprendistato, cioè della loro assunzione a fini propri, gli<br />

artisti americani svisano gli originali cui si ispirano, fanno del nuovo, o vi si avvicinano<br />

grandemente.<br />

La cosa è più che naturale: non altrimenti i nordici, impadronitisi della maniera<br />

rinascimentale italiana, la stravolgono ai propri fini, che non sono di superiore<br />

armonia classica, ma di espressività e di naturalezza a ogni costo.<br />

Tornando agli americani: i grandi spazi e i grandi agglomerati urbani nei quali<br />

essi vivono non sono tali da annullare l’uomo, o almeno da schiacciarlo, polverizzarlo,<br />

inghiottirlo? Anche Ben Shahn avrà sentito problemi simili a quelli<br />

che sentirono De Kooning, Klein, Pollock, ma negli anni della sua più vitale<br />

creatività poteva ancora sentirne altri, di carattere sociale, tali da salvare il suo<br />

umanesimo.<br />

In questo dopoguerra i nuovi pittori, risolti dall’America i più generali e urgenti,<br />

di quei problemi, si trovano soli di fronte a quelli eterni, dell’esistenza, resi acutissimi<br />

nel rovello inesorabile della civiltà di massa. E come li esprimono? Con<br />

furia e candore, lasciando che l’inconscio guidi la loro mano, bruciati i ponti con<br />

qualsiasi tradizione figurativa occidentale.<br />

Ecco Jackson Pollock, il più artisticamente dotato e il più spiritualmente impegnato<br />

della scuola d’oltreatlantico, stendere a terra le superfici da dipingere e strizzarvi,<br />

sgocciolarvi, distendervi le sue vernici riempiendo tutto, con l’orrore del vuoto<br />

dei barbari. Ma non a caso: le opere, le non molte opere lasciateci dal pittore,<br />

perito tragicamente nella ferraglia contorta e convulsa come un suo quadro d’una<br />

automobile guidata forse in stato d’ubriachezza (era il 1956, Pollock aveva quarantaquattro<br />

anni) a un occhio esercitato mostrano necessità d’ispirazione e compiutezza<br />

stilistica. Se spesso si scorge una sorta di reticolo angoscioso entro cui l’uomo<br />

in brandelli, irriconoscibile, cerca invano di trovare scampo e uscita, in Pollock,<br />

altre volte ci si può avviare per una “più spirale aura”. Come in questo Profumo<br />

del 1955, che è uno degli ultimi quadri del pittore: c’è sempre quell’infinito della<br />

pittura (e della poesia) americana, ma in un’eccezione non tragica, lirica. Non<br />

siamo molto lontani dalle estreme propaggini dell’Impressionismo, dal Monet<br />

delle Ninfee, dall’immersione totale, dolcemente passiva nella natura del vecchissimo<br />

maestro francese. Non è una cosa voluta, ma una coincidenza significativa<br />

questo ritrovarsi vicino di due pittori come Pollock e Monet: l’uno partito per<br />

l’interno, l’altro per l’esterno, ma entrambi votati all’annullamento, al perdersi per<br />

un ritrovamento intero sulle rive dell’arte raggiunta e della sua pace.<br />

208 209


febbraio 1964<br />

⎡ Il Duetto<br />

Georges Braque<br />

Centre Pompidou - Parigi ⎦<br />

Bonnard è stato l’ultimo (ma non si può mai dire) dei grandi<br />

pittori europei, in grado di cantare quel tipico tema “borghese” che è l’interno.<br />

La borghesia, in lenta crisi, e la realtà oggettiva, pure in crisi e probabilmente per<br />

una stessa causa, hanno ridotto al lumicino questo genere di pittura. Vi si dedicano,<br />

con commovente ostinatezza, vecchissimi artisti in fiera polemica con la<br />

modernità, signorine candide e malsicure, pronte però a passare senza batter ciglio<br />

all’informale.<br />

Eppure, a ben guardare nel nostro secolo, è ancora possibile scovare qualche<br />

bell’interno: naturalmente diverso da quelli della grande scuola olandese e pure<br />

da quelli, già tremuli e incerti, dell’Impressionismo e del Postimpressionismo.<br />

La crisi sociale e ancor più (non abbiamo detto che è in fondo la stessa cosa?) la<br />

formale, si fanno sentire, eppure possiamo dire che ci siamo ancora. Ai limiti, ma<br />

ci siamo.<br />

Ecco qui Braque, con Picasso e Gris, uno dei re magi del cubismo, il più misurato<br />

e dolce dei tre e quello più aperto alla poesia della vita domestica: gran pittore di<br />

nature morte e, sia pure in minor misura, di interni. Sia quelle sia questi, giusta la<br />

poetica del cubismo, vengono scomposti, sfaccettati, deformati, ma non troppo,<br />

così che noi possiamo riconoscere la cara forma delle cose, come tutta trasformata<br />

dal gioco di una luce capricciosa e insieme geometrica.<br />

Siamo in una stanza in sé non molto dissimile da quella descrittaci con tanta<br />

calda attenzione da Bonnard; una stanza dunque di casa borghese parigina con<br />

le immancabili carte da parati e il quasi immancabile pianoforte. Questo sta nel<br />

mezzo e fa da asse alla composizione, quelle fanno da sfondo e lo variano dal giallo<br />

limone al verde scuro al marrone con un passaggio luce-ombra preziosissimo. Ai<br />

due lati del piano, una di fronte all’altra, in corrispondenza della parete chiara e<br />

di quella scura, la cantante e la pianista. La prima è viola e bianca ma si muove<br />

forse esilarata dalla musica ed è anche, non più di profilo ma di tre quarti, nera; la<br />

seconda è più ferma, anche se ritagliata in tre sagome e tre toni di colore armonizzati<br />

con la parete scura. A darle allegrezza dietro la sua testa spuntano triangoli di<br />

non facile spiegazione, uno dei quali, arancione, squisito per la sua improbabilità<br />

e giustezza cromatica.<br />

Il duetto che Braque ha dipinto nel 1937, e che conta fra i più bei pezzi del Museo<br />

d’Arte Moderna di Parigi, è un quadro giovane e felice, d’una sonorità un po’ stridula,<br />

agra ma fresca, priva di sottintesi polemici. La casa, e i mobili, e le persone<br />

esistono ancora per il grande pittore francese, ma per lui hanno tante più possibilità<br />

di durare se si mostrano docili alla sua bacchetta di stregone benefico, capace<br />

di far traballare e mettere a soqquadro felicemente tutto.<br />

febbraio 1964<br />

⎡ Esperimento con una pompa ad aria<br />

Joseph Wright of Derby<br />

National Gallery - Londra ⎦<br />

210 211<br />

i<br />

La rivoluzione industriale, che non ha ancora finito di attuarsi,<br />

trasformando l’uomo e la terra in cui egli abita e stendendo già il suo campo d’azione<br />

verso gli astri, comincia nel paese meno rivoluzionario che esista, l’Inghilterra,<br />

e nel secolo che artisti, poeti, musicisti ci hanno tramandato in immagini


che assolutamente sono agli antipodi di tutto quanto ha comunque a che fare con<br />

l’industria.<br />

Il fatto è che, mentre puri scienziati e primi industriosi sperimentatori pratici<br />

avviavano il moto pacificamente rivoluzionario sopradetto, pittori, poeti e compositori<br />

torcevano a bella posta gli occhi dalle novità per tuffarli, quasi in cerca<br />

di salvezza, nell’eterna, benigna Natura. Quando dalla fase ristretta della seconda<br />

metà del Settecento la rivoluzione industriale, nell’Ottocento, avanzò vittoriosamente<br />

da ogni parte, sporcando il cielo col fumo delle ciminiere e rendendo<br />

l’uomo, il proletario, non ancora in grado di difendersi, più schiavo che mai, la<br />

reazione si fece anche più violenta. Bisognerà arrivare al crepuscolo del secolo<br />

scorso, al suo ottimismo, per trovare cantori entusiastici delle macchine: basti<br />

ricordare il Carducci. Il Novecento, specie coi futuristi, arriverà addirittura a contrapporre<br />

la bellezza della locomotiva a quella della Vittoria di Samotracia.<br />

Ma già nel 1768 un pittore inglese, Joseph Wright, dipingeva il quadro che vedete,<br />

che sta alla National Gallery di Londra e che reca l’inconsueto titolo Esperimento<br />

con una pompa ad aria. Inconsueto il titolo e anche il quadro, naturalmente, seppure<br />

per tanti aspetti tipicissimo dell’epoca in cui venne dipinto. Se è vero infatti che<br />

la pompa ad aria è il centro della composizione, la cosa del quadro che conta di<br />

più, è pur vero che la minuzia narrativa con cui l’artista ha ambientato e animato<br />

il momento mistico della prova sperimentale suona tipicamente settecentesca,<br />

specie là dove s’intenerisce sui bambini che guardano desolati l’uccellino morto<br />

dentro la sfera di vetro della crudele nuova macchina. Il quadro, senza assurgere<br />

a grande altezza pittorica, resta un’opera piena di un incanto fra domestico e fantastico<br />

molto singolare, una di quelle cose minori così illuminanti sull’età in cui<br />

vennero eseguite: qui, appunto, gli albori, misteriosi dell’età industriale.<br />

aprile 1964<br />

212 213<br />

⎡ La Stazione di Saint-Lazare<br />

Claude Monet<br />

Fogg Art Museum, Harvard University Art Museums - Cambridge (USA) ⎦<br />

Se gli albori dell’età industriale, nel Settecento, hanno lasciato<br />

pochissime tracce nell’arte, il suo vigoroso procedere e affermarsi, nell’Ottocento,<br />

non produce, alle prime, granché. Già le nazioni più evolute d’Europa e parte del<br />

Nord America stanno convertendosi in paesi industriali, e di conseguenza trasformandosi<br />

nell’aspetto esteriore, modificandosi nelle strutture economiche e sociali, e<br />

pure i pittori e gli scrittori non sembrano quasi accorgersene. Qualche effetto, specie<br />

in Inghilterra e in Francia, comincia verso metà del secolo a sentirsi nel romanzo,<br />

come contraccolpo, nell’ambito delle scuole realista e naturalista, della nuova condizione<br />

umana che viene a toccare, come conseguenza della rivoluzione industriale,<br />

al proletariato urbano. Baudelaire e Marx sono fra i primi a sentire che qualcosa va<br />

cambiando e a reagire in maniera diversa, ma ugualmente pronta e acuta.<br />

Nell’ambito delle arti figurative va però ricordato l’esempio isolatissimo del<br />

pittore inglese Turner, che mentre si tende, proprio per sottrarsi al brutto dilagante<br />

in conseguenza del sorgere di fabbriche e stazioni ferroviarie, all’evasione<br />

nella natura vergine, dipinge nel 1844 un quadro intitolato Pioggia, vapore e velocità.<br />

L’opera, il cui titolo sembra anticipare il futurismo di Marinetti e di Boccioni, rappresenta<br />

la Great Western in corsa sopra un ponte, sotto la pioggia violenta. È una<br />

cosa romantica, nell’impeto coloristico, nel turbine formale, una cosa che rompe<br />

nel passato: e tanto più rompe in quanto tiene conto di una realtà contemporanea,<br />

senza chiedere permessi, appunto, al passato.<br />

Con occhio ben più pacato si volge alla rappresentazione di questa nuova realtà<br />

che tocca tutti, la ferrovia, Claude Monet, che nel 1877 dipinge ben sei quadri


Monet non ha nessuna intenzione di forzare l’aspetto della realtà,<br />

semmai ha quella di perdersi nella sua contemplazione.<br />

ispirati a treni e stazioni. Non è inutile ricordare che Monet, uno dei patriarchi<br />

dell’Impressionismo, fece, giovanissimo un viaggio a Londra, e restò molto colpito<br />

dalla pittura di Turner. Ma, ripetiamo, il suo occhio, perché il suo animo, è ben<br />

più pacato e oggettivo di quello del grande maestro inglese. È vero che, nelle sue<br />

uscite in strada, en plein air, con pennelli, colori e tela, è mosso da un sentimento<br />

poetico, non da un intento documentario. Tuttavia egli non ha nessuna intenzione<br />

di forzare l’aspetto della realtà, semmai ha quella di perdersi nella sua contemplazione.<br />

E per un pittore contemplazione della realtà vuol dire resa coloristica della<br />

realtà. La serie delle Stazioni di Saint-Lazare, dalla quale vi abbiamo scelto la più<br />

bella (oggi in America nella Collezione Fogg dell’Università di Harvard) venne<br />

presentata alla Terza Mostra degli Impressionisti: e naturalmente, per quanto oggi<br />

possa sembrare incredibile, suscitò critiche violente.<br />

Nel quadro che vedete, e che è persino troppo facile chiamare una sinfonia di<br />

blu, il taglio della stazione con treni in arrivo e in partenza è, come spesso negli<br />

impressionisti, istantaneo, non premeditato. Quasi una fotografia, verrebbe voglia<br />

di dire, con quella figura di uomo, di ferroviere, che c’entra dentro in primo piano,<br />

a metà, puramente perché c’era, e sarebbe stato falsificare tutto, il toglierlo via.<br />

Eppure, proprio perché ferma l’ora, il minuto in un battito di luce e d’ombra<br />

(colorata, azzurra) irripetibile, il quadro è eterno. Grandi poeti della natura (gli<br />

ultimi) sono stati chiamati gli impressionisti: ma senza limitazioni. Della natura<br />

che poteva cadere sotto l’occhio di Monet che usciva di casa per dipingere, nel<br />

1877, facevano parte anche i metalli e i vetri della tettoia, gli acciai bruniti delle<br />

rotaie, il ferro, il carbone. Perché non avrebbe dovuto dipingerli con lo stesso<br />

candore e la stessa emozione con cui poteva dipingere le ninfee, o i papaveri?<br />

215


maggio 1964<br />

⎡ Pescatori con la lenza<br />

Henri Rousseau<br />

Musée de l’Orangerie - Parigi ⎦<br />

Mentre nelle scuole e accademie, la rivoluzione industriale<br />

in pieno sviluppo e, possiamo dire, in piena vittoria, si continua a pretendere<br />

che l’arte non veda quel che sta accadendo nella vita, questa si prende vendetta<br />

allegra di tali proibizioni e all’arte arriva direttamente, riducendo a zero il ruolo,<br />

appunto, di scuole e accademie. Ancora gli impressionisti avevano frequentato,<br />

negli anni giovanili, queste ultime, sia pure per abbandonarle prestissimo e compiere<br />

la propria formazione en plein air, in contatto immediato con la luce vera, vale<br />

a dire con l’esistenza vera.<br />

Ma si vedrà ben altro, nella seconda metà dell’Ottocento: si vedrà un piccolo,<br />

minimo, oscurissimo impiegato ai dazi di Parigi, del tutto ignaro di scuole e<br />

accademie, guardare alla realtà con il candore di un bambino e restituirla con<br />

i colori d’un maestro antico. Si chiamava Henri Rousseau, il nostro pittore,<br />

ma tutti, da quando cominciò a farsi conoscere, verso i quarant’anni, per le sue<br />

opere, lo chiamarono “le douanier”, “il daziere”, forse con una punta d’ironia<br />

mista a tenerezza.<br />

Rousseau smentisce non soltanto i professori di disegno ma, in un certo senso,<br />

anche gli impressionisti, che di fronte alle novità del mondo non fuggono come gli<br />

accademici, ma chiedono soccorso alla luce e al colore. Innamorati della natura, se,<br />

guardandola, vi vedono inserita una locomotiva, per esempio, non la rimuovono,<br />

ma la stemperano nell’ebbrezza luministica e cromatica sino quasi ad annullarla.<br />

Il “douanier” non rifiuta la locomotiva, né il battello a vapore, né, quando s’alzerà<br />

in aria fragile, goffo e meraviglioso, l’aeroplano; né li riduce a pura macchia<br />

di colore: anzi li osserva con interesse, probabilmente con ammirazione, e con<br />

pazienza, e gioia, li ritrae, e in tal modo li fa entrare nel gioco eterno dell’arte.<br />

Guardate questo quadro, che sta nella collezione Jean Weber, a Parigi, e s’intitola<br />

Pescatori con la lenza: inventato dal vero, ci ridà la ferma, stupefatta atmosfera di<br />

un pomeriggio di domenica dell’anno 1901 a Parigi, nel suo alto silenzio, che il<br />

ronzio di quello strano aggeggio librato nel cielo sembra accrescere.<br />

Ecco la strada più difficile, per Rousseau l’unica possibile, per sublimare la realtà<br />

quotidiana, anche nell’età industriale: la strada della poesia. Che è una strada<br />

innanzitutto d’umiltà, come ben sapeva già il lontano, ma vicinissimo nello<br />

spirito, precedente di Henri Rousseau che si chiama Beato Angelico.<br />

giugno 1964<br />

⎡ Parata amorosa<br />

Francis Picabia<br />

Collezione privata ⎦<br />

216 217<br />

i<br />

Il nostro secolo vede crescere enormemente l’importanza<br />

dell’attività industriale, sulla terra la macchina costruita dall’uomo, sempre più<br />

complicata e perfetta nelle sue guise infinite, diventa preminente fra le cose visibili.<br />

La natura ricopre ancora gran parte del pianeta in cui viviamo, ma la gente<br />

che vive nelle città, i bambini che vi sono nati e che vi crescono, hanno scarse<br />

occasioni di venire a contatto con essa. Mentre la macchina è sempre presente<br />

nelle loro giornate, e diventa la compagna di tutte le ore ai molti, ai moltissimi,<br />

ai più avviati, come lavoro, nelle industrie. Gli artisti, i pittori i poeti i musicisti,<br />

continuano a reagire in due maniere diverse, antitetiche, come già all’inizio di


questa rivoluzione che investe l’esistenza di tutti. Alcuni rimuovono, per così dire,<br />

i fenomeni nuovi che turbano la natura, il corso delle stagioni, tutto, ed entrano<br />

sempre più addentro nella natura stessa, immedesimandosi in essa: le ultime opere<br />

degli impressionisti, che hanno operato nel Novecento, già vecchi ma sempre<br />

pieni di vitalità creativa, sono state dipinte in un ultimo, disperato abbraccio di<br />

piante, prati, acque. E in tale senso Ravel e Debussy hanno scritto musica, D’Annunzio<br />

poesia.<br />

Altri hanno invece accettato il nuovo corso della storia, e si sono detti: le macchine<br />

ci sono, sono anzi sempre più numerose, perché non dovrebbero entrare nei<br />

nostri quadri, nelle nostre sinfonie, nelle nostre pagine? I futuristi italiani, con<br />

ingenua foga, si sono messi a cantare<br />

Il Dadaismo è una strada pericolosa, le locomotive e le prime automobili<br />

ma ha saputo darci cose che hanno avuto da corsa con entusiasmo, memori di<br />

una funzione e un seguito, specie nel vasto quando si cantavano i destrieri.<br />

campo della grafica e della pubblicità.<br />

I dadaisti, così autochiamatisi da<br />

“Dada”, una parola che non voleva<br />

significare nulla o appena a cavallo nel linguaggio dei bambini, cioè nulla, andarono<br />

oltre, vollero rompere del tutto col passato, e con la sua arte. Il movimento,<br />

che nacque a Zurigo in Svizzera nel 1917 (mentre ancora divampava la guerra,<br />

rifiutata come manifestazione dello spirito borghese) è troppo complesso perché si<br />

possa racchiudere in una formula. Agisce sia in senso negativo, mirando a distruggere<br />

il già fatto, sia positivo, tentando di creare del nuovo.<br />

In questa direzione non poteva non tener conto della nuova, imponente realtà che<br />

è la macchina. Ma non la prende di petto, col candore e l’entusiasmo del futurismo,<br />

la guarda con distacco spassionato, ci gioca con un’ironia sottile che non esclude la<br />

partecipazione lirica, sia pure di qualità più intellettuale che sentimentale.<br />

218 219


Il più famoso pittore della scuola dadaista è Francis Picabia. Ecco qualche sua frase<br />

teorica: “Il cervello ha un’intima affinità con la qualità delle macchine”; “Io non<br />

posso soffrire la natura”; “Ridurre la pittura a una formazione senza problemi;<br />

ciascuno ci troverà le linee della sua vita, che vanno con i tempi in ferrovia e<br />

col telefono senza fili”. Ed ecco una sua opera, che s’intitola, con quel misto di<br />

ironia e di lirismo che è proprio della scuola, Parata amorosa. In effetti le macchine<br />

immaginarie e inutili, ma inventate guardando alle macchine vere e utili, vi sono<br />

composte in un gioco limpido, nuovo, non privo di una grazia lucida anche nel<br />

colore, netto, disteso, purissimo.<br />

Il Dadaismo è una strada pericolosa, ma nel suo primo fiorire ha saputo darci<br />

cose, come quella che pubblichiamo, che hanno avuto una funzione e un seguito,<br />

specie nel vasto campo della grafica, in particolare di quella postasi al servizio della<br />

pubblicità.<br />

agosto 1964<br />

⎡ L’Elephant Celebes<br />

Max Ernst<br />

Tate Modern - Londra ⎦<br />

i<br />

Il Surrealismo è un movimento artistico e letterario (veramente<br />

si autodefinisce “integrale”) che nasce nella Parigi degli anni Venti e si propaga<br />

un po’ da ogni parte, meno in Italia, dove pure aveva avuto in De Chirico una<br />

sorta di profeta.<br />

Come tutte le avanguardie, ma ai suoi teorici non piace che venga definito tale,<br />

trattandosi secondo essi di una categoria eterna dello spirito sul punto finalmente<br />

di prendere consapevolezza di sé, il Surrealismo nasce in opposizione all’ordine<br />

costituito.<br />

Il movimento tende a liberare l’arte e, data appunto la sua integralità, la vita, dai<br />

limiti angusti in cui le ha costrette la ragione (ecco una parentela col Romanticismo)<br />

e ad arricchirle con le risorse del sogno e dell’inconscio. Questi ultimi<br />

proprio negli stessi anni riconosciuti primari nell’uomo da due grandi scienziati,<br />

Freud e Jung. Il Surrealismo, che non ebbe lunga durata ma che influenzò durevolmente<br />

la cultura del nostro secolo, ebbe pure il suo peso nello sviluppo di<br />

un’arte popolare come il cinema. I pittori aderenti a quella sorta di internazionale<br />

surrealista fondata a Parigi da André Breton ebbero in comune la ricerca della<br />

sorpresa, del fantastico nella realtà di tutti i giorni e uno scoperto, persino vantato,<br />

disinteresse per la bella pennellata, ancora voluta invece con accanimento dai<br />

cubisti Braque e Picasso.<br />

L’importante era raccontare, avendo medianicamente captato, il meraviglioso che<br />

sta nelle cose, non da scomporre e da esasperare, secondo il metodo cubista ed<br />

espressionista, ma da fare entrare in un gioco infinito e assurdo come quello del<br />

sogno.<br />

Movimento non tipico dell’età industriale, o soltanto in quanto partito in rivolta<br />

contro di essa, perché figlia della ragione, il Surrealismo non rifiuta gli oggetti<br />

che l’età stessa produce, ma li assume, li butta per così dire nel suo gran calderone<br />

stregonesco, svuotandoli del tutto d’ogni contenuto e funzione.<br />

Il quadro che vi mostriamo e che è stato dipinto da un maestro del Surrealismo,<br />

il tedesco espatriato Max Ernst, nel 1922, è tipico: in uno spazio senza limiti che<br />

potrebbe essere la terra come la profondità sottomarina, avanza un mostro pauroso<br />

(nel sogno la paura è una delle componenti principali) che ha la vaga struttura<br />

dell’uomo, la lentezza del pachiderma, ma è in effetti una macchina, un’enorme<br />

220 221


macchina inutile, decorata di qualche elemento assurdo, come quella specie di<br />

manica di pizzo infilata nel braccio-tubo. Dietro di lei sta qualcosa che rassomi-<br />

glia a un albero scheletrico, ma forse<br />

composto di elementi meccanici,<br />

mentre in primo piano un busto senza<br />

testa, quasi di statua antica, fornito di<br />

un guanto, sembra volerci invitare a<br />

prendere in considerazione l’enorme<br />

bestia che occupa la tela. Incubi simili ne dipingevano anche i grandi pittori del<br />

passato, basterebbe ricordare Bruegel e Bosch: ma si trattava, mettiamo delle tentazioni<br />

di sant’Antonio o di altre visioni infernali. Qui, e secondo l’ideologia surrealista<br />

in generale, il mondo non ha alternative, esiste soltanto come sogno, anzi<br />

come incubo. E il mondo dell’età industriale non può non fornire i suoi oggetti<br />

a questo ininterrotto e, diciamolo pure, tutt’altro che gradevole anche se spesso<br />

impressionante e suggestivo sogno.<br />

settembre 1964<br />

222 223<br />

Ne “L’Elephant Celebes”, e secondo<br />

l’ideologia surrealista in generale,<br />

il mondo non ha alternative, esiste<br />

soltanto come sogno, anzi come incubo.<br />

i<br />

⎡ Studio per “I costruttori”<br />

Fernand Léger<br />

Scottish National Gallery of Modern Art - Edimburgo ⎦<br />

Gli artisti, precisiamo, i pittori, da quando ha avuto inizio la<br />

cosiddetta rivoluzione industriale, cioè all’incirca da più di un secolo e mezzo,<br />

hanno, in un modo o nell’altro, con maggiore o minor frequenza e intensità a<br />

seconda che si trovassero a operare in seno a paesi in cui la nuova civiltà della mac-


china s’era più o meno sviluppata, saputo vedere e rappresentare le forme inedite<br />

della macchina stessa. Chi è stato obiettivo, chi lirico, chi fantastico nel tentativo,<br />

spesso riuscito, di rendere l’aspetto dei nuovi oggetti venuti a inserirsi nella nostra<br />

realtà quotidiana. E i risultati, da un punto di vista puramente artistico, sono stati<br />

diversi: comunque l’esperienza è stata, e continua a essere, positiva, quando chi<br />

l’ha condotta avanti era un artista autentico, negativa negli altri casi. È un discorso<br />

lapalissiano, ma l’unico possibile: era così sbagliato affermare, come faceva<br />

Marinetti, che soltanto la macchina nei tempi moderni avrebbe ispirato un’arte<br />

valida, quanto affermare il contrario, come veniva fatto dai nemici di Marinetti.<br />

Una locomotiva dipinta da Boccioni e una casa sull’Appennino bolognese dipinta<br />

da Morandi sono ugualmente significative dell’arte italiana nella prima metà del<br />

Novecento.<br />

Ma queste macchine chi le costruisce, chi le monta, chi le fa andare? Degli uomini<br />

che sono gli uomini di sempre, ma anche gli uomini che devono vivere gran parte<br />

della loro giornata, della loro vita con le macchine: e ne sono perciò condizionati.<br />

Non esistono molti esempi convincenti di arte che abbia preso come soggetto<br />

questi uomini nuovi della civiltà industriale. Si sono visti, da parte dei pittori<br />

appartenenti alla scuola del Realismo socialista, compiere sforzi degni di rispetto<br />

nel tentativo di rendere l’operaio, alienato o esaltato dal suo lavoro a seconda della<br />

sua appartenenza a questo o quell’ordinamento economico e sociale: sforzi purtroppo<br />

quasi sempre senza frutto.<br />

Tuttavia c’è stato qualche pittore cui è toccata la ventura di saper rendere artisticamente,<br />

fuori dalla polemica e dal sentimentalismo, ugualmente nocivi, l’uomo<br />

nuovo dell’età industriale. Basterà ricordare l’americano Ben Shahn, in questa<br />

pagina già presentato nel corso d’una storia della pittura statunitense, e il francese<br />

Fernand Léger. Uomo d’idee progressiste, Léger ha guardato ai suoi compatrioti<br />

impegnati nel lavoro manuale con simpatia e affetto ma anche con grande libertà<br />

di visione e, quel che conta moltissimo, di resa pittorica. Le sue grandi composizioni<br />

ispirate al mondo operaio non sono meschinamente, puntigliosamente realistiche<br />

né vacuamente simbolico-esaltatorie: sono vere, ma in un’accezione aperta,<br />

fresca, svariante. Guardate questo cantiere edile con i suoi carpentieri e manovali,<br />

all’opera e in riposo, le sue strutture metalliche, i suoi alberi e biciclette, il suo<br />

cielo e le sue nuvole: c’è una risonanza estremamente vitale, in esso, di spazio e di<br />

colore, una poesia ampia, distesa, che ricorda, mentre canta il presente, le serene<br />

decorazioni a fresco delle cattedrali antiche.<br />

ottobre 1964<br />

⎡ Camion Giallo<br />

Mario Sironi<br />

Collezione privata ⎦<br />

224 225<br />

i<br />

L’industrializzazione dell’Italia è stata più tarda e più lenta di<br />

quella dell’Inghilterra, della Germania e della Francia, e per oltre un secolo non ha<br />

interessato che la parte settentrionale del Paese, soprattutto il cosiddetto triangolo<br />

Torino-Milano-Genova. Eppure qui è nato il movimento futurista, tutto volto,<br />

sia pure con una certa rozzezza e ingenuità, a celebrare l’avvento della macchina,<br />

strumento primo dell’industrializzazione. Ma il Futurismo, dal quale si distaccarono<br />

presto uomini che dovevano dare il meglio di sé in altre direzioni, come il<br />

pittore Carrà e lo scrittore Palazzeschi, si sviluppò poi in senso tutto vitalistico e<br />

pratico, contribuendo con il dannunzianesimo alla nascita del partito fascista. È<br />

curioso notare che al fascismo aderì anche un artista severo e tutt’altro che vita


226 227<br />

listico quale Mario Sironi: sardo d’origine, egli si trapiantò giovane a Milano, ed<br />

è molto naturale che la città lombarda, nel primo dopoguerra in fase di rapida<br />

industrializzazione, abbia colpito e traumatizzato la sua sensibilità di figlio d’una<br />

civiltà arcaica. Curioso, ripetiamo, che Sironi, sul piano artistico testimone onesto<br />

e serissimo del doloroso processo di trasformazione economica e sociale in cui<br />

era venuto a trovarsi, ideologicamente reagisca con l’abbracciare un movimento<br />

evasivo e antistorico, preoccupato<br />

non di risolvere ma di rimandare i Sironi trova occasioni per uscire dalla strada<br />

problemi.<br />

ufficiale delle celebrazioni e per tornare<br />

Partito pure lui dal Futurismo, sentito nel fango della periferia che gli aveva dato<br />

però con una certa tetraggine, forse le occasioni più autentiche di esprimersi.<br />

costituzionale in un sardo autentico,<br />

anche se trapiantato, Sironi nel dopoguerra sente il richiamo del ritorno all’ordine<br />

(ecco un punto di contatto, secondo noi più apparente che reale, ancora col<br />

fascismo) novecentista, neoprimitivista da un lato e dell’Espressionismo dall’altro.<br />

Ed è proprio sulla linea dell’Espressionismo che Sironi ci dà le sue cose migliori:<br />

quelle visioni di periferia industriale in cui la macchina, non più allegra come<br />

nei futuristi, ma grave e squallida come nella realtà di tutti i giorni di chi la usa,<br />

diventa protagonista anonimo eppure estremamente significativo del quadro. Si<br />

veda questo Camion giallo, opera giovanile ma fra le più originali e compiute del<br />

pittore. Sul fondo, rese in una sintesi che si richiama forse a Cézanne e ai maestri<br />

italiani antichi da Giotto a Masaccio, le case dell’uomo con le orbite desolate delle<br />

finestre, in primo piano un camion, forse un 15 Ter o un 18 BL, monumentale e<br />

quasi simbolico nella sua centralità. In un altro contesto storico e artistico una così<br />

acuta attenzione alla condizione umana (nel quadro l’uomo non c’è ma chi non ne<br />

sente la presenza collettiva, umiliata e annichilita, negli alveari operai?) avrebbe


preso il segno della rivolta, o almeno della protesta. Nell’Italia avviatasi al ventennio<br />

corporativo e imperiale Sironi si tiene al suo stile greve, impastato e doloroso,<br />

ma si adegua, anzi aderisce e collabora, all’ammissione nell’arte di contenuti falsi<br />

e retorici, privi di qualsiasi possibilità di sublimazione estetica. Tuttavia, nel lungo<br />

corso della sua vita di pittore, Sironi trova occasioni per uscire dalla strada ufficiale<br />

delle celebrazioni e per tornare nel fango della periferia che gli aveva dato le occasioni<br />

più autentiche di esprimersi, e che continua a offrirgliene ancora. Pur tra le<br />

contraddizioni e i cedimenti, le false partenze e le cadute, Sironi riesce a salvare<br />

una sua integrità d’uomo e d’artista, di cui fanno fede non poche opere, ormai<br />

entrate nella storia dell’arte italiana.<br />

⎡ La stufa<br />

novembre<br />

dicembre 1964 Claes Oldenburg<br />

Collezione privata ⎦<br />

i<br />

Chiudiamo questa serie, iniziata con un pittore inglese del Settecento,<br />

con un pittore americano d’oggi. E non a caso: l’Inghilterra è il paese<br />

dove la rivoluzione industriale ha preso l’avvio, l’America quello in cui essa ha<br />

operato la più profonda trasformazione della vita, persino della natura. E infine<br />

anche dell’arte.<br />

Il pittore che presentiamo è uno dei primi e più famosi di quel gruppo, fattosi<br />

conoscere a New York verso il ’60 e consacrato alla Biennale di Venezia ultima,<br />

che, non sappiamo bene chi, ha racchiuso in un nome, abbastanza ironico: “pop<br />

art”. Ci spieghiamo, “pop art” è l’abbreviazione di “popular art”, cioè arte popo-<br />

lare. Così in America si chiama “pop music” la musica che da noi si dice leggera,<br />

canzonette e ballabili.<br />

Ora, il gruppo di artisti che ha fondato questo movimento partiva da premesse<br />

tutt’altro che popolari, si rifaceva in un certo senso a Dada e al Surrealismo, le<br />

scuole più intellettualistiche dell’avanguardia europea.<br />

Perché “pop art”, dunque? Perché questi pittori hanno attinto, e attingono, non<br />

soltanto i motivi ma gli oggetti veri e propri da quell’immenso arsenale di cose,<br />

le più disparate, che l’industria, dalla meccanica all’alimentare alla culturale eccetera,<br />

ci scaraventa ogni giorno sotto gli occhi. Che cosa di più popolare d’un<br />

paraurti, d’un “ice-cream”, d’un fumetto?<br />

Abbiamo nominato, a caso, tre motivi tipici della “pop art”, ma potevamo nominarne<br />

tanti altri, su questa scala. Gli occhi dei pittori “pop” non cercano cieli e<br />

nuvole, ma vetrine di supermercati e cimiteri d’automobili. Ci si è detto: se tale<br />

è la realtà, in nome di che cosa rifiutarla? Non solo la dobbiamo accettare, ma<br />

esaltare, ingrandendola e accrescendone la suggestione visiva con il calore nostro.<br />

Alla radice della “pop art” c’è dunque un accoglimento, o una presa di possesso,<br />

del mondo attuale, che il penultimo movimento d’avanguardia, l’Informale, aveva<br />

negato, rifugiandosi nel puro colore.<br />

L’idea di dare, esporre oggetti, o falsi oggetti, invece di rappresentarli sulla tela<br />

risale, come abbiamo detto, ai dadaisti e surrealisti degli anni Venti. Ma qui si è<br />

arrivati alle estreme conseguenze, con un’allegra violenza che non poteva essere<br />

che americana, e che tuttavia possiamo ben capire, perché l’influenza dell’oggetto<br />

di consumo e della pubblicità sulla nostra vita si va ogni giorno di più portando<br />

a livello americano. Capire non vuol dire sempre ammirare, o almeno accettare.<br />

Noi abbiamo voluto documentare un fenomeno, la cui vitalità attuale ci sembra<br />

certa, la cui durata d’altra parte non sembra probabile. E non è il fine dell’arte<br />

228 229


la sopravvivenza al tempo? Illusione, dicono gli artisti “pop”, nella civiltà dei<br />

consumi e della bomba all’idrogeno, l’idea che l’arte possa salvarsi. In conseguenza<br />

di ciò essi fabbricano le loro opere inimpressionanti e caduche.<br />

Quella che presentiamo è una scultura-pittura di Claes Oldenburg, con Rauschenberg<br />

premiato a Venezia, il più famoso dei pittori “pop”. Si tratta d’un finto<br />

oggetto utile, una sorta di trofeo di cucina con carne e verdura nude e crude,<br />

prima dell’uso. Il tutto è in plastica, gomma e altre materie simili, esaltate da un<br />

colore fiammante.<br />

Esaltazione, o critica spietata e accusa, o almeno ironia, sulla civiltà cui apparteniamo?<br />

Gli artisti “pop” non si pronunciano, e dicono che non sono tenuti a<br />

dare spiegazioni, mentre erano, e sono tenuti a fornire, con le loro opere, delle<br />

testimonianze.<br />

© Foto Scala, Firenze<br />

concessione Ministero Beni e Attività Culturali<br />

Pagine: 33, 40, 48, 108, 112, 124<br />

© Foto Scala, Firenze<br />

Pagine: 43, 57, 82, 85, 187<br />

Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst,<br />

Kultur und Geschichte, Berlin<br />

Pagina: 130<br />

© Copyright The National Gallery, London/<br />

Scala, Firenze<br />

Pagina: 151<br />

The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari<br />

Pagine: 55, 63, 214<br />

Giraudon/The Bridgeman Art Library/<br />

Archivi Alinari<br />

Pagine: 88, 146<br />

230 231<br />

Victoria & Albert Museum, London,<br />

UK/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari<br />

Pagina: 184<br />

© Tate Gallery, London<br />

Pagina: 93<br />

© Lessing/Contrasto<br />

Pagine: 74, 159, 173, 192<br />

© Photoservice Electa/AKG Images<br />

Pagina: 70<br />

© 2011, Digital image, The Museum of Modern Art,<br />

New York/Scala, Firenze<br />

Pagina: 198<br />

Giorgio Morandi, Pablo Picasso,<br />

André Derain, Vassilij Kandinskij, Paul Klee,<br />

Francis Picabia, Max Ernst, Mario Sironi<br />

© SIAE 2011


eni.com<br />

un ringraziamento particolare a<br />

Stampa: GPT Gruppo Poligrafico Tiberino<br />

settembre 2011<br />

edizione fuori commercio

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