AIC, 1988 - AIC Associazione Italiana Autori della Fotografia ...

AIC
logica del linguaggio. Il cinema,
polisemico per definizione, mette
in gioco tutti i linguaggi
figurativi.
a) Fotografico: dall'intera "scala
dei giri" alla trasformazione del
colore all'interno della stessa
scena ("Un sogno lungo un
giorno", 1982 di F.F. Coppola),
senza contare la scelta di una
luce di taglio, diffusa o in
controluce, b) Scenografico:
dove le leggi prospettiche e
prossemiche legano l'attore allo
spazio e lo mettono in relazione
con tutto quello che gli è stato
costruito attorno ("Professione
reporter", 1984 di M.
Antonioni). c) Fonico: che vuol
dire dialogo, rumori, musica ed il
diverso modo in cui vengono
usati. Mi viene in mente, come
in un'eco della coscienza:
"Strategia del ragno" (1970 di B.
Bertolucci), d) Recitativo:
recitare al cinema non vuol dire
soltanto imparare un dialogo, ma
anche i movimenti che formano
quel dialogo. Chiuso dentro un
rettangolo, destinato ad uscire o
entrare da destra o sinistra,
l'attore ripete parti obbligate e
movimenti di macchina precisi.
Non solo, ma il proprio corpo,
diviso tra un primo piano, un
totale ed un piano americano,
moltiplica senza saperlo tutti i
significati possibili (basta per
tutti "Casablanca", 1943 di M.
Curtiz).
Ma se fotografia (luce),
scenografia (spazio), suono
(parole, rumori, musica),
recitazione (comportamento)
sono e diventano linguaggi
indispensabili per l'essere del
cinema, altri ne esistono o se ne
possono ricavare attraverso
studiate regole di derivazione.
L'uno somma, sottrae, divide,
moltiplica gli altri. Certo cinema
privilegia la fotografia e la
scenografia, altro cinema la
recitazione e così via dicendo.
Ma tutti questi linguaggi esistono
perché c'è una cinepresa che si
muove e inquadra. Si muove
dopo aver scelto certi obiettivi.
Tra lunghi e corti "fuochi" si
brucia una storia. E poi resta
quel fantastico modo di riempire
uno spazio che è il movimento di
macchina.
Se la nostra testa fosse una
nuova Mitchell 35 mm. e i nostri
occhi capaci di aprirsi oltre i
120°, soltanto girando la testa
realizzerei panoramiche
incredibili (verticali, orizzontali,
a volontà), poi stanco di restare
fermo, mi alzerei per girare con
un carrello attorno al mio attore
ed allo spazio che lo circonda,
ma se mi arrabbio e decido di
volare, commetto un dolly
giocando a fuggire o raggiungere
la realtà che guardo. I linguaggi
indispensabili verrebbero così
delineati da questi modi di
ripresa, ora esaltandone certe
qualità, poi altre, nei momenti
più belli: tutte. Allora il film si
riempirebbe di cinema.
Dopo nasce il problema, non
indifferente, del senso.
Adottando questi diversi
linguaggi e coniugandoli insieme,
diventa difficile restare estranei
alla possibilità di interpretazioni
particolari. Anche se poi sono
meno del previsto. Senso
letterale, traslato, metaforico,
metonimico ed il lungo discorso
sul montaggio diventano subito
interpretabili se affrontati dopo
l'analisi combinatoria della
scrittura.
Una storia si scrive sempre alla
fine. La fine, conosciuta
all'inizio, permette la costruzione
e distribuzione esatta dei
significanti e dei significati.
Questa comprensione narrativa
lascia margini sempre minori nel
senso da scoprire che,
nonostante possa nascondersi
altrove, si riduce e fa compiere al
testo un viaggio di ritorno.
Le varie interpretazioni di un
film (psicoanalitica, sociologica,
economica, strutturale,
linguistica, ecc...) diventano
strumenti per altrettante analisi,
basta non dimenticare che il
"senso" è sempre parziale, poco
giudicabile e senz'altro
deludente. La comprensione
passa attraverso la conoscenza,
ma la conoscenza deve essere
pragmatica per evitare trappole
emotive. I personaggi, prigionieri
del loro ruolo (gelosi, innamorati,
infedeli, eccetera), sfidano la
storia senza riuscire a superarla.
Verranno malamente traditi
dalla scrittura, sempre così esatta
da colpirli dritti al cuore.
Nel tempo di un film riusciamo a
vedere le diverse combinazioni
della vita (la loro) e anche di più
(la nostra). Insomma diventa
evidente che il cinema traveste e
racconta tutti i conflitti della
realtà diventando vero, mentre
la realtà, costretta a tempi
troppo lunghi per farsi leggere,
resta finta.
Così come in un'orchestra la
musica è data dall'insieme degli
strumenti che suonano ed uno
esiste in rapporto all'altro,
altrettanto, guardando un film,
sbagliamo criticamente
inseguendo una storia anziché
cercare di distinguere i diversi
linguaggi che fanno diventare
quella storia non un semplice
film, ma cinema.
La vecchia distinzione tra
cinema e film ritorna ad imporsi
nella sua evidenza, si vendica ed
in silenzio continua ad essere
buona.
"The cinema is everything that cannot
be recounted with words, but try
telling that to people like me, you and
all the many others, who have been
ruined by years of story-telling" (René
Clair).
"Without and problem, we can once
more take up the distinction between
cinema and film, which has now lapsed
but was not always understood."
(Dialogo I by P.P. Pasolini, from
Cinema and Film n. 1,1966/67. A
film is a story, and cinema is the
language I use to tell it. Our heads are
full of films: old favorites, titles,
posters, even those we dream of seeing.
The cinema screen, which shows you
everything yet demonstrates nothing, is
devoid of cinema.
Another provocative remark made by
C. Metz ("La Significazione nel
Cinema" (Meaning in the Cinema),
Milan 1975) also comes to mind: "Just
think what the cinema (the
reproduction of moving images) could
have become if it hadn't had to express
itself merely through film!"
I'm going to stay with the observations
of René Clair and C. Met?: try to
determine, through their very
ambiguity, why 1 persist in loving this
"woman" (in Italian, the word "film"
was origiruilly of feminine gender) in
spite of her blatant betrayals, and my
increasingly pathetic faithfulness.
As the paradox is the maximum in
logic, I'm going to use it to judge
theories and aesthetics, not by
applying them to film, but by
evaluating them through the subject
under discussion: cinema and film. In
fact, as long as one speaks about films,
everybody is right; it is when one
speaks about cinema that many
arguments fall flat on their faces.
The moment has arrived to judge
theories with films and not films with
theories, so that we might to define
"cinema" more precisely.
At this point, it gives me pleasure to
quote R. Jakobson: "The theorists... are
mad with themselves because the
cinema has deviated from their
precious predictions. However, instead
of admitting that it is too bad for
theory, they continue to reiterate that
it is too bad for the cinema".
(Decadenza del Cinema? (The Decline
of the Cinema?) from "Cinema e Film"
n 2,1967.
To say that the truth does not exist, is
obviously a lie. And lies abound in the
cinema: film authors discovered too
early, others too late, some never.
However, I don't let this make me
angry, and devoted cinema-goer that 1
am, 1 am continually discovering
hidden truths everywhere — all one has
to do is to remember that what one
sees is not "reality", but a real form of
"writing". In the darkness of the
cinema, and from a completely
impartial view point, 1 constantly
translate the language on the screen.
And it is my pleasure, before reaching
the end of what might appear a wierd
existence to exercise my faculties in
deciphering the many languages
"spoken".
The cinema is the living proof of
reality's existing only when it is
reproduced — a seeming miracle.
Watching (reading, listening, speaking,
writing etc...) is a linguistic task; it
signifies finding meanings and,
therefore, defining them. A metonymic
task. But reading one form of
"writing", also means creating another.
The object (the text) becomes the
subject (the reader), but the subject
(the reader) becomes the object in his
turn (a new text: the reader who read
the original text). Our behaviour is
governed by the laws of linguisticm
whether we we wait it to be or not.
We read but we are also read.
!One could say, quoting one of R.
Barthes' many intuitive phrases: "truth
only exists in writing." ("Critica e
Verità" Criticism and Truth), Turin
1969). But it then becomes outrageous
that a theory, or cinematographic
study, should use the linguistic
construction of the actual script as a
departure point, rather than the
meaning communicated by the film.
Sometimes, five minutes of "cinema" is
worth more than a whole film. When
"cinema" stands for "writing", and
"film" for ambiguity, which is
obviously open to subjective judgement.
"Great" or "awful" immediately
become inappropriate definitions,
expressions of fixed and absolute
theories which result in a rhetoric
interpretation of the film. If the
distinction between "writing" and
"story" is not maintained, a somewhat
poisonous cinematographic "cuisine" is
concocten by the critics' inventing all
manner of exotic, aesthetic "recipes".
Films, as seen by Artusi ("L'arte di
mangiare bene" (The Art of Good
Eating"), become alternately: piquant,
tart, sweet, bitter, tough, tender, and
even sugary...
But when one can't face another exotic
dish, and one returns to interpret the
meaning of a film through its
language, one suddenly discovers, and.
is more attentive to the fact, that the
meaning does not exist by chance, but
is carefully constructed with a
comprehensive language of symbols.
So, the logic of language triumphs once
more! The cinema, polysemous by
definition, brings all the figurative
languages into play, a) Photography:
from the complete range of black and
white tones to the transformation of