Relazione annuale e questioni giuridiche - Consiglio Ordine ...
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Questione giuridica n. 1<br />
Sulla responsabilità professionale del medico strutturato.<br />
Durante un intervento chirurgico veniva dimenticato in loco un corpo estraneo.<br />
Citato in giudizio per ottenere risarcimento del danno, il chirurgo respingeva ogni<br />
addebito, sostenendo che l’intervento era di difficile esecuzione e che, pertanto,<br />
spettava al paziente fornire la prova rigorosa della inadeguata prestazione<br />
professionale.<br />
Come va, dunque, ripartito l’onere della prova tra il paziente e il professionista?<br />
Quali conseguenze per il professionista?<br />
****************<br />
La Suprema Corte di Cassazione, negli ultimi tempi, ha costantemente inquadrato la<br />
responsabilità del medico, dipendente dell’ente ospedaliero, nei confronti del<br />
paziente nella responsabilità di tipo contrattuale sulla base della teoria del “contatto<br />
sociale”: “L’obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario nazionale per<br />
responsabilità professionale nei confronti del paziente ha natura contrattuale, ancorché non<br />
fondata sul contratto ma sul , caratterizzato dall'affidamento che il<br />
malato pone nella professionalità dell'esercente una professione protetta” (Cass. civ., III<br />
sez., 22.01.99, n. 589).<br />
Secondo la Corte, tale contatto ha valenze sociali, perché il paziente legittimamente<br />
confida nelle capacità del professionista, in considerazione sia del fatto che lo Stato,<br />
previo esame di abilitazione, conferisce solo ai medici l'esercizio esclusivo<br />
dell'attività specifica, sia del fatto che egli è tenuto a prestare la sua opera<br />
improntandola a principi di correttezza, in virtù del rapporto di lavoro che il<br />
professionista ha con l'ente ospedaliero (Altamura B.M., Sulla responsabilità<br />
professionale contrattuale da "contatto sociale", Rass. Med. Leg. Prev., 1999, XII, p.1,).<br />
In altre parole, il medico, pur in assenza del “formale” negozio giuridico, è tenuto<br />
ad adempiere obblighi di cura che derivano dalla sua appartenenza ad una<br />
“particolare” professione protetta, su cui il paziente ha fatto “affidamento” entrando<br />
in contatto con lui (Mommo, Responsabilità medica e risarcimento danni, su<br />
www.altalex.it).<br />
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A questo tipo di operatore professionale, la coscienza sociale, prima ancora che<br />
l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere, cioè il puro rispetto<br />
della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma<br />
giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare<br />
l'attività in ogni momento (Altamura B.M., Sulla responsabilità professionale<br />
contrattuale da "contatto sociale", Rass. Med. Leg. Prev., 1999, XII, p.1).<br />
Tale relazione socialmente tipica così come inquadrata dalla Corte, viene ad essere<br />
ricondotta all’alveo delle fonti delle obbligazioni quale “un fatto idoneo a<br />
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” ai sensi dell’art. 1173 c. c.<br />
La disposizione, infatti, stabilendo che “le obbligazioni derivano da contratto, da<br />
fatto illecito e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle conformità<br />
all’ordinamento giuridico”, consente di inserire tra le fonti, principi di rango<br />
costituzionale, come il diritto alla salute.<br />
Trattandosi, però, di obbligazione inerenti all’esercizio di attività professionali, la<br />
misura dello sforzo diligente necessario per il relativo corretto adempimento va<br />
valutata, a norma dell’art. 1176, co. 2°, in relazione al tipo di attività dovuta per il<br />
soddisfacimento dell’interesse creditorio: “Il medico-chirurgo, nell'adempimento<br />
delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad<br />
una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto<br />
dall'art. 1176, co. 1°, c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato, come<br />
indicato dal comma 2 dell'art. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e<br />
gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione<br />
medica” (Cass. civ., III sez., 13.01.05 n. 583), “ivi compreso l’obbligo di<br />
sorveglianza della salute del soggetto operato anche nella fase postoperatoria”<br />
(Cass. civ., III sez., 11.03.02 n. 3492).<br />
La disposizione a carattere generale di cui all’art. 1176 c.c. va, peraltro, coordinata<br />
con la specifica disposizione in tema di professioni di cui all’art. 2236 c.c., che si<br />
riferisce ad una speciale abilità tecnica, da intendere come impegno intellettuale,<br />
preparazione e dispendio di attività superiori alla media e per la quale il<br />
professionista risponde solo in ipotesi di dolo o colpa grave.<br />
In passato, il criterio di diligenza veniva posta in relazione alle prestazioni che,<br />
avendo ad oggetto un facere, erano suscettibili di essere apprezzate dal punto di<br />
vista qualitativo dell’osservanza di certe regole tecniche.<br />
Ci si riferisce a quelle obbligazioni definite “di mezzi”, che tradizionalmente si<br />
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oppongono alle “obbligazioni di risultato”.<br />
Come è noto, “nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un<br />
particolare esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente ove<br />
svolga l'attività richiesta nel modo dovuto. In tali obbligazioni è il comportamento<br />
del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente<br />
considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l'ulteriore<br />
corollario che il risultato è caratterizzato dall’ aleatorietà, perché dipende, oltre che<br />
dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.<br />
Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del<br />
risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo.<br />
La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e<br />
valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il<br />
creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione” (Cass.,<br />
SS.UU., 11.01.08 n. 577).<br />
Tale distinzione era spesso utilizzata per risolvere problemi di ordine pratico, tra cui<br />
proprio la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto<br />
dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabili.<br />
In particolare, si sosteneva “mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il<br />
risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il mancato risultato era<br />
dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore<br />
incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non<br />
imputabile” (Cass., SS.UU., 11.01.08 n. 577).<br />
Tuttavia, tale impostazione non era immune da profili problematici, perché,<br />
lasciando sopravvivere, per le obbligazioni di mezzi o di diligenza, la regola di<br />
responsabilità basata sulla colpa analoga a quella dell’art. 2043 c.c., l’onere<br />
probatorio era a carico del paziente insoddisfatto.<br />
La regola di base era la seguente: il paziente - creditore doveva provare la colpa,<br />
cioè che il comportamento del debitore era contrario ai doveri di diligenza,<br />
prudenza e perizia, il danno e il nesso di causalità materiale; al sanitario incombeva<br />
provare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della<br />
prestazione.<br />
A guardare le cose dal punto di vista dei grandi numeri, l’assetto era più favorevole<br />
al medico, in parte perché, gravando sul danneggiato l’onere della prova, la vasta<br />
area grigia dell’incertezza portava al rigetto della sua domanda. In parte perché il<br />
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momento chiave del processo, la consulenza tecnica d’ufficio, era governata da altri<br />
medici inevitabilmente portati — come per ogni altra professione — a non accanirsi<br />
nei confronti del collega: hodie tibi, cras mihi (Zeno – Zencovich, Una commedia<br />
degli errori? La responsabilità medica fra l’illecito e l’inadempimento, p. 299).<br />
Tuttavia, tale classificazione venne sottoposta a revisione sia da parte della dottrina<br />
che della giurisprudenza.<br />
In dottrina, si osservò che l'art. 1176 cod. civ. riguardante la diligenza<br />
nell'adempimento, e l'art. 1218 cod. civ., sulla responsabilità del debitore per<br />
l'inadempimento, erano poste a regolamentare tutte le obbligazioni, e non erano<br />
suscettibili di applicazione distinta a seconda della tipologia di obbligazioni in<br />
discorso (applicabilità del severo art. 1218 solo per le obbligazioni di risultato,<br />
valendo il principio della diligenza per le altre) (P.Rescigno, Obbligazioni, in Enc.<br />
Dir., XXIX, 1979, 190).<br />
La giurisprudenza, invece, allo scopo di equilibrare le esigenze di tutela del<br />
paziente, da un lato, e quelle del medico, dall’altro, introdusse una nuova<br />
ripartizione, quella degli interventi “di facile esecuzione” e quelli che implicavano la<br />
“soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, ex art. 2236 c.c., riconnettendo<br />
al grado di difficoltà un differente regime probatorio (Cass. civ., III sez., 21.12.78 n.<br />
6141; Cass. civ., III sez., 04.02.98, n. 1127).<br />
L’intenzione della Suprema Corte era quella di porre il medico nella condizione di<br />
agire con maggior serenità in interventi di speciale difficoltà, ma di<br />
responsabilizzarlo in modo consistente qualora si trattasse di prestazioni facili o di<br />
semplice routine.<br />
Ma che cosa si intendeva per interventi di facili o di difficile esecuzione?<br />
Un intervento veniva considerato di “facile o routinaria esecuzione” quando “non<br />
richiedeva una particolare abilità, essendo sufficiente una preparazione professionale<br />
ordinaria, ed il rischio di esito negativo o addirittura peggiorativo era minimo” (Cass. civ.,<br />
III sez., 21.12.78 n. 6141).<br />
Tale rilievo si basava sull’ id quod plerunque accidit inteso come l’insieme delle regole<br />
tecniche appartenenti al settore specifico in cui opera il medico e che, per comune<br />
consenso e consolidata sperimentazione, sono acquisite dalla scienza e applicate<br />
nella pratica .<br />
In tal caso, se il risultato dell’intervento era peggiorativo, nel senso che le condizioni<br />
del paziente erano deteriori rispetto a quelle preesistenti, operava una presunzione<br />
dell’inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale.<br />
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Presunzione questa, vincibile solo con prova contraria, e cioè dimostrando che<br />
l’esito negativo dell’intervento era stato causato dal sopravvenire di eventi<br />
imprevisti o imprevedibili o dalla persistenza di una particolare condizione fisica<br />
del paziente, non accertabile con il criterio dell’ordinaria diligenza professionale.<br />
In tal modo spettava al medico provare, al fine da non incorrere in responsabilità,<br />
che l’esito negativo dell’intervento non era dipeso da propria negligenza o<br />
imperizia, ma unicamente dal caso fortuito o da forza maggiore.<br />
Qualora il caso specifico implicasse, invece, «la soluzione di problemi tecnici di speciale<br />
difficoltà», secondo l’espressione adottata dall’art. 2236 c.c., una volta provata dal<br />
medico la difficoltà dell’intervento, doveva essere il paziente a dover dimostrare, in<br />
modo preciso, le modalità di esecuzione dell’operazione ritenute non idonee o<br />
improprie.<br />
Più precisamente, tale prova doveva consistere in “dati obiettivi idonei e sufficienti” in<br />
base ai quali il giudice avrebbe valutato se, in relazione al caso concreto, potevano<br />
considerarsi sufficienti “la preparazione professionale media e la diligenza media<br />
nell’esercizio dell’attività professionale, di cui all’art. 1176 c.c., o se, al contrario era<br />
necessario “ un impegno tecnico-professionale superiore”(Cass. civ., III sez., 21.12.78 n.<br />
6141).<br />
Nel giro di pochi anni, tale orientamento interpretativo è mutato, anche grazie al<br />
principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite, proprio in tema di onere<br />
della prova in caso d’inadempimento ed inesatto adempimento: “il creditore che<br />
agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per<br />
l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi<br />
alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è al<br />
debitore convenuto che incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto<br />
adempimento.<br />
Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto<br />
adempimento, al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza<br />
dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero<br />
per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative<br />
dei beni), gravando sul debitore l’onere di dimostrare di avere esattamente adempiuto”<br />
(Cass., SS.UU., 30 .10. 01, n. 13533).<br />
Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità<br />
professionale, la Suprema Corte, in alcune recenti sentenze, ha affermato che “il<br />
paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento<br />
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dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario,<br />
restando a carico del debitore (medico-struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la<br />
prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è<br />
dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile<br />
né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta. Pertanto, in base alla regola di cui<br />
all’articolo 1218 c.c. il paziente - creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il<br />
relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del<br />
medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità” (Cass. civ., III sez., 13.04.07 n.<br />
8826; Cass. civ., III sez., 28.05.04, n.10297) .<br />
Siffatta ripartizione ha ricevuto l’avallo delle Sezioni unite, per le quali l'attore,<br />
paziente danneggiato, deve limitarsi “a provare il contratto (o il contatto sociale) e<br />
l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento<br />
del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore<br />
dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è<br />
stato eziologicamente rilevante” (Cass., SS.UU., 11.01.08 n. 577).<br />
Per il professionista, ormai, non vale invocare, al fine di farne conseguire la propria<br />
irresponsabilità, la distinzione tra interventi “facili” e “difficili”, “in quanto<br />
l’allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della<br />
prestazione”, tanto meno vale ricorrere alla distinzione tra “obbligazione di mezzi” e<br />
“obbligazione di risultato”, in quanto “in ogni obbligazione si richiede la compresenza<br />
sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile[…];in<br />
ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il<br />
vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo” (Cass., SS.UU., 11.01.08 n.<br />
577).<br />
Inquadrata, infatti, nell'ambito contrattuale la responsabilità del medico, nel<br />
rapporto con il paziente, il medico ospedaliero è contrattualmente tenuto ad un<br />
risultato dovuto, ossia al risultato conseguibile secondo i criteri di normalità, da<br />
valutarsi in relazione alle condizioni del paziente, all’abilità tecnica del<br />
professionista e alla capacità tecnico-organizzativa della struttura sanitaria, sicché in<br />
caso responsabilità per inadempimento si applica una sola norma, quella<br />
contenuta nell’art. 1218 c.c. Ciò comporta un’inversione dell’onere della prova<br />
perché, in tal caso, spetta al debitore provare i fatti estintivi dell’inadempimento, per<br />
cui se la prova non riesce, le cause ignote saranno addebitate al debitore<br />
inadempiente.<br />
D’altra parte, afferma la Corte “appare in effetti incoerente ed incongruo richiedere al<br />
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professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi<br />
di intervento di facile esecuzione o routinario, e addossare viceversa al paziente l’onere di<br />
provare «in modo preciso e specifico» le «modalità ritenute non idonee» quando l’intervento<br />
è di particolare o speciale difficoltà. Proprio nel caso in cui l’intervento implica cioè la<br />
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiede notevole abilità, e la soluzione di<br />
problemi tecnici nuovi o di speciale complessità, con largo margine di rischio in presenza di<br />
ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero oggetto di sistemi<br />
diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi ed incompatibili tra loro. [….] Tale<br />
soluzione si palesa infatti ingiustificatamente gravatoria per il paziente, in contrasto invero<br />
con il principio di generale favor per il creditore - danneggiato cui l’ordinamento è<br />
informato.<br />
In tali circostanze è infatti indubitabilmente il medico specialista a conoscere le regole<br />
dell’arte e la situazione specifica - anche in considerazione delle condizioni del paziente - del<br />
caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere all’onere di provare l’osservanza<br />
delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la<br />
discrezionalità rispetto a procedure standardizzate.[…..] Va quindi conseguentemente<br />
affermato che in ogni caso di “insuccesso” incombe al medico dare la prova della particolare<br />
difficoltà della prestazione” (Cass. civ., III sez., 13.04.07 n. 8826).<br />
Travolti, dunque, i delicati equilibri riguardante la distinzione tra prestazione di<br />
facile esecuzione e di difficile esecuzione come criterio di distribuzione dell’onere<br />
della prova, per la giurisprudenza di legittimità tale ripartizione rileva “solamente ai<br />
fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al<br />
sanitario” (Cass. civ., III sez., 28.05.04, n.10297).<br />
Per tale motivo, “all’articolo 2236 c.c. non va conseguentemente assegnata rilevanza<br />
alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio” (Cass. civ., III sez., 13.04.07 n.<br />
8826), sia perché, come abbiamo visto, “incombe in ogni caso al medico dare la prova<br />
della particolare difficoltà della prestazione,” (Cass. civ., III sez., 13.04.07 n. 8826), sia<br />
perché “una eventuale limitazione della responsabilità attiene esclusivamente alla perizia,<br />
con esclusione dell’imprudenza e della negligenza” (Cass. civ., III sez., 19.04.06, n. 9085;<br />
Cass. civ., III sez., 13.01.05 n. 583; Cass. civ., III sez., 05.07.04, n. 12273; Cass. civ., III<br />
sez., 16.02.01, n. 2335).<br />
Al riguardo, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “i problemi”<br />
contemplati dall’art. 2236 c.c. sono quelli “che richiedono un impegno intellettuale<br />
superiore a quello professionale medio, con conseguente presupposizione di preparazione e<br />
dispendio di attività anch’esse superiori alla media ” ovvero quelli “che concernono casi di<br />
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particolare complessità, oggetto di dibattiti scientifici che non hanno raggiunto risultati<br />
univoci” (Cass. Civ., sez. III, 10 maggio 2000, n. 5945).<br />
Pertanto, il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di<br />
diligenza o di prudenza provochi un danno nell’esecuzione di un intervento<br />
operatorio o di una terapia medica, pur se questo implichi la soluzione di problemi<br />
tecnici particolarmente difficili.<br />
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Questione giuridica n. 2<br />
A seguito di una caduta accidentale di un bambino di 4 anni da una panchina,<br />
durante l’orario scolastico, la madre sporgeva querela presso la locale stazione dei<br />
carabinieri ai danni dell’insegnante di turno presente al momento del fatto.<br />
Appresa la notizia del reato, il Pubblico Ministero ne chiedeva , tuttavia,<br />
l’archiviazione.<br />
La persona offesa si opponeva alla richiesta, chiedendo che venisse formulata<br />
l’imputazione per violazione degli artt. 590, 593, 572 c.p.<br />
Ma può una caduta accidentale integrare il reato di cui all’art. 572 c.p.?<br />
****************<br />
Il reato previsto dall’art. 572 c.p., rubricato come “Maltrattamenti in famiglia e contro i<br />
fanciulli”, è disciplinato nel Libro II, Titolo XI “Dei delitti contro la famiglia”, Capo IV<br />
“Dei delitti contro l’assistenza familiare”.<br />
Sebbene considerato un tipico reato contro la famiglia, in verità esso può<br />
configurarsi anche in assenza dei vincoli di parentela civili o naturali ovvero<br />
rapporti di convivenza o di coabitazione, essendo sufficiente l’esistenza di un<br />
regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà e strette relazioni, dovute<br />
a motivi anche di carattere assistenziale ( Cass. pen., VI sez., 03.07.97, n. 1067).<br />
Può essere il caso di coloro che abbiano convissuto per un determinato periodo di<br />
tempo e che siano ora legati, dopo la separazione, da stretti rapporti in ragione della<br />
presenza di figli, in affido congiunto o condiviso, oppure degli ex coniugi che<br />
abbiano un obbligo di alimenti nei confronti dell’altro. La separazione legale, infatti,<br />
pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia integri i<br />
doveri di reciproco rispetto, di assistenza materiale e morale, nonché di<br />
collaborazione (Sartirana, Maltrattamenti anche al di fuori della “famiglia” ed anche<br />
senza lesioni, Rivista Ventiquattrore, in www.ilsole24ore.it).<br />
Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto per la fattispecie<br />
criminosa in questione, “il suddetto stato di separazione non esclude il reato di<br />
maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei<br />
vincoli che , rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa<br />
in posizione psicologica subordinata”(Cass. pen., VI sez., 22.11.96, n. 10023: nel caso di<br />
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specie, il marito, pur essendo separato percuoteva abitualmente e minacciava la<br />
moglie, anche dinanzi a terzi, di ritorsioni gravi sul figlio minore).<br />
In una più vasta accezione, il reato di maltrattamenti è configurabile anche nei casi<br />
in cui la degenerazione dell’uso dei mezzi di correzione colpisca persone collegate<br />
all’agente da un rapporto di dipendenza o per lo svolgimento di una professione o<br />
di un’arte ovvero al medesimo affidata per ragioni d’istruzione, educazione, ecc.<br />
(Cass. pen., II sez., 11.07.86, n. 7382).<br />
In verità, la formula linguistica utilizzata nell’art. 572 c.p.: “una persona sottoposta alla<br />
sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura vigilanza, custodia o<br />
per l’esercizio di una professione o di un’arte” postula il chiaro riferimento a rapporti<br />
implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, la quale può, da<br />
un lato, indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice<br />
verso il soggetto passivo e, dall’altro, rendere difficile a quest’ultimo sottrarvisi, con<br />
conseguenti avvilimento e umiliazione della sua personalità (Cass. pen., VI sez.,<br />
26.06.09 n. 26594).<br />
Secondo la Corte, infatti, integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p.<br />
e non, invece, quello di abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), la<br />
condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di<br />
lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno<br />
stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità<br />
perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili, ma lo<br />
sfruttamento degli stessi per motivo di lucro personale (Cass. pen., VI sez., 12.03.01,<br />
n. 10090: fattispecie relativa ad un datore di lavoro e al suo preposto che, in<br />
concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni,<br />
accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle<br />
retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma<br />
tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro<br />
intensissimi).<br />
Di conseguenza, sebbene l’esatta individuazione del bene giuridico da tutelare è<br />
oggetto di disputa dottrinale, soprattutto alla luce dell’evoluzione interpretativa del<br />
valore famiglia, è sicuramente da condividere la posizione di chi identifica il<br />
medesimo nella protezione “del più debole”, di colui, cioè, che si trova esposto<br />
all’autorità o alla supremazia di un familiare o di un soggetto preposto alla sua cura<br />
o educazione, perché non sia leso tanto nella sfera dell’integrità fisica e morale<br />
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quanto nella propria personalità (Fiandaca – Musco, Diritto penale, II, Zanichelli Ed.<br />
p.346).<br />
In tal senso, si è espressa anche la Corte di Cassazione, affermando che nel reato di<br />
maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., l’oggetto giuridico non è costituito solo<br />
dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti<br />
vessatori e violenti, ma “anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone<br />
indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un<br />
rapporto fondato su diversi vincoli” (Cass. pen. VI sez., 27.05.03, n. 37019).<br />
E’ da escludersi, però, che la compromissione del bene protetto si verifichi in<br />
presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità<br />
personale, la libertà o l’onore di una persona, essendo necessario per la<br />
configurabilità del reato “che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria<br />
condotta abituale, idonea ad imporre un regime vessatorio, mortificante ed insostenibile”<br />
(Cass. pen. VI sez., 27.05.03, n. 37019).<br />
Il reato, oggetto della presente analisi, infatti, si qualifica come necessariamente<br />
abituale per la sussistenza di una serie di fatti e/o atti, “i quali isolatamente considerati<br />
potrebbero anche non costituire delitti, come gli atti d’infedeltà o di umiliazione generica”<br />
(Cass. pen., VI sez., 27.04.95, n. 4636), ma che acquistano rilevanza penale se,<br />
valutati unitariamente, nel loro ripetersi del tempo, determinano quell’effetto di<br />
maltrattamento-sopruso-vessazione che la norma intende reprimere (Fiandaca –<br />
Musco, Diritto penale, II, Zanichelli Ed., p. 346).<br />
Non essendo specificato, peraltro, in che modo i maltrattamenti devono prendere<br />
concretezza, l’individuazione delle condotte penalmente rilevanti è affidata agli<br />
interpreti.<br />
Sicuramente vi rientrano le ipotesi di ingiuria, minaccia, percosse e lesioni lievi,<br />
condotte, cioè, delittuose di per sé (Conforti, Maltrattamenti in famiglia ed attenuante<br />
della provocazione, in www.personaedanno.it).<br />
A queste possono affiancarsi tutte quelle privazioni imposte all’altra parte (ad<br />
esempio, la privazione del cibo) che hanno reso umiliante l’esistenza all’interno<br />
della famiglia, dell’ambito lavorativo o educativo ovvero le condotte omissive<br />
“individuabili pure nel deliberato astenersi da parte dei responsabili di una pubblica<br />
struttura, ad esempio di assistenza e di cura, dall’impedire condotte illegittime realizzanti la<br />
materialità del reato” (Cass. pen., VI sez., 16.01.91, n. 394: secondo la Corte, qualora<br />
sussistano le altre condizioni previste dalla fattispecie legale, non impedire il<br />
verificarsi di un evento, che si ha il dovere giuridico di impedire, equivale a<br />
11
cagionarlo), nonché tutti quegli atti “di disprezzo, di scherno, di vilipendio e di<br />
asservimento, che comportano durevole sofferenza morale” (Cass. pen., V sez., 01.10.83, n.<br />
7787).<br />
Il legislatore, dunque, nella redazione della norma contenuta nell’art. 572 c.p., ha<br />
mostrato di voler fornire una tutela estesa e ad ampio raggio del bene giuridico in<br />
essa protetto, prevedendo una fattispecie causale pura o a forma libera che<br />
contempla qualsiasi tipo di maltrattamento, sia fisico sia psicologico (Giancalone, I<br />
maltrattamenti in famiglia, in www.altalex.it).<br />
Sotto il profilo soggettivo, ossia della volontà da parte dell’autore del reato di porre<br />
in essere i comportamenti vessatori, invece, non si richiede una particolare<br />
intenzione di sottoporre l’altro soggetto in modo continuo ed abituale ad una serie<br />
di sofferenze fisiche e morali; basta che chi agisce abbia la “consapevolezza” di<br />
persistere in un’attività prevaricatoria, già posta in essere altre volte. L’eventuale<br />
stato di ubriachezza o assunzione di sostanze stupefacenti non potrà certo<br />
rappresentare una scriminante, qualora l’autore deliberatamente si sia posto nelle<br />
condizioni di “incoscienza” e di difficoltà di gestione delle proprie azioni e reazioni.<br />
Conseguentemente, in tal modo potrà risultare aggravata solo la sua posizione<br />
processuale (Sartirana, Maltrattamenti anche al di fuori della “famiglia” ed anche senza<br />
lesioni, Rivista Ventiquattrore, in www.ilsole24ore.it).<br />
Come si vede, la norma si presta ad un’interpretazione assai estesa, tanto da<br />
abbracciare numerose tipologie di legami tra “maltrattante” ed il “maltrattato”,<br />
nonché un’ampia gamma di comportamenti attraverso i quali viene posto in essere<br />
il “maltrattamento”.<br />
Tuttavia, ciò che rileva ai fini dell’antigiuridicità penale dei singoli atti vessatori è<br />
che essi siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo) quanto<br />
dalla coscienza e volontà (elemento soggettivo) di porre in essere tali atti (Cass. pen.,<br />
VI sez., 13.03.87, n. 3032).<br />
E’ da escludere, perciò, che sporadici episodi di violenza, del tutto occasionali,<br />
possano integrare il reato in esame.<br />
Fatti episodici, infatti, pur lesivi dei diritti fondamentali della persona, ma non<br />
riconducibili nell’ ambito della descritta cornice unitaria, perché traggono origini da<br />
situazioni contingenti e particolari che sempre possono verificarsi nei rapporti<br />
interpersonali, “conservano, se ricorrono i presupposti, la propria autonomia come delitti<br />
contro la persona(ingiurie, percosse, lesioni), già di per sé sanzionati dall’ordinamento<br />
giuridico.<br />
12
In questo caso, colui che si rende responsabile di tali fatti non esprime una condotta abituale<br />
finalizzata ad alterare l’equilibrio della normale tollerabilità della convivenza, ma dà<br />
semplicemente sfogo, in modo errato, alla sua potenzialità reattiva di fronte a situazioni o<br />
eventi che percepisce come ingiusti o non corretti e che provocano inevitabilmente in lui uno<br />
stato di forte tensione, con l’effetto che la sua azione e le relative conseguenze vanno<br />
apprezzate e valutate in quel particolare contesto in cui sono maturate e non come<br />
componenti di un insieme comportamentale più ampio, da considerarsi unitariamente”<br />
(Cass. pen., VI sez.,27.05.03, n. 37019).<br />
Di conseguenza, ritornando al nostro quesito, il comportamento dell’insegnante,<br />
seppur negligente, non integra l’ipotesi di reato di cui all’art. 572 c.p., mancando<br />
proprio l’abitualità e l’elemento psicologico innanzi analizzati quali elementi<br />
costitutivi della fattispecie criminosa.<br />
13
Questione giuridica n. 3<br />
In seguito al ricorso presentato da Caio per ottenere la separazione dalla moglie<br />
Sempronia, la medesima si costituiva in giudizio ed, in via riconvenzionale,<br />
chiedeva che la separazione venisse dichiarata con addebito al marito in ragione dei<br />
suoi comportamenti ingiuriosi e dai continui tradimenti, in conseguenza dei quali<br />
era nata anche una figlia.<br />
Può essere motivo di addebito della separazione l’avere avuto un figlio fuori dal<br />
matrimonio?<br />
****************<br />
Quando l’intollerabilità della convivenza tra i coniugi origina da comportamenti che<br />
rappresentino consapevole violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, il<br />
Giudice, pronunciando la separazione, ove ne sia esplicitamente richiesto, può<br />
dichiarare a quale dei due coniugi (eventualmente ad entrambi) la separazione sia<br />
addebitabile (art. 151, co. 2°, c.c.).<br />
La principale conseguenza della pronuncia di addebito è che il coniuge responsabile<br />
della crisi dell'unione, a cui è stata addebitata la separazione, perde il diritto di<br />
ricevere l'assegno di mantenimento che gli sarebbe spettato, qualora non avesse<br />
avuto adeguati redditi propri.<br />
Tuttavia, avrà comunque diritto agli alimenti (art. 156, co. 3°, c.c.) (che a differenza<br />
del mantenimento corrispondono ad una somma sufficiente a permettere la<br />
sussistenza), nel caso in cui “sussista uno stato di effettivo bisogno, dovuto non solo<br />
all’insufficienza di mezzi economici, ma anche all’impossibilità di svolgere un’attività<br />
lavorativa, tenuto conto delle condizioni fisiche, dell’età e della posizione sociale del coniuge”<br />
(Cass. civ., I sez., 14.02.90, n. 1099).<br />
Perde, inoltre, la maggior parte dei diritti successori.<br />
Diversamente dal passato, oggi la separazione può essere dichiarata per cause<br />
oggettive, cioè indipendentemente dalla colpa di uno dei due coniugi. È possibile<br />
quindi che i coniugi si separino perché avvenimenti esterni si frappongono alla<br />
coppia, perché sopraggiungono circostanze non previste, né prevedibili, al<br />
momento della celebrazione del matrimonio, perché ci si rende conto dell'esistenza<br />
di un'incompatibilità caratteriale insuperabile e, in generale, per tutti quei fatti che,<br />
14
usando l'espressione del legislatore, "rendono intollerabile la prosecuzione della<br />
convivenza o recano grave pregiudizio all'educazione della prole" (art. 151, 1°co. c.c.). in<br />
www.separazione-divorzio.com<br />
La casistica dei comportamenti che possono dare luogo ad una pronuncia di<br />
addebito è estremamente varia, come, per esempio, quelli che ledono il dovere<br />
coniugale di lealtà, quali i maltrattamenti, le denigrazioni, dare incarico ad un terzo<br />
per rapinare il coniuge, le aggressioni della personalità del coniuge, per deprimerlo,<br />
umiliarlo e isolarlo, l’imposizione di prestazioni sessuali “anomale” ovvero<br />
l’omessa assistenza morale e materiale, ivi compreso l’abbandono della casa<br />
coniugale senza giusti motivi (Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, Ed. Scientifiche<br />
Italiane, 2004, p. 382)<br />
Al riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 143 c.c., “dal matrimonio nascono<br />
l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione<br />
nell’interesse della famiglia ed alla coabitazione”.<br />
Ed, ancora, che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze<br />
e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della<br />
famiglia”.<br />
Tuttavia, affinché possa essere addebitata la separazione ad uno o ad entrambe n i<br />
coniugi, non è sufficiente che sia ravvisabile nel comportamento dei medesimi una<br />
violazione dei doveri di cui sopra, “essendo, invece, necessario accertare se tale<br />
violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata ed in conseguenza di una<br />
situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel<br />
determinarsi della crisi del rapporto coniugale” ( Cass. civ., I sez., 28.04.06, n. 9877).<br />
L’accertamento dell’efficacia causale delle violazioni dei doveri coniugali sul<br />
fallimento della convivenza coniugale postula, peraltro, una valutazione<br />
complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, “ben potendo la prova di<br />
determinati comportamenti di un coniuge influire sulla valutazione dell’efficacia causale dei<br />
comportamenti dell’altro” (Cass. civ. , I sez., 13.03.99, n. 2444).<br />
Il giudice, cioè, anche se abbia accertato a carico dell’uno un comportamento<br />
riprovevole, non è esonerato dall’esaminare anche la condotta dell’altro, “non<br />
potendo quel comportamento essere giudicato senza un suo raffronto con quello del<br />
coniuge”, e quindi, in definitiva, “dal verificare se e quale incidenza quei comportamenti<br />
abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi coniugale” (Cass.<br />
civ., I sez., 14.04.94, n. 3511).<br />
15
Ai fini dell’addebitabilità della separazione, il giudice di merito, dunque, deve<br />
accertare “se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento<br />
oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi e, quindi, se sussista un rapporto<br />
di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore<br />
convivenza o se , piuttosto, la violazione che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia<br />
avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto<br />
di essa” (Cass. civ., I sez., 28.09.01, n. 12130; Cass. civ., I sez., 17.07. 99, n. 7566; Cass.<br />
civ., I sez., 28.10.98, n. 10742).<br />
Pertanto, “in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario<br />
ai predetti doveri tenuto da uno dei due coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente<br />
del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la separazione senza<br />
addebito” (Cass. civ., I sez., 27.06.06, n. 14840; Cass. civ., I sez., 28.05.08, n. 14042).<br />
A tali regole non ci si sottrae nemmeno se si parla di infedeltà coniugale.<br />
Sicuramente la reiterata violazione, in assenza di una consolidata separazione di<br />
fatto, dell’obbligo di fedeltà coniugale, “rappresenta una violazione particolarmente<br />
grave dell’obbligo della fedeltà coniugale” (Cass. civ., I sez., 12.06.06, n.13592; Cass. civ.,<br />
I sez., 18.09.03, n.13747), tale per cui deve ritenersi di regola circostanza sufficiente a<br />
giustificare l’addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile.<br />
Tuttavia, per la Corte, la riferita infedeltà può essere causa (anche esclusiva)<br />
dell’addebito solo “quando risulti accertato che ad essa sia , in fatto, riconducibile la crisi<br />
dell’unione”, mentre il relativo comportamento (infedele), se successivo al verificarsi<br />
di una situazione di intollerabilità della convivenza, “non è di per sé solo, rilevante e<br />
non può, conseguentemente, giustificare una pronuncia d’addebito”(Cass. civ., I sez.,<br />
12.04.06, n. 8512).<br />
E se dall’infedeltà coniugale, nasce un figlio?<br />
Per la Corte nulla cambia.<br />
Se la violazione non ha assunto efficacia causale nella determinazione della crisi<br />
coniugale, “la nascita di un figlio fuori dal matrimonio[…]non ha carattere decisivo, atteso<br />
che essa dimostra soltanto l'esistenza di una relazione extraconiugale” (Cass. civ. I sez.,<br />
07.04.06, n. 8216).<br />
Pertanto è correttamente motivata la sentenza “che rigetti la domanda di addebito alla<br />
stregua del rilievo del progressivo deterioramento della situazione affettiva tra gli stessi e<br />
della difficoltà di individuare la causa del fallimento della unione in specifiche violazione<br />
degli obblighi derivanti dal matrimonio, ed in particolar modo nelle pretese relazioni<br />
16
extraconiugali intrattenute dal marito, valutate come frutto e conseguenza del venir meno<br />
dell’affectio coniugalis” ( Cass. civ. I sez., 27.11.03, n. 18132).<br />
17
Questione giuridica n. 4<br />
Sulla responsabilità degli amministratori in una società cooperativa.<br />
A seguito di delibera assembleare dei soci, veniva promossa azione nei confronti dei<br />
componenti del consiglio d’amministrazione per inadempimento dei doveri previsti<br />
dall’ art. 2392 c.c.<br />
Per gli amministratori, le accuse mosse erano infondate, in quanto il mancato<br />
ritrovamento di una parte delle scritture contabili non consentiva di ricostruire<br />
esattamente le vicende societarie e, pertanto, di affermare che vi fosse stata mala<br />
gestio. Di conseguenza, nessuna responsabilità era loro ascrivibile.<br />
Quale ruolo, dunque, gioca la tenuta delle scritture contabili ai fini della<br />
responsabilità?<br />
****************<br />
Il D. Lgs. n. 6 del 2003 ha riformato il diritto societario italiano e la disciplina della<br />
società cooperativa disciplinata dagli artt. 2511 e segg. del codice civile.<br />
L’art. 2519 c.c. dispone che “Alle società cooperative, per quanto non previsto dal presente<br />
titolo, si applicano in quanto compatibili le disposizioni sulla società per azioni.<br />
L'atto costitutivo può prevedere che trovino applicazione, in quanto compatibili, le norme<br />
sulla società a responsabilità limitata nelle cooperative con un numero di soci cooperatori<br />
inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un milione di<br />
euro”.<br />
Ciò significa che in difetto di una specifica previsione statutaria (oltre che delle<br />
condizioni di legge previste dagli artt. 2519 e 2522), per la responsabilità verso la<br />
società degli amministratori di una società cooperativa, si applica la disciplina<br />
dettata in tema di s. p. a. (artt. 2392 e ss.).<br />
Nella s.p.a. come nella società cooperativa della triade assemblea, sindaci e<br />
amministratori, quest’ultimi ne costituiscono l’organo più importante in quanto<br />
sono allo stesso tempo sia i soggetti più informati e partecipi della vita ordinaria<br />
della società sia coloro che hanno importanti poteri di iniziativa.<br />
La responsabilità degli amministratori, quindi, è la normale conseguenza del ruolo<br />
che essi rivestono nella vita della società (Sammartano, La responsabilità degli<br />
18
amministratori: Mala Gestio e interesse della società, in Dottrina e Documentazione,<br />
parte II, p. 1)<br />
Recita l’art. 2392, co. 1°, c.c.: “Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi<br />
imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’ incarico e dalle<br />
loro specifiche competenze”.<br />
Con tale previsione, si è inteso assicurare la correttezza dell’attività sociale.<br />
Il legislatore, tuttavia, non fornisce un elenco di tutti gli obblighi che,<br />
nell’espletamento dell’incarico, gravano sugli amministratori, ma si limita a<br />
disciplinarne alcuni in concorso con lo statuto per vincolare il potere di gestione.<br />
Accanto a questi, la cui violazione, peraltro, è di facile accertamento in quanto basta<br />
provare che l’amministratore non ha tenuto il comportamento specificamente<br />
imposto dalla norma di legge, gli amministratori sono investiti dell’obbligo generico<br />
di gestire la società con diligenza (Stirpe, La diligenza come criterio di responsabilità<br />
degli amministratori, p. 4).<br />
La diligenza richiesta non è quella dell’uomo medio, ma del buon amministratore<br />
determinata in funzione della natura dell’incarico e delle specifiche competenza<br />
dell’amministratore e non in astratto.<br />
Prescrivendo il livello di diligenza, tuttavia, non si legittimano i soci a pretendere un<br />
risultato positivo ma soltanto l’attento uso degli strumenti.<br />
In altri termini, ciò che determina la responsabilità degli amministratori non è il<br />
successo o l’insuccesso economico, bensì la correttezza o meno della gestione<br />
(Sammartano, La responsabilità degli amministratori: Mala Gestio e interesse della società,<br />
in Dottrina e Documentazione, II, p. 11)<br />
La documentazione circa il rispetto dei comportamenti previsti é, per lo più, attinta<br />
dalle risultanze delle scritture contabili dell'imprenditore, probanti a sensi dell'art.<br />
2709 cod. civ. contro gli amministratori, autori delle stesse come organi<br />
dell’imprenditore – società.<br />
L’assenza di materiale contabile o altra documentazione sociale, amministrativa e<br />
fiscale, denotano atteggiamenti degli amministratori ascrivibili a condotte<br />
commissive, ma soprattutto omissive, la cui sussistenza attesta in modo evidente la<br />
responsabilità degli stessi [Zuech, Brevi note sull’accertamento della responsabilità<br />
sociale degli amministratori di società e sulla quantificazione del danno risarcibile (Nota a<br />
Trib. Pordenone, 15.01.2009, n. 34), in Rivista telematica di Giurisprudenza, n. 20, p.<br />
4]<br />
La giurisprudenza, in tal caso, condanna senz'altro gli amministratori:<br />
19
“La mancanza o la irregolarità della contabilità sociale giustifica di per sè la condanna di<br />
questi ultimi a risarcire i danni” (Cass. civ., 19.12.85, n. 6493 in Società, 1986, p. 505)<br />
“L’obbligo di tenere le scritture contabili, tra cui il libro giornale, grava sugli<br />
amministratori e la tenuta irregolare delle scritture contabili non solo è fonte di<br />
responsabilità (Cass. civ. 09.07.79, n. 3925, in Dir. fall., 1979, II, p. 453), ma<br />
l’impossibilità di determinare in modo specifico il nesso esistente tra le singole violazioni in<br />
cui siano incorsi gli amministratori e l’ammontare del danno globalmente accertato, in<br />
conseguenza dell’impossibilità di ricostruire a posteriori le vicende societarie, legittima<br />
l’ascrivibilità dell’intero danno” (Cass. Civ., I sez., 04.04.98, n. 3483).<br />
In questo modo si evita di rendere un tale atteggiamento un salvacondotto da ogni<br />
responsabilità.<br />
Nel caso in cui gli amministratori non agiscano secondo i criteri sopra esposti,<br />
causando danni alla società saranno da ritenersi “solidalmente responsabili a meno che<br />
si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite<br />
aduno o più amministratori” (art. 2392, co. 1 °).<br />
Infatti, in presenza di attribuzioni proprie degli organi delegati (comitato esecutivo<br />
o amministratori delegati), il legislatore ha previsto una responsabilità diretta di tali<br />
soggetti nei confronti della società, sgravando apparentemente da qualsiasi<br />
responsabilità gli organi deleganti.<br />
Si tratta, tuttavia, di un esonero di responsabilità apparente in quanto all’ art. 2392,<br />
co. 2°, il legislatore, sostituendo il precedente e generico obbligo di vigilanza<br />
spettante agli organi deleganti con l’espressione “fermo quanto disposto dal comma<br />
terzo dell’ art. 2381”, ha voluto in primo luogo evitare di esporre gli amministratori<br />
deleganti dagli effetti di una responsabilità oggettiva per culpa in vigilando,<br />
ma allo stesso tempo ha stabilito una responsabilità solidale degli<br />
amministratori deleganti nel caso in cui questi, a conoscenza di fatti pregiudizievoli,<br />
non abbiano fatto quanto in loro potere per impedire il compimento di detti fatti o<br />
per eliminarne oppure attenuarne le conseguenze dannose (art. 2392, co. 2°).<br />
Infine il comma 3° è rimasto invariato e prevede che “la responsabilità per gli atti o le<br />
omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa,<br />
abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle<br />
deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio<br />
sindacale”.<br />
20
Questione giuridica n. 5<br />
Sul compenso spettante al professionista intellettuale.<br />
La parcella corredata dal parere dell’ordine professionale di appartenenza può<br />
essere vincolante per il giudice di cognizione chiamato a decidere sul compenso?<br />
****************<br />
Il contratto d’opera intellettuale può essere definito come un contratto in forza del<br />
quale un soggetto (il professionista intellettuale) assume l’obbligo, nei confronti di<br />
un altro soggetto (il cliente), di eseguire, dietro adeguato compenso, una<br />
determinata prestazione, il cui contenuto è di natura intellettuale.<br />
Le statuizioni riguardanti il contratto d’opera intellettuale sono contenute nel Capo<br />
II, del Titolo III, Libro V, del Codice Civile.<br />
L’art. 2230 c.c., ne determina la disciplina, richiamando, per un verso, la normativa<br />
dettata nel capo di cui esso fa parte, per altro verso, in quanto compatibili, le<br />
disposizioni dettate per il contratto d’opera.<br />
Quest’ultimo e il contratto di prestazione d’opera intellettuale, si configurano come<br />
due species del medesimo genus, rappresentato dalla categoria del lavoro autonomo<br />
(Giacobbe, Professioni intellettuali in Enc. Giur., vol. XXXVI, Milano, 1984, p. 1069).<br />
Per il solo fatto di aver prestato la propria opera, il professionista intellettuale ha<br />
diritto al compenso.<br />
L’art. 2233 cod. civ. pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di<br />
liquidazione del compenso per le prestazioni di opera intellettuale considerando:<br />
– in primo luogo, la convenzione che sia intervenuta in proposito tra le parti;<br />
– poi, in mancanza di convenzione, le tariffe o gli usi;<br />
ed infine, ove manchino anche le tariffe e gli usi, la determinazione del giudice<br />
(Cass. civ. II sez., 30.10.96, n. 9514) .<br />
Il giudice, tuttavia, è del tutto privo del potere di liquidare il compenso del<br />
professionista secondo equità (Cass. civ., II sez., 05.05.08, n. 11030; Cass. civ. III sez.,<br />
22.01.91 n. 577) .<br />
Il potere del giudice di determinare discrezionalmente il compenso del<br />
professionista, infatti, incontra il duplice limite della richiesta obbligatoria del<br />
21
parere non vincolante dell’associazione professionale 1 di appartenenza e della<br />
necessità di adeguare la misura del compenso all’importanza dell’opera e al decoro<br />
della professione: “L’art. 2233 c.c., nello stabilire che la liquidazione del compenso<br />
spettante al professionista, deve essere determinata “ope iudicis”, previo parere obbligatorio<br />
(non vincolante) della competente associazione professionale, impone al giudice l’obbligo<br />
della richiesta, e della conseguente acquisizione, del detto parere, dal quale egli può, poi,<br />
legittimamente discostarsi a condizione di fornire adeguata motivazione e di non ricorrere al<br />
criterio dell’equità”(Cass. civ., II sez., 22.01.00, n. 694; Cass. civ., 22.05.98, n. 5111).<br />
Il parere dell’associazione professionale può essere richiesto sia d’ufficio dal<br />
giudice, ai sensi dell’art 213 c.p.c., sia prodotto direttamente dal professionista,<br />
esplicando in tal caso identità di effetti, “sempre che sia certa l’autenticità del parere<br />
stesso e questo sia successivo all’effettuazione della prestazione professionale del cui<br />
compenso si discute (Cass. civ., II sez., 21.08.85, n. 4460).<br />
Ma in cosa consiste tale parere?<br />
Il parere dell’organo professionale, chiamato ad opinare, certificare le parcelle,<br />
“consiste in un formale controllo della corrispondenza tra le voci riportate nella parcella con<br />
le tariffa di categoria” (Cass. civ., II sez., 04.04.03, n. 5321); non prova l’effettiva<br />
esecuzione delle prestazioni in essa indicate, in caso di contestazione del debitore;<br />
non contiene valutazioni di merito nè in ordine alla validità ed efficacia delle<br />
obbligazioni assunte dalle parti nei singoli casi, né in ordine all’ esatto adempimento<br />
delle stesse.<br />
Il sindacato sull’effettiva esecuzione delle prestazioni, sul corretto adempimento<br />
delle stesse e sul valore della controversia compete solo all’autorità giudiziaria<br />
chiamata a dirimere le eventuali controversie (Cass. civ., II sez., 04.04.03, n. 5321).<br />
Per questi motivi, la Suprema Corte ha chiaramente stabilito che: “Mentre ai fini<br />
dell’emissione del decreto ingiuntivo a norma dell’art. 636 c.p.c. la prova dell’espletamento<br />
dell’opera e dell’entità delle prestazioni può essere utilmente fornita con la produzione della<br />
parcella e del relativo parere della competente associazione professionale, tale<br />
documentazione non è più sufficiente nel giudizio di opposizione, il quale si svolge secondo<br />
le regole ordinarie della cognizione, sicché nell’ambito di esso il professionista ha l’onere di<br />
dimostrare gli elementi fondanti la sua pretesa, onde consentire al giudice di merito [che non<br />
può assumere come base di calcolo per la determinazione del compenso le esposizioni di detta<br />
parcella contestate dal debitore (Cass. civ., III sez., 17.03.06, n. 5884)] di verificare le<br />
1 Le associazioni professionali sono state soppresse con d. lgs. lgt. 23.11.1944, n. 369; le relative<br />
funzioni sono esercitate dai Consigli degli ordini ai sensi del d. lgs. lgt. 23.11.1944, n. 382.<br />
22
singole prestazioni svolte dal professionista stesso e la loro corrispondenza con le voci e gli<br />
importi indicati nella parcella” (Cass. civ., III sez., 26.09.05, n. 18775).<br />
Ciò si spiega col fatto che nel procedimento d’ingiunzione, l’onere di provare per<br />
iscritto la fondatezza del credito fatto valere in sede monitoria è a carico del<br />
ricorrente.<br />
Trattandosi di un procedimento monitorio puro, cioè fondato sulla mera affermazione<br />
del ricorrente, il giudice è vincolato, nell’an debeatur, alla dichiarazione del<br />
professionista ricorrente (Cass. civ., II sez., 30.01.97 n. 932) e, nel quantum, dal parere<br />
dell’ordine, che è un parere di congruità (Cass. civ., II sez., 19.02.97, n. 1513).<br />
La Corte Costituzionale, con una pronuncia del 4. 5. 84, n. 137, ha, tuttavia, chiarito<br />
che tale meccanismo non costituisce un privilegio per i professionisti, atteso che gli<br />
Ordini hanno, comunque, la possibilità di accertare il se ed il modo delle prestazioni<br />
eseguite e che, quando non vi sia traccia d questo accertamento, il giudice può<br />
esercitare i poteri di cui all’art. 640 c.p.c.<br />
In sede di opposizione, invece, si effettua l’accertamento della effettività delle<br />
prestazioni fatte dal ricorrente, perché in tale fase la documentazione usata nel<br />
monitorio ha valore di mera dichiarazione unilaterale (Cass. civ., III sez., 17.03.06,<br />
5884)<br />
Il principio, infatti, che regola l’onere probatorio in fase di opposizione stabilisce che<br />
la parcella cessa di essere vincolante, per essere sostituita dalla risultante di un<br />
accertamento effettivo sulle prestazioni concretamente eseguite e sui compensi<br />
realmente spettanti al professionista ( in www. csm.it).<br />
Il nostro quesito è così pienamente soddisfatto.<br />
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Questione deontologica: Rapporti con la parte assistita.<br />
Chi conferisce un incarico professionale ad un avvocato stipula un contratto<br />
denominato "contratto di patrocinio".<br />
Si tratta di un contratto di prestazione d'opera in virtù del quale l'avvocato assume<br />
l'incarico di rappresentare ed assistere la parte.<br />
Tale contratto non è soggetto a oneri di forma, tanto che normalmente è concluso<br />
verbalmente o per fatti concludenti e può essere stipulato anche da persona diversa<br />
rispetto a colui che dovrà essere rappresentato e difeso. Il soggetto che affida<br />
l'incarico all'avvocato ne diviene cliente ed assume l'obbligazione di corrispondere il<br />
compenso.<br />
La rappresentanza e difesa in giudizio, invece, possono essere assunte dall'avvocato<br />
solo mediante il conferimento di procura scritta (speciale: a margine o in calce<br />
all'atto processuale; ovvero generale: con atto pubblico o scrittura privata<br />
autenticata).<br />
Sia la dottrina che la giurisprudenza sono solite qualificare l’obbligazione<br />
dell’avvocato, sia per la sua attività stragiudiziale che per quella giudiziale, quale<br />
obbligazione di mezzi e non di risultato.<br />
L’avvocato non risponde se il suo cliente non raggiunge il risultato sperato (Cass.<br />
civ., sez. II, 25.03.95, n. 3566), e ha ugualmente diritto al compenso della causa o<br />
dell’affare (Cass. civ. 10.03.69 n. 765, in Foro Italiano, 1969, I, p. 1110).<br />
Tuttavia, secondo anche una recente sentenza della Cassazione (Cass. Civ. II sez.,<br />
30.07.04, n. 14597), che sostiene che rientrino tra gli obblighi del professionista non<br />
solo la corretta esecuzione in ordine alla procedura affidatagli, ma anche“i doveri di<br />
sollecitazione, di dissuasione e in particolare di informazione, al cui adempimento il<br />
professionista è tenuto sia all'atto dell'assunzione dell'incarico che nel corso del suo<br />
svolgimento, evidenziando al cliente le <strong>questioni</strong> di fatto e/o di diritto rilevabili ab origine o<br />
insorte successivamente ritenute ostative al raggiungimento del risultato o comunque<br />
produttive di effetti dannosi, invitandolo a fornirgli gli elementi utili alla soluzione positiva<br />
delle <strong>questioni</strong>, ed anche sconsigliandolo dall'iniziare o proseguire una lite ove appaia<br />
improbabile un epilogo favorevole e, anzi, probabile un esito negativo”, si ritiene possibile<br />
superare la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato sull'assunto che il<br />
risultato, inteso come momento conclusivo della prestazione, e' dovuto in ogni<br />
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obbligazione e il suo raggiungimento e' subordinato alla predisposizione di mezzi<br />
utili per conseguirlo.<br />
Il risultato si identificherebbe non nell'integrale soddisfazione del cliente, ma<br />
nell'attuazione di tutte quelle attività, anche di natura discrezionale, che si rendono<br />
necessarie e opportune affinché l'opera possa realizzarsi.<br />
Tale orientamento risulta innovativo anche rispetto al nostro codice deontologico,<br />
perché onera il professionista ad effettuare una cognizione sostanziale e una<br />
previsione sull'esito finale mediato della procedura affidatagli, pena addirittura<br />
l'inadempimento della obbligazione professionale (Verrusio, Il dovere di informativa<br />
del difensore verso il cliente in una recente pronuncia della Cassazione, in La Voce del<br />
Foro, Riv. Ord. Avv. Benevento, n. 3/2004, p. 137).<br />
In altre parole, qualora un avvocato accetti l'incarico di svolgere un’attività<br />
stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile<br />
esperibilità di un’azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non<br />
costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli<br />
elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di<br />
permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un<br />
ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione<br />
dell'azione.<br />
Di conseguenza, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art.<br />
1176, comma 2, c.c.) “sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta<br />
obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le <strong>questioni</strong> di diritto e di fatto atte<br />
ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità<br />
anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali <strong>questioni</strong> sia stata frutto<br />
dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia<br />
insuscettibili di giustificazione” (Cass. civ., II sez., 14.12.02, n. 16023).<br />
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