Diritto, politica e realtà sociale nell'epoca della globalizzazione

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03.06.2013 Views

L’EPoCa DELLa gLoBaLIzzazIoNE sua sovra-opposizione «imperiale» 41 – e dunque non ritiene affatto, secondo l’universalismo pacifista di certe tecnocrazie, che l’ordine mondiale possa spontaneamente prodursi dagli automatismi e dalle «leggi» del dominio tecnico-economico, ma certamente riduce la funzione del Politico essenzialmente al mantenimento della «pace» del Sistema (la quale naturalmente comporta la piena affermazione di una cultura, una forma mentis, una gerarchia di valori). Gli Stati Uniti non pensano, e non potrebbero non pensare sul fondamento di tutta la loro storia, il nuovo Nómos della Terra che come la risultante dell’affermazione universale della Tecnica e della proiezione ubiquitaria del proprio sistema economico-militare. Non amplieranno mai territorialmente il proprio dominio, come Roma ha fatto. Ma mai costituiranno una cittadinanza universale, mai sapranno costituire una pace fondata sul riconoscimento reciproco del foedus. Potranno mantenere la «pace» per l’Occidente alle proprie condizioni? Tecnicamente, è probabile. A quali costi sociali? Con quale livello di tutela dei diritti? Con quali ricadute anche sull’assetto del potere economico-finanziario, sull’accelerazione delle spinte oligopolistiche anche nei settori più innovativi della net-economy? Hic sunt leones. Ma nessuno potrebbe seriamente escludere che la particolare logica «imperiale» americana, assolutamente incomparabile con quelle «classiche» si sviluppi in una sorta di «guerra giusta infinita», protetta dall’ideologia dell’«intolleranza umanitaria» 42 . La politica di questo «impero» si trasformerebbe allora, di necessità, in governo dell’emergenza perenne. 7. Prima di addentrarsi in questa prospettiva come in un destino, o credere di potervi reagire ritornando nell’antico grembo degli Stati o dedicandosi alle cattive utopie massonico-illuministiche delle Federazioni planetarie, della Società di tutte le nazioni, sarà 41 Cfr. Ch. Johnson, Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, trad. it. Gli ultimi giomi dell’impero americano, Milano, 2001. 42 Sul rischio di una tale deriva insiste da tempo, con particolare efficacia, D. Zolo; cfr., almeno, il suo I signori della pace, Roma, 1998. 53

54 MaSSIMo CaCCIaRI bene almeno «immaginare» la possibilità di una globalizzazione articolata per polarità concrete, per individualità storico-culturali determinate, per grandi spazi che possano riconoscersi per memoria e comuni destinazioni. La globalizzazione in atto ha già distrutto questa possibilità? O, peggio, l’idea di tali imperi non farebbe che spianare la via allo «scontro di civiltà»? Lo «scontro di civiltà» è reso possibile esattamente dalla ragione opposta: dal fatto che la globalizzazione in atto esige uno spazio-tempo unico e indifferente e non concepisce il «luogo» se non come il «punto», dove «atterrano», contingentemente, interessi, investimenti – e guerre. Solo una politica che sappia la propria insuperabile parzialità, ma sappia anche plasmarla all’altezza dell’«epoca globale», e cioè oltre ogni nostalgia «nazionalistica», può costituire il fondamento di un’intesa tra cultura e civiltà. Analogamente, mai il «locale» potrà «salvarsi» in una globalizzazione che procede nel senso dell’astratta, universale omologazione. La metafora del «globale» mistifica semplicemente il fatto che il «locale» sta appunto trasformandosi in mero prodotto del globale. L’individualità del «luogo» potrà ancora avere un senso soltanto nell’ambito dei «grandi spazi» concretamente, storicamente definiti, di cui parliamo – così come lo aveva nell’idea romana di impero. Senza poliarchia imperiale nessun «luogo», così come nessuna possibilità di un Nómos della terra diverso dall’affermazione universale di una lex mercatoria difesa dalla potenza militare e predicata a nome di diritti che nessuna giurisdizione internazionale sancisce e tutela. Un nuovo, vero diritto internazionale, che superi quel garantismo eclettico al servizio di ogni ingerenza o intervento militare, che oggi sembra avere ormai preso il posto del vecchio diritto fondato sugli accordi o patti interstatuali, non potrà nascere che dal foedus tra le universalità concrete dei grandi spazi imperiali. Se questa è utopia, mille volte più lo è quella di un diritto internazionale astratto da ogni istituzione effettivamente globale, alla costante, defatigante ricerca di una universale Auctoritas per l’affermazione dei «diritti umani». L’idea di una globalizzazionene poliarchica, policentrica, realistica o no che sia, appare tuttavia oggi come l’unico senso politico

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MaSSIMo CaCCIaRI<br />

bene almeno «immaginare» la possibilità di una <strong>globalizzazione</strong><br />

articolata per polarità concrete, per individualità storico-culturali<br />

determinate, per grandi spazi che possano riconoscersi per<br />

memoria e comuni destinazioni. La <strong>globalizzazione</strong> in atto ha già<br />

distrutto questa possibilità? O, peggio, l’idea di tali imperi non<br />

farebbe che spianare la via allo «scontro di civiltà»? Lo «scontro<br />

di civiltà» è reso possibile esattamente dalla ragione opposta: dal<br />

fatto che la <strong>globalizzazione</strong> in atto esige uno spazio-tempo unico<br />

e indifferente e non concepisce il «luogo» se non come il «punto»,<br />

dove «atterrano», contingentemente, interessi, investimenti<br />

– e guerre. Solo una <strong>politica</strong> che sappia la propria insuperabile<br />

parzialità, ma sappia anche plasmarla all’altezza dell’«epoca globale»,<br />

e cioè oltre ogni nostalgia «nazionalistica», può costituire<br />

il fondamento di un’intesa tra cultura e civiltà. Analogamente,<br />

mai il «locale» potrà «salvarsi» in una <strong>globalizzazione</strong> che procede<br />

nel senso dell’astratta, universale omologazione. La metafora<br />

del «globale» mistifica semplicemente il fatto che il «locale» sta<br />

appunto trasformandosi in mero prodotto del globale. L’individualità<br />

del «luogo» potrà ancora avere un senso soltanto nell’ambito<br />

dei «grandi spazi» concretamente, storicamente definiti,<br />

di cui parliamo – così come lo aveva nell’idea romana di impero.<br />

Senza poliarchia imperiale nessun «luogo», così come nessuna<br />

possibilità di un Nómos <strong>della</strong> terra diverso dall’affermazione<br />

universale di una lex mercatoria difesa dalla potenza militare e<br />

predicata a nome di diritti che nessuna giurisdizione internazionale<br />

sancisce e tutela. Un nuovo, vero diritto internazionale, che<br />

superi quel garantismo eclettico al servizio di ogni ingerenza o<br />

intervento militare, che oggi sembra avere ormai preso il posto<br />

del vecchio diritto fondato sugli accordi o patti interstatuali, non<br />

potrà nascere che dal foedus tra le universalità concrete dei grandi<br />

spazi imperiali. Se questa è utopia, mille volte più lo è quella<br />

di un diritto internazionale astratto da ogni istituzione effettivamente<br />

globale, alla costante, defatigante ricerca di una universale<br />

Auctoritas per l’affermazione dei «diritti umani».<br />

L’idea di una <strong>globalizzazione</strong>ne poliarchica, policentrica, realistica<br />

o no che sia, appare tuttavia oggi come l’unico senso politico

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