<strong>AIC</strong> Quanto sia vana ogni speranza nostra, Quanto fallace ciaschedun disegno, Quanto sia il mondo d'ignoranza pregno, La maestra di tutto, Morte, il mostra. Altri si vive in canti e in balli e in giostre, Altri a cosa gentil muove lo ingegno, Altri il mondo ha, e le sue cose, a-sdegno, Altri quel che drento ha, fuor non dimostra. Vane cure e pensier, diverse sorte Per la diversità che la Natura, Si vede ciascun tempo al mondo errante. - Ogni cosa è fugace e poco dura, Tanto fortuna al mondo è mal costante; Sola sta ferma e sempre dura Morte. Lorenzo de' Medici
<strong>AIC</strong> Cominciamo con un paradosso. Da un po' di tempo a questa parte alcuni sociologhi non fanno che ripetere che non siamo più padroni di quanto dovrebbe appartenerci: la nostra coscienza. E per coscienza non intendono solamente la capacità di elaborare risposte intellettualmente adeguate agli stimoli che provengono dall'esterno, ma, soprattutto, si riferiscono ai nostri sentimenti, ai nostri occhi, alle nostre orecchie. Al nostro corpo, insomma, in una parola: al nostro essere uomini (o donne, che dir si voglia). Essere depauperati <strong>della</strong> nostra individualità e, in misura maggiore, essere incapaci di reagire al mondo che ci circonda, significherebbe essere parvenze d'uomini, finzioni di attività umane, maschere che nascondono le nostre sembianze perfino a noi stessi perché ormai non avremmo più bisogno di essere corpi pensanti o sofferenti, ma solo oggetti provvisti di ruoli e funzioni sistematicamente determinati non da regole di etica convivenza, non da richieste di morale comprensione per i nostri limiti di esseri umani, ma da una soglia di pura casualità, di mera contingenza oltre la quale sembra impossibile andare e che appare persino impossibile criticare. E mentre l'individuo si 'frantuma' in una pluralità di mancanze di senso (almeno apparenti), egli — che poi, almeno secondo gli studiosi del caso, saremmo tutti noi uomini comuni e perciò anche aiuti operatori, assistenti, operatori alla macchina, direttori <strong>della</strong> fotografia, temo nessuno escluso — vivrebbe in una sorta di angoscia indolore: che senso ha questa vita? perché vado avanti? per chi? L'assenza <strong>della</strong> consapevolezza di questo dramma sarebbe addirittura sopportabile — in fondo, non è il denaro oggi quello che conta? la qualità dell'uomo non è quantificabile grazie al suo conto in banca? e il successo individuale non è la nostra maggiore aspirazione? — se non ci fossero segnali, questi sì tragici e disperanti, che ce lo ripropongono quotidianamente: ad Aquisgrana, qualche tempo fa, quattro ragazzi si sono L'IMMAGINE E L'ANGOSCIA Un dramma del nostro tempo suicidati dopo aver lasciato una nota che pressappoco diceva: "Senza il successo non vale la pena di perdere tempo". Vivere questa vita, avrebbe detto Godard qualche anno fa- Di chi, o di che cosa, la responsabilità di tutto questo? Uno spettro s'aggira per il mondo, inafferrabile perché noi stessi, operatori del settore, in certi casi lo abbiamo addirittura mitizzato: la tecnologia, dove per ricerca tecnologica si intende un'unione tra scienza e tecnica tendente alla creazione di un mondo, per così dire, a scomparti dove ogni individuo possieda la propria specializzazione, il proprio specifico ruolo, e dove quello stesso individuo sia obbligato a non porsi troppe domande del tipo: in che modo la mia specificità professionale è collegata alle specificità dei miei simili? che senso ha la mia professione? a che e/o a chi serve? Insomma, al professionista dell'ultima ora si richiede esclusivamente che stia al suo posto, che consideri le proprie caratteristiche STEFANO COLETTA tecnico-professionali come le uniche che lo qualifichino e non tanto parte integrante delle proprie caratteristiche di uomo nella sua interezza. Egli diviene così il tecnico di sé stesso, il tecnico dei propri sentimenti usufruendo del proprio cuore e <strong>della</strong> propria coscienza come un computer usufruisce dei propri transistor. Il resto è ridotto al silenzio, semplicemente non conta. Ciò che resta sono solamente abitudini e il vincolo da esse generato non risiederebbe più nel vivere insieme, ma 'nella frequentazione quasi esclusiva <strong>della</strong> televisione'. Non più Storia, non più Poesia, non più Sentimenti, non più Memoria, ma soltanto, e qui è il paradosso che ci riguarda da vicino, immagini... Di ogni tipo, di ogni colore, siano esse abbaglianti e sfolgoranti, o tetre e opache, la maggior parte hanno comunque l'inquietante caratteristica di riprodurre incessantemente se stesse e la propria assoluta mancanza di senso! Ed eccoci al lato dolente perché, 59 a questo punto, qualcuno potrebbe offendersi sentendo parlar male <strong>della</strong> televisione. Ma, ahimé, come dice l'uomo saggio "la realtà è quella che è" e non si può fare a meno di essere d'accordo con Alexander Kluge quando afferma che "si sta formando un'alleanza tra nuove tecnologie, censura e trust industriali, allo scopo di organizzare una nuova coscienza in tutti", una nuova coscienza basata sul concetto di fotografia. A proposito di televisione e di cinema si sente direjche la differenza tra i due mezzi consisterebbe in una maggiore dose di spettacolo contenuta nel secondo. Niente da obiettare, a condizione che si sia cauti e al tempo stesso chiari nell'usare la parola 'spettacolo'. Perché quando l'immagine cosiddetta spettacolare diventa tecnologicamente fine a se stessa perde la sua ragione estetica e morale di esistere, diventa, nel migliore dei casi, e malgrado il fascino che può esercitare, incoerente e spesso stupida e volgare. L'equivalenza immagine-tecnica risulta in tal modo pericolosa proprio perché declassa l'immagine al servizio di una tecnologia che ci stupisce e ci abbaglia come se si trattasse di un miracolo prodotto da una novella religione. L'immagine come specchio <strong>della</strong> nostra vita diventa, da una parte, una specie di proiezione di noi stessi in un sogno colorato e affascinante ma illusorio e irrealistico, e fin qui niente di male perché ognuno è 'libero' di sognare come vuole, ma d'altra parte genera a livello psicologico uno strano processo di sostituzione: il collegamento più o meno diretto tra essere umano e mondo naturale si indebolisce; a una disciplina, per così dire, sottoposta alle leggi biologiche dell'individuo si sostituiscono regole e schemi di comportamento artificiali, una sorta di "sistema autonomo fondato sul collegamento di scienza, applicazione tecnica e sfruttamento industriale" (Barcellona) di cui l'essere umano non costituirebbe altro che un numero, una 'audience', ovviamente quantificabile che, nel caso più macroscopico delle televisioni private, diventa una vera e propria merce, oggetto di baratto tra la TV e lo sponsor di
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