Diritto, politica e realtà sociale nell'epoca della globalizzazione

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03.06.2013 Views

L’EPoCa DELLa gLoBaLIzzazIoNE se mai in Virgilio compare questo attributo!) 39 , ma l’ordine che persegue non è affatto quello che risulta dall’eliminazione delle differenze, tantomeno dall’imposizione di un modello culturale. Roma non si concepisce affatto come il Centro, ma centro diventano piuttosto tutte le realtà che via via vengono a comporre l’orbe romano. Il foedus che si può stabilire tra di esse, e che costituisce l’unico mezzo per superare la guerra e pervenire ad un regime di amicitia e hospitium, ha in qualche modo valore anche retroattvo: chi vi fa parte, anche se sconfitto, si trasforma in vincitore («ambae invictas gentes» diventeranno, nelle parole di Enea, latini e troiani, se capaci del foedus) condividendone ogni diritto (anzitutto, appunto, quello alla conservazione della propria identità). Certo, ripetiamolo, questa idea imperiale è minacciata da tendenze alla «monarchia», che diventano sempre più prepotenti – e tuttavia mai, neppure nei momenti in cui il principatus sembra più radicalmente dimenticare le origini repubblicane, esso oserà presentarsi legibus solutus, come Autorità che detta la propria volontà a tutti gli organismi dell’impero, sulla base della certezza che la salvezza dell’orbe dipenda dalle sue decisioni. 6. È concepibile oggi uno spazio imperiale così strutturato? Sulla base di accordi e patti non meramente convenzionali tra identità ricche di significato storico-culturale? Un impero che viva delle loro differenze? Ed è concepibile che tali differenze possano produrre, iuxta propria principia un foedus? Che possa valere tra loro una fidelitas, che non sia vassallaggio dell’una nei confronti dell’altra? Abbiamo già visto come questa idea non possa corrispondere in nulla con quella dello Stato mondiale né con quella di impero universale-planetario. Uno Stato mondiale è concepibile soltanto come l’affermazione imperialistica di uno Stato; l’impero universale, a sua volta, soltanto come il prodotto dello sradicamento inglobante di ogni differenza culturale, come «affrancamento» del sistema-mondo da ogni nazione, gente, città. 39 Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del «diritto internazionale antico», Sassari, 1991. 51

52 MaSSIMo CaCCIaRI Ma la «metafora romana» può effettualmente valere? Si potrebbe ripetere l’«esercizio» di Machiavelli sulla prima Deca di Livio?! Anzitutto occorrerebbe rispondere alla domanda: dopo Azio, e cioè dopo il crollo del Muro, dopo la vittoria nella Grande Guerra Civile, possono gli Stati Uniti esprimere quella politica imperiale che Roma avrebbe (invano?) perseguito? Chi ritiene che la politica futura sia possibile soltanto nella dimensione imperiale ha il dovere di formulare la domanda senza alcun pregiudizio. Come interpretano oggi gli Stati Uniti la propria «missione»? Nel senso dell’Auctoritas che fonda nuove istituzioni globali? Emerge piuttosto una chiara volontà di limitare al massimo autorevolezza e autonomia delle poche esistenti. O piuttosto la politica americana rivela a questa proposito un’evidente e caratteristica dissimmetria: mantenere deboli gli organismi politici sovra-statuali e rafforzare quelli (nominalmente) tecnico-economici. Ciò non deriva affatto solo da calcoli di convenienza, poiché è evidentemente in questi ultimi che il proprio peso politico non può che rivelarsi schiacciante. Qui si esprime una concezione della globalizzazione e del nuovo ordine mondiale. La politica americana presuppone che esso possa nascere soltanto dalla compiuta integrazione delle diverse aree del pianeta in un’unica dimensione tecnico-economica. In questa visione tutto il mondo è periferia più o meno prossima della «città sulla collina», da «risanare» con l’esempio, se – come ci si augura – possibile, o con l’intervento diretto («compelle intrari!») 40 . L’idea regolativa di tale cultura politica non è perciò quella né di un dominio imperialistico, né della creazione di uno Stato mondiale, ma della formazione di un impero universale come Sistema unico, la cui «pace» sia garantita dalla forza militare degli Stati Uniti e dei suoi veri alleati. Essa sconta, dunque, i contraccolpi che non potrà non produrre, le drammatiche contraddizioni che possono nascere dalla 40 Sul grande tema della frontiera, dello spazio aperto e del rapporto centroperiferia nelle tendenze di lungo periodo della politica americana, a me pare che le ricerche ancora più stimolanti siano quelle di W. Appleman Willams, Le frontiere dell’impero americano, Bari, 1978, e da lui raccolte in AA.VV., Da colonia a impero. La politica estera americana 1750-1970, Bari, 1982.

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MaSSIMo CaCCIaRI<br />

Ma la «metafora romana» può effettualmente valere? Si potrebbe<br />

ripetere l’«esercizio» di Machiavelli sulla prima Deca di Livio?!<br />

Anzitutto occorrerebbe rispondere alla domanda: dopo Azio, e<br />

cioè dopo il crollo del Muro, dopo la vittoria nella Grande Guerra<br />

Civile, possono gli Stati Uniti esprimere quella <strong>politica</strong> imperiale<br />

che Roma avrebbe (invano?) perseguito? Chi ritiene che la <strong>politica</strong><br />

futura sia possibile soltanto nella dimensione imperiale ha il<br />

dovere di formulare la domanda senza alcun pregiudizio. Come<br />

interpretano oggi gli Stati Uniti la propria «missione»? Nel senso<br />

dell’Auctoritas che fonda nuove istituzioni globali? Emerge piuttosto<br />

una chiara volontà di limitare al massimo autorevolezza e<br />

autonomia delle poche esistenti. O piuttosto la <strong>politica</strong> americana<br />

rivela a questa proposito un’evidente e caratteristica dissimmetria:<br />

mantenere deboli gli organismi politici sovra-statuali e rafforzare<br />

quelli (nominalmente) tecnico-economici. Ciò non deriva affatto<br />

solo da calcoli di convenienza, poiché è evidentemente in questi ultimi<br />

che il proprio peso politico non può che rivelarsi schiacciante.<br />

Qui si esprime una concezione <strong>della</strong> <strong>globalizzazione</strong> e del nuovo<br />

ordine mondiale. La <strong>politica</strong> americana presuppone che esso possa<br />

nascere soltanto dalla compiuta integrazione delle diverse aree<br />

del pianeta in un’unica dimensione tecnico-economica. In questa<br />

visione tutto il mondo è periferia più o meno prossima <strong>della</strong> «città<br />

sulla collina», da «risanare» con l’esempio, se – come ci si augura<br />

– possibile, o con l’intervento diretto («compelle intrari!») 40 . L’idea<br />

regolativa di tale cultura <strong>politica</strong> non è perciò quella né di un dominio<br />

imperialistico, né <strong>della</strong> creazione di uno Stato mondiale, ma<br />

<strong>della</strong> formazione di un impero universale come Sistema unico, la cui<br />

«pace» sia garantita dalla forza militare degli Stati Uniti e dei suoi<br />

veri alleati. Essa sconta, dunque, i contraccolpi che non potrà non<br />

produrre, le drammatiche contraddizioni che possono nascere dalla<br />

40 Sul grande tema <strong>della</strong> frontiera, dello spazio aperto e del rapporto centroperiferia<br />

nelle tendenze di lungo periodo <strong>della</strong> <strong>politica</strong> americana, a me pare che le<br />

ricerche ancora più stimolanti siano quelle di W. Appleman Willams, Le frontiere<br />

dell’impero americano, Bari, 1978, e da lui raccolte in AA.VV., Da colonia a impero.<br />

La <strong>politica</strong> estera americana 1750-1970, Bari, 1982.

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