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Sardegna…tracce del passato

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Fig. 71 Cartagine<br />

Questo mito dimostra che Cartagine nasce come città importante, fondata dalla principessa di Tiro<br />

con l’apporto <strong>del</strong> tesoro <strong>del</strong> tempio di Melqart. Per diversi secoli Cartagine mantenne un legame<br />

forte con Tiro e inviò regolarmente la decima come tributo poiché c’era la volontà di mostrarsi figlia<br />

di Tiro. L’elemento indigeno non venne mai completamente integrato, vi fu sempre la distinzione fra<br />

l’origine orientale <strong>del</strong>la città e i libici.<br />

Nel territorio di Cartagine abbiamo l’abitato, con tracce <strong>del</strong>l’VIII a.C. nella piana costiera, racchiusa<br />

alle spalle da una serie di colline che nella prima fase vengono destinate alle necropoli (VIII-VI<br />

a.C.). La stessa tipologia di urbanizzazione avvenne a Cagliari con l’abitato situato nella zona di<br />

Santa Gilla e la necropoli nella collina di Tuvixeddu. Le colline di Cartagine sono Byrsa, Junòn,<br />

Duimèt e Dermech. L’abitato arcaico è stato scavato da diverse missioni tedesche (sovrintendente<br />

fu Rakob). Presenta un impianto ortogonale di vie perpendicolari che precede di vari secoli<br />

l’impianto greco. Le case sono semplici e i muri sono rozzi, con zoccolo in pietrame brutto<br />

cementato con malta di fango e pavimenti in terra battuta. Gli scavi presentano strati sovrapposti e<br />

gli archeologi, quando scavano questa tipologia, si trovano davanti a strutture difficili da<br />

interpretare perché i vari muri si incastrano fra loro.<br />

A scavo effettuato, per valorizzare l’area si deve decidere come conservare la struttura e bisogna<br />

far cadere la scelta su cosa mettere in evidenza. Dopo aver scelto la fase che si vuole rendere<br />

fruibile si ricoprono le altre e il visitatore si troverà davanti una zona ben evidenziata relativa ad un<br />

determinato periodo. Durante gli scavi sono stati individuati materiali mediterranei sia di<br />

produzione che di importazione. I materiali eubòici e nuragici mostrano la collaborazione fra questi<br />

e i tiri. In periferia ci sono gli impianti artigianali per la lavorazione <strong>del</strong>la ceramica, dei metalli e <strong>del</strong><br />

pesce che sono tenuti lontani dall’abitato per questioni di scorie, calore, gas, rumori e odori.<br />

Questo stesso sistema è diffuso nel mondo mediterraneo e punico, e ancora oggi vediamo che<br />

tutte le società cercano di costruire le zone industriali lontano dal centro abitato.<br />

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Col passare <strong>del</strong> tempo l’abitato si allarga e va ad occupare le aree <strong>del</strong>le necropoli arcaiche, che<br />

precedentemente erano occupate dal quartiere artigianale. Le necropoli si spostano verso l’esterno<br />

e le più recenti sono infatti all’estrema periferia degli abitati.<br />

Fig. 72 Cartagine<br />

Intorno al V a.C. l’abitato si sviluppa verso sud e arriva fino all’area <strong>del</strong> tophet; successivamente<br />

l’espansione interessa anche le altre direzioni. La città arcaica, ubicata in prossimità <strong>del</strong>la costa, è<br />

stata scavata da varie equipe di tedeschi (Rakob, Neemayer) e da una missione olandese con a<br />

capo Dauteck. Gli scavi hanno operato in ampie aree andando ad intaccare la stratigrafia in<br />

profondità. Per rendere fruibili i vari strati si è pensato di ricostruire i vari periodi andando a<br />

ricoprire gli scavi con pietrame di vari colori per evidenziare i vari periodi (ad esempio l’area di<br />

Magone). In pratica ogni livello ha pietrisco di diverso colore. Anche a Nora hanno fatto una<br />

ricostruzione simile.<br />

In tutti gli scavi di Cartagine sotto gli strati bizantini, romani e punici sono venute fuori strutture più<br />

antiche: lacerti mediterranei e materiali vari che mostrano già dall’VIII a.C. un commercio intenso<br />

con i nuragici e con i greci. L’impianto urbanistico ortogonale è collegabile con l’area sui colli nella<br />

quale si trova la Byrsa che in età arcaica era occupata da numerose tombe. La Byrsa nel V a.C.<br />

viene raggiunta da un quartiere artigianale, sono visibili infatti tracce di impianti metallurgici con<br />

scorie di lavorazione, frammenti di fornace e tuyer. Nel II a.C. la zona è raggiunta<br />

dall’urbanizzazione. Secondo le fonti la Byrsa era la sede <strong>del</strong>l’acropoli. Appiano racconta che i<br />

romani nel 146 a.C. conquistarono la città combattendo casa per casa e distruggendo tutto.<br />

Considerato che i cartaginesi avevano perso già due guerre contro i romani dobbiamo ritenere che<br />

ebbero le capacità per risollevarsi e riorganizzare un’economia fiorente.<br />

Dopo l’abbandono degli ultimi cartaginesi avvenuto in seguito alla sconfitta nella III guerra punica,<br />

Roma decise di spianare la Byrsa per edificare il nuovo foro <strong>del</strong>la città, proprio per romanizzare<br />

l’area. In età Augustea si decise di ristrutturare la città e Cartagine divenne la città più importante<br />

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<strong>del</strong>l’Africa. Quando i romani tagliarono la sommità <strong>del</strong>la collina per ampliare l’area <strong>del</strong>la Byrsa,<br />

gettarono i detriti a valle, ricoprendo con uno strato alto sette metri che sigillò le strutture puniche,<br />

quelle <strong>del</strong>l’ultima fase <strong>del</strong>l’urbanizzazione. L’ambiente abitativo è quindi ben conservato.<br />

Le strutture puniche più recenti sono state usate solo per circa 50 anni, e oggi possiamo studiare<br />

la tipologia <strong>del</strong>l’edilizia popolare di quell’epoca. Una missione archeologica francese ha scavato la<br />

zona e sotto tonnellate di detriti è stato ritrovato il quartiere cartaginese <strong>del</strong>la Byrsa. Secondo<br />

Appiano le case erano alte fino a sei piani con alzato in mattoni crudi e soffitti in legno. Le case<br />

presentano una pianta caratteristica: si affacciano su una corte centrale interna dalla quale<br />

prendono luce, aria e acqua grazie alle cisterne nelle quali confluiva l’acqua piovana che veniva<br />

canalizzata. L’ingresso è collegato alla corte attraverso un corridoio. La fronte <strong>del</strong>la casa, quella<br />

sulla strada, era occupata da alcuni vani che generalmente erano destinati alle attività<br />

economiche, dunque aperti al pubblico o agli animali. Gli ambienti interni al pianterreno erano<br />

quelli di vita: cucina e locali per vivere, mentre la notte si andava nei piani alti per dormire.<br />

Le case erano costruite su uno zoccolo in pietra grossa e alzato in mattoni crudi cementati con<br />

malta di fango. I muri erano intonacati con calce, anche per garantire che l’acqua piovana non si<br />

infiltrasse nelle camere. Gli alzati probabilmente erano progressivamente più sottili perché<br />

dovevano reggere un peso minore. Le scale mostrano la presenza <strong>del</strong>la zona notte. La copertura<br />

<strong>del</strong> tetto con lastre di pietra a doppio spiovente convogliava l’acqua piovana in canalette che la<br />

indirizzavano poi verso la cisterna. Lo smaltimento <strong>del</strong>le acque reflue avveniva con dei canali che<br />

confluivano nella strada dove lo scarico era assicurato da pozzetti. Ogni casa aveva la sua<br />

cisterna realizzata con intonaco idraulico e spigoli stondati per una più agevole pulizia. Se vi era un<br />

banco roccioso sotto la casa veniva scavato un vano per ottenere la cisterna, altrimenti si scavava<br />

il terreno e si costruiva un muretto con blocchetti, a loro volta rivestiti in argilla. Le cisterne erano<br />

chiuse con lastre a piattabanda e avevano un pozzetto per attingere l’acqua. L’intonaco con il<br />

quale si rivestiva l’interno <strong>del</strong>la cisterna era grigio perché era costituito da malta, inerti e piccoli<br />

carboncini per aumentare l’impermeabilizzazione. In alternativa si utilizzava il cocciopisto,<br />

materiale utilizzato anche per il tipico pavimento punico. Per ottenerlo si miscelavano degli inerti,<br />

calce e frammenti di ceramica che sono quelli che danno il colore rosato. Le strade, ortogonali,<br />

erano in terra battuta e per recuperare la pendenza presentano scale, quindi non erano percorse<br />

da carri. Le fonti parlano di una Cartagine <strong>del</strong> II a.C. in forte declino ma i riscontri archeologici, a<br />

partire dalle strutture portuali, descrivono una realtà completamente diversa e mostrano una città<br />

fiorente. Attorno alla città bassa si sviluppano le necropoli. Le più arcaiche sono quelle di Byrsa,<br />

Dermech, Duimès, Santamonica e Odeòn.<br />

Come per Tharros, Ibiza e Cagliari, la necropoli è quella che è stata depredata per prima perché<br />

proprio in questi luoghi si trovano materiali integri e spesso pregiati. Soprattutto nel corso <strong>del</strong> 1800<br />

gli scavi avevano ideali differenti da quelli odierni: si cercavano materiali esotici, c’era un gusto<br />

antiquario, l’archeologia era una specie di caccia al tesoro.<br />

Un personaggio importante a Cartagine era Padre Delacr, un sacerdote che alla fine <strong>del</strong>l’Ottocento<br />

ha scavato centinaia di tombe ma, non essendo archeologo, decontestualizzava i reperti per cui<br />

oggi è difficile ricostruire i contesti. Verso la metà <strong>del</strong> 1800 sulla Byrsa è stata impiantata una<br />

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cattedrale, governata dai “padri bianchi” e Delacr era uno di questi. La Tunisia era colonia francese<br />

e l’archeologia era indirizzata soprattutto dal governo francese, per cui gli italiani non<br />

parteciparono agli scavi; solo intorno al 1970 qualche missione si è occupata di scavi negli strati<br />

romani. Purtroppo i metodi di scavo erano poco sofisticati e per portare alla luce i sarcofagi si<br />

sbancavano i fianchi <strong>del</strong>le colline, determinando la distruzione di molte tombe; abbiamo recuperato<br />

molti materiali ma si è persa completamente la possibilità di ricostruire i contesti perché sono stati<br />

smontati tutti gli ambienti che portavano all’imbocco <strong>del</strong>la camera. Se la tomba si trovava a 5 metri<br />

di profondità si procedeva allo smontaggio di tutto ciò che si trovava sopra.<br />

Fig. 73 Cartagine, la Byrsa<br />

Oggi l’area è urbanizzata ed è difficile vedere tombe, tranne che nella zona <strong>del</strong>la Byrsa. Altro<br />

studioso importante è Paul Gockler, francese, che scavò moltissimo ma morì prima di riuscire a<br />

pubblicare i ritrovamenti. Ci restano i suoi appunti di scavo <strong>del</strong> 1915 nei quali si notano disegni,<br />

corredi, maschere, gioielli, bottoni, amuleti e tanti altri dettagli che purtroppo non è possibile<br />

riconoscere con certezza proprio a causa <strong>del</strong>la mancata pubblicazione di un testo che riordinasse<br />

gli appunti. In origine le tombe <strong>del</strong>la Byrsa si trovavano sul piano di calpestio ma lo spianamento<br />

fatto dai romani le ha coperte con tonnellate di terra e oggi le troviamo in profondità. Gli scavi <strong>del</strong><br />

1900 erano eseguiti a trincea con la terra disposta nei fianchi.<br />

Uno dei tipi più antichi è la tomba a fossa, scavata nel terreno. Mentre in tutto l’Occidente in età<br />

arcaica e fino al VI a.C. il rituale di sepoltura è l’incinerazione, a Cartagine fin dalle prime<br />

attestazioni funerarie vediamo il prevalere <strong>del</strong>l’inumazione. Non sappiamo ancora il motivo di<br />

questa particolarità. Forse l’influenza <strong>del</strong>l’elemento indigeno, che praticava appunto l’inumazione,<br />

spiega questa caratteristica, ma i libici deponevano i defunti in posizione fetale e ricoperti con ocra<br />

rossa mentre le tombe cartaginesi mostrano scheletri generalmente in posizione supina con le<br />

braccia lungo i fianchi o sul petto. Tra le tombe più antiche troviamo anche qualche incinerazione<br />

secondaria accompagnata dal corredo, forse si tratta di individui ancora legati alla tradizione <strong>del</strong>la<br />

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madre patria. Troviamo in queste tombe oggetti di gusto orientale e perfino degli avori. La<br />

copertura <strong>del</strong>le tombe è realizzata con lastre giustapposte, a schiena d’asino.<br />

Fig. 74 Stele con simboli: falce lunare, disco solare, Tanìt, idolo a bottiglia, trono<br />

Un altro tipo di sepoltura diffuso è quello <strong>del</strong>la tomba a camera. Non sono come quelle di Ibiza,<br />

scavate nella roccia, ma simili alle spagnole, costruite al fondo di una grande fossa, soprattutto le<br />

più antiche. Dal V a.C. invece vengono direttamente scavate nella roccia anche a Cartagine. Le<br />

più profonde raggiungono i 30 metri. Sono simili a quelle di Cagliari e prevedono un pozzo<br />

verticale con imbocco di forma rettangolare. Sulle pareti lunghe, nei bordi, ci sono <strong>del</strong>le sporgenze<br />

laterali (riseghe) e specie di gradini (pedarole) che consentivano la discesa agli addetti<br />

all’inumazione. La bara era invece calata con <strong>del</strong>le funi. Alla base c’era la camera con la<br />

deposizione. Non sappiamo bene a cosa servissero le riseghe dei pozzi perché le tombe venivano<br />

riempite e le sporgenze non hanno una funzione pratica. Nei casi più semplici ad ogni pozzo<br />

corrisponde una camera, ma a volte abbiamo più camere sovrapposte, aperte nel lato breve <strong>del</strong><br />

pozzo, che era rettangolare. All’interno possiamo trovare sarcofagi monolitici in marmo con<br />

copertura a lastre o a cassone con tetto spiovente di tipo greco.<br />

Sopra le tombe venivano messe <strong>del</strong>le lastre a schiena d’asino per reggere la forte spinta provocata<br />

dalla terra di riempimento. A volte il soffitto era realizzato in legno pregiato ma nulla si è<br />

conservato. Un altro tipo è la tomba a cassone, costituita da blocchi in pietra e lastre poste a<br />

coltello a formare il cassone. Anche queste sono al fondo di grandi fosse e ospitavano inumazioni.<br />

In alcune tombe tarde troviamo dei sarcofagi di tipo greco, con cassone parallelepipedo e<br />

coperchio a doppio spiovente conformato come un timpano, come il frontone <strong>del</strong> tempio greco.<br />

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Due sarcofagi che si distinguono fra gli altri, pur essendo anch’essi a cassone monolitico,<br />

presentano sul coperchio un personaggio maschile e uno femminile, forse due sacerdoti. Quello<br />

maschile ha la mano alzata in segno di saluto, o di benedizione, come quelli di Ahiram di Biblo. Il<br />

personaggio femminile presenta una veste particolare con tracce di policromia blu, nera, gialla e<br />

arancio. Come la rappresentazione <strong>del</strong>la divinità nella Cueva d’es Cuyeram, mostra ali ripiegate<br />

sul corpo che nel mondo punico distinguono l’iconografia di Iside. Si è ipotizzato che la tomba sia<br />

di una sacerdotessa di una divinità femminile, raffigurata nei suoi abiti cerimoniali.<br />

In superficie le tombe erano segnalate da stele funerarie che presentano una nicchia, un’edicola,<br />

nella quale è rappresentato un personaggio, una divinità. Si nota spesso l’influenza greca con<br />

colonne ioniche e altri elementi iconografici caratteristici. Essendo i pozzi riempiti, quindi invisibili<br />

dalla superficie, in molti casi ci sono cippi o stele funerarie che indicano la presenza <strong>del</strong>le tombe.<br />

Fig. 74 Tophet Cartagine<br />

Uno dei contesti più importanti di Cartagine è il tophet. Fu scoperto casualmente nel 1921, è stato<br />

sottoposto a numerosi interventi di scavo mai pubblicati in modo esaustivo. A Cartagine,<br />

diversamente al consueto posizionamento a nord degli abitati, il tophet è ubicato a sud, a<br />

Salammbò, vicino ai porti. I tophet sono un fenomeno <strong>del</strong>la zona centrale mediterranea: li troviamo<br />

in Tunisia (Cartagine e Suss), in Sicilia (Mozia, Lilibeo e Solunto) e in Sardegna (Cagliari, Nora,<br />

Sant’Antioco, Monte Sirai, Tharros). Sono completamente sconosciuti in Oriente, a Cipro, a Ibiza e<br />

in Spagna. Si pensa quindi ad una influenza culturale antica di matrice cartaginese, precedente<br />

alla conquista armata. Quello di Cartagine fu scoperto nel 1921 da un cercatore di pietre che<br />

vendeva le stele agli antiquari. Due appassionati (Icard e Gielly) lo seguirono negli spostamenti e<br />

scoprirono i luoghi dai quali il cercatore prelevava i materiali. Nella zona si succedettero numerosi<br />

studiosi che indagarono la parte <strong>del</strong>l’area compresa tra le strade. Ancora oggi ignoriamo l’esatta<br />

estensione <strong>del</strong> tophet perché l’area è fortemente urbanizzata e non è stata ancora completamente<br />

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scavata. La stratigrafia si presenta complessa. Vi è una successione, alta vari metri, di strati che<br />

contengono migliaia di stele e urne ma non c’è una separazione netta fra le fasi in quanto il tophet<br />

è stato frequentato senza soluzione di continuità, con continui scavi per collocare altre urne. Ciò<br />

costituisce un problema perché un sito rimaneggiato determina l’incomprensione degli strati.<br />

Il primo scavo fu di Icard e Gielly nel 1922, successivamente l’indagine fu svolta da Lapeyre 1934-<br />

36 e Carton, poi Cintas 1944-47 e infine, negli anni Settanta, fu il turno di Stager, 1975-79.<br />

Lo scavo <strong>del</strong> 1922 fu fatto con <strong>del</strong>le lunghe trincee che scoprivano la distesa di urne e stele.<br />

Migliaia di manufatti furono portati alla luce ma non si riuscì ad abbinare le stele alle varie urne.<br />

Alcuni articoli pubblicati in quegli anni cercarono di spiegare la stratigrafia ma i contrasti fra i due<br />

appassionati e le autorità tunisine causarono l’interruzione degli scavi. Quando non c’era più<br />

spazio si ricopriva con terra lo strato esistente e si sovrapponevano altre stele e altre urne. La<br />

datazione accettata dagli studiosi è quella <strong>del</strong>l’americano Kelsey che scavò, pochi anni dopo Icard<br />

e Gielly, con l’inglese Harden, esperto nella datazione <strong>del</strong>le ceramiche.<br />

La datazione <strong>del</strong>le stratigrafie antiche segue un metodo che si basa sulle ceramiche, poiché le<br />

monete sono utilizzate solo in tempi più recenti (dopo il V a.C.), il vetro fu introdotto in età romana<br />

e il metallo poteva essere rifuso. La maggior parte dei contenitori domestici e funerari era in<br />

ceramica, e si rompeva facilmente, soprattutto se doveva essere riscaldata col fuoco. L’argilla è un<br />

materiale che riscaldato a certe temperature diventa indistruttibile nel tempo ed era alla portata di<br />

molte famiglie <strong>del</strong>l’epoca. La datazione dei cocci avviene su base comparativa, nel senso che negli<br />

ultimi 200 anni l’archeologia ha documentato <strong>del</strong>le sequenza cronologiche relative che hanno<br />

portato ad individuare <strong>del</strong>le successioni temporali e dei luoghi di origine <strong>del</strong>la produzione e <strong>del</strong>le<br />

decorazioni. Il confronto fra contesti indica la cronologia. Comparando i materiali <strong>del</strong> contesto si<br />

può dedurre quando si è formato lo strato perché i materiali più recenti sono l’indizio <strong>del</strong>la<br />

datazione. I materiali antichi si definiscono “residuali”. La cronologia relativa è quella che dice che<br />

uno strato viene prima di un altro, la cronologia assoluta determina la datazione <strong>del</strong>lo strato, il<br />

periodo. I vari studiosi che si alternarono a Cartagine hanno proposto datazioni leggermente<br />

differenti. Harden nel 1925 distingue tre strati principali: Tanìt I, Tanìt II e Tanìt III. Il primo strato,<br />

Tanìt I, presenta le più antiche urne, quelle <strong>del</strong> VII a.C., che si trovano scavate nella roccia o entro<br />

ciste litiche, nello strato più basso. Non ci sono stele, solo poche urne protette da cumuli di pietre o<br />

in cavità <strong>del</strong>la roccia. Datato intorno al VII a.C. si caratterizza per l’assenza di monumenti lapidei.<br />

Lo strato Tanìt II, VI-IV a.C., vede tante stele e cippi. L’ultimo strato si data al 150 a.C., data <strong>del</strong>la<br />

distruzione di Cartagine da parte dei romani, e vede la presenza di un numero enorme di urne e<br />

stele, ma di diverso tipo.<br />

Negli anni Trenta un sacerdote, Lepeyre, scavò un terreno di proprietà di Carton che morì poco<br />

dopo l’acquisto <strong>del</strong>la proprietà e non poté pubblicare gli scavi.<br />

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Fig. 75 Cartagine<br />

Meglio documentato è lo scavo <strong>del</strong> Cintas che fece due campagne. La prima, nel 1944, venne<br />

effettuata nella parte nord, in un’area dove la stratigrafia non era completa, mancavano gli strati<br />

più bassi perché il tophet aveva raggiunto la zona estrema <strong>del</strong> temenos (nome <strong>del</strong> recinto sacro<br />

che chiude il tophet). Lo studioso individuò il muro di recinzione costituito da una serie di lastre,<br />

quindi conosciamo il limite nord <strong>del</strong> santuario, mentre ignoriamo i limiti degli altri punti cardinali.<br />

Nella seconda campagna, quella <strong>del</strong> 1946, individuò una struttura alla quale diede il suo nome, la<br />

Cappella Cintas. Si tratta di un edificio con una cameretta centrale circondata da muretti di piccole<br />

dimensioni che la dividono da altri piccoli vani. C’era un deposito di fondazione che presentava<br />

materiali arcaici particolari, molto diversi fra loro, sia di importazione greca che locali. Cintas,<br />

basandosi sulle fonti classiche e sulla tipologia di un’anfora, pensò ad una fase antica di<br />

fondazione di Cartagine e ipotizzò il XII a.C. ma studi recenti hanno dimostrato che quell’anfora<br />

cicladica ritrovata, è <strong>del</strong> 750 a.C. Comunque questo edificio è un unicum nei tophet e ancora non<br />

siamo in grado di interpretarlo in maniera certa. Sempre Cintas ha individuato un breve tratto <strong>del</strong><br />

temenos <strong>del</strong> tophet, costituito da una serie di lastroni piazzati verticalmente.<br />

Dopo il Cintas operò lo Stager che negli anni Settanta, a seguito di un appello <strong>del</strong>l’Unesco che<br />

coinvolse molte missioni internazionali (tedesche, danesi, inglesi, italiane, americane, polacche e<br />

francesi), iniziò gli scavi a Cartagine e accettò la distinzione in tre fasi proposta da Harden. A oggi<br />

sono state pubblicate solo una parte <strong>del</strong>le stele e mostrano diverse tipologie. Stager riprende la<br />

stessa stratigrafia <strong>del</strong> Cintas con Tanìt I, II, III, ma con datazioni differenti divise in nove<br />

sottogruppi. Tanìt I ha poche urne deposte in piccole cavità, datate 730-600 a.C. Tanìt II 600-400<br />

a.C. vede la comparsa dei cippi con stele a trono. Tanìt IIb VI-III a.C. ha cippi con stele a sommità<br />

triangolare e edicola. Tanìt III arriva al 146 a.C.<br />

222


Fig. 76 Utica<br />

Altri esempi sono le stele costituite da un’edicola o dal frontespizio di un tempio con all’interno la<br />

raffigurazione <strong>del</strong>la divinità. Le stele ad edicola presentano divinità sia aniconiche (betilo o idolo a<br />

bottiglia), che iconiche, con figure antropomorfe, più spesso femminili, vestite o nude. Non<br />

sappiamo se volessero rappresentare templi, ma dal VI al IV a.C. ci sono edicole che presentano<br />

elementi architettonici che rimandano all’Egitto: sul basamento ci sono pilastri (non colonne)<br />

sormontati da una trabeazione con sopra una modanatura sgusciata a gola egizia come<br />

coronamento. Nell’architettura templare punica si riprendono i caratteri egiziani ma nelle stele<br />

manca l’aggetto frontale (che però viene ripreso lateralmente). Sopra le modanature ci sono <strong>del</strong>le<br />

semplici fasce o serpenti, simboli solari egiziani come urei discofori con in testa un disco solare<br />

(fregi ad urei), simboli astrali come falce lunare o sole alato<br />

Tutte le stele e i cippi erano tridimensionali e si trovavano nel secondo strato <strong>del</strong> tophet, in Tanìt II.<br />

Verso il IV a.C. c’è un cambiamento <strong>del</strong>la tipologia con l’introduzione di stele che perdono la<br />

tridimensionalità e mostrano una lavorazione a bassorilievo o un’incisione solo sulla faccia a vista<br />

(Tanìt III). Abbiamo semplici lastre suddivise in registri, sormontate da un timpano con acroteri<br />

(elementi greci). Nei registri troviamo iscrizioni, fregi, animali, segni di Tanìt, caducei e altri simboli<br />

come sole alato, capitelli ed elementi vegetali.<br />

Il bètilo, la pietra sacra, è rappresentata come un pilastro con sommità tronca o arrotondata. Può<br />

essere singolo o associato (diadi o triadi betìliche) e a Soùssa ci sono 5 bètili affiancati. Altro<br />

simbolo femminile è la “losanga”, raro ma non a Cartagine. Le figure maschili si rifanno al mondo<br />

iconografico orientale, quelle femminili al mondo egizio.<br />

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Fig. 77 Cartagine<br />

A Cartagine abbiamo anche notizie di un tempio di Eshmun ma non ci sono tracce. Solo le fonti ne<br />

parlano ma quando la Byrsa fu spianata dai romani questo tempio fu distrutto completamente.<br />

Un’altra fonte, Appiano, ci parla di un tempio di Apollo (il Reshef punico) saccheggiato dai romani<br />

al momento <strong>del</strong>la presa <strong>del</strong>la città. Sul tetto c’erano foglie d’oro. I tedeschi hanno forse individuato<br />

questo tempio ma si tratta di poche tracce. La ricostruzione proposta dalla missione tedesca<br />

mostra un edificio con pronao, cella e penetrale (in un piano più basso) diviso in tre ambienti. Nei<br />

vani più interni sono state trovate una serie di crètule o bulle, palline di argilla cruda utilizzate per<br />

sigillare i documenti, che si sono conservate solo perché i romani bruciarono l’edificio, causando<br />

l’indurimento <strong>del</strong>la pasta. All’epoca i templi avevano una funzione sacra accompagnata da quella<br />

economica, da quella amministrativa e di archivio. I documenti ufficiali erano conservati nei templi<br />

e a Cartagine tutto il materiale scrittorio (papiri egiziani) veniva scritto, arrotolato, legato con<br />

cordicelle e sigillato con le cretule. Sono manufatti che presentano su una faccia l’elemento<br />

iconografico (navi, palmette, decorazioni) e sull’altra un dorso di scarabeo, simbolo solare<br />

egiziano. Ogni sigillo era impresso con gli scarabei (anelli o timbri) tutti differenti fra loro, di<br />

proprietà <strong>del</strong>le famiglie <strong>del</strong>egate a governare le città. C’erano varie scene con Iside che allatta<br />

Orus o con altre immagini. Le cretule <strong>del</strong> tempio di Cartagine portano impressa una doppia<br />

immagine (all’esterno il segno <strong>del</strong> sigillo e all’interno quello <strong>del</strong> papiro). Le cretule erano<br />

conservate nei templi, insieme ai documenti.<br />

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A sud <strong>del</strong>la città ci sono i porti. Uno rettangolare esterno, utilizzato come struttura mercantile, e<br />

uno circolare, più interno, con funzioni militari e all’interno un isolotto per l’ammiragliato. I romani<br />

riuscirono a far breccia nelle mura di fortificazione adiacenti le strutture portuali. Il porto militare<br />

poteva contenere quasi 200 navi. Nel III a.C. venne realizzata un’importante opera con i due nuovi<br />

porti. L’archeologia ha fornito dati opposti a quelli <strong>del</strong>le fonti che parlano di una Cartagine fiaccata<br />

dai romani. Intorno al 150 a.C. il porto poteva contenere quasi 200 navi da guerra e la città doveva<br />

essere ricchissima. Catone aveva dunque ragione quando nei discorsi al senato di Roma avvertiva<br />

che Cartagine era potente e bisognava preoccuparsi. Sia nell’isolotto che nella parte perimetrale<br />

<strong>del</strong> porto c’era un colonnato con degli spazi che permettevano di portare a secco le navi nella<br />

stagione invernale. Sono rimaste tracce di opere murarie e scivoli lignei.<br />

Anticamente c’era un porto lagunare arcaico, ubicato in quello che oggi è lo stagno di Tunisi, a sud<br />

<strong>del</strong>la città. Scavi recenti hanno dimostrato l’esistenza di un canale scavato che andava dallo<br />

stagno fino ai piedi <strong>del</strong>la Byrsa. Non sono ancora state fatte indagini approfondite ma si è scoperto<br />

che il canale venne interrato e furono costruiti i due nuovi porti. Il porto militare era chiuso con<br />

catene ed era accessibile solo da quello rettangolare. Bisogna tener conto che la navigazione<br />

d’altura era un’attività esclusivamente estiva, pertanto durante la stagione fredda le navi erano<br />

tirate in secca negli appositi spazi ricavati nelle strutture. L’edificio <strong>del</strong>l’ammiragliato era composto<br />

da una parte bassa con i vani per le barche e una parte alta per i militari.<br />

Le fortificazioni arcaiche sono state indagate dagli scavi tedeschi che hanno individuato due muri<br />

riferiti alla cinta antica. Nel V a.C. venne impiantato un nuovo sistema composto da una serie di<br />

torri, unite da bastioni, che circondava la città, soprattutto sul lato a mare. Negli anni Cinquanta<br />

sono state individuate <strong>del</strong>le trincee con palizzate, interpretate come una difesa realizzata con<br />

materiali deperibili, lignei. Cartagine, era difesa da una fossa regia per proteggersi da eventuali<br />

attacchi <strong>del</strong>le popolazioni indigene, i berberi libici, che avevano una propria identità culturale.<br />

Questi subirono l’acculturazione punica ma mantennero anche la propria connotazione. Quando<br />

Cartagine, nella colonizzazione di Sicilia e Sardegna, trasferisce parte <strong>del</strong>la popolazione libica nei<br />

nuovi territori, solo i rappresentanti sono cartaginesi doc. Nella cultura punica sarda interagiscono,<br />

quindi, elementi tiri e libici che si integrano ai locali.<br />

I Tophet<br />

Si tratta di santuari caratteristici <strong>del</strong>l’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e<br />

Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna<br />

con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima<br />

distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tophet.<br />

Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può<br />

esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos, all’interno <strong>del</strong> quale c’è la deposizione di<br />

urne in ceramica e stele in pietra. Generalmente si trova a nord <strong>del</strong>l’abitato in una posizione<br />

periferica e non viene mai spostato: qualora si dovessero fortificare le città si arriva a modificare il<br />

percorso <strong>del</strong>le mura per non spostare il tophet. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti,<br />

agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si<br />

225


arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma ma<br />

dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.<br />

È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”,<br />

che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore<br />

attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla<br />

divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità<br />

ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è<br />

attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle<br />

interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima <strong>del</strong> tophet di<br />

Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale <strong>del</strong>la città nel<br />

1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici<br />

necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine vennero eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si<br />

rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani,<br />

come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano<br />

semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a<br />

Gerusalemme e menzionati in alcuni brani <strong>del</strong>le Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano<br />

di tophet e di figli che vengono offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato<br />

da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel<br />

Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i mediterranei non li<br />

chiamavano così, è stata una nostra associazione. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura <strong>del</strong>le fonti<br />

classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di<br />

bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa<br />

ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno<br />

mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria <strong>del</strong> sacrificio; altro elemento è<br />

l’interpretazione <strong>del</strong>le fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare<br />

pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla<br />

di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.<br />

Ad esempio nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco per i loro Dei i figli e le figlie<br />

loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal<br />

libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo<br />

figliolo secondo gli abominevoli rituali <strong>del</strong>le genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli<br />

d’Israele”. Un rituale dunque non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a<br />

Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il<br />

Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di<br />

Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare<br />

i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo,<br />

dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle <strong>del</strong>l’eccidio, e si<br />

seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”. Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col<br />

fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente,<br />

226


perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne<br />

Valle di Ben Innom, ma Valle <strong>del</strong>la strage”.<br />

Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano,<br />

non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui<br />

hanno trovato a Cartagine queste urne con centinaia di bambini incinerati, hanno attribuito il luogo<br />

a quello di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa<br />

teoria <strong>del</strong> sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980<br />

la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini,<br />

ma di sacrifici di persone per placare l’ira <strong>del</strong>le divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed<br />

eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.<br />

Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi <strong>del</strong>la città o<br />

<strong>del</strong>la popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli,<br />

come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un<br />

rituale cerimoniale misterioso”.<br />

Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso Gerusalemme dove i Fenici si diceva<br />

"passassero per il fuoco" i bambini. Dalla valle di Ben Innom (come si dice nel Vecchio<br />

Testamento) il tofet passerà, nella letteratura storico-archeologica, ad indicare tutti i santuari simili<br />

rinvenuti successivamente in area occidentale. Naturalmente ciò fornì il pretesto per stigmatizzare<br />

questa usanza da parte degli israeliti, i quali fecero di tutto per proibire tale rito. In realtà il termine<br />

"passare per il fuoco" è stato sempre strumentalizzato per porre in cattiva luce i fenici, mentre con<br />

tutta probabilità si tratta di un rito di passaggio, <strong>del</strong> "salto" di un fuoco da parte di un bambino,<br />

accompagnato da un adulto, il quale con questa "prova" accedeva a tutti gli effetti tra i membri<br />

attivi <strong>del</strong>la comunità. Si tratta di una straordinaria analogia col fuoco di S.Giovanni al solstizio<br />

d'estate. È simile a quando si salta un falò in spiaggia, retaggio di un antico rituale di passaggio<br />

all'età adulta.<br />

Come si può facilmente vedere la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi<br />

biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali.<br />

Secondo Moscati nei tophet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso<br />

il rito di introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte <strong>del</strong><br />

mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e<br />

sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo<br />

animale. Un gran numero di iscrizioni ritrovate nei tophet riportano <strong>del</strong>le formule rituali sempre<br />

uguali: denominazione <strong>del</strong>l’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione <strong>del</strong> rito<br />

(molch), il verbo <strong>del</strong>la dedica o <strong>del</strong> dono, il nome e la genealogia <strong>del</strong>l’offerente, la divinità (Baal-<br />

Ammon o Tanìt) e il motivo <strong>del</strong>l’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la<br />

sua voce”. Questa formula viene poi cambiata mettendo prima il nome <strong>del</strong>la divinità.<br />

Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO<br />

SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL<br />

SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.<br />

227


Ad oggi non sappiamo se ogni stele sia legata ad un urna in particolare, ne se le offerte erano<br />

rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o<br />

piccoli tempietti con all’interno la rappresentazione <strong>del</strong>la divinità.<br />

In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.<br />

Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata dove prevale l’altezza sulle altre<br />

dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la<br />

fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi<br />

attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un<br />

listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai<br />

punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo<br />

l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno<br />

con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e<br />

cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre<br />

volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una<br />

pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa <strong>del</strong> Dio). In qualche caso un “idolo a<br />

bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito <strong>del</strong> VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su<br />

basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono<br />

documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.<br />

Le zone più importanti <strong>del</strong> territorio cartaginese sono il Cap Bòn e il litorale (Sael), che hanno<br />

restituito strutture puniche dalle quali siamo risaliti alla fisionomia <strong>del</strong>l’area in età antica. Le città più<br />

importanti sono Utica e Sousse. Il sito principale di Cap-Bon è Kerkouàne, munito di fortificazioni<br />

con torri costiere che servivano per gli avvistamenti. Altri siti importanti sono: Ràs Fortàss, Ràs ad-<br />

Drèk e Kelìbia. Oltre questi abbiamo santuari e necropoli.<br />

Kerkouàne<br />

È la città meglio conservata perché alla metà <strong>del</strong> III a.C. c’è stata la distruzione e si è conservata<br />

come cristallizzata. Mohamad Fantar ha eseguito gli scavi ma ha pubblicato solo la struttura e non<br />

i cocci. Fondata nel VI a.C. è un centro libico che subisce un forte influsso cartaginese. Venne<br />

distrutta due volte: nel 310 a.C. da Agatocle e nel 255 a.C. da Attilio Regolo che interruppe<br />

definitivamente la vita <strong>del</strong>la città. Le fortificazioni mostrano mura con due porte di ingresso, a<br />

oriente e occidente, e varie torri. Le strutture sono state scavate solo in alcuni punti e mostrano<br />

una fase antica con pietre strutturate a spina di pesce. L’alzato è stato ricostruito per consentirne<br />

una migliore fruizione e presenta tecniche costruttive con alzati in mattoni crudi. L’architettura<br />

abitativa era regolare, organizzata per insule ma l’impianto <strong>del</strong>le strade non è perfettamente<br />

ortogonale. Il nucleo più antico vede, come nella Byrsa, case con diversi spazi che si affacciano su<br />

una corte centrale, nella quale ci sono <strong>del</strong>le vasche vicine alla cucina. Le coperture sono piane,<br />

realizzate con materiale deperibile, forse assi di legno. Le sale da bagno (vasche) presentano <strong>del</strong>le<br />

tubazioni per essere riscaldate dalle cucine e hanno una struttura sofisticata con bordi a sedere.<br />

Il santuario è organizzato su due nuclei collegati da uno stretto ingresso, uno per i sacerdoti e<br />

l’altro per i fe<strong>del</strong>i. Davanti all’ingresso ci sono due pilastri a spigolo e l’aula presenta diversi<br />

228


ambienti. Sul fondo ci sono due basamenti con edicole e in alcuni ambienti si notano residui di<br />

produzione coroplastica: manufatti di argilla, un forno, una vasca di decantazione e un tornio.<br />

Fig. 78 Kerkouane<br />

La produzione degli ex-voto era, quindi, interna al santuario e acquistabile in loco, pertanto i fe<strong>del</strong>i<br />

non dovevano portarla con loro. Le due necropoli importanti di Kerkouane sono: Giebel-Mleja e<br />

Areg el-Gazuan. Le due varianti funerarie sono a dromos e a pozzo. Il dromos consente una<br />

discesa graduale verso la tomba e naturalmente la presenza di un tipo esclude l’altro. Tuvixeddu,<br />

Cartagine, Lilibeo, Monte Luna e Villamar hanno moduli a pozzo con riseghe e pedarole. Quelli a<br />

dromos sono a Solunto, Monte Sirai, Sant’Antioco e Tharros. Non sappiamo perché gli abitanti dei<br />

siti preferissero uno o l’altro tipo, inoltre le tombe a dromos, stranamente, non sono documentate<br />

a Cartagine. Nel dromos si può verificare che i gradini occupino tutto il lato <strong>del</strong> dromos nella parte<br />

breve, oppure entrambi, ma non quello lungo. All’interno <strong>del</strong>la camera, a volte, ci sono dei banconi<br />

con strutture idonee a ospitare sarcofagi oppure fosse scavate nel pavimento con inumati in<br />

posizione supina o fetale con intorno il corredo funerario. Le interferenze religiose fra indigeni e<br />

cartaginesi, quindi, non impedivano il normale svolgersi <strong>del</strong>la vita. L’archeologia documenta anche<br />

un sarcofago ligneo con una rappresentazione femminile sul coperchio, come a Santa Monica: la<br />

dama di Kerkouàn. La documentazione di Giebel-Mleja è ricca di pitture funerarie, realizzate in<br />

ocra rossa nelle pareti <strong>del</strong>la fossa, stranamente non documentata a Cartagine. A Cagliari abbiamo<br />

tombe a fossa come a Cartagine e pitture funerarie come a Giebel-Mleja. In Tunisia abbiamo <strong>del</strong>le<br />

specie di domus de janas chiamate Hanùt (o hanuanèt), contemporanee alle tombe puniche. Sono<br />

ipogeiche ma si possono aprire sul piano roccioso o nella parete. Le hanuanèt presentano pitture<br />

ricchissime con figure di caccia e animali, riportati ad una influenza punica, ma non sappiamo se i<br />

libici dipingono quando i punici avevano già eseguito le loro opere subendone il fascino o avvenne<br />

il contrario. Il fregio a losanga <strong>del</strong>la tomba 5 di Giebel-Mleja è libico, lo troviamo infatti anche nella<br />

ceramica berbera. Nella parete di fondo è rappresentata la città dei morti e in una nicchia c’è Tanìt.<br />

Sui due lati c’è un mausoleo con un altare e un gallo, forse rappresentazione allegorica <strong>del</strong><br />

defunto, che è in viaggio verso la città dei morti. Ē un’ipotesi di Fantar ma qualcuno pensa ad una<br />

229


appresentazione <strong>del</strong>la necropoli con la collina di Gieben-Mleja così come si presentava sopra la<br />

necropoli: un’area curata, con una serie di strutture simili a cappelle di famiglia, legate ai sepolti. A<br />

volte sul prospetto <strong>del</strong>l’ingresso troviamo <strong>del</strong>le iscrizioni sul defunto, come a Tharros.<br />

La Sicilia<br />

Fig. 79 Gieben-Mleja, la tomba 5 dipinta<br />

L’isola è importante per tutta l’area centro mediterranea, sia dal punto di vista politico che da quello<br />

culturale. A differenza <strong>del</strong>la Sardegna c’è la presenza <strong>del</strong>l’elemento greco. Vi è anche una<br />

componente indigena <strong>del</strong>l’interno, a sua volta distinta in tre gruppi etnici che continuano a<br />

svilupparsi dopo l’arrivo dei coloni greci e fenici, avvenuto nell’VIII a.C.: gli Elimi ad ovest, i Sicani<br />

al centro e i Siculi ad est.<br />

Secondo Tucidide i primi a giungere furono i fenici di Tiro che con l’arrivo dei greci si ritirarono nella<br />

costa occidentale alleandosi con gli elimi e dando vita alle tre città principali: Mozia-Lilibeo,<br />

Palermo e Solunto. L’incontro fra le genti fu importante sia per la crescita <strong>del</strong>le rispettive culture,<br />

sia per l’aspetto militare. Ogni popolo possiede proprie convinzioni religiose e divinità e l’influenza<br />

fu forte. Le città si svilupparono in maniera diversa rispetto alla situazione africana e sarda.<br />

Abbiamo poche città, tutte sulle coste, ed un entroterra controllato dagli Elimi che comunque<br />

mantennero buoni rapporti con i fenici fino al 241 a.C., quando la Sicilia passò sotto il controllo<br />

romano.<br />

Oltre le città principali, altri centri di cultura mediterranea sono Selinunte, colonia greca che ha<br />

subito 150 anni di controllo cartaginese, Erice, centro indigeno, Monte Adranone e Pizzo Cannìta<br />

dove sono stati ritrovati due sarcofagi antropoidi, influenzati dal mondo greco. Dal V a.C. le città<br />

ebbero un rapporto conflittuale con le città rivali greche, soprattutto Siracusa.<br />

230


Mozia<br />

Fig. 80 Mozia, muro di cinta<br />

É la città che ha restituito le tracce più antiche. Si trova sull’isolotto di San Pantaleo, localizzato<br />

nello stagno di Marsala, ed è separata dalla costa da uno specchio d’acqua molto basso, circa 1.5<br />

m, che consentiva una buona difesa da eventuali attacchi navali esterni, offrendo allo stesso<br />

tempo ai residenti la possibilità di rifornirsi velocemente di ciò che serviva per la vita quotidiana.<br />

Quindi un’isola protetta dai bassi fondali e vicinissima alla costa. Fu scavata agli inizi <strong>del</strong><br />

Novecento ma è ancora indagata e ospita i vigneti dai quali si produce il Marsala, il famoso vino<br />

liquoroso siciliano. Il sistema fortificato circondava l’intera isola ed era stato impiantato intorno al<br />

550 a.C. e visto che i rapporti fra levantini e indigeni sono sempre pacifici, non troviamo strutture<br />

fortificate antecedenti questo periodo. Chi riusciva a raggiungere l’isola, con difficoltà visti i bassi<br />

fondali, era controllato ed eventualmente attaccato dall’interno <strong>del</strong>le fortificazioni. Ci sono quattro<br />

porte nei quattro punti cardinali, ma quella a est non è stata ancora individuata. Il centro venne<br />

distrutto nel 397 a.C. da Dionigi di Siracusa e gli abitanti si spostarono nella costa fondando la città<br />

di Lilibeo. Le fortificazioni vivono 4 fasi costruttive e sono state scavate soprattutto a nord <strong>del</strong>l’isola.<br />

231


Fig. 81 Mozia, l’isola<br />

La fase più antica presenta un muro semplice con uno zoccolo in pietrame non squadrato,<br />

cementato con malta di fango, e alzato in mattoni crudi. A distanza regolare, ogni 20 m, ci sono<br />

<strong>del</strong>le torri di guardia aggettanti rettangolari alte 12 m che comprendono 2 ambienti. Gli scavi <strong>del</strong>la<br />

Ciasca, negli anni Settanta, hanno documentato i mattoni crudi protetti da un altro paramento<br />

murario. Nella seconda fase, sempre nel VI a.C. viene costruito un altro muro, addossato al<br />

precedente, che diminuisce l’aggetto <strong>del</strong>le torri. La terza fase, nel V a.C., vede paradossalmente<br />

una tecnica costruttiva militare greca, il nemico principale dei cartaginesi. I greci avevano armi<br />

d’assedio comprendenti arieti e minatori, pertanto l’aspetto militare fu quello percepito prima dai<br />

residenti: dovevano difendersi e impararono velocemente le tecniche <strong>del</strong> nemico. Costruivano con<br />

blocchi isodomi messi in opera a secco con disposizione di testa e di taglio per raddoppiare la<br />

consistenza e la resistenza allo sfondamento. Le mura inglobano la prima fase, mentre la fase<br />

centrale viene riempita. L’ultima fase, sempre nel V a.C., integra brevi tratti di fortificazioni con<br />

scheggioni messi in opera con malta di fango e ci sono grandi torri quadrangolari per rinforzare<br />

alcuni punti <strong>del</strong>le mura.<br />

La porta sud è in corrispondenza <strong>del</strong> bacino <strong>del</strong> Cothon e all’esterno <strong>del</strong>l’area furono ritrovati dei<br />

merli crollati. Questi elementi lapidei di forma centinata, che misurano circa un metro, hanno fatto<br />

ipotizzare il coronamento <strong>del</strong>la struttura. Elementi di questo tipo sono rari e i ritrovamenti si<br />

limitano a 4 siti: Mozia, Tharros, Lilibeo e in Gallia.<br />

232


L’abitato è stato scavato solo in piccola parte e non ne conosciamo l’estensione. Dopo la<br />

distruzione, avvenuta nel 397 a.C. ad opera di Dionigi, Mozia ha continuato a vivere perché i suoi<br />

abitanti, che si trasferirono sulla terraferma costruendo una rocca inespugnabile, continuarono a<br />

frequentare l’isola. Greci e romani non riuscirono mai a conquistarla e solo alla fine <strong>del</strong>la II guerra<br />

punica, con la resa di Cartagine, la città passò sotto il controllo romano. Inizialmente la<br />

sistemazione <strong>del</strong>l’abitato, ipotizzata dall’archeologo inglese Taylor, era ortogonale e poi si sarebbe<br />

raccordata con l’andamento <strong>del</strong>le fortificazioni <strong>del</strong>l’isola che seguivano la forma <strong>del</strong>la costa, quindi<br />

un passaggio da ortogonale a radiale. Tuttavia recenti scavi hanno dimostrato che l’impianto<br />

originale era molto frastagliato e non certo ortogonale.<br />

La porta nord è stata scavata da Withaker agli inizi <strong>del</strong> Novecento. La struttura è costituita da un<br />

lungo corridoio suddiviso in due parti e sbarrato da tre porte consecutive che costituivano una<br />

difesa dall’esterno. Gli inglesi hanno scavato la porta nord trovando due saccelli, di cui rimangono<br />

solo le fondazioni. Quello a destra, rettangolare di 5 x 7 m, aveva addossato ad uno dei muri 4<br />

anfore infisse nel terreno legate ad una offerta o ad un culto indigeno. Fu identificata anche una<br />

grande quantità di ciotole e sco<strong>del</strong>le. L’altro saccello attualmente è di forma quadrata ma in antico<br />

era rettangolare, più piccolo. Gli scavi nell’area hanno riportato alla luce alcuni frammenti di<br />

capitelli: uno dorico e alcuni angolari fogliati. Si è ipotizzato che la struttura <strong>del</strong>la prima fase avesse<br />

un aspetto greco, mentre nella seconda fase, nel V a.C., fosse stata sistemata con elementi di tipo<br />

orientale. Forse gli stessi moziesi, in occasione <strong>del</strong>l’attacco di Dionigi di Siracusa, hanno raso al<br />

suolo la struttura per evitare che fosse utilizzata dal nemico. Non conosciamo la funzione dei<br />

saccelli ma considerato che sono fuori dalle porte, in una zona di contatto con l’esterno attraverso<br />

una strada che porta verso la costa, si è pensato ad un punto in cui c’era l’incontro fra gli abitanti<br />

<strong>del</strong>l’isola e quelli <strong>del</strong>la terraferma, forse una guardiola per riscuotere i dazi doganali.<br />

La parte centrale <strong>del</strong>l’abitato fu scavata da Tusa e mostra strutture arcaiche molto semplici. In una<br />

di queste, forse un magazzino, furono trovate una serie di file di anfore da trasporto vuote, (casa<br />

<strong>del</strong>le anfore). La vecchia casa padronale di Withaker è stata musealizzata e al suo interno si<br />

trovano molti materiali scavati nelle stratigrafie. In occasione <strong>del</strong> rifacimento <strong>del</strong> pavimento <strong>del</strong><br />

capannone costruito per la produzione <strong>del</strong> vino sono state individuate tracce <strong>del</strong>la frequentazione<br />

moziese. Gli ambienti e i materiali sono visibili attraverso passerelle che hanno salvaguardato<br />

l’impianto originale.<br />

233


Fig. 82 Mozia, muro a telaio<br />

L’edificio abitativo più importante è la casa dei mosaici, scavata da più studiosi. Si trova a sud <strong>del</strong><br />

villaggio, vicina alle fortificazioni. È costituita da un nucleo di rappresentanza, a nord, e una serie<br />

di strutture relative alla vita e allo stoccaggio <strong>del</strong>le derrate alimentari, a sud. La casa è su due livelli<br />

a causa <strong>del</strong> declivio verso il mare. Nella parte alta, quella di rappresentanza, c’è una corte, (un<br />

peristilio), con un pavimento decorato con ciottoli di fiume neri, bianchi e grigi che formano dei<br />

mosaici raffiguranti la lotta di un leone con un toro e un grifone alato che attacca un cervo. Il<br />

mosaico è un unicum nel mondo punico e gli studiosi hanno problemi di datazione: Acquaro parla<br />

<strong>del</strong> VI a.C., Tusa lo data al momento <strong>del</strong>la distruzione <strong>del</strong>la città, agli inizi <strong>del</strong> IV a.C. In questo<br />

caso si accetta l’influenza dei mosaici macedoni ed ellenistici come quelli documentati a Pella nello<br />

stesso periodo. C’è da considerare che sono stati scavati materiali <strong>del</strong> V a.C. al di sotto <strong>del</strong> piano<br />

di calpestio, pertanto la datazione più probabile è quella <strong>del</strong> Tusa.<br />

La necropoli arcaica <strong>del</strong>l’VIII a.C. si trova nella parte settentrionale <strong>del</strong>l’isola. Attualmente è a<br />

ridosso <strong>del</strong>le fortificazioni ma in origine non era così perché l’impianto è precedente alla<br />

costruzione <strong>del</strong>le fortificazioni, infatti l’archeologa Ciasca ha trovato <strong>del</strong>le tombe sotto le torri. I<br />

primi scavi sono di Withaker ma negli anni Sessanta Tusa ha scavato alcune sepolture<br />

individuando 162 tombe, quasi esclusivamente ad incinerazione con deposizione secondaria.<br />

Sopra lo strato di roccia vi era mezzo metro di terra, asportato durante lo scavo, nel quale erano<br />

scavate le fosse per porre la cista litica costituita da lastre in pietra poste verticalmente, oltre quella<br />

sul fondo. All’interno <strong>del</strong>la cista ci sono l’urna e i materiali di corredo. Negli scavi è stato riportato<br />

alla luce un vaso antropomorfo e altro materiale con elementi greci che consentono una datazione<br />

puntuale (intorno a sequenze di 25 anni), al contrario di ciò che avviene per i materiali<br />

mediterranei, molto più conservativi nello stile. La necropoli arcaica finisce nel VII a.C. ma Mozia<br />

continua a vivere fino al 397 a.C.<br />

La necropoli più recente si pensava fosse sulla terraferma (per risparmiare spazio utilizzabile),<br />

infatti gli scavi hanno mostrato una strada, sommersa da mezzo metro d’acqua, larga fra i 7 e i 12<br />

234


m e lunga 1500 m che partendo dalla porta nord conduce a Birgi, sulla terraferma, dove furono<br />

individuate <strong>del</strong>le tombe puniche. Recentemente gli scavi nella zona hanno individuato anche <strong>del</strong>le<br />

tombe cosiddette fenicie con una percentuale inversa di defunti: a Mozia 1 su 3 è greca, a Birgi 1<br />

su 3 è fenicia, quindi si è ipotizzato che Birgi sia la necropoli di un centro ancora da identificare<br />

ubicato sulla costa. Sulla base di alcuni ritrovamenti recenti si è ipotizzato che la necropoli punica<br />

di Mozia si trovi diffusa sulla spiaggia, all’esterno <strong>del</strong>le fortificazioni, in una serie di tombe ad<br />

inumazione (a cassone e a sarcofago) vicino alla porta nord. A ridosso <strong>del</strong>le fortificazioni sono<br />

state individuate dalla Ciasca anche <strong>del</strong>le tombe ellenistiche ad incinerazione. Sappiamo che<br />

questo rito risente <strong>del</strong>l’influenza greca perché il fenomeno si riafferma nel IV e nel III a.C., e nelle<br />

tombe molti materiali sono greci. In base a questa interpretazione si è escluso che la strada che<br />

collega l’isola a Birgi servisse ai moziesi per raggiungere i defunti.<br />

Il santuario di Mozia si trova a Cappidazzu (cappellaccio, forse nome <strong>del</strong>lo spaventapasseri per i<br />

vigneti) e ha una lunga vita, fino al periodo bizantino. La parte arcaica è costituita da tracce di<br />

fondamenta e fosse profonde circa 30 cm con resti di sacrifici animali bovini e ovini. La seconda<br />

fase (VII a.C.) vede la costruzione di muretti e la presenza di un pozzetto. Durante la fase punica<br />

venne impiantato un edificio monumentale che aveva in opera <strong>del</strong>le gole egizie. Il monumento<br />

venne smontato in età ellenistica per costruire un edificio a tre navate.<br />

La parte settentrionale <strong>del</strong>la città è importante per la fiorente attività artigianale, soprattutto per la<br />

produzione di manufatti in ceramica. Nell’area addossata alle fortificazioni ci sono forni ceramici<br />

ben conservati e vasche per la preparazione e la tintura di pelli e tessuti. I forni sono di fase<br />

punica: sono di forma circolare, non ad omega, ma persiste ancora il muretto che non è stato<br />

sostituito dal pilastro centrale. La suola in argilla che ingloba i mattoni piano-convessi è ben<br />

visibile, così come il vano di combustione e il vano di attizzaggio.<br />

Un’altra area artigianale è denominata “zona K”. Ha restituito sia una fase arcaica di lavorazione,<br />

con un pozzo per l’acqua e un forno ad omega, sia una fase punica con un grande forno circolare<br />

e un muretto con alzato in mattoni crudi che si è conservato perché inglobato nelle fortificazioni.<br />

Nella zona K è stato rinvenuto “il giovane di Mozia”, una statua greca in marmo <strong>del</strong> V a.C. che<br />

rappresenta forse una divinità o un’auriga o un sacerdote. Nella testa, nel petto e nella schiena ci<br />

sono dei fori per attacchi metallici. Forse si tratta di una statua di committenza punica realizzata da<br />

artigiani greci che fu sepolta dai moziesi per preservarla dall’attacco di Dionigi di Siracusa. Oggi è<br />

esposta nel museo di Mozia.<br />

235


Fig. 83 Mozia, il Cothon<br />

Presso la porta sud si trova il Cothon, un bacino rettangolare <strong>del</strong> VI a.C., scavato nella roccia<br />

profondo 2.5 m, con un passaggio che da direttamente sul mare. Il vascone, che misura 30 metri di<br />

lunghezza, è stato completamente svuotato e scavato dagli archeologi inglesi e presenta un fondo<br />

naturale con le pareti rivestite di blocchi sovrapposti a secco. Non si riesce ancora ad interpretarlo:<br />

non è un porto, (troppo piccolo), forse era un allevamento di pesci, oppure un bacino per le<br />

operazioni di carico e scarico <strong>del</strong>le merci, o un bacino di carenaggio. Qualche studioso ha pensato<br />

a un luogo di culto, perché nelle vicinanze sono stati trovati elementi di un edificio interpretato<br />

come tempio. Il passaggio dal mare al bacino è consentito da un canale provvisto di una<br />

scalanatura che fa pensare ad uno spazio ricavato per consentire il passaggio <strong>del</strong>la chiglia.<br />

Il tophet è stato individuato da Whitaker e scavato dalla Ciasca ed è l’unico ad essere stato<br />

indagato completamente. Si trova ad ovest <strong>del</strong>la porta nord e sono evidenti due fasi di utilizzo: A e<br />

B. Al momento <strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong>le mura il tophet, che era preesistente, venne inglobato<br />

all’interno con una deviazione. Generalmente il tophet non viene mai trasferito, si deviano le mura<br />

ma non si spostano le sepolture. La fase A viene datata alla fine <strong>del</strong>l’VIII a.C. e mostra un’area<br />

trapezoidale, circondata da un temenos, che presentava un vasto campo d’urne centrale, un<br />

edificio allungato, un pozzo e un edificio quadrato che poi venne smontato ed obliterato, non<br />

sappiamo se fosse interamente chiuso. Alla fase arcaica si riferiscono i primi 3 dei 7 strati in cui si<br />

suddivide l’utilizzo. Lo strato settimo, quello più antico risalente alla fine <strong>del</strong>l’VIII a.C. è composto<br />

da incinerazioni con deposizione direttamente sullo strato roccioso naturale e le urne, come a<br />

Cartagine, sono avvolte con pietre senza nessuna stele. Lo strato sesto risale al VII a.C., è stata<br />

fatta una gettata di terra sul vecchio strato e si nota l’aumento <strong>del</strong>le urne ma ancora niente stele.<br />

Lo strato V si data alla prima metà <strong>del</strong> VI a.C. e troviamo la comparsa <strong>del</strong>le prime stele, alcune ad<br />

edicola. Successivamente l’area viene ampliata, con la costruzione di un edificio sacro (contenente<br />

236


un bancone) che viene separato dal tophet, e vengono edificate le fortificazioni. Gli scavi hanno<br />

portato alla luce un capitello dorico e si è ipotizzato che il saccello potesse essere stato realizzato<br />

con una architettura mista: struttura greca con capitelli dorici e copertura piana a lastre. Nel 397<br />

a.C. il saccello venne smontato e parte <strong>del</strong>la struttura fu utilizzata come favissa. Gli strati<br />

successivi sono sfalsati rispetto ai primi e abbiamo il quarto strato (fine VI a.C.) che si trova allo<br />

stesso livello <strong>del</strong> settimo (nonostante sia affiancato) a causa <strong>del</strong> declivio <strong>del</strong>l’area verso il mare. Gli<br />

strati seguenti (inizio V a.C.) vedono il riutilizzo <strong>del</strong>le stele per aumentare l’altezza <strong>del</strong> muro di<br />

contenimento ma le urne rimangono in posizione originaria. Dallo strato secondo (fine V a.C.)<br />

abbiamo la scomparsa <strong>del</strong>le stele. Lo strato primo vede migliaia di urne e il tophet continua dopo la<br />

distruzione <strong>del</strong>la città avvenuta all’inizio <strong>del</strong> IV a.C.<br />

Lilibeo<br />

I moziesi nel 397 a.C. si trasferirono di fronte, sul Capo Boero e impiantarono una città,<br />

denominata Lilibeo, oggi Marsala. C’è una poderosa cinta muraria che circonda la città: resistette<br />

all’attacco di Pirro nel 276 a.C. e all’attacco romano successivo. É una città fortificata che non<br />

venne mai conquistata. Furono i cartaginesi nel 241 a.C. a cederla ai romani quando la guerra fu<br />

persa. Oggi rimangono le fortificazioni, la necropoli e qualche traccia <strong>del</strong> porto.<br />

Il porto era strutturato in due settori: uno esterno con moli lignei e uno interno, più protetto e dotato<br />

di fondale molto basso che solo gli esperti marinai <strong>del</strong> luogo potevano raggiungere, infatti sul fondo<br />

<strong>del</strong>lo stagno era stato scavato un canale che consentiva solo a chi lo conosceva di giungere al<br />

porto interno senza arenarsi.<br />

Le fortificazioni erano trapezoidali e correvano in modo rettilineo su tre lati, mentre sul lato a mare<br />

seguivano l’andamento <strong>del</strong>la costa. Sono ben visibili: nell’area di porta Trapani ci sono mura<br />

possenti a doppio paramento parallelo, spesse 6 metri, costituite da blocchi squadrati messi in<br />

opera a secco resistenti sia agli arieti che ai minatori, i guerrieri che realizzavano gallerie sotto le<br />

mura per farle crollare dalle fondamenta. Erano mura resistenti e si economizzò sulla manodopera<br />

perché solo i paramenti esterni erano lavorati: ciò che non era a vista veniva riempito con pietrame<br />

e materiale di risulta. A distanza regolare vi erano torri quadrangolari aggettanti, vicine alle porte e<br />

alle postierle. Un fossato d’acqua largo 28 metri e posto a 30 metri di distanza dalle mura<br />

costituiva un’ulteriore barriera per gli eventuali invasori. Evitava che i minatori e gli arieti potessero<br />

giungere sotto le fortificazioni.<br />

In tempo di pace c’erano ponti mobili, posti su sostegni, e in caso di guerra varie gallerie<br />

consentivano ai soldati a cavallo di effettuare attacchi a sorpresa. Anche a Lilibeo c’è la presenza<br />

di un merlo a coronatura <strong>del</strong>la cinta. Non abbiamo tracce di abitato <strong>del</strong>la Lilibeo punica, sono state<br />

ritrovate solo quelle di età romana e offrono pochissimi dati perché la città antica si trova sotto la<br />

Marsala moderna. Sono documentati ambienti che mostrano l’utilizzo di tecniche che<br />

caratterizzano l’architettura punica: pavimenti in cocciopisto e muri a telaio, quelli tipici <strong>del</strong>le unità<br />

abitative. Anche i romani accolsero la tecnica <strong>del</strong> muro a telaio, con pilastri costruiti con blocchi di<br />

pietra posti a distanza regolare che sostenevano l’architettura. Fra i pilastri si inserivano paramenti<br />

237


di struttura muraria con pietrame di piccola pezzatura cementata con malta di fango. Si<br />

risparmiava sulla manodopera e sul materiale.<br />

Lungo la costa abbiamo tracce di attività artigianale e nel cortile <strong>del</strong> museo di Lilibeo (Baglio<br />

Anselmi) è stato individuato un forno ceramico (visibile grazie ad una tenso-struttura) di età<br />

ellenistica, di forma circolare, <strong>del</strong> tipo nel quale il muretto centrale era sostituito dal pilastro di<br />

sostegno.<br />

Le tracce archeologiche maggiori di Lilibeo provengono dalle necropoli a nord-est, fuori dalle mura<br />

<strong>del</strong>la città. Sono documentate da scavi, resi possibili per la minore urbanizzazione di quella zona.<br />

Sono <strong>del</strong> IV a.C. ma continuano in epoche successive fino ai romani. Le tombe più caratteristiche<br />

sono a camera, come quelle di Tuvixeddu e Cartagine, con pozzo verticale a pianta rettangolare su<br />

cui si affacciano una o due camere sui lati brevi. Nelle pareti si notano pedarole per la discesa e<br />

riseghe per poggiare la copertura a lastre. Le riseghe sono generalmente due: una posizionata a<br />

circa 2 m di profondità, l’altra più in basso, in corrispondenza <strong>del</strong>la camera. Le riseghe di Lilibeo, a<br />

differenza <strong>del</strong> resto <strong>del</strong> mondo punico mediterraneo, hanno una funzionalità: sono utilizzate per<br />

chiudere la tomba. Il pozzo, dopo la deposizione, veniva lasciato vuoto, a differenza di Cagliari e<br />

Cartagine dove veniva riempito con terra. La tomba era poi sigillata con un chiusino in pietra. Sono<br />

tombe familiari e sono state ritrovate bare lignee, senza sarcofagi. Le più diffuse sono le tombe a<br />

fossa: a causa <strong>del</strong> fatto che le camere sotto erano più di una, si trovano ad una certa distanza fra<br />

loro e in mezzo ci sono piccole fosse con deposizioni individuali, spesso con rito di inumazione.<br />

Meno frequenti sono le deposizioni a incinerazione in urne. Altro tipo è quello a cassone litico con<br />

lastre infilate nel terreno che formano il luogo <strong>del</strong>la deposizione. Molto caratteristica la produzione<br />

di età romana con strutture intonacate dipinte che hanno ancora i segni punici con Tanìt e<br />

caduceo, con il defunto sdraiato raffigurato nell’edicola.<br />

In una decina di casi abbiamo camere duplicate, opposte, che si aprono sui lati brevi <strong>del</strong> pozzo. Le<br />

più diffuse sono le tombe a fossa parallelepipeda scavata nella roccia che ospitano inumazioni con<br />

defunti posti in posizione supina con le mani lungo i fianchi o sul petto. A volte le deposizioni sono<br />

entro enchitrismòi, cioè grandi vasi da trasporto tagliati in due in senso verticale o orizzontale.<br />

Queste tombe sono più frequenti in età ellenistica (IV-III a.C.) ma ci sono dei casi che arrivano fino<br />

all’età bizantina. In queste tombe, generalmente usate per la sepoltura dei bambini, il corredo è<br />

quasi sempre assente e la deposizione è ad incinerazione secondaria. Per la copertura si<br />

utilizzano lastre, a volte a doppio spiovente. Altre tombe sono quelle ad incinerazione scavate nella<br />

roccia in cavità di forma regolare, spesso ovoidale, che ospitano l’urna con i resti incinerati <strong>del</strong><br />

defunto che era stato bruciato da un’altra parte, in un ustrinum. I resti sono deposti in pentole simili<br />

a quelle usate per la cottura dei cibi. É un usanza che troviamo in età ellenistica ma anche in età<br />

romana repubblicana. Un altro tipo è quello <strong>del</strong>le tombe a cassone con la particolarità che i<br />

cassoni ospitano spesso incinerati con deposizione primaria, si capisce dalle tracce di bruciato<br />

sulle pareti <strong>del</strong> cassone. L’ultimo tipo è quello <strong>del</strong>la semplice fosse scavata nella terra, che si<br />

afferma dal 150 a.C. In queste abbiamo incinerazioni primarie, qualche incinerazione secondaria e<br />

molte inumazioni.<br />

238


A Lilibeo abbiamo anche attestazioni di cippi funerari. Un cippo antropoide rinvenuto all’interno di<br />

una tomba a fossa <strong>del</strong> IV a.C. presenta un corpo rozzo e il volto in cui sono tratteggiati i segni<br />

anatomici. Abbiamo anche 15 stele ad edicola di provenienza sconosciuta che mostrano la<br />

persistenza di simboli punici pur essendo di età più tarda. Sono cippi di tipo greco riferiti ad età<br />

repubblicana e imperiale. Al centro <strong>del</strong>la nicchia vi è la rappresentazione <strong>del</strong> defunto sdraiato<br />

circondato da una serie di oggetti e personaggi legati alla sua vita. Tutto intorno ci sono elementi<br />

decorativi simbolici: vegetali, Tanìt, caducei, altari brucia profumo, iscrizioni, melegrane, tutto<br />

intonacato e dipinto.<br />

Possiamo ipotizzare un tophet per il ritrovamento di stele nella zona “Timpòne di S.Antonio”. Sono<br />

simili a quelle cartaginesi di Tanìt 3, con sommità triangolare e acroteri. Le incisioni riportano una<br />

falce lunare, un altare con tre bètili, un sacerdote davanti ad un incensiere (caratteristico orientale<br />

a corolle rovesciate), un simbolo di Tanìt con le braccia alzate e la solita dedica a Baal-Ammon<br />

“perché ha ascoltato la sua voce e lo benedica”. Il tipo di stele più numeroso è quello a edicola di<br />

tipo classico con all’interno personaggi femminili abbigliati alla maniera greca, con le mani rivolte in<br />

alto a compiere dei riti davanti all’incensiere. Sono datate IV-III a.C. Altre 6 stele si riferiscono ad<br />

un tophet, ma a Lilibeo non è ancora stato trovato e pensiamo possa essere anche a Mozia. Una<br />

di esse è piatta, lavorata ad incisione, con sommità a timpano e acroteri laterali, con una cornice<br />

suddivisa su due piani: al piano inferiore c’è l’iscrizione e a quello superiore c’è la<br />

rappresentazione figurata. L’iscrizione recita: “Al Signore Baal Ammon dedica di…figlio di…figlio<br />

di…perché ha ascoltato la sua voce”. Nella parte superiore abbiamo i soliti personaggi con la<br />

mano alzata in segno di saluto. Nelle stele con schema greco abbiamo l’edicola, non più<br />

egittizzante, con personaggi vestiti alla greca e con in mano oggetti per il rituale davanti a<br />

caduceo, brucia profumo e Tanìt.<br />

Nel mare è stato rinvenuto il relitto di una nave lunga 34 m, larga 5 m, con una stazza di 120<br />

tonnellate, impiegata nella II guerra punica all’inizio <strong>del</strong> III a.C., con una sola fila di rematori. É una<br />

nave punica (visibile al Baglio Anselmi a Mozia) in quanto sono impresse nel legname <strong>del</strong>le lettere<br />

puniche che servivano per l’assemblaggio dei vari pezzi che venivano realizzati separatamente.<br />

Non conteneva armamenti ma solo resti di alimenti conservati per l’equipaggio (uccelli, bovini,<br />

ovini, cavalli, daini, suini e caprini), resti vegetali (mandorle, olive e noci), contenitori di vino e resti<br />

di hashish, una sostanza molto diffusa anche a quei tempi.<br />

Palermo<br />

Come ci dice Tucidide è una <strong>del</strong>le prima fondazioni mediterranee in Sicilia, insieme a Mozia e<br />

Solunto. La città antica si trova sotto quella attuale e abbiamo il solito problema degli scarsi indizi<br />

<strong>del</strong>la storia passata. Dal VII a.C. fino ad oggi vi è la sovrapposizione continua degli strati. La città<br />

punica è nota solo dalle fortificazioni e dalle sepolture. L’area di quella antica corrisponde<br />

all’attuale nucleo medievale (mura bizantine, arabe e normanne) denominato “Cassaro”. La cinta<br />

muraria di questo quartiere ha 9 porte di età medievale e si trova ad una certa distanza dal mare,<br />

239


ma in antico un’insenatura consentiva all’acqua di arrivare a lambire l’abitato. Questo<br />

allontanamento <strong>del</strong>la città è dovuto all’azione di due fiumi, oggi asciutti, che scorrevano ai due lati<br />

<strong>del</strong>la città: il Papireto e il Kemùnia. Un altro fiume oggi asciutto, l’Oreto posto a sud, contribuiva<br />

anch’esso al trasporto dei detriti a valle, con il conseguente innalzamento di tutta l’area.<br />

Sappiamo dalle fonti che Palermo aveva una paleopolis (città vecchia) e una neapolis (città<br />

nuova), ambedue identificate all’interno <strong>del</strong> Cassaro. In un’area che corrisponde oggi al tratto fra la<br />

Chiesa di San Francesco e Piazza Marina (il quartiere commerciale Transkemonia) sono stati<br />

ritrovati materiali di età ellenistica. Tutti i materiali ritrovati, compresi quelli all’interno <strong>del</strong> Cassaro,<br />

sono tardi e fuori contesto e si riferiscono ad età ellenistica, a partire dal III a.C.<br />

Si ipotizza un’ascendenza punica <strong>del</strong>la città per il fatto che nella zona sud vicina alle mura, vicino<br />

al Palazzo dei Normanni in Piazza Vittorio e in Corso Vittorio Emanuele, vi è un impianto viario<br />

molto regolare di tipo ortogonale, con una divisione in isolati che secondo alcuni studiosi<br />

corrisponderebbe al cubito punico.<br />

Le fortificazioni <strong>del</strong>l’area <strong>del</strong> Cassaro mostrano in alcuni punti una chiara origine punica perché<br />

sono presenti blocchi squadrati, messi in opera a secco con alternanza di testa e di taglio, che<br />

presentano segni grafici punici e una torre aggettante rispetto al filo <strong>del</strong>le mura nella quale è<br />

evidente la tecnica di realizzazione punica. Altri tratti <strong>del</strong>le mura sono realizzati con una tecnica<br />

greca ascrivibile al V-IV a.C. Anche un tratto <strong>del</strong>la caserma <strong>del</strong>la Legione dei Carabinieri è<br />

realizzato con blocchi squadrati di testa e di taglio ma si nota una risega di fondazione sporgente e<br />

<strong>del</strong>le lettere puniche che sono chiari segnali che l’origine dei blocchi è di cava più antica. Queste<br />

tracce si trovano nelle attuali zone di Santa Caterina, Via dei Can<strong>del</strong>abri e sotto il Palazzo Reale,<br />

quello dei Normanni, dove durante il rifacimento di una cappella Cinquecentesca, sotto il<br />

pavimento, è stato individuato parte <strong>del</strong> primo impianto <strong>del</strong>le mura <strong>del</strong> fine VI-V a.C. con una<br />

postierla, una piccola porta di servizio che la popolazione usava per uscire dalle mura <strong>del</strong>la città in<br />

tempo di pace. La parte sommitale <strong>del</strong>la postierla è arcuata ed è difesa da una piccola torre<br />

aggettante. Nella stessa area vi era una porta larga oltre 5 m fiancheggiata da 2 torri, tutto messo<br />

in opera a secco con blocchi di calcare perfettamente combacianti, anche se in alcuni tratti si<br />

notano anche <strong>del</strong>le strutture di fondazione con blocchi bugnati di stile greco. Non dimentichiamo<br />

che l’elemento greco e quello punico vennero in contatto in modo conflittuale e i punici acquisirono<br />

le tecniche costruttive greche proprio per difendersi dagli assalti con gli arieti, specialità <strong>del</strong><br />

nemico.<br />

Le tracce maggiori <strong>del</strong>la città antica le abbiamo nella necropoli, ubicata a sud fuori dalla cinta<br />

muraria, nell’area attigua all’attuale Corso Calatafimi. Dall’Ottocento sono state individuate molte<br />

tombe, soprattutto a camera con modulo di accesso a dromos. Gli scavi più recenti sono stati<br />

condotti presso la caserma Tukory e la campagna di scavo è stata valorizzata con una<br />

musealizzazione. Sono state realizzate <strong>del</strong>le passerelle in metallo che consentono la fruizione <strong>del</strong><br />

sito. Oggi la ricostruzione <strong>del</strong>le tombe è completata dall’inserimento <strong>del</strong> corredo <strong>del</strong> defunto anche<br />

se, ovviamente, nei sepolcri sono state inserite <strong>del</strong>le copie. La necropoli è stata individuata in<br />

un’area destinata alla realizzazione di un parcheggio. Alcune <strong>del</strong>le tombe sono mediterranee ad<br />

incinerazione, scavate direttamente nella roccia e risalgono alla fine <strong>del</strong> VII a.C. Bisogna<br />

240


considerare che nonostante gli abitati risalgano spesso al VIII a.C., le tombe più antiche sono<br />

sempre circa un secolo più tarde. Il tipo più diffuso in età punica è quello <strong>del</strong>le tombe a camera con<br />

inumazione <strong>del</strong> defunto posto in posizione supina all’interno di sarcofagi litici. La roccia è friabile e i<br />

moduli a dromos non si sono conservati bene. Una caratteristica che a Palermo costituisce un<br />

unicum nel panorama punico è la copertura dei sarcofagi realizzata con tegoloni fittili di tipo greco<br />

affiancati anziché chiusi con la tradizionale copertura litica. Nei corredi abbiamo una fortissima<br />

incidenza di materiali greci, di importazione coloniale oppure prodotti in loco ma influenzati dalla<br />

cultura greca (ceramica micenea, ceramica figurata, skifos, coppe pregiate). Ricordiamo che<br />

Palermo è la città punica più influenzata dal mondo greco in tutto il panorama mediterraneo.<br />

Abbiamo anche sepolture ad enchitrismòs, di solito superficiali o poste direttamente nel dromos<br />

<strong>del</strong>le tombe. Anche a Palermo dal IV a.C. si assiste ad un ritorno al rito <strong>del</strong>l’incinerazione con<br />

deposizione secondaria, all’interno di pentole in ceramica di vario tipo o in cinerari litici conformati<br />

alla maniera greca con cassetta parallelepipeda e copertura a doppio spiovente.<br />

È stata rinvenuta una grande quantità di cippi funerari. Sono semplici o con alla sommità una<br />

vaschetta per bruciare degli incensi in occasione dei rituali funerari o nel corso di cerimonie<br />

celebrate durante l’anno.<br />

Nell’Ottocento sul Monte Pellegrino è stata recuperata fuori contesto una stele con sommità<br />

timpanata, affiancata da acroteri, con al centro l’immagine di un personaggio con la mano alzata in<br />

segno benedicente. Presenta un’iscrizione che dice: “Alla signora Tanìt, volto di Baal e al signor<br />

Baal Ammon che ha dedicato…e il nome <strong>del</strong> dedicante”. Si tratta di un chiaro indizio <strong>del</strong>la<br />

presenza di un tophet ancora non individuato, forse perché questa traccia è troppo distante dal<br />

Cassaro.<br />

Solunto<br />

Si trova sulla costa ad est di Palermo, vicino a Santa Flavia. Tucidide riferisce questo centro ad età<br />

fenicia intorno all’VIII a.C. descrivendolo come una <strong>del</strong>le più antiche colonizzazioni <strong>del</strong>la Sicilia ma<br />

la città, che conosciamo fin dall’Ottocento, è quella localizzata sul Monte Catalfano, una zona<br />

impervia posta ad una certa distanza dalla costa che presenta soltanto strutture ellenistiche a<br />

partire dal IV a.C. Tuttavia negli anni Novanta gli scavi di Caterina Greco hanno individuato <strong>del</strong>le<br />

strutture artigianali di età arcaica nella zona di Sòlanto, in contrada San Cristoforo. Si è così<br />

ipotizzato che la città arcaica non sia sul promontorio perché quest’ultima fu edificata quando i<br />

soluntini si allontanarono dalla città in occasione <strong>del</strong>la guerra con Dionigi di Siracusa (397 a.C.)<br />

che oltre distruggere Mozia, distrusse anche Solunto. Gli abitanti si rifugiarono in un punto elevato,<br />

241


e quindi troviamo l’abitato arcaico sulla costa e la città ellenistica sul promontorio di Monte<br />

Catalfano. La necropoli si trova a metà strada fra i due centri.<br />

Per evitare incomprensioni dobbiamo dettagliare la differenza fra due parole: ellenico è un termine<br />

culturale che corrisponde a “greco” ed ellenistico è un termine cronologico che indica quella fase<br />

che segue la morte di Alessandro Magno, dal 330 a.C.<br />

La Solunto ellenistica, cioè quella nuova sul promontorio, è una città che a prima vista<br />

sembrerebbe di impianto greco, con un tessuto urbano costituito da strade parallele e<br />

perpendicolari che formano un reticolo che <strong>del</strong>imita degli isolati regolari. Lo schema prevede una<br />

diversa destinazione per le varie aree, con edifici pubblici (Agorà, teatro, odeon e ginnasio) in<br />

periferia, plateie (strade larghe principali) con edifici commerciali, abitazioni ai lati <strong>del</strong>la plateia e<br />

stenopòi (strade strette non percorribili da carri) che intersecano le plateie con gradini che<br />

recuperano il dislivello <strong>del</strong> promontorio. Le case sono di tipo greco e si articolano attorno ad una<br />

corte centrale su cui si aprono i diversi ambienti. L’area in forte pendenza consente il passaggio<br />

dal tetto di una casa al pavimento di quella posta più in alto. Lo schema costruttivo è mantenuto<br />

anche in età romana quando viene impiantato un peristilio (colonnato) in parte coperto. Anche a<br />

Solunto, quindi, i punici subirono una fortissima influenza dal mondo culturale greco, tanto che nel<br />

momento in cui si sono trovati a costruire da zero una nuova città hanno deciso di adottare uno<br />

schema greco. Ci sono tre edifici di culto. Il più noto si affaccia sulla plateia principale ed è<br />

denominato “area sacra con altare a tre betili”. Davanti è composto da tre vani non comunicanti fra<br />

loro, e l’altare in pietra è intonacato. É caratterizzato da tre elementi betilici e conserva su un lato<br />

una vasca e <strong>del</strong>le canalette. Si è ipotizzato che in quest’area si effettuassero dei sacrifici animali,<br />

sono infatti stati trovati resti bovini e ovini bruciati.<br />

Un'altra struttura importante è quella denominata “edificio di culto a due navate”, che presenta due<br />

ambienti affiancati non comunicanti che presentano sul lato di fondo un bancone-altare circondato<br />

da gradini. Nell’Ottocento venne rinvenuta una statua di Zeus e si è pensato che provenisse da<br />

una <strong>del</strong>le due stanze di questo tempio mentre nell’altra ci sarebbe stata la paredra femminile, ma<br />

non abbiamo modo di documentarlo. Si è pensato all’ascendenza punica proprio per la presenza di<br />

un culto a due divinità affiancate: Baal-Ammon e Tanìt. Anche l’archeologo Tusa ha ipotizzato che<br />

la statua di Zeus, individuata nel 1800 e conservata a Palermo, provenga da questo sito.<br />

L’ultimo tempio è il cosiddetto “edificio a forma di labirinto”. Benché all’interno non siano stati<br />

individuati dei materiali di chiara matrice cultuale, Tusa ha ipotizzato che sia un tempio per la<br />

pianta molto articolata, con nicchie e altri elementi.<br />

In località Sola di San Cristoforo, in prossimità <strong>del</strong> promontorio, c’è un’area artigianale che ha<br />

restituito dei forni: uno piccolo ad omega, le cui strutture si datano nell’ambito <strong>del</strong> V a.C. ma<br />

impiantata in una zona frequentata già dal VI a.C. perché negli strati sotto il forno sono stati scavati<br />

materiali etruschi e greci datati appunto al VI a.C. Questo forno è costituito da un vano bilobato<br />

diviso da un muretto centrale e a lato c’è il vano di attizzaggio, funzionale al funzionamento <strong>del</strong>la<br />

camera di combustione.<br />

A Sòlanto, vicino alla costa, è stata individuata un’altra fornace arcaica e a pochi metri vi era una<br />

tomba a forno, <strong>del</strong>l’inizio <strong>del</strong> secondo Millennio a.C., svuotata in età ellenistica e riempita con<br />

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materiale di scarto di età arcaica. I materiali sono datati dal 625 a.C. ad età ellenistica. Tra gli scarti<br />

di fornace sono stati rinvenuti elementi di ambito funerario come, ad esempio, vasi con orlo a<br />

fungo. A 50 m da questo contesto si trovavano un pozzo e un altro forno ad omega, riempiti con<br />

materiali di scarto e datati sempre dal 625 a.C. in poi. C’è anche un forno ellenistico di III a.C. di<br />

dimensioni enormi, con un diametro di 5 m. La camera di combustione è circolare, con la suola<br />

sorretta da un pilastro centrale che crea un corridoio anulare con volta ad arco, una specie di<br />

galleria. La camera di cottura è solo impostata perché, come negli altri forni, veniva smontata ad<br />

ogni utilizzo. Il vano di attizzaggio è molto grande e ha restituito due frammenti di cippo a trono e<br />

una stele trono. Si ipotizza quindi che nelle vicinanze ci fosse il tophet.<br />

A metà strada tra Monte Catalfano e Solanto si trova la necropoli, le cui tombe purtroppo sono<br />

andate distrutte o si trovano sotto gli attuali palazzi. Vicino alla stazione di Santa Flavia gli scavi<br />

mostrano tombe puniche integre ma non abbiamo tombe mediterranee ad incinerazione. Gli scavi<br />

più importanti sono quelli <strong>del</strong> Tusa alla fine degli anni Sessanta e di Caterina Greco negli anni<br />

Novanta. Sono state individuate circa 100 tombe non arcaiche, databili dal VI a.C. fino ad età<br />

ellenistica. Il bancone di roccia è stato scavato con fosse parallelepipede che presentano una<br />

risega perimetrale, funzionale all’inserzione <strong>del</strong>la copertura di lastre litiche giustapposte. Le tombe<br />

hanno spesso una sorta di cuscino per la testa risparmiato nella roccia e vedono sempre la pratica<br />

<strong>del</strong>l’inumazione. Altre tombe a fossa hanno una nicchia laterale che va sotto il livello <strong>del</strong> suolo.<br />

Le tombe a camera sono sempre con modulo di accesso a dromos stretto, con gradini sul lato<br />

breve. Presentano dei letti funebri e <strong>del</strong>le nicchie. Altre tombe hanno il dromos molto largo, quasi<br />

quanto la camera, con 3/4 gradini per accedere e sul lato sud si nota un bancone utilizzato per la<br />

deposizione <strong>del</strong>le offerte e <strong>del</strong> corredo funebre. In qualche tomba ci sono sepolture ad enkitrismòs<br />

in corrispondenza <strong>del</strong> dromos. Le camere erano chiuse con lastroni.<br />

In Sicilia abbiamo anche il centro indigeno di Erice (Elimo) e la città greca Selinunte che, dopo<br />

essere stata conquistata (alla fine <strong>del</strong> V a.C.) conobbe 150 anni di dominazione punica.<br />

Sardegna<br />

In Sardegna, a differenza di ciò che accadde in Sicilia, non ci fu l’elemento greco: a parte Olbia,<br />

tutti i manufatti greci erano di importazione. Ancora oggi non sono chiare le dinamiche di incontro e<br />

assimilazione fra nuragici e levantini. I commercianti arrivano sempre con atteggiamento pacifico<br />

perché l’obiettivo era quello di reperire materiali nei territori nei quali sbarcavano. Le risorse erano<br />

in mano agli indigeni, e i levantini avevano la necessità di scambiare acquisendo risorse utili alle<br />

proprie necessità.<br />

Fino agli anni Ottanta, studiosi come Barreca e Moscati ritenevano che la fondazione <strong>del</strong>le colonie<br />

(fine VIII-VII a.C.) seguisse un periodo di frequentazione di alcuni secoli, una pre-colonizzazione.<br />

Oggi riteniamo che la pre-colonizzazione non sia avvenuta. Ipotizziamo che questa fase vede<br />

l’arrivo di genti levantine, provenienti quindi dal Mediterraneo Orientale, che instaurano buoni<br />

rapporti con gli indigeni. Lo desumiamo dalla presenza di materiali orientali in contesti indigeni.<br />

Sono le stesse genti che sbarcarono in nord-Africa, Sicilia e Spagna alla ricerca di nuovi sbocchi<br />

commerciali e risorse minerarie.<br />

243


La cronologia di questo fenomeno di frequentazione levantina si assegna ai secoli XI-IX a.C. Gli<br />

studiosi (la Ubet e altri) concordano sul fatto che il ruolo di protagonista è portato avanti dalla città<br />

di Tiro, che poi fonderà le colonie. La frequentazione precedente comprende anche i tiri ma,<br />

insieme a loro, ci sono varie popolazioni orientali: Aramei (semitici stanziati presso Damasco),<br />

Filistei (stanziati nella Palestina meridionale nella Pentapoli filistea), Siriani (stanziati a nord <strong>del</strong><br />

Libano), Eubei (greci <strong>del</strong>l’isola di Eubea), Ciprioti e altri. Le navi erano composte da equipaggio<br />

misto ed erano cariche di merci provenienti da zone differenti. Non c’erano regni forti che<br />

organizzavano le spedizioni e si affermò l’elemento privato, i grandi commercianti.<br />

In età coloniale la zona di insediamento dei fenici è la parte costiera da Capo Carbonara fino a<br />

Tharros, con porti o insenature naturali attrezzate: Cagliari, Nora, Bithia, Pani Loriga, Sulci, Monte<br />

Sirai, Neapolis, Othoca e Tharros. La presenza pre-coloniale interessa, invece, principalmente le<br />

zone vicine alle miniere: il Sulcis, Alghero, la costa Orientale, il Nuorese e la Valle <strong>del</strong> Tirso, per<br />

poter penetrare all’interno <strong>del</strong>la Sardegna.<br />

Una teoria che mi affascina da tempo è quella di identificare la mitica Tartesso, da molti studiosi<br />

localizzata alla foce <strong>del</strong> Guadalquivir in Spagna ma mai trovata, nei territori costieri <strong>del</strong> Golfo di<br />

Oristano e lungo le sponde <strong>del</strong> Tirso, il fiume sardo che arriva fino alle cime <strong>del</strong> Gennargentu, la<br />

montagna ricca di metalli preziosi. Tharros diverrebbe il centro principale di Tartesso e la Sardegna<br />

fulcro dei traffici commerciali dei tartessi.<br />

I materiali orientali, soprattutto metallici in bronzo, ritrovati nei contesti indigeni <strong>del</strong>l’isola ci fanno<br />

ipotizzare che i levantini avessero bisogno di fondaci che agevolassero i commerci. Si tratterebbe<br />

di scali, punti d’appoggio sulla costa, attrezzati con strutture semplici ma deperibili: moli lignei,<br />

case ed edifici in cui approvvigionarsi di acqua e alimenti. Questi fondaci vengono solo ipotizzati<br />

perché nessuno studioso ha mai trovato tracce di questi luoghi. Inizialmente l’economia prevedeva<br />

lo scambio di doni, e i materiali scambiati (specchi, attacchi d’ansa, tripodi bronzei e altri oggetti<br />

orientali) hanno mantenuto stile e tipologia simile per alcuni secoli, per cui è difficile stabilire con<br />

precisione la datazione dei reperti. La difficoltà cronologica è ampliata perché spesso i rinvenimenti<br />

sono fuori contesto. I tripodi sono di tradizione egea, in particolare cipriota, e la cronologia è fra XI<br />

e IX a.C., ma c’è un dibattito fra studiosi perché molti manufatti potrebbero essere anche stati<br />

prodotti in loco ma ispirati dalla tradizione orientale.<br />

Cipro è protagonista <strong>del</strong> filo di contatti fra oriente e occidente. I tiri e le altre popolazioni egeo-<br />

levantine che arrivano nel X a.C. non sono le prime ad approdare in Sardegna. Già da secoli c’era<br />

la presenza micenea nell’isola e alcuni studiosi, ad esempio Bernardini, ritengono che questi<br />

contatti inoltrati dai micenei non si siano mai interrotti. I levantini si sarebbero inseriti nelle stesse<br />

rotte inaugurate dai micenei e, a causa <strong>del</strong> decadimento di quella grande civiltà, si sarebbero<br />

sostituiti ad essi. Cipro era un’area miceneizzata e in seguito fu controllata da qualche componente<br />

levantina, pertanto dal crollo dei micenei e fino al X a.C. i protagonisti <strong>del</strong>la pre-colonizzazione<br />

furono i ciprioti. Questo spiega la somiglianza dei manufatti rinvenuti in Sardegna con quelli di<br />

tradizione cipriota. I siti dove questi materiali sono stati individuati sono: Pozzomaggiore, Barumini<br />

e, fuori contesto, nell’area <strong>del</strong> tophet di Tharros.<br />

244


Fig. 84 Tharros<br />

Forse quindi aramei, tiri, siriani, eubei e filistei non sono arrivati in Sardegna prima <strong>del</strong> X a.C. Oltre<br />

i tripodi di tradizione cipriota (Su Benatzu, in contesto nuragico) c’erano i torcieri, più recenti ma<br />

forse anch’essi ciprioti, come quello trovato a San Vero Milis (nel nuraghe s’Urachi), un frammento<br />

a Tadasuni in un ripostiglio, uno a Santa Vittoria di Serri e uno a Bithia, in una tomba mediterranea<br />

<strong>del</strong> VII a.C. Sui torcieri c’era un supporto per bruciare incenso e la cronologia si attesta intorno alla<br />

fine <strong>del</strong>l’VIII a.C. Proprio in queste datazioni si trova il nodo <strong>del</strong> concetto: vediamo che la pre-<br />

colonizzazione è precedente alla colonizzazione, perché è evidente che si tratta di un approccio di<br />

mercanti allogeni che intrattengono rapporti cerimoniali e commerciali con gli indigeni, ma gli<br />

scambi con l’interno, soprattutto dei bronzetti, continuano anche dopo che le colonie erano state<br />

fondate. In pratica i mercanti che andavano all’interno erano gli stessi che abitavano sulle coste.<br />

Troviamo quindi manufatti bronzei <strong>del</strong> VII a.C. all’interno, scambiati con lo stesso approccio <strong>del</strong>la<br />

pre-colonizzazione. Anche schiavi, sale e pelli erano oggetti di scambio ma, per ovvi motivi, questi<br />

e altri manufatti deperibili non possono lasciare tracce. In seguito non abbiamo più traccia degli<br />

indigeni: forse si sono assimilati oppure sono andati nelle zone interne <strong>del</strong>l’isola.<br />

245


Fig. 85 Monte Sirai<br />

La fase pre-coloniale è visibile soprattutto attraverso una decina di bronzetti levantini, fra i più<br />

famosi dei quali c’è quello ritrovato nell’Ottocento nel nuraghe Flumine Longu di Alghero, fuori<br />

contesto, che vede un personaggio con la tiara siriana datato al 1000 a.C. Altri conosciuti sono i 4<br />

che Atzeni rinvenne a Santa Cristina di Paulilatino, fra i quali la donna nuda con un collare<br />

attorcigliato e le braccia ripiegate davanti al petto. Gli altri bronzetti sono: un nudo maschile con<br />

gonnellino, uno egittizzante da Olmedo, un busto maschile nudo da Bonorva, una figura stante<br />

maschile da Mandas e uno dal pozzo di Genoni, sempre maschile stante che porta al collo un<br />

collier simile a quella <strong>del</strong>la donna di Santa Cristina di Paulilatino.<br />

La cultura materiale <strong>del</strong>l’area siro-palestinese è uniforme e quando troviamo questi manufatti non<br />

sappiamo la provenienza precisa. Solo quando sono caratterizzanti dal punto di vista culturale,<br />

come ad esempio il frammento <strong>del</strong> sarcofago filisteo trovato a Neapolis, possiamo capirne la<br />

provenienza e il periodo. Visto che i sarcofagi non si trasportano, abbiamo una prova <strong>del</strong>la<br />

presenza allogena di questi popoli in Sardegna prima <strong>del</strong> 1000 a.C.<br />

In conclusione, nella fase pre-coloniale abbiamo dei mercanti che partivano da piccole strutture<br />

sulle coste e si inoltravano verso l’interno, forse percorrendo anche le vie fluviali <strong>del</strong> Cedrino e <strong>del</strong><br />

Tirso, arrivavano nei contesti nuragici e scambiavano bronzetti e altri materiali.<br />

Ma nei recenti scavi condotti nel villaggio nuragico Sant’Imbenia, vicino ad Alghero, si sono fatte<br />

<strong>del</strong>le scoperte che hanno fatto vacillare questa ipotesi.<br />

246


Fig. 86 Anfore e brocche<br />

Il sito fu impiantato nel Bronzo Medio e sono stati ritrovati molti materiali ceramici levantini e greci.<br />

La terracotta non è adatta al commercio, a meno che non contenga qualcosa, infatti anfore e<br />

unguentari erano scambiati in quantità. Oli profumati, olio, vino e derrate alimentari circolavano<br />

all’interno di manufatti ceramici. Ma le forme rinvenute nel sito di Sant’Imbenia ci fanno capire che<br />

non si tratta di un semplice rapporto di scambio con l’interno. Il villaggio algherese presenta degli<br />

isolati con abitazioni a più vani che si raccordano ad una corte centrale. Gli isolati hanno vie,<br />

piazzette e ambienti comunitari. Dall’800 a.C. vediamo comparire molti materiali fenici e greci<br />

come contenitori d’uso quotidiano, vasi e coppe di pregio greche, e altri materiali che fanno capire<br />

che insieme al nucleo di abitanti indigeni coabitava pacificamente anche un nucleo di levantini. I<br />

futuri scavi nell’isola chiariranno se il caso di Sant’Imbenia fosse diffuso in altri siti, così da sfruttare<br />

al meglio le risorse locali. Ad Alghero, dunque, i commercianti non si limitavano ad arrivare,<br />

scambiare e andare via ma coabitavano integrati con i nuragici. A Sant’Imbenia si nota un<br />

progresso enorme nella metallurgia, viene introdotto l’uso <strong>del</strong> tornio e si ottimizza la coltivazione<br />

<strong>del</strong>la vite, con conseguente aumento <strong>del</strong>la produzione <strong>del</strong> vino. Nel sito algherese all’inizio <strong>del</strong>l’VIII<br />

a.C. vi fu una produzione enorme di anfore, trovate poi uguali a Cartagine e in altri siti <strong>del</strong>l’area<br />

centro-Mediterranea. Erano destinate al trasporto di vino.<br />

247


Fig. 87 Vasi<br />

Sotto una capanna circolare nuragica sono stati trovati due ripostigli con anfore riempite con<br />

panelle di rame. L’anfora utilizzata come contenitore che si trovava al livello inferiore ne conteneva<br />

40 kg ed era realizzata a mano con tecnica nuragica, pur riproducendo un’anfora di tipo levantino.<br />

Nello strato successivo c’era un’altra anfora simile, ma realizzata al tornio, quindi certamente di<br />

fattura orientale. Si era rotta durante la cottura e non era adatta a contenere liquidi o derrate<br />

alimentari. Il riempimento con panelle di rame dimostra che fu prodotta in loco, nata male e non<br />

utilizzata per il trasporto di liquidi. Abbiamo una nuova dimostrazione che il metallo fu la molla per<br />

la proiezione levantina in occidente. L’arrivo dei tiri contribuì certamente al miglioramento <strong>del</strong>le<br />

tecniche utilizzate dagli indigeni. Due iscrizioni rinvenute a Sant’Imbènia, graffite su frammenti<br />

ceramici, non consentono di capire la provenienza etnica <strong>del</strong>l’incisore: aramaica, tiria o filistea.<br />

Anche nell’oristanese c’è un sito che documenta anfore e altri materiali indigeni e levantini insieme.<br />

Gli eubei, in questa prima fase, viaggiano con i tiri, senza competizione per diffondere insieme i<br />

materiali prodotti nelle varie zone <strong>del</strong> Mediterraneo. I materiali euboici sono più facilmente databili<br />

di quelli fenici perché hanno un’evoluzione molto più rapida e riusciamo a distinguerli<br />

stilisticamente. Tiri ed euboici producono stesse forme e tipologie per periodi lunghi. Bisogna<br />

considerare comunque che molti materiali euboici, come ad esempio le coppe a chevrons o gli<br />

skifos, sono realizzati nelle colonie, soprattutto a Pitecusa.<br />

I materiali specificatamente levantini si riconoscono soprattutto dalle decorazioni. I più antichi<br />

hanno un’ambientazione orientale come la produzione fine simile a quella <strong>del</strong>l’area libanese ma a<br />

partire dal VII a.C. si nota una presenza di manufatti di ambientazione centro Mediterranea.<br />

Bisogna considerare che Cartagine, pur avendo conquistato la Sardegna alla fine <strong>del</strong> VI a.C. (540-<br />

510 a.C.), già da tempo influenzava culturalmente tutta l’area centro Mediterranea. Sant’Imbenia<br />

evidenzia questo fenomeno.<br />

In tema di iscrizioni bisogna dire che sono poco frequenti, e sarebbero di grande aiuto per la<br />

comprensione dei fatti. In oriente si parlava semitico (fenicio, aramaico e filisteo sono tutte lingue<br />

248


semitiche) con varianti che possono essere riscontrate nelle iscrizioni, ma i segni grafici di<br />

Sant’Imbenia non ci aiutano.<br />

La fase coloniale inizia alla fine <strong>del</strong>l’VIII a.C. Le tracce più antiche sono nell’area sulcitana, forse<br />

proprio per la rilevanza mineraria di quest’area.<br />

A Sant’Antioco sono stati rinvenuti materiali <strong>del</strong>l’VIII a.C. nell’ambito <strong>del</strong> tophet e <strong>del</strong>l’abitato,<br />

mentre non ne abbiamo in contesti funerari. I più antichi materiali cimiteriali sono a San Giorgio di<br />

Portoscuso, rinvenuti negli anni Novanta in occasione <strong>del</strong>lo sbancamento di una duna per eseguire<br />

lavori edilizi. La soprintendenza ha salvato alcuni contesti tombali, ad incinerazione con<br />

deposizione secondaria in urne cinerarie entro cista litica costruite con 4 lastre poste a coltello,<br />

oltre il fondo e la copertura. Le brocche con orlo a fungo e le brocche trilobate, rinvenute a San<br />

Giorgio e visibili al museo di Cagliari, sono le più antiche e ci consentono una comparazione<br />

formale stilistica con le varianti più tarde. Si nota un corpo globulare basso e tozzo, il collo<br />

cilindrico con risalto all’innesto <strong>del</strong>l’ansa e il caratteristico rivestimento di colore rossiccio,<br />

denominato red slip. Quelle di Portoscuso sono le tombe mediterranee più antiche <strong>del</strong>la Sardegna.<br />

Il cadavere, prima di essere bruciato, veniva lavato e unto con oli profumati, e la brocca con orlo a<br />

fungo è adatta a questo scopo. L’orlo trilobato è preferibile per sostanze più fluide. Non sappiamo<br />

se questa necropoli, con una decina di tombe, sia di pertinenza di un contesto coloniale a<br />

Portoscuso. Considerato che le tombe sono arcaiche, potrebbe trattarsi di un fondaco precoloniale<br />

oppure potrebbe essere il più antico insediamento. Ad oggi l’unica traccia visibile si riduce a pochi<br />

muretti e un battuto di terra e non riusciamo quindi ad interpretare il sito.<br />

Le città sarde<br />

Le città <strong>del</strong>la civiltà mediterranea sono soprattutto costiere, Cagliari, Nora, Sulci, Bithia, Othoca,<br />

Tharros, Olbia. Raramente si trovano insediamenti importanti nell’entroterra, solo in età punica si<br />

diffondono anche all’interno. I mediterranei hanno poco interesse ad occupare i territori lontani dal<br />

mare. Fanno eccezione alcuni siti individuati negli anni Sessanta da Barreca che ha proposto una<br />

teoria secondo la quale le città costiere, come ad esempio Sulci, abbiano fondato degli avamposti<br />

militari cinti da mura con lo scopo di proteggere le città dagli indigeni. Monte Sirai e Pani Loriga<br />

(Santadi) sono due di questi centri, ma questa ipotesi è stata recentemente scartata perché<br />

attualmente si pensa che i rapporti fra levantini e indigeni fossero pacifici.<br />

249


Villasimius<br />

Fig. 88 Neapolis<br />

Uno dei primi luoghi sardi interessati dalla presenza levantina è Cuccureddu di Villasimius, ubicato<br />

presso il Capo Carbonara. Gli scavi hanno portato alla luce una struttura che si trova sulla sommità<br />

di una <strong>del</strong>le tre colline che si affacciano sulla costa di Villasimius. Alla base <strong>del</strong>le colline ci sono<br />

tracce di insediamento tardo punico <strong>del</strong> IV-III a.C. Alle pendici <strong>del</strong> colle ci sono alcuni muri, forse<br />

difensivi (mai scavati) e due scalinate che conducono alla sommità. Nella struttura principale<br />

<strong>del</strong>l’edificio sono stati svuotati 5 ambienti arcaici che si sono conservati perché erano stati ricoperti<br />

di terra in età romano-repubblicana per costruire un tempio in mattoni crudi, poi crollato sigillando<br />

tutto. Sono 4 piccoli ambienti contigui e uno sfalsato, <strong>del</strong>imitati da muri rettilinei, intonacati con<br />

argilla, con alla base uno zoccolo in pietrame squadrato e cementato con malta di fango. L’alzato<br />

in mattoni crudi si è sciolto con le intemperie e ha riempito gli ambienti. I pavimenti sono in terra<br />

battuta e le coperture sono in travi lignee ricoperte da canne e rivestite in argilla cruda pressata<br />

che si è cotta durante un incendio. Tutti i materiali sono esposti al museo di Villasimius. La<br />

frequentazione è dal 650 a.C. al 540 a.C. anno <strong>del</strong>la distruzione <strong>del</strong>la struttura, non più reinsediata<br />

fino al II a.C.<br />

Il sito è stato interpretato come tempio dedicato ad Astarte perché nei vani ci sono molti unguentari<br />

e portaprofumi, <strong>del</strong> tipo di quelli utilizzati nei templi dove si svolgeva la prostituzione sacra,<br />

un’attività che riconduce a questa Dea cipriota. Nel mito di fondazione di Cartagine abbiamo scritto<br />

<strong>del</strong>la leggendaria Elissa che a Cipro imbarcò le sacerdotesse per portarle a Cartagine. C’è anche<br />

un procione configurato a “fallo”, esposto al museo di Villasimius. Vicino all’edificio ci sarebbero<br />

state le abitazioni dei sacerdoti ma non vi sono tracce visibili. Altra testimonianza sulla sacralità <strong>del</strong><br />

250


luogo sarebbe offerta da alcune cretule in terracotta, bruciate anch’esse nell’incendio, che<br />

denoterebbero la presenza di documenti. Bartoloni e altri studiosi ipotizzano che l’incendio sarebbe<br />

stato provocato da Cartagine che da quella data cercò in tutti i modi di conquistare l’isola<br />

sbarcando in armi, così come in Sicilia. Cuccureddu era forse un fondaco, un punto d’incontro fra<br />

gli indigeni e le genti che arrivavano per mare, e il tempio sarebbe stato fondato per garantire gli<br />

scambi. Un porto franco dove la divinità garantiva i commerci e le transazioni.<br />

Nel II a.C. al di sopra di questo sito fu edificato, in piena età repubblicana, un altro tempio che ha<br />

restituito molti materiali ceramici. Era dedicato alla divinità femminile Era-Giunone (Astarte per i<br />

classici) e venne ristrutturato da Caracalla e rimasto in uso fino al IV d.C.<br />

Sant’Antioco<br />

Le fonti romane ci parlano di Sulci mentre in lingua semitica, in fenicio, era Sulki. Si trova<br />

sull’omonima isola, sul versante orientale e il reimpianto moderno <strong>del</strong> paese ha determinato lo<br />

spoglio sistematico <strong>del</strong>le strutture antiche. Le fortificazioni chiudevano la città e il tophet era al di<br />

fuori <strong>del</strong>le mura.<br />

Nell’area <strong>del</strong> cronicario, in corrispondenza <strong>del</strong>l’ospedale, sono stati individuati negli anni Ottanta<br />

degli ambienti abitativi che si riferiscono all’VIII a.C. É un rinvenimento importante perché in tutta la<br />

Sardegna abbiamo solo pochissime tracce degli insediamenti arcaici: qualche muro e una striscia<br />

di fondazione a Cagliari, un battuto a Nora, pochissimo a Tharros. Non c’è nessuna<br />

monumentalità, solo due isolati con una serie di vani che presentano pavimenti in terra battuta,<br />

muri con zoccolo in pietrame bruto cementato con malta di fango e alzato, oggi scomparso, in<br />

mattoni crudi. I materiali frammentari rinvenuti sono sia di importazione (euboici di Pitecusa e<br />

corinzi), sia di produzione mediterranea, e mostrano che la città fu fondata intorno al 750 a.C.<br />

Alcuni materiali levantini sono di ispirazione varia, come la coppa con forma greca, decorata alla<br />

maniera mediterranea, con un volatile ripreso chiaramente dal repertorio euboico di Ischia, primo<br />

emporio greco in occidente.<br />

Le fortificazioni si trovano nella zona <strong>del</strong> fortino sabaudo, nell’area chiamata Acropoli. Gli scavi<br />

furono condotti inizialmente da Pesce, poi da Barreca negli anni Settanta e recentemente da<br />

Tronchetti e hanno portato alla luce <strong>del</strong>le strutture che iniziano dietro il fortino e arrivano ad una<br />

torre. Bartoloni sostiene che le fondazioni <strong>del</strong> fortino utilizzano una base <strong>del</strong>la precedente torre<br />

punica perché la forma a zig-zag e i blocchi sono tipicamente punici. Le mura corrono fino ad una<br />

torre elicoidale addossata ad una roccia e poi piegano verso il mare chiudendo la città. In questo<br />

ultimo tratto si trova la necropoli punica. Dietro la chiesa di Sant’Antioco si trova un breve tratto<br />

realizzato in blocchi squadrati, in parte bugnati e messi in opera a secco. Barreca ha individuato un<br />

camminamento di ronda, ma non lo ha mai pubblicato. Nell’area alta <strong>del</strong>l’acropoli, vicino al<br />

deposito <strong>del</strong>la Soprintendenza, ci sono <strong>del</strong>le strutture bugnate in calcare chiaro e tufo scuro. Vicino<br />

a questa zona c’è un edificio con otto colonne di età repubblicana, di incerta interpretazione, che<br />

racchiude due ambienti.<br />

La datazione <strong>del</strong>le fortificazioni comporta dei problemi fra studiosi. Per Barreca, che le individua<br />

nella parte alta <strong>del</strong> Monte de Cresia e nell'Acropoli vicino al fortino sabaudo, sono di età fenicia<br />

251


(come le altre che scavò in giro per la Sardegna), costituite da mura in pietrame bruto, spesso e a<br />

doppio paramento. In seguito ci furono una fase tardo punica, contraddistinta da blocchi squadrati,<br />

e una fase romana.<br />

Bartoloni, già dagli anni Ottanta, non accettò queste posizioni, proponendo che nessuna <strong>del</strong>le città<br />

mediterranee avesse fortificazioni e che queste, come tutte le altre strutture, si realizzarono solo a<br />

partire dall’inizio <strong>del</strong> V a.C. quando la Sardegna passò sotto il controllo di Cartagine.<br />

Tronchetti negli anni Novanta ha scavato nelle strutture <strong>del</strong>le fondazioni trovando materiali romani.<br />

Per lo studioso le mura sono state impiantate in età repubblicana con tecnica punica ma ha<br />

sondato solo pochi punti. Bisognerebbe riprendere gli scavi perché attualmente i dati sono<br />

contradditori. Negli anni Ottanta sono stati trovati i “Leoni di Sulci”, due grandi animali esposti al<br />

museo di Sant’Antioco, in posizione accosciata e con la coda rigirata attorno ad una zampa.<br />

Sono inquadrati all’interno di un elemento che regola lo spazio con una base tronco-piramidale,<br />

rastremata verso l’alto, sormontata da un listello-toro, con sopra una gola egizia. Nella parte<br />

posteriore c’è una superficie piana con un incasso a sezione triangolare, forse per consentire<br />

l’inserimento dei leoni in una struttura monumentale. Al momento <strong>del</strong> rinvenimento i leoni erano<br />

reimpiegati ai lati di una nicchia occlusa da un muro rettilineo a due filari. Davanti c’era una grande<br />

arena ellittica <strong>del</strong>imitata da blocchi. La struttura è stata riferita ad età repubblicana, quindi i leoni,<br />

essendo più antichi, sono stati utilizzati per decorare una struttura di tipo ellenistico con terrazze.<br />

Essendo fuori contesto si può fare una datazione solo su base stilistica. I leoni sono di tradizione<br />

orientale, siriana o siro-palestinese, che si mescola con influenze assire ed ittite. Questo tipo di<br />

leoni in oriente erano utilizzati nelle porte dei templi. Per alcuni studiosi ci sono influssi greci<br />

mediati dall’elemento etrusco. La cronologia porta al VI a.C. e la loro funzione era legata alla<br />

destinazione d’uso <strong>del</strong>l’area: militare per Moscati e Barreca, perché vicina alle fortificazioni e<br />

perché forse erano sistemati ai lati <strong>del</strong>la porta di ingresso; religiosa per Bartoloni e Tronchetti<br />

perché dopo la collocazione militare l’area fu risistemata con una struttura di età repubblicana con<br />

un vano diviso in due, una serie di colonne e pavimento in cocciopisto con tessere bianche, quindi<br />

un tempio con i due leoni ai lati <strong>del</strong>l’ingresso. Bernardini di recente ha avanzato un’altra ipotesi:<br />

c’era la destinazione sacra dall’inizio e le statue erano all’interno di una struttura punica come<br />

braccioli di un trono monumentale.<br />

Alcuni vasi funerari arcaici, quasi intatti, sono visibili in collezioni private di Sant’Antioco ma non<br />

conosciamo l’ubicazione <strong>del</strong> cimitero mediterraneo, ad eccezione di una sepoltura scavata presso<br />

Piazza Italia, a 100 m dal mare, e datata al VII a.C. La necropoli punica è in parte ricoperta<br />

dall’attuale urbanizzazione. Si trova a valle <strong>del</strong>le fortificazioni, all’interno <strong>del</strong> fossato. Sono<br />

sepolture in grandi camere e, come quelle di Tuvixeddu a Cagliari, sono state riutilizzate fino al<br />

secolo scorso come abitazioni. Ci sono due varianti: la più antica, datata agli inizi <strong>del</strong> V a.C., è<br />

costituita da tombe con dromos larghi e monumentali con scale ben definite, e camera<br />

rettangolare. Le più recenti, <strong>del</strong> IV a.C., sono ancora più grandi, con dromos stretto e camera<br />

separata da un tramezzo risparmiato che <strong>del</strong>imita due vani ben distinti. All’interno la deposizione<br />

funeraria era spesso praticata all’interno di bare lignee in cui si sono ben conservati i resti <strong>del</strong>le<br />

ceramiche di corredo e qualche legno. La copertura era a lastre e sopra c’erano i segnacoli in<br />

252


pietra. In epoca romana le tombe puniche sono state riutilizzate come catacombe, a volte unendo<br />

le varie camere. Sotto la chiesa ci sono molte di queste tombe e l’area è visitabile, perfino il<br />

ristorante dietro la chiesa <strong>del</strong>la piazza ne conserva alcune nella cantina. Le bare erano spesso<br />

poggiate su due blocchi in pietra, sollevate dal suolo. C’è anche la presenza di linee di pitture sulle<br />

pareti, come nelle tombe africane degli antichi libici, gli indigeni trovati dai levantini durante la<br />

colonizzazione. I cartaginesi non si sono mischiati con loro e i libici, pur subendo l’influenza <strong>del</strong>la<br />

tradizione punica, hanno mantenuto alcuni tratti caratteristici <strong>del</strong>la loro cultura che poi hanno<br />

portato nelle colonie. Quando i cartaginesi hanno conquistato la Sicilia e la Sardegna, attuarono<br />

una politica capillare di sfruttamento <strong>del</strong>le risorse agrarie e minerarie con una politica di<br />

popolamento nelle colonie perché i nuclei di mediterranei erano minimi. A questo scopo inviarono<br />

nuclei di africani in Sardegna, costituiti solo in minima parte da cartaginesi: suffeti (prefetti) e<br />

amministratori, mentre la maggior parte era composta da indigeni punicizzati. In sostanza la<br />

cultura si è mischiata fra libici, punici, mediterranei e sardi ed ecco spiegati i segni di pittura in ocra<br />

rossa sulle pareti <strong>del</strong>le tombe, così come a Cagliari, Tharros, Olbia e Monte Luna. A Cartagine non<br />

ci sono tombe dipinte.<br />

A Sant’Antioco negli anni Novanta sono stati trovati due importanti altorilievi posizionati sulla<br />

testata dei tramezzi che dividevano la tomba in due. Uno di essi è stato restaurato malamente, nel<br />

senso che i caratteri originari non sono stati rispettati, ed è in corso un recupero per riportarlo<br />

all’antico. Si tratta di un personaggio maschile con barba, con vesti egizie e in posizione incedente.<br />

Un braccio al petto e l’altro lungo i fianchi, con tracce di nero e arancio. La mano poggiata al petto<br />

porta dei bracciali. La datazione è <strong>del</strong> V a.C. L’altro, quello scavato da Bernardini, è colorato<br />

vivacemente sempre di nero e arancio e, per evitare il degrado, è stato richiuso nella tomba.<br />

Il tophet si trova all’esterno <strong>del</strong>le mura, vicino alla torre con blocchi bugnati, ed è datato all’VIII a.C.<br />

Fu scavato negli anni Cinquanta da Pesce e mai pubblicato ma sono state pubblicate le 1500<br />

stele. Impiantato in terreno vergine, sul cosiddetto roccione sacro, presenta urne inserite nelle<br />

spaccature <strong>del</strong>la roccia trachitica, frequentemente in pentole coperte con piatti. Uno dei più<br />

importanti materiali restituiti è un’olla pitecusana (euboica) datata al 730 a.C. Questo vaso non<br />

dovrebbe trovarsi in un tophet, forse si tratta di un levantino che per deporre suo figlio ha comprato<br />

un vaso di grande pregio e l’ha deposto nel tophet, oppure si tratta di un greco euboico che<br />

praticava il culto mediterraneo. Non si è certi se all'interno vi sia un bambino sulcitano figlio di<br />

orientali o pitecusano o euboico, ma comunque è uno straniero. C’è anche un’anfora, a corpo<br />

ovoide, mediterranea <strong>del</strong> VIII a.C. che ci rimanda ad ambito cartaginese perché la decorazione<br />

metopale a red slip, è tipica di Cartagine. Le urne ricollocate in situ sono riproduzioni, per non<br />

sottoporre le originali al degrado naturale.<br />

Le stele di Sant’Antioco mostrano cippi semplici, a trono e a edicola che nella fase centrale <strong>del</strong> V<br />

a.C. mostrano una forte influenza egiziana. Alcune raffigurazioni presentano edifici sacri con<br />

pilastri, senza colonne, sormontati da una trabeazione e da una modanatura a gola egizia<br />

<strong>del</strong>imitata da listelli. Sopra c’è la decorazione ad urei con disco solare (serpenti sacri simboli<br />

solari), tipico fregio <strong>del</strong> coronamento dei templi egiziani. I personaggi sono vari: femminile con fiore<br />

di loto oppure con disco al petto (per alcuni si tratta di un tamburello per riti musicali); divinità<br />

253


aniconiche; sacerdotesse varie; personaggi maschili con barba e con una lancia in mano e dietro il<br />

tipico ricciolo che troviamo nella tiara di tipo siriano (quindi un elemento orientale). Moscati<br />

sostiene che il personaggio femminile sia una sacerdotessa intenta a suonare un timpano, e quello<br />

con la stola sarebbe il sacerdote. La stele ad edicola con questi personaggi è fra le più diffuse<br />

nell'iconografia sulcitana e non trova riscontro altrove. Quando i personaggi poggiano i piedi su un<br />

podio siamo certi che si tratta di divinità. La maggior parte dei capitelli non sono greci, spesso sono<br />

ripresi dall’architettura egizia.<br />

Curiosamente mentre altrove le stele ad edicola scompaiono nel VI a.C., qui a Sulci continuano ma<br />

si trasformano. Nelle stele troviamo <strong>del</strong>le edicole con elementi classici greci sia nell'architettura<br />

che, gradualmente, nella iconografia <strong>del</strong>le nicchie. I personaggi hanno veste classica, anche se il<br />

significato è lo stesso: si passa da personaggi maschili con stola a personaggi femminili con disco.<br />

L'edicola ha capitelli, colonne e timpano con acroteri senza trabeazione (ancora simboli punici). La<br />

prima innovazione è il timpano. C'è un personaggio femminile con disco nel petto che mantiene<br />

abiti punici. In una colonna c'è un personaggio con stola e veste classica, timpano con acroteri con<br />

all'interno una rosetta. Abbiamo anche una stele polimaterica meno pregiata datata al II a.C. con<br />

colonne scanalate, capitelli senza trabeazione, timpano, acroteri e personaggio con stola. Si arriva<br />

alle ultime che sono in materiale meno pregiato, ad esempio marmo, dove si vede l'influenza <strong>del</strong><br />

mondo classico con fattezze tipiche greche.<br />

Mentre a Cartagine nel terzo strato si passa alla stele piatta che diventa un supporto per la<br />

rappresentazione, a Sant’Antioco abbiamo un fenomeno unico, con l’edicola tridimensionale che<br />

presenta però elementi classici inseriti in maniera artificiosa nello schema preesistente. Al posto<br />

dei pilastri compaiono <strong>del</strong>le colonne doriche e il timpano fiancheggiato da acroteri ma scompare la<br />

trabeazione, fatto che porterebbe al crollo <strong>del</strong> tempio, non esistono infatti templi fatti in questo<br />

modo. Al centro <strong>del</strong> timpano c’è la falce lunare che sormonta il disco solare, simbolo punico.<br />

Rimane la figura femminile con disco al petto o personaggi maschili con rosetta, con Tanìt e sulla<br />

spalla una stola, una veste di tipo classico, greco. Si arriva dunque ad una commistione di stili e<br />

tradizioni.<br />

Nel II a.C. si arriva a stele in marmo, edicola classica e personaggio con stola. Un’altra tipologia è<br />

quella con stele centinata, che ricompare in età tarda, intorno al III a.C., caratterizzate da animali<br />

passanti, ovi-caprini. Stranamente questa tipologia ricompare dopo secoli di assenza, forse si<br />

tratta di animali sacrificati nei tophet.<br />

Monte Sirai<br />

Si trova a breve distanza da Sulci, sua probabile madre patria. I due centri sono visibili fra loro e<br />

l’area scavata a Monte Sirai è costituita dalla necropoli, dall’acropoli e dal tophet. Barreca<br />

sosteneva che fu fondata intorno al 650 a.C. dai sulcitani e che la postazione ebbe la funzione di<br />

fortezza con mastio e cinta muraria fortificata. Fino alla conquista romana <strong>del</strong> 238 a.C., data<br />

<strong>del</strong>l’invasione armata da parte di Roma, rimase un centro prevalentemente militare e solo in<br />

seguito fu trasformato in abitato, con la conseguente demolizione <strong>del</strong>le fortificazioni. Nel 38 a.C.,<br />

data <strong>del</strong>lo scontro fra Cesariani e Pompeiani, Monte Sirai fu abbandonata definitivamente.<br />

254


Bartoloni ha approfondito gli scavi nell’abitato e ritiene che l’impianto <strong>del</strong>l’insediamento debba<br />

retrodatarsi di un secolo, all’VIII a.C. La fondazione avvenne ad opera degli abitanti di Sant’Antioco<br />

o di Portoscuso. L’organizzazione urbanistica è differente da quella che si ipotizzava, in quanto<br />

scavando sotto le strutture ellenistiche Bartoloni ha potuto constatare l’esistenza di edifici che<br />

fanno pensare ad una collaborazione con l’elemento indigeno. Fu infatti rinvenuta ceramica<br />

realizzata a mano, tipica nuragica. Diviene fortezza solo molto tempo dopo, in età punica<br />

avanzata, intorno al 380 a.C. Parte <strong>del</strong>l’insediamento fu distrutto militarmente fra il 540 e il 510<br />

a.C. da parte dei cartaginesi nell’ambito <strong>del</strong> tentativo di conquista armata <strong>del</strong>la Sardegna da parte<br />

<strong>del</strong> generale Malco. L’attacco determina una decadenza <strong>del</strong>l’insediamento che diventa più piccolo<br />

e viene ripopolato con una serie di famiglie africane mandate da Cartagine. La tipologia tombale è<br />

tipica africana, libica, ed è costituita da 13 tombe familiari, quindi Bartoloni ipotizza che Cartagine<br />

inviò proprio 13 famiglie dall’Africa per governare il territorio.<br />

Un cambiamento importante avvenne dunque nel 380 a.C. quando si nota in tutta la Sardegna uno<br />

sforzo immenso di costruzione di fortificazioni in molte città puniche <strong>del</strong>la Sardegna. Monte Sirai<br />

sarebbe diventato un centro più grande, forse sede di una guarnigione, e proprio a questo periodo<br />

si riferirebbero tutte quelle strutture oggi a vista nel sito. Nel 238 a.C. furono demolite le<br />

fortificazioni e il centro, fino al 110 a.C., visse come città non militare.<br />

L’acropoli si trova nella parte superiore <strong>del</strong>la collina ed è costituita da 4 isolati disposti<br />

parallelamente. In assenza di piazze, se non quella vicina all’ingresso, le vie di comunicazione<br />

sono in terra battuta in quanto i mediterranei e i punici non lastricavano le strade. Furono i romani<br />

ad introdurre l’uso di vie rivestite di ciottoli.<br />

L’ingresso all’insediamento presenta una soglia di età romana, ed è fiancheggiato da una serie di<br />

strutture e da un fossato <strong>del</strong>imitato da un muro rettilineo. L’andamento a cremagliera (a zig-zag),<br />

<strong>del</strong>le mura tipico <strong>del</strong>le fortificazioni puniche avanzate ha integrato le strutture arcaiche. In un punto<br />

si trovano infatti dei blocchi in bugnato di trachite, riferiti alle vecchie mura. Davanti all’ingresso ci<br />

sono una serie di torri di varie forme funzionali ad una prima difesa, forse <strong>del</strong> V a.C., anche se<br />

Bartoloni parla di strutture romane abitative e non di torri, e un corridoio difeso da una porta con<br />

garitta che conduceva alle strutture interne.<br />

L’abitato presenta case tradizionali di tipo punico con corridoio centrale che porta alla corte, sulla<br />

quale si affacciano gli ambienti domestici.<br />

L’unico edificio pubblico identificato è il mastio. Si trova nell’unica piazza di Monte Sirai. Nell’ultima<br />

fase fu utilizzato come edificio sacro. Barreca ipotizzava che il mastio sarebbe stato impiantato nel<br />

VII a.C. sopra un preesistente nuraghe che fu smontato. Si riutilizzarono i conci di base e si costruì<br />

la parte centrale <strong>del</strong>l’edificio, con due vani separati da un muro e una serie di case matte cieche<br />

utilizzate come fortificazioni. Il mastio fu incendiato alla fine <strong>del</strong> VI a.C. e ristrutturato nel V a.C. con<br />

l’aggiunta <strong>del</strong>la torre cava con 6 vani ciechi coperti da botole, forse magazzini per armi. In seguito<br />

fu anche rifasciato. Barreca pensava che intorno al 250 a.C. la struttura perse la connotazione<br />

militare e fu trasformata in tempio per il culto di Demetra. Per lo studioso, in età fenicia e punica<br />

non ci sarebbe quindi stato nessun edificio sacro. Per Bartoloni invece la struttura fu sempre un<br />

tempio dedicato ad Astarte e i mediterranei avrebbero usato il nuraghe per le funzioni religiose e<br />

255


per accogliere i loro simboli cultuali. Il nuraghe sarebbe stato smontato attorno al 525 a.C. e dopo<br />

questa data sarebbe stato ricostruito un edificio sacro nel 250 a.C. riutilizzando i conci <strong>del</strong> nuraghe<br />

stesso <strong>del</strong> quale però non restano tracce visibili, se non una cisterna.<br />

La struttura è composta da vari edifici: una torre cava, un’area aperta, una cisterna e vari altri<br />

ambienti. Sono stati ritrovati degli altari utilizzati per il culto. All’area aperta si accede tramite due<br />

ambienti separati da un muro, forse coperti, che portano a 4 celle nelle quali sono stati individuati<br />

dei manufatti che ci rimandano ad un ambito cultuale: oggetti votivi, lucerne, bronzetti, placchette<br />

in osso, forse appartenenti ad una cassetta lignea. La copertura era piana in travi di legno o<br />

cannucciato perché le tegole arrivano in Sardegna solo in età romana.<br />

La statua di Astarte mostra una differenza di lavorazione fra la testa rifinita e il corpo, solo<br />

abbozzato. La testa risente <strong>del</strong>l’influenza orientale e siriana, e viene datata al VII a.C. Il braccio<br />

sinistro è appoggiato sul ventre e il destro è sul petto col pugno chiuso. Forse portava una stola<br />

sulla spalla. Si pensa che per qualche motivo la statua, di età arcaica, sia stata rilavorata in età<br />

punica, forse da un artigiano non esperto.<br />

Per Monte Sirai si è spesso parlato di artigianato popolare, in contrapposizione a quello di alto<br />

livello di Sulci. In realtà vari studiosi ritengono che la differenza di qualità sia dovuta non ad un<br />

diverso ambito culturale, ma semplicemente perché Monte Sirai, essendo un centro secondario,<br />

non disponeva di artigiani altrettanto validi.<br />

In una celletta c’erano una serie di placchette lavorate: una sfinge accosciata in osso e una<br />

palmetta. Gli avori orientali sono molto più belli e la lavorazione, che in questi di Monte Sirai è ad<br />

incisione, in quelli orientali viene eseguita a rilievo. L’iconografia di una <strong>del</strong>le placchette mostra una<br />

commistione fra tre elementi:<br />

. Bes, il demone nano egiziano, grassoccio con la lingua fuori, con i baffi, i ricci, le orecchie ferine e<br />

il pugno chiuso.<br />

. Melkart-Eracle, il Dio con in evidenzia le zampe <strong>del</strong>la leontè ma non le orecchie di Bes.<br />

. La Gòrgone, un essere mitologico greco, una <strong>del</strong>le tre sorelle, in questo caso Medusa, quelle che<br />

pietrificavano coloro che le guardavano. Ecco spiegato lo sguardo penetrante con occhi spalancati,<br />

la lingua fuori, il faccione circolare, tutti elementi derivati dall’iconografia di Medusa.<br />

Due bronzetti levantini trovati nei vani dove era presente la statua di culto, rappresentano “il<br />

Citaista” e un personaggio assiso che versa da una brocca askoide, di tradizione nuragica, dentro<br />

una coppa. Sono datati al VI a.C. e dimostrano la convivenza pacifica fra nuragici e fenici,<br />

caratteristica tipica <strong>del</strong>la civiltà mediterranea, riscontrabile in tutti i siti costieri.<br />

256


Fig. 89 Monte Sirai<br />

A Monte Sirai è stata scavata una grande necropoli. Quella mediterranea è vicina all’abitato, quella<br />

punica è più in basso. Il tophet si trova in una valle ancora più in basso.<br />

La necropoli mediterranea prevede tombe ad incinerazione primaria con fosse scavate, nella terra<br />

e nella roccia, nelle quali veniva posto il defunto da bruciare e, una volta terminato il rito, veniva<br />

aggiunto il corredo e sigillata la tomba. In superficie c’erano i segnacoli. Le tombe arcaiche sono<br />

un centinaio, poco regolari, oblunghe, e si distinguono da quelle puniche che sono, invece,<br />

rettangolari. Ben 7 tombe mediterranee sono ad inumazione, con la presenza <strong>del</strong>la brocca con orlo<br />

a fungo. Forse il motivo è legato all’elemento africano, infatti uno dei personaggi sepolti è<br />

femminile in posizione di fianco, la tipica inumazione <strong>del</strong>la zona libica di Kerkouane, mai<br />

documentata a Cartagine. Gli indigeni, anche quelli punicizzati, continuano a farsi inumare in<br />

posizione supina.<br />

Le tombe puniche sono solo 13, oltre un dromos non dotato di camera. Sono molto grandi con<br />

scale nel dromos che occupano tutto il lato breve. Le camere sono quadrangolari con sarcofagi e<br />

nicchie risparmiati nella roccia. Una <strong>del</strong>le tombe presenta al centro una colonna risparmiata, forse<br />

per sostenere la copertura. Nel tramezzo è ben visibile il simbolo capovolto di Tanìt, utilizzato<br />

come simbolo funerario per riferirsi al mondo dei defunti.<br />

Bartoloni, ha scavato negli anni Sessanta e ritiene che non ci siano altre sepolture perché fra la<br />

conquista cartaginese e il 360 a.C., anno <strong>del</strong>la ristrutturazione, il tono di vita era minore, con la<br />

presenza di poche famiglie. Oltre le tombe scavate nel bancone, ce ne sono altre che modificano<br />

<strong>del</strong>le domus de janas. La tomba 9 presenta un dromos e una camera non finita e quindi possiamo<br />

capire l'evoluzione: prima si scavava il dromos e poi veniva rifinita. Sono tombe uniformi, forse<br />

fatte dalla stessa confraternita che provvedeva alla costruzione e alla sepoltura dei defunti.<br />

257


A Monte Sirai ci sono anche 3 facce maschili demoniache, ricavate nella parte alta <strong>del</strong>la parete di<br />

una camera tombale. Una di queste è ancora sul posto. In un’altra area ci sono anche <strong>del</strong>le tombe<br />

infantili ad enkitrismos.<br />

Il tophet non è stato impiantato insieme alla città, si data infatti al 370 a.C. quando ci fu lo sviluppo<br />

urbanistico e demografico <strong>del</strong>l’insediamento. Si trova 200 m a nord <strong>del</strong>l’abitato e ha restituito circa<br />

300 urne e 140 stele. Si divide in tre fasi sovrapposte: la prima vede le urne appoggiate<br />

direttamente sulla roccia, talvolta all’interno di casse scavate e conta poche stele. C’è un<br />

passaggio funzionale alla deposizione <strong>del</strong>le urne. Alla fine <strong>del</strong> IV a.C. viene fatta una gettata di<br />

terra e argilla, sostenuta con muretti laterali, e quasi la metà <strong>del</strong>le urne si riferisce a questa fase.<br />

Intorno al 250 a.C. abbiamo la terza fase: viene fatto un interramento con terra e argilla, vengono<br />

posti dei lastroni di trachite per contenere la colmata e viene costruito un edificio di culto. É un fatto<br />

raro, infatti solo a Cartagine c’è la cappella Cintas, e a Mozia e Tharros ci sono tracce di strutture<br />

di culto in tophet, ma questo è l’edificio meglio conservato. Recentemente è stato restaurato<br />

malamente con una gradinata inventata ma prima sorgeva su una piattaforma alla quale si<br />

accedeva attraverso una rampa, ora coperta dalla gradinata. Al di sopra c’era un saccello di 8 x 6<br />

m datato alla fine <strong>del</strong> III a.C. costituito da un ampio vestibolo affiancato da vari ambienti. La parte<br />

più sacra vedeva un penetrale caratterizzato nello spigolo da un doppio altare. Tracce di fuoco e di<br />

resti ossei animali sono stati scavati vicino all’altare. Le stele documentate nel Tophet mostrano<br />

una stretta correlazione con Sulci. Gli artigiani però non raggiungono l'abilità dei sulcitani. Nelle<br />

edicole troviamo personaggi con stola (sacerdote) e altri con fiore di loto (divinità) in commistione.<br />

In alcune stele c'è anche la tecnica ad incisione che rivedremo nelle stele funerarie <strong>del</strong> periodo<br />

finale punico e in età romana primo-imperiale.<br />

San Giorgio di Portoscuso<br />

Uno scavo degli anni Novanta <strong>del</strong>la soprintendenza di Cagliari ha documentato una necropoli<br />

mediterranea arcaica costituita da dieci tombe e un insediamento databile al 750 a.C. È forse il più<br />

antico <strong>del</strong>la Sardegna. Lo scavo è stato determinato dalla costruzione <strong>del</strong> depuratore e un mezzo<br />

meccanico aveva distrutto parte <strong>del</strong> sito. La tipologia tombale è a cista litica con incinerazione e<br />

deposizione secondaria. Il corredo era di materiali ceramici e ci sono armi in ferro. Fuori contesto<br />

ci sono <strong>del</strong>le anse di vasi nuragici e si è ipotizzato facessero parte <strong>del</strong> corredo, anche perché non<br />

è documentata la presenza di insediamenti nuragici nelle vicinanze. Bartoloni ha proposto che si<br />

trattasse di un fondaco pre-coloniale levantino. Nei manufatti abbiamo una brocca arcaica con orlo<br />

cilindrico a fungo, corpo sferico e non ovoide, rivestimento a red slip che si associa sempre ad una<br />

brocca bi-conica. La coppia di brocche serviva per versare un liquido e un fluido profumato per la<br />

preparazione <strong>del</strong> cadavere.<br />

258


Nora<br />

Fig. 90 Stele tophet Monte Sirai<br />

Dal 1990 le ricerche hanno evidenziato una ricostruzione storica che ha rivoluzionato le concezioni<br />

precedenti. Nora si trova a sud-ovest di Cagliari, nel territorio di Pula. Si tratta di una tipica<br />

sistemazione costiera su un promontorio, come piaceva ai levantini. Fino agli anni Novanta non<br />

avevamo notizie <strong>del</strong>la città arcaica. Nel 1793 fu rinvenuta la “grande norense”, una stele<br />

monumentale con iscrizione ancora al vaglio degli studiosi. A questo manufatto abbiamo dedicato<br />

un apposito paragrafo per aiutare chi volesse cimentarsi con l’interpretazione. L’iscrizione è<br />

<strong>del</strong>l’inizio <strong>del</strong> IX a.C. ed è importante perché dimostra una frequentazione <strong>del</strong>la città fin da questo<br />

periodo. Potrebbe riferirsi ad un luogo di culto o alla fondazione <strong>del</strong>la città. I materiali <strong>del</strong>la Nora<br />

più antica si limitano a 4 cocci <strong>del</strong> VII a.C. rinvenuti da Pesce nel quartiere sud-occidentale <strong>del</strong>la<br />

città, al di sotto <strong>del</strong>le strutture di età romana che si trovano al livello <strong>del</strong> piano <strong>del</strong>le strade attuali<br />

<strong>del</strong>la città.<br />

L’Università di Padova ha indagato il Foro Romano e fino ad allora si pensava, accogliendo<br />

l’ipotesi di Barreca, che i romani costruirono a Nora mantenendo la destinazione funzionale d’uso<br />

precedente, impostando il foro sull’area <strong>del</strong> mercato, l’abitato sulle case precedenti, i templi<br />

nell’area dei vecchi templi, e così via. In pratica si ipotizzava che i romani costruirono sulla città<br />

punica che, a sua volta, era costruita su quella mediterranea. Gli scavi hanno invece evidenziato<br />

che non c’è stata una continuità d’uso: il foro dei romani fu costruito nel I a.C. in un’area libera.<br />

Sotto le strutture <strong>del</strong> foro gli scavi hanno individuato una frequentazione precedente al primo<br />

impianto <strong>del</strong>le strutture che avvenne nel VII a.C. In questa prima fase l’area fu sistemata, spianata<br />

e infine ampliata con l’aggiunta di terra e ciottoli. Poi fu impiantata una struttura muraria in grossi<br />

259


ciottoli legati con argilla. Fu realizzato anche un battuto in terra con inserzioni di blocchetti lapidei<br />

che <strong>del</strong>imitavano due focolari e un pozzo in parte scavato nella roccia, in parte costruito. Sopra<br />

queste strutture, una volta obliterate, vennero costruiti due edifici e una cisterna a bagnarola lunga<br />

5 m. Nel I a.C. tutta l’area venne riempita e fu costruito il foro.<br />

La città romana dunque non riprende le strutture più antiche, ma viene impiantata con un progetto<br />

nuovo. Lungo la strada verso il mare, vicino al teatro, sotto il livello degli edifici romani vi sono<br />

tracce preesistenti di strutture nelle quali sono stati scavati da Pesce materiali mediterranei, non<br />

pubblicati. Sul livello romano ci sono decine di cisterne costruite con tecnica punica. Essendo<br />

uguali per vari secoli non si riesce a datarle con precisione, possono essere perfino bizantine<br />

perché anche questi ultimi le costruivano con la stessa tecnica.<br />

Gli ultimi scavi sono andati sotto le strutture romane e hanno rivelato che la città mediterranea e<br />

poi punica è compresa in un triangolo fra il tempio di Eshmun, l’alto luogo di Tanìt ed un altro<br />

tempio trovato nell’area denominata F. In età romana il baricentro si è spostato verso ovest. Sotto<br />

la zona <strong>del</strong>le terme non c’è niente ma bisogna considerare che il livello <strong>del</strong> mare si è alzato di oltre<br />

due metri negli ultimi 3500 anni e varie strutture si trovano sommerse.<br />

L’alto luogo di Tanìt venne individuato da Patroni agli inizi <strong>del</strong> Novecento e conserva un basamento<br />

quadrato di 10 m di lato, con vani ciechi che in corso di scavo sono stati svuotati senza risultato.<br />

Probabilmente si tratta di fondamenta per la struttura che era poggiata sopra. Il Patroni individuò<br />

una pietra piramidale che identificò con un betilo dedicato a Tanìt. La struttura è certamente sacra<br />

perché negli anni Novanta nella stessa area, un poco più a sud, vicino alla strada romana sono<br />

stati individuati dei grandi conci sagomati a gola egizia e, recentemente, dei materiali votivi in<br />

terracotta anche se fuori contesto.<br />

Fig. 91 Nora<br />

Fra i ritrovamenti più importanti c’è un capitello con testa umana fra volute, ritrovato da Patroni nel<br />

1902, e una grande gola egizia con gocciolatoio a testa di leone, che si trova ancora sul posto.<br />

260


Il tempio di Eshmun-Esculapio, si trova sulla “Punta de su Coloru” (Punta <strong>del</strong> serpente), scavato<br />

negli anni Cinquanta da Pesce. Si tratta di un tempio romano perché nel piano di posa <strong>del</strong><br />

pavimento <strong>del</strong>la struttura è stata individuata una moneta Costantiniana <strong>del</strong> IV d.C. ma si ipotizza<br />

che l’impianto sia di età punica. É posto su due livelli, con un’ampia corte centrale mosaicata,<br />

ingresso con scalinata e vestibolo che conduce ad un ampia sala che da accesso ad un abside<br />

bipartito, diviso da un muretto. Nell’area è stata ritrovata una favissa che conteneva due statue alte<br />

circa 80 cm, i cosiddetti incubanti, dormienti avvolti nelle spire <strong>del</strong> serpente guaritore. Le statue<br />

sono riferite ad età repubblicana e attestano la preesistenza di un edificio di età romana e la<br />

destinazione <strong>del</strong> tempio come dedicato ad una divinità salutifera, da cui l’ipotesi di assegnazione<br />

ad Esculapio. L’incubante è un fe<strong>del</strong>e, o un malato, che svolge il rito <strong>del</strong>l’incubazione: dorme<br />

all’interno <strong>del</strong> tempio per permettere alla divinità di scendere e guarirlo.<br />

La fase precedente a quella repubblicana è attestata da una trabeazione monolitica di una piccola<br />

edicola punica identificata da Pesce dietro l’abside <strong>del</strong> tempio. Il basamento è ancora in loco e<br />

presenta la tipica sgusciatura a gola egizia con sopra il caratteristico fregio ad urei discofori. Quindi<br />

un piccolo sacello che costituiva il fulcro <strong>del</strong>l’area santuariale con al centro il simulacro <strong>del</strong>la<br />

divinità, che purtroppo non si è conservato. Un altro elemento di età punica è costituito da una<br />

serie di grandi blocchi in arenaria che costituiscono le fondamenta <strong>del</strong> tempio romano. Si trovano<br />

sul lato a mare e arrivano fino a sette filari sovrapposti. Altri blocchi di questo tipo sono stati<br />

riconosciuti al centro <strong>del</strong>la struttura. La nuova lettura proposta descrive quindi un tempio<br />

precedente costituito da una grande corte con al centro un’edicola col simulacro. Alcuni tagli nella<br />

roccia che si affaccia a mare hanno fatto ipotizzare un secondo ingresso direttamente a mare, a<br />

dimostrazione che i naviganti erano tenuti in grande considerazione. Anche un importante tempio<br />

(Tas-silg) a Malta presenta la stessa caratteristica.<br />

Fig. 92 Malta, Tas silg<br />

Il tempio <strong>del</strong>l’area F è stato individuato da Barreca nel 1958 ma fu scambiato per una torre di<br />

fortificazione, mentre la lettura cultuale, santuariale, è degli anni Novanta. È una struttura mal<br />

261


conservata, riferita al VI a.C. costituita da una rampa che conduce ad una terrazza sopraelevata.<br />

C’è una cella mediana con in opera dei grandi blocchi squadrati riferiti ad un edificio precedente. Al<br />

centro si trova un altare, sede <strong>del</strong>le pratiche cultuali. Il ritrovamento di tessere mosaicali ha fatto<br />

ipotizzare che il pavimento fosse ricoperto da mosaici. Dalla struttura non provengono materiali<br />

ceramici e non sappiamo quale culto fosse praticato, è stata fatta solo un’analisi tipologica: l’unico<br />

edificio che somiglia a questo di Nora è quello <strong>del</strong>le terrazze cultuali bibliche che si trovano in<br />

ambiente israelitico e non in Libano.<br />

La necropoli si trova in area militare e quindi, essendo l’accesso interdetto, non abbiamo<br />

indicazioni se non per uno scavo fatto a fine Ottocento. Si praticavano <strong>del</strong>le trincee e quando si<br />

finiva lo scavo si ributtava la terra negli scavi. Sono dunque state risparmiate vaste zone non<br />

scavate e in futuro si potrà forse indagare la zona.<br />

Non sappiamo dove fosse ubicata la necropoli mediterranea. L’unico ritrovamento fu scambiato per<br />

una tomba romana. Si tratta di una cista litica a lastre giustapposte con dentro un’olla e un corredo<br />

funerario con brocca e unguentario. La maggior parte <strong>del</strong>le tombe puniche di Nora sono a pozzo<br />

non profondo con una nicchia che si allarga sul fondo per ospitare il defunto. Risulta documentata<br />

anche una tomba a camera in fondo ad un pozzo verticale. Sopra l’ingresso c’era un simbolo<br />

astrale, una falce lunare con disco solare. In un’altra area si trovano <strong>del</strong>le inumazioni infantili con<br />

tombe ad enchitrismos.<br />

Il tophet fu la prima area mediterranea ad essere individuata a Nora. A causa di una mareggiata<br />

nel 1889 si scoprì il santuario, e si iniziò uno scavo a trincee in un’area attualmente privata. Fu il<br />

primo tophet scoperto nel Mediterraneo ma si interpretò come necropoli ad incinerazione. Solo<br />

quando fu individuato il tophet di Cartagine, nel 1921, fu riletto il ritrovamento e si capì che si<br />

trattava di un tophet. Al momento <strong>del</strong>la scoperta restituì 220 urne e 157 stele in arenaria, datate fra<br />

VI e IV a.C., <strong>del</strong>le quali solo 83 furono portate ai musei di Cagliari e Nora. Le altre furono sotterrate<br />

vicino alla chiesa ma sono state trafugate e in parte utilizzate per costruire la sacrestia <strong>del</strong>la chiesa<br />

stessa. Questa scoperta è stata fatta negli anni Ottanta, in occasione di un restauro. Le urne, pur<br />

essendo state ritrovate a gruppi vicino alle stele, non si è riusciti a ricollegarle alle stele stesse<br />

nonostante il terreno vergine e il numero pressoché uguale. Generalmente la proporzione è molto<br />

a svantaggio per le stele, come ad esempio a Tharros dove per 5000 urne sono state rinvenute<br />

solo 300 stele. A Nora sono attestati prevalentemente simboli aniconici (betili e idoli a bottiglia).<br />

Il tempio di Antas<br />

Si trova sul territorio di Fluminimaggiore in piena area mineraria e non presenta insediamenti vicini.<br />

Fu ricostruito di sana pianta negli anni Settanta. Le fonti letterarie classiche lo descrivono ed è<br />

stato oggetto di problemi storici e archeologici risolti solo negli anni Cinquanta. In particolare<br />

Tolomeo e l’Anonimo Ravennate, citano un tempio <strong>del</strong> Sardus Pater che non si riusciva ad<br />

262


individuare. Si cercava soprattutto nelle zone di Capo Pecora e Capo Frasca, in strutture che poi si<br />

sono rivelate ville romane.<br />

Fig. 93 Antas, il tempio<br />

Il tempio di Antas era conosciuto ma non si pensava fosse proprio quello <strong>del</strong> Sardus Pater. Si<br />

individuarono <strong>del</strong>le iscrizioni nell’epistilio ma erano relative all'iscrizione dedicatoria <strong>del</strong>le Terme di<br />

Caracalla. Non erano sufficienti per classificare il tempio, e si pensava che la struttura fosse riferita<br />

ad una città romana, forse Metalla. Si è arrivati ad una prima identificazione nel 1954, quando una<br />

laureanda trovò un frammento <strong>del</strong>l’epistilio che aiutò ad interpretare l’iscrizione. Nel 1967 fu trovato<br />

un altro pezzo nella campagna di scavo promossa dall’Università “La Sapienza” di Roma. Questo<br />

scavo ha portato alla luce un basamento circondato da una serie di elementi. Nel 1974 hanno<br />

ricostruito la parte anteriore <strong>del</strong>la facciata e hanno lavorato blocchi nuovi per adattare la struttura.<br />

Tutti questi lavori riguardano il tempio romano perché quello punico si trova davanti all’ingresso.<br />

A circa 200 m dal tempio si trova un villaggio nuragico <strong>del</strong> Bronzo Medio, ma l’area <strong>del</strong> tempio non<br />

è sede di una frequentazione prima <strong>del</strong> Ferro, intorno agli inizi <strong>del</strong> IX a.C. Nel 1981 Ugas ha<br />

scavato tre tombe nuragiche a pozzetto, allineate, profonde circa 40 cm, di forma circolare e con<br />

un diametro di circa 80 cm. Nella prima venne individuato un inumato con un corredo composto da<br />

una perlina in bronzo e due vaghi in oro; nella seconda non c’era defunto ma solo un vago in<br />

cristallo di rocca, ed è stata interpretata come cenotafio (monumento funerario a ricordo di un<br />

personaggio sepolto altrove); nella terza tomba c’era un inumato dolicomorfo (molto alto) in<br />

ginocchio, un bronzetto e numerosi oggetti d’ornamento in pasta vitrea, argento, cristallo di rocca e<br />

un anello. Il bronzetto ha influenze orientali.<br />

Successivamente, intorno al 500 a.C., abbiamo l’impianto <strong>del</strong> tempio punico, costituito da muri<br />

realizzati con schegge cementate con malta di fango e pavimento in calcare e pietrame. Presenta<br />

263


tre gole egizie ma ci manca la fase arcaica. Secondo Barreca il tempio punico avrebbe visto due<br />

fasi. Nella prima ci sarebbe stato un grande recinto quadrato con un edificio di culto di forma<br />

rettangolare che custodiva al centro una roccia sacra, citata in una iscrizione scoperta<br />

recentemente nell’area, circondata da un muretto di protezione. In prossimità <strong>del</strong>la roccia sacra<br />

sono stati trovati resti di fuochi e resti ossei che dimostrano l’adozione di pratiche cultuali. Intorno<br />

al 300 a.C. l’area posteriore <strong>del</strong> tempio sarebbe stata suddivisa in due da un muretto e sarebbe<br />

stato cambiato l’ordine architettonico utilizzato, nel senso che l’ordine dorico <strong>del</strong>le colonne sarebbe<br />

stato sormontato da gole egizie. Questa ricostruzione di Barreca è dovuta al fatto che le gole<br />

egizie sono state ritrovate riutilizzate nel tempio romano.<br />

Bernardini capovolge completamente le ipotesi di Barreca: in un articolo divulgativo sostiene che il<br />

recinto non è punico, perché è impiantato sopra strati di deposito romano, e che l’altare in realtà è<br />

la copertura di una sepoltura, invisibile perché posizionata sotto la struttura. Inoltre sostiene che il<br />

tempio punico si trova sotto quello romano ma per verificare questa ipotesi si dovrebbe smontare<br />

tutto per cercarlo.<br />

Ci sono alcune iscrizioni che si riferiscono al tempio punico, come ad esempio la scritta Sid Addir<br />

Bab, e si è ipotizzato che il culto fosse svolto non solo da semplici fe<strong>del</strong>i ma da funzionari, come se<br />

si trattasse <strong>del</strong> tempio ufficiale di Cartagine, una sede centrale presso la quale arrivavano fe<strong>del</strong>i e<br />

funzionari da tutte le città puniche. Gli amuleti ritrovati costituiscono un problema per la<br />

ricostruzione storica di Antas perché nel mondo punico gli amuleti sono caratteristici <strong>del</strong>l’ambito<br />

funerario. Erano oggetti <strong>del</strong>la vita quotidiana che venivano deposti insieme al defunto. Solo a Kition<br />

(Cipro) abbiamo un tempio nel quale sono stati ritrovati amuleti. Fra gli altri oggetti rinvenuti ci sono<br />

dei piccoli giavellotti in bronzo, una testina maschile in osso, teste in marmo di produzione greca,<br />

numerose monete, caducei in bronzo, amuleti, oggetti in oro e altri manufatti che dimostrano un<br />

livello di benessere molto alto dei fe<strong>del</strong>i che frequentavano questo tempio.<br />

Le tracce di fuoco dimostrano che la struttura fu distrutta brutalmente e anche gli oggetti votivi<br />

furono frantumati intenzionalmente.<br />

Dopo la fase punica c’è un reimpianto <strong>del</strong> tempio in età augustea, lo dimostrano alcune terrecotte<br />

architettoniche, come i gocciolatoi a testa di leone, che ci fanno capire che il tempio fu ricostruito<br />

nel I a.C. Una moneta che riporta l’immagine e la dizione <strong>del</strong> “Sardus Pater” <strong>del</strong>l’epoca di Azio<br />

Balbo, parente di Augusto, che fu pretore di Augusto in Sardegna nel 59 a.C. venne battuta al<br />

conio fra il 39 e il 19 a.C., quindi il vecchio tempio <strong>del</strong> Sid Addir Bab fu trasformato in tempio <strong>del</strong><br />

Sardus Pater.<br />

Un’ultima trasformazione è <strong>del</strong> 213 d.C. sotto Caracalla quando il tempio, come indica chiaramente<br />

l’iscrizione nell’epistilio, venne restaurato e sistemato dall’imperatore Caracalla.<br />

Ricapitolando si potrebbe dire che in età nuragica c’era un culto riferito a Sid Addir Bab, ripreso in<br />

età punica e poi trasformato in Sardus Pater in età romana. Manca completamente la fase<br />

mediterranea fra l’VIII e l’inizio <strong>del</strong> V a.C. Finora il tempio di Antas è l’unico tempio dedicato a Sid<br />

in tutto il Mediterraneo.<br />

Chi è Sid? Si tratta di una divinità secondaria. Nel mondo semitico sono noti molti nomi teofori,<br />

cioè che contengono all’interno il nome <strong>del</strong>la divinità. Ad esempio Amilcare significa Ab Melqart,<br />

264


servo di Melqart. Anche i nomi ebraici che finiscono in “Ele” come Gabriele, Emanuele, Raffaele,<br />

Michele hanno la radice che significa Dio. La divinità Sid, che significa potente, è a volte associata<br />

con Tanìt e altre volte con Melqart, ma ad Antas è da sola. Un altro significato di Sid è “cacciare”, e<br />

in questo caso i giavellotti in bronzo possono essere ben inseriti in un culto al Dio <strong>del</strong>la caccia.<br />

Secondo il Garbini Sid avrebbe il significato di “fondatore”.<br />

Chi è Bab? Pare si riferisca ad una divinità nuragica, Babbai, che indicherebbe un’assimilazione ad<br />

una divinità paterna. In semitico padre si dice Ab, così come ipotizzato da Ferron il quale afferma<br />

che Babai sarebbe da riferire appunto alla radice semitica Ab<br />

La distruzione <strong>del</strong> tempio ha creato problemi fra studiosi. C’è chi parla dei romani o chi dice siano<br />

stati i mercenari di Cartagine in occasione <strong>del</strong>la rivolta <strong>del</strong> 241 a.C. L’esercito cartaginese era<br />

composto da mercenari e, poiché Cartagine non rispettò i patti monetari, si ribellarono molti dei<br />

componenti <strong>del</strong>le varie truppe dislocate nell’isola: iberici, sardi, siciliani, italici, libici e balearici<br />

chiamarono in aiuto Roma e determinarono la perdita <strong>del</strong>la Sardegna da parte di Cartagine.<br />

Il tempio di Antas era strategico ed era simbolo <strong>del</strong>la potenza di Cartagine sull’isola perché questa<br />

aveva bisogno di due cose fondamentali dalle colonie per affermare la supremazia e per tenere in<br />

armi l’esercito: i metalli e le risorse agricole (orzo e grano). Il fatto che Cartagine avesse costruito<br />

un tempio per il culto ufficiale proprio ad Antas dimostra che le risorse minerarie recitarono un<br />

ruolo importante. In sostanza i mercenari distrussero il tempio perché era il simbolo <strong>del</strong>la potenza<br />

cartaginese e vollero cancellarne il ricordo.<br />

Cagliari<br />

Gli scavi dal dopoguerra a oggi hanno modificato radicalmente la visione <strong>del</strong>la città di Cagliari.<br />

L’insediamento arcaico si posiziona nell’area <strong>del</strong>la città-mercato di Sant’Avendrace e S. Gilla e<br />

<strong>del</strong>la vicina centrale elettrica, nella piana compresa fra lo stagno e la zona di Tuvixeddu. Ai bordi di<br />

questo piccolo promontorio si situava il porto, oggi completamente coperto dai fanghi derivanti dal<br />

disinquinamento di S. Gilla. Il porto era lagunare, quello attuale è romano. Un primo insediamento<br />

mediterraneo era ubicato a Sa Illetta, nella collinetta attualmente occupata da Tiscali, ma non sono<br />

mai stati pubblicati scavi. È probabile che qui fosse presente un villaggio nuragico, come farebbe<br />

pensare qualche frammento ceramico <strong>del</strong> Ferro. Quindi anche per Cagliari, come abbiamo<br />

riscontrato in altri luoghi, il primo insediamento arcaico, fine VIII a.C. avviene, in un ambito<br />

nuragico.<br />

Non sappiamo ancora quando si passa alla vera e propria struttura urbana, ma l’ampiezza e la<br />

qualità <strong>del</strong>la necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu, fanno pensare che già alla fine <strong>del</strong> VI a.C.,<br />

l’insediamento abbia acquisito lo status urbano. Anche se è molto probabile che si debba risalire<br />

ancora nel tempo. Purtroppo la città moderna occulta molto.<br />

Il promontorio <strong>del</strong>la città mercato-centrale elettrica doveva ospitare il tempio di Melqart, attestato<br />

da un’iscrizione e da una statua di Bes, oggi al Museo; Bes è normalmente associato a Melqart.<br />

L’abitato è stato rinvenuto nelle vie contigue, Brenta, Po, Simeto ecc. I limiti erano dati dal tophet,<br />

265


nell’area <strong>del</strong>le ferrovie e dal tempio di Eshmun rinvenuto (ed è visibile) sotto l’agenzia viaggi<br />

Orofino davanti alla chiesa <strong>del</strong>l’Annunziata.<br />

In un qualche momento tra VI e IV sec. a.C. una seconda necropoli con tombe a camera è<br />

localizzata nella collina di Bonaria, collegata, probabilmente, con un secondo centro, periferico, o<br />

meglio, satellite, legato a uno scalo portuale, da collocarsi a San Bartolomeo e connesso con lo<br />

sfruttamento <strong>del</strong>le saline. Oggi il tutto è stato colmato e al di sopra hanno costruito il quartiere e lo<br />

stadio di Sant’Elia.<br />

A partire almeno dalla fine <strong>del</strong> IV sec. a.C. si forma un quartiere satellite testimoniato da una terza<br />

necropoli, nella via Regina Margherita e collegata, secondo me, alla necessità di spostare il porto<br />

dall’area di S. Gilla ormai irrimediabilmente impaludata all’attuale collocazione in mare aperto. Non<br />

a caso questa necropoli proseguirà in piena età romana come attestano gli straordinari recenti<br />

scavi nella Scala di Ferro, e la stranota necropoli dei marinai <strong>del</strong>la flotta di Miseno. La singolarità di<br />

Cagliari rispetto alle altre città sarde è proprio questo spostamento. Infatti la vecchia sede urbana<br />

di Santa Gilla resta in vita sino agli inizi <strong>del</strong> II sec. a.C., in età romano-repubblicana. In questo<br />

momento la città si sposta definitivamente nell’attuale centro, con fulcro in quello che sarà il foro,<br />

Piazza Carmine, sotto la protezione di un nuovo tempio, quello di via Malta, dietro le poste,<br />

dedicato a Venere e Adone, e realizzato da quella che ora è la comunità mista punico-romana.<br />

Tant’è che il tempio è effigiato in una moneta romana emessa dai due suffeti <strong>del</strong>la città, Aristo e<br />

Mutumbal.<br />

Altre tracce puniche si trovano in Castello, nei pressi <strong>del</strong>la Citta<strong>del</strong>la dei Musei, dove era edificata<br />

l’acropoli, ma le tracce si limitano ad una cisterna a bagnarola e qualche muretto. La stratigrafia è<br />

difficile da studiare perché Cagliari è fortemente urbanizzata molti metri sopra i resti <strong>del</strong> <strong>passato</strong>. A<br />

Capo Sant’Elia è stato identificato un tempio, riferito ad età tardo punica e, grazie ad un’iscrizione,<br />

è stato assegnato ad Astarte. La necropoli si trova alle spalle <strong>del</strong>l’abitato, come a Cartagine, sulla<br />

collina di Tuvixeddu. Da questo momento la città si estende nei quartieri di Stampace e Marina.<br />

Castello in realtà non restituisce resti di acropoli come riteneva Barreca, ma, sinora situazioni o<br />

civili o, forse di culto; non è escluso che potesse esserci un tempio. Ma siamo già decisamente<br />

fuori <strong>del</strong>la città. L’anfiteatro doveva segnarne i limiti.<br />

266


Il Golfo di Oristano<br />

Fig. 94 Cagliari, le tombe parallelepipede a pozzetto di Tuvixeddu<br />

Fu importante in età mediterranea e punica per le risorse agrarie e come via di accesso dal mare<br />

verso l’interno. Era controllato da tre città: Neapolis a sud, nel territorio di Guspini, Othoca al<br />

centro, nel territorio di Santa Giusta e Tharros a nord nel territorio di Cabras. Neapolis significa<br />

città nuova e Othoca indica città vecchia. La città più antica sarebbe Othoca, risalente al VIII a.C.,<br />

poi Tharros e infine Neapolis dopo la conquista cartaginese. Ultimamente a Neapolis sono stati<br />

recuperati materiali <strong>del</strong>l’VIII a.C. e quindi anche questo centro potrebbe essere una fondazione<br />

mediterranea. Erano tre città indipendenti in seguito controllate da Cartagine.<br />

267


Othoca<br />

Fig. 95 Tharros<br />

Si trova in corrispondenza <strong>del</strong> bacino lacustre <strong>del</strong>l’attuale Santa Giusta. Le ultime ricerche hanno<br />

arricchito i ritrovamenti nonostante il centro moderno sia sorto sopra il vecchio insediamento, che<br />

era sotto l’attuale Basilica di Santa Giusta, l’unico rilievo che svetta sulla piana. Sotto la cripta <strong>del</strong>la<br />

chiesa sono state individuate negli anni Novanta <strong>del</strong>le strutture in parte attribuite ad età nuragica<br />

(quelle curvilinee), e in parte ad età punica (quelle rettilinee che si incontrano ad angolo retto).<br />

Nell'abitato, sulla collina dove si trova la basilica di Santa Giusta, ci sono tracce puniche, forse<br />

l'Acropoli. Nella zona <strong>del</strong> sagrato c'è una cortina muraria a doppio paramento con blocchi<br />

poligonali in basalto. All'esterno c'è un fossato e, fuori contesto, ci sono materiali arcaici (VIII a.C.)<br />

Nella stessa area, sotto la cripta, sono documentate strutture nuragiche di un villaggio e altre con<br />

materiali di età ellenistica (III a.C.). A fine 1800 sono stati trovati alcuni carnofòiri (bruciatori) con<br />

testa femminile, dedicati a Demetra, un culto introdotto in tarda età e proveniente dalla Sicilia. In<br />

via Foscolo è stato trovato un muro a L con blocchi di basalto attribuito alle fortificazioni arcaiche,<br />

come il muro <strong>del</strong> sagrato. Gli scavi degli anni Novanta nella parte settentrionale <strong>del</strong>l’abitato hanno<br />

permesso di individuare <strong>del</strong>le strutture che forse si riferiscono a fortificazioni o ad abitazioni. C’è<br />

stata continuità d’uso fino al medioevo e ciò che conosciamo meglio è la necropoli, ubicata nella<br />

zona sud di Santa Giusta, in corrispondenza <strong>del</strong>la chiesa romanica di Santa Severa, lungo la via<br />

principale. Già nell’Ottocento furono scavate un gran numero di tombe, ma i materiali sono stati<br />

prevalentemente venduti. Solo pochi reperti sono stati esposti nei musei. Nel 1910, in occasione<br />

<strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong>l’edificio <strong>del</strong>l’ex genio civile, vennero individuate una serie di sepolture e nel<br />

268


1984 sono riprese le indagini quando, nel corso <strong>del</strong>la sistemazione <strong>del</strong> giardinetto <strong>del</strong>la chiesa di<br />

Santa Severa, la ruspa intercettò una grande tomba mediterranea a camera, costruita sul fondo di<br />

una fossa a 4 metri di profondità. Furono utilizzati grandi blocchi in arenaria perché il materiale<br />

litico non è presente a Santa Giusta, infatti il territorio è una piana alluvionale. É una tomba<br />

ricchissima, con oltre cento manufatti ceramici punici e di importazione, un piatto attico, gioielli,<br />

amuleti e strigi (strumenti in ferro ricurvi di tradizione greca utilizzati per detergere e cospargere<br />

d’olio gli atleti che partecipavano a giochi o frequentavano le palestre). Già qualche decennio fa fu<br />

trovata una tomba simile, dalla quale furono prelevati tanti materiali, in parte dispersi, ma quella<br />

tomba non è più stata rintracciata. Il pavimento è in lastre, i paramenti murari presentano <strong>del</strong>le<br />

nicchie e la copertura è costituita da 4 lastre poste di piatto. La tomba è stata in uso dal VII a.C.<br />

fino al IV d.C. ma alcuni studiosi ritengono che sia punica, visto che i materiali si datano<br />

prevalentemente dal V a.C. Il modulo d’accesso è scavato nel bancone alluvionale ma la forma<br />

<strong>del</strong>l’ingresso non è chiara perché la tomba risulta aperta più volte. Furono rinvenute <strong>del</strong>le pitture<br />

che purtroppo sono svanite poche ore dopo l’apertura a causa <strong>del</strong>la luce e <strong>del</strong>l’aria che hanno<br />

rovinato velocemente l’intonaco non più sigillato. Pare ci fosse la rappresentazione di un cane e di<br />

un simbolo astrale colorato di nero. Le deposizioni erano ad inumazione, ad eccezione di<br />

un’incinerazione deposta all’interno di un’urna cineraria romana.<br />

Nella stessa area, vicino alla chiesa, sono venute fuori tante tombe ma altre si trovano sotto le<br />

costruzioni attuali. La maggior parte sono mediterranee e romane perché probabilmente la<br />

necropoli punica è ubicata in un’altra zona. Le più antiche, <strong>del</strong> VII a.C., sono a fossa ad<br />

incinerazione secondaria con corredo formato da brocche panciute. Sono sempre coperte da lastre<br />

in arenaria sovrapposte. Il corredo è completato da brocche con orlo a fungo, coppe proto-corinzie,<br />

brocche trilobate, piatti, pentole ed elementi etruschi come i buccheri. In associazione ci sono<br />

oggetti d’ornamento e oggetti di importazione: anelli in argento, scarabei, amuleti e vaghi. A Santa<br />

Giusta è documentata anche l’incinerazione primaria, si nota dalla lunghezza e dalle tracce di<br />

bruciato, nonché dall’argilla <strong>del</strong>le pareti interne che risulta vetrificata dal calore. In due casi<br />

abbiamo tombe a cista litica con lastre poste a coltello, verticalmente. La maggior parte <strong>del</strong>le<br />

tombe sono <strong>del</strong> VI a.C. Le urne sono composte da vasi, a volte tagliati, con all’interno le ossa, il<br />

piatto e il pentolino. In qualche caso i sarcofagi punici sono andati a finire trasversalmente a<br />

precedenti tombe mediterranee, a dimostrazione <strong>del</strong>la frequentazione assidua <strong>del</strong>la zona. Le<br />

tombe puniche, quelle a partire dal V a.C., presentano prevalentemente dei sarcofagi. In un caso è<br />

stata rinvenuta una punta di lancia. Un grande sarcofago punico, lungo oltre due metri, è stato<br />

riutilizzato dai romani come luogo di incinerazione <strong>del</strong> defunto, si nota dalle bruciature laterali. I<br />

materiali presenti nel sarcofago sono stati spostati all’esterno per fare posto alle ossa <strong>del</strong> romano e<br />

al suo corredo.<br />

Ci sono anche tombe infantili ad enkitrismos con corredo di braccialetti e altri materiali.<br />

A Santa Giusta l’incinerazione è arrivata prima <strong>del</strong> resto <strong>del</strong>la Sardegna, con tracce risalenti al VI<br />

a.C., forse a segnalare che l’influenza cartaginese arrivò precocemente. Questa ipotesi è<br />

rafforzata dalla presenza, in una tomba <strong>del</strong> VI a.C., di un rasoio, strumento tipico dei cartaginesi<br />

non presente in ambito mediterraneo arcaico.<br />

269


In epoca romana si passò all’incinerazione entro urne formate da semplici pentole con coperchio,<br />

mentre più rare sono le tombe ad inumazione.<br />

Dal 2005 sono iniziate le indagini subacque nello stagno. Già nel corso di scavi precedenti erano<br />

state ripescate <strong>del</strong>le anfore mediterranee e puniche con all’interno resti ovi-caprini di ossa<br />

macellate ma la soprintendenza ha deciso di approfondire l’indagine. I materiali erano sparsi in una<br />

vasta area e si è deciso di montare il cantiere in un’area limitata a 60 x 60 m, con <strong>del</strong>le maglie di<br />

13 m di lato, per scendere in profondità. Purtroppo l’acqua non è limpida e solo di mattina si sono<br />

potute fare <strong>del</strong>le foto che hanno evidenziato la situazione. Con una pompa è stato asportato il<br />

sedimento e si è grigliato il materiale. La situazione archeologica ha mostrato la dispersione dei<br />

manufatti e si è notato che sotto un primo strato di fango di circa 50 cm c’erano decine di anfore<br />

sotto le quali si trovava uno strato di conchigliette. Sotto le conchiglie c’era un altro strato di fango<br />

e sotto di questo sono stati rinvenuti numerosi legni (di imbarcazioni e forse di qualche struttura),<br />

alcuni curvi e altri bruciati. Se i legni fossero rimasti in mare non si sarebbero conservati ma in<br />

questo caso la fauna ignivora non era presente perché gli strati erano sedimentati nel fango.<br />

All’interno <strong>del</strong>le anfore c’erano resti di animali, pesci e derrate alimentari: semi di uva, pigne intere,<br />

pinoli, semi di ciliegie, nocciole, olive, mandorle e altro. L’interpretazione di questo straordinario<br />

giacimento distante 600 m dalla riva pone problemi di natura morfologica perché sappiamo che il<br />

mare si è innalzato di oltre 2 metri negli ultimi 3500 anni e non sappiamo come fosse conformata la<br />

linea di costa. Certamente i materiali sono stati sepolti al massimo nel giro di qualche giorno,<br />

altrimenti le genti <strong>del</strong> luogo li avrebbero recuperati. Probabilmente si trattò di un evento alluvionale<br />

che ha provocato lo straripamento <strong>del</strong> Tirso con conseguente trascinamento dei materiali a valle.<br />

Forse una nave carica di anfore è affondata ed è stata portata lì dalla corrente. I materiali, venuti a<br />

contatto con il mare, non sono stati recuperati. Il contenuto <strong>del</strong>le anfore attesta attività di<br />

allevamento e di conservazione <strong>del</strong> pesce. Solo in Sardegna ci sono quel tipo di anfore e siamo<br />

dunque certi che la zona, in quell’epoca, svolgeva un ruolo economico importante. Solo a Olbia<br />

sono state trovate anfore con pesce, ma nella maggior parte degli scavi si trovano resti animali.<br />

Questo recentissimo ritrovamento è importante anche per conoscere la situazione faunistica di<br />

quel periodo, il VII a.C., perché si potrebbero datare i reperti entro un margine di 25 anni e scoprire<br />

razze che oggi sono estinte. Nel Mediterraneo sono stati trovati due relitti di navi antiche cariche di<br />

merci: una in Spagna, esposta al museo di Cartagena, e l’altra a Marsala. Con i ritrovamenti di<br />

Othoca si è scoperto che nelle anfore <strong>del</strong>le navi venivano trasportati, oltre il vino e l’olio, anche<br />

molti altri generi alimentari.<br />

Neapolis<br />

Si trova all'estremità sud <strong>del</strong> Golfo di Oristano, nel territorio di Guspini. C’era un porto ma<br />

sappiamo poco <strong>del</strong>la città perché gli scavi sono vecchi (Spano nell’Ottocento) e mostrano elementi<br />

romani mentre <strong>del</strong>l'età punica abbiamo poco. Si pensava che Neapolis fosse di fondazione<br />

cartaginese intorno al 300 a.C., “città nuova” in opposizione a Othoca “città vecchia”, basandosi su<br />

un frammento di 15 cm trovato in superficie riferito ad un vaso ma Bartoloni ha ipotizzato che il<br />

270


pezzo appartenesse a un sarcofago filisteo, anche se è molto piccolo. Il centro poteva riferirsi ad<br />

un fondaco pre-coloniale, infatti la frequentazione è sicuramente antica. Lo Spano descriveva un<br />

circuito murario arcaico curvilineo a blocchi sbozzati e altri conci di età punica. Lilliu ha scavato<br />

negli anni Cinquanta portando alla luce gli impianti termali. Gli ultimi scavi mostrano un altro<br />

elemento: la presenza di materiali fuori contesto <strong>del</strong> VIII a.C. che stravolgono ciò che era riportato<br />

nei testi: il golfo era controllato da tutti e tre i centri. Non sono state individuate ancora strutture ma<br />

gli scavi procedono. Le indagini superficiali hanno documentato anche manufatti attici <strong>del</strong> V-IV a.C.<br />

di buona fattura, con vasi di pittori importanti di Atene, quasi ci fosse un rapporto privilegiato fra le<br />

due città. Si parla anche di nome greco <strong>del</strong>la città già dall'origine. Neapolis è nota anche per un<br />

lotto di terrecotte rinvenute da Zucca che ha ipotizzato la città come porto di arrivo <strong>del</strong>le merci che<br />

poi venivano smerciate. Erano nella favissa di un santuario salutifero <strong>del</strong> IV-III a.C. Esistono vari<br />

santuari di questo tipo: sono caratterizzati dalla presenza di terrecotte fatte a mano che<br />

rappresentano figure umane che si toccano le parti dolenti <strong>del</strong> corpo, quindi edifici costruiti per le<br />

dediche dei malati. All'interno sono state trovate anche rappresentazioni fittili anatomiche di<br />

gambe, mani e piedi che si aggiungono alle statuette realizzate al tornio in epoca punica ed<br />

esposte al museo di Sardara. Sono tutte diverse, realizzate con la tecnica a mano <strong>del</strong> pastillàge.<br />

Le statuette ci danno indicazioni sulle patologie <strong>del</strong>l'epoca e una <strong>del</strong>le malattie più diffuse era<br />

sicuramente il tracoma agli occhi.<br />

Tharros<br />

Il testo di Acquaro su questo importante centro è completo e ne consiglio la consultazione.<br />

A Tharros abbiamo la città punica e la città romana ma la Tharros mediterranea non si capisce<br />

dove fosse ubicata. Iniziamo con le due necropoli: quella settentrionale posta nel villaggio di San<br />

Giovanni, e quella meridionale. Tutti i musei <strong>del</strong> mondo hanno migliaia di reperti mediterranei e<br />

punici provenienti dalle tombe di Tharros. Non sappiamo se le due necropoli servissero due centri<br />

diversi. Della città mediterranea ci sono il tophet e qualche tomba. La necropoli meridionale è<br />

molto estesa e fu saccheggiata nell’Ottocento. Fino a qualche anno fa si pensava che la necropoli<br />

mediterranea fosse piccola e si trovasse presso la Torre Vecchia, mentre la necropoli punica<br />

doveva essersi estesa nell’area circostante ma gli ultimi scavi hanno dimostrato che non è così. Le<br />

tombe arcaiche sono di due tipi: a fossa e a cista litica. In molte di quelle a fossa ci sono tracce di<br />

bruciato e abbiamo incinerazione primaria. Altre, più piccole, sono a deposizione secondaria.<br />

L’unica tomba mediterranea documentata nella necropoli meridionale è stata trovata a filo con una<br />

tomba punica, quindi i punici conoscevano l’esatta ubicazione <strong>del</strong>le tombe fenicie e scavavano le<br />

loro a filo, rispettando le precedenti. La tomba mediterranea a fossa era coperta con lastre di<br />

arenaria cementate con argilla. Sotto le lastre la deposizione era ad incinerazione secondaria con<br />

il corredo costituito dalla brocca con orlo a fungo, il piatto e la pentola. Nell’Ottocento il Pais<br />

segnalò una tomba a cista litica.<br />

In età punica ci sono due tipi di tombe: a fossa parallelepipeda e a camera. Le prime erano<br />

scavate nella roccia e coperte da lastre, a volte inserite in riseghe scavate in alto e cementate con<br />

271


argilla. Quelle a camera occupavano il terreno in profondità, mentre negli spazi liberi si alternavano<br />

quelle a fossa che erano più superficiali. Il modulo di accesso era a dromos, con scale che nella<br />

fase più antica occupavano tutto il lato breve, mentre nelle tombe più recenti si limitavano ad una<br />

fascia, come quelle africane. Un unicum è costituito da una tomba che ha la scala al centro. Dopo<br />

la deposizione <strong>del</strong> defunto l’ingresso veniva sigillato con una lastra cementata con argilla e il<br />

dromos <strong>del</strong>la tomba veniva riempito di terra. Le camere sono piccole, spesso con <strong>del</strong>le nicchie<br />

sulle pareti laterali e i pavimenti si trovano a livello più basso <strong>del</strong> dromos. In molti casi ci sono <strong>del</strong>le<br />

linee dipinte in ocra rossa, come le tombe africane e una cinquantina di Cagliari. Come a<br />

Kerkouane, vi sono <strong>del</strong>le tombe che sono state intercettate dal dromos di altre tombe costruite<br />

successivamente. In questi casi veniva ricostruito il paramento murario <strong>del</strong>la tomba. Il dromos<br />

veniva ultimato prima di costruire la camera perché ci sono casi in cui è completo ma la camera<br />

non è stata costruita perché avrebbe distrutto la tomba adiacente. Gli scavi hanno evidenziato<br />

tantissimi cippi funerari. La necropoli settentrionale è simile dal punto di vista tipologico a quella<br />

meridionale e sono state trovate anche qui <strong>del</strong>le tombe fenicie integre, scavate nella sabbia<br />

anziché nella roccia, coperte con lastre e il rito di sepoltura prevedeva l’incinerazione primaria. La<br />

necropoli è stata depredata ma le tracce hanno restituito dei materiali interessanti che mostrano<br />

tombe puniche con dentro materiali mediterranei. Anche questa potrebbe essere una prova <strong>del</strong>la<br />

precoce penetrazione da parte dei cartaginesi, già intorno al 680-650 a.C.<br />

Olbia<br />

É una città punica fondata nel IV a.C. ma presenta tracce più antiche. Le fonti greche e latine<br />

(Pausania) parlano di una fondazione attribuita a genti greche guidate da Jolao. Uno dei materiali<br />

più interessanti rinvenuti è un simulacro ligneo trovato fuori contesto nell’area di un pozzo sacro.<br />

Negli scavi <strong>del</strong>la città più volte sono venuti fuori materiali da trasporto greci: anfore ioniche, attiche,<br />

corinzie e coppe ioniche. Tutti questi materiali facevano pensare ad una frequentazione greca <strong>del</strong>la<br />

città, ma negli ultimi 5 anni è stato trovato da Rubens D’Oriano un contesto greco integro con una<br />

grande quantità di materiali mediterranei <strong>del</strong>l’VIII a.C. accompagnati da materiali greci di VII a.C.<br />

L’ipotesi è che la Olbia arcaica sarebbe di fondazione mediterranea nel 740 a.C. e fino al 650 a.C.,<br />

seguì una fase di frequentazione greca fino al 540 a.C. quando la battaglia navale di Alaria per il<br />

controllo <strong>del</strong> Mediterraneo occidentale fra greci, etruschi e cartaginesi, combattuta nelle acque fra<br />

Sardegna e Corsica e persa da tutti i contendenti, pone fine alla frequentazione <strong>del</strong>la città. Dal IV<br />

a.C. abbiamo molti più elementi di datazione. Forse era un emporio e l'impianto <strong>del</strong>la città è<br />

fortificato infatti fino all’Ottocento erano percorribili le mura. Le fortificazioni sono quasi <strong>del</strong> tutto<br />

scomparse, sono visibili solo in pochi punti <strong>del</strong>la città. Si tratta di muri simili a quelli di Lilibeo, con<br />

zoccolo costruito con grandi blocchi di granito, la pietra locale, torri sporgenti e cisterne. La pianta<br />

è trapezoidale con doppio paramento verso nord e ovest, con muro singolo verso il mare. L'area è<br />

quella di Iscia Mariana dove Taramelli mise in luce una struttura complessa con quattro torri<br />

quadrangolari a distanza di 58 m, una <strong>del</strong>le quali con cisterna a bagnarola. La struttura era cinta<br />

272


con blocchi squadrati in granito a doppio paramento con distanza di 4 m: forse un corridoio<br />

percorribile o forse un riempimento per una maggiore resistenza. Un'altra torre è stata individuata<br />

a "idda zonedda" vicino alla stazione.<br />

Il santuario si trova al centro <strong>del</strong>la città dove c'è la chiesa di San Paolo. Essendo un tempio di<br />

Melqart ci fa capire lo spirito con il quale Cartagine fondò le città. Nello scavo <strong>del</strong> 1939 sono stati<br />

rinvenuti grossi blocchi squadrati, non certo di una abitazione, e si pensò ad una struttura pubblica.<br />

Rubens Doriano ha individuato un accesso monumentale, un pavimento a ciottoli e altre strutture<br />

che evidenziano un tempio punico con blocchi isodomi in granito, cementati con malta pozzolana.<br />

Il tempio era dedicato a Eracle per la presenza di un frammento fittile, forse una maschera. Una<br />

equipe di subacquei ha recuperato nel 1990 una testa cava <strong>del</strong> II a.C. rappresentante Eracle, con<br />

la leontè sul capo. È stata riferita ad ambiente di elìte romana che riusciva a far arrivare da Roma<br />

manufatti di fattura elevata. Il manufatto a maschera non è altro che un elemento <strong>del</strong>la testa<br />

recuperata. Quindi un tempio di Melqart (Eracle romano) <strong>del</strong> IV a.C., molto recente dunque. Per<br />

Rubens Doriano c'è un richiamo alle divinità <strong>del</strong>la prima fondazione con spirito coloniale di<br />

Cartagine. Melqart era protettore <strong>del</strong>le fondazioni in aree non controllate direttamente dalla città<br />

fondatrice. Gli ultimi scavi evidenziano una città datata dal IV a.C, non sono documentati strati più<br />

antichi. In sintesi notiamo una progettazione fatta a tavolino con impianto regolare simile a Lilibeo.<br />

Le necropoli sono tre: Funtana Noa, Abba Noa e Joanne Canu. Sono in due aree distinte ma<br />

probabilmente era un’unica grande necropoli che l'urbanizzazione ha diviso. Fu scavata da Doro<br />

Levi, dal 1936 al 1940, quando vennero portate alla luce ben 150 tombe. La maggior parte sono<br />

tombe a camera con modulo d’accesso a pozzo, ma in alcuni casi presentano alcuni gradini alla<br />

base e dei banconi dentro le camere, esattamente come molte tombe africane. Questo dimostra<br />

che la fondazione di Olbia fu resa possibile dalla presenza di coloni venuti dall’Africa che hanno<br />

portato le loro tradizioni. Sono documentate anche tombe a camera con pozzo senza riseghe ma<br />

con gradini alla base come quella di Soùsse, a sud <strong>del</strong>la Tunisia. Ci sono anche banconi di tipo<br />

tunisino-libico per la deposizione <strong>del</strong> corredo. Il sistema di chiusura <strong>del</strong>le tombe è rappresentato da<br />

muretti costruiti con anfore capovolte da trasporto messe in verticale come quelle che troviamo nei<br />

siti tombali nord-tunisini. Quindi un rapporto strettissimo con la madrepatria africana. Troviamo<br />

anche <strong>del</strong>le tombe a fossa con riseghe tagliate a diverse altezze oppure <strong>del</strong>le scalette tagliate su<br />

un lato che non sono documentate in altre aree <strong>del</strong>la Sardegna. La pratica funeraria più diffusa nel<br />

IV a.C., oltre ai primi due tipi, è quella a cassone. Nel III a.C. si diffonde il rito <strong>del</strong>l’incinerazione,<br />

praticata in tombe a cista e a fossa, che sono però più numerose. Per i materiali preziosi abbiamo<br />

la collana di Funtana Noa <strong>del</strong> 350 a.C. che presenta una tecnica particolare: in età punica si usava<br />

la tecnica dove la pasta di vetro era applicata sul nucleo di argilla cruda apposto su un bastoncino.<br />

Sul nucleo, inserito nella pasta di vetro fuso, venivano realizzati i particolari con una pinzetta<br />

applicando gli elementi quando erano caldi. Al raffreddamento si eliminava il nucleo e quindi nella<br />

parte posteriore si vedono le tracce dei fori. Erano più preziosi <strong>del</strong>l’oro ed erano prodotti in varie<br />

aree mediterranee e puniche. C'era uniformità di produzione in base al tempo e contemporaneità<br />

in varie zone, praticamente <strong>del</strong>le mode. Erano trasportati per il commercio anche in ambito celtico.<br />

273


Fig. 96 Tunisia, Tomba a Soùsse<br />

274


Capitolo IX<br />

Rapporti commerciali e temporali nel mondo antico<br />

Scambio, merce, valore<br />

L’area dei paesi prospicienti il Mediterraneo, è stata sin dall’antichità estremamente importante<br />

come sorgente di tutta una serie di materie prime oggetto di coltivazione mineraria, che sono state<br />

una <strong>del</strong>le basi di sviluppo <strong>del</strong>le civiltà. La storia <strong>del</strong>le miniere coincide con la storia <strong>del</strong>le civiltà<br />

umane, non solo nell’area dei paesi che si affacciano direttamente sul Mediterraneo, ma anche di<br />

quelli che con questi commerciavano, consentendone lo sviluppo sia economico che politico e<br />

culturale.<br />

La disponibilità <strong>del</strong>le risorse minerarie è stata una <strong>del</strong>le prime motivazioni dei commerci e <strong>del</strong>le<br />

migrazioni dei popoli, in particolare da quando iniziò l’età dei metalli, la cui utilizzazione è stata il<br />

motore <strong>del</strong>l’incremento <strong>del</strong>le tecnologie e <strong>del</strong>le conoscenze sui materiali. Tuttavia, mineralizzazioni<br />

fonti di materie prime, anche geograficamente lontane tra di loro, possono presentarsi non solo di<br />

aspetto simile, ma esserlo anche dal punto di vista mineralogico e geochimico. Inoltre, al fatto che<br />

alcune <strong>del</strong>le loro caratteristiche possono cambiare durante il processo di fabbricazione, cioè nel<br />

passaggio da materie prime a manufatti, si deve aggiungere anche la necessità che avevano molti<br />

popoli alla miscelazione di metalli non solo di diversa natura per la composizione <strong>del</strong>le leghe,<br />

(come rame e stagno per produrre il bronzo), ma anche <strong>del</strong>lo stesso tipo per riciclare ad altro uso<br />

degli oggetti non più utilizzabili. Nell’intraprendere la descrizione <strong>del</strong>le risorse minerarie <strong>del</strong> bacino<br />

<strong>del</strong> Mediterraneo, è importante comunque effettuare una prima distinzione, e cioè tra risorse<br />

minerarie come vengono considerate oggi, e risorse minerarie che potevano essere considerate e<br />

sfruttate dagli antichi. Questa distinzione è assolutamente cruciale per qualsiasi si studio sulle<br />

provenienze, dal momento che non deve essere considerato solo il metallo in sé stesso, ma il suo<br />

modo di presentarsi, la sua reperibilità e la facilità di coltivazione ed estrazione. Per quello che<br />

riguarda il rame le maggiori concentrazioni economiche di rame nell’antichità erano presenti nelle<br />

zone di Cipro e <strong>del</strong>la Sardegna.<br />

Un problema a parte, ancora oggi estremamente dibattuto, è l’eventuale presenza di quantità<br />

economiche, nelle aree prospicienti il Mediterraneo, di minerali di stagno, che rappresenta l’altra<br />

componente necessaria alla fabbricazione <strong>del</strong> bronzo. Stagno è comunque presente nell’intorno di<br />

Spagna e Portogallo, oltre che nei già ben noti distretti <strong>del</strong>la Bretagna e <strong>del</strong>la Cornovaglia. La<br />

presenza di stagno in Toscana, (mineralizzazioni di Monte Valerio), ed in Sardegna è comunque<br />

estremamente limitata per consentire estrazioni continuate nel tempo e finalizzate alla produzione<br />

di grandi quantità di bronzo. I metalli hanno giocato un ruolo rilevante nello sviluppo <strong>del</strong>la civiltà,<br />

tanto da potersi ritenere che la storia <strong>del</strong>la metallurgia e quella <strong>del</strong>la civiltà siano direttamente<br />

interconnesse: la lavorazione dei metalli, infatti, influenza direttamente l'evolversi di un dato gruppo<br />

umano essendo legata alla produzione di armi, strumenti agricoli, oggetti di culto e <strong>del</strong>la vita di tutti<br />

i giorni.<br />

275


E’ l'incontro tra genti che raccolgono frutti diversi o cacciano differenti animali a creare le condizioni<br />

per uno scambio occasionale. Il baratto e il commercio si sviluppano in regioni a prodotti<br />

differenziati, in cui macchia e spiaggia, foresta e pianura, montagna e vallata si offrono<br />

vicendevolmente prodotti nuovi incoraggiando scambi reciproci.<br />

Il commercio è poco sviluppato quando le condizioni <strong>del</strong>la zona sono cosi uniformi che non c'è<br />

ragione che un distretto scambi beni con un altro. L'origine <strong>del</strong>lo scambio va ricercata, dunque, al<br />

di fuori <strong>del</strong>l'unità sociale primitiva. Predominano, in una fase primitiva, l'aiuto reciproco e la<br />

cooperazione <strong>del</strong> lavoro, che escludono lo scambio. Il servizio di ciascuno alla comunità è stabilito<br />

sulla base <strong>del</strong>l'uso: muta con l'età, il sesso e il grado di parentela. Ma è indipendente dalla ricerca<br />

di una controprestazione che costituisce, invece, la caratteristica essenziale <strong>del</strong>lo scambio. I popoli<br />

che conoscono male la natura, le origini, le condizioni di produzione, l'uso esatto di un prodotto<br />

che ricevono “in cambio” di un altro prodotto, si lasciano governare dall'arbitrio, dal capriccio o dal<br />

caso nella determinazione di questo scambio.<br />

Lo scambio può derivare sia dalla comparsa fortuita di un sovra-prodotto sia da una crisi brusca<br />

<strong>del</strong>l'economia primitiva, (carestia). In ambedue i casi, il gruppo primitivo che conosce l'esistenza<br />

dei gruppi vicini cercherà di stabilire rapporti di scambio sia con mezzi di rapina sia con mezzi<br />

pacifici. L'incontro di due surplus occasionali, diversi per qualità naturali, per utilità, per valore<br />

d'uso, crea le condizioni più normali di un'operazione di scambio.<br />

Quando un gruppo primitivo dispone regolarmente di un surplus di un prodotto qualsiasi, dopo aver<br />

soddisfatto i suoi bisogni di consumo, inizia una serie di operazioni di scambio più o meno regolari.<br />

La determinazione di rigide regole di scambio non è che il punto di arrivo di una lunga transizione<br />

che parte da una situazione in cui lo scambio sporadico viene praticato senza una misura esatta.<br />

Ai due modi di rifornimento di prodotti esteri, (lo scambio e la guerra), corrispondono presso i<br />

gruppi primitivi due forme transitorie di scambio: il dono cerimoniale e il baratto silenzioso. I contatti<br />

tra gruppi primitivi non sono quasi mai tra gruppi di forze eguali. Implicano relazioni al limite<br />

<strong>del</strong>l'ostilità e l'esperienza insegna ai gruppi più deboli che è preferibile fuggire all'avvicinarsi di<br />

stranieri temibili. Insegna a questi ultimi che decimando gruppi più deboli, di cui si desiderino i<br />

prodotti, si rischia di perdere ogni possibilità di procurarseli. Così si stabiliscono rapporti di scambio<br />

regolati convenzionalmente che vengono designati col termine di baratto silenzioso. Il gruppo più<br />

debole depone i prodotti destinati allo scambio in un luogo deserto e sparisce finché l'altra parte<br />

non abbia lasciato i suoi prodotti nello stesso luogo. All'interno di un popolo in una prima fase<br />

mancano i rapporti di scambio.<br />

Il cibo e altri oggetti di prima necessità non vengono scambiati, ma divisi. Esistono doni e regali,<br />

(oggetti preziosi, talismani, ornamenti), che vengono convenzionalmente contraccambiati senza<br />

che si effettui un calcolo preciso di equivalenza. Ma quando i gruppi si allargano e si diffondono su<br />

di un territorio troppo largo per poter essere amministrato sotto una direzione comune, si scindono<br />

in tronconi. Lo scambio di regali, si istituzionalizza, si ripete periodicamente in modo cerimoniale e<br />

si regolarizza. Il cerimoniale esprime rapporti di interdipendenza materiale reale tra questi<br />

sottogruppi, l'uno non potendo sussistere senza l'aiuto <strong>del</strong>l'altro. La pratica <strong>del</strong>lo scambio<br />

cerimoniale può superare i limiti di una tribù ed estendersi. Esprime uno sforzo per stabilizzare<br />

276


apporti pacifici di cooperazione.<br />

Quando i rapporti cerimoniali di scambio di regali e di baratto silenzioso si moltiplicano e si<br />

regolarizzano, elementi sempre più numerosi di misura, di calcolo dei regali scambiati si<br />

introducono nella comunità allo scopo di mantenere l'equilibrio economico. Nella maggior parte dei<br />

casi la misura esatta <strong>del</strong>la controprestazione, ha una funzione preponderante. Le equivalenze<br />

sono persino istituzionalizzate, come appare dal codice di Ammurabi.<br />

Lo scambio sviluppato risulta dall'incontro non più di due surplus fortuiti, ma di un surplus abituale<br />

con altri prodotti. Sia il baratto silenzioso sia il dono cerimoniale possono assumere la forma <strong>del</strong>lo<br />

scambio sviluppato. Nella società primitiva, in cui l'artigiano non ha ancora acquistato la sua<br />

autonomia, può apparire una specializzazione in ragione di particolarità specifiche in un territorio<br />

dato. La tribù che abita un tale territorio può dedicarsi in gran parte alla produzione di questa<br />

specialità e apparire di fronte alle tribù vicine come uno specialista collettivo. Essa produrrà un<br />

surplus considerevole <strong>del</strong> bene in questione e lo scambierà con i prodotti particolari <strong>del</strong>le altre<br />

tribù. La preistoria indica che gli strumenti di lavoro e gli ornamenti sono i primi prodotti suscettibili<br />

di partire in grande quantità da un dato centro di produzione attraverso operazioni di scambio<br />

sviluppato. Già nell'epoca <strong>del</strong>la pietra scheggiata erano state organizzate vere e proprie officine di<br />

strumenti di pietra.<br />

Con il progresso <strong>del</strong>la produttività <strong>del</strong> lavoro e la costituzione di piccoli surplus regolari presso<br />

numerose tribù e popolazioni vicine, questo sistema di specializzazione regionale può allargarsi in<br />

una rete regolare di scambi. Per ciascuna tribù la fabbricazione dei prodotti speciali non<br />

rappresenta che un'attività secondaria <strong>del</strong>la vita economica. Quest'ultima resta essenzialmente<br />

basata sulla raccolta, sulla caccia, sulla pesca e sull’agricoltura, cioè sulla sussistenza. Coloro che<br />

oggi fabbricano vasi, domani devono partire per la caccia o lavorare la terra, se la tribù vuol evitare<br />

di soccombere alla carestia.<br />

Con la rivoluzione neolitica, lo sviluppo <strong>del</strong>l'agricoltura e la costituzione di surplus permanenti<br />

creano la possibilità di uno scambio costante con i popoli che non dispongano ancora di tali<br />

surplus: lo scambio entra in una nuova fase. Gli scambi abbracciano l'insieme dei prodotti di tutta<br />

una regione: fanno la loro comparsa dei mercati locali. Nessun villaggio è più completamente<br />

indipendente da un apporto di prodotto esterni. Numerose comunità dispongono di un surplus di<br />

beni come alimenti, vasi, stuoie o strumenti di legno che, tramite numerosi mercati locali, arrivano<br />

a compratori di altre comunità.<br />

La comunità ben di rado soddisfa tutti i suoi bisogni e il sistema di scambio generalizzato coincide<br />

con gli inizi <strong>del</strong>l'artigianato professionale. Gli artigiani che abbandonano sempre più il lavoro<br />

agricolo ricevono la sussistenza come ricompensa dei loro servizi. Lo scambio all'interno <strong>del</strong><br />

villaggio o <strong>del</strong>la tribù resta dunque rudimentale. Alcuni artigiani ricevono annualmente dalla<br />

comunità <strong>del</strong> villaggio una certa quantità di cibo, di oggetti di vestiario e di ornamenti come<br />

ricompensa <strong>del</strong> loro lavoro globale; altri sono aiutati dai membri <strong>del</strong>la tribù nel lavoro effettuato sui<br />

campi. In entrambi i casi, non si tratta di uno scambio in senso stretto.<br />

Lo scambio generalizzato tra villaggi, tribù, popolazioni diverse si effettua in modo più o meno<br />

collettivo tramite gli stessi produttori, tramite una parte <strong>del</strong>la comunità, (le donne), o tramite i<br />

277


appresentanti <strong>del</strong>la comunità. Non costituisce ancora di per sé un’attività economica specializzata:<br />

dovunque un'industria fosse organizzata in piccole unità artigianali e le merci fossero fabbricate in<br />

piccole quantità o su ordinazione, i produttori e i consumatori potevano trattare reciprocamente<br />

senza l'intervento di un commerciante. Non solo il fabbro o il vasaio <strong>del</strong> villaggio, ma anche il<br />

macellaio o il fornaio <strong>del</strong>le città si vendevano reciprocamente i loro prodotti. Questa situazione si<br />

modifica con la rivoluzione metallurgica. I primi metalli che l’uomo seppe utilizzare, il rame e lo<br />

stagno, non si trovano in tutti i paesi, e soprattutto non in quelli che, grazie all'agricoltura mediante<br />

irrigazione, videro il primo fiorire <strong>del</strong>la civiltà.<br />

Le miniere sono localizzate in regioni ben definite soprattutto in zone montagnose e per acquistare<br />

questi minerali, i popoli agricoli che disponevano di surplus di viveri, di tecniche e di tempo<br />

sufficienti, dovevano andare a cercarli dove si trovavano. Lo scambio su grandi distanze non<br />

poteva più essere una attività complementare accanto all'artigianato e all'agricoltura. Si era<br />

prodotta una nuova divisione <strong>del</strong> lavoro, la pratica <strong>del</strong>lo scambio si era separata dalle altre attività<br />

economiche: era nato il commercio. Presso i popoli primitivi, la rivoluzione metallurgica fa<br />

coincidere la comparsa <strong>del</strong>l'artigianato professionale con la generalizzazione degli scambi.<br />

I primi artigiani completamente distaccati dai lavori agricoli sono probabilmente fabbri viaggianti.<br />

Presso alcuni popoli la rivoluzione metallurgica, rendendo autonomo il commercio, lo separa<br />

definitivamente dall'artigianato. Sin dal Rame, il commercio si sviluppa particolarmente nella prima<br />

civiltà predinastica egiziana; nella prima civiltà cosiddetta prediluviana in Mesopotamia; nella più<br />

antica civiltà scoperta nella località di Troia nell'Asia Minore; nella civiltà cretese-micenea in<br />

Grecia. Si può ipotizzare che il commercio fu inventato contemporaneamente all’aratro, nello<br />

stesso momento in cui si verificano nell’agricoltura i notevoli cambiamenti determinati dalla<br />

rivoluzione metallurgica.<br />

Con il Bronzo, lo sviluppo dei rapporti commerciali diventa la condizione pregiudiziale per<br />

l'utilizzazione produttiva <strong>del</strong>le conoscenze tecniche. I giacimenti di rame e di stagno disponibili in<br />

quell'epoca hanno dato il via agli scambi professionali fra i popoli mediterranei che si dedicavano<br />

alla fabbricazione di oggetti di bronzo. Dall’India alla Scandinavia, c'erano infatti solo quattro<br />

regioni in cui si potessero trovare simultaneamente questi due metalli, cioè il Caucaso, la Boemia,<br />

la Spagna e la Cornovaglia. L’Età <strong>del</strong> Bronzo non è nata in nessuna di queste quattro regioni. I<br />

popoli che hanno presieduto al suo sviluppo, per ottenere questi preziosi metalli dovettero<br />

organizzare vaste spedizioni commerciali; a meno che non fossero spedizioni periodiche di<br />

brigantaggio, come quelle che sottomisero all'Egitto <strong>del</strong>la seconda dinastia le miniere <strong>del</strong>la<br />

penisola <strong>del</strong> Sinai.<br />

Il carro a ruote e la nave a vela sono invenzioni che datano almeno al Bronzo Antico e<br />

accompagnano i progressi <strong>del</strong>la civiltà in tutto il mondo antico. Carovane regolari collegano l'Egitto<br />

alla Mesopotamia attraverso la penisola <strong>del</strong> Sinai, la Palestina e la Siria, collegano la Mesopotamia<br />

all'India attraverso l'Iran, la parte settentrionale <strong>del</strong>l'Afghanistan e la valle <strong>del</strong>l'Indo, vaste relazioni<br />

commerciali vengono allacciate tra il Mar Baltico e il Mediterraneo, tra la valle <strong>del</strong> Danubio, la<br />

pianura <strong>del</strong>la Pannonia e le isole britanniche. Quando il commercio internazionale si stabilizza e<br />

diviene pacifico, resta tuttavia un affare di Stato e all'inizio è praticato per il tramite di commercianti<br />

278


funzionari. Un porto-deposito neutrale assicurerebbe l'incontro tra due nazioni.<br />

La produzione <strong>del</strong>le società primitive è essenzialmente una produzione per soddisfare i bisogni<br />

<strong>del</strong>la propria comunità. Ciò si verifica per i popoli che raccolgono ancora il loro cibo come per quelli<br />

che già lo producono nel senso proprio <strong>del</strong> termine. I primi imperi costruiti sulla base<br />

<strong>del</strong>l'agricoltura con irrigazione non presentano caratteristiche economiche diverse da queste. I re o<br />

i preti che centralizzano i surplus, li utilizzano per soddisfare i loro bisogni o i bisogni di tutta la<br />

comunità. È significativo che il re di Babilonia fosse chiamato nelle iscrizioni ufficiali “Contadino di<br />

Babilonia”, “Pastore d'uomini”, “Irrigatore dei campi”. In Egitto, faraone e amministrazione<br />

governativa erano designati con il termine Pr’o, (grande casa). In Cina, uno degli imperatori<br />

leggendari che avrebbero fondato la nazione viene chiamato Heu-tsi, (principe-miglio).<br />

Con l'artigianato autonomo fa la sua comparsa una produzione di tipo nuovo. I produttori,<br />

contadini-artigiani che vivono in seno alla comunità di villaggio, portano sul mercato solo il surplus<br />

<strong>del</strong>la loro produzione, cioè ciò che rimane una volta soddisfatti i bisogni <strong>del</strong>le loro famiglie e <strong>del</strong>la<br />

comunità. L'artigiano specialista staccato da una comunità, il fabbro o il vasaio viaggiante, non<br />

produce più valori d'uso per soddisfare i propri bisogni. Il complesso <strong>del</strong>la sua produzione è<br />

destinato allo scambio. In cambio dei prodotti <strong>del</strong> suo lavoro egli otterrà i mezzi di sussistenza, gli<br />

abiti e altro, per soddisfare i suoi bisogni e quelli <strong>del</strong>la sua famiglia.<br />

Chi produce essenzialmente prodotti destinati a soddisfare i propri bisogni o quelli <strong>del</strong>la sua<br />

comunità, trae sostentamento dai prodotti <strong>del</strong> proprio lavoro. Nella produzione di merci questa<br />

unità è spezzata. Il produttore di merci non vive più direttamente dei prodotti <strong>del</strong> suo lavoro; al<br />

contrario, non può sostentarsi che a condizione di disfarsi di questi prodotti. Questi primi artigiani si<br />

recano al domicilio dei clienti e ricevono da loro la materia prima per la produzione. Lo stesso<br />

accade nella maggior parte <strong>del</strong>le società durante il primo sviluppo <strong>del</strong>la produzione di merci:<br />

particolarmente in Egitto e in Cina.<br />

Quando l'artigiano diventa professionale, i contadini e il resto degli artigiani possono continuare a<br />

vivere per secoli come produttori di beni per la propria comunità, scambieranno solo piccoli surplus<br />

<strong>del</strong>la loro produzione per acquistare le poche merci di cui hanno bisogno. Il commercio all’esterno<br />

si limita sulle prime ai metalli e agli ornamenti, (prodotti di lusso), più o meno riservati allo Stato,<br />

(re, principi, tempio). Ma l'invenzione <strong>del</strong>la ruota per i carri permette di sfruttare il principio di<br />

rotazione nella tecnica dei vasi. Il tornio <strong>del</strong> vasaio è il primo strumento che consenta la<br />

“fabbricazione in serie” di merci esclusivamente destinate al commercio.<br />

Necessità economica è il bisogno di ottenere un maggiore surplus di prodotti allo scopo di<br />

acquistare, con lo scambio, beni necessari al buon andamento <strong>del</strong>la società. Necessità sociale è<br />

quella che costringe a rinunciare regolarmente a un surplus a favore di un potere centralizzatore,<br />

sia nell'interesse <strong>del</strong>la comunità, (per eseguire lavori di irrigazione), sia in seguito a una conquista<br />

che imponga con la forza un simile tributo. Le due necessità possono d'altronde combinarsi. In una<br />

comunità dal momento in cui si stabilisce una divisione <strong>del</strong> lavoro, l'apporto comunitario di ogni<br />

produttore deve essere misurabile con un criterio comune. Altrimenti la cooperazione <strong>del</strong> lavoro<br />

tenderebbe a disgregarsi con lo stabilirsi di gruppi che si trovano in condizioni favorevoli e di altri in<br />

condizioni sfavorevoli.<br />

279


Questa misura comune d'organizzazione non può essere che l'economia <strong>del</strong> tempo di lavoro.<br />

Bisogna che la comunità stabilisca un bilancio <strong>del</strong> tempo di lavoro disponibile e lo suddivida tra i<br />

settori essenziali. Nell'economia <strong>del</strong> villaggio il principio di scambio sono le giornate di lavoro degli<br />

uomini. Ciò richiede un libro di conti per confrontare i giorni e gli uomini al lavoro, il numero di<br />

giornate di lavoro fornite. I contadini che ordinano una lancia al fabbro, (che a sua volta è<br />

contadino e fabbro), lavorano sulla terra <strong>del</strong> fabbro per il tempo in cui quest'ultimo lavora alla<br />

lancia. Lavoro e prodotti <strong>del</strong> lavoro dettano le regole di organizzazione <strong>del</strong>la vita economica.<br />

Il valore d'uso di una merce dipende dall'insieme <strong>del</strong>le sue qualità fisiche, che ne determinano<br />

l'utilità. L'esistenza di questo valore d'uso è una condizione indispensabile per la comparsa <strong>del</strong><br />

valore di scambio: nessuno, infatti, accetterebbe in cambio <strong>del</strong> suo prodotto una merce senza<br />

utilità, senza valore d'uso per nessuno. Ma il valore d'uso di due merci, espresso nelle qualità<br />

fisiche, è incommensurabile; non si può misurare con un'unità comune il peso <strong>del</strong> grano, la<br />

lunghezza <strong>del</strong>la tela, il volume dei vasi, il colore dei fiori. Per consentire uno scambio reciproco tra<br />

questi prodotti, bisogna cercare una qualità comune a tutti che possa al tempo stesso essere<br />

misurata e quantitativamente espressa, e che deve essere una qualità sociale, accettabile per tutti<br />

i membri <strong>del</strong>la società.<br />

Ora, l'insieme <strong>del</strong>le qualità fisiche <strong>del</strong>le merci che stabiliscono il loro valore d'uso è determinato dal<br />

lavoro specifico che le ha prodotte: il lavoro <strong>del</strong> tessitore determina le dimensioni, la finezza, il<br />

peso <strong>del</strong>la tela; il lavoro <strong>del</strong> vasaio la resistenza, la forma, i colori <strong>del</strong> vaso. E’ la durata <strong>del</strong> tempo<br />

di lavoro necessario per produrre la merce che determina la misura <strong>del</strong> valore di scambio.<br />

Solo quando il commercio e la vita urbana hanno raggiunto un certo grado di sviluppo, quando<br />

hanno creato un mercato sufficientemente ampio, la produzione di merci si sviluppa e a sua volta<br />

si generalizza. Questa produzione di merci effettuata da artigiani, proprietari dei loro mezzi di<br />

produzione, (strumenti di lavoro), è definita piccola produzione mercantile. Nella piccola<br />

produzione mercantile, il produttore si separa dai suoi prodotti solo per acquistare i viveri che gli<br />

assicureranno la sussistenza.<br />

Più la produzione di merci si estende e più diviene imperiosa la contabilità esatta in ore di lavoro.<br />

Non è il numero di ore di lavoro effettivamente spese per la fabbricazione di un oggetto a<br />

determinarne il valore, ma il numero di ore di lavoro necessarie per fabbricarlo nelle condizioni<br />

medie di produttività <strong>del</strong>la società <strong>del</strong>l'epoca. I produttori poco capaci, lenti, che lavorano con<br />

metodi arcaici, sono penalizzati. Essi ricevono in cambio <strong>del</strong> tempo di lavoro individualmente<br />

fornito alla società solo un equivalente prodotto in un lasso di tempo inferiore. Una maggiore<br />

disciplina e una più stretta contabilità <strong>del</strong> lavoro accompagnano cosi lo sviluppo <strong>del</strong>la produzione di<br />

merci. Ciascun produttore, nei limiti <strong>del</strong>la sua forza fisica e <strong>del</strong>la sua capacità produttiva, (strumenti<br />

di lavoro), può produrre quanto vuole. Questi produttori non producono più valori d'uso per il<br />

consumo di una comunità chiusa; ora producono merci per un mercato più o meno ampio. Se un<br />

artigiano produce più tela di quanto non possa assorbirne il mercato <strong>del</strong>la sua società, una parte<br />

<strong>del</strong>la sua produzione resterà invenduta, non scambiata, il che dimostrerà che ha sprecato tempo.<br />

Questo spreco, in una società coscientemente coordinata, sarebbe stato stabilito a priori dai<br />

costumi o dai commenti degli altri membri <strong>del</strong>la comunità. Sul mercato, la legge <strong>del</strong> valore lo rivela<br />

280


solo a posteriori, per disgrazia <strong>del</strong> produttore che non riceverà equivalente per una parte <strong>del</strong> suo<br />

sforzo, dei suoi prodotti. All'inizio <strong>del</strong>l'epoca <strong>del</strong>la produzione di merci, nelle corporazioni<br />

<strong>del</strong>l'antichità, regole fisse, note a tutti, stabilivano contemporaneamente il tempo di lavoro da<br />

dedicare alla fabbricazione di ogni oggetto, la durata <strong>del</strong>l'apprendistato, le sue spese e<br />

l'equivalente normale da domandare per ciascuna merce.<br />

Divisione cronologica <strong>del</strong>le ere in Europa<br />

Nell’Europa centrale e nell’Italia settentrionale, si passò all’uso <strong>del</strong> rame ottenuto per smelting di<br />

minerali tipo Fahlerz, la cui riduzione consentiva di produrre un rame con piccole percentuali di<br />

antimonio, arsenico, argento e nichel, che sommandosi davano l’effetto di una lega e quindi una<br />

maggiore durezza. Ad esempio, l’ascia a margini rialzati scoperta nella palafitta più antica <strong>del</strong><br />

Lavagnone, la stessa in cui è venuto alla luce l’aratro, è stata fabbricata con questo tipo di rame.<br />

Verso il 1900 a.C. si osserva la comparsa e poi la rapida diffusione <strong>del</strong>la lega di rame e stagno in<br />

gran parte <strong>del</strong>l’Europa. Il bronzo era già noto da molto tempo nel Vicino Oriente ma la sua<br />

produzione era sempre stata piuttosto limitata e aveva coesistito con l’uso <strong>del</strong> rame puro e <strong>del</strong>la<br />

lega di rame e arsenico. A partire dagli inizi <strong>del</strong> II millennio a.C. anche nel Vicino Oriente, così<br />

come nell’Egeo e in Grecia, la diffusione <strong>del</strong>la lega di rame e stagno si generalizza e soppianta le<br />

precedenti forme di metallurgia. A cosa sia dovuto questo fenomeno non sappiamo bene,<br />

specialmente perché rimane un problema irrisolto la precisa provenienza <strong>del</strong>lo stagno durante il II<br />

millennio a.C. Lo stagno, infatti, è un metallo particolarmente raro.<br />

Fino a tutto il XVIII a.C. lo stagno utilizzato nelle civiltà <strong>del</strong> Vicino Oriente arrivava da est,<br />

probabilmente dall’Afghanistan, lo stesso paese da cui proveniva il lapislazzuli. Durante il I<br />

millennio a.C., cioè nel Ferro, e poi anche in età romana, lo stagno proveniva dalle regioni<br />

atlantiche, (Cornovaglia, Bretagna, Galizia), come è attestato sia da fonti antiche sia dalla<br />

documentazione archeologica. Secondo una vecchia tesi, la scoperta <strong>del</strong>la lega rame-stagno in<br />

Europa è avvenuta nella regione <strong>del</strong>l’Erzgebirge, dove ci sono depositi di stannite e cassiterite.<br />

Mancano, tuttavia, prove archeologiche <strong>del</strong> loro sfruttamento in età preistorica. Al contrario <strong>del</strong>lo<br />

stagno il rame era ampiamente diffuso e importanti giacimenti si trovavano in Irlanda, in Inghilterra,<br />

nella penisola iberica, in Toscana, nella Slovacchia, in Transilvania e nei Balcani. Per molte di<br />

queste regioni si hanno prove archeologiche <strong>del</strong>lo sfruttamento avvenuto nel Bronzo o nel Ferro,<br />

ad esempio per le miniere di calcopirite di Cabrières presso Montpellier, di Mount Gabriel in<br />

Irlanda, <strong>del</strong>le Colline Metallifere in Toscana.<br />

Importanti erano sicuramente i giacimenti di rame <strong>del</strong>l’Erzgebirge in Sassonia, ma le miniere<br />

<strong>del</strong>l’età <strong>del</strong> Bronzo meglio conosciute sono quelle <strong>del</strong>le Alpi Orientali. Nella zona di Mühlbach<br />

Bischofshofen l’ampia documentazione archeologica <strong>del</strong>la miniera <strong>del</strong> Mitterberg ha permesso di<br />

ricostruire le tecniche estrattive, i processi <strong>del</strong> trattamento <strong>del</strong> minerale per ridurre il rame e perfino<br />

di effettuare stime sulla quantità di rame prodotto in un anno (circa 20 tonnellate), il numero dei<br />

lavoratori impiegati, (180), e le dimensioni <strong>del</strong> disboscamento operato per alimentare le fornaci, (8<br />

ettari all’anno).<br />

281


Al Mitterberg le gallerie venivano scavate in lieve pendenza fino a raggiungere una lunghezza<br />

massima di 160 m. Per sfruttare le vene di pirite di rame si utilizzava il metodo <strong>del</strong> fuoco, che<br />

facilitava la disgregazione <strong>del</strong>la roccia. Per favorire la ventilazione e la fuoriuscita <strong>del</strong> fumo, oltre<br />

che per raccogliere l’acqua sul fondo, venivano scavate, partendo da un primo pozzo, due gallerie<br />

che si congiungevano verso il fondo e la galleria inferiore veniva provvista di un’armatura di legno.<br />

Numerose località con concentrazioni di scorie di separazione di materiale e resti di fornaci per la<br />

riduzione <strong>del</strong> metallo sono note nel Trentino e nell’Alto Adige, ad esempio sull’altopiano <strong>del</strong><br />

Lavarone e di Luserna, al passo Redebus, a Kurtatsch. Quasi certamente da qui proveniva il rame<br />

utilizzato dagli abitati palafitticoli <strong>del</strong> Garda e da quelli terramaricoli <strong>del</strong>la pianura Padana. Verso il<br />

2000-1900 a.C. si diffondono i primi oggetti di bronzo, in genere con una bassa percentuale di<br />

stagno, ma nelle ultime fasi <strong>del</strong> Bronzo Antico il bronzo standard, con un tenore di stagno variabile<br />

dall' 8 al 12%, è già diventato di uso comune. Se all’inizio la percentuale di stagno può subire<br />

oscillazioni anche forti, in seguito la composizione dei manufatti diventa molto omogenea e varia<br />

soltanto a seconda dei tipi di oggetti che si vogliono fabbricare. Ad esempio nell’area palafitticolo-<br />

terramaricola si conoscono leghe iperstannifere per alcuni oggetti come spilloni e pendagli; in<br />

questo caso la maggiore percentuale di stagno aveva lo scopo di aumentare la fluidità <strong>del</strong>la lega<br />

per facilitare la colata nello stampo.<br />

Verso la fine <strong>del</strong> Bronzo Medio e nel Bronzo Recente diventa frequente l’aggiunta di piombo alla<br />

lega, probabilmente allo scopo di risparmiare stagno. Agli inizi <strong>del</strong> Bronzo Antico l’uso <strong>del</strong> bronzo<br />

appare abbastanza limitato. Come nel Rame, il metallo è ancora una materia preziosa e un<br />

simbolo di prestigio sociale, ma senza una reale incidenza sul mondo <strong>del</strong>la produzione primaria.<br />

Nel giro di pochi secoli, la produzione <strong>del</strong> Bronzo si intensifica e si diversifica fino a divenire, nel<br />

Bronzo Recente, completamente integrato nella vita quotidiana e nell’economia, riducendo sempre<br />

più l’uso <strong>del</strong>la pietra e <strong>del</strong>la selce. La gamma dei manufatti si amplia in modo considerevole:<br />

spilloni, pendagli, armille, braccialetti, anelli, orecchini, rasoi, pinzette, pugnali, alabarde, spade,<br />

elmi, coltelli, cuspidi di lancia, punte di freccia; armi, teste di fiocina; asce da lavoro e da battaglia,<br />

falci, roncole, lesine, punteruoli, seghe, lime, scalpelli, raspe, martelli e incudini.<br />

Nel XIII a.C. compare, grazie ai contatti con il mondo miceneo, la tecnica <strong>del</strong>la laminatura <strong>del</strong><br />

bronzo per fabbricare vasi come situle, tazze, colini, placche da cintura, schinieri, corazze, scudi.<br />

La diffusa presenza di matrici e attrezzi per la lavorazione dei metalli negli abitati di regioni <strong>del</strong> tutto<br />

prive di risorse minerarie come le pianure alluvionali, ad esempio la pianura padana, dimostra che<br />

la produzione dei manufatti avveniva localmente, ma la materia prima, il rame e lo stagno,<br />

dovevano essere importati.<br />

La capillare diffusione e l’importanza assunta dalla metallurgia presuppongono, quindi, un’attiva ed<br />

efficiente rete di scambi a breve e lunga distanza. Il rame circolava sotto forme diverse a seconda<br />

dei periodi e <strong>del</strong>le cerchie artigianali. Durante il Bronzo Antico nell’Europa centrale i lingotti<br />

avevano la forma di piccole barre con le estremità ricurve, (Rippenbarren), diffuse soprattutto in<br />

Boemia, Baviera meridionale e Svevia, oppure di collari a capi aperti e arrotolati, (Torques), diffusi<br />

in grandissimo numero specialmente in Moravia, nell’Austria inferiore, lungo i corsi <strong>del</strong>l’Elba e<br />

<strong>del</strong>l’Oder e in Baviera, oppure di bipenni con un piccolo foro mediano, diffuse dalla Sassonia alla<br />

282


Renania.<br />

In Italia durante il Bronzo Antico-Medio il rame circola sotto forma di piccoli pani a focaccia, <strong>del</strong><br />

peso variante da 400 a 600 grammi, o di barrette quadrangolari. A partire dal XIII secolo a.C.<br />

diventa generale l’uso di pani di forma circolare e sezione piano-convessa, <strong>del</strong> diametro di 20-26<br />

cm. e <strong>del</strong> peso di 6-9 kg. Un altro tipo di lingotto, che si ritrova in Sardegna, nella regione alpina e<br />

nell’Italia centro-settentrionale durante il Bronzo Finale, è il pane a piccone o lingot-saumon.<br />

Nelle regioni mediterranee centro-orientali tra il XVI e il XII a.C. il rame è commerciato sotto forma<br />

di lingotti a pelle di bue. Quelli più antichi, <strong>del</strong> XVI e XV a.C., sono noti soltanto a Creta, nell’Egeo<br />

e in Asia Minore, quelli più recenti hanno una maggiore diffusione, essendo stati scoperti in Siria, a<br />

Cipro, in Asia Minore, in Grecia, in Sicilia e in Sardegna. Si ritiene che il centro di produzione di<br />

questi lingotti fosse Cipro, dal cui nome deriva la parola rame in molte lingue europee.<br />

Sulla provenienza <strong>del</strong>lo stagno durante il Bronzo non si sono ancora raggiunte conclusioni sicure.<br />

Certamente a partire dal Bronzo Finale, come poi per tutto il Ferro e anche all’epoca <strong>del</strong>l’impero<br />

romano, lo stagno proveniva dalle regioni atlantiche, (Cornovaglia, Bretagna, Galizia). Si accentua<br />

a partire dal Bronzo Medio, come dimostra la composizione dei ripostigli e dei resti di fonderia<br />

scoperti in molti abitati sia palafitticoli, come la Lugana Vecchia presso Sirmione, che<br />

terramaricoli, come Castellarano in provincia di Reggio Emilia.<br />

La posizione sociale <strong>del</strong> fabbro nella società europea <strong>del</strong> Bronzo è stata oggetto di accese<br />

discussioni. Senza dubbio in questo periodo il fabbro è l'unico artigiano che in virtù <strong>del</strong>la sua alta<br />

specializzazione lavora a tempo pieno e non può essere coinvolto nella produzione primaria. Nei<br />

periodi più antichi, i fabbri erano certamente itineranti e prestavano la loro opera presso diverse<br />

comunità, a volte anche molto distanti l'una dall'altra, e ciò è evidenziato dagli evidenti rapporti<br />

tecnologici e stilistici esistenti tra le varie cerchie metallurgiche europee e al loro interno, (padana,<br />

italica, centro-europea, atlantica, nordica, danubiana, baltica). In un periodo più recente, che ha<br />

inizio in momenti diversi a seconda <strong>del</strong>le regioni, il fabbro diventa un artigiano inserito stabilmente<br />

nella comunità per cui lavora, anche se il fenomeno <strong>del</strong>l'artigiano metallurgo ambulante non<br />

scomparirà mai <strong>del</strong> tutto. Questo passaggio sembra adombrato in alcuni miti <strong>del</strong> mondo classico.<br />

Esistevano, nella mitologia greca, comunità di diversi, circondate da un alone di magia e di<br />

mistero, come i Chalibi <strong>del</strong> Mar Nero, i Cabiri, i Dattili Idei a Creta, in cui possiamo riconoscere la<br />

diversità socio-culturale, e in una certa misura anche l'emarginazione, dei più antichi artigiani <strong>del</strong><br />

metallo. Il mito di Efesto-Vulcano, il dio <strong>del</strong>le arti metallurgiche, che inizialmente non abitava<br />

stabilmente nell'Olimpo insieme agli altri dei, ma vi fu ammesso soltanto in un secondo tempo,<br />

sembra riflettere l'evoluzione <strong>del</strong>la posizione sociale <strong>del</strong> fabbro preistorico. Il progresso di<br />

integrazione nella comunità nell'area palafitticola benacense ha avuto inizio forse fin dal Bronzo<br />

Recente. Il ritrovamento di migliaia di oggetti di bronzo nelle palafitte di Peschiera sembra, infatti,<br />

presupporre l'esistenza di officine ormai stabili.<br />

Gli strumenti di lavoro <strong>del</strong> fabbro <strong>del</strong> Bronzo erano innanzitutto il crogiuolo, il mantice per ventilare<br />

la fornace, la forma di fusione, l'incudine e il martello per battere il metallo, punzoni e scalpellini per<br />

le decorazioni. I crogiuoli si rivengono frequentemente negli abitati e hanno forma ovale e differenti<br />

dimensioni, in rapporto con la predeterminazione <strong>del</strong>la quantità di bronzo da utilizzare per i diversi<br />

283


tipi di oggetti da fondere. Il manufatto indizio di attività metallurgica che si scopre più<br />

frequentemente negli abitati <strong>del</strong> Bronzo è il tuyer, l'ugello in terracotta dei mantici. Se ne<br />

conoscono due gruppi: il primo, di forma conica e di piccole dimensioni, lunghezza massima 14<br />

cm, si trova negli abitati <strong>del</strong> Bronzo Antico e Medio, il secondo ha una forma a corno e maggiori<br />

dimensioni, fino a 30 cm di lunghezza, ed appare per la prima volta nel Bronzo Recente negli<br />

abitati terramaricoli <strong>del</strong>l'area padana.<br />

Una pittura murale <strong>del</strong>la tomba di Rekhmire, visir di Tebe sotto Thutmosis III, (1504-1450 a.C.), e<br />

Amenhotep II, (1450-1426 a.C.), illustra il funzionamento degli augelli <strong>del</strong> primo tipo: servivano per<br />

i mantici di piccole fornaci all'aperto. Gli augelli <strong>del</strong> secondo gruppo documentano uno sviluppo<br />

tecnico legato a fornaci a fossa o a camera, capaci di raggiungere temperature più elevate. La<br />

comparsa dei grossi lingotti a sezione piano-convessa a partire dal Bronzo Recente probabilmente<br />

è da porre in relazione con l'adozione di forni di questo nuovo tipo, che con un solo carico<br />

permettevano di ottenere una maggiore quantità di metallo rispetto ai periodi precedenti grazie<br />

alla temperatura più elevata e più costante che si riusciva a ottenere.<br />

Nel periodo compreso tra la fine <strong>del</strong> III millennio a.C. e gli ultimi secoli <strong>del</strong> I, in Europa centrale,<br />

nell'area padana e danubiana-carpatica, si verificano una serie di fenomeni di ordine tecnologico,<br />

economico e sociale: lo sviluppo <strong>del</strong>la metallurgia, (prima <strong>del</strong> bronzo e poi <strong>del</strong> ferro), e il formarsi di<br />

"società complesse", ossia il verificarsi di differenziazioni sociali stabili che consentono di definire<br />

tale epoca come protostoria. All'inizio di questi duemila anni l'Europa e l'Italia sono popolate da<br />

piccole comunità di villaggio, per lo più instabili e prive di una stratificazione sociale consolidata,<br />

mentre alla conclusione sono costellate da città e stati e caratterizzate da società articolate in<br />

classi.<br />

L' Europa di quell'epoca ebbe contatti con le società <strong>del</strong> Vicino Oriente e <strong>del</strong> Mediterraneo, in cui<br />

livello civile e forme di organizzazione sociale erano totalmente diversi: questi contatti dovettero<br />

offrire occasioni di confronto, esercitando un effetto di stimolo alla trasformazione. Di queste<br />

comunità che si sono succedute nel tempo abbiamo testimonianza soprattutto attraverso i resti<br />

materiali rinvenuti negli abitati, nei sepolcreti ed in altri tipi di deposizione per seppellimento<br />

volontario: ripostigli e deposizioni cultuali. Talvolta, ma solo per il periodo più recente, abbiamo<br />

notizie indirettamente da fonti scritte prodotte presso genti che conoscevano la scrittura e che<br />

erano entrate in contatto con esse.<br />

A partire dall'inizio <strong>del</strong> II millennio a.C. la produzione metallurgica assume una dimensione<br />

quantitativa, (in alcune parti d'Europa fino a decuplicarsi), e qualitativa mai conosciuta prima. Un<br />

tale sviluppo implica una notevole accumulazione di conoscenze tecnologiche e di capacità<br />

professionali.<br />

Gli oggetti fabbricati durante questo periodo erano in prevalenza beni di prestigio in bronzo, rivolti<br />

a nuovi ceti emergenti. La creazione di una lega resistente e di facile lavorazione, (il bronzo),<br />

determinò la produzione su larga scala di oggetti metallici di differenti classi e ebbe come<br />

conseguenza una serie di miglioramenti economico-sociali quali il potenziamento <strong>del</strong>l'agricoltura,<br />

attraverso l'uso di attrezzi metallici, l'incremento demografico e la creazione di riserve di ricchezza<br />

da distribuire attraverso il commercio. Questo periodo segna, dunque, una tappa fondamentale<br />

284


nella storia europea.<br />

Uno dei centri più attivi <strong>del</strong>l'estrazione dei minerali cupriferi e <strong>del</strong>la metallurgia era il territorio alpino<br />

orientale intorno alle miniere di rame <strong>del</strong> Salisburghese, (Austria), sicuramente sfruttate sin dal<br />

1800-1600 a.C., (Bronzo Antico). Questi luoghi di approvvigionamento e lavorazione <strong>del</strong> bronzo<br />

divennero punti di incontro di genti di varia provenienza. A partire da questo stesso momento, si<br />

verificano due fattori nuovi: in un certo numero di corredi funebri incominciano a ricorrere in modo<br />

costante regolari combinazioni di oggetti di prestigio spesso di metallo e di fattura tecnicamente<br />

complessa. Da quanto si può dedurre dai sepolcreti, la presenza di alcuni oggetti di corredo<br />

particolarmente rari consente di riconoscere alcune figure eminenti, in particolare emergono alcuni<br />

elementi maschili, contraddistinti come guerrieri. Le stesse categorie di oggetti di prestigio in<br />

metallo come pugnali, alabarde, asce, collari, braccialetti e ornamenti, gruppi di oggetti offerti alle<br />

divinità ritualmente sepolte, attestano forme di accumulazione di ricchezza che ora si affianca a<br />

quella tradizionale costituita dal bestiame. Una terza categoria di rinvenimenti i cui i beni di<br />

prestigio si trovano però singolarmente è quella <strong>del</strong>le deposizioni cultuali, per le quali il significato<br />

di offerta alla divinità è evidenziato dalla scelta <strong>del</strong> luogo, (corsi e specchi d'acqua, vette dei monti,<br />

valichi, voragini, anfratti rocciosi).<br />

Le comunità all'interno <strong>del</strong>le quali avveniva questo processo di differenziazione sociale avevano<br />

dimensioni ridotte, erano piccoli gruppi, <strong>del</strong>l'ordine di varie decine di individui, legati da rapporti di<br />

parentela e aggregati in villaggi sparsi sul territorio. Sebbene queste comunità praticassero una<br />

agricoltura piuttosto avanzata, basata sull'uso <strong>del</strong>l'aratro, i loro stanziamenti non possono ancora<br />

considerarsi stabili. Nei sepolcreti europei ed italiani di questo periodo si colgono diverse modalità<br />

di seppellimento e di organizzazione <strong>del</strong>lo spazio: una unica tomba, o un piccolo gruppo di tombe<br />

a carattere monumentale, aggregarsi di nuclei attorno a tombe di personaggi eminenti o gruppi di<br />

maggior spicco. Ciò sembra rispecchiare aggregazioni per discendenza o per differenze di rango.<br />

Nelle pratiche di culto sopravvivono i culti in grotta o presso sorgenti con semplici offerte e iniziano,<br />

secondo una concezione diversa, deposizioni cultuali di oggetti di prestigio. A partire dagli inizi <strong>del</strong><br />

Bronzo in Europa comincia a moltiplicarsi il numero degli abitati stabili. Le aree che per prime<br />

videro una continuità di stanziamento furono quelle sud-orientali <strong>del</strong>la penisola balcanica, <strong>del</strong><br />

bacino danubiano-carpatico e <strong>del</strong> sud est <strong>del</strong>la Spagna. In Italia è documentato particolarmente<br />

nella pianura Padana nell'area di Polada.<br />

A partire dal Bronzo Medio si verificano profondi cambiamenti nell'assetto demografico, economico<br />

e sociale <strong>del</strong>le comunità. Queste si fanno più popolose, <strong>del</strong>l'ordine di centinaia di individui e più<br />

stabili, cioè più sedentarie: sono frequenti gli stanziamenti che durano diversi secoli. Queste<br />

comunità ci appaiono strutturate su base territoriale. I corredi <strong>del</strong>le necropoli denotano una<br />

differenziazione sociale ed economica meno vistosa.<br />

Anche la produzione metallurgica cambia carattere: accanto alle armi e agli ornamenti hanno<br />

sempre più importanza gli utensili e gli strumenti di lavoro. In Europa compare al passaggio tra<br />

Bronzo Antico e Bronzo Medio la falce messoria in bronzo che sostituisce quella lignea con<br />

armatura in selce.<br />

Nello stesso periodo si assiste in alcune aree <strong>del</strong>l'Europa, soprattutto nella parte settentrionale,<br />

285


alla suddivisione di vaste superfici di terreno in piccoli appezzamenti di forma quadrangolare,<br />

estese fino a un ettaro, <strong>del</strong>imitate da argini o terrazzamenti. Gli abitati presentano un tessuto<br />

insediativo a "scacchiera" con reticolo viario ad assi paralleli. Questi abitati dunque sono costruiti<br />

secondo una pianificazione precisa: sono provvisti di infrastrutture come fortificazioni a terrapieno<br />

e fossati. Certamente hanno comportato un investimento di lavoro consistente, tale da coinvolgere<br />

l'intera comunità.<br />

Il rituale funebre, nel quale prevale in Europa il costume crematorio, sembra rivelare un sistema di<br />

rapporti sociali in cui ciò che conta è la collocazione e la funzione sociale svolta all'interno <strong>del</strong>la<br />

comunità. Alcuni studiosi considerano che in questo periodo la terra sia di proprietà comune e<br />

venga assegnata a rotazione degli appezzamenti di terreno agricolo alle singole famiglie, come è<br />

attestato nelle società arcaiche e barbariche d'Europa. Secondo questo mo<strong>del</strong>lo anche<br />

l'approvvigionamento dei minerali metalliferi era garantito dalla comunità, (tribù), stessa. La<br />

produzione notevolmente aumentata e l'intensa circolazione da una comunità all'altra di manufatti<br />

implica che alcune persone dovevano essere impegnate a tempo pieno alla lavorazione dei<br />

metalli. Le tracce di lavorazione <strong>del</strong> bronzo negli insediamenti sono pressoché generalizzate e la<br />

circolazione di metallo grezzo, (pani, lingotti, rottami), suddiviso secondo sistemi ponderali, è molto<br />

ampia.<br />

Nel nuovo assetto sociale il ceto dei guerrieri dominanti si trova al centro di un sistema di forze più<br />

complesso. L'importanza <strong>del</strong>le élites guerriere durante questi secoli è testimoniata dal grande<br />

sviluppo <strong>del</strong>le tecnologie militari, come la comparsa <strong>del</strong>la spada e dalla sua evoluzione da arma da<br />

punta ad arma da fendente, o come la diffusione <strong>del</strong> combattimento a cavallo e su carri a due<br />

ruote e al diffondersi <strong>del</strong>la lancia sia da getto, sia impugnata come arma da punta. Un indizio va<br />

riconosciuto anche nella tendenza a costruire sempre più imponenti fortificazioni degli abitati.<br />

Queste élites controllavano anche lo scambio tra comunità di materiale grezzo, ma anche<br />

manufatti di prestigio. In questo periodo aumenta il numero di ripostigli, (insieme di manufatti rotti,<br />

pani e lingotti). Indipendentemente dalla loro interpretazione, (seppellimento per motivi di sicurezza<br />

o rituale deposizione di offerte alle divinità), i ripostigli sono il risultato di un processo di<br />

accumulazione di riserve di ricchezza il cui proprietario sarà la comunità stessa.<br />

Nelle manifestazioni religiose tende a scomparire la concezione "terrena" <strong>del</strong>la divinità e si<br />

affermano invece gradualmente <strong>del</strong>le pratiche che collocano il divino in una sfera separata e lo<br />

fanno oggetto di offerte analoghe a quelle che competono ad una figura socialmente eminente. Nel<br />

Bronzo Medio <strong>del</strong>l'Italia settentrionale si distinguono quattro aree archeologicamente distinte:<br />

quella transpadana centro-orientale, (Lombardia, orientale, Trentino-Alto Adige e Veneto); quella<br />

"terramaricola", (Emilia centro-occidentale, bassa lombarda e veneta), quella nord-orientale, (Friuli-<br />

Venezia Giulia, parte <strong>del</strong>la Slovenia e <strong>del</strong>la Croazia), quella nord-occidentale, (Lombardia a ovest<br />

<strong>del</strong>l'Adda, Piemonte e Liguria). Con il Bronzo Medio il processo di stabilizzazione<br />

<strong>del</strong>l'insediamento, che era iniziato in Italia nell'area centro-orientale e in Sicilia nel periodo<br />

precedente, si estende a tutto il resto d'Italia. Aumenta i numero degli abitati su altura in aree<br />

collinari e montane, nelle aree di pianura, in particolare nella Pianura Padana, sorgono, in tempi<br />

diversi, abitati cinti da fortificazioni.<br />

286


Il numero degli insediamenti diminuisce e aumenta la loro estensione: forse ciò rispecchia una<br />

concentrazione <strong>del</strong>la popolazione in alcuni siti. La densità di popolazione negli abitati viene stimata<br />

in una media di 100 persone per ettaro. Il fatto nuovo è l'estensione <strong>del</strong>le colture agricole nelle<br />

zone collinari con la diffusione <strong>del</strong>l'arboricoltura, (fico, melo, pero, noce, olivo e vite vinifera).<br />

Riguardo l'allevamento non ci sono dati per distinguere allevamento stanziale, pastorizia, alpeggio<br />

e transumanza. Sulla base dei resti ossei rinvenuti sappiamo che in pianura le principali specie<br />

allevate si equivalgono con una lieve prevalenza <strong>del</strong> bue; nell'Appennino emiliano-romagnolo<br />

prevalgono capro-ovini e nelle Alpi centrali sono dominanti capro-ovini e scarso è il maiale.<br />

L'Italia in questo periodo è divisa in due ambiti di gusto: l'Italia settentrionale sembra legata, specie<br />

nella produzione metallica, all'Europa centrale e danubiana, quella centro-meridionale sviluppa<br />

nella produzione ceramica, nella fase avanzata <strong>del</strong> Bronzo Medio, uno stile proprio denominato<br />

"appenninico".<br />

In questo periodo l'Italia settentrionale è ancora divisa in quattro aree archeologicamente<br />

differenziate come nell'epoca precedente. L'Europa centrale è caratterizzata dalla presenza di una<br />

"frontiera culturale" che la taglia da nord a sud, dividendo una zona a nord-ovest <strong>del</strong>le Alpi,<br />

gravitante maggiormente verso l'Europa occidentale, e una zona a nord-est <strong>del</strong>le Alpi, legata<br />

all'area danubiano-carpatica. Tale frontiera divide in due anche l'Italia settentrionale. L'elemento<br />

unificante è rappresentato dalla produzione metallurgica. Le sfere metallurgiche occidentale e<br />

orientale costituiscono due aspetti di una medesima unità, la Koinè metallurgica che unisce<br />

l'Europa e il Mediterraneo. Le fogge sono assai simili, spesso tipi identici di spade, armi, fibule,<br />

spilloni, utensili denunciano una circolazione vastissima di mo<strong>del</strong>li e di prodotti dal mediterraneo<br />

alla Scandinavia, dalla Transilvania all'Atlantico. Si assiste ad un grande processo di osmosi. Un<br />

aspetto di questo processo è costituito dalla presenza di ceramica micenea, (sia di produzione che<br />

di imitazione), che risale la penisola fino ad arrivare nell'area transpadana centro-orientale lungo la<br />

valle <strong>del</strong>l'Adige.<br />

Un altro aspetto è la diffusione di fogge vascolari <strong>del</strong>la facies sub-appenninica centro-meridionale<br />

sia nell'area terramaricola che in quella centro-orientale. Con il Bronzo Recente si completa quel<br />

processo di omologazione <strong>del</strong>l'economia verso forme organizzate iniziata nel Bronzo Medio:<br />

marginalizzazione <strong>del</strong>la caccia, pesca, raccolta, evoluzione graduale di alcune specie di animali<br />

domestici attraverso forme di allevamento più stanziali. Aumenta il numero di insediamenti.<br />

Nella produzione artigianale si va verso una standardizzazione nella realizzazione di mo<strong>del</strong>li: nel<br />

campo <strong>del</strong>la metallurgia si generalizza la fusione in serie a scapito di tecniche e risultati raffinati<br />

precedenti. In Italia ed in Europa si afferma una nuova produzione di oggetti: viene introdotto il<br />

coltello evoluzione <strong>del</strong> pugnale, e vengono prodotti oggetti di ornamenti in vetro. Ē un periodo<br />

contraddistinto da una intensa circolazione di cose, persone e idee. Sono sintomi in questo senso<br />

le ceramiche di importazione e i traffici a lunga distanza anche per via marittima. Anche nella<br />

produzione ceramica la circolazione di oggetti e persone è un fenomeno talmente generalizzato da<br />

lasciare poco spazio a differenziazioni locali. La sfera metallurgica assume dimensioni continentali.<br />

A partire dal Bronzo Recente i ripostigli sono caratterizzati da una straordinaria eterogeneità dagli<br />

oggetti sia interi che frammentari: armi da offesa, armi da difesa in lamina, oggetti di ornamento e<br />

287


di abbigliamento, utensili, lingotti e pani, (in particolare a piccone), forme di fusione. Per i<br />

frammenti intenzionali di pani e asce ed altri oggetti è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di<br />

elementi con funzione pre-monetale, anche se i materiali potevano essere frammentati per<br />

facilitarne la rifusione, come conferma la rispondenza a precisi valori ponderali. Potevano essere<br />

usati anche come mezzi di scambio. Ē probabile che in questo periodo l'artigiano dipendesse da<br />

un capo locale. Si può supporre che l'emergere dei ceti <strong>del</strong>l'aristocrazia gentilizia abbia portato alla<br />

formazione di nuovi e più complessi rapporti di produzione: attorno ai gruppi gentilizi si formavano<br />

<strong>del</strong>le aggregazioni di tipo clientelare. In molte aree <strong>del</strong>l'Italia continentale prevale il rito <strong>del</strong>la<br />

cremazione. Si estende dunque una concezione sacrificale <strong>del</strong> rito crematorio: deporre sulla pira<br />

un defunto vestito dei suoi ornamenti e accessori rivela l'idea <strong>del</strong>la consacrazione alla divinità. Le<br />

raffigurazioni ornitomorfe sia sul motivo <strong>del</strong>la barca solare sia isolate in coppia o in serie sono<br />

molto diffuse in questo periodo. Probabilmente sono il simbolo di tramite tra la divinità celeste e<br />

l'uomo. La divinità quindi ora è collocata nell'ambito celeste e atmosferico o comunque verso<br />

l'alto. Anche le deposizioni cultuali di oggetti di bronzo nei corsi o specchi d'acqua rientrano nelle<br />

manifestazioni di religiosità <strong>del</strong>l'Europa continentale e nordica. Forse legata anche in questo caso<br />

agli uccelli acquatici. Non è facile invece interpretare la sfera di appartenenza <strong>del</strong> culto <strong>del</strong>l'arma, o<br />

meglio <strong>del</strong>l'ascia rappresentata in molte categorie di oggetti, (incisioni rupestri, amuleti, mo<strong>del</strong>lini,<br />

decorazioni di vasi), forse legata al fulmine e legata ad una divinità maschile. Alla sfera terrestre e<br />

biologica invece rimandano i simboli <strong>del</strong>la protome taurina e le corna appaiate. Legato forse alla<br />

forza virile, (compare fino al Ferro su tazze, rasoi, pendagli, ornamenti <strong>del</strong>le travature <strong>del</strong>le urne a<br />

capanna). Questi oggetti si ritrovano nelle acque, (in particolare armi nei fiumi), o su sommità di<br />

alture: pare che il rituale sia quello <strong>del</strong>l'offerta di oggetti di prestigio e di valore simbolico,<br />

normalmente attribuiti ad un personaggio di rango con il quale si stabilisce un vincolo di<br />

obbligazione. La divinità viene concepita come entità immateriale, staccata dalla sfera biologica e il<br />

bene offerto viene concepito come qualcosa di astratto. Quasi i due terzi <strong>del</strong>le deposizioni cultuali<br />

note, si concentrano tra il Bronzo Medio e il Bronzo Recente.<br />

Nel tardo Bronzo fra il XIII e il XII a.C. l'Europa è coinvolta in una serie di movimenti di popoli:<br />

crollano le civiltà degli Ittiti in Asia Minore, quella dei Micenei in Grecia, Troia viene distrutta, viene<br />

anche coinvolto l'impero egiziano. Tra il XII e l'XI a.C. l'ambito Egeo vede il formarsi di numerose<br />

comunità locali che non gestiscono più scambi a vasto raggio e si assiste all'inizio di una grave<br />

recessione economica e culturale. Si osserva il passaggio da una società tribale ad assetto<br />

territoriale a quella gentilizio-clientelare, anche se questo è stato un fenomeno molto variabile a<br />

seconda degli ambiti storico-geografici interessati. Si va da uno spazio di poche generazioni, (un<br />

secolo o due), in Italia meridionale ad una serie di secoli in certe zone d'Europa, (anche un<br />

millennio). Il motivo di questa differenza sta nel fatto che fu caratterizzato da dinamiche di parziale<br />

dissoluzione o degrado <strong>del</strong>le vecchie strutture sociali.<br />

La comparsa di élites dominanti e la presenza di tensioni antagonistiche all'interno <strong>del</strong>la società ha<br />

dato origine a gruppi legati da rapporti di consanguineità, (le gentes), che erano aggregazioni<br />

gerarchiche di famiglie cellulari. Attorno a ciascun gruppo veniva a formarsi un seguito che aveva<br />

dei rapporti di dipendenza di tipo clientelare, fondati su servigi sia economici che militari forniti in<br />

288


posizione subalterna in cambio di protezione o prestigio sociale. Questa struttura sociale si coglie<br />

bene nelle necropoli, che risultano articolate in grandi aggregati tra loro omologhi, al centro dei<br />

quali si trova un nucleo più significativo.<br />

La produzione e la circolazione di beni di prestigio e molte manifestazioni di culto accomunavano<br />

in cerchie più estese i ceti aristocratici di diverse comunità. Si formarono <strong>del</strong>le entità federali. Lo<br />

sviluppo <strong>del</strong>l'artigianato, svolto in officine centralizzate, vide il potenziamento <strong>del</strong>la produzione di<br />

beni di prestigio, destinato a circolare all'interno <strong>del</strong>la comunità o nella sfera comune degli<br />

aristocratici.<br />

Nel Bronzo Finale in Italia settentrionale si sviluppa la facies "proto-villanoviana". Restano<br />

estranee tre facies: quella di Luco, (Tirolo, Svizzera Orientale e Trentino-Alto Adige), quella di<br />

S.Canziano e Leme, (Slovenia e Istria) e quella dei Castellieri carsici-istriani. Nell'area<br />

transpadana vi sono tre facies metallurgiche: occidentale, centrale e orientale in cui sono inseriti il<br />

Friuli e la fascia <strong>del</strong>la pianura veneta. Nell'Italia <strong>del</strong> Nord si assiste ad un abbandono generalizzato<br />

degli abitati.<br />

In questo periodo vengono introdotte nuove tecniche di allevamento, più selettive: in alcune specie<br />

domestiche si nota un notevole miglioramento sia da un punto di vista qualitativo <strong>del</strong>le razze, sia<br />

per quanto riguarda la taglia. Il commercio nel Bronzo Finale mantiene una notevole vitalità:<br />

accanto ad alcuni manufatti di circolazione molto ampia, ve ne sono altri importati a distanze minori<br />

all'interno <strong>del</strong>lo stesso ambito culturale. Per quanto riguarda la ceramica, troviamo su tutto il<br />

territorio italiano le stesse forme vascolari, gli stessi motivi decorativi eseguiti con le stesse<br />

tecniche, (stile "proto-villanoviano).<br />

Nella metallurgia si attenua la koiné metallurgica: le diverse cerchie di officine tendono a formare<br />

circuiti chiusi che si traducono in vere e proprie facies metallurgiche regionali. Nell'accumulazione<br />

<strong>del</strong>la ricchezza, sotto forma di metallo, si verifica un profondo cambiamento: in Italia centro<br />

settentrionale vi sono ancora ripostigli con materiali eterogenei, in Italia meridionale si riduce il<br />

numero <strong>del</strong>le classi di oggetti, fino ad arrivare a comprendere solo asce. Nelle necropoli <strong>del</strong> nord<br />

Italia e <strong>del</strong>la fascia medio-adriatica si colgono <strong>del</strong>le differenziazioni dei corredi funebri per rango e<br />

per ricchezza: sono composte da piccoli nuclei, uniformi ciascuno al proprio interno e nettamente<br />

contrapposti fra loro. In Italia centro-meridionale vi sono tombe a inumazione e tombe collettive a<br />

camera, o piccoli nuclei di inumazioni individuali con ricchi corredi, spesso caratterizzate dalla<br />

presenza di armi. Il numero dei siti si riduce e si ingrandiscono le unità territoriali rimaste. Nello<br />

stesso comprensorio naturale si addensano più siti tra loro complementari, strategicamente e<br />

economicamente. Le fonti letterarie antiche che si riferiscono all'Italia protostorica, fanno<br />

riferimento a leghe o entità federali, spesso facenti capo ad un santuario, che raggruppano entità<br />

politiche minori, (la lega Latina e il santuario sul Monte Cavo). L'incinerazione diviene in Italia il rito<br />

funebre esclusivo, tranne in poche aree <strong>del</strong> centro-sud. Nel Bronzo Finale si è pienamente<br />

compiuto il processo di identificazione <strong>del</strong>la divinità con la sfera celeste, che prende il posto di<br />

quella terrestre. Si moltiplicano sia le raffigurazioni ornitomorfe, sia <strong>del</strong> sole, talvolta incorporate nel<br />

motivo <strong>del</strong>la barca o <strong>del</strong> carro solare. Continuano intanto le deposizioni cultuali sulle vette <strong>del</strong>le<br />

montagne e negli specchi d'acqua.<br />

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