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Geocentro Magazine - numero 6 - novembre/dicembre 2009

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www.shutterstock.com/izoom<br />

“Quando ci siamo trovati, insieme a Rogers, a progettare il<br />

Beaubourg io avevo 33 anni, lui un po’ di più. Abitavamo<br />

a Londra ed eravamo una specie di Beatles. Vincemmo il<br />

concorso con 681 partecipanti e ancora adesso non ho capito<br />

perché e soprattutto come abbiano potuto lasciarci fare. Però –<br />

continua Piano – ciò che conta è che l’edificio funziona e oggi<br />

è amato. Gli edifici, quelli che contano, non entrano subito<br />

nella ritualità, negli affetti. Hanno bisogno di guadagnarseli gli<br />

affetti e oggi questo edificio e la piazza sono entrati negli affetti,<br />

funzionano, sono amati, vissuti, sono un punto d’incontro”.<br />

Il Beaubourg, ricorda l’architetto genovese, seppe cogliere<br />

“l’ansia di sociale” che caratterizzava quegli anni (tra il ’71<br />

e il ’77, anno di inaugurazione) e lo fece attraverso l’idea<br />

di fabbrica. “Un’idea che molti ci contestavano come se<br />

fosse una bestemmia, mentre noi naturalmente eravamo<br />

felicissimi, perché era chiaro che l’idea di fabbrica era servita<br />

per contraddire l’idea invece molto intimidente di centro<br />

culturale di pietra”. E quindi l’edificio “doveva sì esprimere una<br />

fabbrica, ma soprattutto un senso di apertura, di tolleranza”.<br />

Cominciare a confondere sacro e profano. “Il Beaubourg –<br />

conclude Piano – non ha creato la trasformazione dei musei,<br />

ma l’ha interpretata. E’ stato il momento in cui i musei hanno<br />

cominciato ad essere vissuti in maniera molto più aperta”.<br />

Rigenerazione urbana ad Otranto. L’ascolto e la partecipazione<br />

Altre immagini. Inizio anni ’80. Il primo lavoro di<br />

Piano con l’Unesco. Partendo dall’idea che “un centro<br />

storico deve essere studiato nell’unità, le pietre insieme<br />

alla gente, realizzammo un’unità portatile, montata<br />

nel centro di Otranto”. Attorno all’unità mobile, che<br />

Centro Georges Pompidou, Parigi<br />

servì a svolgere analisi sugli edifici utilizzando tecniche<br />

conoscitive “rubate letteralmente dalla medicina, per<br />

capire e per fare delle diagnosi molto più precise”, si<br />

coagulò anche un aspetto molto importante del progetto,<br />

quello dell’ascolto e della partecipazione”.<br />

“Non vi immaginate gli scempi che si fanno quando si decide<br />

di demolire. Non solo si butta giù e si cancella ogni traccia,<br />

ma soprattutto si manda via la famiglia che è dentro la casa<br />

interrompendo una spirale virtuosa, la connessione che c’è<br />

tra le pietre e le persone. E’ un fatto che si perpetua a fin di<br />

bene, ma è disastroso”. Ecco perché prima di procedere, oltre<br />

e insieme allo studio e all’analisi degli edifici, è importante<br />

ascoltare chi ci vive, chi ci abita.<br />

“Il tema della partecipazione - riprende Piano – ricorre<br />

continuamente nel mio lavoro. Di esperienze come quella<br />

dell’assemblea di piazza ad Otranto ne ho fatte tante. Ho<br />

passato la vita a discutere ed è difficilissimo”. Ma il fatto che<br />

sia un ‘metodo’ difficile, sottolinea, non vuol dire che bisogna<br />

abbandonarlo. Perché se è vero che “ascoltare è una delle arti<br />

più difficili” e, soprattutto, “non è l’arte dell’ubbidire”, è<br />

altrettanto vero che “ascoltare significa capire”. E per questo<br />

“un bravo architetto deve sapere ascoltare”.<br />

L’importanza del lavoro di gruppo<br />

Un’altra immagine. “Questa è una scena di lavoro di<br />

team nel giardino di casa mentre lavoravamo sulla Menil<br />

Collection a Huston”. Lavorare in gruppo è una cosa molto<br />

importante ma anche difficile. “Perché tutti dicono che si<br />

lavora in gruppo, team work, ma in realtà, poi, si lavora a<br />

cascata, che è diverso. Per me – dice Piano – il vero team<br />

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