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La famiglia Remotti Viazzo.pdf - 276.04 Kb - Psicologia

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Pier Paolo <strong>Viazzo</strong> e Francesco <strong>Remotti</strong><br />

<strong>La</strong> <strong>famiglia</strong>.<br />

Uno sguardo antropologico<br />

Sommario – 1. Guardare la <strong>famiglia</strong> con occhi diversi (p. 1); 2. Nascita e<br />

declino della “<strong>famiglia</strong> moderna” (p. 2); 3. Aspetti antropologici delle<br />

transizioni demografiche (p. 7); 4. L’anomalia italiana (p. 14); 5. Nuove<br />

famiglie e nuovi parenti? (p. 19); 6. Critica della naturalità (p. 23); 7. Un<br />

mondo assai più accidentato (p. 31); 8. Gruppi domestici (p. 45).<br />

1. Guardare la <strong>famiglia</strong> con occhi diversi<br />

Una delle più autorevoli studiose della <strong>famiglia</strong> contemporanea,<br />

la sociologa Catherine Bonvalet, ha recentemente osservato che<br />

«la crisi dello stato sociale, il declino delle ideologie e lo<br />

sviluppo di nuove configurazioni <strong>famiglia</strong>ri ci hanno spinti a<br />

guardare la <strong>famiglia</strong> con occhi diversi, come gli antropologi e gli<br />

storici da tempo ci invitavano a fare» 1 .<br />

Questa considerazione, quasi un’ammissione, da parte di una<br />

sociologa che lavora presso l’INED, il prestigioso Istituto<br />

Nazionale di Studi Demografici francese, è particolarmente<br />

significativa, in primo luogo perché rivela come fino a pochi<br />

anni fa una sorta di confine abbia separato, nel campo degli<br />

studi sulla <strong>famiglia</strong>, le diverse scienze sociali e i loro paradigmi<br />

interpretativi: da una parte i sociologi e i demografi, che<br />

accettavano le premesse e le tesi della teoria della<br />

modernizzazione, dall’altra gli storici e gli antropologi, che<br />

mettevano invece in guardia contro le limitazioni di questa<br />

teoria e invitavano sociologi e demografi a «guardare la <strong>famiglia</strong><br />

con occhi diversi».<br />

Utile è anche il richiamo a tre dei principali mutamenti che negli<br />

ultimi decenni hanno prepotentemente riportato alla ribalta la<br />

<strong>famiglia</strong>: innanzitutto la crisi del welfare state in gran parte dei<br />

paesi europei e occidentali e la tendenza di molti governi a<br />

delegare dunque alle famiglie una quota consistente degli oneri<br />

1 C. Bonvalet, “<strong>La</strong> famille-entourage locale”, Population, 58 (2003), p. 10.<br />

1


assistenziali che da decenni i vari stati si erano in misura<br />

crescente accollati; poi il declino di quelle ideologie che nella<br />

<strong>famiglia</strong> avevano visto semplicemente un luogo di oppressione e<br />

un meccanismo di riproduzione delle disuguaglianze sociali; e<br />

infine l’emergere, soprattutto negli ultimi vent’anni, di<br />

configurazioni <strong>famiglia</strong>ri inedite che appaiono in continua<br />

trasformazione e stanno generando una proliferazione tipologica<br />

che ne rende molto spesso difficile una definizione e una<br />

classificazione anche sommaria.<br />

<strong>La</strong> Conferenza Nazionale della Famiglia tenutasi a Firenze dal<br />

24 al 26 maggio 2007 – per l’eco mediatica che ha suscitato, per<br />

l’ampiezza dei temi che ha toccato, e anche per le polemiche che<br />

l’hanno preceduta e accompagnata – ha rappresentato<br />

l’espressione forse più visibile, per certi versi il culmine, di una<br />

crescita d’interesse e di un dibattito sempre più serrato che negli<br />

ultimi anni hanno reso la <strong>famiglia</strong> uno dei temi più delicati e<br />

“caldi” nel quadro politico italiano. Le ragioni sono in parte<br />

comuni a tutti i paesi europei e occidentali. In parte, invece,<br />

sembrano essere specifiche al panorama italiano e pongono<br />

questioni che sempre più esigono di essere affrontate “con occhi<br />

diversi” rispetto ai modelli interpretativi che a lungo hanno<br />

predominato. Anche perché la storia recente della <strong>famiglia</strong>,<br />

soprattutto in Italia, si presenta ricca di sviluppi inattesi e di<br />

paradossi – quando non di autentici enigmi – che rendono<br />

difficile dar conto delle tendenze in atto, prevedere con<br />

ragionevole sicurezza l’evoluzione futura e, di conseguenza,<br />

indirizzare correttamente le politiche di intervento.<br />

Per meglio comprendere in che cosa consista il carattere così<br />

sorprendente di queste trasformazioni può essere utile ritornare<br />

brevemente a una trentina di anni fa, quando tutto il mondo<br />

occidentale pareva avviato a una transizione chiara e<br />

irreversibile dalla <strong>famiglia</strong> tradizionale alla <strong>famiglia</strong> moderna.<br />

2. Nascita e declino della “<strong>famiglia</strong> moderna”<br />

Dovendo indicare una data che segni simbolicamente la nascita<br />

della <strong>famiglia</strong> moderna è quasi fatale – soprattutto in Italia –<br />

pensare immediatamente al 1975. Nel nostro paese, infatti, in<br />

quell’anno viene riformato il diritto di <strong>famiglia</strong>, e il nuovo<br />

2


codice è salutato dai suoi propugnatori come il «completamento<br />

in senso moderno» di un lungo processo storico volto ad<br />

affermare progressivamente un insieme di valori distintivi di una<br />

società realmente civile: in particolare il riconoscimento della<br />

parità dei coniugi e l’abolizione della discriminazione tra figli<br />

legittimi e naturali.<br />

Il 1975 è anche, per gli studiosi che si occupano della <strong>famiglia</strong>,<br />

l’anno in cui Edward Shorter pubblica un libro famoso e<br />

influente: The Making of the Modern Family. In questo libro<br />

Shorter proponeva ai suoi lettori dati e argomentazioni che<br />

sembravano sancire al di là di ogni ragionevole dubbio la nascita<br />

e l’irresistibile ascesa di un modo nuovo di formare e vivere la<br />

<strong>famiglia</strong> e individuava il passo decisivo nella «recisione da parte<br />

della coppia dei legami con i genitori, con i parenti e con la<br />

comunità». A questa trasformazione aveva innegabilmente<br />

contribuito, secondo Shorter, una «rivoluzione dei sentimenti»<br />

che a più riprese aveva mutato – per un numero sempre<br />

maggiore di uomini e donne – il modo di considerare alcuni<br />

aspetti essenziali della vita <strong>famiglia</strong>re: l’affetto, la simpatia,<br />

l’amore romantico si erano gradualmente sostituiti alle<br />

considerazioni “strumentali” che avevano in precedenza guidato<br />

la formazione della <strong>famiglia</strong> tradizionale. Pur assegnando una<br />

giusta importanza a questi mutamenti di mentalità, Shorter non<br />

mancava tuttavia di fare propria la visione inequivocabilmente<br />

evoluzionistica che aveva fino ad allora ispirato gli studi<br />

sociologici sulla <strong>famiglia</strong>, e a indicare quindi nei processi di<br />

industrializzazione e urbanizzazione i principali fattori<br />

responsabili della distruzione dei vecchi legami di parentela e<br />

del passaggio dalla <strong>famiglia</strong> “estesa” e multigenerazionale della<br />

società tradizionale a quella “nucleare”, indipendente e isolata<br />

della società moderna 2 .<br />

Non si può peraltro ignorare – e, certo, non lo ignoravano allora<br />

né gli studiosi della <strong>famiglia</strong> né i protagonisti silenziosi di quella<br />

profonda trasformazione delle relazioni <strong>famiglia</strong>ri e di parentela<br />

– che recidendo, o quanto meno allentando, i legami con<br />

genitori e parenti la coppia moderna rinunciava in tutto o in<br />

parte al loro sostegno. Indipendenza e isolamento sembravano<br />

però essere resi possibili dalle prospettive di lavoro che<br />

2 E. Shorter, The Making of the Modern Family, New York, Basic Books,<br />

1975, tradotto in italiano come Famiglia e civiltà, Milano, Rizzoli, 1978.<br />

3


l’economia moderna stava aprendo non soltanto agli uomini ma<br />

anche alle donne e, ancor di più, dall’aiuto che veniva garantito<br />

dallo stato. Non era casuale che la <strong>famiglia</strong> moderna si fosse<br />

affermata più precocemente e compiutamente nell’Europa<br />

settentrionale, in Gran Bretagna, in Olanda e soprattutto nelle<br />

socialdemocrazie scandinave alle quali i paesi dell’Europa<br />

meridionale invidiavano un sistema di welfare che assicurava<br />

agli individui diritti e sostegni economici e sociali sconosciuti ai<br />

cittadini degli stati più “arretrati”. Ma si poteva presumere che<br />

con il crescere del benessere economico anche l’Italia e gli altri<br />

paesi meno sviluppati si sarebbero finalmente allineati ai<br />

modelli e ai valori <strong>famiglia</strong>ri che già prevalevano nell’Europa<br />

del nord. <strong>La</strong> riforma del diritto di <strong>famiglia</strong> del 1975 era una<br />

prova che anche l’Italia stava muovendosi nella “giusta”<br />

direzione. E a confermarlo giungeva qualche anno più tardi, nel<br />

1981, l’abrogazione delle norme che con maggiore forza<br />

simbolica parevano incarnare il ritardo civile e culturale<br />

dell’Italia, e specialmente del suo Mezzogiorno, rispetto ai paesi<br />

nordici: gli articoli 578 e 587 del codice penale, che<br />

concedevano attenuanti a chi, per salvaguardare l’onore proprio<br />

o di uno stretto congiunto, cagionava la morte di un neonato, e<br />

soprattutto consentivano di ridurre la pena all’uomo che<br />

uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere<br />

«l’onor suo o della sua <strong>famiglia</strong>».<br />

Si pensava inoltre che la crescita economica avrebbe portato<br />

l’Italia ad allinearsi al nord Europa anche demograficamente,<br />

attraverso una riduzione di quella elevata e incontrollata<br />

fecondità “mediterranea” che era vista come conseguenza e al<br />

tempo stesso causa perdurante dell’arretratezza economica.<br />

Come è noto, uno dei mutamenti che più hanno segnato la storia<br />

europea e mondiale nel corso degli ultimi due secoli è stato il<br />

passaggio da livelli elevati di mortalità e natalità a un regime<br />

demografico caratterizzato da una mortalità ridotta e da una<br />

fecondità controllata. Lo sviluppo economico stimolato<br />

dall’industrializzazione, i paralleli miglioramenti nel campo<br />

dell’alimentazione, i progressi della medicina e della sanità<br />

pubblica hanno infatti prodotto un declino della mortalità a cui<br />

le popolazioni europee, dopo un iniziale periodo di inerzia e di<br />

conseguente crescita demografica, hanno risposto riducendo<br />

consapevolmente il numero delle nascite. Prevedibilmente,<br />

4


questo passaggio – a cui demografi, economisti e sociologi<br />

danno comunemente il nome di “transizione demografica” – si è<br />

compiuto con maggiore rapidità nei paesi nordici che nei paesi<br />

dell’Europa mediterranea. Nel 1930 la speranza di vita era<br />

stimata per le donne a 65,7 anni in Norvegia, a 64,4 anni in<br />

Svezia e a 63,2 anni per la Danimarca: circa dieci anni di<br />

“vantaggio” rispetto all’Italia (54,4 anni), per non parlare della<br />

Spagna e del Portogallo (51,6 e 50 anni rispettivamente) o dei<br />

paesi dell’est europeo, dove la mortalità era ancora più elevata.<br />

Trent’anni più tardi, intorno al 1960, il divario si era<br />

notevolmente ridotto: la speranza di vita delle donne svedesi era<br />

salita a 75,2 anni, ma l’Italia incalzava ormai a 71,4 anni. E<br />

conformemente alle attese della teoria della transizione<br />

demografica anche la fecondità era molto calata: agli inizi degli<br />

anni sessanta le donne italiane avevano mediamente 2,4 figli a<br />

testa, una cifra ormai di poco superiore a quella di 2,2 figli per<br />

donna che poteva vantare – giacché la bassa fecondità era<br />

considerata allora positivamente, come segno di modernità – un<br />

paese come la Svezia. I livelli e le tendenze della mortalità e<br />

della natalità in Europa sembravano corrispondere bene alle<br />

attese dei demografi, degli economisti e dei sociologi. Si<br />

pensava pertanto che nella seconda metà del XX secolo la<br />

<strong>famiglia</strong> ormai “modernizzata” si sarebbe fatta artefice in tutta<br />

Europa, seppure con tempi lievemente diversi, del<br />

raggiungimento e mantenimento di una quieta e razionale<br />

“crescita zero”. E ci si attendeva anche che il matrimonio – certo<br />

un matrimonio molto diverso, più equilibrato e simmetrico –<br />

rimanesse nondimeno il perno su cui avrebbe continuato a<br />

ruotare la <strong>famiglia</strong> nucleare.<br />

Le cose erano invece destinate ad andare assai diversamente. Da<br />

una parte, infatti, la mortalità ha continuato a declinare ben oltre<br />

le attese e le speranze, e a calare non è stata solo la mortalità<br />

infantile ma anche quella adulta, con il conseguente aumento<br />

della longevità che è oggi sotto gli occhi di tutti: sempre in<br />

Italia, il numero dei centenari è salito da una cinquantina intorno<br />

al 1900 e poco più di un centinaio nel 1950 (2,2 per milione di<br />

abitanti) a circa 10.000 oggi (quasi 200 per milione di abitanti).<br />

Sotto gli occhi di tutti è però anche il calo drastico della natalità,<br />

avvertito ormai in quasi tutti i paesi europei e industrializzati,<br />

ma particolarmente pronunciato, e paradossale, in Italia, la<br />

5


“Grande Proletaria” da sempre considerata la terra per<br />

eccellenza delle famiglie numerose: come segnalano con<br />

crescente rilievo e allarme i giornali, i livelli attuali di 1,2 o 1,3<br />

figli per donna sono lontani dal garantire il “rimpiazzo” della<br />

popolazione e non sono dunque in grado, pur in presenza di una<br />

mortalità fortemente ridotta, di garantire quella “crescita zero”<br />

che si riteneva dover essere il traguardo finale della transizione<br />

demografica. A complicare non poco il quadro complessivo, a<br />

questo autentico ribaltamento demografico si sono infine<br />

accompagnate negli ultimi decenni inattese e non meno<br />

drastiche trasformazioni del matrimonio e della composizione<br />

dei gruppi coresidenti. Si comprende perché, per designare<br />

questo insieme di trasformazioni radicali e in massima parte<br />

impreviste, verso la fine degli anni ottanta alcuni studiosi<br />

abbiano iniziato a parlare di una “seconda transizione<br />

demografica”, espressione ormai entrata ampiamente nell’uso<br />

non solo scientifico.<br />

Di questi mutamenti trattano diffusamente Francesco Billari e<br />

Alessandro Rosina nei loro contributi a questo volume e al<br />

volume seguente dedicato ai figli. Ma ci è sembrato bene<br />

anticipare qualche dato estremamente sommario, perché di tali<br />

mutamenti l’antropologia sociale e culturale è stata, negli ultimi<br />

anni, sempre più spesso invitata ad occuparsi, e per più ragioni.<br />

Una prima ragione è che questi mutamenti non soltanto hanno<br />

sorpreso i sostenitori della teoria della modernizzazione e di<br />

quella che sempre più di frequente si tende ormai a chiamare<br />

“prima” transizione demografica, ma stentano anche ad essere<br />

ricondotti alle predizioni dei teorici della seconda transizione<br />

demografica. Molto interesse suscita il caso dell’Italia e di altri<br />

paesi dell’Europa mediterranea, dove la seconda transizione<br />

sembra per certi aspetti essersi spinta oltre i livelli di mutamento<br />

previsti dalla teoria e per altri aspetti essersi invece arrestata al<br />

di qua di soglie che si riteneva dovessero essere ineluttabilmente<br />

superate. Non pochi demografi e sociologi, e qualche<br />

economista, sospettano che per gettare luce su queste anomalie<br />

sia necessario non solo comprenderne le cause strutturali, ma<br />

individuare anche fattori esplicativi che appartengono alla sfera<br />

della cultura e che sono pertanto di competenza, prima che di<br />

ogni altra disciplina, dell’antropologia culturale. Al di là di<br />

queste peculiarità italiane e mediterranee, va però sottolineato<br />

6


che le due transizioni demografiche hanno avuto, ovunque esse<br />

si siano manifestate, conseguenze profonde la cui rilevanza<br />

antropologica è manifesta: su quello che potremmo definire il<br />

versante “culturale” dell’antropologia colpiscono soprattutto i<br />

mutamenti, non di rado sconcertanti, che stanno insorgendo<br />

nella stessa percezione della vita e della morte; mentre sul<br />

versante “sociale” si impongono sempre più all’attenzione i<br />

processi che stanno trasformando la composizione e la struttura<br />

delle reti di parentela e la complessa riallocazione di diritti e di<br />

doveri, di attese e di obblighi morali che queste trasformazioni<br />

comportano.<br />

Nei paragrafi che seguono ci è in effetti sembrato opportuno<br />

esaminare dapprima alcune implicazioni antropologiche delle<br />

due transizioni demografiche che paiono rivestire una portata<br />

più generale. Ci si concentrerà poi su alcune peculiarità che<br />

l’Italia condivide in buona parte con i paesi vicini che si<br />

affacciano sul Mediterraneo, domandandoci quali possano<br />

essere i “fattori culturali” che intervengono a determinare tali<br />

peculiarità. Si constaterà anche che nel nostro paese alcune delle<br />

trasformazioni associate alle due transizioni demografiche –<br />

persino quando possono apparire relativamente modeste rispetto<br />

ad altri paesi o alle previsioni degli esperti – hanno nondimeno<br />

fatto emergere questioni etiche e sociali così delicate da<br />

suscitare apprensioni e polemiche che ancora una volta,<br />

toccando temi quali il relativismo culturale e la naturalità della<br />

<strong>famiglia</strong>, sembrano richiedere un intervento da parte di una<br />

disciplina, l’antropologia culturale, che di questi temi si è<br />

occupata sin dai suoi inizi accumulando un’ampia mole di<br />

documentazione etnografica e di analisi teoriche.<br />

3. Aspetti antropologici delle transizioni demografiche<br />

Tra gli ancora troppo pochi studiosi che hanno cercato di<br />

tradurre in sapere scientifico i grandi mutamenti antropologici<br />

che si sono accompagnati alle due transizioni demografiche, una<br />

posizione di rilievo è occupata da Pier Giorgio Solinas. In una<br />

serie di saggi, recentemente riuniti in volume 3 , questo<br />

3 P.G. Solinas, «L’acqua strangia». Il declino della parentela nella società<br />

complessa, Milano, Franco Angeli, 2004.<br />

7


antropologo ha offerto ipotesi penetranti che possono aiutarci a<br />

meglio comprendere le ragioni di questi mutamenti, e soprattutto<br />

a coglierne implicazioni fondamentali che, pur toccandoci da<br />

vicino, sfuggono spesso al nostro sguardo e alla nostra<br />

consapevolezza.<br />

Un primo aspetto su cui Solinas richiama l’attenzione riguarda il<br />

nostro mutato atteggiamento verso quella che i demografi<br />

chiamano “fecondità”, vale a dire la messa in atto delle<br />

potenzialità riproduttive (“fertilità” nel linguaggio demografico).<br />

Prima che il declino della mortalità costringesse le popolazioni<br />

europee a imboccare la strada della transizione demografica,<br />

avere dei figli era con ogni probabilità apparso alla grande<br />

maggioranza degli uomini e delle donne come qualcosa di<br />

naturale (non a caso i demografi parlano, per l’età pretransizionale,<br />

di “fecondità naturale”), di incontrollabile e, al<br />

tempo stesso, di desiderabile. Quel che sappiamo direttamente<br />

sulle società europee preindustriali, insieme a quanto ci<br />

suggeriscono le innumerevoli testimonianze indirette raccolte<br />

dagli antropologi che hanno studiato società extraeuropee, ci fa<br />

presumere che non avere figli fosse visto come un disonore e<br />

morire senza lasciare discendenti come una disgrazia, mentre il<br />

successo riproduttivo era motivo di vanto, di onore e – non<br />

ultimo – di conforto: come ha osservato il demografo Nathan<br />

Keyfitz in un saggio molto citato a questo proposito, oltre ad<br />

aumentare il prestigio del padre, i figli perpetuavano la linea di<br />

<strong>famiglia</strong> e in tal modo gli assicuravano una sorta di<br />

«immortalità sostitutiva» 4 .<br />

Con l’avvio della transizione, la “fecondità naturale” si<br />

trasforma gradualmente in “fecondità contenibile”, soggetta alla<br />

razionalità e alle facoltà di scelta di genitori che sempre più<br />

investono sulla qualità della vita che intendono offrire ai figli.<br />

Ma con la bassissima fecondità media che caratterizza la<br />

seconda transizione demografica – dovuta in parte non<br />

trascurabile al numero considerevolmente cresciuto di uomini e<br />

donne che decidono di rinunciare alla procreazione e alla<br />

riproduzione – il quadro addirittura si ribalta. Estremizzando un<br />

poco, si direbbe che il non avere figli sia sempre più sentito<br />

4 N. Keyftz, “The family that does non reproduce itself”, in K. Davis, M.<br />

Bernstam, R. Ricardo-Campbell (a cura di), Below Replacement Fertility in<br />

Industrial societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 149.<br />

8


come la condizione “naturale”, dalla quale ci si allontana<br />

attraverso la scelta spesso tormentata e faticosa di fare almeno<br />

un figlio. Si direbbe anche che per molti, forse per la<br />

maggioranza, conquistarsi una “immortalità sostitutiva” non sia<br />

più così importante. Perché mai?<br />

Molte sono le ipotesi, soprattutto di carattere economico e<br />

psicologico, che sono state avanzate per dare conto del declino<br />

della fecondità e della decisione di molte coppie o singoli<br />

individui di rinunciare alla riproduzione. Un’ipotesi diversa, più<br />

ambiziosa e non priva di risvolti inquietanti, può emergere se si<br />

considerano fino in fondo le implicazioni di un’idea classica tra<br />

i demografi, e già espressa nel 1830 da Malthus quando parlava<br />

di una «dipendenza delle nascite dalle morti» 5 , secondo cui la<br />

fecondità tenderebbe a ricercare un equilibrio con la mortalità.<br />

Quando quest’ultima varia ci si dovrebbe pertanto aspettare che<br />

anche la natalità tenda a variare: salendo per bilanciare le<br />

perdite, come accadeva un tempo dopo le devastazioni causate<br />

dalle pestilenze, oppure diminuendo fino a trovare un nuovo<br />

equilibrio come è avvenuto nel corso della prima transizione<br />

demografica.<br />

Sino ad oggi i demografi si sono in genere prudentemente<br />

astenuti dall’esplorare le implicazioni estreme di questa<br />

correlazione tra mortalità e natalità. Negli ultimi anni, tuttavia,<br />

la fecondità e la longevità hanno raggiunto nei paesi occidentali<br />

livelli talmente impressionanti, e divergenti tra loro, da rendere<br />

doverosa una riflessione su interdipendenze che appaiono a<br />

Solinas troppo importanti «per poter essere lasciate da parte<br />

quando ci si propone un’analisi antropologica sui processi di<br />

transizione demografica» 6 .<br />

Non è inutile ricordare che il motore primo della transizione<br />

demografica è stato, tra la fine del XIX secolo e la metà del XX,<br />

il declino della mortalità infantile, che in Italia – per citare un<br />

caso nel complesso sufficientemente rappresentativo – passò da<br />

livelli del 270 per mille intorno al 1861 a poco più del 40 per<br />

mille cento anni dopo. Negli ultimi decenni del XX secolo<br />

5 T.R. Malthus, A Summary View of the Principle of Population (ora in The<br />

Works of Thomas Robert Malthus, a cura di E.A. Wrigley e D. Souden, vol.<br />

IV, London, Pickering, 1986), p. 112.<br />

6 “Parentela e transizione demografica. Interrogativi antropologici”, in P.G.<br />

Solinas, «L’acqua strangia», cit., p. 102.<br />

9


l’innalzarsi della speranza di vita si deve invece, ben più che<br />

all’ulteriore declino della mortalità infantile (scesa ora a meno<br />

del 5 per mille), al consistente aumento della sopravvivenza<br />

degli anziani: se nel 1974 una donna italiana giunta ai 65 anni di<br />

età poteva mediamente attendersi di avere davanti a sé ancora<br />

16,6 anni, oggi questa speranza di vita si è dilatata a oltre 21 7 ; e<br />

a rendere sempre più legittime e concrete queste attese concorre,<br />

come abbiamo visto, l’aumento costante del numero di coloro<br />

che raggiungono e superano i cento anni.<br />

Accompagnandosi a una fecondità che di poco supera ormai,<br />

nella maggior parte dei paesi industrializzati, il livello di un<br />

singolo figlio per donna, questa crescente longevità ha prodotto,<br />

come giustamente rileva ancora Solinas, «qualcosa di nuovo<br />

nella storia della specie», vale a dire «una società composta di<br />

persone che vivono fino quasi a novant’anni – la durata di tre<br />

generazioni – e che, nello stesso tempo, trasmettono la vita una<br />

sola volta nel corso della loro lunga esistenza […] una società<br />

che cede con estrema lentezza i suoi posti, che resiste all’usura<br />

del tempo, che ammette pochissimi successori e che, se potesse,<br />

allungherebbe ancor più i tempi di avvicendamento fra una<br />

generazione e l’altra» 8 . Una società – ci sembra di poter<br />

aggiungere – in cui per la prima volta l’individuo è incoraggiato<br />

a coltivare speranze non più di una “eternità sostitutiva”<br />

attraverso il prolungamento della propria linea di discendenza,<br />

ma di un’eternità personale su questa terra che rende superflua<br />

la riproduzione. Se Malthus aveva ragione ad asserire che le<br />

nascite dipendono dalle morti, allora una mortalità che tende<br />

sempre più ad approssimarsi allo zero, ad avvicinarsi<br />

all’immortalità, fa sì che anche la natalità tenda ad annullarsi.<br />

Se queste sono al momento ipotesi ardite e in attesa di verifica,<br />

altre conseguenze dell’innalzarsi della vita media e<br />

dell’abbassarsi della natalità presentano invece contorni già<br />

sufficientemente definiti e si prestano a quantificazioni che<br />

consentono di comprenderne meglio le caratteristiche e di<br />

valutarne gli effetti. Un mutamento di grande portata sociale ed<br />

7 G. Caselli, V. Egidi, “Sopravvivenza e salute”, in G. Gesano, F. Ongaro, A.<br />

Rosina (a cura di), Rapporto sulla popolazione. L’Italia all’inizio del XXI<br />

secolo, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 88-93.<br />

8 “Parentela e popolazione. Esogamia, scambio, modelli genealogici”, in P.G.<br />

Solinas, «L’acqua strangia», cit., p. 130.<br />

10


economica – oltre che, ancora una volta, di particolare interesse<br />

da un punto di vista antropologico – è indubbiamente<br />

rappresentato dalla cosiddetta “verticalizzazione” della<br />

parentela.<br />

L’ampiezza di questo mutamento si coglie con nettezza se si<br />

confrontano le cifre relative ai nostri giorni con quelle che sono<br />

state stimate per popolazioni preindustriali. Per gli storici della<br />

<strong>famiglia</strong> è ovviamente impossibile non domandarsi quanti<br />

parenti potesse avere un individuo in una certa epoca storica e in<br />

una certa fase del suo ciclo di vita, quanti uomini e quante donne<br />

arrivavano a vedere i figli dei propri figli, quanti erano i figli che<br />

sopravvivevano ai genitori e quanti erano coloro che<br />

rimanevano orfani in giovane età. A queste domande è possibile<br />

dare risposte valendosi di tecniche di microsimulazione, che<br />

applicando appropriati parametri demografici consentono di<br />

determinare – per il passato così come per il presente e per il<br />

futuro – il tipo, il numero, le proporzioni e le età dei parenti che<br />

un “individuo medio” si trova ad avere nel corso della sua vita. I<br />

risultati di queste simulazioni mostrano che il numero totale di<br />

parenti è oggi, a tutte le età, decisamente inferiore rispetto al<br />

passato: una bambina italiana dell’inizio del XXI secolo, per<br />

limitarci a un solo esempio, troverà ad attenderla alla sua nascita<br />

una dozzina di parenti tra genitori, nonni, bisnonni, zii e zie, ma<br />

difficilmente un fratello o una sorella; per una sua progenitrice<br />

vissuta in età pre-transizionale era invece molto improbabile che<br />

al momento della sua nascita fossero ancora in vita tutti e<br />

quattro i nonni, ma erano in compenso assai più numerosi i<br />

fratelli e le sorelle, gli zii e le zie, i cugini e le cugine 9 . Questo ci<br />

dice che a cambiare non è stato soltanto il numero dei parenti,<br />

ma anche, e ancor di più, la struttura della parentela, che si è<br />

fortemente estesa in senso verticale, contraendosi invece lungo<br />

l’asse orizzontale. Grazie alla minore mortalità un individuo ha<br />

oggi più parenti nelle generazioni ascendenti (nonni, bisnonni,<br />

zii e prozii) che non nel passato, mentre a causa del declino della<br />

9 Si vedano a questo proposito le stime di P. <strong>La</strong>slett, J. Oeppen e J.E. Smith,<br />

“<strong>La</strong> parentela estesa verticalmente nell’Italia del XXI secolo”, Polis, 7, 1993,<br />

p. 125; e anche, sulle differenze tra presente e passato, le stime riportate da<br />

P.P. <strong>Viazzo</strong>, “Mortalità, fecondità e <strong>famiglia</strong>”, in M. Barbagli, D.I. Kertzer (a<br />

cura di), Storia della <strong>famiglia</strong> in Europa, vol. I (Dal Cinquecento alla<br />

Rivoluzione francese), Roma-Bari, <strong>La</strong>terza, 2002, pp. 251-255.<br />

11


fecondità il numero dei fratelli, delle sorelle, dei cugini e delle<br />

cugine è diminuito enormemente. E per il prossimo futuro non è<br />

difficile pronosticare una scomparsa, o comunque una<br />

accentuata rarefazione, anche degli zii e delle zie.<br />

Molto spesso, esaminando le conseguenze sociali del calo della<br />

fecondità e dell’aumento della longevità, ci si accontenta di<br />

constatare che questi mutamenti demografici hanno entrambi<br />

contribuito a produrre un invecchiamento della popolazione e di<br />

porre l’accento sulla crescente pressione che le generazioni<br />

anziane, con le loro pensioni da riscuotere e le loro necessità di<br />

assistenza, esercitano ed eserciteranno su una popolazione attiva<br />

numericamente sempre più esigua. Prestare la dovuta attenzione<br />

alla “verticalizzazione della parentela” e alle sue implicazioni<br />

può aiutare a rendere meno grezze e semplicistiche le analisi di<br />

questo mutamento epocale e dei cambiamenti che stanno<br />

intervenendo nelle relazioni sociali all’interno delle generazioni<br />

e soprattutto tra le generazioni.<br />

Emblematico, in questo senso, e particolarmente istruttivo per<br />

comprendere cosa stia avvenendo nell’ambito <strong>famiglia</strong>re, è il<br />

rapporto tra nonni e nipoti. Le microsimulazioni a cui abbiamo<br />

accennato poco sopra ci fanno sapere che in epoca pretransizionale<br />

un bambino era fortunato se nascendo aveva<br />

ancora due nonni viventi, mentre per un bambino degli inizi del<br />

XXI secolo le probabilità di avere tutti i nonni vivi alla sua<br />

nascita, e due o tre ancora in vita quando arriverà a vent’anni,<br />

sono invece molto elevate. Ma c’è di più: questo bambino ha<br />

anche molte probabilità di essere l’unico nipote dei suoi quattro<br />

nonni e di diventare così – come è accaduto in Cina, dove nel<br />

1979 è stata imposta la tanto discussa “politica del figlio unico”<br />

– il fulcro delle attenzioni di una piccola piramide rovesciata di<br />

adulti: i suoi genitori e, appunto, i quattro nonni.<br />

Ci si può domandare come saranno i nuovi nipoti: se anche in<br />

Italia e negli altri paesi dove si stanno manifestando rapidi cali<br />

della fecondità questi “nipoti unici” diverranno, come in Cina,<br />

dei “piccoli imperatori” viziati e dispotici e al tempo stesso<br />

oppressi dalle attese <strong>famiglia</strong>ri. E ci si può anche domandare<br />

come saranno i nuovi nonni. Quel che possiamo sin d’ora<br />

constatare è che da almeno un quarto di secolo si va imponendo<br />

in Occidente un’immagine della vecchiaia ben diversa da quella<br />

che era prevalsa fino ad allora, grazie all’entrata nella terza età<br />

12


di anziani che appaiono assai più dinamici rispetto al passato e<br />

molto spesso in buone condizioni economiche e fisiche 10 . «Dalla<br />

categoria che associavamo con immagini di disfacimento e<br />

dipendenza» – hanno recentemente osservato Claudine Attias-<br />

Donfut e Martine Segalen – «sorge un nuovo personaggio<br />

sociale, ricco di risorse per le nuove generazioni, soprattutto<br />

attraverso l’esercizio del ruolo di nonno»: il XXI secolo,<br />

sostengono queste due studiose, sarà il secolo dei nonni 11 .<br />

È in effetti interessante notare come gli uomini e le donne che<br />

nelle statistiche socio-demografiche costituiscono la parte<br />

preponderante di quella che viene convenzionalmente definita<br />

“popolazione dipendente” risultino in realtà essere, in Italia e in<br />

molti altri paesi europei, il perno su cui ruota un complesso<br />

sistema di prestazioni di aiuto e assistenza, del quale sembrano<br />

beneficiare più i giovani che gli anziani: questi nuovi anziani<br />

sono, come scrivono Attias-Donfut e Segalen, «ricchi di risorse<br />

per le nuove generazioni». Tali risorse possono consistere in<br />

donazioni e altri trasferimenti che tendono a fluire – molte<br />

analisi lo hanno ormai appurato – più verso il basso che verso<br />

l’alto. Ma non meno importante, anzi per molti versi ancora più<br />

indispensabile, può rivelarsi quell’aiuto quotidiano<br />

nell’accudimento dei bambini e nei lavori domestici, senza il<br />

quale sarebbe impossibile per donne adulte sempre più<br />

affaccendate formarsi e tenere in piedi una <strong>famiglia</strong>. Aiuto<br />

quotidiano che fa sì, tra le altre cose, che i bambini passino oggi<br />

molto più tempo con i nonni (e soprattutto con le nonne) di<br />

quanto non si sarebbe immaginato qualche decina di anni fa.<br />

Questo rientro in forze dei nonni nella sfera domestica, infatti,<br />

non solo irrobustisce e rende particolarmente significative le<br />

loro relazioni affettive con i nipoti, ma dimostra chiaramente<br />

come siano venuti meno – se mai erano realmente esistiti –<br />

quell’autosufficienza e quell’isolamento che erano stati salutati<br />

da Shorter come i cardini della <strong>famiglia</strong> moderna.<br />

10 P. <strong>La</strong>slett, Una nuova mappa della vita. L’emergere della terza età,<br />

Bologna, il Mulino, 1992 (A Fresh Map of Life, London, Weindenfeld &<br />

Nicolson, 1989).<br />

11 C. Attias-Donfut, M. Segalen (a cura di), Il secolo dei nonni. <strong>La</strong><br />

rivalutazione di un ruolo, Roma, Armando Editore, 2005 (Le siècle des<br />

grands-parents, Paris, Autrement, 2001). <strong>La</strong> citazione proviene dalla loro<br />

“Introduzione”, p. 10<br />

13


Se da una parte è innegabile che sotto il profilo strettamente<br />

numerico si stia assistendo a un declino della parentela, è d’altra<br />

parte altrettanto vero che praticamente in tutti i paesi europei<br />

viene segnalata una riscoperta della parentela – o, come alcuni<br />

preferiscono dire, della “<strong>famiglia</strong> allargata” – vuoi nelle sue<br />

funzioni economiche (trasferimenti finanziari, eredità), vuoi<br />

nelle sue dimensioni di sociabilità (interazioni quotidiane,<br />

incontri periodici), vuoi ancora come luogo sociale della<br />

memoria e dell’identità 12 . Questa riscoperta ci fa riflettere una<br />

volta di più sul carattere effimero di quanto si era sostenuto e<br />

creduto negli anni settanta a proposito della capacità della<br />

coppia di recidere i legami con genitori e parenti. Ma va anche<br />

sottolineato che tanto la riscoperta della <strong>famiglia</strong> allargata<br />

quanto altri mutamenti che stanno avvenendo all’interno della<br />

sfera della <strong>famiglia</strong> e della parentela – quali l’emergere di nuove<br />

configurazioni <strong>famiglia</strong>ri e la rivendicazione di diritti che a<br />

queste innovazioni sociali si accompagna – sono fenomeni che<br />

si ritrovano ovunque in Europa e nel mondo occidentale. Prima<br />

di valutare quali contributi l’antropologia possa portare a una<br />

loro migliore comprensione, è bene ricordare che il fatto stesso<br />

di rinvenire ovunque fenomeni analoghi può facilmente indurre<br />

a generalizzazioni affrettate e far perdere di vista variazioni<br />

nazionali e locali che possono invece risultare assai importanti.<br />

Ci si deve domandare, in particolare, se questi fenomeni si<br />

manifestino dappertutto con la stessa intensità. E se no, cercare<br />

di scoprire quali siano le ragioni che spiegano le differenze.<br />

Come si è detto, uno dei casi più discussi è proprio quello che<br />

riguarda l’Italia e alcune peculiarità del suo sistema <strong>famiglia</strong>re.<br />

4. L’anomalia italiana<br />

Schematizzando al massimo, a caratterizzare quella che viene<br />

spesso definita l’«anomalia italiana» concorre innanzitutto un<br />

calo della fecondità che si è spinto al di là dei limiti che sarebbe<br />

stato lecito attendersi. A rendere enigmatico il caso italiano non<br />

12 M. Segalen, “I legami di parentela nella <strong>famiglia</strong> europea”, in M. Barbagli,<br />

D.I. Kertzer (a cura di), Storia della <strong>famiglia</strong> in Europa, vol. III (Il<br />

Novecento), Roma-Bari, <strong>La</strong>terza, 2005, pp. 486-497.<br />

14


è tanto l’esiguo numero di figli, quanto piuttosto la coesistenza<br />

di una fecondità tra le più contenute in Europa con livelli di<br />

partecipazione femminile al mercato del lavoro che rimangono<br />

tra i più bassi in paesi a economia avanzata. Dal momento che<br />

una delle spiegazioni economiche a cui si fa immediatamente<br />

ricorso per spiegare il declino della fecondità è proprio<br />

l’occupazione femminile, questa peculiarità italiana solleva un<br />

problema di notevole importanza pratica non meno che teorica.<br />

<strong>La</strong> spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che l’occupazione<br />

femminile, pur non avendo ancora raggiunto i livelli di altri<br />

paesi occidentali, è tuttavia aumentata molto velocemente,<br />

trovando così una società impreparata a fronteggiare i problemi<br />

che l’accresciuto impegno lavorativo delle donne comporta: la<br />

responsabilità ricadrebbe dunque su fattori strutturali quali la<br />

carenza di servizi o la rigidità del mercato del lavoro. Ma da soli<br />

questi fattori non sembrano in grado di offrire una soluzione del<br />

tutto soddisfacente, per cui non mancano anche tra gli<br />

economisti coloro che sospettano che almeno una parte della<br />

spiegazione vada ricercata in «modelli culturali di<br />

comportamento circa la fecondità che evidentemente esulano da<br />

considerazioni di natura economica» 13 .<br />

Fattori culturali sono stati invocati ancor più di frequente per<br />

dare conto di altre peculiarità del caso italiano. Come indicano<br />

le cifre presentate da Billari e Rosina nel loro contributo,<br />

rispetto a qualche decennio fa in Italia ci si sposa sempre più<br />

tardi e sempre meno. Questo declino della nuzialità sta tuttavia<br />

procedendo con maggiore lentezza rispetto alla maggior parte<br />

degli altri paesi europei e, soprattutto, sta seguendo percorsi non<br />

previsti dai teorici della seconda transizione demografica. In<br />

particolare, mentre al diradarsi dei matrimoni ha fatto altrove da<br />

contrappeso la crescita di convivenze, in Italia le convivenze e le<br />

nascite fuori del matrimonio – pur in sensibile aumento –<br />

rimangono molto al di sotto dei livelli raggiunti quasi ovunque<br />

in Europa. A distanziare ulteriormente la <strong>famiglia</strong> italiana da<br />

13 G. Malerba, “Fecondità, occupazione e reddito”, in G.A. Micheli (a cura<br />

di), <strong>La</strong> società del figlio assente. Voci a confronto sulla seconda transizione<br />

demografica in Italia, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 111; v. anche F.<br />

Bettio, P. Villa, “A Mediterranean perspective on the breakdown of the<br />

relationship between participation and fertility”, Cambridge Journal of<br />

Economics, 22 (1998), pp. 137-171.<br />

15


quella della maggior parte dei paesi europei contribuisce poi la<br />

ben nota tendenza dei figli a risiedere con i genitori fino ad età<br />

che si stenta sempre più a definire giovanili. E quando<br />

finalmente si sposano o escono comunque di casa, i giovani<br />

adulti italiani tendono ad abitare molto vicino ai genitori<br />

(quando non addirittura nello stesso edificio) e a mantenere con<br />

loro rapporti assai più stretti di quanto non facciano i loro<br />

coetanei stranieri.<br />

Constatando che queste tendenze assai poco si accordavano con<br />

le teorie che predicevano una convergenza ultima verso i<br />

modelli dei paesi europei più avanzati 14 , alcuni studiosi hanno<br />

sin dai primi anni novanta iniziato a parlare di una “via italiana”<br />

alla seconda transizione demografica 15 . Nell’ultimo decennio<br />

sono però emersi con sempre maggiore evidenza numerosi tratti<br />

che accomunano l’Italia alla Grecia, al Portogallo e soprattutto<br />

alla Spagna. Certo, anche tra questi paesi non mancano le<br />

differenze; così come non mancano differenze sensibili<br />

all’interno dei singoli paesi, ad esempio tra regioni settentrionali<br />

e meridionali in Italia. Le somiglianze appaiono però<br />

sufficientemente cospicue da suggerire l’esistenza di un più<br />

generale “modello mediterraneo”. E come si è accennato, non<br />

pochi sociologi e demografi, pur non trascurando l’importanza<br />

dei fattori strutturali, stanno da qualche anno ipotizzando che le<br />

anomalie che si riscontrano nella recente evoluzione dei<br />

comportamenti <strong>famiglia</strong>ri e riproduttivi nei paesi dell’Europa<br />

mediterranea siano in parte forse decisiva riconducibili a fattori<br />

culturali, e in primo luogo alla maggiore forza che i legami di<br />

parentela hanno avuto in passato e conservano tuttora in questi<br />

paesi rispetto a quelli dell’Europa settentrionale 16 .<br />

14 L. Roussel, “<strong>La</strong> famille en Europe Occidentale: divergences et<br />

convergences”, Population, 47 (1992), pp. 133-152.<br />

15 G. Dalla Zuanna, M. Castiglioni, “Una ‘via italiana’ alla transizione?”, in<br />

G.A. Micheli (a cura di), <strong>La</strong> società del figlio assente, cit., pp. 48-72.<br />

16 Due lavori rappresentativi sono quelli di D. Reher, “Family ties in Western<br />

Europe: persistent contrasts”, Population and Development Review, 24<br />

(1998), pp. 203-234, e di G. Dalla Zuanna, “The banquet of Aeolus: a<br />

familistic interpretation of Italy’s lowest low fertility”, Demographic<br />

Research, 4 (2001), pp. 133-162.<br />

16


In effetti, questa «differenza antropologica» 17 di lungo periodo si<br />

presta bene, come hanno mostrato studi ormai abbastanza<br />

numerosi, a spiegare perché in Italia e negli altri paesi sudeuropei<br />

i giovani adulti escano più tardi dalla casa dei genitori,<br />

perché quando vanno via tendano ad abitare nelle vicinanze,<br />

perché le visite tra genitori e figli siano così frequenti e così<br />

intensi gli scambi tra le generazioni. Un più pressante obbligo<br />

morale a prendersi cura dei parenti bisognosi di assistenza si<br />

avverte anche dietro all’impressionante contrasto documentato<br />

dalle statistiche relative al numero di anziani che risiedono in<br />

ricoveri e altre istituzioni: percentuali molto basse in Italia e<br />

negli altri paesi mediterranei, elevatissime nei paesi del nord<br />

Europa 18 . E in ultima analisi la forza dei legami <strong>famiglia</strong>ri<br />

sembra dare senso anche al paradosso della coesistenza di una<br />

bassa fecondità con una bassa occupazione femminile e con una<br />

<strong>famiglia</strong> “forte”, due fattori che dovrebbero invece incoraggiare<br />

la natalità. «Nei paesi mediterranei» – sostengono le economiste<br />

Francesca Bettio e Paola Villa – «la coesistenza di una bassa<br />

fecondità e di una bassa partecipazione delle donne al mercato<br />

del lavoro è favorita da un sistema di welfare centrato sulla<br />

<strong>famiglia</strong>, da un sistema produttivo fortemente caratterizzato<br />

dalle imprese <strong>famiglia</strong>ri e da un sistema di valori anch’esso<br />

orientato verso la <strong>famiglia</strong>»; e contrariamente a quanto ci si<br />

attende comunemente, aggiungono, è stata proprio la «<strong>famiglia</strong><br />

coesa» dei paesi mediterranei a spingere i genitori a scegliere –<br />

per garantire migliori condizioni ai figli – la via della bassissima<br />

fecondità 19 .<br />

Un concetto centrale a cui quasi tutti questi studiosi si<br />

richiamano è quello di “familismo”, introdotto nelle scienze<br />

sociali verso la fine degli anni cinquanta da Edward Banfield, un<br />

politologo americano che aveva condotto ricerche etnografiche<br />

in un paese della Basilicata 20 . In gran parte depurato dalle<br />

accezioni più controverse che Banfield gli aveva<br />

17 L’espressione è di G. Dalla Zuanna, Mobilità sociale e fecondità, in I.<br />

Fazio e D. Lombardi (a cura di), Generazioni. Legami di parentela tra<br />

passato e presente, Roma, Viella, 2006, p. 119.<br />

18 E. Cioni, Solidarietà tra generazioni. Anziani e famiglie in Italia, Milano,<br />

Franco Angeli, 1999, pp. 48-54.<br />

19 F. Bettio, P. Villa, “A Mediterranean perspective”, cit., p. 137. Più in<br />

generale: G. Dalla Zuanna, G.A. Micheli (a cura di), Strong Family and Low<br />

Fertility: A Paradox?, Dordrecht, Kluwer, 2004.<br />

17


originariamente conferito, questo termine viene oggi usato per<br />

indicare la propensione di una società ad attribuire alla <strong>famiglia</strong><br />

e alla parentela – alle attese e agli obblighi morali che <strong>famiglia</strong> e<br />

parentela comportano – un posto centrale nel suo sistema di<br />

valori 21 . Come sempre accade con ipotesi di questo genere,<br />

soprattutto quando esse vengono formulate e messe alla prova<br />

valendosi di dati aggregati e di osservazioni empiriche<br />

fatalmente superficiali, è forte il rischio di scivolare nel<br />

“culturalismo”, irrigidendo la cultura in un insieme di norme<br />

dalle quali l’individuo non ha scampo. È un rischio che si può<br />

tuttavia ridurre integrando le analisi di sociologi, demografi ed<br />

economisti con indagini etnografiche che permettano di entrare<br />

in contatto prolungato con gli uomini e le donne che delle attuali<br />

trasformazioni della <strong>famiglia</strong> sono i protagonisti, di registrarne<br />

le opinioni e osservarne da vicino i comportamenti.<br />

Un esempio è la ricerca di un’antropologa americana, Elizabeth<br />

Krause, che ha raccolto dalla viva voce di più generazioni di<br />

donne toscane le ragioni che le hanno spinte a ridurre sempre<br />

più la loro fecondità, dalle quali emerge come fattore tra i più<br />

importanti una «cultura della responsabilità» nei confronti dei<br />

figli che bene si accorda con le ipotesi avanzate da Bettio e<br />

Villa 22 . Un altro esempio viene da uno studio recente che mostra<br />

con ricchezza di particolari come in una comunità campana i<br />

“legami forti” della parentela e del vicinato rivestano – in<br />

assenza di un adeguato sistema pubblico di assistenza – un<br />

essenziale ruolo protettivo nei confronti degli individui e delle<br />

singole famiglie offrendo varie forme di aiuto materiale, oltre<br />

che aiuto morale in caso di malattie, lutti e conflitti 23 . Queste<br />

ricerche si sono concentrate su temi già da tempo studiati e<br />

dibattuti: la “cultura della bassa fecondità”, il familismo. Ma la<br />

20 E.C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe, Ill., The<br />

Free Press, 1958 (trad. it. Le basi morali di una società arretrata, Bologna, il<br />

Mulino, 2006 3 ).<br />

21 L. Sciolla, “Familismo”, Il Mulino, 50 (2001), p. 653.<br />

22 E.L. Krause, A Crisis of Births. Population Politics and Family-Making in<br />

Italy, Belmont, Ca., Wadsworth/Thomson.<br />

23 C. Capello, N. Colclough, “A moral familism? Family clusters,<br />

neighbourhood and social welfare in a south Italian community”, in P.<br />

Heady, P. Schweitzer (a cura di), Eighteen Localities: Family, Kinship and<br />

Community at the Start of the Twenty-First Century (di prossima<br />

pubblicazione).<br />

18


loro lettura lascia intuire le potenzialità di un lavoro etnografico<br />

che si rivolga ad altri temi fino ad oggi trascurati e che tuttavia<br />

meritano ampiamente di essere affrontati. Particolarmente<br />

urgenti sono, a nostro parere, osservazioni sistematiche e sottili<br />

al tempo stesso dei mutamenti che – con il modificarsi delle<br />

forme di convivenza – stanno rimettendo in gioco il significato<br />

stesso delle relazioni di parentela.<br />

5. Nuove famiglie e nuovi parenti?<br />

Sebbene un’instabilità matrimoniale relativamente bassa venga<br />

spesso indicata come uno dei tratti distintivi dell’odierno<br />

modello di <strong>famiglia</strong> mediterraneo, è del tutto evidente che anche<br />

in Italia e nei paesi dell’Europa meridionale divorzi e<br />

separazioni sono in aumento al pari delle cosiddette “famiglie<br />

ricomposte”, le quali si presentano ormai in una varietà di forme<br />

così caleidoscopica da sfidare ogni tentativo di ricondurle a una<br />

ordinata classificazione. Un effetto di questa scomposizione e<br />

ricomposizione delle famiglie è una inedita ridefinizione delle<br />

relazioni di parentela.<br />

Può essere ancora una volta istruttivo considerare il rapporto tra<br />

nonni e nipoti. Per un individuo i nonni “naturali” non possono<br />

ovviamente essere che quattro, ma se le unioni si sciolgono e le<br />

famiglie si ricompongono può allora prodursi quella singolare<br />

“moltiplicazione dei nonni” che fa sì che ai nonni naturali<br />

vengano ad aggiungersi nonni acquisiti 24 . Diventare “nonni” dei<br />

figli dei nuovi partner dei propri figli è tuttavia un processo<br />

delicato, dagli esiti incerti e che può essere segnato da forti<br />

tensioni tra legami di sangue e legami acquisiti, anche quando i<br />

nuovi nonni (o aspiranti tali) si sforzano di osservare rigorosi<br />

principi di equità. Una spia della delicatezza di questo processo<br />

è la difficoltà che i bambini sovente incontrano nel trovare il<br />

giusto appellativo per rivolgersi ai “nuovi nonni”, i quali<br />

provano a loro volta imbarazzo nell’essere chiamati con un<br />

termine di parentela che potrebbe essere interpretato come un<br />

tentativo di detronizzare i nonni biologici.<br />

24 S. Hawker, G. Allan, G. Crow, “<strong>La</strong> moltiplicazione dei nonni”, in C.<br />

Attias-Donfut, M. Segalen (a cura di), Il secolo dei nonni, cit., pp. 120-132.<br />

19


L’attenzione che sta giustamente ricevendo il fenomeno della<br />

“moltiplicazione” dei nonni, e più in generale della creazione di<br />

nuove relazioni di parentela o quasi-parentela, non può peraltro<br />

farci dimenticare che esiste un’altra faccia della medaglia. A<br />

farci dimenticare, cioè, che l’instabilità matrimoniale molto<br />

spesso comporta, per un bambino, la scomparsa dalla scena<br />

sociale e affettiva di nonni e altri parenti. Come abbiamo visto,<br />

negli ultimi decenni i legami affettivi tra nonni e nipoti si sono<br />

rafforzati, e questo rende ancora più devastanti gli effetti<br />

dell’allontanamento che segue un divorzio o una separazione.<br />

Nei paesi in cui ciò avviene più frequentemente, come gli Stati<br />

Uniti, cresce il numero dei nonni che ricorrono al tribunale per<br />

ottenere il permesso di vedere i nipoti e stanno sorgendo<br />

associazioni per il riconoscimento dei diritti dei nonni 25 .<br />

Ci è sembrato utile soffermarci su questi particolari rapporti<br />

intergenerazionali non solo per l’importanza che essi rivestono<br />

in quello che sembra destinato ad essere il “secolo dei nonni”,<br />

ma più in generale perché ci ricorda che la parentela è fatta non<br />

soltanto di riconoscimento sociale, ma anche di diritti e doveri<br />

sanciti dalla legge. E i nonni allontanati dai nipoti non sono<br />

certo i soli che si trovano a scoprire amaramente che a rapporti<br />

affettivi intensi può corrispondere un’assenza quasi totale di<br />

diritti. Il caso di cui più si parla oggi è ovviamente quello delle<br />

cosiddette unioni di fatto. Ma sembra giustificato pensare che<br />

proprio l’instabilità sempre più evidente del matrimonio stia<br />

facendo riemergere anche agli occhi di chi è sposato o è in<br />

procinto di esserlo la persistente forza vincolante di aspetti<br />

giuridici del matrimonio che parevano superati dai tempi.<br />

<strong>La</strong> sociologa del diritto Barbara Willenbacher ha osservato a<br />

questo proposito che l’aumento dei divorzi, delle convivenze e<br />

delle nascite fuori del matrimonio, che ha segnato la seconda<br />

transizione demografica, è stato generalmente interpretato come<br />

un’abolizione dei privilegi legali che avevano in precedenza<br />

protetto il matrimonio e la <strong>famiglia</strong> nucleare. L’errore è<br />

consistito, a suo parere, nel considerare solo un aspetto del<br />

diritto di <strong>famiglia</strong> (quello che attiene alla sfera personale), senza<br />

25 L.M. Drew, P.K. Smith, “Separati dai nipoti, il dolore dei nonni”, in C.<br />

Attias-Donfut, M. Segalen (a cura di), Il secolo dei nonni, cit., pp. 142-148.<br />

20


vedere che in altri ambiti era in atto «una crescente regolazione<br />

e reistituzionalizzazione da parte dello stato» 26 .<br />

Non è dunque così paradossale, in queste circostanze, che a<br />

richiedere il diritto di unirsi in matrimonio, e a farsi dunque in<br />

qualche modo paladini di un’istituzione che in molti paesi<br />

occidentali appare a dir poco declinante, siano oggi proprio gay<br />

e lesbiche, che in tempi non lontani sono stati i portabandiera di<br />

una rivoluzione dei costumi che aveva tra i suoi principali<br />

obiettivi l’abbattimento delle barriere etiche e giuridiche che<br />

difendevano il matrimonio, la <strong>famiglia</strong> tradizionale e la sua<br />

morale sessuale.<br />

Non tutti sono però sensibili all’ironia di questo paradosso.<br />

Certamente non George W. Bush, che il 24 febbraio 2004, nel<br />

pieno della sua seconda campagna elettorale, ha proposto un<br />

emendamento della Costituzione americana ai fini di «definire e<br />

proteggere il matrimonio quale unione di un uomo e di una<br />

donna come marito e moglie», aggiungendo che «l’unione di un<br />

uomo e di una donna è la più duratura istituzione umana,<br />

onorata e incoraggiata in tutte le culture e da tutte le fedi<br />

religiose» e indicando nel matrimonio tra persone dello stesso<br />

genere una «minaccia per la civiltà» 27 .<br />

Questa proposta e le affermazioni che l’hanno accompagnata ci<br />

sono parse particolarmente interessanti non solo perché sono<br />

venute dal Presidente degli Stati Uniti, per la risonanza che<br />

hanno avuto e per le evidenti somiglianze con opinioni e<br />

proposte al centro dell’attuale dibattito sulla <strong>famiglia</strong> in Italia,<br />

ma anche perché hanno trovato tra le risposte più pronte una<br />

presa di posizione della American Anthropological Association.<br />

Già il 25 febbraio 2004 la più grande associazione di<br />

antropologi al mondo ribatteva infatti a Bush che «i risultati di<br />

oltre un secolo di ricerca antropologica su gruppi domestici,<br />

relazioni di parentela e famiglie» non fornivano alcun sostegno<br />

all’idea che la civiltà o l’ordine sociale dipendano dal<br />

matrimonio come istituzione esclusivamente eterosessuale, ma<br />

portavano invece a concludere che «una vasta gamma di tipi di<br />

26 B. Willenbacher, “Individualism and traditionalism in inheritance law in<br />

Germany, France, England, and the United States”, Journal of Family<br />

History, 28 (2003), pp. 208-209.<br />

27 “Bush calls for ban on same-sex marriages”, http://www.cnn.com/2004/<br />

ALLPOLITICS/02/24/elec04.prez.bush.marriage/.<br />

21


<strong>famiglia</strong>, comprese famiglie basate su unioni omosessuali,<br />

possono contribuire a società stabili e umane» 28 .<br />

Su questa presa di posizione ritorneremo più avanti. Ma ci è<br />

sembrato utile citarla sin d’ora perché ci riconduce alla<br />

constatazione di Catherine Bonvalet da cui siamo partiti, alla sua<br />

“ammissione” che antropologi e storici sono stati i primi a<br />

suggerire di guardare la <strong>famiglia</strong> con occhi diversi. È importante<br />

a questo punto precisare che il merito fondamentale che la<br />

studiosa francese riconosce in tal senso a storici e antropologi<br />

consiste nell’aver mostrato come tanto nel passato europeo<br />

quanto nelle società extraeuropee «la <strong>famiglia</strong> sia sempre esistita<br />

sotto forme plurali» 29 .<br />

In effetti, soprattutto le indagini promosse da Peter <strong>La</strong>slett e dal<br />

Cambridge Group for the History of Population hanno riportato<br />

alla luce una mappa sorprendentemente variegata di forme di<br />

organizzazione <strong>famiglia</strong>re nell’Europa di antico regime 30 ,<br />

contribuendo così in maniera decisiva a mettere in crisi gli<br />

assiomi che avevano fino ad allora dominato la sociologia della<br />

<strong>famiglia</strong>, e in particolare la convinzione che prima<br />

dell’industrializzazione avesse ovunque dominato la <strong>famiglia</strong><br />

estesa patriarcale. Ancora più ampia appare però la “casistica”<br />

accumulatasi, per citare il documento dell’American<br />

Anthropological Association, grazie a «oltre un secolo di ricerca<br />

antropologica su gruppi domestici, relazioni di parentela e<br />

famiglie». E dunque ancora più ampie la prospettive offerte da<br />

una disciplina che, conviene ribadirlo, molto ha esplorato quel<br />

confine tra natura e cultura che appare oggi decisivo nel<br />

dibattito sul presente e sul futuro della <strong>famiglia</strong>. Abbiamo visto<br />

come le nuove configurazioni <strong>famiglia</strong>ri favoriscano l’aggiunta<br />

di parenti “acquisiti” ai parenti “naturali”; contro natura per<br />

eccellenza vengono definiti dagli oppositori i paventati<br />

matrimoni omosessuali; e non si può dimenticare che<br />

l’ingegneria genetica e le nuove tecniche di riproduzione<br />

assistita fanno sì che quanto era prima dato come naturale stia<br />

28 “Statement on marriage and the family from the American Anthropological<br />

Association”, http://www.aaanet.org/press/ma_stmt_marriage.htm.<br />

29 C. Bonvalet, “<strong>La</strong> famille-entourage locale”, cit., p. 10.<br />

30 R. Wall, J. Robin, P. <strong>La</strong>slett (a cura di), Forme di <strong>famiglia</strong> nella storia<br />

europea, Bologna, il Mulino, 1984.<br />

22


diventando sempre più un oggetto di scelta 31 . Sono sviluppi che<br />

già lasciano presagire, a parere di alcuni, una “terza” transizione<br />

demografica caratterizzata da forme di domesticità e di<br />

riconoscimento della parentela inedite – o che forse appaiono<br />

inedite all’occhio occidentale, ma trovano in realtà dei<br />

precedenti o quanto meno degli analoghi nell’ampio repertorio<br />

di forme di <strong>famiglia</strong> inventariato dall’antropologia. È dunque su<br />

questo confine tra natura e cultura, e sulla “naturalità” di<br />

<strong>famiglia</strong> e matrimonio, che è opportuno volgere ora la nostra<br />

l’attenzione.<br />

6. Critica della naturalità<br />

Le considerazioni fin qui svolte, prevalentemente concentrate<br />

sulle trasformazioni della <strong>famiglia</strong> nei paesi che per<br />

convenzione chiamiamo occidentali, inducono dunque ad<br />

affrontare un punto particolarmente significativo nell’attuale<br />

dibattito sulla <strong>famiglia</strong>, ovvero la sua “naturalità”. In Italia, la<br />

tesi della naturalità della <strong>famiglia</strong> – o meglio, dell’esistenza<br />

della “<strong>famiglia</strong> come società naturale” – trova un’espressione<br />

particolarmente autorevole nell’art. 29 della Costituzione, così<br />

come in molte dichiarazioni dei più alti esponenti della attuale<br />

Chiesa Cattolica. È probabile che – come sostengono diversi<br />

commentatori del testo costituzionale – il riferimento alla<br />

<strong>famiglia</strong> come “società naturale” avesse il significato di<br />

“riconoscere” la <strong>famiglia</strong> come una società che viene prima<br />

dello Stato («<strong>La</strong> Repubblica riconosce i diritti della <strong>famiglia</strong>…»<br />

– art. 29), specialmente in un’epoca in cui la devastazione della<br />

guerra aveva fatto emergere la forza di coesione e di<br />

riaggregazione dei legami <strong>famiglia</strong>ri. <strong>La</strong> Repubblica – ovvero lo<br />

Stato italiano – “riconosce” che prima dello Stato vi è una<br />

società e che questa prende forma soprattutto nella “<strong>famiglia</strong>”:<br />

una sorta di nucleo o di cellula, a partire dalla quale si può<br />

pensare di ricostruire una società più ampia, di ordine statale. Lo<br />

Stato non è naturale: è una costruzione artificiale a cui si pone<br />

mano attraverso un processo intenzionale, una progettualità<br />

politica, quale si esprime appunto attraverso la sua costituzione.<br />

31 M. Strathern, After Nature. English Kinship in the <strong>La</strong>te Twentieth Century,<br />

Cambridge, Cambridge University Press, 1992.<br />

23


<strong>La</strong> <strong>famiglia</strong> invece, proprio perché viene “prima” dello Stato e<br />

“tiene” anche quando lo Stato è distrutto o non ancora<br />

ricostruito, si configura come una struttura naturale, non<br />

inventata da menti giuridiche: una struttura dunque, la quale<br />

deve essere appunto “riconosciuta”, scoperta, difesa e<br />

valorizzata dallo Stato che viene “dopo” e che su di essa si<br />

fonda. È sufficiente pensare che la <strong>famiglia</strong> venga prima dello<br />

Stato per attribuirle un carattere naturale? È sufficiente ritenere<br />

che la <strong>famiglia</strong> sia una società pre-statale perché si possa<br />

sostenere il suo fondamento naturale?<br />

In realtà, la concezione a cui si ispira l’art. 29 della<br />

Costituzione, o rispetto a cui si dimostra compatibile, è<br />

senz’altro più articolata e può essere rintracciata in diverse<br />

manifestazioni del pensiero occidentale. Si tratta di una<br />

concezione antropologica, e che significativamente appare con<br />

tutta evidenza nelle teorie sulla <strong>famiglia</strong> in cui l’antropologia<br />

culturale e sociale si è impegnata fin dai suoi esordi. Per Lewis<br />

Henry Morgan (1818-1881), la <strong>famiglia</strong> ha conosciuto nella sua<br />

storia – una storia le cui tappe coincidono con i momenti<br />

fondamentali della storia dell’umanità – diverse forme e<br />

configurazioni: l’ultima di queste è data dalla <strong>famiglia</strong><br />

monogamica, una <strong>famiglia</strong> che, a differenza di quelle precedenti,<br />

riduce i rapporti <strong>famiglia</strong>ri all’essenziale, una <strong>famiglia</strong> la cui<br />

struttura «è stata insegnata dalla natura» e su cui «la società<br />

moderna civilizzata è organizzata e riposa» 32 . È importante<br />

ricordare che in Morgan la visione della società moderna e<br />

civilizzata è particolarmente drammatica, dominata com’è dallo<br />

sviluppo incontrollato della proprietà privata, la quale distrugge<br />

le strutture sociali, generando instabilità, disordine e ingiustizia.<br />

In questo quadro di devastazione sociale (memorabile è l’ultima<br />

pagina di Ancient Society), la <strong>famiglia</strong> monogamica si staglia<br />

come una struttura naturale, garanzia di ordine, di stabilità, di<br />

solidarietà. In una società lanciata nella corsa del “progresso”, la<br />

<strong>famiglia</strong> monogamica non provoca mutamenti; al contrario,<br />

32 L. H. Morgan, Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family,<br />

Washington, Smithsonian Institution, 1871, p. 469; L. H. Morgan, <strong>La</strong> società<br />

antica, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 403 (Ancient Society, New York, World<br />

Publishing, 1877). – Su questi aspetti del pensiero di Morgan, cfr. F. <strong>Remotti</strong>,<br />

Antenati e antagonisti. Consensi e dissensi in antropologia culturale,<br />

Bologna, il Mulino, 1986, pp. 166 e segg.<br />

24


annulla e riassorbe le trasformazioni precedenti. «L’intera<br />

esperienza precedente e l’intero progresso dell’umanità hanno<br />

raggiunto il loro culmine e, nello stesso tempo, la loro<br />

cristalizzazzione in questa grande, unica istituzione»; infatti, «si<br />

tratta di un risultato terminale, a cui l’esperienza delle diverse<br />

ere ha costantemente teso» 33 . Insomma, sul piano almeno delle<br />

istituzioni <strong>famiglia</strong>ri il “progresso” descritto da Morgan è<br />

qualcosa che va non dalla natura alla società, ma dalla società<br />

alla natura, ovvero da forme <strong>famiglia</strong>ri che un tempo erano<br />

intrinsecamente connesse alle condizioni sociali (forme, per così<br />

dire, inventate dai vari tipi di società) alla forma <strong>famiglia</strong>re più<br />

essenziale, dettata direttamente dalla natura.<br />

Nella visione di Morgan, sul piano della <strong>famiglia</strong> la civiltà opera<br />

in senso contrario all’economia e alla cultura in generale: non<br />

inventa, ma scopre; non accumula, ma sfronda. Di fronte alle<br />

complicazioni (e alle “confusioni”) dei tipi di <strong>famiglia</strong><br />

precedenti, la <strong>famiglia</strong> monogamica si presenta come una<br />

struttura limpida, lineare, nettamente individuabile. Friedrich<br />

Engels (1820-1895), che – come è noto – si era appoggiato quasi<br />

del tutto a Morgan nella sua ricostruzione della storia della<br />

<strong>famiglia</strong>, scorge pure lui gli ulteriori progressi dell’istituto<br />

<strong>famiglia</strong>re in un più pieno sviluppo della struttura monogamica,<br />

in una sua estensione anche alla sfera maschile (e non solo a<br />

quella femminile): il progresso «agirà in una misura<br />

infinitamente maggiore nel far divenire effettivamente<br />

monogami gli uomini, piuttosto che nel far divenire poliandriche<br />

le donne» 34 . In Engels non c’è l’idea del fondamento naturale<br />

della monogamia, la quali anzi gli appare come «la prima forma<br />

di <strong>famiglia</strong> […] non […] fondata su condizioni naturali, ma<br />

economiche» 35 : la monogamia ha dunque origini storiche, invece<br />

che naturali. E tuttavia anche per Engels la <strong>famiglia</strong><br />

monogamica contraddistingue la parte più avanzata dell’umanità<br />

(la società capitalistica, ovvero la civiltà moderna) e il futuro<br />

può solo essere concepito come una più organica e<br />

33 L.H. Morgan, Systems of Consanguinity, cit., p. 493.<br />

34 F. Engels, L’origine della <strong>famiglia</strong>, della proprietà privata e dello Stato. In<br />

rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, Roma, Editori Riuniti, 1963, p.<br />

109 (Der Ursprung der Familie, des Privateigeitums und des Staats. Im<br />

Anschluss an Lewis H. Morgans Forschungen, Hottingen-Zürich, 1884).<br />

35 Ivi, p. 92.<br />

25


consequenziale realizzazione del principio monogamico. Anche<br />

qui non si tratta di aggiungere e di accumulare, ma al contrario<br />

di sfrondare e di liberare: «spazzata via la produzione<br />

capitalistica», la monogamia vedrà scomparire «i caratteri che le<br />

sono stati impressi con la sua nascita dai rapporti di<br />

proprietà» (cioè il predominio dell’uomo sulla donna e<br />

l’indissolubilità del matrimonio) 36 . Per ciò che è consentito<br />

vedere nel futuro dei rapporti tra i sessi, la visione di Engels<br />

assume quindi necessariamente «un carattere negativo»,<br />

limitandosi a scorgere soltanto ciò che inevitabilmente verrà<br />

«soppresso». Alla domanda «che cosa si aggiungerà?» egli<br />

ritiene che non si possa rispondere in altro modo che<br />

affidanadosi alla creatività di uomini e donne resi più liberi, i<br />

risultati della cui praxis non possiamo certo prevedere.<br />

L’antropologia culturale non ha seguito le orme di Engels rivolte<br />

verso il futuro dell’umanità; anche le ricostruzioni per stadi<br />

dell’istituto <strong>famiglia</strong>re – di cui Morgan fu il più illustre pioniere<br />

– vennero del tutto abbandonate, a favore di una considerazione<br />

sempre più accentuata e consapevole della molteplicità delle<br />

forme che la <strong>famiglia</strong> può assumere. Per molti decenni<br />

(pensiamo soprattutto alla prima metà del Novecento) gli<br />

antropologi, liberatisi dalle camicie di forza del paradigma<br />

stadiale, si sono soprattutto specializzati nell’incrementare il<br />

sapere della diversità – di una accentuata diversità – delle forme<br />

<strong>famiglia</strong>ri. Anche a proposito della <strong>famiglia</strong>, gli antropologi<br />

culturali hanno spesso trovato che la soluzione<br />

epistemologicamente più corretta fosse quella di dimostrare<br />

l’ampia gamma delle diversificazioni, secondo il principio in<br />

base al quale l’uomo, invece di essere simile o identico a se<br />

stesso, è soprattutto diverso. Ma quanto diverso? Quanto ampia<br />

può essere la gamma delle diversificazioni per quanto attiene<br />

l’organizzazione della <strong>famiglia</strong> umana? È possibile intravedere<br />

un confine alle diversificazioni? Invece che di un’indefinita<br />

gamma di diversificazioni non è forse meglio ipotizzare una rosa<br />

di alternative possibili?<br />

In un clima di dichiarato strutturalismo fu George Peter<br />

Murdock (1897-1985) a intraprendere la strada di una<br />

sistemazione dell’argomento <strong>famiglia</strong>, salvaguardando da un<br />

lato la molteplicità delle forme e proponendo dall’altro un<br />

36 Ivi, p. 109.<br />

26


ordine nello stesso tempo classificatorio e genetico. Per<br />

Murdock, nel campo della <strong>famiglia</strong> si riscontrano molte<br />

differenze; ma la diversificazione <strong>famiglia</strong>re non può spingersi<br />

al di là di determinati limiti: si tratta di vincoli, i quali vengono<br />

imposti sia da esigenze e condizioni naturali, sia da più<br />

intrinseche caratteristiche strutturali, concernenti le modalità di<br />

organizzazione dei modelli di <strong>famiglia</strong>. Ma c’è di più. Murdock<br />

non si limita a contenere entro limiti strutturali dati (e piuttosto<br />

ristretti, come vedremo tra poco) la variabilità delle forme di<br />

<strong>famiglia</strong>; egli pretende anche di individuare l’atomo a partire dal<br />

quale i vari tipi di <strong>famiglia</strong> si formano. <strong>La</strong> «<strong>famiglia</strong> nucleare» –<br />

composta da due coniugi (un uomo e una donna) e dalla loro<br />

prole – costituisce per Murdock una sorta di «atomo» sociale, il<br />

quale può presentarsi sia come «un’unità separata», a sé stante,<br />

sia in aggregazione con altri atomi, così da formare per così dire<br />

delle «molecole» 37 . Le diverse possibilità di aggregazione di<br />

questi atomi danno luogo alle differenti forme di <strong>famiglia</strong> che<br />

riscontriamo nel mondo: la variabilità concerne dunque le<br />

cosiddette famiglie composite, non la <strong>famiglia</strong> nucleare. A loro<br />

volta, le famiglie composite si raggruppano sostanzialmente in<br />

due tipi: a) le famiglie poligamiche, le quali si ottengono<br />

moltiplicando i legami coniugali (poliginiche, quando un uomo<br />

è sposato a più donne; poliandriche, quando una donna è sposata<br />

a più uomini, e poliginico-poliandriche, quando diversi uomini e<br />

diverse donne sono sposati tra loro), e b) le famiglie estese, le<br />

quali invece si formano estendendo la relazione genitore-figlio e<br />

aggregando le famiglie di nuova formazione alle famiglie dei<br />

genitori di uno dei due sposi (avremo quindi famiglie estese<br />

patrilocali, matrilocali, avuncolocali e così via). <strong>La</strong><br />

documentazione etnologica indica che sono più numerose le<br />

società con famiglie composite, piuttosto che con famiglie<br />

nucleari. È tipico di Murdock sottolineare però che la <strong>famiglia</strong><br />

nucleare è comunque sempre individuabile e circoscrivibile – sia<br />

sotto il profilo funzionale e strutturale, sia sotto il profilo<br />

spaziale e materiale – all’interno di qualsivoglia tipo di <strong>famiglia</strong><br />

composita. Ovvero, per Murdock la <strong>famiglia</strong> nucleare,<br />

caratterizzata dalla residenza comune, dalla cooperazione<br />

economica e dalla riproduzione, «è un raggruppamento sociale<br />

37 G.P. Murdock, <strong>La</strong> struttura sociale, Milano, Etas Kompass, 1971, p. 23<br />

(Social Structure, New York, Macmillan, 1949).<br />

27


umano universale» 38 .<br />

Con ciò Murdock fa proprie e sistematizza le posizioni che<br />

esponenti importanti dell’antropologia della prima metà del<br />

Novecento avevano espresso a proposito della <strong>famiglia</strong>. Pur<br />

aderendo a una prospettiva teorica che esaltava le differenze<br />

piuttosto che le somiglianze, Robert H. Lowie (1883-1957)<br />

aveva affermato che «la <strong>famiglia</strong> individuale è un’unità sociale<br />

onnipresente» e che ovunque essa appare come «un’unità<br />

sociale distinta dal resto della comunità» 39 . Dal canto suo,<br />

Bronislaw Malinowski (1884-1942), il grande etnografo delle<br />

isole Trobriand, colui il quale aveva contestato alla psicoanalisi<br />

di Freud l’universalità del complesso edipico, non aveva esitato<br />

ad affermare che «l’indivisibile <strong>famiglia</strong> individuale spicca, in<br />

modo evidente, come un’unità sociale ben definita, separata dal<br />

resto della società da una netta linea di divisione»; proprio per<br />

questo egli riteneva anche che la monogamia fosse «il modello e<br />

il prototipo del matrimonio» e che essa «è, è stata e rimarrà<br />

l’unico vero tipo di matrimonio» 40 . Lowie, Malinowski,<br />

Murdock si oppongono a Morgan, di cui rifiutano<br />

l’impostazione stadiale; ma a proposito di ciò che essi chiamano<br />

via via <strong>famiglia</strong> bilaterale, individuale, coniugale, nucleare – e<br />

dunque necessariamente monogamica –, esprimono una<br />

posizione non poi così opposta a quella di Morgan: una<br />

posizione, se vogliamo, più radicale nel delineare il carattere<br />

fondamentale e insopprimibile della <strong>famiglia</strong> nucleare. Per<br />

Murdock, come per Lowie e per Malinowski, essa non affiora in<br />

uno stadio recente della storia dell’umanità, o soltanto in quelle<br />

società che abbiano raggiunto lo stadio della civiltà: la <strong>famiglia</strong><br />

nucleare (bilaterale e monogamica) è invece coestensiva con<br />

l’umanità e costitutiva di tutte le società umane. Per questi<br />

grandi nomi dell’antropologia della prima metà del Novecento<br />

la <strong>famiglia</strong> nucleare non è una conquista storica, il culmine o lo<br />

sbocco terminale di un processo universale (quello che conduce<br />

alla civiltà); è invece di per sé e da sempre universale, un<br />

nucleo, una base fondamentale e irrinunciabile per qualsivoglia<br />

38 Ivi, p. 10.<br />

39 R.H. Lowie, Primitive Society, New York, Horace Liveright, 1948 (1920),<br />

p. 67.<br />

40 B. Malinowski, “Kinship”, in Encyclopaedia Britannica, vol. XIII, 1929, p.<br />

404; “Marriage”, in Encyclopaedia Britannica, vol. XIV, 1929, p. 950.<br />

28


tipo di società, per cui – come diceva Malinowski – «ovunque<br />

noi andiamo, troveremo sempre il nostro tipo di <strong>famiglia</strong>».<br />

Perché allora «noi andiamo» ovunque o altrove? Almeno sul<br />

piano dell’organizzazione della <strong>famiglia</strong>, ci sarebbe una ben<br />

scarsa motivazione al viaggio e all’esplorazione etnografica.<br />

Colpisce in effetti che ciò venga detto da Malinowski, il<br />

propugnatore della ricerca sul campo, specialmente di tipo<br />

esotico e della connessa osservazione partecipante. Che cosa è<br />

successo all’antropologia della prima metà del Novecento a<br />

proposito della <strong>famiglia</strong>? L’antropologia ha forse avvertito gli<br />

sconvolgimenti sociali (il colonialismo, le guerre mondiali) e,<br />

più o meno in modo simile a Morgan, si è aggrappata alla<br />

<strong>famiglia</strong> nucleare come àncora di certezza, di stabilità, come<br />

fonte di ordine, di funzionalità, e come un’oasi di naturalità? In<br />

Lowie, in Malinowski, in Murdock la <strong>famiglia</strong> nucleare si<br />

presenta infatti non soltanto come umanamente universale (un<br />

vero e proprio “universale culturale”), ma anche come un<br />

retaggio della natura, una donazione naturale, su cui le società –<br />

se vogliono – possono aggiungere e costruire ulteriormente.<br />

L’antropologia della seconda metà del Novecento non si è per<br />

nulla trovata d’accordo con queste prese di posizione così<br />

dogmatiche: un privilegiamento così aperto del «nostro tipo di<br />

<strong>famiglia</strong>» (Malinowski), quasi una sorta di proiezione acritica a<br />

partire dal “noi”, una “universalizzazione” assai discutibile, una<br />

“naturalizzazione” molto sospetta. Universalizzazione e<br />

naturalizzazione sono in effetti due operazioni che la ricerca<br />

antropologica spesso svela presso gli altri o presso di noi: molte<br />

società provvedono a trasformare ideologicamente i propri<br />

costumi o le proprie istituzioni particolari in strutture universali,<br />

e una via maestra per uscire dal senso di arbitrarietà e di<br />

provvisorietà che viene trasmesso da ciò che è particolare<br />

consiste nel conferire a tali strutture una base naturale. Questo<br />

processo di naturalizzazione rivolto alla <strong>famiglia</strong> coniugale è<br />

stato analizzato con grande precisione da David M. Schneider, il<br />

quale ha dimostrato che la definizione della <strong>famiglia</strong> – nella<br />

società americana – come una «unità “naturale” […] “basata sui<br />

fatti di natura”» (i rapporti sessuali tra i coniugi, il<br />

concepimento, il parto, l’allattamento e così via, ma anche<br />

l’attribuzione di ruoli distinti al maschio e alla femmina) è in<br />

29


ealtà un «costrutto culturale», fatto di simboli e di significati 41 .<br />

Schneider non nega i “fatti di natura” che effettivamente<br />

intervengono nella vita delle famiglie (americane, come di altre<br />

società); ma sostiene l’impossibilità di ignorare la “costruzione<br />

culturale” della <strong>famiglia</strong> con tutta la sua capacità di<br />

simbolizzazione. In questa prospettiva, i fatti di natura – pur<br />

presenti e incontestabili – vengono sussunti come simboli entro<br />

determinati costrutti culturali 42 , per cui possiamo dire che la<br />

<strong>famiglia</strong> americana non è tanto una unità naturale di per sé,<br />

quanto piuttosto una unità culturalmente naturalizzata, ovvero è<br />

una unità naturale in quanto così viene concepita dalla cultura<br />

americana. Per Schneider il significato di questa operazione<br />

culturale consiste nell’affermazione di una «solidarietà diffusa e<br />

permanente». Ma niente ci impedisce di scorgere nella<br />

naturalizzazione culturale della <strong>famiglia</strong> americana<br />

un’operazione il cui significato può essere rintracciato nella<br />

ricerca di solidità (oltre che di solidarietà) a favore di<br />

un’istituzione che si vuole in questo modo proteggere dalle<br />

variazioni, sottrarre all’incertezza e alla precarietà, o a una<br />

paventata minaccia che potrebbe provenire da soluzioni<br />

differenti e alternative. Del resto – tanto per rimanere sul suolo<br />

americano – non è stato forse il presidente attuale degli Stati<br />

Uniti, George W. Bush, ad aver affermato nel 2004 che la<br />

<strong>famiglia</strong> composta da un uomo come marito e da una donna<br />

come moglie, e dai loro figli, costituisce «la più durevole<br />

istituzione umana», un’istituzione avente «radici culturali,<br />

religiose e naturali» che pochi giudici e autorità locali non<br />

dovrebbero avere la temerarietà di strappare? <strong>La</strong> <strong>famiglia</strong> così<br />

intesa dovrebbe essere ben “delimitata” e “protetta”, ed è per<br />

questo che il Presidente aveva proposto di emendare la<br />

Costituzione americana, in modo da restringere in maniera<br />

inequivocabile la nozione di matrimonio all’«unione di un uomo<br />

e di una donna come marito e moglie» e così impedire che si<br />

possa arrivare al riconoscimento di matrimoni tra persone dello<br />

stesso sesso. Come si è già visto, l’American Anthropological<br />

Association, attraverso il suo Executive Board, ha reagito<br />

prontamente a queste tesi di Bush, sostenendo che esistono molti<br />

41 D.M. Schneider, American Kinship: A Cultural Account, Englewood Cliffs<br />

(New Jersey), Prentice-Hall, 1968, pp. 33, 36.<br />

42 Ivi, p. 116.<br />

30


«tipi di <strong>famiglia</strong>», incluse le famiglie costituite da persone dello<br />

stesso sesso, e che anche queste ultime possono contribuire a<br />

rendere più «stabili e umane» molte società. Vi è da supporre<br />

che la stragrande maggioranza degli antropologi culturali sia<br />

d’accordo con questa dichiarazione. Tuttavia occorre non<br />

dimenticare che per diversi decenni l’antropologia culturale<br />

aveva fatto proprio, tutto sommato, il mito della <strong>famiglia</strong><br />

naturale (una <strong>famiglia</strong> che, senza tanti orpelli e complicazioni,<br />

nella sua naturalità, si troverebbe a fondamento – guarda caso –<br />

della stessa società da cui l’antropologia è partita nella sua<br />

avventura intellettuale); e aveva cercato di trasformare questo<br />

mito in una teoria scientifica.<br />

7. Un mondo assai più accidentato<br />

Con il suo strutturalismo di tipo statistico e classificatorio<br />

Murdock aveva tentato di fornire, a proposito della <strong>famiglia</strong> e<br />

della parentela, l’immagine di un mondo molto bene ordinato,<br />

fatto di “atomi” e di “molecole”, dove le loro permutazioni e<br />

combinazioni seguono «proprie leggi naturali con una precisione<br />

poco meno stupefacente» di quella che possiamo riscontrare<br />

negli atomi della chimica o nei geni della biologia 43 : un mondo<br />

ordinato, dove sono previste tutte le possibilità di combinazione<br />

dell’atomo della <strong>famiglia</strong> nucleare, e dove tutte le possibili<br />

configurazioni <strong>famiglia</strong>ri, riscontrabili nelle diverse società<br />

umane, trovano una loro inevitabile collocazione nelle caselle<br />

tipologiche previste dal sistema; un mondo dove l’ordine<br />

classificatorio e combinatorio prevale su ogni possibile<br />

stranezza e anomalia, impedendone per così dire l’insorgenza.<br />

Con la sua universalità e naturalità, la <strong>famiglia</strong> nucleare – quella<br />

stessa che viviamo e pratichiamo tra le quattro mura domestiche<br />

e che il Presidente Bush vorrebbe così caparbiamente<br />

«proteggere» – viene posta alla base di questo sistema o di<br />

questo ordine mondiale; non solo, ma tutte le possibili variazioni<br />

dell’istituto <strong>famiglia</strong>re, anche le più complicate e lambiccate,<br />

risultano “scientificamente” riconducibili a questo nucleo<br />

strutturale originario. Ma era un mondo troppo ordinato e<br />

proprio per questo molto fragile; e il tentativo di costruirlo<br />

43 G.P. Murdock, <strong>La</strong> struttura sociale, cit., p. 158.<br />

31


scientificamente fu considerato dallo stesso Murdock<br />

un’operazione fallimentare: un’enorme e complicata<br />

«mitologia», che egli stesso nel 1971, di fronte ai suoi colleghi<br />

britannici, ebbe il coraggio di ammettere e di rifiutare 44 . Erano<br />

gli anni culminanti di un decennio in cui Edmund R. Leach si<br />

era scagliato contro «il senso di certezza» degli antropologi e<br />

contro la loro propensione tolemaica a forzare i fatti entro le<br />

caselle delle loro teorie, e in cui lo scetticismo corrosivo di<br />

Rodney Needham – in parallelo con quanto David Schneider<br />

asseriva negli Stati Uniti – aveva messo fortemente in<br />

discussione la validità dei concetti e delle teorie con cui gli<br />

antropologi avevano affrontato quello che fino allora sembrava<br />

essere il terreno più solido e scientificamente avanzato, quello<br />

appunto della parentela, della <strong>famiglia</strong> e del matrimonio 45 .<br />

Oggi, «il senso di certezza» a proposito della <strong>famiglia</strong> non<br />

appartiene più agli antropologi; è tipico invece delle più<br />

importanti autorità politiche e religiose del mondo<br />

contemporaneo, e dei loro sudditi o seguaci. Alle dichiarazioni<br />

di Bush del 2004 possiamo accostare in parallelo le tesi di<br />

Benedetto XVI e di alti prelati della Chiesa Cattolica, i quali<br />

anch’essi si propongono di “proteggere” la <strong>famiglia</strong><br />

monogamica ed eterosessuale – considerata come espressione<br />

della “natura umana”, e come «nucleo fondante di ogni società»<br />

– contro ogni proposta di riconoscimento di unioni in qualche<br />

modo alternative, insorabilmente bollate come «contro natura» 46 .<br />

44 G.P. Murdock, “Anthropology’s Mythology”, in Proceedings of the Royal<br />

Anthropological Institute of Great Britain and Ireland for 1971, London,<br />

1972. – F. <strong>Remotti</strong>, Antenati e antagonisti, cit., pp. 270-273.<br />

45 E.R. Leach, Rethinking Anthropology, London, Athlone Press, 1961, p. v;<br />

R. Needham (a cura di), Rethinking Kinship and Marriage, London,<br />

Tavistock, 1971.<br />

46 Sono numerosissime le dichiarazioni in tale senso, reperibili nei vari<br />

discorsi e interventi sia di Papa Benedetto XVI, sia di vescovi soprattutto<br />

italiani. Cfr. per esempio le dichiarazioni riportate da molti quotidiani del 14<br />

marzo 2007 in occasione della diffusione dell’Esortazione apostolica<br />

Sacramentum Caritatis (tra gli altri, <strong>La</strong> Repubblica, 14 marzo 2007, p. 6,<br />

dove si legge che secondo Mons. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, «la<br />

coppia dell’uomo e della donna aperta alla vita, luogo di educazione, di<br />

civiltà, di fede per chi è credente e di umanesimo, sono il nucleo fondante di<br />

ogni società»). Nella Sacramentum Caritatis già citata troviamo questa<br />

impegnativa affermazione antropologica: «Il legame fedele, indissolubile ed<br />

esclusivo che unisce Cristo e la Chiesa, e che trova espressione sacramentale<br />

32


Di fronte a queste certezze vale la pena ricordare il modo con<br />

cui Françoise Héritier aveva iniziato un suo scritto dedicato alla<br />

<strong>famiglia</strong>: «Tutti sanno – o credono di sapere – cos’è la<br />

<strong>famiglia</strong>»; e questa certezza, secondo l’antropologa francese,<br />

nasce dal fatto che la <strong>famiglia</strong> (non la <strong>famiglia</strong> in astratto, ma un<br />

particolare tipo di <strong>famiglia</strong>) «è iscritta in modo talmente forte<br />

nella nostra pratica quotidiana da apparire a ciascuno di noi<br />

come un fatto naturale e, per estensione, universale» 47 . <strong>La</strong><br />

certezza non è dunque soltanto di capi politici e religiosi; è<br />

anche di chi – come un po’ tutti “noi” – vive in un determinato<br />

contesto sociale, a tal punto da incorporare, come una sorta di<br />

habitus mentale, schemi, regole e modelli relativi a una<br />

determinata forma di <strong>famiglia</strong>. In un certo senso, e per<br />

paradosso, sono proprio gli antropologi – specialmente dopo la<br />

crisi degli studi sulla parentela, avviata da Leach, Needham e<br />

Schneider e manifestatasi all’inizio degli anni ’70 – coloro che<br />

hanno minori certezze a proposito di <strong>famiglia</strong>. Non vi è alcun<br />

dubbio che, se si dovessero riunire in un dibattito sulla <strong>famiglia</strong><br />

diversi “esperti” – politici di vari schieramenti, uomini di<br />

Chiesa, filosofi e studiosi di scienze umane e sociali, tra cui<br />

antropologi – sarebbero proprio questi ultimi a manifestare i<br />

maggiori dubbi e incertezze. Chiedere a un antropologo di<br />

definire in maniera sintetica che cosa sia la <strong>famiglia</strong><br />

significherebbe, di questi tempi, metterlo in non poche<br />

difficoltà. Dopo la crisi degli anni ’70 il quadro si è fatto molto<br />

complicato a causa soprattutto di due fattori, i quali militano<br />

entrambi contro la sicurezza classificatoria dell’antropologia<br />

precedente: da un lato, la consapevolezza di forme, soluzioni,<br />

alternative che sfuggono a schemi tipologici precostituiti (piano<br />

strutturale); dall’altro, la consapevolezza di dimensioni<br />

simboliche e di ramificazioni di significato che inevitabilmente<br />

nell’Eucaristia, si incontra con il dato antropologico originario per cui l’uomo<br />

deve essere unito in modo definitivo ad una sola donna e viceversa (cfr Gn<br />

2,24; Mt 19,5)». Per un’esplicita contrapposizione tra la «<strong>famiglia</strong> naturale» e<br />

la «“<strong>famiglia</strong> omosessuale”» (quest’ultima ovviamente messa tra virgolette),<br />

si veda per esempio l’editoriale di Roberto de Mattei, direttore della rivista<br />

mensile Radici Cristiane, n. 24, maggio 2007, dove tra l’altro si legge che<br />

l’unione tra individui dello stesso sesso è «un legame innaturale» e che «la<br />

coppia omosessuale non crea la <strong>famiglia</strong>, ma la distrugge».<br />

47 F. Héritier, “Famiglia”, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, vol. VI, 1979, p.<br />

3.<br />

33


endono molto diverse situazioni o forme in apparenza simili<br />

(piano culturale). Alla base di entrambe queste prospettive<br />

(strutturale e culturale) vi è un presupposto che si è fatto sempre<br />

più esplicito nelle teorie antropologiche, ovvero che la <strong>famiglia</strong><br />

umana «non è […] un fatto di natura, ma, al contrario, un<br />

fenomeno propriamente artificiale, costruito, un fenomeno<br />

dunque culturale» 48 . Nessun antropologo nega l’incidenza e,<br />

potremmo anche dire, la cogenza di processi ed eventi di ordine<br />

biologico, ma gli aspetti naturali (se ancora così vogliamo<br />

chiamarli) sono inseriti entro costruzioni culturali in cui<br />

propriamente consistono le varie forme di <strong>famiglia</strong>.<br />

Per renderci conto di come la <strong>famiglia</strong> non sia di per sé un fatto<br />

di natura, è sufficiente soffermarsi sulle situazioni in cui la<br />

<strong>famiglia</strong> – proprio come costruzione culturale – viene meno o è<br />

assai poco praticabile. Tra gli Ik dell’Uganda settentrionale (una<br />

società di coltivatori tormentata dalla siccità e devastata dalla<br />

carestia negli anni in cui Colin Turnbull fece la sua ricerca) «la<br />

<strong>famiglia</strong> non è affatto quell’unità fondamentale che abitualmente<br />

riteniamo […]. Nella crisi di sopravvivenza in cui gli Ik hanno<br />

finito per trovarsi, la <strong>famiglia</strong> è stata una delle prime istituzioni<br />

condannate a scomparire, mentre come società sono riusciti a<br />

mantenersi in vita» 49 . Considerazioni analoghe riguardano le<br />

condizioni di esistenza che si vengono a determinare nelle<br />

baraccopoli di diverse regioni del mondo: donne rimaste incinte,<br />

che partoriscono e allevano figli dando vita a famiglie cosiddette<br />

matri-focali o matri-centriche, in cui è quasi del tutto assente la<br />

figura del maschio, sia come genitore sia come marito. In questi<br />

casi i processi biologici ci sono, ma la <strong>famiglia</strong> “nucleare”,<br />

monogamica ed eterosessuale, non c’è: e non c’è perché è<br />

propriamente una costruzione culturale che, in quelle condizioni,<br />

non può essere realizzata (o non ha senso realizzare: il marito<br />

inoperoso e violento sarebbe una bocca in più da sfamare, un<br />

peso intollerabile da sopportare). Nelle baraccopoli infestate<br />

dall’Aids può succedere che nemmeno una <strong>famiglia</strong> matrifocale<br />

si possa costruire; alla morte della giovane madre, subentra la<br />

nonna, la quale raccoglie i suoi nipoti, offrendo sostegno e<br />

48 Ivi, p. 7.<br />

49 C. Turnbull, Il popolo della montagna, Milano, Rizzoli, 1977, p. 117 (The<br />

Mountain People, New York, Simon & Schuster, 1972).<br />

34


calore in un “gruppo domestico” improvvisato, dove si<br />

riuniscono individui di generazioni alterne.<br />

Si dirà che si tratta di casi estremi, dovuti a fenomeni di<br />

disgregazione sociale. Ma alcune riflessioni si impongono a<br />

questo punto. In primo luogo, sono spesso i casi estremi quelli<br />

che maggiormente ci inducono a riflettere e a rimodellare le<br />

nostre categorie, rendendole più flessibili e adatte a cogliere la<br />

realtà, nei suoi dettagli e nelle sue sfumature. Così, per esempio,<br />

proprio il caso dei gruppi domestici che fanno capo alle nonne<br />

richiama per analogia e per differenza una situazione simile<br />

sotto alcuni aspetti formali, a conferma che la soluzione<br />

inventata in certe baraccopoli non è del tutto eccezionale. Tra i<br />

Wahehe della Tanzania era infatti previsto che con lo<br />

svezzamento il bambino venisse lasciato dalla madre e accolto<br />

invece dalla nonna materna per un periodo di diversi anni (fino<br />

ai 6-7 anni per il maschietto, addirittura fino al matrimonio per<br />

la ragazza), in un contesto giocoso e divertente, fatto di intimità<br />

e nello stesso tempo formativo. È pure opportuno ricordare che<br />

con probabilità queste nonne avevano nel frattempo lasciato il<br />

consorte poligamo per dedicarsi interamente ai nipoti: insomma,<br />

il piccolo lascia la propria madre e la nonna lascia il proprio<br />

coniuge, così che possano vivere insieme in maniera serena e<br />

continuativa 50 . Come chiameremo questa unione di nonne/nipoti,<br />

pur essendo la madre ancora in vita e attiva sul piano produttivo<br />

e riproduttivo? Forse non ce la sentiamo di usare il termine<br />

“<strong>famiglia</strong>”; ma certamente è un “gruppo domestico” dotato, oltre<br />

tutto, di una certa durata e dove funzioni come l’allevamento e<br />

l’educazione, che i teorici della <strong>famiglia</strong> nucleare attribuirebbero<br />

necessariamente ai genitori, vengono invece svolte da parenti di<br />

una generazione precedente.<br />

Una volta liberatici dal vincolo ideologico della naturalità della<br />

<strong>famiglia</strong> nucleare, il concetto di costrutto culturale appare<br />

assolutamente fondamentale. Non si tratta soltanto di strutture<br />

morfologicamente differenti e pur tuttavia equipollenti sul piano<br />

funzionale: anche le funzioni, che si tende a vedere concentrate<br />

nella <strong>famiglia</strong> nucleare, risultano ridistribuite spesso in maniera<br />

sorprendente. Visto che abbiamo accennato alle funzioni di<br />

allevamento e di educazione assunte o attribuite alle nonne, può<br />

50 E. Fisher Brown, “Hehe Grandmothers”, The Journal of the Royal<br />

Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, 65 (1935), pp. 83-96.<br />

35


essere interessante segnalare il caso del cosiddetto “figlio<br />

aderente” nell’isoletta polinesiana di Tikopia, dove era piuttosto<br />

diffuso il costume di “prelevare” un bambino dalla sua <strong>famiglia</strong><br />

nucleare e farlo “aderire” alla <strong>famiglia</strong> di un fratello del padre o<br />

di un fratello della madre, che provvedeva ad allevarlo e a<br />

educarlo, e questo perché – secondo gli stessi indigeni – è «male<br />

per un figlio aderire soltanto ai suoi genitori»; è male che la<br />

<strong>famiglia</strong> singola si isoli troppo rispetto al resto della società.<br />

Con l’istituzione del figlio aderente i Tikopia hanno costruito un<br />

meccanismo che «ha l’effetto di infrangere l’unità della<br />

<strong>famiglia</strong>», di «dividere» (motu) alcuni suoi componenti, ovvero<br />

di spezzare legami che rischiano di divenire esclusivi,<br />

assorbenti, in un qualche modo anti-sociali: «essi vedono,<br />

dunque, di buon occhio che il bimbo sia sottoposto a uno<br />

svezzamento sociale, oltre a quello fisiologico» 51 , e per questo<br />

svezzamento occorre andare oltre i limiti della <strong>famiglia</strong><br />

nucleare.<br />

Il concetto di costruzione culturale applicato alla <strong>famiglia</strong> è<br />

particolarmente utile anche per affrontare quei casi in cui la<br />

costruzione si presenta come una vera e propria “finzione”<br />

sociale, una sorta di “come se” non filosofico o epistemologico,<br />

ma – potremmo forse dire – sociologico 52 . Tra i Nuer del Sudan,<br />

per esempio, una donna sterile – anziché essere abbandonata a<br />

un triste destino di inutilità sociale – viene recuperata al suo<br />

lignaggio patrilineare, rispetto al quale riveste un ruolo di<br />

componente maschile: essa viene considerata “come se” fosse<br />

un uomo. In questa veste essa partecipa – insieme agli altri<br />

parenti maschili – alla spartizione del bestiame che arriva al<br />

patrilignaggio in conseguenza del matrimonio delle sue nipoti<br />

(le figlie dei suoi fratelli); accumulando questo bestiame ella<br />

potrà a sua volta “sposare” ufficialmente una ragazza, a cui<br />

51 R. Firth, Noi, Tikopia, Roma-Bari, <strong>La</strong>terza, 1976, pp. 200-203 (We, the<br />

Tikopia, London, Allen & Unwin, 1936): corsivo di Firth.<br />

52 Ci riferiamo qui a H. Vaihinger, <strong>La</strong> filosofia del come se. Sistema delle<br />

finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano, Roma,<br />

Ubaldini, 1967 (Die Philosophie des Als Ob. System der theoretischen,<br />

praktischen und religiösen Fiktionen der Menschen auf Grund eines<br />

idealistischen Povitivismus, Leipzig, Meiner, 1911). Per una esplicita<br />

utilizzazione in campo antropologico delle nozioni di “finzione” e “come se”,<br />

cfr. F. <strong>Remotti</strong>, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del<br />

potere, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 113-124.<br />

36


procurerà non solo una casa, ma anche un uomo (di solito un<br />

forestiero povero) in grado di ingravidarla. <strong>La</strong> finzione<br />

prosegue, perché i figli che nasceranno la chiameranno “padre”,<br />

ed essi erediteranno dal loro “padre” nome, beni e appartenenza<br />

al suo lignaggio; non solo, ma quando i figli maschi saranno in<br />

procinto di sposarsi sarà questo “padre” a fornire loro il<br />

bestiame per darlo ai parenti della sposa, e sarà lei a ricevere il<br />

bestiame come compensazione del matrimonio delle figlie. Si<br />

potrebbe dire che i Nuer sono particolarmente consapevoli del<br />

carattere convenzionale (dunque sociale) di famiglie e di<br />

matrimoni: essi sono un po’ gli specialisti di “finzioni” e di<br />

“come se” in questo campo, visto che hanno elaborato anche il<br />

“matrimonio con il fantasma” (il ghost marriage, come lo<br />

definisce Edward E. Evans-Pritchard). Anche qui – come nel<br />

caso precedente – si pone rimedio con una “finzione” a un<br />

problema di sterilità o all’impossibilità di avere una<br />

discendenza: a un uomo (A) deceduto senza figli subentra un<br />

suo parente (B) che, utilizzando il bestiame di A, sposa per così<br />

dire a nome del defunto (A) una donna (C), i cui figli (D)<br />

apparterranno a tutti gli effetti alla discendenza del morto (A).<br />

Del resto, è stato utilizzato il “suo” bestiame per ottenere una<br />

moglie e da essa dei figli: questo è ciò che conta, e non il fatto<br />

che sia ancora vivo o morto. È il legame sociale rappresentato<br />

dal bestiame ciò che assegna ad A una discendenza, ciò che fa sì<br />

che questa donna (C) sia “sua” moglie e i figli (D) siano davvero<br />

la sua discendenza. Il rapporto sessuale di B (il parente che<br />

subentra ad A) con la donna C e il fatto che i figli D siano stati<br />

generati con il seme di B sono del tutto strumentali ai fini di<br />

costituire per A una sua <strong>famiglia</strong> e soprattutto una sua<br />

discendenza 53 .<br />

Come si vede, c’è molto pensiero e c’è molta immaginazione in<br />

queste “finzioni”; c’è molta cultura in queste costruzioni,<br />

elaborate ai fini di risolvere, con modelli condivisi, problemi<br />

individuali di non poco conto (persino per i morti!), in società<br />

nelle quali il non avere figli tanto per un uomo quanto per una<br />

donna rappresenta davvero una sciagura. Vi è da presumere che<br />

una società vincolata all’idea della naturalità e dell’universalità<br />

della <strong>famiglia</strong> nucleare sia scarsamente attrezzata per inventarsi<br />

53 E.E. Evans-Pritchard, Kinship and Marriage among the Nuer, Oxford,<br />

Clarendon Press, 1951.<br />

37


espedienti di questo genere: occorre avere una nozione della<br />

<strong>famiglia</strong> e del matrimonio come fenomeni culturali per elaborare<br />

strumenti siffatti e immaginare soluzioni, discutibili se si vuole e<br />

per chi vuole, e tuttavia ingegnose e comunque sperimentate sul<br />

piano sociale. Ciò induce a riflettere su una questione molto<br />

generale, ovvero sulla disponibilità culturale delle società umane<br />

ad affrontare problemi – spesso di natura individuale – inerenti<br />

l’organizzazione <strong>famiglia</strong>re. Anche in questo campo si può<br />

avanzare l’ipotesi che vi siano società culturalmente più ricche e<br />

società culturalmente più povere; società che investono<br />

nell’elaborazione di modelli condivisibili in grado di risolvere<br />

problemi e situazioni individuali, e società che invece eleggono<br />

un proprio modello (dettato da Dio o dalla natura) e vi si<br />

aggrappano in modo unilaterale. Va da sé che il problema della<br />

sterilità e della discendenza è affrontato nella nostra società con<br />

la “finzione” dell’adozione; ma è indubbio che il problema delle<br />

unioni omosessuali – come si è visto dalle dichiarazioni di Bush,<br />

dalle posizioni della Chiesa Cattolica e dal dibattito oggi in<br />

corso in Italia – è “per noi” assai più spinoso. Forse vale la pena<br />

ricordare che, anche su questo piano, altre società hanno<br />

riflettuto, hanno inventato e hanno sperimentato soluzioni<br />

piuttosto significative.<br />

C’è un brutto termine in antropologia, berdache, con cui si è<br />

soliti designare un personaggio che, nelle società native del<br />

Nord America, incarna la problematica a cui si è fatto ora cenno.<br />

Berdache, termine francese, indicava nelle sue originarie<br />

varianti spagnole, italiane, arabe, un giovane prigioniero,<br />

omosessuale, travestito: è dunque un termine spregiativo, che è<br />

stato per questo rifiutato dagli Indiani del Nord America e<br />

sostituito con il termine Two-spirit, “due spiriti” (niizh<br />

manidoowag nella lingua degli Ojibwa), per indicare in modo<br />

più appropriato un “terzo genere”, cioè una persona nel cui<br />

corpo coabitano due spiriti, uno maschile e uno femminile. Nelle<br />

società degli Indiani delle Pianure, non era infrequente che<br />

individui di sesso maschile non se la sentissero di aderire del<br />

tutto al modello di virilità proposto, e di assumere in particolare<br />

il ruolo del guerriero. Lungi dall’essere emarginati e disprezzati,<br />

i “due-spiriti” venivano rispettati e valorizzati come mediatori<br />

tra lo status maschile e quello femminile, tra la dimensione<br />

psichica e quella fisica, tra lo spirito e la carne. «Poiché mettono<br />

38


insieme le caratteristiche tanto degli uomini quanto delle donne,<br />

essi possiedono la visione di entrambi», una «visione doppia»,<br />

che consente di trascendere la prospettiva ristretta di «un unico<br />

genere», una visione «dal di fuori» rispetto a quella della gente<br />

comune; ed è per questo che venivano considerati come<br />

«veggenti», in grado quindi, con il loro diverso modo di vedere<br />

le cose (più «oggettivo» e «creativo»), di offrire vantaggi non<br />

indifferenti alla società 54 . Ma questa loro diversità non li poneva<br />

al di fuori della vita matrimoniale: l’etnografia riporta molti casi<br />

di “due-spiriti” che si univano in matrimonio con uomini<br />

“normali”; in una unione siffatta l’uomo normale svolgeva la<br />

funzione del marito, mentre “due-spiriti” assumeva il ruolo della<br />

moglie, specialmente per quanto riguarda la sfera economica e<br />

dei lavori domestici, e assicurava anche al marito la solidarietà e<br />

l’alleanza della rete di parenti in cui “due-spiriti” era inserito per<br />

nascita 55 . Dalle analisi condotte da Walter Williams si colgono<br />

molto bene i caratteri positivi – riassumibili in «generosità e<br />

spiritualità» – alla base del prestigio sociale di questo<br />

personaggio che gli Europei hanno immediatamente degradato<br />

con il termine berdache: «la fissazione occidentale sul sesso ha<br />

esercitato, dal XVI al XX secolo, un tremendo impatto» su<br />

questa figura, così culturalmente densa e apprezzata dalle<br />

culture degli Indiani d’America 56 .<br />

In effetti, il privilegiamento della <strong>famiglia</strong> nucleare e la sua<br />

naturalizzazione si accompagnano molto bene con questa<br />

“fissazione sul sesso”. Sotto questo profilo, è importante<br />

sottolineare che, secondo Schneider, il rapporto sessuale tra i<br />

coniugi è posto, come dato naturale, alla base della costruzione<br />

sociale della <strong>famiglia</strong> americana. Certo, il berdache aveva<br />

propensioni omosessuali; ma l’immagine che gli Europei ne<br />

hanno fornito è quella di un essere abominevole, unicamente<br />

dedito alla sodomia, “contro natura”, privato del tutto di quella<br />

componente “spirituale” che era invece la sua caratteristica<br />

principale. Allo stesso modo, per tornare all’esempio dei Nuer,<br />

sarà bene chiarire che il matrimonio di una donna sterile<br />

(divenuta “uomo” per finzione sociale) con un’altra donna non<br />

54 W.L. Williams, The Spirit and the Flesh. Sexual Diversity in American<br />

Indian Culture, Boston, Beacon Press, 1992, pp. 41-42.<br />

55 Ivi, pp. 111-112.<br />

56 Ivi, p. 127.<br />

39


ha a che fare con questioni di omosessualità: come si è visto,<br />

erano ben altre le preoccupazioni che avevano ispirato questo<br />

tipo di unione. Ponendo il sesso (ovviamente coniugale) al<br />

centro di qualsivoglia configurazione <strong>famiglia</strong>re, rischiamo di<br />

non cogliere il significato di molte soluzioni alternative alla<br />

<strong>famiglia</strong> nucleare, snaturandole e tuttavia bollandole come<br />

comportamenti “contro natura”. Sono molti gli esempi riferiti da<br />

Claude Lévi-Strauss (dai Chukchi della Siberia agli Arapesh<br />

della Nuova Guinea, dai Tapirapé e dai Tupi-Kawahib del<br />

Brasile centrale ai Mohave della California – quindi da svariate<br />

parti del mondo), in cui assistiamo a unioni matrimoniali di<br />

uomini adulti con bambine di pochi anni o di donne con bambini<br />

piccoli: nulla di «torbido» in tutto ciò (ci assicura Lévi-Strauss).<br />

Il rapporto sessuale tra coniugi, che noi consideriamo<br />

fondamentale per l’esistenza stessa della <strong>famiglia</strong>, è qui del tutto<br />

sostituito dalle cure, dall’attenzione e dall’affetto che il coniuge<br />

più anziano esprime nell’allevare il coniuge infantile: tra i<br />

Chukchi «la moglie del bambino assolveva ai compiti di una<br />

nutrice: lo faceva mangiare lei stessa e lo metteva a letto…» (W.<br />

Bogoras); tra gli Arapesh il marito «alleva la propria moglie»,<br />

da cui si aspetterà cure e dedizione in futuro «in virtù del cibo<br />

che le ha procurato mentre cresceva e che poi è diventato ossa e<br />

carne del corpo di lei» (M. Mead) 57 . In questi casi si potrebbe<br />

davvero affermare, con il giurista romano Eneo Domizio<br />

Ulpiano del II-III secolo d. C., «non enim coitus matrimonium<br />

facit, sed maritalis affectio» 58 .<br />

E la procreazione? Essa può avvenire fuori del matrimonio, del<br />

vincolo coniugale e della <strong>famiglia</strong>: una donna chukchi, sposata<br />

con un bambino di due anni, aveva procreato un suo figlio, della<br />

stessa età del marito, grazie a un amante ufficiale e temporaneo.<br />

Non vi è dubbio che la procreazione sia un’attività irrinunciabile<br />

sia sotto il profilo biologico sia sotto il profilo sociale, ed è<br />

altrettanto indubbio (e un po’ meno ovvio) che le società<br />

riflettono sulle condizioni e le modalità della procreazione. Ma<br />

non è affatto detto che essa debba per forza avvenire entro un<br />

rapporto coniugale ed entro una struttura <strong>famiglia</strong>re (la solita<br />

57 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano,<br />

Feltrinelli, 1984, pp. 624-625 (Les Structures élémentaires de la parenté,<br />

Paris, Mouton, 1967, 1° ed. 1949).<br />

58 Digesto, 24, 1, 32, 13.<br />

40


<strong>famiglia</strong> nucleare). Per sostenere questa tesi, che potrà forse<br />

sembrare alquanto sorprendente, non ci limiteremo a rievocare<br />

gli esempi già fatti (le famiglie matrifocali delle favelas o le<br />

donne chukchi or ora menzionate). Vi sono infatti casi più<br />

consistenti di questi, e nei quali assistiamo, ancora una volta, a<br />

costruzioni culturali assai elaborate e tutt’altro che marginali.<br />

Sono casi classici nel dibattito antropologico, trattandosi dei<br />

Nayar del Kerala centrale (India) e dei Na dello Yunnan (Cina<br />

centromeridionale): li tratteremo insieme seguendo l’analisi di<br />

Maria Arioti 59 . In entrambi i casi, abbiamo a che fare con gruppi<br />

di fratelli e sorelle, uniti matrilinearmente, i quali convivono<br />

nella stessa abitazione e cooperano nell’attività economica. <strong>La</strong><br />

riproduzione del gruppo è garantita dal fatto che ogni figlio<br />

messo al mondo dalle sue donne appartiene al gruppo stesso<br />

(cioè al gruppo della madre – discendenza matrilineare) e viene<br />

allevato al suo interno, «sotto la responsabilità e l’autorità dello<br />

zio materno». In maniera opportuna Arioti sottolinea che i casi<br />

nayar e na sono caratterizzati da «una forte solidarietà della<br />

coppia fratello/sorella, che rimangono uniti per tutta la durata<br />

della vita», a tutto detrimento del rapporto coniugale.<br />

All’interno di questo gruppo di siblings (fratelli e sorelle)<br />

solidale e compatto non entra infatti alcun coniuge, e nemmeno<br />

– dobbiamo aggiungere – si consolida alcun rapporto con un<br />

coniuge esterno al gruppo: tanto il gruppo matrilineare dei<br />

Nayar (taravad) quanto quello dei Na (lhe) sono talmente<br />

esclusivi da ridurre a zero la possibilità non solo di un gruppo<br />

coniugale, ma persino di un legame matrimoniale. Nel caso dei<br />

Nayar, «la società si limita a stabilire con un rito il momento a<br />

partire dal quale una donna può avere relazioni sessuali e<br />

generare figli per il proprio gruppo». Il giovane che partecipa a<br />

questo rito, dopo avere passato alcuni giorni e alcune notti con<br />

la donna, sparirà per sempre dalla sua vita, e da quel momento la<br />

donna avrà rapporti puramente sessuali con uomini a suo<br />

piacimento, ma questi rapporti «avranno per definizione un<br />

carattere superficiale e non permanente».<br />

È chiaro, in questa ricostruzione, che a causa della proibizione<br />

dell’incesto la fecondazione non può avvenire all’interno del<br />

gruppo dei siblings: si è quindi obbligati a cercare partner<br />

59 M. Arioti, Introduzione all’antropologia della parentela, Roma-Bari,<br />

<strong>La</strong>terza, 2006, pp. 124-127.<br />

41


sessuali all’esterno del gruppo. Ma è altrettanto chiaro che<br />

questi partner sessuali non possono rivendicare alcuna stabilità<br />

di rapporto, tale da trasformare il rapporto sessuale in un<br />

rapporto coniugale e tanto meno in un abbozzo di <strong>famiglia</strong>. Tra i<br />

Nayar, a un eventuale accenno di stabilizzazione del rapporto da<br />

parte di un uomo, la sorella lo richiamerebbe immediatamente ai<br />

suoi doveri di “zio” che deve allevare ed educare i suoi nipoti<br />

all’interno del gruppo matrilineare. In particolare, per quanto<br />

riguarda i Na della Cina, Cai Hua ha potuto dimostrare che<br />

questa società ha funzionato “senza padre e senza marito” (per<br />

riprodurre il titolo del suo libro), ovvero senza matrimonio e<br />

senza <strong>famiglia</strong>. È vero che si tratta di un caso molto raro; ma il<br />

valore della ricerca di Cai Hua consiste non soltanto nel porre<br />

ulteriormente in dubbio il carattere di universalità del<br />

matrimonio e della <strong>famiglia</strong> 60 , ma anche nel fare comprendere<br />

come un’accentuazione estrema dell’importanza e<br />

dell’esclusività del gruppo dei siblings finisca con il ridurre ai<br />

minimi termini, se non addirittura a zero, la <strong>famiglia</strong> coniugale e<br />

il matrimonio come suo presupposto. In altri termini, essa ci<br />

illumina sul rapporto di tensione che probabilmente esiste in<br />

ogni società tra il gruppo dei siblings da un lato e il rapporto<br />

matrimoniale o coniugale dall’altro, tra la fedeltà e il senso di<br />

appartenenza a un “noi” di consanguinei da un lato e la fedeltà e<br />

il senso di appartenenza a un “noi” coniugale dall’altro.<br />

Prescindendo dai fattori che spingono verso una soluzione o<br />

l’altra, riteniamo di poter sostenere che una società è portata a<br />

scegliere tra due principi o tendenze (tra i quali sono ovviamente<br />

possibili numerosi compromessi): (A) privilegiare i legami di<br />

consanguineità o (B) preferire invece i legami coniugali.<br />

Ovvero: sono più importanti socialmente i legami tra fratello e<br />

sorella o i legami tra marito e moglie? Si tratta di due tendenze<br />

opposte, in conflitto tra loro e che danno luogo a esiti<br />

strutturalmente diversi 61 . Nayar e Na costituiscono i casi forse<br />

più puri ed estremi della tendenza a sfruttare i legami<br />

60 C. Hua, Une société sans père ni mari. Les Na de Chine, Paris, Presses<br />

Universitaires de France, 1997, p. 359.<br />

61 M. Arioti, Introduzione all’antropologia della parentela, cit; F. Cuturi, I<br />

fratelli inseparabili. Conflitti tra natolocalità e matrimonio, Quaderni del<br />

Dipartimento di Studi Glottoantropologici, Università di Roma “<strong>La</strong><br />

Sapienza”, Roma, Bagatto Libri, 1988.<br />

42


consanguinei, così da costituire gruppi in cui fratelli e sorelle<br />

collaborano in maniera stretta e continuativa sia nella sfera<br />

economica (produzione), sia nell’allevamento e nell’educazione<br />

dei figli di queste ultime (riproduzione). Si tratta – potremmo<br />

dire – di un’applicazione rigorosa e sistematica del “principio<br />

dell’unità e della solidarietà del gruppo dei siblings”, su cui<br />

Alfred R. Radcliffe-Brown aveva molto insistito 62 . A tutto<br />

provvede questo tipo di gruppo nel caso dei Nayar e dei Na in<br />

vista di fini produttivi e riproduttivi, eccetto la fecondazione<br />

delle donne; un rigoroso tabu sessuale impedisce che il rapporto<br />

consanguineo venga sfruttato a scopi procreativi. <strong>La</strong> proibizione<br />

dell’incesto obbliga così ad avere rapporti sessuali solo con gli<br />

esterni; ma questi rapporti, come si è visto, sono soltanto di<br />

natura sessuale, non coniugale. L’applicazione del principio<br />

dell’unità e della solidarietà del gruppo può anche essere però<br />

un po’ meno rigorosa e la tendenza a privilegiare i legami<br />

consanguinei un po’ meno imperiosa. Abbiamo così tutta una<br />

molteplicità di casi, in cui troviamo gruppi domestici compositi,<br />

formati da più famiglie che si aggregano su base parentale (il<br />

capo<strong>famiglia</strong> con i suoi figli già sposati e le loro rispettive<br />

famiglie e così via), tenuti insieme da terre di proprietà comune<br />

o dalla necessità di fornire congiuntamente forza lavoro. Vi è<br />

una differenza fondamentale tra i gruppi domestici dei Nayar<br />

(taravad) e dei Na (lhe) e i gruppi domestici, chiamati talvolta<br />

famiglie estese o congiunte, che coincidono con il brastvo russo,<br />

la zadruga slava, la maisnie francese o la <strong>famiglia</strong> mezzadrile<br />

toscana: nei gruppi domestici nayar e na non entrano i coniugi e<br />

non sono contemplate famiglie coniugali, mentre nei casi appena<br />

menzionati i coniugi, e le famiglie che con essi si costruiscono,<br />

entrano a far parte del gruppo domestico. Tutti questi gruppi<br />

domestici – dai taravad dei Nayar alla <strong>famiglia</strong> mezzadrile<br />

toscana – hanno però una caratteristica comune, quella di essere<br />

gruppi “permanenti”. A questo risultato mette capo la tendenza<br />

A. Al contrario, la <strong>famiglia</strong> coniugale (sia essa di tipo<br />

monogamico o di tipo poligamico), che possiamo considerare<br />

come l’esito della tendenza B, ha la caratteristica di non durare<br />

nel tempo: conosce anzi un “ciclo di sviluppo” assai breve, che<br />

62 A.R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva, Milano,<br />

Jaca Book, 1968 (Structure and Function in Primitive Society, London,<br />

Oxford University Press, 1952).<br />

43


può essere descritto mediante i) una fase di espansione<br />

(matrimonio della coppia e procreazione), ii) una fase di fissione<br />

(matrimoni dei figli), iii) una fase di estinzione (morte dei<br />

genitori) 63 . Essa è un gruppo “temporaneo”, a termine. Pier<br />

Giorgio Solinas ha in effetti constatato questa dicotomia tra<br />

gruppi permanenti (A) e gruppi temporanei (B) nella sua analisi<br />

comparativa della <strong>famiglia</strong> mezzadrile toscana da un lato, dove<br />

nuovi matrimoni non fanno che aggiungere «nuovi strati» e dove<br />

«il figlio diventa padre senza cessare di essere figlio», e della<br />

<strong>famiglia</strong> sarda dall’altro, dove invece «il gruppo si forma ogni<br />

volta producendo ex novo il personale consanguineo che lo<br />

compone» 64 .<br />

Tutto questo per dire che pure in un contesto italiano si può<br />

verificare la non centralità o la non esclusività della <strong>famiglia</strong><br />

coniugale, e soprattutto per porre maggiormente a fuoco – in un<br />

dibattito tanto acceso sull’importanza e sull’imprescindibilità<br />

della stessa – una delle sue caratteristiche strutturali più<br />

importanti e decisive, cioè la brevità del suo ciclo di sviluppo, la<br />

sua vulnerabilità (assenze prolungate, malattie gravi, morti<br />

precoci, separazioni e divorzi possono mettere a repentaglio la<br />

sua stessa esistenza, prima ancora che essa concluda il suo<br />

ciclo), il suo essere «un gruppo che si auto-liquida» 65 . Anche<br />

Lévi-Strauss ha parlato della «fragilità» intrinseca della <strong>famiglia</strong><br />

coniugale; ma ha poi spostato il discorso sul rapporto che essa<br />

intrattiene con la società: «la <strong>famiglia</strong> ristretta» – egli afferma –<br />

«non è l’elemento base della società», perché la società «non<br />

permette alle famiglie ristrette di durare più di un periodo<br />

63 M. Fortes, “Introduction”, in J. Goody (a cura di), The Developmental<br />

Cycle in Domestic Groups, Cambridge, Cambridge University Press, 1958,<br />

pp. 4-5.<br />

64 P.G. Solinas, «L’acqua strangia», cit., pp. 38-39.<br />

65 L’espressione, citata da Solinas, è di Talcott Parsons (“The incest taboo in<br />

relation to social structure” [1954], in C. R. <strong>La</strong>ub, a cura di, The Family, its<br />

Structures and Functions, London, Macmillan, 1974, p. 16). <strong>La</strong> maggiore<br />

vulnerabilità della <strong>famiglia</strong> nucleare, prevalente nei paesi dell’Europa<br />

settentrionale, rispetto alla <strong>famiglia</strong> estesa mediterranea, è emersa anche dagli<br />

studi di storici come Peter <strong>La</strong>slett (“Family, kinship and collectivity as<br />

systems of support in pre-industrial Europe: a consideration of the ‘nuclearhardship’<br />

hypotesis”, Continuity and Change, 3, 1988, pp. 153-175), su cui si<br />

può vedere ora P.P. <strong>Viazzo</strong> e F. Zanotelli, “Parentela e assistenza: quali<br />

contributi dall’antropologia?”, in I. Fazio e D. Lombardi (a cura di),<br />

Generazioni, cit., pp. 33-38.<br />

44


definito […] in modo che, con i frammenti delle famiglie<br />

demolite, altre se ne possano costruire che a loro volta si<br />

ridurranno in frammenti» 66 . Nell’analisi di Solinas, «l’autodissolvimento»<br />

della <strong>famiglia</strong> nucleare è, più che un destino,<br />

«una necessità socialmente funzionale». In effetti, non occorre<br />

attendere la morte dei suoi componenti per decretarne la fine:<br />

sono sufficienti i matrimoni dei figli per determinarne la<br />

“fissione”. Detto in altri termini, la morte della <strong>famiglia</strong><br />

coniugale è un fatto sociale (avente una causa e una finalità<br />

sociali), prima ancora che un fatto biologico: la <strong>famiglia</strong> si<br />

disgrega perché i componenti che essa ha prodotto possano<br />

partecipare alla vita della società.<br />

8. Gruppi domestici<br />

Il quadro che si è tentato di delineare, a partire dalla<br />

confutazione della tesi della naturalità e dell’universalità della<br />

<strong>famiglia</strong> nucleare, è stato da noi definito come un mondo<br />

accidentato, e questo non soltanto perché sono molte ed<br />

eterogenee le configurazioni <strong>famiglia</strong>ri riscontrabili nelle<br />

diverse società, ma anche perché qualunque forma di <strong>famiglia</strong><br />

(permanente o temporanea, minuscola o allargata) si inserisce<br />

sempre in un contesto sociale fatto di tensioni, conflitti, spesso<br />

anche di lacerazioni, reso instabile da mutamenti sotterranei e da<br />

trasformazioni più o meno palesi. C’è però un concetto, che da<br />

un certo momento in avanti ci ha accompagnato nel nostro<br />

discorso: quello di “gruppo domestico”. Questo concetto, che<br />

nei testi di molti antropologi appare spesso abbinato a quello di<br />

<strong>famiglia</strong> (come si può vedere assai bene nei lavori di Raymond<br />

Firth e di Meyer Fortes), ci ha aiutato ad avvicinarci alle svariate<br />

configurazioni “<strong>famiglia</strong>ri” prese in considerazione: dalle più<br />

ovvie, quelle che maggiormente conosciamo nella nostra<br />

esperienza, alle più strane e in apparenza stravaganti. In effetti,<br />

che cos’è una <strong>famiglia</strong> se non, in primo luogo, un gruppo<br />

domestico? Ma anche quando stentiamo a usare la nozione di<br />

<strong>famiglia</strong> per descrivere o analizzare determinate situazioni, il<br />

concetto di gruppo domestico ci viene in soccorso. Esso<br />

66 C. Lévi-Strauss, “<strong>La</strong> <strong>famiglia</strong>” (1956), in Lo sguardo da lontano, Torino,<br />

Einaudi, 1984, pp. 60 e 73-74 (Le regard éloigné, Paris, Plon, 1983).<br />

45


funziona come un vasto contenitore, nel quale possiamo<br />

collocare le più diverse soluzioni <strong>famiglia</strong>ri, anche quelle che<br />

non “ci” sembrano meritare il nome di “<strong>famiglia</strong>”. Tutte queste<br />

configurazioni sono in un modo o nell’altro “gruppi domestici”:<br />

dai taravad, i densi gruppi matrilineari dei Nayar, alle<br />

improvvisate unioni di nonne/nipoti nelle baraccopoli di<br />

Nairobi. Le famiglie nucleari stanno in un certo senso “in<br />

mezzo” a questa molteplicità variegata di soluzioni possibili.<br />

Forse, potremmo anche dire che stanno “nel mezzo” – se proprio<br />

vogliamo conferire loro un ruolo di centralità – rappresentando<br />

non già «l’espressione di un bisogno universale» o una formula<br />

«inscritta nelle radici della natura umana», bensì una specie di<br />

«soluzione intermedia» tra esigenze contrastanti, «uno dei<br />

possibili stati di equilibrio» tra tendenze opposte 67 .<br />

Curiosamente, se decidessimo di posizionare ai due estremi<br />

opposti il taravad dei Nayar da un lato e le fragili convivenze di<br />

nonne e nipoti e dall’altro, vedremmo che entrambi i casi sono<br />

strutture prive di rapporti coniugali; eppure sono – come le<br />

famiglie nucleari – gruppi domestici a pieno titolo. L’averli<br />

collocati tutti nella medesima categoria offre il grande vantaggio<br />

di potere comparare tra loro queste diverse configurazioni,<br />

individuandone con maggiore precisione presupposti culturali,<br />

caratteristiche strutturali, funzioni sociali, implicazioni<br />

esistenziali.<br />

Nella sua apparente neutralità e quasi asettica oggettività, il<br />

concetto di gruppo residenziale ha inoltre il merito di<br />

indirizzarci su una strada che forse possiamo proficuamente<br />

percorrere per concludere il nostro discorso. “Gruppo<br />

domestico” contiene infatti due componenti semantiche: una<br />

componente “residenziale” (domestico) e una componente per<br />

così dire “comunitaria” (gruppo). Qualunque forma assumano le<br />

famiglie o le configurazioni che decidiamo di collocare nella<br />

nostra categoria generale, tutte paiono caratterizzate da uno<br />

“stare insieme”, da una condivisione di spazi e di risorse, da<br />

un’abitazione comune, da collaborazione e da solidarietà. Se c’è<br />

un “bisogno universale” a cui queste diverse forme sembrano<br />

rispondere, questo è il bisogno di ovviare, in maniera più o<br />

meno permanente e organica, alla “solitudine” dell’individuo.<br />

Anche quando le persone sono costrette a vivere in contesti<br />

67 Ivi, p. 61.<br />

46


lontani (come spesso succede nelle esperienze migratorie),<br />

sembra di poter dire che lo “stare insieme” del gruppo<br />

domestico mantiene la sua forza e il suo senso, almeno fino a<br />

quando ricordi, azioni, sentimenti, aspettative convergono verso<br />

il “luogo” fisico e mentale della <strong>famiglia</strong> da cui si è partiti.<br />

Considerando ancora i gruppi domestici e la loro caratteristica<br />

dello “stare insieme”, può essere importante tenere disgiunti i<br />

concetti di matrimonio e di <strong>famiglia</strong>. Così come ci sono gruppi<br />

domestici “senza matrimonio” (i soliti Na e Nayar), sono<br />

documentate anche soluzioni in cui famiglie e matrimoni non<br />

coincidono. Per illustrare questo punto ci soffermiamo su un<br />

ultimo esempio: i Senufo della Costa d’Avorio, dove marito e<br />

mogli (i Senufo sono infatti poliginici) rimangono tutti nella<br />

propria <strong>famiglia</strong> d’origine, che «è dunque la vera unità<br />

domestica», e soltanto alla sera il marito fa visita a turno alle sue<br />

mogli (una per ogni giorno) 68 . <strong>La</strong> <strong>famiglia</strong> c’è, ma è di tipo<br />

matricentrico; e il marito è un visiting husband, un “marito<br />

visitatore”. <strong>La</strong> <strong>famiglia</strong> è costituita dall’unità domestica della<br />

madre e dei suoi figli, che continuano a “stare insieme” anche<br />

quando i figli sono sposati. Una soluzione che ricorda un po’ i<br />

Nayar e i Na, salvo il fatto che qui vi è un matrimonio vero e<br />

proprio con l’esterno, mentre tra i Nayar e i Na il ricorso<br />

all’esterno per fini procreativi si limita rigorosamente a rapporti<br />

sessuali non coniugali. Ovvero, tra i Senufo il matrimonio c’è,<br />

così come c’è la <strong>famiglia</strong>; ma le due istituzioni non si<br />

corrispondono: al matrimonio di un uomo e di una donna non<br />

corrisponde una “loro” <strong>famiglia</strong>; la <strong>famiglia</strong> rimane invece una<br />

faccenda di madri e di figli.<br />

<strong>La</strong> questione, allora, si può porre in questi termini. Un gruppo<br />

domestico implica sempre una coabitazione, che è anche<br />

collaborazione e solidarietà; e implica dei confini, che segnano<br />

inevitabilmente un dentro e un fuori, un “noi”, separato in<br />

qualche modo dagli “altri”. Tutto sta a vedere cosa si decide di<br />

mettere dentro a quel “noi”: quali siano le funzioni, le attività, i<br />

rapporti che si svolgono al suo interno; di quali incombenze è<br />

caricato. Le società si differenziano molto tra loro per la diversa<br />

conformazione e per i diversi contenuti di questi “noi” domestici<br />

(gli esempi che abbiamo portato dovrebbero essere sufficienti<br />

per avvalorare questo punto). Dobbiamo però prendere in<br />

68 Cfr. F. Héritier, “Famiglia”, cit., p. 7.<br />

47


considerazione non soltanto le differenze di configurazioni<br />

domestiche tra società e società, ma anche la molteplicità di<br />

soluzioni che una singola società può elaborare per rispondere a<br />

una varietà di esigenze e di problematiche (come abbiamo visto,<br />

per esempio, nel caso dei “due-spiriti” degli Indiani delle<br />

Pianure). È importante quindi prendere in esame le istanze e le<br />

urgenze che possono esprimersi in una determinata società in<br />

vista della creazione e del riconoscimento di nuovi tipi di “noi”<br />

domestici, aggiuntivi o alternativi rispetto a quelli già esistenti.<br />

Non è da sottovalutare infatti l’indispensabile funzione<br />

protettiva (un rifugio contro la solitudine) che assumono i “noi”<br />

domestici: nel continuo flusso della vita sociale, essi<br />

rappresentano momenti di sosta («tappe» – direbbe Lévi-Strauss<br />

– che rallentano la marcia e presso cui riposare), senza<br />

dimenticare per altro i disagi, i conflitti, le tensioni che ogni<br />

“noi” genera al proprio interno. Tutto sta a vedere, anche, come<br />

vengono regolati i rapporti con l’esterno: nessuna società può<br />

permettere ai suoi gruppi domestici di proporsi come isole<br />

impenetrabili. Ed è ovvio che vi è un nesso tra il carico di<br />

compiti assunto dai “noi” domestici e gli scambi con l’esterno: i<br />

“noi” sovraccaricati di compiti saranno anche “noi”<br />

tendenzialmente più chiusi, mentre i “noi” più aperti sono senza<br />

dubbio quelli che possono fruire di una più vasta condivisione<br />

sociale di compiti e di funzioni. Una “politica della <strong>famiglia</strong>” si<br />

traduce in una distribuzione di compiti tra gruppi domestici da<br />

un lato e società nel suo insieme dall’altro. Ma una politica<br />

avveduta della <strong>famiglia</strong> richiede la formazione di una “cultura<br />

della <strong>famiglia</strong>”, la quale consiste in primo luogo nel non fidarsi<br />

troppo delle prospettive e delle convinzioni generate dal gruppo<br />

domestico prevalente, e in secondo luogo in un giro d’orizzonte<br />

più ampio, presso società e gruppi domestici che con le loro<br />

“stranezze” possono consentirci di vedere la <strong>famiglia</strong> con occhi<br />

diversi e forse con maggiore saggezza.<br />

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