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dossier piemonte

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31 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

inchiesta<br />

Piemonte<br />

Lo scorso 8 giugno con “Minotauro”,<br />

la più grande operazione anti ’ndrangheta sul territorio<br />

<strong>piemonte</strong>se, la magistratura torinese ha messo<br />

nero su bianco il reticolo di interessi<br />

e affari dell’organizzazione calabrese<br />

trapiantata al Nord.<br />

Una colonizzazione lenta e capillare, capace di toccare<br />

gangli vitali della politica e dell’economia locale


Piemonte<br />

Il filo di Arianna<br />

Nel marzo 2006, in previsione della “Giornata della memoria e<br />

dell’impegno in ricordo delle vittime di tutte le mafie” organizzata<br />

da Libera a Torino, realizzammo un numero monografico<br />

di «Narcomafie» dedicato alle infiltrazioni mafiose in Piemonte.<br />

Non fu affatto facile riempire quelle 80 pagine. Ricordiamo bene<br />

la perplessità di magistrati e di uomini delle forze dell’ordine<br />

di fronte alle nostre domande sulla presenza dei clan all’ombra<br />

della Mole. La sensazione era che, in fondo, non ci fosse molto<br />

da dire. La nostra intenzione di accendere i riflettori sull’ar<br />

gomento mafia era benemerita ma – cercavano di farci capire<br />

con rispetto e benevolenza – in Piemonte non<br />

c’era alcuna emergenza e se mai le questioni<br />

calde erano altre. Dopo i processi degli anni<br />

90 le mafie italiane, compresa la ’ndrangheta,<br />

stavano vivendo una fase di appannamento,<br />

dunque, senza scadere in imprudenti sottovalutazioni,<br />

la tendenza era quella di rassicurare.<br />

Il problema più concreto sembrava<br />

la criminalità straniera, albanese, rumena e<br />

maghrebina, che si era imposta, ci dicevano,<br />

nei traffici di esseri umani e di stupefacenti, e<br />

che rappresentavano anche la maggior fonte<br />

di allarme sociale per i cittadini.<br />

La procura di Torino e la Direzione distrettuale<br />

antimafia erano guidate da due magistrati di<br />

assoluto valore come Marcello Maddalena,<br />

allora procuratore capo e attuale procuratore<br />

generale, e il compianto Maurizio Laudi<br />

(improvvisamente scomparso il 24 settembre 2009), all’epoca<br />

procuratore aggiunto coordinatore della Direzione distrettuale<br />

antimafia. Di Maddalena mi colpì un passaggio dell’intervista<br />

sullo stato dei rapporti mafia-politica in regione: «Detto chiaramente,<br />

penso che neanche a Bardonecchia (primo comune sciolto<br />

per mafia al Nord, nel 1995, nda) nda ci fosse quella compenetrazione<br />

che si è verificata in altre situazioni che hanno portato poi allo<br />

scioglimento di altri comuni». Mentre di Laudi, che condivideva il<br />

giudizio di Maddalena su Bardonecchia – dove politici e imprenditori<br />

protagonisti dei fatti alla base del commissariamento furono<br />

poi assolti in sede processuale – mi impressionò una dichiarazione<br />

in merito al pericolo infiltrazione negli appalti pubblici: «Anche<br />

nei momenti di maggiore forza militare di questi gruppi mafiosi,<br />

non c’è stata mai una pervasiva opera di infiltrazione nella<br />

pubblica amministrazione, che è la condizione fondamentale<br />

per inquinare gli appalti. E ciò va a titolo di merito di chi ha<br />

32 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

gestito la cosa pubblica a livello locale». Questo era lo stato<br />

delle risultanze giudiziarie all’inizio del 2006.<br />

Cinque anni dopo ci troviamo a fare i conti con l’inchiesta Minotauro,<br />

la più vasta operazione anti ’ndrangheta della storia<br />

del Piemonte. 151 arresti, sequestri preventivi di beni per circa<br />

117 milioni di euro, una mappatura aggiornata della presenza<br />

radicata dei clan in Piemonte. E scopriamo che l’inchiesta Minotauro<br />

è nata proprio nel lontano 2006, pochi mesi dopo il 21<br />

marzo celebrato a Torino. Nell’autunno di quell’anno, infatti,<br />

il pentimento di Rocco Varacalli, affiliato al locale di Natile di<br />

Careri a Torino, ha aperto scenari nuovi,<br />

che raccontiamo nelle prossime pagine,<br />

a tinte ben più fosche di quello registrato<br />

all’epoca. Un contributo decisivo quello<br />

di Rocco Varacalli, che ha consentito di<br />

battere sentieri inesplorati e di tirare le<br />

fila di altre inchieste il cui destino, forse,<br />

sarebbe stato più incerto. Minotauro ha<br />

svelato, da un lato, una presenza massic<br />

cia (a centinaia) di uomini dei clan nel<br />

capoluogo e nella provincia. ’Ndranghetisti<br />

che riproducono fedelmente le loro con<br />

suetudini, eseguono i loro lugubri rituali di<br />

affiliazione e regolano i loro conti interni<br />

ed esterni con la violenza. Un radicamento<br />

sul territorio che, nel nostro piccolo, ave<br />

vamo provato a denunciare fin dal 2007<br />

(“Viaggio in Aspro<strong>piemonte</strong>”, n.10/2007)<br />

e poi seguendo le operazioni “Gioco duro” (“La carica dei<br />

colonnelli”, n.5/2009) e “Pioneer” (“’Ndrangheta, la faccia<br />

nascosta dell’economia”, n.10/2010). Dall’altro l’inchiesta ha<br />

scoperchiato un intreccio di rapporti con uomini delle istituzioni<br />

e delle amministrazioni locali, privo in molti casi di rilevanza<br />

penale, ma di cui non può sfuggire il significato politico. Alla<br />

luce anche di un attivismo frenetico degli ’ndranghetisti nel<br />

comparto fondamentale dell’edilizia, che può rappresentare la<br />

chiave di lettura di un rapporto con la politica che non è mai<br />

ideologico, ma sempre sinallagmatico.<br />

L’inchiesta Minotauro, pur nella precarietà conoscitiva propria<br />

di qualunque inchiesta non ancora sottopposta al vaglio del<br />

processo, ci conduce dunque sulla soglia di un labirinto ancora<br />

tutto da esplorare. E la sensazione, condivisa dagli inquirenti,<br />

è che ancora molto ci sia da scoprire.<br />

(m.neb.)


“La comunità<br />

dei calabresi è la<br />

nostra ricchezza...<br />

L’inchiesta Minotauro ha fatto scalpore per le intercettazioni<br />

che hanno rivelato i rapporti tra i boss arrestati e alcuni noti<br />

politici <strong>piemonte</strong>si. Che alla vigilia delle elezioni bussano regolarmente<br />

alle porte di certi personaggi in grado di controllare<br />

fette consistenti del voto calabrese. In cambio di che cosa? Con<br />

quale grado di consapevolezza? Viaggio all’esplorazione di una<br />

palude antica che il processo penale non riesce a risanare<br />

di Marco Nebiolo<br />

La ’ndrangheta bussò e la politica,<br />

sventurata, rispose. O forse fu la<br />

politica a bussare, avendo capito<br />

che dopo l’ondata migratoria<br />

degli anni 50/60 potevano essere<br />

replicati anche al Nord, in scala<br />

ridotta, meccanismi di raccolta<br />

del consenso ampiamente collaudati<br />

nel meridione. Meccanismi<br />

in grado di pescare “a strascico”<br />

nei settori più bisognosi e meno<br />

istruiti della popolazione. E pazienza<br />

se a essere “grattato” e<br />

inaridito è il fondamento stesso<br />

della democrazia rappresentativa,<br />

il voto libero e consapevole<br />

dei singoli cittadini. L’accordo<br />

con la mafia è stato visto, da<br />

settori trasversali della politica,<br />

come una scorciatoia verso quella<br />

vittoria sul cui altare sacrificare<br />

qualunque valore. Primum vivere<br />

(o meglio, vincere), deinde philosophari.<br />

Non stupisce dunque<br />

che in Piemonte la liaison tra<br />

mafia e politica locale abbia radici<br />

lontane e che ciò che abbiamo<br />

letto nelle carte dell’operazione<br />

Minotauro sia solo l’ultimo capitolo<br />

di una vicenda che si trascina<br />

da almeno 40 anni. E quando<br />

storia e cronaca si assomigliano<br />

troppo, vuol dire che qualcosa,<br />

a livello politico e giudiziario,<br />

non ha funzionato.<br />

Una luce ambigua. Il punto<br />

centrale e più delicato di tutta<br />

la questione è il rapporto tra politica<br />

e le comunità di immigrati<br />

calabresi, le quali, piaccia o non<br />

piaccia, hanno sempre costituito<br />

un bacino elettorale ambito<br />

da tutti i partiti politici. Questi<br />

pacchetti di voti sono spesso<br />

controllati, in parte significativa,<br />

da “capibastone” che alla vigilia<br />

delle elezioni, amministrative o<br />

33 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

politiche, li piazzano sul mercato<br />

elettorale. Si tratta di persone<br />

che non godono di particolare<br />

prestigio per motivi personali o<br />

professionali, che tuttavia sono<br />

in grado di portare centinaia,<br />

migliaia di voti e di preferenze.<br />

Molti di questi, come provano le<br />

inchieste, sono legati alla ’ndrangheta<br />

e fondano su questa appartenenza<br />

la loro capacità di persuasione.<br />

Ovviamente non tutti<br />

i voti calabresi sono controllati,<br />

ma molti sì. Un dato di fatto che<br />

proietta un’impalpabile ombra<br />

di ambiguità su alcune epopee<br />

politiche che, a partire dagli anni<br />

60, si sono basate sul rapporto<br />

stretto, quasi simbiotico, con le<br />

comunità degli immigrati.<br />

L’ex deputato socialista Francesco<br />

Froio è stato forse uno dei primi<br />

e dei più abili nel costruire la sua<br />

carriera sulla gestione – legittima<br />

Piemonte


Piemonte<br />

Foto di Bostik, ankor, Jul,<br />

Claudio 71, Christing_O,<br />

Luca Maglio, Andrea Mucelli,<br />

Sifone, Giampaolo Squarcina<br />

– del voto calabrese. Negli anni 60<br />

fu amministratore delegato delle<br />

acciaierie di Stato “Cogne”, in Valle<br />

D’Aosta, che portarono centinaia di<br />

famiglie calabresi in quella regione.<br />

Trasferitosi a Torino alla fine degli<br />

anni 60, divenne segretario regionale<br />

del Psi, e fu tra i padri della Sitaf,<br />

la società nata per la realizzazione<br />

del nuovo traforo automobilistico<br />

del Frejus – da affiancarsi a quello<br />

ferroviario – e che curerà negli anni<br />

80/90 la costruzione dell’autostrada<br />

Torino-Bardonecchia. Due grandi<br />

opere che ancora oggi gestisce.<br />

Sono gli anni d’oro dell’edilizia<br />

in Val di Susa. C’è lavoro per tutti,<br />

arrivano per la torta dei subappalti<br />

decine di imprese calabresi tra cui,<br />

come ha segnalato la commissione<br />

antimafia, quelle dei Mazzaferro di<br />

Marina di Gioiosa ionica (di orientamento<br />

democristiano, secondo<br />

il pentito Giacomo Lauro), clan<br />

’ndranghetista di grande rilievo<br />

che per anni farà il bello e il cattivo<br />

tempo in quei territori. Nei primi<br />

anni 70 Froio diventa deputato al<br />

Parlamento dell’area manciniana.<br />

Poi nel 1979 lascia la politica<br />

istituzionale per assumere il ruolo<br />

di amministratore delegato della<br />

Sitaf, la sua creatura, divenuta una<br />

straordinaria macchina di finanziamento<br />

dei partiti e di raccolta di<br />

consenso elettorale, in particolare,<br />

proprio tra gli immigrati calabresi.<br />

Froio rimane in sella fino al 1993,<br />

quando tangentopoli si abbatte<br />

anche su di lui, ma le numerose<br />

imputazioni non si sono tradotte in<br />

alcuna condanna. Ma ancora oggi<br />

i suoi consigli vengono ascoltati in<br />

ambito politico e sotto elezioni in<br />

molti bussano alla sua porta.<br />

Stringere mani sbagliate. Sono<br />

numerosi i nomi di rappresentanti<br />

delle istituzioni locali<br />

che compaiono, a vario titolo,<br />

nell’inchiesta Minotauro. Il fatto<br />

34 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

che l’unico a essere arrestato<br />

sia stato l’imprenditore Nevio<br />

Coral, ex sindaco di Leinì, non<br />

deve indurre a imprudenti sottovalutazioni,<br />

visto che appare<br />

evidente che ancora molto ci<br />

sia da scoprire sull’argomento.<br />

Pochi giorni dopo Minotauro è finito<br />

in manette Giuseppe Caridi,<br />

consigliere comunale di Alessandria,<br />

nell’ambito dell’operazione<br />

“Albachiara-Maglio” (cfr box pag.<br />

38, ndr). Il procuratore capo Gian<br />

Carlo Caselli, nella conferenza<br />

stampa dell’8 giugno, si era detto<br />

amareggiato e stupito del fatto<br />

che «vi siano numerosi esponenti<br />

politici a intrattenere rapporti<br />

proficui con esponenti mafiosi,<br />

in un amorevole intreccio», aggiungendo<br />

che «è una vergogna<br />

inaccettabile che nella città in<br />

cui è stato ucciso Bruno Caccia,<br />

vi siano persone con ruoli anche<br />

istituzionali che mantengano<br />

simili rapporti».<br />

Come distinguere tra rapporti e<br />

rapporti, questo è il dilemma.<br />

Perché in campagna elettorale<br />

si stringono molte mani, e può<br />

capitare di stringere, inconsapevolmente<br />

quelle sbagliate. Come<br />

potrebbe essere capitato all’assessore<br />

regionale Claudia Porchietto<br />

(Pdl), filmata il 23 maggio 2009<br />

mentre, alla vigilia delle elezioni<br />

provinciali cui è candidata,<br />

entra nel bar Italia di Giuseppe<br />

Catalano in via Veglia a Torino,<br />

a pochi passi dal commissariato<br />

di polizia di zona. Catalano è uno<br />

dei destinatari delle ordinanze<br />

di custodia cautelare eseguite l’8<br />

giugno, già arrestato nel luglio<br />

2010 nell’ambito dell’operazione<br />

“il Crimine” della procura di<br />

Reggio Calabria assieme al fratello,<br />

Giovanni, imprenditore di<br />

Orbassano. Giuseppe Catalano,<br />

originario di Siderno, 69 anni,<br />

è uno dei boss più importanti<br />

della ’ndrangheta <strong>piemonte</strong>se,<br />

al vertice nella città capoluogo.<br />

È ritenuto dai magistrati il capo<br />

della locale di Siderno (Rc) a Torino,<br />

candidato, in virtù del suo<br />

prestigio criminale, a far parte<br />

della futura “camera di controllo”<br />

del Piemonte, l’organo demandato<br />

a dirimere le questioni interne ai<br />

clan e a mantenere i rapporti con<br />

la casa madre calabrese. La Porchietto<br />

è accompagnata nel bar da<br />

Luca Catalano, allora consigliere<br />

comunale di Orbassano e membro<br />

del comitato elettorale, nipote<br />

del presunto boss. All’incontro,<br />

che dura solo 7 minuti, partecipa<br />

anche Francesco d’Onofrio, nato a<br />

Mileto, in provincia di Vibo Valentia,<br />

componente del Crimine con<br />

la dote di Padrino. La Porchietto<br />

non è indagata per tale episodio,<br />

che lei ha spiegato come uno dei<br />

tanti – e tra i più sbrigativi – incontri<br />

pre elettorali che si fanno<br />

senza avere l’esatta conoscenza dei<br />

propri interlocutori. Senza chiedere<br />

documenti o certificati penali.<br />

Luca Catalano darà le dimissioni<br />

qualche tempo dopo l’arresto del<br />

padre Giovanni, a casa del quale<br />

furono trovati dei foglietti con la<br />

descrizione dei rituali di affiliazione<br />

(cfr box p.55, ndr).<br />

Lo stesso Giuseppe Catalano è<br />

protagonista della vicenda che<br />

riguarda la candidatura nella<br />

lista del Pdl, sempre nel 2009,<br />

di Fabrizio Bertot, sindaco di<br />

Rivarolo Canavese, alle elezioni<br />

europee. Neanche Bertot è indagato,<br />

come non lo è la Porchietto,<br />

ma le due posizioni, pur entrambe<br />

penalmente irrilevanti, appaiono<br />

differenti. Il “luogo del delitto”<br />

è sempre il bar Italia di Catalano<br />

che, su sollecitazione del segretario<br />

comunale di Bertot (Antonino<br />

Battaglia, arrestato) organizza un<br />

incontro elettorale in favore del<br />

giovane sindaco. Il 27 maggio


2009 all’ora di pranzo i carabinieri<br />

registrano un lungo elenco di convitati:<br />

su tutti, scrive il Gip, «sussistono<br />

gravi indizi di colpevolezza<br />

in ordine alla loro affiliazione<br />

all’organizzazione criminale».<br />

Tra i presenti spiccano alcuni<br />

nomi: Francesco D’Onofrio, lo<br />

stesso presente all’incontro con<br />

la Porchietto; Salvatore Demasi,<br />

detto Giorgio, capo locale di Leinì,<br />

sulla cui figura ci soffermeremo<br />

diffusamente più avanti; e Giovanni<br />

Iaria, membro del locale<br />

di Cuorgné, imprenditore edile<br />

con un burrascoso passato politico,<br />

figura fondamentale per<br />

comprendere la mafia canavesana<br />

di ieri e di oggi.<br />

Le promesse del sindaco. Bertot,<br />

classe 1967, originario di Rivarolo,<br />

prende la parola per illustrare<br />

il suo programma elettorale, soffermandosi<br />

su questioni relative<br />

all’edilizia, che evidentemente<br />

sa essere l’argomento di maggiore<br />

interesse dei convitati.<br />

Dopo essersi scusato per non<br />

parlare dialetto, né <strong>piemonte</strong>se<br />

né calabrese, parla delle grandi<br />

opere che potrà favorire dallo<br />

scranno del Parlamento europeo<br />

(«…sono convinto che il<br />

Piemonte abbia bisogno, come<br />

terra, di tutta una serie di opere,<br />

grosse… importanti…, pensiamo<br />

al collegamento con Genova per<br />

il porto, pensiamo all’Alta velocità…»)<br />

sottolineando allo stesso<br />

tempo che manterrà la carica di<br />

sindaco e quindi continuerà a<br />

occuparsi direttamente del territorio.<br />

Chiede voti “porta a porta”,<br />

anche in Liguria, Valle D’Aosta<br />

e Lombardia (essendo candidato<br />

nel collegio del nord-ovest), tutti<br />

territori dove i convitati possono<br />

vantare numerose conoscenze.<br />

Bertot non è indagato, lo ribadiamo.<br />

Il pranzo è stato organizza-<br />

to dal suo segretario comunale,<br />

Antonino Battaglia, calabrese di<br />

capo Spartivento (Rc), che invece<br />

è stato arrestato con l’accusa di<br />

voto di scambio. Secondo quanto<br />

emerso dall’inchiesta, Battaglia,<br />

con un imprenditore di nome<br />

Giovanni Macrì, avrebbe favorito<br />

il contatto di Bertot con la rete<br />

dei calabresi, concordando il pagamento<br />

con Giovanni Catalano,<br />

all’insaputa di Bertot, di circa<br />

20mila euro.<br />

Bertot all’uscita del suo nome sui<br />

giornali si è difeso affermando di<br />

«essere per carattere e per natura<br />

quanto di più lontano esista<br />

da quel mondo. In campagna<br />

elettorale si incontrano molte<br />

persone ma nessuno mi ha mai<br />

fatto proposte ambigue né tanto<br />

meno le avrei considerate». Bertot,<br />

tra l’altro, non ottenne i voti<br />

sperati (surclassato da un pezzo<br />

da novanta come Vito Bonsignore,<br />

che lo seguiva in lista), e in<br />

diverse occasioni è stato intercettato<br />

mentre si lamenta del flop<br />

“della rete dei calabresi” descritti<br />

come «millantatori in buona<br />

fede». In una telefonata Bertot<br />

sottolinea però di aver chiarito<br />

di non essere disponibile a “certi<br />

tipi di richieste” («sin dall’inizio<br />

ho detto... certi discorsi fateli con<br />

altri… non è il mio modo di fare<br />

politica»), facendo capire di aver<br />

presente il rischio insito nella<br />

frequentazione di certi elettori.<br />

Tuttavia desta perplessità il<br />

fatto che il primo accordo con<br />

i “calabresi”, che porterà alla<br />

riunione con Catalano e gli altri,<br />

sia stato stretto con Giovanni<br />

Iaria, secondo i magistrati affiliato<br />

al locale di Cuorgné, una<br />

storia politica, imprenditoriale<br />

e giudiziaria quarantennale alle<br />

spalle, una di quelle persone che<br />

chi governa il territorio non può<br />

permettersi di non conoscere.<br />

35 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

Se la Porchietto, con la normale<br />

diligenza, poteva verosimilmente<br />

non sapere nulla di Giuseppe<br />

Catalano, l’ignoranza della personalità<br />

di Giovanni Iaria nell’area<br />

del canavese implica un livello<br />

di diligenza molto al di sotto del<br />

minimo sindacale. Il che, sia ben<br />

inteso, non costituisce reato.<br />

Iaria, basta la parola. Giovanni<br />

Iaria è un volto noto alle cronache<br />

giornalistiche da diversi<br />

decenni. La sua storia è riportata<br />

anche in un paragrafo del volume<br />

Mafie vecchie mafie nuove<br />

(Donzelli, 2009) del professore<br />

Rocco Sciarrone. Immigrato in<br />

Piemonte ancora minorenne da<br />

Condofuri (Rc) negli anni 60,<br />

Iaria arriva a Cuorgné come apprendista<br />

muratore, con tanta<br />

voglia di fare strada. In pochi<br />

anni mette su con il fratello<br />

maggiore Carmelo un’impresa<br />

edile che accoglie con particolare<br />

generosità pregiudicati calabresi<br />

– usciti in semilibertà anche<br />

grazie alla richiesta diretta della<br />

sua azienda – e immigrati che<br />

lavorano in nero. Questa gestione<br />

del personale rende competitiva<br />

l’impresa, che diventa una delle<br />

più importanti del canavese. Iaria<br />

ha il controllo della manovalanza<br />

calabrese della zona, e questo lo<br />

pone in una posizione di vantaggio<br />

sui concorrenti. Ma sarebbero<br />

diverse, in quegli anni, le ditte<br />

riconducibili allo spregiudicato<br />

imprenditore. Un episodio è utile<br />

per descrivere il temperamento<br />

della famiglia Iaria e il clima<br />

che si respira a Cuorgnè in quel<br />

periodo. Il 13 novembre 1976<br />

tre individui tentano un furto<br />

nel cantiere sbagliato, quello dei<br />

fratelli di Condofuri. I tre vengono<br />

sorpresi, due fuggono, uno<br />

viene bloccato sotto la minaccia<br />

di un fucile. Giovanni quella<br />

Piemonte


Piemonte<br />

sera non è a Cuorgné, perciò<br />

il prigioniero viene portato a<br />

casa di Carmelo Iaria, dove viene<br />

pestato per fargli dire i nomi dei<br />

complici. Il ladro non parla e<br />

così lo portano in un campo. Il<br />

ladro capisce che lo vogliono fare<br />

fuori e tenta una fuga disperata.<br />

Si prende 3 colpi di pistola alla<br />

schiena, si salva perché si finge<br />

morto, ma rimane paralizzato.<br />

Per quell’episodio Carmelo viene<br />

condannato a nove anni di<br />

reclusione nel 1978.<br />

Ma è Iaria Giovanni, il fratello<br />

più piccolo, il capo. È balzato<br />

agli onori delle cronache dal<br />

1975, quando viene sequestrato<br />

e ucciso a bastonate l’industriale<br />

Mario Ceretto. Un imputato,<br />

Giovanni Caggegi, afferma che<br />

il mandante è proprio l’imprenditore<br />

di Cuorgné. La moglie al<br />

processo ricorda come all’indomani<br />

del rapimento Iaria si sia<br />

presentato da lei offrendosi di<br />

acquistare alcune quote della<br />

società del marito, offerta rifiutata<br />

per la cattiva fama dell’imprenditore.<br />

La responsabilità di<br />

Iaria nell’omicidio Ceretto non<br />

trovò ulteriori riscontri. I due si<br />

erano scontrati anche per motivi<br />

politici. Ceretto, liberale, aveva<br />

rifiutato di inserire Iaria nella<br />

sua lista elettorale, così dopo<br />

un litigio Iaria aveva spostato il<br />

suo pacchetto di voti (circa 500,<br />

afferma) sul partito socialista. Che<br />

lo accoglie a braccia aperte e lo fa<br />

assessore allo Sport e commercio,<br />

nella giunta di sinistra guidata dal<br />

sindaco comunista Bosone.<br />

Il padrone di Cuorgné. Fu l’inizio<br />

di una carriera con alti e bassi<br />

all’interno del partito, che si trascina<br />

fino agli anni 90. Nel 1979<br />

Iaria è espulso dal Psi, ma non<br />

si dimette da assessore. Viene<br />

anche arrestato, lo stesso anno,<br />

36 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

con l’accusa di truffa, bancarotta,<br />

falsificazione di libri contabili;<br />

i reati sarebbero stati commessi<br />

in relazione alla gestione assai<br />

opaca della «cooperativa Aurora»<br />

di Borgaro. Per quei fatti, fu<br />

arrestato (e poi assolto) anche un<br />

avvocato, tale Mario Borghezio,<br />

un giovane promettente che farà<br />

una folgorante carriera politica<br />

nella lega Nord. Questa vicenda<br />

tornò a galla nel 1992, quando era<br />

componente della commissione<br />

antimafia, ma lui si difese affermando<br />

di non aver avuto mai<br />

alcun contatto con Iaria.<br />

Negli anni Ottanta, Iaria trova il<br />

modo di farsi riammettere nel<br />

Psi. Troppo importanti, evidentemente,<br />

i suoi voti, per stare<br />

dietro a una cattiva fama che non<br />

si traduceva mai in condanne penali<br />

definitive. I vecchi militanti<br />

ancora ricordano con disappunto<br />

la carica di quei calabresi che in<br />

pochi anni fecero nel canavese<br />

un carriera fulminante, nonostante<br />

ci fosse chi, come il vecchio<br />

sindaco di Pont Canavese, Igino<br />

Balagna, denunciasse apertamente<br />

l’anomalia del gruppo di Iaria.<br />

Il suo peso politico e imprenditoriale<br />

è corroborato dai buoni<br />

rapporti con il procuratore di<br />

Ivrea Luigi Moschella, ex pm<br />

antiterrorismo travolto poi da<br />

una serie di inchieste su rapporti<br />

impropri con la malavita. Il temperamento<br />

sanguigno è quello di<br />

sempre. Una sera, contrariato dal<br />

discorso pronunciato al consiglio<br />

comunale di Lanzo da Ivan Grotto<br />

(proconsole di Giusy La Ganga, ex<br />

deputato, craxiano di ferro, oggi<br />

membro del Pd), Iaria gli arriva<br />

da dietro e di fronte a tutti gli<br />

rifila un sonoro ceffone.<br />

Nel 1989 il tribunale di sorveglianza<br />

di Torino, presidente Vladimiro<br />

Zagrebelsky, lo sottopone<br />

alla misura di prevenzione della<br />

sorveglianza speciale, con divieto<br />

di soggiorno per tre anni in<br />

Piemonte e Valle D’Aosta. Sotto<br />

la lente dei giudici, le frequentazioni<br />

documentate dalle forze<br />

dell’ordine con boss calabresi del<br />

calibro di Francesco Mazzaferro<br />

(al battesimo della figlia in un<br />

albergo di Bardonecchia in cui<br />

erano presenti oltre 350 persone,<br />

Iaria portò ad esibirsi l’amico<br />

cantante Mino Reitano), Rocco<br />

lo Presti, Mario Mesiani Mazzacuva<br />

(boss di Bova i cui affari<br />

si estendevano in Valle D’Aosta<br />

e nel Canavese), la sua attività<br />

nel racket dell’edilizia, ma anche<br />

attività speculative a Condofuri,<br />

in Calabria, suo paese natale. Imbarazzante,<br />

per un politico che al<br />

congresso del partito era indicato<br />

pochi mesi prima come membro<br />

del direttivo provinciale nonché<br />

vice segretario provinciale in<br />

pectore. Anche questo provvedimento<br />

giurisdizionale, tuttavia,<br />

avrà vita breve e dopo tre mesi<br />

sarà annullato dalla cassazione.<br />

Il 12 marzo 1990 viene segnalato<br />

dai carabinieri al Caffè Torino,<br />

in piazza San Carlo, con il capo<br />

corrente Psi Antonio Salerno,<br />

ex presidente di Atm, padre del<br />

deputato Gabriele, assieme a Giovanni<br />

Giampaolo, ex vicesindaco<br />

socialista di Ciriè (arrestato per<br />

un omicidio nel 1972 a San Luca,<br />

paese d’origine, e poi prosciolto,<br />

sotto osservazione da parte degli<br />

inquirenti per presunti legami<br />

con la cosca ’ndranghetista degli<br />

Strangio).<br />

È lui il dominus di Cuorgné.<br />

Quando nel 1991 don Aldo Salussoglia,<br />

parroco di San Dalmazzo,<br />

denuncia apertamente che «a<br />

Cuorgnè si vive in un continuo<br />

stato di tensione. La mafia qui<br />

c’è per davvero e non può che<br />

sconvolgere», tutti sanno che<br />

c’è lui al centro della ragnatela


denunciata dal sacerdote. Quando<br />

tangentopoli spazza via il suo<br />

partito, Iaria esce dai radar della<br />

politica e sceglie il profilo basso<br />

nella sua Cuorgné. Fino all’operazione<br />

Minotauro, che oltre allo<br />

“struscio” con Bertot, segnala<br />

un suo ruolo nell’affaire Coral,<br />

l’unico politico locale di peso<br />

finito in manette l’8 giugno per<br />

concorso esterno in associazione<br />

mafiosa e voto di scambio.<br />

Dialogo all’“ok Coral”. Nevio<br />

Coral, quando entra in politica<br />

nel 1994 nelle file di Forza Italia<br />

candidandosi alla poltrona di<br />

primo cittadino di Leinì, è un<br />

nome nuovo della politica locale.<br />

Originario di Gruaro (Ve), di umili<br />

origini, è un imprenditore che si<br />

è fatto da sé, a capo di un gruppo<br />

industriale attivo nel settore della<br />

depurazione e del trattamento<br />

dell’aria, dell’acqua e del rumore<br />

con base a Volpiano e sedi nel<br />

nord Italia, in Francia, Germania<br />

e Gran Bretagna. Il profilo ideale<br />

dell’uomo politico della seconda<br />

Repubblica. Leinì è una città di<br />

15mila abitanti della seconda<br />

cintura torinese, nota come “la<br />

porta del Canavese”. Coral sarà il<br />

suo sindaco dal 1994 al 2005. Suo<br />

figlio Ivano, ingegnere, è l’attuale<br />

primo cittadino, succeduto al<br />

padre nel 2005. Leinì è dunque<br />

guidata ininterrottamente da un<br />

Coral da 17 anni. Alle ultime<br />

elezione amministrative Nevio<br />

si è candidato alla poltrona di<br />

primo cittadino di Volpiano,<br />

una cittadina confinante, sede<br />

del centro direzionale della sua<br />

impresa. Insomma, voleva prendersi<br />

anche Volpiano, ma si è<br />

fermato al 33% dei voti. Un altro<br />

figlio, Claudio è imprenditore nel<br />

settore della ristorazione, marito<br />

dell’ex assessore regionale alla<br />

Sanità Caterina Ferrero, eletta<br />

per la prima volta in regione a 27<br />

anni nel 1995, travolta nel mese<br />

di maggio da una inchiesta sulla<br />

corruzione che l’ha portata agli<br />

arresti domiciliari. Il suo braccio<br />

destro, Piero Gambarino (in manette<br />

nell’ambito dell’inchiesta<br />

sulla corruzione nella sanità dal<br />

27 maggio), risulta socio di alcuni<br />

degli arrestati nell’operazione Minotauro,<br />

in particolare di Achille<br />

Berardi (ritenuto affiliato al locale<br />

di Cuorgné) e Valerio Ierardi<br />

(sospettato di appartenere alla<br />

cosiddetta Bastarda [vedi box<br />

p.55, ndr]).<br />

Ma che cosa c’entra questo imprenditore<br />

di successo, originario<br />

del nord est e felicemente<br />

cresciuto nel nord ovest, con la<br />

mafia calabrese? Un politico che<br />

nel 2002, nel decennale della<br />

morte di Giovanni Falcone, dedicava<br />

sentite parole di elogio<br />

per il magistrato, a cui nel 1999<br />

l’amministrazione di Leinì aveva<br />

intitolato il Palazzetto dello<br />

sport, con una cerimonia cui<br />

aveva presenziato – gli scherzi<br />

del destino – l’allora procuratore<br />

capo di Palermo Gian Carlo<br />

Caselli. Gli vengono contestati<br />

fondamentalmente due fatti: la<br />

richiesta esplicita di voti a esponenti<br />

di rilievo della ’ndrangheta<br />

in cambio di denaro e altre<br />

utilità (appalti); l’aver concesso<br />

gli appalti di realizzazione del<br />

centro direzionale della Coral<br />

di Volpiano alle ditte degli stessi<br />

personaggi.<br />

Una cena pesante. Partiamo dalla<br />

richiesta di voti. È il 18 maggio<br />

2009. Coral è consigliere comunale<br />

a Leinì. Sono alle porte le<br />

elezioni provinciali, alle quali è<br />

candidato, per il Pdl, il figlio Ivano,<br />

sindaco dal 2005. Gli investigatori<br />

intercettano una telefonata<br />

sul cellulare di Vincenzo Argirò,<br />

37 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

originario di Locri, classe 1957,<br />

residente a Caselle. Secondo gli investigatori<br />

Argirò fa parte del Crimine<br />

(la sovrastruttura composta<br />

da affiliati che possono decidere<br />

le azioni violente, cfr p.57, ndr),<br />

è uno ’ndranghetista di livello, fa<br />

parte della società maggiore con<br />

la dote di Quartino. Proprietario<br />

di un bar a Caselle torinese, ha<br />

la nomea del “mafioso”. Almeno<br />

secondo quanto dichiarato da<br />

un imprenditore edile di Caselle,<br />

Giorgio Vercelli, che aveva<br />

subìto alcune richieste di pizzo.<br />

Argirò è comunque un pluripregiudicato,<br />

che si fa forza dei suoi<br />

precedenti penali per intimorire<br />

le proprie vittime. Dall’altra parte<br />

del telefono c’è Coral, il quale<br />

si rivolge in termini amichevoli,<br />

quasi affettuosi, al presunto<br />

boss: «Bisogna proprio dire che gli<br />

amici si trovano sempre quando<br />

si va a casa di altri eh! (Coral si<br />

trova a casa di tale Emilio Gallo,<br />

che gli ha passato la telefonata)».<br />

L’incontro viene fissato per il 20<br />

maggio nel ristorante dell’albergo<br />

“Verdina” di Volpiano, di proprietà<br />

dell’altro figlio di Coral,<br />

Claudio. I Carabinieri si appostano<br />

e rilevano i partecipanti<br />

alla riunione pre elettorale: oltre<br />

a Nevio Coral e Vincenzo Argirò,<br />

i militari registrano la presenza<br />

di Vincenzo Todarello, Antonio<br />

Ruperto, Emilio Gallo, Eduardo<br />

Cataldo, Gioacchino Giudice,<br />

Massimiliano Lastella. Coral si rivolge<br />

ai commensali chiamandoli<br />

“imprenditori”: «Credo che qui<br />

siamo tutti imprenditori, ognuno<br />

nella sua misura, non è vero che<br />

siamo dei disonesti, abbiamo solo<br />

bisogno di lavorare».<br />

La compagnia dell’anello. Ma chi<br />

sono gli “imprenditori” convocati<br />

da Argirò? Todarello, originario<br />

di Ardore (Rc), è un muratore im-<br />

Piemonte


Piemonte<br />

Se 100 km<br />

sono troppi<br />

di Giuseppe Legato<br />

Era arrivata anche lì, all’ombra<br />

del tartufo e delle nocciole delle<br />

Langhe. Perché nella geografia<br />

delle ’ndrine in Piemonte non<br />

c’è solo Torino, il capoluogo.<br />

Ci sono anche Alba, Asti, Cuneo,<br />

Alessandria, Novi Ligure. I<br />

tentacoli della mala calabrese si<br />

erano ramificati in provincia. Con<br />

personaggi di spessore, affari tradizionali<br />

imbevuti nelle betoniere<br />

dell’edilizia, riti di affiliazione<br />

carichi di pathos criminale, legami<br />

con la politica (è stato arrestato il<br />

consigliere comunale di Alessandria<br />

Giuseppe “Peppe” Caridi).<br />

L’operazione Albachiara – che<br />

prende il nome da uno stralcio<br />

delle formule rituali trovate dai<br />

carabinieri durante le perquisizioni<br />

– ha svelato l’esistenza di<br />

due locali (di cui uno “atipico”<br />

declassato a Società Minore). Coordinate<br />

spaziali: Novi Ligure e<br />

Alba. A capo delle strutture c’erano<br />

Bruno Pronestì, discendente di quella<br />

famiglia che ha fatto la storia della<br />

mala di Orbassano, e Rocco Zangrà,<br />

camionista di Rizziconi, intimo del<br />

capo dei capi Domenico Oppedisano.<br />

Proprio Zangrà era finito in manette<br />

durante l’operazione “Crimine”. Era<br />

luglio del 2010. Correvano voci che<br />

presto sarebbe successo qualcosa<br />

di grosso che avrebbe spazzato via<br />

quel campanilismo bieco che ha<br />

impedito a molti di accettare che la<br />

’ndrangheta fosse nel tinello di casa<br />

propria e non solo nei paesi arrampicati<br />

sull’Aspromonte calabrese.<br />

Una sorta di Aspro-Piemonte, come<br />

intitolavamo in un articolo pubblicato<br />

nell’ottobre del 2007 di questa rivista.<br />

Con “Minotauro” e “Albachiara” il<br />

puzzle si compone. Ci sono altre 17<br />

persone in carcere, l’organizzazione<br />

è stata disarticolata, ma il romanzo<br />

delle indagini spiega bene come la<br />

’ndrangheta non sia un fenomeno<br />

disattento agli spazi di conquista,<br />

anche quelli, apparentemente meno<br />

appetibili rispetto ai grandi centri<br />

urbani. L’inizio di questa storia di<br />

’ndrine di periferia lo registrano i<br />

carabinieri di Reggio Calabria in<br />

un agrumeto di Rosarno – piana di<br />

Gioia Tauro – dove vive Domenico<br />

Oppedisano, il “grande vecchio”,<br />

figura apicale della ’ndrangheta nel<br />

mondo. È il 30 agosto 2009. Sette<br />

giorni dopo, a Polsi, si sarebbe svolta<br />

la rituale riunione dei capi di tutti i<br />

locali calabresi e non. Si sarebbero<br />

decise strategie, nuove aperture, investimenti<br />

e – soprattutto – le cariche.<br />

Le “ambientali” piazzate dai militari<br />

del Ros registrano il rumore di un’auto<br />

che parcheggia. Ci sono ospiti. Sono<br />

Rocco Zangrà e Michele Gariuolo. Si<br />

sono fatti 1.300 km per arrivare fin<br />

qui da Alba, paradiso dell’economia,<br />

imbevuto di grandi vini e pezzi da<br />

Novanta dell’economia. Don Mico<br />

li accoglie, si siedono fuori attorno a<br />

un tavolaccio di legno. Zangrà appartiene<br />

al locale di Novi Ligure a capo<br />

del quale c’è Bruno Pronestì. Vuole<br />

aprirne uno per fatti suoi e – davanti<br />

al sommo – tira fuori un romanzo<br />

38 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

strappalacrime per ottenere l’autorizzazione.<br />

La motivazione è fin troppo<br />

banale per essere l’unica credibile: «Ci<br />

vogliono 100 km per andare alle riunioni,<br />

eppure siamo un certo numero<br />

di persone. Non possiamo fare per<br />

conto nostro?». Oppedisano ascolta<br />

e annuisce: «È giusto. Se per portare<br />

un pezzo di pane alla famiglia ogni<br />

mese vi restano in tasca 100 euro di<br />

benzina è meglio. Loro non si possono<br />

opporre, al massimo i mandamenti.<br />

Comunque fra pochi giorni io salgo<br />

a Polsi, venite pure voi e vediamo<br />

come fare». Loro sono quelli che<br />

fanno capo a Bruno Pronestì che non<br />

ne vuole sapere di dividere la torta<br />

con Zangrà. Purtroppo don Mico non<br />

è dalla sua parte: «Bruno non si deve<br />

arrabbiare», dice, e batte il pugno sul<br />

tavolo quasi come un timbro che<br />

suggella la decisione. Così nasce il<br />

“localino” di Alba. Zangrà è riuscito<br />

nel suo intento e – forse – si prepara a<br />

infilarsi negli appalti che di lì a poco,<br />

rivoluzioneranno le autostrade del<br />

Roero. Eccolo – con una certa ragionevolezza<br />

– il motivo più autentico<br />

di tanta fretta. Nella nuova struttura<br />

convergeranno gli affiliati di Alba e di<br />

Asti, gli altri resteranno sotto l’egida<br />

di Pronestì nel locale di Novi. In<br />

questo spaccato di ’ndrine distaccate<br />

non poteva mancare la politica. Ad<br />

Alessandria è finito in manette Giuseppe<br />

Caridi per gli amici “compare<br />

Peppe”. Nato a Taurianova 54 anni<br />

fa, titolare di un calzaturificio in via<br />

San Pio V ad Alessandria (da qui il<br />

nomignolo di “u scarparu” ricorrente<br />

nelle intercettazioni”) rappresenta un<br />

caso quasi unico di giurisprudenza. È<br />

considerato infatti affiliato alla ’ndrangheta<br />

col grado di picciotto. “Non gli si<br />

contesta dunque il classico concorso<br />

esterno in associazione mafiosa. Lui è<br />

proprio organico”, dice il procuratore<br />

Gian Carlo Caselli. Peppe è stato<br />

battezzato il 28 febbraio 2010 a casa<br />

sua. In quell’occasione sono state<br />

distribuite anche le doti di santista ad<br />

altri componenti, Caridi si accontentò<br />

della “ginestra” (prima dote). Il suo<br />

ingresso nell’onorata società è uno<br />

strappo all’ordinamento delle ’ndrine<br />

che non consentono a un politico di<br />

appartenere ufficialmente alla grande<br />

famiglia. «Per Peppe abbiamo fatto<br />

un’eccezione, è un bravo amico, si è<br />

voluto chiudere un occhio, sappiamo<br />

che è un cristiano che si comporta<br />

bene. Se è un buono cristiano, in un<br />

locale, un politico ci fa comodo» dirà<br />

Domenico Gangemi, figura apicale<br />

delle ’ndrine liguri, a un interlocutore<br />

rimasto sconosciuto che replica<br />

come un politico di razza: «L’Italia è<br />

cambiata, anche noi dobbiamo fare<br />

le riforme». Per la cronaca: al tempo,<br />

in Comune, “u scarparu” rivestiva il<br />

ruolo di presidente della commissione<br />

territorio. Eletto nel 2007 nelle file<br />

del Pdl era, allo stato dell’arresto,<br />

segretario amministrativo del partito<br />

“Alleanza Democratica”. Caridi è<br />

una figura centrale di questa storia.<br />

E non bisogna farsi ingannare dal suo<br />

livello di “picciotto liscio”. Scrive il<br />

gip: «La posizione del Caridi va ben<br />

al di là del suo ruolo, rappresentando<br />

la presenza della ’ndrangheta nel<br />

consiglio comunale di Alessandria.<br />

Sebbene, quindi, costui, più per il<br />

suo ruolo, che lo pone nei gradini<br />

più bassi della gerarchia ’ndranghetista,<br />

che per un’effettiva volontà di<br />

mantenere un profilo più distaccato,<br />

non abbia partecipato in prima persona<br />

alle riunioni e alla vita fattiva<br />

dell’organizzazione, Tuttavia, per il<br />

ruolo ricoperto nella società civile<br />

asservito al mandato conferitogli alla<br />

volontà criminale della ’ndrangheta,<br />

rappresenta più di altri un concreto<br />

pericolo per la libertà e la democrazia».<br />

Tra i molti brogliacci dei riti di<br />

affiliazione recuperati dai carabinieri<br />

c’è un foglio bianco stropicciato che<br />

ha attirato più di altri, la curiosità<br />

degli investigatori. C’è scritto: «Fiori<br />

da prendere» e «Fiori mandati a<br />

casa». In mezzo una linea di cesura.<br />

Sembrano elenchi di nomi ed esercizi<br />

commerciali corredati da cifre, ma<br />

potrebbero anche essere ordinativi<br />

per un funerale. “Ci mandamu i fiuri<br />

a la casa” è una tipica frase calabrese<br />

utilizzata in occasione di lutti a cui<br />

la ’ndrangheta deve partecipare. La<br />

procura indaga.


plicato, secondo i magistrati, in<br />

alcuni traffici di stupefacenti, ed<br />

è considerato un uomo di fiducia<br />

di Argirò. Come Antonio Ruperto,<br />

altro personaggio ritenuto dai carabinieri<br />

dedito al traffico di stupefacenti.<br />

Emilio Gallo, l’organizzatore<br />

dell’incontro tra Argirò e Coral,<br />

ha precedenti di polizia per reati<br />

inerenti agli stupefacenti. Eduardo<br />

Cataldo, di Locri, residente a Torino,<br />

vanta precedenti di polizia e<br />

penali per porto abusivo di armi,<br />

ricettazione, favoreggiamento personale,<br />

rapina, estorsione, minacce,<br />

lesioni personali, violazione della<br />

legge sugli stupefacenti e falsi in<br />

genere, esponente a Torino della<br />

’ndrina Cataldo di Locri. Gioachino<br />

Giudice, originario di Canicattì<br />

(Ag), residente a Borgaro Torinese,<br />

ha precedenti di polizia e penali<br />

per violazione della legge sugli stupefacenti.<br />

Massimiliano Lastella,<br />

nato a Torino nel 1976, residente<br />

a Borgaro Torinese, con precedenti<br />

di polizia e penali per minacce,<br />

lesioni personali e rissa.<br />

Ruperto sottolinea, rivolgendosi<br />

a Coral: «Dottore, le posso garantire<br />

che tavolate come queste ce<br />

ne sono veramente poche! Per<br />

le persone che sono sedute a<br />

questo tavolo… per la serietà<br />

delle persone. Perché tavolate se<br />

ne possono fare tantissime... ma<br />

non con le persone che ci sono<br />

a questo tavolo…». E Coral conferma:<br />

«Non ho dubbi… non ho<br />

dubbi…». E aggiunge: «Secondo<br />

me questo è già un miracolo…<br />

che abbiamo una tavolata di<br />

persone per bene». Dalle intercettazioni<br />

si evince chiaramente<br />

lo scopo della serata: gli uomini<br />

portati da Argirò garantiranno<br />

voti nelle zone di Leinì, Volpiano<br />

e Borgaro Torinese. In cambio<br />

Coral prospetta lavoro. «Quando<br />

le strade si fanno, i lavori si<br />

fanno, gli appalti vanno avanti …<br />

(inc)…, le cose si fanno, allora se<br />

questo principio lo adottiamo...<br />

su un gruppo che... e innanzitutto<br />

prendiamo uno lo mettiamo in<br />

Comune, l’altro lo mettiamo nel<br />

consiglio, l’altro lo mettiamo in<br />

una proloco, l’altro lo mettiamo<br />

in tutta altra cosa, magari arriviamo<br />

che ci ritroviamo persone<br />

nostre che... (sembra dica: non ce<br />

le facciamo togliere dagli altri)...<br />

e diventiamo un gruppo forte».<br />

Una frase normale all’interno di<br />

qualunque sezione di partito in<br />

qualunque città d’Italia, dalla<br />

rossa Emilia al bianco Veneto.<br />

Ma che assume connotati del<br />

tutto particolari se si considera<br />

la platea a cui era rivolta. Lui per<br />

gli astanti è “il sindaco”, il vero<br />

punto di riferimento sul territorio<br />

in forza della sua esperienza e<br />

del suo prestigio. Il figlio brilla<br />

di luce riflessa. I calabresi lo<br />

votano perché sanno che dietro<br />

c’è il padre. E Coral fa capire<br />

quanto ci tiene all’appoggio dei<br />

calabresi quando esclama: «La<br />

comunità dei calabresi è la nostra<br />

ricchezza».<br />

Tutti gli uomini del sindaco.<br />

Ma la ’ndrangheta non si accontenta<br />

di promesse, esige un<br />

ritorno immediato per il proprio<br />

impegno elettorale. Gli ’ndranghetisti<br />

sono persone concrete,<br />

il futuro è nelle mani di Giove. E<br />

come accaduto in relazione alla<br />

campagna elettorale di Bertot,<br />

anche in questo caso l’appoggio<br />

elettorale pare avere un prezzo.<br />

Dalle intercettazioni risulta, nei<br />

giorni successivi alla cena preelettorale,<br />

una dazione di denaro<br />

di 24mila euro da parte di Coral<br />

a favore degli uomini di Argirò.<br />

Una cifra che appare inverosimile<br />

imputare alla remunerazione<br />

dell’attività di volantinaggio preelettorale<br />

concordata durante la<br />

39 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

riunione al ristorante. Il costo di<br />

distribuzione di 20mila volantini<br />

da parte di una società specializzata<br />

(abbiamo controllato) è di<br />

circa 800 euro più Iva.<br />

I rapporti di Coral registrati dai<br />

magistrati della Dda di Torino<br />

con uomini legati alla ’ndrangheta<br />

vanno ben oltre la cena<br />

incriminata. È lo stesso Argirò,<br />

la sera del 20 maggio 2009, a fare<br />

riferimento a pregressi rapporti<br />

risalenti all’epoca della sindacatura<br />

di Coral padre: «... dottore,<br />

noi siamo qua e siamo felici di<br />

esserlo perché ...(parole inc)... e<br />

da chi sono andato, sanno che noi<br />

siamo qua con voi e saremo felici<br />

come lo siamo stati ... anni fa ...<br />

se voi vi ricordate bene ...».<br />

In una intercettazione che coinvolge<br />

il capo locale di Cuorgné<br />

Bruno Iaria, risulta poi evidente il<br />

rapporto tra Coral e Giovanni Iaria.<br />

Bruno Iaria afferma in una intercettazione<br />

dell’aprile 2009 che<br />

lo zio Giovanni avrebbe ottenuto<br />

da Coral degli appalti in cambio<br />

del sostegno elettorale del clan.<br />

Un accordo che avrebbe evitato a<br />

Coral di pagare “3-400mila euro”<br />

di pizzo, e che avrebbe consentito<br />

al gruppo, secondo quanto<br />

affermato da Iaria, di spendere<br />

presso le banche il nome di Coral<br />

come committente – «il nostro<br />

biglietto da visita» – dandogli<br />

maggiore credibilità.<br />

Da altre intercettazioni si evince<br />

come Coral abbia nel tempo<br />

intrattenuto rapporti con diverse<br />

famiglie mafiose. Giuseppe<br />

Gioffrè, capo del locale di Natile<br />

di Careri a Torino fino al 29 dicembre<br />

2008, giorno in cui viene<br />

assassinato a Locri (cfr p. 52,<br />

ndr), avrebbe per anni tenuto la<br />

“guardianìa” dei cantieri di Coral<br />

in cambio di denaro. Un’impresa<br />

riconducibile a Gioffré, la “Misiti<br />

Antonio”, avrebbe avuto sede in<br />

Piemonte


Piemonte<br />

un capannone di Coral senza pagare<br />

il canone di locazione. I suoi<br />

cantieri hanno fatto gola a diverse<br />

famiglie, dagli Iaria di Cuorgné agli<br />

Zucco di Natile di Careri, e lui ha<br />

cercato di non scontentare nessuno,<br />

senza mai denunciare, anzi,<br />

come si legge nelle carte del Gip,<br />

mostrandosi ben disposto verso<br />

gli ’ndranghetisti, che avrebbero<br />

lavorato alla costruzione della<br />

nuova sede di Volpiano della Coral<br />

spa e all’edificio produttivo della<br />

Altari srl di Leinì. A Bruno Iaria,<br />

inoltre, avrebbe fatto pervenire<br />

del denaro mentre si trovava in<br />

carcere. Gli uomini della mafia lo<br />

consideravano il loro “giocattolo”,<br />

una macchina da soldi, e lui, si<br />

serviva di loro, secondo l’ipotesi<br />

investigativa, per avere la comunità<br />

calabrese dalla sua parte al<br />

momento opportuno.<br />

Primarie con il boss. Ma se il<br />

canavese piange, gli altri territori<br />

della cintura non ridono. A Rivoli<br />

è stato arrestato Salvatore Demasi,<br />

classe 1944, imprenditore edile<br />

originario di Martone (Rc) con il<br />

vezzo di farsi chiamare Giorgio.<br />

Sarebbe lui il capo locale di Rivoli,<br />

anche se il suo ruolo sarebbe stato<br />

messo in discussione negli ultimi<br />

anni, in seguito ad alcuni problemi<br />

seri di salute. Il suo nome compare<br />

moltissime volte nell’inchiesta Minotauro,<br />

riprova del ruolo apicale<br />

rivestito nell’organizzazione. Ma il<br />

suo nome rileva soprattutto per i<br />

numerosi contatti registrati dagli<br />

investigatori con esponenti politici<br />

di centrosinistra, che si rivolgevano<br />

a lui per la capacità di pescare voti<br />

nel mare magnum della comunità<br />

calabrese. Gli episodi, che risalgono<br />

al gennaio/febbraio di quest’anno,<br />

sono tre: la richiesta telefonica di<br />

voti, intercettata lo scorso febbraio,<br />

da parte dell’onorevole Mimmo<br />

Lucà (Pd) a Demasi in favore di<br />

40 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

Piero Fassino, impegnato nelle<br />

primarie per la scelta del candidato<br />

sindaco; gli incontri tra Demasi e<br />

Antonino Boeti, consigliere regionale<br />

del Pd, ex sindaco di Rivoli<br />

dal 1995 al 2004, prima a casa di<br />

Boeti e poi in un bar di Alpignano,<br />

a cui ha partecipato anche Carmelo<br />

Tromby, assessore dell’Italia dei<br />

Valori al comune di Alpignano.<br />

E infine l’incontro tra Demasi e<br />

l’on. Gaetano Porcino, deputato<br />

dell’Idv e consigliere comunale a<br />

Torino, in un bar del capoluogo.<br />

Per quanto riguarda gli incontri che<br />

vedono coinvolti Porcino, Tromby<br />

e Boeti non esistono intercettazioni<br />

che ne rivelino, almeno in parte,<br />

il contenuto. Tutti i protagonisti<br />

hanno recisamente negato di aver<br />

la minima coscienza della caratura<br />

criminale del Demasi. Boeti,<br />

medico originario di Taurianova<br />

(Rc), ha ammesso di conoscerlo da<br />

oltre 30 anni, di essere suo amico,<br />

e tuttavia di non aver mai avuto la<br />

minima percezione dei suoi legami<br />

con la mafia. Con Lucà, Boeti<br />

ha partecipato, pochi giorni dopo<br />

l’uscita sui giornali delle notizie<br />

che hanno sconcertato la base del<br />

partito, a due incontri pubblici,<br />

a Rivalta Torinese e a Rivoli, nei<br />

quali i due politici hanno spiegato<br />

le loro ragioni e manifestato la loro<br />

assoluta estraneità a qualunque tipo<br />

di vicinanza con ambienti mafiosi.<br />

Il partito democratico ha dimostrato<br />

solidarietà a tutti i livelli,<br />

dalle sezioni locali, passando per<br />

gli ex sindaci di Torino Castellani<br />

e Chiamparino, fino al segretario<br />

Bersani. Anche se, per la verità,<br />

qualche mugugno a microfono<br />

spento lo abbiamo registrato tra<br />

diversi esponenti locali. Perché<br />

questa lettura dei fatti fondata<br />

sulla totale inconsapevolezza dei<br />

protagonisti, in particolare Boeti<br />

e Lucà, politici calabresi di lungo<br />

corso, è dura da digerire da una<br />

base che, ai propri avversari, nella<br />

stessa situazione non avrebbe fatto<br />

sconti.<br />

Fogli protocollo sotto elezioni.<br />

Ma chi è Salvatore “Giorgio”<br />

Demasi”? Un calabrese arrivato<br />

negli anni 60, muratore, che con<br />

i fratelli è riuscito a mettere su<br />

l’impresa di famiglia e a diventare<br />

un imprenditore affermato.<br />

Frequentava il circolo culturale<br />

dei calabresi locali, il “Sestante”,<br />

e da quella frequentazione sarebbe<br />

nata l’amicizia con Nino Boeti.<br />

Demasi aveva la fama del grande<br />

collettore di voti. «Lo ricordo<br />

nei primi anni 90, sotto elezioni,<br />

con una serie di fogli protocollo,<br />

compilati con un elenco fitto di<br />

nomi: le persone da contattare per<br />

chiedere voti, a uno a uno», dice un<br />

politico di lungo corso del Pd che<br />

chiede l’anonimato. «Una persona<br />

gentile, di una cordialità estrema,<br />

che salutava sempre per prima.<br />

Sempre vestito con cura, giacca<br />

e cravatta». Che come costruttore<br />

si è fatto una buona reputazione.<br />

Le sue case costano, ma sono rifinite<br />

con cura. La sua villa sulla<br />

collina di Rivoli è di pregio ma<br />

non particolarmente vistosa. Unica<br />

concessione al kitsch, due statuette<br />

di leoni a presidiare il cancello di<br />

ingresso. A Rivoli non ha ottenuto<br />

appalti pubblici, ha lavorato<br />

nell’edilizia privata, interventi a<br />

macchia di leopardo mai invasivi<br />

o deturpanti. Niente a che vedere<br />

con certi grandi costruttori inseguiti<br />

dalla fama di speculatori.<br />

Ma al di là di questo profilo riservato,<br />

qualche brutta voce su<br />

di lui circolava negli ambienti<br />

politici rivolesi. Si dice che fosse<br />

in grado di muovere fino a 800<br />

preferenze, ma chi può dirlo con<br />

esattezza. Quel che è certo è che<br />

in molti bussavano alla sua porta,<br />

in particolare a sinistra. Perché il


presunto boss non ha mai portato<br />

acqua al mulino del centro destra,<br />

neanche dopo la diaspora del Psi,<br />

che ha portato in Forza Italia parte<br />

dell’elettorato del Garofano. La<br />

sua influenza si estendeva a Torino<br />

e a varie città dell’hinterland,<br />

come dimostra l’interessamento,<br />

documentato in Minotauro, per il<br />

candidato sindaco di Ciriè, Francesco<br />

Brizio. In ogni realtà poteva<br />

decidere di appoggiare candidati di<br />

correnti diverse, in base a logiche<br />

non facilmente intelligibili. Quel<br />

che è certo è che era un punto di<br />

riferimento sotto elezioni e che in<br />

molti si sono rivolti a “Giorgio” nel<br />

corso degli anni. Lui però non si è<br />

mai visto in un circolo politico, non<br />

si è mai visto alle feste di partito,<br />

e neanche ai festeggiamenti post<br />

elettorali. Ma come faceva una<br />

persona così normale a muovere<br />

tanti voti? Mistero. O forse no, se<br />

non si vuole mettere a tacere del<br />

tutto il buon senso.<br />

Un caffè di troppo. L’unico dialogo<br />

registrato dagli inquirenti è<br />

quello tra Demasi e Lucà. E merita<br />

di essere riportato in alcune<br />

battute. Mimmo Lucà, originario<br />

di Gioiosa ionica ma trapiantato<br />

a Torino giovanissimo, si rivolge<br />

al “rivolese” Demasi per chiedere<br />

voti alle elezioni primarie del Pd<br />

di Torino. Agli atti ci sono due<br />

telefonate. La prima, qualche giorno<br />

prima delle elezioni. È Lucà a<br />

chiamare e dopo i convenevoli di<br />

rito chiede esplicitamente un aiuto<br />

tra gli amici di Giorgio: «Se magari<br />

hai qualche amico a Torino, cui<br />

passare la voce…».<br />

Demasi: «Certo! Certo che ne<br />

ho!…” e poi “ne ho più di uno<br />

grazie a Dio, quindi…».<br />

Lucà: «... prova a sentire che aria<br />

tira…».<br />

Demasi: «sì… sì… e facciamo …<br />

facciamo, diciamo, questi che cono-<br />

sciamo facciamo votare Fassino…<br />

1375».<br />

E poi la frase poco evidenziata dai<br />

media, ma che ha fatto storcere il<br />

naso a più di un calabrese vicino<br />

al partito.<br />

Lucà: «.. e poi io… subito dopo io<br />

e te ci vediamo a bere un caffè…<br />

magari così…».<br />

Demasi: « quando vuoi… quando<br />

vuoi… con piacere…».<br />

Lucà: «... facciamo una chiacchierata…».<br />

Demasi: «quando vuoi… sono a<br />

tua disposizione».<br />

Lucà: «un abbraccione».<br />

La telefonata sembra chiusa ma<br />

Demasi, riprende il discorso e<br />

dopo aver sottolineato di aver già<br />

iniziato a fare campagna per Fassino<br />

per conto suo trova lo spazio<br />

per ribadire l’appuntamento del<br />

caffè: «...ciao.. sempre un piacere<br />

sentirti… ci sentiamo questi giorni,<br />

prendiamo un caffè…». Ecco, nel<br />

significato di quel caffè e di quella<br />

chiacchierata a quattr’occhi – irrilevante,<br />

lo sottolineiamo, per i<br />

magistrati – si innesta la radice<br />

del mugugno di quei militanti disposti<br />

a mettere la mano sul fuoco<br />

sull’assenza di legami penalmente<br />

rilevanti tra la criminalità calabrese<br />

e il loro deputato, ma che sarebbero<br />

più incerti se la posta in gioco fosse<br />

l’assoluta mancanza di percezione<br />

da parte di Lucà di qualunque forma<br />

di ambiguità nell’interlocutore<br />

Demasi.<br />

La seconda telefonata risale al<br />

giorno delle elezioni primarie,<br />

quando Demasi richiama Lucà,<br />

informandolo che anche gli uomini<br />

di Davide Gariglio, avversario di<br />

Fassino, si sono «mossi bene» con<br />

i calabresi. A dimostrazione che<br />

anche qualcuno dell’entourage<br />

di Gariglio aveva avuto l’idea di<br />

andare a pescare nello stesso ambito<br />

bacino a cui, tramite Demasi,<br />

voleva arrivare Lucà.<br />

41 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

Da Moncalieri a Chivasso. A Chivasso<br />

alle ultime elezioni amministrative<br />

è stato sconfitto il sindaco<br />

uscente del Pdl Bruno Matola dal<br />

candidato di centrosinistra Gianni<br />

De Mori. Decisiva per la vittoria l’alleanza<br />

con l’Udc. Peccato che con<br />

l’inchiesta Minotauro si è scoperto<br />

che Bruno Tronfio, coordinatore<br />

della campagna elettorale e vicesegretario<br />

dell’Udc locale, sia il figlio<br />

del presunto capolocale di Chivasso<br />

Pasquale Tronfio, imprenditore<br />

edile con solo un precedente per<br />

ricettazione. Padre e figlio sono<br />

finiti in manette l’8 giugno e adesso<br />

gravi interrogativi pesano sulla<br />

nuova giunta. Che ruolo hanno<br />

avuto i voti calabresi controllati dalla<br />

mafia nelle elezioni? Domande<br />

che ci si è posti a Volpiano, dove<br />

se avesse vinto Nevio Coral, ora il<br />

comune sarebbe commissariato. E<br />

che ci si pone da tempo in diverse<br />

altre realtà della cintura. Come<br />

Moncalieri, la più popolosa città<br />

della provincia torinese, che è stata<br />

toccata dall’inchiesta Minotauro<br />

solo a livello di mafia militare.<br />

Nell’autunno del 2009, sull’onda<br />

delle denunce del deputato Stefano<br />

Esposito e del senatore Giuseppe<br />

Lumia, che richiamavano all’attenzione<br />

della Commissione antimafia<br />

un presunto “caso Moncalieri”,<br />

facemmo una ricognizione della<br />

situazione locale. Registrammo<br />

lo stesso malessere che l’inchiesta<br />

Minotauro ha riscontrato in altri<br />

paesi dell’hinterland. Nel 2008<br />

Giuseppe Artuffo, assessore di Rifondazione<br />

comunista nella giunta<br />

Ferrero, si era dimesso denunciando<br />

la presenza di una “lobby<br />

calabrese” in grado di condizionare<br />

l’amministrazione locale: «Qualsiasi<br />

cosa succeda, loro prendono<br />

sempre gli stessi voti. Hanno una<br />

capacità di controllo del consenso<br />

spaventosa». E ancora: «Ci sono<br />

lobby e interessi che sfiorano il<br />

Piemonte


Piemonte<br />

concetto di infiltrazione». Per tali<br />

affermazioni fu querelato dagli ex<br />

colleghi di giunta Rocco Cuzzilla<br />

e Vincenzo Quattrocchi (deceduto<br />

ad aprile) e lo scorso 11 maggio è<br />

stato rinviato a giudizio per diffamazione.<br />

Artuffo aveva toccato<br />

un argomento tabù, confinato fino<br />

ad allora nei sussurri di strada.<br />

Dopo di lui altri parlarono. Un ex<br />

consigliere di An raccontò a «La<br />

Stampa» l’offerta ricevuta da un<br />

“piazzista” per l’acquisto di 200<br />

voti della zona di corso Trieste (ad<br />

alta densità demografica di origine<br />

calabrese). E don Ruggero Marini<br />

rese pubblica la confessione di un<br />

elettore che si vergognava di aver<br />

venduto il proprio voto per pochi<br />

euro. Il sacerdote denunciò anche<br />

la presenza di persone “arrivate da<br />

fuori” per organizzare il consenso<br />

in città alle elezioni del 2007, sottolineando<br />

che la ’ndrangheta era<br />

entrata «nelle sfere economiche<br />

della città. E in quelle politiche».<br />

Volontà o buona fede. Come giudicare<br />

allora i politici che nel loro<br />

percorso incocciano nella richiesta<br />

di voti alla ’ndrangheta? Cavarsela<br />

con una sospensione del giudizio<br />

in attesa della conclusione del<br />

procedimento penale è un lusso<br />

che una società pesantemente<br />

compromessa sotto il profilo<br />

dell’inquinamento mafioso non<br />

può più concedersi. La delega alla<br />

magistratura delle questioni morali<br />

e politiche, come dimostra la storia<br />

recente da tangentopoli in poi, non<br />

funziona. Altrettanto improduttiva<br />

l’opzione opposta, lo sparo ad alzo<br />

zero nei confronti di tutti coloro<br />

che si trovano a stringere mani<br />

sbagliate trascinandoli nel gorgo<br />

di una responsabilità “oggettiva”<br />

incapace di distinguere e per questo<br />

intrinsecamente ingiusta. Un conto<br />

è incontrare occasionalmente persone<br />

sbagliate, un altro è chiedere<br />

42 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

voti e promettere favori. In questo<br />

caso approfondire la natura del<br />

rapporto è un obbligo.<br />

Tutto dipende, ovviamente, dal grado<br />

di coscienza con cui il politico<br />

si rapporta alle cosche. Pensiamo,<br />

per chiarire il ragionamento, a un<br />

incidente stradale. L’automobilista<br />

che volontariamente (dolosamente,<br />

in termini giuridici) investe un<br />

pedone, risponde di omicidio volontario.<br />

Così il politico che volontariamente<br />

si rivolge alla mafia per<br />

chiedere voti, cosciente della sua<br />

capacità di condizionare l’elettorato,<br />

e in cambio promette vantaggi,<br />

può rispondere a seconda dei casi<br />

di voto di scambio, concorso esterno<br />

etc. Ma risponde di omicidio<br />

volontario anche l’automobilista<br />

che va ai 100 all’ora in un vicolo<br />

dove il limite è dei 30 e che, pur<br />

cosciente del pericolo che possa<br />

attraversare la strada improvvisamente<br />

un pedone, continui a<br />

correre, accettando il rischio che<br />

per la sua folle corsa qualcuno<br />

possa morire. Per la legge, se avviene<br />

l’incidente, l’automobilista<br />

risponde di nuovo a titolo di omicidio<br />

volontario (la dottrina parla<br />

di “dolo eventuale”). Allo stesso<br />

modo potrebbe essere imputabile<br />

per reati di mafia il politico che si<br />

rivolge a personaggi fortemente ambigui<br />

e pesantemente chiacchierati<br />

per ottenere voti, cosciente che il<br />

loro potere di condizionamento<br />

possa derivare da rapporti con la<br />

criminalità, e accettando il rischio<br />

di diventare loro debitore.<br />

Ma se l’autista che corre ai 100<br />

all’ora nel vicolo con il limite dei<br />

30 è convinto di essere in grado,<br />

per le sue doti di pilota, di evitare<br />

un eventuale ostacolo, dunque è<br />

convinto che non morirà alcun<br />

pedone per la sua guida spericolata,<br />

allora in caso di incidente<br />

non risponde più per omicidio<br />

volontario, ma per colpa (la con-<br />

dizione di chi commette un fatto<br />

per imprudenza o imperizia). Nel<br />

caso descritto, la dottrina parlerebbe,<br />

per l’esattezza, di “colpa<br />

cosciente”. Potrebbe essere il caso<br />

del politico che intuisca qualcosa<br />

di anomalo nell’abnorme capacità<br />

di convogliare voti di certi<br />

personaggi, ma che tuttavia non<br />

ritenga conveniente approfondire<br />

la questione, perché convinto che<br />

non sia suo compito (“sono un<br />

politico, non un poliziotto”) e per<br />

non rinunciare ai vantaggi di un<br />

rapporto che, non essendo esplicitato<br />

nella sua reale natura, non<br />

potrà mai essergli rimproverato.<br />

Per questa condotta nessun politico<br />

verrà mai condannato in tribunale,<br />

visto che non si risponde per<br />

reati di mafia a titolo di colpa. Ma<br />

tale condotta, lasciando aperto un<br />

canale di dialogo – anche se implicito<br />

– tra mafia e partiti, costituisce<br />

il cuore di quella responsabilità<br />

politica da più parti auspicata<br />

come strumento di prevenzione<br />

interna volta a prevenire l’intervento<br />

della magistratura.<br />

Rimane infine, oltre alla colpa “cosciente”,<br />

quella “incosciente”, o<br />

colpa tout court. Siamo nel campo<br />

dell’imprudenza e dell’imperizia<br />

in buona fede assoluta, quella cui<br />

si aggrappa la maggior parte dei<br />

politici rimasti imbrigliati nell’inchiesta<br />

Minotauro. Il politico che<br />

non ha capito, non sapeva, che<br />

non ha mai sospettato nulla. Può<br />

capitare, per carità, a tutti è giusto<br />

concedere il beneficio del dubbio<br />

nel nome della presunzione di<br />

non colpevolezza. Ma se la colpa<br />

cosciente confina con il dolo<br />

eventuale, l’“incoscienza” assoluta<br />

confina con la sprovvedutezza e<br />

la semplicioneria. Peccati capitali<br />

per chi ambisce a occuparsi della<br />

cosa pubblica. E chi ne risultasse<br />

affetto farebbe forse bene a trarne<br />

le dovute conseguenze.


Le formiche<br />

nel piatto<br />

Tutti i più importanti ’ndranghetisti operanti in Piemonte hanno<br />

interessi diretti o indiretti nel mondo dell’edilizia.<br />

Un esercito di “imprenditori” controlla il territorio e in forza<br />

dei rapporti instaurati con le amministrazioni locali, imperversa<br />

negli appalti pubblici e privati.<br />

A discapito delle imprese estranee alla mafia<br />

di M. Neb.<br />

Francesco è un imprenditore<br />

edile di origine napoletana che<br />

da alcuni anni lavora nella cintura<br />

sud di Torino. È specializzato<br />

nella ristrutturazione e nel<br />

frazionamento di vecchi cascinali.<br />

Ha lasciato Napoli con suo<br />

padre perché non voleva pagare<br />

il pizzo. In Piemonte afferma di<br />

non essere mai stato avvicinato<br />

da uomini della mafia, «forse per<br />

le piccole dimensioni della mia<br />

impresa. Se capitasse, un minuto<br />

dopo sarei dai carabinieri».<br />

Però sa bene che il pizzo si paga<br />

anche qui. «Qualche settimana<br />

fa ho incrociato per strada un<br />

muratore calabrese, che abita<br />

dalle mie parti e con cui ogni<br />

tanto scambio due parole. Era<br />

da tempo che non lo vedevo,<br />

supponevo fosse tornato in Calabria<br />

o fosse via per lavoro. Ci<br />

siamo salutati, e per prima cosa<br />

mi ha chiesto come girano gli<br />

affari. Io gli ho risposto che il<br />

momento non è facile, ’ste case<br />

non si vendono. Quando gli ho<br />

chiesto come andassero le cose<br />

per lui mi ha risposto: “Io non<br />

lavoro, vado a riscuotere…”.<br />

Lo ha detto guardandomi fisso<br />

negli occhi, in modo strano, non<br />

si capiva se dicesse sul serio o<br />

scherzasse, come per saggiare<br />

la mia reazione. Mi è venuto<br />

spontaneo rispondergli in dialetto<br />

napoletano “se vieni da me<br />

ti spezzo le gambe”. L’ho detto<br />

ridendo, e lui pure ha sorriso.<br />

Ma la cosa non mi è piaciuta. A<br />

mio padre non ho detto niente,<br />

se no gli viene un infarto».<br />

Pagano tutti, anche loro. Che<br />

vadano a “riscuotere” per il<br />

servizio di guardianìa (la protezione<br />

imposta ai cantieri), che<br />

lavorino direttamente con imprese<br />

regolarmente intestate, che<br />

operino attraverso prestanome,<br />

per i mafiosi l’edilizia mantiene<br />

una forza di attrazione irresistibile.<br />

L’operazione Minotauro<br />

non fa altro che confermare la<br />

vitalità della tradizione, che<br />

in Piemonte non fa eccezione.<br />

Impressiona vedere come tutti i<br />

43 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

boss coinvolti abbiano interessi<br />

rilevanti, diretti o indiretti, nel<br />

settore edile – «il vero centro di<br />

interesse dell’organizzazione<br />

operante a Torino e provincia»,<br />

secondo il Gip che ha ordinato<br />

gli oltre 150 arresti dello scorso<br />

8 giugno – o in quelli satelliti<br />

dell’impiantistica e della<br />

carpenteria. Il motivo è presto<br />

detto: per fare l’imprenditore<br />

edile non ci sono barriere all’ingresso,<br />

non ci vogliono titoli<br />

di studio né certificati penali<br />

puliti, chiunque può aprire una<br />

partita Iva e iniziare l’attività,<br />

senza dover dimostrare di essere<br />

in grado di tirare su un muro.<br />

L’ambiente ideale per dare lavoro<br />

a picciotti senza arte né<br />

parte, per fare un po’ di soldi o<br />

semplicemente per farli girare,<br />

riciclando i proventi di attività<br />

illecite.<br />

Edilizia, poi, significa gestione e<br />

controllo del territorio, musica<br />

per le orecchie dei boss, che<br />

hanno nella capacità di tessere<br />

rapporti con la politica e la<br />

Piemonte


Piemonte<br />

pubblica amministrazione la<br />

radice del proprio successo.<br />

Rapporti fondamentali non solo<br />

in relazione all’aggiudicazione<br />

di appalti pubblici, ma anche<br />

nel campo dell’edilizia privata,<br />

dove brulicano le imprese<br />

criminali più piccole. Uno<br />

spesso cordone ombelicale le<br />

lega alle amministrazioni locali<br />

per l’ottenimento dei permessi,<br />

i cambi di destinazione d’uso,<br />

le varianti ai piani regolatori<br />

e così via. Per non parlare dei<br />

controlli nei cantieri, che con<br />

le conoscenze giuste si possono<br />

del tutto disinnescare. Come<br />

registrato dagli investigatori in<br />

relazione alla ditta di Domenico<br />

Racco (presunto affiliato al locale<br />

di Cuorgné con il grado di<br />

“Trequartino”), che nel 2007, in<br />

seguito alla denuncia del geometra<br />

Flavio Novaria, ha subìto un<br />

controllo in cantiere a Cuorgné<br />

(To) da parte di carabinieri. Dalle<br />

intercettazioni è risultato che il<br />

maresciallo del Nucleo ispettorato<br />

del lavoro, Massimo Pizzuti,<br />

avendo riscontrato la presenza<br />

di un lavoratore in nero, avrebbe<br />

suggerito al commercialista<br />

dei Racco una “via d’uscita”:<br />

l’assunzione immediata per<br />

44 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

via telematica, concedendo il<br />

tempo per istruire la pratica ed<br />

evitare la denuncia. Allo stesso<br />

modo, da ulteriori conversazioni<br />

è emerso il rapporto dei Racco<br />

con un medico dell’Asl, con il<br />

quale si concordavano tempi e<br />

modi del sopralluogo, rendendo<br />

del tutto fittizio il controllo in<br />

cantiere. Com’è facile immaginare,<br />

il geometra che si è permesso<br />

di sporgere denuncia è<br />

stato malmenato e pesantemente<br />

minacciato di morte, facendogli<br />

passare la voglia di rivolgersi<br />

alle autorità. Come avviene nella<br />

più classica tradizione delle<br />

storie di mafia.<br />

Rami d’azienda in saldo. Decine<br />

di imprese mafiose, dunque,<br />

operano quotidianamente nelle<br />

nostre città. Ma quali sono le<br />

loro caratteristiche? Un prototipo<br />

d’impresa mafiosa non<br />

esiste. L’edilizia è un mondo eterogeneo<br />

che spazia dalle grandi<br />

opere pubbliche sul modello Tav<br />

ai modesti interventi privati di<br />

ristrutturazione residenziale.<br />

La ’ndrangheta non butta via<br />

nulla. E le imprese mafiose si<br />

adeguano alla fetta di torta cui<br />

ambiscono. Ci sono imprese<br />

piccole o piccolissime che<br />

lavorano esclusivamente nel<br />

settore privato, che abbattono<br />

i costi sfruttando manovalanza<br />

in nero, come nel caso della<br />

ditta Racco. Queste imprese<br />

presentano preventivi competitivi,<br />

non emettono fattura per<br />

i lavori eseguiti o lo fanno per<br />

importi inferiori al reale costo<br />

della prestazione, garantendo ai<br />

committenti privati l’evasione<br />

dell’Iva. A questo livello è facile<br />

che emerga il dna mafioso dei<br />

titolari, che non disdegnano<br />

l’uso della violenza nei confronti<br />

di eventuali concorren-<br />

ti e degli stessi committenti<br />

in caso di dispute sul prezzo.<br />

Come dimostra il caso Novaria,<br />

meglio non aprire contenziosi<br />

con costoro.<br />

Le imprese che intendono invece<br />

partecipare agli appalti o subappalti<br />

pubblici, non possono<br />

permettersi livelli di illegalità<br />

palesi: le norme sul contratto<br />

pubblico le escluderebbero a<br />

priori. In quelle imprese i lavoratori<br />

sono infatti assunti in regola.<br />

«Certo, a volte ci provano, e<br />

qualche lavoratore in nero, nel<br />

mucchio, lo infilano – afferma<br />

Antonio Castaldo segretario<br />

provinciale della Filca-Cisl –.<br />

Se il lavoratore si lamenta degli<br />

straordinari non corrisposti o<br />

dei ritardi nei pagamenti ci può<br />

scappare la pistola sul tavolo,<br />

di fronte alla quale il lavoratore<br />

rinuncia ai suoi diritti. Ma se<br />

la vertenza arriva a livello sindacale,<br />

l’imprenditore-mafioso<br />

paga di buon grado quanto dovuto<br />

e mette tutto a tacere. Il<br />

loro interesse non è sollevare<br />

polveroni, ma essere in regola.<br />

Con il sindacato evitano lo<br />

scontro, e, una volta pagati, i<br />

lavoratori perdono interesse a<br />

portare avanti le denunce». I<br />

lavoratori sanno che qualcosa<br />

non torna e che al sindacato i<br />

segnali non mancano. «Hanno<br />

una bassissima conflittualità<br />

in cantiere – conferma Dario<br />

Boni, segretario provinciale della<br />

Fillea-Cgil –. Non sono ostili<br />

al sindacato, come si potrebbe<br />

immaginare ragionando per stereotipi.<br />

Al contrario, cercano di<br />

essere in regola anche sotto il<br />

profilo della sicurezza». Eppure<br />

ci sono elementi che le rendono<br />

riconoscibili dalle altre. «Le voci<br />

girano, quando abbiamo a che<br />

fare con certi impresari ci rendiamo<br />

conto istintivamente di


avere a che fare con persone per<br />

lo meno sospette. Nonostante<br />

la crisi economica, il modo di<br />

lavorare lo trovano sempre. Oggi<br />

operano in una città, ma sanno<br />

già che tra sei mesi lavoreranno<br />

altrove, anche se ufficialmente<br />

non è stata neanche indetta la<br />

gara d’appalto». È la marcia in<br />

più dell’impresa mafiosa. Oltre<br />

alla disponibilità di capitali di<br />

origine illecita che le affranca<br />

dalle secche del rubinetto<br />

creditizio, i contatti politici<br />

garantiscono informazioni in<br />

esclusiva e corsie preferenziali<br />

sui cantieri pubblici. Mentre<br />

le imprese pulite sono in crisi,<br />

strozzate dalle banche e dai<br />

ritardi dei pagamenti degli enti<br />

pubblici (che giungono in casi<br />

estremi a 200 giorni) stretti dai<br />

vincoli del patto di stabilità, le<br />

imprese della mafia prosperano<br />

e possono permettersi di intervenire<br />

in aiuto delle imprese<br />

in difficoltà. «Se le comprano<br />

– afferma Boni –, per intero o<br />

acquistano semplici rami di<br />

azienda, con i relativi certificati<br />

Soa (necessari per comprovare<br />

la capacità dell’impresa a partecipare<br />

ad appalti pubblici con<br />

importo a base d’asta superiore<br />

a 150mila euro, nda). In questo<br />

modo concorrono a gare cui<br />

altrimenti non potrebbero ambire.<br />

E così espandono la loro<br />

capacità di infiltrazione senza<br />

che nessuno se ne accorga».<br />

Le responsabilità del “sistema”.<br />

Ma cosa avviene sui<br />

grandi appalti, in particolare<br />

sulle grandi opere che tutti<br />

immaginiamo obiettivo delle<br />

organizzazioni criminali, ma<br />

che poi difficilmente vengono<br />

colte sul fatto nonostante i controlli<br />

serratissimi? Un ex alto<br />

dirigente della Co.ge.fa, società<br />

leader nella realizzazione di<br />

grandi opere che ha realizzato<br />

tratti dell’Alta Velocità Torino-<br />

Milano e della metropolitana di<br />

Torino, ha accettato una dialogo<br />

con «Narcomafie» solo con la<br />

garanzia dell’assoluto anonimato.<br />

Nega recisamente che il<br />

problema si sia mai posto in<br />

modo concreto alla dirigenza<br />

della società: «A rischio di apparire<br />

ingenuo, posso dire che<br />

noi non abbiamo avuto mai<br />

percezione di pressioni di alcun<br />

genere per fare lavorare<br />

nei subappalti certe imprese<br />

al posto di altre. D’altra parte<br />

le norme sugli appalti pubblici<br />

sono molto stringenti: avevamo<br />

controlli quasi quotidiani di<br />

carabinieri e Guardia di finanza<br />

anche con agenti in borghese.<br />

Che poi, con il meccanismo del<br />

massimo ribasso, negli appalti<br />

qualcosa di strano possa accadere,<br />

lo immagino. Come fa<br />

un’impresa a stare nei costi se<br />

si presenta con un ribasso del<br />

40% sull’offerta? Da qualche<br />

parte troveranno il modo di risparmiare.<br />

Probabilmente sulla<br />

mano d’opera che lavorerà oltre<br />

l’orario dichiarato. Oppure sulla<br />

velocità di realizzazione dei lavori.<br />

Se prima di posare il manto<br />

stradale il progetto prescrive di<br />

rullare 100 volte il terreno, e io<br />

invece il rullo lo passo solo 10<br />

volte, si risparmia parecchio.<br />

Poi però capiamo perché certe<br />

grandi opere sono sempre in<br />

manutenzione». Colpa anche<br />

del sistema, dunque, che con il<br />

massimo ribasso costringerebbe<br />

le imprese a pratiche illegali per<br />

contenere i costi. O comunque<br />

che favorirebbe le imprese che<br />

riciclano denaro, per le quali<br />

è razionale lavorare con guadagni<br />

esigui o addirittura in<br />

perdita. Dario Boni ricorda che<br />

45 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

«per la realizzazione dell’Alta<br />

velocità Torino-Milano sono<br />

arrivate moltissime imprese<br />

dal Sud e moltissimi lavoratori<br />

meridionali. Per lavorare nelle<br />

grandi opere è necessaria la<br />

regolarità contributiva relativa<br />

a tutti i cantieri aperti sul territorio<br />

nazionale – altrimenti<br />

la cassa edile non rilascia il<br />

Durc (documento di regolarità<br />

contributiva) – e senza Durc non<br />

vengono pagati i Sal (stato avanzamento<br />

lavori). In quel periodo<br />

abbiamo registrato un fenomeno<br />

nuovo, una sorta di caporalato<br />

legalizzato: la mano d’opera<br />

era gestita da determinati personaggi<br />

– a volte meridionali,<br />

a volte di nazionalità straniera<br />

– che gestivano i rapporti<br />

della manovalanza, italiana o<br />

straniera. La quale era formalmente<br />

perfettamente in regola.<br />

Questi personaggi gestivano con<br />

autoritarismo assoluto modalità<br />

lavorative, orari, pause pranzo<br />

e così via. Quello che sappiamo<br />

è che gli orari effettivi erano<br />

nettamente superiori a quelli<br />

dichiarati, che le pause erano<br />

ridotte al minimo vitale e che<br />

nessuno si sognava di denunciare,<br />

per paura proprio di questi<br />

“gestori di mano d’opera” cui<br />

si affidavano le imprese».<br />

A macchia di leopardo. Il controllo<br />

del territorio è l’essenza<br />

primordiale del potere mafioso.<br />

Come ha dichiarato il collaboratore<br />

Rocco Marando, ex affiliato<br />

alla locale di Volpiano, «quando<br />

vi è un appalto di opere edilizie<br />

da realizzare nella zona rientrante<br />

nel territorio della “società”,<br />

debbono “mangiare” le ditte che<br />

sono gestite da esponenti della<br />

medesima società. Se ad esempio<br />

vincesse una ditta estranea<br />

alla società, viene dapprima<br />

Piemonte


Piemonte<br />

convinta con le buone a lavorare<br />

altrove, poi con le cattive e si<br />

può arrivare anche a uccidere. In<br />

sostanza, la ditta della “società”<br />

che si aggiudica un appalto poi<br />

ripartisce i vari lavori (elettrici,<br />

tubature, etc.) ad altre ditte che<br />

fanno parte “dell’onorata società”».<br />

Il controllo del territorio in<br />

Piemonte non è omogeneo ma<br />

“a macchia di leopardo”, come<br />

direbbe il procuratore Grasso.<br />

Significa che esistono ancora<br />

numerose zone franche, ma se<br />

si ricade nella “macchia”, come<br />

quella canavesana, la pressione<br />

è soffocante. Pagano persino le<br />

stesse ditte della mafia in trasferta.<br />

«Quando una ditta mafiosa<br />

vuole lavorare oltre i confini<br />

del territorio di competenza<br />

– ha ribadito Marando – deve<br />

informare le famiglie del luogo<br />

e pagare qualcosa». Non sempre<br />

lo fanno di buon grado. Nelle<br />

intercettazioni dell’inchiesta<br />

Minotauro sono registrate decine<br />

di discussioni, anche molto<br />

violente, tra ’ndranghetisti che<br />

cercano di “eludere”, almeno<br />

in parte, la tassa, e coloro che<br />

ne esigono la riscossione. Chi<br />

immagina la ’ndrangheta come<br />

un monolite senza crepature<br />

interne, contrapposto come un<br />

sol uomo al mondo degli esterni,<br />

i cosiddetti “contrasti”, è fuori<br />

strada. Tra di loro è un continuo<br />

lottare anche per poche centinaia<br />

di euro, come formiche che si<br />

accapigliano sullo stesso tozzo<br />

di pane. Pochi spiccioli, che<br />

però valgono l’accettazione o il<br />

rifiuto della sovranità altrui sul<br />

territorio in questione, principio<br />

per il quale vale la pena morire<br />

nella cultura mafiosa.<br />

Quando un’impresa “esterna”<br />

alla società riesce ad aggiudicarsi<br />

un appalto in una zona<br />

controllata dalle ’ndrine viene<br />

46 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

costretta a pagare il pizzo per<br />

pagare la guardianìa, in denaro<br />

o attraverso la concessione di<br />

subappalti alla mafia. Un’affermazione<br />

estrapolata da un dialogo<br />

tra Bruno Iaria, capolocale<br />

di Cuorgné, e Giuseppe Gioffré,<br />

caposocietà del locale di Natile<br />

di Careri a Torino fino al 2008,<br />

quando fu assassinato a Locri,<br />

è particolarmente significativa.<br />

È il 2007, i due boss stanno<br />

discutendo della costruzione di<br />

180 alloggi a Rivarolo Canavese<br />

da parte di una non meglio<br />

identificata “società Parisi”, che<br />

sarebbe disponibile a concedere<br />

in subappalto a ditte dei boss<br />

parte dei lavori.<br />

Amici in Regione. Iaria dice<br />

a Gioffrè: «Compà, dobbiamo<br />

andare a trovare a coso, a Nino<br />

Occhiuto (componente della cosiddetta<br />

Bastarda, ndr), perché,<br />

mi ha parlato mio zio Giovanni<br />

(Giovanni Iaria, cfr art. p. 33,<br />

ndr) l’altro giorno, che a Rivarolo<br />

hanno 180 alloggi e passa,<br />

però la pratica è bloccata in<br />

Regione, è andato, praticamente<br />

“Natino” e ha fatto bloccare,<br />

perché l’ha fatta bloccare, mio<br />

zio mi ha detto vai, così in modo<br />

che noi entriamo, dice però la<br />

possiamo tenere bloccata un<br />

mese, due, poi che succede<br />

andiamo da compare Nino, …<br />

, giustamente il lavoro se non<br />

gli interessa tutto a loro almeno<br />

la metà li dobbiamo fare noi,<br />

ci sono 180 alloggi da fare, i<br />

ponteggi da fare, qui la cosa<br />

è grossa e grassa, poi so che,<br />

questi dei Parisi, so che lui li<br />

ha messi sotto per i cantieri...<br />

(incomprensibile) avete capito?<br />

Là quando avevano fatto gli altri<br />

cantieri.... Ora vogliamo andare,<br />

a trovare compare “Nino” per<br />

anticiparlo noi, capito? “Com-<br />

pare Nino vedete che passa così,<br />

io non voglio, noi ci rispettiamo,<br />

la carpenteria so che voi non la<br />

fate, non la fanno ... a farla altri<br />

la facciamo noi...”».<br />

Dalle affermazioni di Iaria emerge<br />

innanzitutto che, tramite<br />

delle non meglio specificate<br />

“conoscenze” in Regione, il<br />

gruppo ’ndranghetista ha<br />

ostacolato il rilascio di certe<br />

autorizzazioni richieste dalla<br />

società Parisi per realizzare un<br />

importante intervento edilizio,<br />

al fine di consentire a Gioffré e<br />

allo stesso Iaria di concordare<br />

con Antonino Occhiuto (affiliato<br />

alla “Bastarda”, competente<br />

territorialmente sul cantiere<br />

di Rivarolo) la spartizione dei<br />

subappalti («Parisi ce l’ha la<br />

ditta, però lo dà via il lavoro,<br />

capito?»). È la conferma che<br />

“Parisi” non essendo della zona<br />

di Rivarolo, deve pagare. La moneta<br />

sono i subappalti. Dall’altro<br />

lato si evidenzia come i mafiosi<br />

abbiano bisogno di tempo per<br />

discutere tra loro di spartizioni<br />

interne (territorialmente spetterebbero<br />

ad Occhiuto, che «li ha<br />

messi sotto», ma Iaria e Gioffrè<br />

vogliono entrare nell’affare di<br />

Occhiuto, che non sarebbe in<br />

grado di fare tutti i lavori («a te<br />

la carpenteria non interessa»).<br />

Ecco il valore aggiunto dei rapporti<br />

con l’amministrazione e<br />

la politica. Dall’inchiesta non<br />

è ancora emerso quali fossero<br />

i contatti in Regione vantati o<br />

millantati da Iaria. Ma è abbastanza<br />

evidente dove cercare.<br />

«Sono gli uffici tecnici – sottolinea<br />

Antonio Castaldo – i<br />

luoghi dove si prendono le<br />

decisioni fondamentali relative<br />

all’edilizia. Se in quei posti<br />

chiave dell’amministrazione<br />

ci sono persone avvicinabili,<br />

il gioco è fatto».


Chi comanda<br />

a Torino<br />

L’operazione “Gioco duro” del 2008 li aveva<br />

già individuati – benché senza riuscire a fermarli –<br />

come i nuovi boss del capoluogo <strong>piemonte</strong>se.<br />

Oggi l'inchiesta Minotauro ribadisce il loro ruolo apicale<br />

di Giuseppe Legato<br />

Dinastie di fratelli che hanno<br />

seminato sangue e crimine,<br />

minacce e delitti. Frammenti<br />

di storia della ’ndrangheta di<br />

Torino da aggiornare. Dopo<br />

Domenico e Salvatore “Sasà”<br />

Belfiore, dopo Francesco e Pasqualino<br />

Marando, ecco Adolfo<br />

e Cosimo Crea, per tutti “i<br />

nuovi capi” della mala, nati a<br />

Locri e cresciuti a Stilo, rispettivamente<br />

mare e montagna<br />

di quella Calabria jonica che<br />

sotto la Mole ha sempre avuto<br />

ruoli di comando dell’organizzazione.<br />

Adolfo 40 anni, Cosimo<br />

37. Giovani, ma, secondo<br />

le risultanze dell’operazione<br />

Minotauro, già “padrini” del<br />

Crimine, la struttura superiore<br />

alle ’ndrine che decide omicidi,<br />

rapine, estorsioni e impone<br />

la sua volontà su tutte le altre<br />

famiglie (cfr art. pag. 55, ndr).<br />

Sono loro i veri vertici del<br />

torinese. Spregiudicati, cinici,<br />

violenti, arrivisti, sanguinari.<br />

«Abbiamo Torino in mano»<br />

dice Giacomo Lo Surdo, uno<br />

dei loro soldati, alla fidanzata<br />

che gli chiede conto dei soldi<br />

a palate che girano nelle<br />

sue tasche. «Mio compare è<br />

il capo di Torino, comanda<br />

tutto. Qualsiasi cosa si debba<br />

fare, lo decidiamo noi. Anche<br />

se devi ammazzare uno devi<br />

chiedergli il permesso». Suo<br />

compare è Adolfo Crea.<br />

Gli esordi. Quando arrivano a<br />

Torino nel 2001 i fratelli di Stilo<br />

stanno scappando da una faida<br />

tra le famiglie Ruga-Metastasio<br />

e Gullace-Novella. Non c’è paura<br />

negli occhi di Adolfo e Cosimo,<br />

ma una certezza. «Qui non<br />

ci fanno lavorare». Il treno per<br />

il Piemonte li aspetta al binario<br />

della stazione di Locri. Diciotto<br />

ore stipati nei vagoni dell’espresso<br />

1608 Lamezia-Torino.<br />

In città sono anni difficili. È stato<br />

appena ammazzato Pasqualino<br />

Marando, che a Volpiano<br />

era un re (la notizia si sparse<br />

velocemente tra le famiglie di<br />

’ndrangheta, ma solo dopo un<br />

anno arrivò alle orecchie della<br />

Dia). Gli Ursino-Scali-Belfiore-<br />

Macrì resistono a Moncalieri<br />

(ma Mario Ursino è in carcere<br />

e uscirà solo nel 2006 beneficiando<br />

dell’indulto). A Nord<br />

però c’è il vuoto. Perché il<br />

fratello di Pasqualino – Do-<br />

47 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

menico – è in carcere per un<br />

duplice omicidio. E il resto<br />

della famiglia – Rosario, Rocco<br />

e Nicola – è già sotto la lente di<br />

ingrandimento della procura di<br />

Reggio Calabria. Indaga su di<br />

loro Nicola Gratteri agli albori<br />

dell’operazione Stupor Mundi,<br />

che nel maggio 2007 avrebbe<br />

sgominato una delle più potenti<br />

consorterie mafiose della Locride<br />

dedita al narcotraffico.<br />

Spazio, dunque, ce n’è. Adolfo<br />

e Cosimo non si fanno pregare.<br />

E per entrare nell’onorata società<br />

si appoggiano a Vincenzo<br />

Argirò, che al tempo deteneva<br />

il controllo dei videopoker<br />

nella zona di Settimo, Leinì<br />

e Brandizzo. Il primo sponsor<br />

della scalata dei Crea è lui.<br />

Ma non è il solo. Per arrivare<br />

a comandare le ’ndrine torinesi<br />

i Crea devono creare una rete.<br />

Per questo motivo Adolfo fa<br />

in modo di entrare in affari<br />

con Luciano Ursino, nipote di<br />

Rocco Lo Presti, il capobastone<br />

di Bardonecchia morto il<br />

23 gennaio 2009, pochi giorni<br />

dopo la sua prima condanna<br />

per associazione a delinquere<br />

di stampo mafioso.<br />

Piemonte


Piemonte<br />

Amicizie con boss e poliziotti.<br />

Le intercettazioni svelano<br />

un’amicizia fraterna tra Adolfo<br />

e Luciano, che fa leva anche<br />

sulle collusioni di alcuni rappresentanti<br />

delle forze dell’ordine.<br />

È il caso di Aldo Galasso,<br />

ispettore di polizia, e Vittorio<br />

Falbelli, prolifico informatore<br />

delle forze dell’ordine. Insieme<br />

procureranno ai fratelli Crea<br />

uno scanner per bonificare gli<br />

uffici dalle cimici. Non solo:<br />

l’ispettore Galasso, verosimilmente<br />

su richiesta di Adolfo e<br />

Cosimo, si sarebbe informato<br />

con alcuni colleghi di lavoro<br />

sull’esistenza di indagini<br />

in corso sul loro conto, ma<br />

anche su quello di Giuseppe<br />

Belfiore, Vincenzo Argirò<br />

e Luciano Ursino. Eccola la<br />

rete dei Crea. Belfiore però<br />

entrerà in scena molto dopo<br />

nel contesto del “salto” dei<br />

Crea dalle “macchinette” alle<br />

bische clandestine.<br />

Per la cronaca, l’ispettore<br />

Galasso, rientrato in servizio<br />

nel 2009 alla Questura<br />

di Vercelli, è stato destituito<br />

un anno fa dall’incarico (e<br />

quindi espulso dalla polizia)<br />

dopo la sentenza definitiva<br />

della Corte di cassazione (10<br />

maggio 2010) a un anno e<br />

nove mesi per aver favorito in<br />

modo fraudolento personaggi<br />

della mala torinese. Galasso,<br />

che in carriera aveva ricevuto<br />

20 encomi e ambiva a entrare<br />

nella Dia, è stato ritenuto colpevole<br />

nonostante il suo avvocato<br />

Francesco Traversi sostenga di<br />

aver assistito alla creazione «di<br />

un mostro giudiziario sulla base<br />

di ricostruzioni fantasiose del<br />

pm. Al tempo in cui l’ispettore<br />

fu contattato da Adolfo Crea,<br />

lo stesso Crea era un emerito<br />

sconosciuto con due precedenti<br />

48 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

per emissione di assegni a vuoto».<br />

È ancora in piedi il ricorso<br />

contro l’espulsione dal corpo<br />

di appartenenza.<br />

La banda dei Crea. Nella squadra<br />

dei due fratelli di Stilo<br />

c’è un personaggio centrale. Si<br />

chiama Giacomo Lo Surdo. È il<br />

telefonista del gruppo. È lui che<br />

chiama gli imprenditori dalle<br />

vecchie cabine Telecom: «O<br />

pagate o saltate in aria» dice.<br />

Ed effettivamente qualcosa succede.<br />

Il 15 ottobre del 2002 il<br />

titolare della ditta Turin Carta<br />

srl di San Maurizio Canavese si<br />

ritrova la casa dilaniata da una<br />

bomba. L’hanno piazzata i Crea<br />

nel muro di cinta che sostiene<br />

la camera da letto dell’imprenditore<br />

che poi racconterà ai<br />

carabinieri di Ciriè: «Mi hanno<br />

anche bruciato un deposito di<br />

pneumatici e una gru. È gente<br />

che vuole il pizzo, da tempo<br />

ricevo telefonate di minacce,<br />

sono terrorizzato. Non so più<br />

cosa devo fare». Nasce così<br />

l’operazione “Poker” coordinata<br />

dal sostituto procuratore<br />

Antonio Malagnino. Le intercettazioni<br />

telefoniche svelano<br />

un sodalizio «molto lontano<br />

– diranno in procura – dalla<br />

semplice banda di usurai affamati<br />

di soldi». Il capo è lui:<br />

Adolfo Crea, all’epoca 33 anni,<br />

impresario edile. I suoi compari<br />

sono quelli finiti in carcere<br />

nell’operazione Minotauro: Lo<br />

Surdo, Argirò, Candido (cugino<br />

dei Crea). Cercavano di convincere<br />

i proprietari di bar e locali<br />

pubblici a installare i videopoker,<br />

forniti dai fratelli Antonio<br />

ed Elio Cappiello, abitanti a<br />

Santena e Cambiano. Incassi<br />

record: 800 euro al giorno e<br />

25 mila euro al mese. Chi si<br />

rifiutava finiva in un incubo:<br />

botte, minacce, bombe.<br />

Perché la forza dei Crea è questa:<br />

da un lato sono abili e diplomatici<br />

nel conquistare la fiducia<br />

dei boss torinesi e calabresi e<br />

dall’altro paiono altrettanto<br />

ancestrali nelle modalità di<br />

esercizio della violenza, metodi<br />

mafiosi tout court. Bombe e<br />

cortesie: cocktail micidiale.<br />

Giugno 2003: la banda dei Crea<br />

cosparge di benzina venticinque<br />

metri di corso Giulio Cesare<br />

per minacciare due ditte edili<br />

che si affacciano sulla strada<br />

e non vogliono pagare. Nello<br />

stesso mese i carabinieri sorprendono<br />

Vito Candido (pure<br />

lui originario di Stilo e – soprattutto<br />

– cugino di Adolfo)<br />

mentre cospargeva di benzina<br />

i capannoni della ditta Edil<br />

Jonica di strada della Pronda.<br />

I carabinieri di Venaria decidono<br />

che è ora di chiudere<br />

l’indagine.<br />

Gli arresti li portano in carcere,<br />

ma Adolfo e Cosimo – insieme<br />

ad Argirò – escono presto: è<br />

l’autunno del 2005, Argirò già<br />

nel 2004 per motivi di salute.<br />

Dai videopoker alle bische<br />

clandestine. La scalata è iniziata.<br />

E sembra inarrestabile<br />

nel momento in cui i Crea decidono<br />

– dopo aver maturato<br />

l’esperienza carceraria – che<br />

è ora di passare dalle macchinette<br />

di videopoker alle bische<br />

clandestine. Un salto notevole<br />

che ha bisogno di uno sponsor.<br />

E chi meglio di Giuseppe Belfiore,<br />

ultimo avamposto della<br />

storica famiglia mafiosa che<br />

ha sulle spalle l’omicidio del<br />

procuratore capo Bruno Caccia?<br />

In pochi mesi mettono le<br />

mani su quasi tutte le bische<br />

del capoluogo. Conquistano<br />

la fiducia di Peppe che nota


– e non disdegna – la grande<br />

scaltrezza dei fratelli di Stilo.<br />

Lui diventa il terminale di<br />

confidenze e lamentele. I Crea<br />

riconoscono la portata storica<br />

del personaggio. Mai uno<br />

sgarro, anzi rispetto assoluto.<br />

Ma la fame porta fretta. In quel<br />

mondo di dadi e carte ci sono<br />

regole difficili da far digerire ai<br />

Crea che vogliono tutto e subito.<br />

Un uomo potente finisce presto<br />

nel mirino di Adolfo e Cosimo. Si<br />

tratta di Renatino Macrì, nipote<br />

di Mario Ursini. Macrì sottovaluta<br />

la portata criminale dei due<br />

“stiloti” e decide di alzare la<br />

posta. È il 10 ottobre del 2007.<br />

Il boss apre un’altra bisca insieme<br />

a Raffaele Dragone e a<br />

Cosimo Papandrea. Si chiama<br />

“Blu notte”, via Borgaro. Tra i<br />

tavoli verdi si comincia subito<br />

a giocare a poker texano, ma<br />

un accordo in cui i Crea hanno<br />

spuntato l’esclusiva, genera attriti<br />

forti. Uno della loro banda<br />

si presenta alla sala dei dadi e<br />

interrompe la serata: «A texano<br />

si può giocare solo nella bisca di<br />

via San Paolo», dice. Fa vedere<br />

una pistola e se ne va a piedi<br />

indisturbato.<br />

E se non bastasse – com’è tradizione<br />

nella carriera criminale<br />

dei Crea – arrivano le bombe.<br />

È la mattina del 1° novembre<br />

2007. E il povero meccanico<br />

Antonino D’Elia da Gerocarne<br />

(Vibo Valentia) trova davanti<br />

alla sua officina un ordigno<br />

esplosivo collegato con dei fili<br />

elettrici a un detonatore.<br />

Gli artificieri del comando provinciale<br />

dei Carabinieri di Torino<br />

hanno accertato che si trattava<br />

di due candelotti di materiale<br />

esplosivo del tipo plastico da<br />

cava del peso complessivo di<br />

circa grammi 500 assemblati con<br />

nastro da imballaggio e dotati di<br />

un detonatore elettrico collegato<br />

con un filo di massa.<br />

No, non è per lui quella bomba.<br />

Che invece serve a spaventare<br />

il titolare del circolo privato di<br />

fronte. È l’Ermitage di Renato<br />

Macrì. Lui non cede. Belfiore<br />

prova a mediare, ma non ci<br />

riesce. E il 2 febbraio 2008 le<br />

bombe tornano. Stessa scena<br />

di qualche mese prima. Esplosivo<br />

plastico davanti al circolo<br />

di Macrì. Stavolta però non<br />

è un esercizio dimostrativo:<br />

le bombe potevano fare una<br />

strage. I fratelli di Monasterace<br />

sono quasi al top, hanno<br />

messo un po’ in disparte pure<br />

Peppe Belfiore che conta e non<br />

poco, ma è uomo di dialogo.<br />

Qualcuno lo critica: «Se ci<br />

fossero i suoi fratelli fuori,<br />

certe persone sarebbero già<br />

sottoterra». Quelle persone<br />

sono Adolfo e Cosimo Crea.<br />

La Mobile del dirigente Marco<br />

Martino a quel punto però<br />

è già avanti nell’inchiesta<br />

“Gioco duro” (vedi «Narcomafie»<br />

05/2009) condotta dal<br />

pm Onelio Dodero (oggi alla<br />

procura antimafia di Caltanissetta).<br />

Le manette scattano<br />

anche in considerazione del<br />

fatto che sta per scoppiare<br />

una guerra di mafia. Lo dicono<br />

gli stessi ’ndranghetisti<br />

intercettati: «Si è creata una<br />

situazione delicatissima, hanno<br />

fatto un casino (i Crea). È già tre<br />

volte che l’abbiamo rischiata (la<br />

guerra)» dice Bruno Iaria.<br />

Capi anche in carcere. In cella<br />

finiscono Adolfo e Cosimo,<br />

ma anche Peppe Belfiore. La<br />

pax di Torino è salva. Per tutti<br />

l’accusa iniziale è di associazione<br />

a delinquere di stampo<br />

mafioso, imputazione che non<br />

regge in dibattimento e viene<br />

49 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

derubricata in associazione a<br />

delinquere semplice. I Crea<br />

fanno due anni di carcere. Le<br />

sbarre però non rallentano la<br />

loro scalata al Crimine. Tutti<br />

li ossequiano. Soprattutto i<br />

loro soldati. Fortunato Currà,<br />

Benvenuto Praticò, Ercole Lo<br />

Surdo (fratello di Giacomo) e<br />

Massimo Troiano si fanno in<br />

quattro per turnare una volta<br />

alla settimana (ogni mercoledì)<br />

e accompagnare al carcere<br />

di Bologna Franca Murace, la<br />

moglie di Adolfo. Anche Francesco<br />

D’Agostino ha il suo bel<br />

lavoro da svolgere: organizza<br />

gli incontri del suo “capo” con<br />

gli ospiti che devono conferire<br />

con lui (e con Vincenzo<br />

Argirò), paga la benzina per<br />

arrivare in Emilia, smista la<br />

corrispondenza di Adolfo in<br />

carcere. Non solo: risulta dagli<br />

atti che lo stesso D’Agostino<br />

abbia partecipato al tentativo<br />

di coinvolgere il cappellano del<br />

carcere di Torino, don Piero<br />

Stavarengo, per ottenere rapidamente<br />

– senza successo<br />

– il trasferimento di Crea dal<br />

carcere di Bologna presso un<br />

istituto di pena più vicino e<br />

facilmente raggiungibile, scrivono<br />

i carabinieri. Per capire<br />

quanto i Crea siano forti anche<br />

dietro le sbarre è illuminante<br />

la vicenda relativa alla disputa<br />

nata attorno alla riapertura<br />

del locale di Rivoli, chiuso<br />

(sospeso) dopo il loro arresto.<br />

Alcune famiglie pensano sia<br />

arrivato il momento di ridarlo<br />

a Salvatore “Giorgio” Demasi<br />

che ha il grado di padrino ed è<br />

già capo locale di San Mauro. I<br />

Crea però, sfruttano abilmente<br />

i loro rapporti con San Luca e<br />

col boss Giuseppe Pelle detto<br />

“Gambazza”. È lo stesso Pelle a<br />

decidere che bisogna aspettare<br />

Piemonte


Piemonte<br />

La lupara bianca di<br />

Pasquale Marando e dintorni<br />

di G. L.<br />

Tra le mille pieghe dell’operazione<br />

Minotauro, ce n’è una destinata<br />

ad aggiornare gli archivi dell’antimafia.<br />

Da qualche giorno, sulle<br />

foto segnaletiche di Pasqualino<br />

Marando, narcotrafficante di stanza<br />

a Volpiano, e di Rocco Vincenzo<br />

Ursini, nipote del boss Mario affiliato<br />

al locale di Moncalieri, c’è<br />

una “x” disegnata con un pennarello<br />

nero. Che significa “morti”.<br />

Cambio di status anagrafico: da<br />

missing (scomparsi) a deceduti.<br />

Meglio sarebbe scrivere uccisi. Luce<br />

dunque – finalmente – sulla storia<br />

delle ultime due lupare bianche<br />

sotto la Mole. I carabinieri ne sono<br />

certi. «Non ci sono più margini<br />

ragionevoli per ritenere che Marando<br />

e Ursini siano vivi». Storie<br />

diverse per caratura criminale che<br />

però finiscono nell’imbuto della<br />

stessa pratica mafiosa: omicidio e<br />

sparizione del cadavere.<br />

Lupara bianca/1: Pasquale Marando.<br />

Chissà dov’è finito il corpo del<br />

vangelista Marando, boss made in<br />

Platì, uomo di coca e di containers,<br />

contatto privilegiato dei narcos di<br />

Bogotà col crimine italiano. Un’impresa<br />

rimase storica nell’immaginario<br />

della mala: con una telefonata<br />

Pasqualino ordinò un carico di 500<br />

kg di polvere bianca. I colombiani<br />

la stoccarono e la spedirono al porto<br />

di Genova. I calabresi la ritirarono,<br />

la tagliarono nelle raffinerie clandestine,<br />

iniziarono a venderla sul<br />

mercato milanese di Buccinasco.<br />

Il tutto senza che Pasquale avesse<br />

ancora pagato una lira. Per una<br />

situazione analoga – ma con interlocutori<br />

diversi – i colombiani<br />

avevano sequestrato due emissari<br />

della “stidda” siciliana. La dura<br />

legge delle foreste del Sud America<br />

è chiara: non pagare equivale a<br />

morire. Non per Pasquale Marando,<br />

capostipite di una famiglia di<br />

quattro fratelli, che sono poi il<br />

suo esercito: Rosario, Domenico,<br />

Nicola e Rocco (tutti in carcere<br />

tranne quest’ultimo, ex collaboratore<br />

di giustizia) tutti residenti<br />

50 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

nell’hinterland nord di Torino. Di<br />

lui si fidavano tutti. Pasquale però<br />

è un re dal destino amaro, quasi<br />

beffardo. Morirà di lupara bianca<br />

nel 2001 a Platì, ucciso – secondo<br />

le testimonianze di Varacalli e di<br />

Rocco Marando (suo fratello) – per<br />

mano dei cognati Trimboli. Per la<br />

serie: chi di arma ferisce di arma<br />

perisce. Lui di “lupare bianche”<br />

ne sapeva qualcosa.<br />

Lupara bianca/2: Antonino e<br />

Antonio Stefanelli, e l’omicidio<br />

di “Ciccio” Marando. Un passo<br />

indietro. L’omicidio di Antonino e<br />

Antonio Stefanelli (padre e figlio,<br />

parenti di Pasquale Marando) è<br />

una storia di violenza atroce. Tutto<br />

cominciò quando nei boschi di<br />

Chianocco, un paesino sperduto<br />

nella Valsusa attraversato dai fiumi<br />

delle profonde gorghe dell’Orrido,<br />

fu trovato un cadavere carbonizzato.<br />

Nei verbali di sopralluogo dei<br />

carabinieri viene riportata una data:<br />

3 giugno 1996. Il giorno prima,<br />

lì, si è consumato un omicidio. È<br />

l’inizio, in provincia di Torino, di<br />

una delle faide più sanguinose del<br />

nord Italia. Da una parte la famiglia<br />

Stefanelli da Oppido Mamertina<br />

con base a Varazze e con un florido<br />

mercato di stupefacenti; dall’altra<br />

i Marando di Platì. Sono parenti,<br />

soci in affari. Si sono sposati tra<br />

di loro per rinsaldare – com’è uso<br />

nelle famiglie calabresi – i rapporti<br />

dei “locali” distaccati al Nord. Si<br />

siedono allo stesso tavolo, mangiano<br />

dallo stesso piatto, bevono<br />

lo stesso vino e trafficano la stessa<br />

cocaina. Che è poi quella che arriva<br />

in Italia grazie a Pasquale. Il<br />

cadavere ritrovato nei boschi della<br />

Val Susa non può parlare. Il fuoco<br />

non ha risparmiato quasi niente<br />

se non i bossoli di una 7.65 col<br />

quale i sicari lo hanno freddato.<br />

E allora, in un epoca in cui non ci<br />

sono ancora i Ris e le investigazioni<br />

scientifiche sono agli albori, ci<br />

pensa un medico legale – Roberto<br />

Testi – a svelare il mistero. Sul<br />

comodino dell’obitorio accanto<br />

ai resti dell’uomo senza nome c’è<br />

anche un anello che ha resistito<br />

alle fiamme. È una fede nuziale<br />

con un’incisione precisa: “Maria.<br />

09-06-1990”. Quella Maria è Maria<br />

Stefanelli, 26 anni all’epoca, figlia<br />

di Antonino Stefanelli, capo della<br />

locale di Varazze in Liguria, sorella<br />

di Antonio, rampollo emergente<br />

della famiglia, e moglie del morto:<br />

Francesco “Ciccio” Marando. A<br />

quel tempo Pasquale è un fratello<br />

promettente, mentre Ciccio è già un<br />

boss che sa fare bene il suo lavoro.<br />

A Platì si fidano molto di lui: «È uno<br />

serio. Se dice che la cocaina arriva,<br />

tu comincia a tagliarla col pensiero»<br />

racconta in dialetto uno dei suoi<br />

parenti in un’intercettazione telefonica.<br />

Il movente dell’omicidio di<br />

“Ciccio” è la droga. Negli ultimi<br />

anni era cresciuto molto. Qualcuno<br />

della sua famiglia voleva liberarsene.<br />

Lui lo aveva capito. E 9 mesi<br />

prima di morire era scappato dal<br />

repartino dell’ospedale di Genova<br />

dove si era fatto ricoverare nel corso<br />

della detenzione simulando una<br />

crisi isterica. Da lì si era rifugiato<br />

in Aspromonte, poi era tornato a<br />

Torino per gestire i traffici illeciti<br />

sui quali aveva messo il suo timbro<br />

per vent’anni. E a Torino trovò<br />

il capolinea. La famiglia capisce<br />

e deve reagire. Per Pasquale, in<br />

particolare, dietro la morte del<br />

fratello non potevano che esserci<br />

gli Stefanelli: Antonio e Antonino,<br />

per l’esattezza cognato e suocero di<br />

Ciccio. Maria Stefanelli, moglie del<br />

morto, è infatti sorella di Antonino<br />

e zia di Antonio. La condanna a<br />

morte è già scritta nelle intercettazioni<br />

del Gico. Due compari di<br />

Marando parlano tra di loro: «Ciccio<br />

se lo sono fatto loro. Fanno i<br />

furbi, ma tanto a Torino ci devono<br />

tornare». I furbi sono Antonio e<br />

Antonino Stefanelli che un anno<br />

dopo perderanno la vita nella faida<br />

di Volpiano. Padre e figlio tentarono<br />

a lungo una mediazione. Vengono<br />

invitati a Volpiano, ma hanno paura.<br />

Al terzo diniego, i bonus sono<br />

finiti. Antonino capisce chi deve


incontrare. E contatta un mediatore<br />

che risponde al nome di Giuseppe<br />

“Pino Lezzi”, 68 anni ai tempi dei<br />

fatti. È un incensurato, imprenditore<br />

edile originario di Staiti.<br />

Lui è un fedelissimo di Domenico<br />

Marando, fratello di Pasquale, ed<br />

è al corrente della vendetta che<br />

stanno preparando a Volpiano,<br />

ma è l’unico uomo che può portare<br />

i killer di Ciccio nella tana<br />

del lupo. Quando Leuzzi chiama<br />

i parenti a Oppido Mamertina (Rc)<br />

per chiedere perché non arrivano<br />

all’appuntamento, padre e figlio<br />

sono già morti. Avevano 55 e 35<br />

anni. I loro corpi non sono mai stati<br />

trovati. Fantasmi. È una mattanza<br />

senza cadaveri in cui anni dopo<br />

finirà anche Pasquale. Suo nipote<br />

Antonio lo idolatra ancora oggi.<br />

Tanto è l’alone quasi mitologico<br />

che Pasquale ha lasciato dal giorno<br />

della sua scomparsa. Quando i<br />

giornali ripercorrono la carriera<br />

criminale del boss il tono è celebrativo<br />

«questo era mio zio – dice a<br />

Domenico Agresta indicando la foto<br />

– vedi che non lo lasciano in pace<br />

neanche da morto». I due pentiti<br />

Rocco Varacalli e Rocco Marando<br />

completano il quadro: «Mi hanno<br />

riferito che a ucciderlo è stato Saverio<br />

Trimboli (detto Savetta). Lo<br />

hanno fatto a cavallo dei giorni in<br />

cui è entrato in vigore l’euro» (chiaramente<br />

ciò che viene registrato non<br />

equivale a una chiamata in correità<br />

di Trimboli). Dettaglio: nei giorni<br />

successivi all’uccisione pare che<br />

le scarpe di Pasquale siano state<br />

consegnate alla madre, abbandonate<br />

davanti alla porta di casa. Un<br />

gesto evocativo: «Tuo figlio non c’è<br />

più». I suoi parenti non lo hanno<br />

dimenticato e – nelle telefonate<br />

allegate all’ordinanza di Minotauro<br />

– lo rievocano quasi con nostalgia.<br />

Lo chiamano “la buonanima”. Un<br />

epitaffio affettuoso.<br />

Lupara bianca/3: Bruno Minasi.<br />

Su Pasquale però pende anche il<br />

dubbio (di responsabilità) sulla fine<br />

– sconosciuta – di Bruno Minasi.<br />

Siamo nel 1994 quando i carabinieri<br />

si dicono sicuri che Minasi, 42<br />

anni, all’epoca residente a Settimo<br />

Torinese – ironia beffarda – in via<br />

Carlo Alberto dalla Chiesa 21, sia<br />

stato ucciso a colpi di revolver e<br />

poi fatto sparire. C’è il sospetto che,<br />

insieme alla sua Clio nera, sia stato<br />

gettato all’interno di uno scavo,<br />

realizzato nel corso di un’opera<br />

stradale, alle porte di Torino. I<br />

militari del Nucleo operativo avevano<br />

anche un’idea sul possibile<br />

assassino: Pasquale Marando, che<br />

– all’epoca – ricevette un avviso di<br />

garanzia per questo omicidio (ma<br />

fu poi prosciolto). Piuttosto chiaro<br />

sarebbe stato anche il movente:<br />

Bruno Minasi, che era autista e<br />

persona di fiducia dei Marando,<br />

aveva cominciato a intrattenere<br />

rapporti troppo stretti con gli uomini<br />

della cosca Ursini (il cui capo,<br />

Mario, ha risieduto a lungo nella<br />

casa dove abitava Minasi). L’ucciso<br />

aveva stretto legami con Renato<br />

Macrì, cugino di Ursini. Con lui<br />

avrebbe anche acquistato una forte<br />

partita di cocaina (64 chilogrammi),<br />

poi sequestrata dai carabinieri nel<br />

corso di un’operazione compiuta in<br />

Francia. C’erano anche ragionevoli<br />

certezze sulla data dell’omicidio:<br />

il 10 gennaio del ’92. Quel giorno<br />

Bruno Minasi era stato visto uscire<br />

dalla sua casa, a Settimo. Poi più<br />

nulla. L’assassinio del Minasi fu<br />

uno degli elementi emersi dalla<br />

collaborazione di due pentiti con<br />

i magistrati torinesi.<br />

Lupara Bianca/4: Rocco Vincenzo<br />

Ursini. Diversa è la storia di<br />

Rocco Vincenzo Ursini, nipote di<br />

Mario Ursini, scomparso a 29 anni<br />

da Chivasso. Era aprile del 2009.<br />

L’ultima cella che aggancia il suo<br />

telefonino lo colloca sulla tangenziale<br />

nord all’uscita per Mappano.<br />

Poi più niente. Nel provvedimento<br />

di fermo firmato dai carabinieri<br />

di Reggio Calabria nell’ambito<br />

dell’operazione “Crimine” contro<br />

le cosche milanesi c’è un passaggio<br />

cristallino: «Il giovane se lo sono<br />

51 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

fatti a Torino perché non aveva<br />

restituito 20 mila euro ai Macrì»<br />

dicono due calabresi. La sua auto<br />

viene ritrovata a Mappano tre mesi<br />

dopo la scomparsa. È in divieto di<br />

sosta. Rocco invece è sottoterra. Lo<br />

scrivono i carabinieri: «Con una<br />

certa ragionevolezza si desume<br />

da alcune intercettazioni che sia<br />

stato ucciso». Morto pure lui, che,<br />

nell’ordinanza del gip di Torino,<br />

era destinatario di una custodia<br />

cautelare in carcere per 416 bis (associazione<br />

a delinquere di stampo<br />

mafioso). Figurava nella popolosa<br />

famiglia del locale di Moncalieri.<br />

E – ironia della sorte – anche il<br />

padre della fidanzata (e quindi il<br />

futuro suocero) è finito in carcere.<br />

Ai cronisti – due anni fa – la<br />

ragazza aveva raccontato: «Rocco<br />

ha un cognome ingombrante, ma<br />

è pulito, è uscito dal giro. Ha fatto<br />

degli errori in passato (condanna<br />

per spaccio), ma ora ha mollato<br />

quell’ambiente, si è riscattato. E<br />

vuole sposarmi». Tutto falso, tranne<br />

che per l’ultimo particolare.<br />

Rocco Ursini, 29 anni, partecipa<br />

a molte riunioni importanti della<br />

commissione provinciale della<br />

’ndrangheta, presenzia a funerali di<br />

boss uccisi (Francesco Scali), porta<br />

la sua testimonianza. Però muore.<br />

Lo ammazzano. Il motivo è ancora<br />

da chiarire e su questo aspetto gli<br />

inquirenti sono al lavoro. Dalle<br />

intercettazioni emerge un ragazzo<br />

perfettamente integrato nel tessuto<br />

della “mala” che si occupa di gestire<br />

una parte dei proventi delle bische<br />

clandestine. Soldi che servono ai<br />

carcerati, a rendere meno “pesante”<br />

la loro detenzione. Unico neo: la<br />

condotta. All’interno delle organizzazioni<br />

ci sono regole ferree. Ursini<br />

le elude spesso. E una volta scatena<br />

l’ira dei compari non presentandosi<br />

a una cena importante, una riunione<br />

strategica del locale di Moncalieri a<br />

cui lui appartiene: «È indisciplinato»<br />

dicono i boss intercettati: «Non mi<br />

è piaciuto per niente il comportamento<br />

di Rocco». Forse anche per<br />

questo ha pagato il conto.<br />

Piemonte


Piemonte<br />

che Adolfo e Cosimo escano:<br />

«Sennò poi fanno tragedie e<br />

dicono che non li abbiamo<br />

aspettati». San Luca dunque<br />

è dalla loro parte.<br />

L’omicidio Gioffrè. I boss concorrenti<br />

commentano inaciditi.<br />

Il più arrabbiato di tutti è Giuseppe<br />

Gioffrè, quartino nella<br />

società maggiore, esponente di<br />

spicco della malavita, collante<br />

delle ’ndrine con Nevio Coral,<br />

secondo quanto emerge dalle<br />

carte dell’operazione Minotauro.<br />

A lui, Gioffrè garantisce la<br />

“guardianìa” nei cantieri della<br />

provincia. E grazie a questo Coral<br />

gli consente di insediare la sua<br />

ditta senza peraltro pagare nemmeno<br />

un euro di affitto. Gioffrè<br />

patisce i Crea e non ha nemmeno<br />

un buon rapporto con Giuseppe<br />

Marvelli referente dalla Calabria<br />

per le ’ndrine <strong>piemonte</strong>si.<br />

Quando – febbraio 2008 – apre<br />

una bisca a Leinì insieme agli<br />

Agresta, Adolfo e Cosimo mandano<br />

qualcuno a riscuotere la<br />

loro parte. Peppe perde le staffe.<br />

Comincia a inveire contro i suoi<br />

Adolfo e Aldo Cosimo Crea, ritenuti<br />

membri del “Crimine” dalla Dda di<br />

Torino e arrestati lo scorso 8 giugno<br />

in quanto elementi di spicco della<br />

’ndrangheta <strong>piemonte</strong>se, il 23 aprile<br />

2010, solo un anno fa, venivano assolti<br />

dalle accuse più gravi mosse nei loro<br />

confronti nell’ambito del processo “Gioco<br />

duro”, che li aveva portati alla sbarra<br />

nel 2009 con imputazioni che andavano<br />

dall’associazione mafiosa, all’estorsione,<br />

al gioco d’azzardo. Quest’ultima<br />

fattispecie, la meno grave essendo una<br />

nemici: «Che stiano alla larga<br />

dove ci sono io – dice a Pasquale<br />

Barbaro –. Se questo rompe i<br />

c... davvero ci saranno brutte<br />

discussioni. Questo zingaro di<br />

m... (Adolfo Crea) che è scappato<br />

da casa sua... e viene qua... e<br />

comanda qua sopra». Pasquale<br />

Papalia, genero di Pelle raccoglie<br />

le lamentele di Domenico Agresta<br />

e manda ai Crea l’ambasciata<br />

di non immischiarsi nella bisca<br />

di Leinì. Gioffrè va addirittura<br />

a San Luca di persona a trovare<br />

Gambazza: «Io faccio pace con<br />

loro solo se non devo dargli più<br />

niente della mia bisca, perché<br />

loro non dividono con nessuno».<br />

Ancora al telefono viene fuori<br />

l’astio nei confronti di Adolfo:<br />

«Gli ho attaccato i bottoni al culo<br />

quando era giovane e pieno di<br />

ignoranza...». Tutto inutile. Siamo<br />

a maggio del 2008. Cinque<br />

mesi dopo – è il 28 dicembre –<br />

Giuseppe Gioffrè viene ucciso a<br />

Bovalino in Calabria. I sicari gli<br />

tendono un agguato sotto casa.<br />

Sparano a lui e al figlio Arcangelo<br />

(affiliato alla ’ndrangheta da<br />

quando è minorenne). Il giovane<br />

Gioco duro,<br />

sentenza morbida<br />

di M. Neb.<br />

52 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

semplice contravvenzione, è l’unica<br />

che ha retto al vaglio processuale. Nella<br />

primavera del 2009 i giudici di primo<br />

grado avevano derubricato l’accusa più<br />

grave, 416 bis, associazione a delinquere<br />

di stampo mafioso, in associazione<br />

a delinquere semplice, non avendo<br />

riscontrato «gli indici caratteristici di<br />

una associazione mafiosa»: per esempio<br />

non vi era certezza, secondo i giudici,<br />

che la reticenza mostrata da alcuni<br />

testimoni, gravitanti nel mondo del<br />

gioco d’azzardo, «fosse espressione<br />

si salva, i medici gli asportano<br />

due proiettili dal costato, Peppe<br />

invece muore crivellato di colpi.<br />

Chi è stato? È questo un omicidio<br />

ancora irrisolto per gli inquirenti.<br />

Ma per Giuseppe Commisso e<br />

Giuseppe Catalano non ci sono<br />

dubbi: «Sono stati i Crea». Intercettato<br />

dai carabinieri Catalano<br />

dice: «Io i Crea li conosco». E<br />

Commisso: «L’azione che gli hanno<br />

fatto in due minuti a Gioffrè...<br />

Poi sotto casa, alle spalle...».<br />

Catalano annuisce e chiude il<br />

discorso: «Questi possono fare<br />

quello che vogliono e quando<br />

vogliono». Eccolo il vertice. I<br />

Crea sono già “Il Crimine”. Dispongono<br />

della vita e della morte<br />

altrui, si muovono in prima persona,<br />

hanno un esercito accanito<br />

e militarizzato. Nessuno mette in<br />

discussione la loro leadership.<br />

Tanto che quando Adolfo esce<br />

dal carcere – è il 24 marzo 2010<br />

– Francesco D’Onofrio, che ha<br />

fatto il reggente in sua assenza<br />

e che detiene lo stesso grado<br />

dei Crea nel Crimine odierno,<br />

non ci pensa su un attimo e<br />

restituisce i galloni.<br />

di omertà mafiosa, e ciascun membro<br />

sembrava libero di recedere in qualunque<br />

momento dal gruppo». In appello,<br />

un anno dopo, neanche l’imputazione<br />

per 416 c.p è stata ritenuta fondata. Per<br />

i giudici di secondo grado i Crea erano<br />

dei semplici organizzatori di bische,<br />

punibili con la pena dell’arresto a un<br />

anno e 11 mesi. Ora nella valutazione<br />

della personalità criminale di questi<br />

soggetti, è evidente che tra la Dda di<br />

Torino e la Corte di appello qualcuno<br />

ha commesso un grave errore.


Infami<br />

e redenti<br />

di G. Leg.<br />

Due pentiti. “Infami, reietti e traditori”<br />

per la ’ndrangheta. “Fondamentali,<br />

credibili, autenticamente<br />

redenti” per la procura di Torino.<br />

In cinque anni hanno disintegrato<br />

le maglie della mala calabrese<br />

sotto la Mole. Svelando misteri,<br />

facendo luce su omicidi, traffici di<br />

droga, estorsioni, famiglie, strutture,<br />

riti di affiliazione. Eccoli qui<br />

Rocco Varacalli e Rocco Marando.<br />

Il primo è affiliato dal 23 ottobre<br />

1994 alla ’ndrina Cua-Pipicella e fa<br />

parte del locale distaccato di Natile<br />

di Careri a Torino. Il secondo è<br />

l’ultimo di cinque fratelli terribili,<br />

affiliato alla triade di ’ndrine<br />

Marando-Agresta-Trimboli e attivo<br />

presso il locale di Volpiano dal 20<br />

aprile 1990. Diversi per psicologia<br />

e vissuto, ma anche per abbondanza<br />

di rivelazioni, hanno maturato<br />

entrambi in carcere la scelta di<br />

collaborare con la giustizia.<br />

Rocco Varacalli. È il 25 ottobre<br />

del 2006. Palagiustizia Bruno Caccia,<br />

stanza 62719, ore 16. Davanti<br />

al sostituto procuratore Roberto<br />

Sparagna, si presenta Rocco Varacalli,<br />

nato a Natile di Careri il<br />

1° giugno 1970. Insieme a lui c’è<br />

l’avvocato difensore Ugo Colonna.<br />

Rocco è detenuto da cinque mesi.<br />

Lo hanno arrestato per storie di<br />

droga. Ha deciso di voltare pagina.<br />

Il verbale dell’interrogatorio<br />

fotografa il momento “clou” della<br />

redenzione: «Intendo rispondere<br />

e collaborare con la giustizia. Ho<br />

effettuato questa scelta in quanto<br />

ho deciso di cambiare vita dopo<br />

18 anni trascorsi nell’illegalità.<br />

La mia decisione in tal senso è di<br />

intraprendere un’esistenza onesta<br />

e corretta. Prendo atto che devo<br />

rendere una dichiarazione completa<br />

nulla tralasciando e nulla<br />

trascurando. Ho deciso di collaborare<br />

con la giustizia dopo aver<br />

conosciuto il dottor Sparagna e<br />

il maresciallo [omissis]. Costoro<br />

mi hanno ispirato fiducia e fin<br />

dalla loro conoscenza nel carcere<br />

di Asti ho deciso di collaborare».<br />

Rocco parlerà per quattro anni.<br />

E per essere da subito credibile<br />

consegnerà ai carabinieri un<br />

manoscritto con i primi 90 nomi<br />

(ne farà oltre 400) di affiliati alla<br />

’ndrangheta torinese. Farà luce<br />

sull’omicidio Donà e su quello di<br />

Roberto Romeo. Si autoaccuserà<br />

di reati in merito al traffico di<br />

stupefacenti. Omicidi no, non ne<br />

confessa. La svolta arriva da una<br />

nuova coscienza: «Perché devo<br />

continuare – dice al magistrato<br />

– a fare il mafioso se gli altri non<br />

rispettano le nostre leggi? Io ero<br />

orgoglioso di essere un affiliato.<br />

Pensavo che fra calabresi fosse<br />

giusto aiutarci. Poi hanno iniziato<br />

ad infangarmi. Come quando ci<br />

trovavamo al night di Cuorgnè. Se i<br />

capi andavano con le ragazze, tutto<br />

a posto. Se lo facevo io, dicevano<br />

che non rispettavo più la famiglia.<br />

53 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

Mettevano voci in giro. Facevano<br />

delle tragedie». Varacalli fa i nomi<br />

e i cognomi delle ditte edili colluse<br />

col sistema ’ndranghetistico, svela<br />

i rituali, i locali battezzati, la fine<br />

– ingloriosa – del boss Pasqualino<br />

Marando. Consente ai carabinieri<br />

di risolvere l’omicidio di Roberto<br />

Romeo, odontotecnico di Rivalta<br />

freddato nel 1998 con cinque colpi<br />

di pistola al torace e alla nuca.<br />

Parla diffusamente di un ex maresciallo<br />

dell’Arma che frequentava<br />

night e consumava droga (oggi<br />

congedato). Imprime alle indagini<br />

torinesi una svolta decisiva. La sua<br />

scelta di collaborare «è talmente<br />

genuina – scrive la Procura – che<br />

il suddetto Varacalli si autoaccusa<br />

di reati che non gli sono mai stati<br />

contestati». Credibile dunque.<br />

«Non si spiegherebbe altrimenti<br />

– annota il gip Salvadori nell’ordinanza<br />

dell’operazione Minotauro<br />

– il comportamento della famiglia<br />

all’indomani della pubblicazione<br />

delle rivelazioni dell’ex affiliato».<br />

Il 21 aprile 2008, davanti al Gup<br />

del Tribunale di Reggio Calabria,<br />

nell’ambito del procedimento<br />

denominato “Stupor Mundi”,<br />

il sostituto procuratore Nicola<br />

Gratteri deposita le dichiarazioni<br />

rese da Varacalli. Tre giorni dopo<br />

alcuni parenti scrivono una lettera<br />

che ha tutta l’aria di un funerale<br />

anticipato. In sintesi si legge: «Non<br />

siamo più la sua famiglia. Non è<br />

degno come non lo è mai stato di<br />

Piemonte


Piemonte<br />

dire che fa parte di una famiglia<br />

pulita e onesta come la nostra.<br />

Non abbiamo parole davanti a<br />

un elemento del genere. Sta cercando<br />

di distruggere e logorare<br />

la nostra famiglia e le famiglie<br />

altrui, ma non glielo permetteremo.<br />

Sta cercando di gonfiare tutto<br />

per rendersi credibile agli occhi<br />

della legge». Il tentativo è chiaro:<br />

i parenti prendono le distanze<br />

da Rocco. Conoscono la ferocia<br />

della ’ndrangheta e avvertono il<br />

rischio delle vendette trasversali.<br />

Inaugurano una sorta di pressione<br />

indiretta (che si configura come<br />

“reato di subornazione”) affinché<br />

ritratti la confessione. In particolare<br />

è lo zio Sebastiano Pipicella<br />

a marcarlo stretto. Nonostante lo<br />

status di collaboratore di giustizia,<br />

Rocco viene contattato sette volte<br />

al telefono. In due occasioni –<br />

come riscontrato con certezza dai<br />

carabinieri – incontra addirittura<br />

alcuni parenti nella località segreta<br />

in cui vive sotto protezione. «Hai<br />

ucciso tua madre in poche parole»,<br />

dice lo zio che poi si raccomanda<br />

affinché Rocco salvi la vita del<br />

fratello Mimmo, che corre seri<br />

pericoli in Calabria: «La vita di<br />

tuo fratello – gli dice – è nelle tue<br />

mani». Siamo nel maggio del 2008.<br />

Il 1° giugno Varacalli incontra lo<br />

zio Sebastiano e Pietro Demana<br />

(anch’esso uno zio) arrivati in<br />

aereo da Cagliari per non destare<br />

sospetti (i carabinieri sapevano<br />

tutto). Provano a convincerlo a<br />

ritrattare, ma lui non molla, non<br />

cambia versione. Resiste alle pressioni<br />

pur con qualche momento<br />

di confusione. Il 22 febbraio 2010,<br />

Varacalli racconta alla polizia di<br />

essere stato contattato telefonicamente<br />

dalla sorella Maria, che si<br />

era lamentata molto del fatto che<br />

Rocco, durante l’incidente probatorio,<br />

non solo avesse confermato<br />

le sue precedenti confessioni,<br />

54 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

ma avesse anche reso pubbliche<br />

le pressioni esercitate su di lui.<br />

Qualche giorno prima lo aveva<br />

cercato il fratello Mimmo. Era<br />

il 9 febbraio 2010, vigilia della<br />

deposizione al processo: «La mia<br />

vita dipende da quello che dirai».<br />

Mimmo ha paura. È stato avvicinato<br />

da Antonio Spagnolo, capo del<br />

locale di Ciminà, e da suo cognato,<br />

Giuseppe Monteleone. Lo avrebbero<br />

minacciato di ritorsioni nei<br />

confronti suoi e di tutta la famiglia,<br />

se Rocco avesse confermato la<br />

vicenda relativa all’omicidio di<br />

Roberto Romeo. L’ordine è chiaro:<br />

«Che parli di droga e di quello<br />

che vuole, ma lasci fuori la storia<br />

degli omicidi». Varacalli conferma<br />

tutto. E lo annuncia a suo zio<br />

al telefono: «Ormai gli atti sono<br />

quelli che leggete sui giornali. E’<br />

tutta lì la verità».<br />

Rocco Marando. Nei corridoi<br />

del comando provinciale dei<br />

carabinieri lo hanno già soprannominato<br />

il pentito dei bunker.<br />

Ne ha fatti trovare sei tra Platì e<br />

Natile di Careri. Non erano nascondigli<br />

qualunque, ma luoghi<br />

segreti a cui si accedeva tramite<br />

tombini e vecchi forni del pane.<br />

Le roccaforti per la latitanza degli<br />

affiliati erano stati edificati sotto<br />

la casa di alcuni dei suoi parenti:<br />

Domenico Trimboli, Pasquale<br />

Pangallo, Domenico Marando<br />

(suo fratello), Antonio Barbaro,<br />

Anna Trimboli, Antonio Portolesi.<br />

Di Marando si sa che non<br />

crede a molte delle cose che ha<br />

riferito Varacalli (in particolare<br />

disconosce la responsabilità del<br />

fratello Domenico nell’omicidio<br />

Romeo: «Il mandante – sostiene<br />

– è l’altro mio fratello Pasqualino,<br />

e non Mimmo, che non<br />

conosceva Romeo nemmeno di<br />

vista». Il gip però rileva spesso la<br />

coincidenza delle testimonianze<br />

e dei riconoscimenti fotografici.<br />

Conoscono le stesse persone,<br />

riferiscono circostanze molto<br />

simili che divergono spesso<br />

solo su dettagli non sostanziali.<br />

È il caso dell’uccisione di Pasqualino<br />

Marando. Sul decesso<br />

non v’è dubbio, sulle modalità<br />

dell’omicidio insistono divergenze<br />

narrative. Eppure Rocco<br />

Marando è un pentito “attivista”.<br />

Non disdegna di accompagnare<br />

i carabinieri sul luogo di vecchi<br />

omicidi. Come quello di Francesco<br />

Mancuso (finora lupara<br />

bianca). La sua auto – una Fiat<br />

500 – venne bruciata in Val Chiusella<br />

il 1° giugno del 1997. Particolare<br />

inedito fino ad oggi. «È<br />

dunque evidente che – scrive il<br />

gip – trattandosi di informazioni<br />

estremamente riservate, solo un<br />

intraneo alla compagine criminale<br />

poteva conoscere». Rocco parla<br />

diffusamente della mattanza di<br />

Antonio e Antonino Stefanelli.<br />

Aggiunge particolari, tira in ballo<br />

altre persone, completa il puzzle<br />

di quella “Duisburg” torinese che<br />

ha visto sangue e lupare bianche<br />

per colpa di una faida familiare.<br />

Questo merito gli è riconosciuto<br />

dai giudici nell’ordinanza: «A<br />

seguito delle dichiarazioni di<br />

Rocco Marando – scrivono – sono<br />

stati raccolti numerosi riscontri<br />

individualizzanti, tanto da emettere<br />

provvedimenti di custodia<br />

cautelare nei confronti di Gaetano<br />

Napoli, Natale Trimboli, Rosario<br />

Marando, Giuseppe Perre (ha<br />

l’Alzhaimer, probabilmente non<br />

sconterà un’eventuale condanna<br />

in carcere, ndr) e Santo Giuseppe<br />

Aligi, poiché, in concorso tra<br />

loro e in concorso con Giuseppe<br />

Leuzzi e Domenico Marando –<br />

nei cui confronti si è proceduto<br />

separatamente — nonché insieme<br />

ai deceduti Pasquale Marando<br />

e Rosario Trimboli, cagionavano


Entrare a far parte della ’ndrangheta<br />

a Torino «è bello perché vedi la<br />

fratellanza, la vera fratellanza. Se<br />

vado via una settimana ad esempio,<br />

lo devo comunicare perché devono<br />

sapere che non possono contare<br />

su di me. Ci sono giuramenti che<br />

tengono valore, facciamo parte di<br />

una grande famiglia. E questo, mia<br />

cara Corinne, non ha prezzo. È<br />

bello e basta». Giacomo Lo Surdo,<br />

componente del Crimine di Torino<br />

e braccio destro di Adolfo Crea,<br />

non poteva trovare sintesi migliore<br />

per fotografare – alla sua fidanzata<br />

dell’epoca (2003) che gli chiedeva<br />

conto del perché volesse infilarsi in<br />

questo pasticcio – la mala calabrese<br />

a Torino. Una famiglia. Dalle regole<br />

ferree, dagli equilibri matematici,<br />

dall’organizzazione svizzera. Una<br />

piramide di ruoli e poteri cementata<br />

di riti ancestrali e massonici.<br />

La ’ndrangheta nel sangue. Immagini<br />

sacre, cerimonie quasi<br />

esoteriche, ma soprattutto senso<br />

di appartenenza. Chi fa parte della<br />

’ndrangheta deve tenerci. Per<br />

dirla con le parole di Bruno Iaria,<br />

capolocale di Cuorgné, «la deve<br />

sentire dentro, la deve avere nel<br />

sangue». Di contro chi lo fa per<br />

interesse viene emarginato dagli<br />

affiliati. Nicola Iervasi usa termini<br />

diretti nel dialogo del 2008 con<br />

Antonio Carrozza (entrambi affiliati<br />

al locale distaccato di Natile<br />

di Careri a Torino). A proposito di<br />

Domenico Guarneri (un affiliato<br />

tornacontista) dice: «Non è degno<br />

della dote. Perché lui lavora, guadagna<br />

lo stipendio e gli va bene<br />

così. Dell’azienda però non gliene<br />

frega niente».<br />

Sangue dunque. Forse è per questo<br />

che per entrare a far parte dell’onorata<br />

società a Torino – come in Calabria<br />

– ai due pentiti Rocco Varacalli<br />

e Rocco Marando (cfr art p.53, ndr)<br />

venne chiesta la stessa cosa: «Cosa<br />

vai cercando?». Replica: «Onore e<br />

sangue». Il sangue suggella, unisce,<br />

certifica solennemente. Un<br />

giuramento.<br />

La ’ndrangheta si divide in tre<br />

mandamenti che corrispondono<br />

ad altrettante zone della Calabria:<br />

jonica, tirrenica e centrale. Alla<br />

base dei mandamenti ci sono i locali<br />

a loro volta formati da diverse<br />

’ndrine (famiglie). In ogni locale<br />

perciò convergono affiliati facenti<br />

parte di più ’ndrine contemporaneamente.<br />

Quelli di Torino sono locali<br />

distaccati da quelli originari che si<br />

trovano in Calabria, ma rispondono<br />

in tutto e per tutto alla “mamma”.<br />

Non ci si muove senza l’assenso<br />

della ’ndrina “originaria”.<br />

Il locale. Anche la ’ndrangheta<br />

cambia. Varacalli ne traccia l’evoluzione<br />

più importante: «So che<br />

negli anni Novanta, a Torino era<br />

operativo un unico crimine, perché<br />

era un unico locale. Ne facevano<br />

parte Macrì Renato, Ursini Mario,<br />

e i Belfiore». Gli interessi – e quindi<br />

gli appetiti – sono poi aumentati. Più<br />

soldi, più famiglie. Risultato: i locali<br />

sono nove e coprono il territorio in<br />

maniera molto più capillare.<br />

La struttura del locale è rimasta<br />

invariata negli ultimi duecento<br />

anni. Ovvero: funziona a doppia<br />

compartimentazione. Ogni locale<br />

di Torino è formato dalla società<br />

maggiore e dalla società minore.<br />

La società maggiore è l’insieme<br />

degli ’ndranghetisti che possiedono<br />

almeno la dote di “santa”, ovvero le<br />

“doti” superiori al grado di sgarrista<br />

o camorrista di sgarro.<br />

In sostanza fanno parte della “società<br />

maggiore” gli affiliati che<br />

ricoprono i gradi apicali della<br />

compagine. Dettaglio: la società<br />

maggiore non dà conto delle proprie<br />

decisioni alla “minore”, viceversa<br />

“la minore” deve dare conto alla<br />

“maggiore”.<br />

A queste si accede attraverso il<br />

conferimento delle “doti” che sono<br />

ben diverse dalle “cariche” anche se<br />

in fondo proporzionali. La “dote”<br />

corrisponde al “grado” rivestito. Si<br />

acquisisce solo con il rituale avendone<br />

i requisiti e rappresenta una<br />

qualifica non temporanea. Di contro<br />

55 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

più volte nelle varie conversazioni,<br />

si coglie la possibilità di togliere o<br />

diminuire di spostare (o far girare)<br />

le cariche dall’uno all’altro affiliato<br />

o anche la possibilità che una carica<br />

passi ad altro soggetto, senza<br />

– peraltro – che si faccia allusione<br />

ad un particolare rituale per detti<br />

riconoscimenti.<br />

I locali sono attivi (aperti) quando la<br />

loro costituzione è stata autorizzata<br />

dalla ’ndrangheta. A Torino sono<br />

due (Siderno, Natile di Careri),<br />

nell’hinterland sono sei: Volpiano,<br />

Chivasso, Moncalieri, San Giusto<br />

Canavese, Cuorgnè, Rivoli. Aperto<br />

non vuol dire sempiterno. Il gip<br />

annota il racconto di un affiliato<br />

in cui si parla del caso di Rivoli:<br />

«Quando compare Giorgio (Demasi)<br />

aveva il Locale era tutto in regola.<br />

Poi si è distaccato per motivi di<br />

salute. E hanno sospeso il locale».<br />

Locale chiuso è quello che<br />

non gode dell’assenso dei vertici<br />

della ’ndrangheta. È il caso della<br />

cosiddetta “Bastarda” che opera nei<br />

comuni di Favria, Castellamonte<br />

e Rivarolo canavese. Fa capo ad<br />

Antonino Occhiuto, titolare di una<br />

ditta edile. Verso questo locale, i<br />

“torinesi” non dimostrano particolare<br />

entusiasmo. In particolare<br />

Iaria, che al telefono circoscrive la<br />

portata associativa dei “bastardi”:<br />

«Uno può dire ma tu chi sei? Non<br />

sei niente perché non ti conosco...<br />

per esempio questi Occhiuto... loro<br />

conoscono a noi che siamo... però<br />

noi a loro non li conosciamo come...<br />

(affiliati, ndr)». La Bastarda, per<br />

questa ragione, è un locale atipico<br />

che non può partecipare alle<br />

riunioni delle famiglie. In questo<br />

caso risponde direttamente al<br />

locale originario che è quello di<br />

Solano (Rc).<br />

La Società Minore. Nella società<br />

minore (e quindi nell’organizzazione<br />

vera e propria) si entra col<br />

battesimo o taglio della coda. Si<br />

diventa “picciotti”. Prima però<br />

ci sono due stadi preparatori. Il<br />

primo: “contrasto onorato”, ov-<br />

“Ce l’hai nel sangue”<br />

di G. L.<br />

Piemonte


Piemonte<br />

vero colui che, in virtù della sua<br />

affidabilità, potrebbe entrare a far<br />

parte dell’organizzazione, ma non<br />

è ancora affiliato. Il secondo è vincolato<br />

a un periodo di osservazione<br />

durante il quale si assume la dote<br />

di “giovane d’onore”, data per diritto<br />

di discendenza ai figli maschi<br />

degli appartenenti alla ’ndrangheta,<br />

dei quali si suppone la futura<br />

appartenenza nell’associazione. I<br />

picciotti sono la carica più bassa<br />

della società minore. Subito dopo<br />

ci sono il camorrista e lo sgarrista.<br />

Per i veterani sono ruoli di basso<br />

cabotaggio, per i giovani rimangono<br />

un sogno, un traguardo.<br />

Il trasporto e l’attesa di quel momento<br />

si toccano quasi con mano<br />

nel dialogo intercettato su una<br />

Punto il 24 aprile del 2008 a Volpiano.<br />

In auto ci sono Domenico<br />

Agresta, 20 anni, e Antonio Marando,<br />

19 anni (figlio di Domenico<br />

detenuto a Rebibbia), discendenti<br />

di famiglie che hanno riempito di<br />

sangue e droga la storia di Torino<br />

e dell’hinterland. Giocano a fare i<br />

boss. Sognano il giuramento per<br />

diventare sgarristi: «Quale pollice ti<br />

incidono?» chiede Agresta. Marando<br />

è preparato: «Quello sinistro».<br />

Poi affrontano la questione della<br />

“croce” del vangelista che viene<br />

incisa sulla spalla dell’affiliato<br />

«Quella ti distingue dagli sciacquini<br />

qualunque. La danno solo ai<br />

capi. A quel punto – dice Domenico<br />

– ce l’hai nel sangue».<br />

La dote dunque come riscatto sociale<br />

per differenziarsi dalla massa,<br />

per emergere nell’unica famiglia<br />

a cui i ragazzi sentono di appartenere.<br />

Che non è semplicemente<br />

quella degli affetti (padre, madre)<br />

o quella sociale (comunità, stato).<br />

È quella della ’ndrangheta. «Perché<br />

noi siamo in giro che ci sdirrupiamo<br />

(scapicolliamo, ndr) per<br />

le strade per onorare gli impegni<br />

della società, mentre altri – dice<br />

Bruno Iaria – sono a letto con le<br />

mogli. Potevamo esserci noi no?<br />

E invece abbiamo scelto questa<br />

famiglia». Il concetto è chiaro: c’è<br />

56 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

un dualismo familiare in cui le<br />

mogli e i figli vengono dopo gli<br />

interessi della società.<br />

Da questo momento scattano degli<br />

obblighi. Ed è ancora Varacalli,<br />

un’autentica miniera per la procura<br />

torinese, a ricostruirli minuziosamente:<br />

«L’affiliato deve<br />

essere a disposizione dell’onorata<br />

società; deve fornire assistenza<br />

e ospitalità agli altri affiliati, soprattutto<br />

ai latitanti, deve essere<br />

disposto a compiere per la società<br />

qualsiasi condotta, anche illecita,<br />

dall’omicidio all’estorsione, dalle<br />

aggressioni alle minacce, dai<br />

sequestri alle rapine». E ancora:<br />

deve dare contezza al picciotto<br />

di giornata dei suoi spostamenti<br />

se superiori ai tre giorni, deve<br />

ricordare la composizione della<br />

sua copiata (coloro che hanno<br />

partecipato al suo rito di affiliazione,<br />

ovvero soltanto soggetti<br />

già organici alla ’ndrangheta) e a<br />

richiesta di un affiliato deve riferirne<br />

la composizione; non deve<br />

“camminare” con “contrasti’ o<br />

con “carduni’(estranei all’onorata<br />

società), deve, in caso di discussioni,<br />

comunque dare ragione ai<br />

fratelli affiliati piuttosto che ai<br />

“contrasti”. Infine: deve rispettare<br />

tutti gli affiliati alla ’ndrangheta<br />

specie i più anziani; non deve<br />

frequentare infami e carabinieri<br />

(nel gergo ’ndranghetistico sono<br />

pressocchè equiparati), non deve<br />

dire a nessuno – neanche agli altri<br />

affiliati – di essere entrato a far parte<br />

dell’onorata società spettando la<br />

presentazione del novello accolito<br />

solo ai presenti al rito; deve formulare<br />

la domanda “conosci Zio<br />

Peppino Montalbano?” al fine di<br />

sapere se l’interlocutore sia affiliato<br />

alla ’ndrangheta e, se la risposta<br />

fosse stata “la conosco, la servo,<br />

la indosso fino all’ultimo sangue”,<br />

solo allora avrebbe avuto senso (e<br />

legittimità) averci a che fare.<br />

Fatta salva la dote, sono tre le<br />

cariche che un affiliato può rivestire<br />

nella società minore. Il<br />

capo giovani è colui che comanda<br />

e detiene la cosiddetta “mezgd’,<br />

funzione che dà la facoltà di fare<br />

da tramite tra la società minore e la<br />

società maggiore. Per effetto della<br />

mezza, il capo giovani riferisce<br />

al capo-bastone del locale. Al<br />

secondo gradino c’è il puntaiolo<br />

che è colui che vigila sul comportamento<br />

dei giovani affiliati e<br />

riferisce al capo-giovane. Infine il<br />

picciotto di giornata che annota<br />

gli spostamenti degli affiliati e le<br />

comunicazioni tra gli stessi.<br />

La Società Maggiore. Finita la<br />

scalata alla società minore si punta<br />

alla maggiore. Prima però bisogna<br />

avere “la base”. Di cosa si tratta?<br />

Nell’interrogatorio del 9 ottobre di<br />

fronte al maresciallo della prima<br />

sezione dei carabinieri di Torino,<br />

Varacalli è illuminante: «Avere la<br />

“base” nel linguaggio della ’ndrangheta<br />

vuol dire avere conseguito<br />

tutte le doti della società minore,<br />

ossia arrivare al grado di camorrista<br />

finalizzato. La persona che<br />

ha la “base” è pronta per ricevere<br />

la dote di “Santa».<br />

Eccolo il salto alla società maggiore.<br />

La Santa è il primo tassello<br />

della sovrastruttura. Anche nella<br />

“Maggiore” la scalata è lunga e<br />

ricca di livelli gerarchici. Come<br />

una piramide verticale, una pianta<br />

organica aziendale, un ordinamento<br />

religioso. Dopo la Santa,<br />

c’è “il Vangelo”. È questa una dote<br />

fondamentale per la vita dell’associazione<br />

perchè chi la detiene<br />

può battezzare una persona sia<br />

in carcere che fuori senza aver<br />

bisogno dell’autorizzazione della<br />

commissione. Traduzione: arruola<br />

affiliati, promuove picciotti, distribuisce<br />

“i fiori” (sinonimo di<br />

doti), alimenta alla base l’esercito<br />

della mafia.<br />

Il vangelista torinese passato alla<br />

storia nella lunga epopea criminale<br />

delle ’ndrine torinesi fu Pasqualino<br />

Marando, narcotrafficante di<br />

livello internazionale, scomparso<br />

dal 2001 e ora ufficialmente morto<br />

secondo le più recenti intercetta-


zioni (cfr box p.50, ndr). Non chiedeva<br />

permessi a nessuno Pasquale.<br />

Tanto da battezzare i sodali nella sua<br />

cella del carcere di Opera a Milano.<br />

«Perché lui – racconta Varacalli – fu<br />

uno dei primi a Torino ad avere il<br />

vangelo».<br />

Seguono – in ordine rigorosamente<br />

gerarchico – il trequartino e il quartino<br />

(lo era Giuseppe Gioffrè ucciso<br />

il 28 dicembre 2008 a Bovalino da<br />

due sicari delle ’ndrine), preludio<br />

alla carica massima della Maggiore:<br />

il Padrino, che Cosimo Capece (affiliato<br />

al locale di Cuorgnè) trasforma<br />

al telefono in “Quintino”. Chi ce<br />

l’ha? Rodolfo Scali e Bruno Iaria<br />

non hanno dubbi. Parlano in auto:<br />

«Quella ce l’ha compare Cosimo»<br />

(Aldo Cosimo Crea).<br />

Suo fratello invece – Adolfo – aspira<br />

ad avere la cosiddetta dote superiore<br />

(o sopradote), la punta della<br />

stella che è in mano a Giuseppe<br />

Catalano per sua stessa ammissione:<br />

«Quando me l’hanno data<br />

la croce... pensavo che se poi me<br />

la tolgono...» dice mentre viene<br />

intercettato nella lavanderia Ape<br />

Green di Siderno.<br />

Fatte salve le doti, anche nella<br />

Maggiore ci sono le cariche. Chi comanda?<br />

Il capo locale, detto anche<br />

“capo bastone”. È una figura unica,<br />

irripetibile, perché – a differenza<br />

delle altre cariche – svolge il suo<br />

mandato senza limiti temporali:<br />

salvo problemi di salute o familiari.<br />

Un’investitura vitalizia. A<br />

Torino sono Paolo Cufari, Bruno<br />

Iaria, Francesco Perre, Salvatore<br />

“Giorgio” Demasi, Natale Romeo,<br />

Giuseppe Catalano, Pasquale Trunfio<br />

e Rocco Raghiele. Il vice del<br />

capolocale si chiama”caposocietà”,<br />

che, parafrasando gli organigrammi<br />

aziendali può essere considerato<br />

alla stregua di un amministratore<br />

delegato sottoposto al presidente<br />

(capo locale). È lui che presiede la<br />

riunione della “società”.<br />

I conti economici della società maggiore<br />

li tiene il contabile che è un po’<br />

il banchiere del gruppo, mentre il<br />

controllo del territorio e il raccordo<br />

tra gli affiliati della società maggiore<br />

e minore è di esclusiva competenza<br />

del mastro di giornata.<br />

Il Crimine. Della società maggiore<br />

fa infine parte anche “Il Crimine”<br />

una sorta di sovrastruttura composta<br />

dagli affiliati che hanno la<br />

responsabilità delle azioni violente<br />

riconducibili ai locali. Decidono<br />

della vita e della morte altrui, autorizzano<br />

azioni da commando,<br />

omicidi, rapine, estorsioni. Un<br />

potere apicale, quasi illimitato.<br />

Ne fanno parte Adolfo e Cosimo<br />

Crea, Giacomo Lo Surdo, Francesco<br />

D’Onofrio. Vito Marco Candido,<br />

Giuseppe Mangone, Vincenzo Argirò,<br />

Giuseppe e Benvenuto Pratico,<br />

Fortunato Currà e Francesco<br />

D’Agostino. Giuseppe Marvelli fa<br />

da trait-d’union con il Crimine di<br />

Polsi a San Luca. I carabinieri lo<br />

scoprono ascoltando le ambientali<br />

della lavanderia di Siderno. Parlano<br />

Catalano e Commisso: «Compare<br />

Peppe, guardate che io i Crea<br />

li conosco, sentite quello che vi<br />

dico, questi sono roba del Crimine.<br />

Hanno i giovanotti e sono amici di<br />

Peppe Pelle... di Gambazza. Compare<br />

non lo so se questo l’hanno<br />

capito tutti...».<br />

I giuramenti, le promozioni, gli<br />

avanzamenti dell’onorata società<br />

calabrese avevano proprio in<br />

Giovanni Catalano il tesoriere. Di<br />

cosa? Delle formule e dei riti che<br />

i carabinieri hanno trovato a casa<br />

dell’uomo. Li custodiva in un cassetto<br />

nel comodino del letto. «Buon<br />

vespero ai santisti in questa notte<br />

di stelle...» si legge. Erano scritti in<br />

un italiano semi-letterato, su carta<br />

bianca, intestata alla ditta di costruzioni<br />

Femia, con sede a Gioiosa<br />

Jonica. Accanto c’era anche il libro<br />

Fratelli di sangue scritto dal sostituto<br />

procuratore antimafia di Reggio<br />

Calabria Nicola Gratteri: «Avevo<br />

trovato quei foglietti per caso – ha<br />

spiegato Catalano al gip – ed ero<br />

curioso di vedere se fossero uguali a<br />

quelli che aveva raccontato Gratteri<br />

nel libro». Certo, come no.<br />

57 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />

la morte di Francesco Mancuso,<br />

Antonino e Antonio Stefanelli<br />

uccisi con colpi di arma da fuoco<br />

materialmente esplosi da Rosario<br />

Marando e Natale Trimboli». Con<br />

l’aggravante di aver commesso<br />

il fatto con premeditazione, per<br />

futili motivi (ovvero alfine di<br />

vendicare il precedente omicidio<br />

di Francesco Marando ucciso e<br />

bruciato nei boschi di Chianocco<br />

nel 1996) e di aver agito al fine<br />

di rafforzare il predominio sul<br />

territorio torinese e <strong>piemonte</strong>se<br />

del sodalizio criminoso facente<br />

capo alla cosca Marando. Rocco<br />

parla anche dell’omicidio dell’avvocato<br />

Antonino Lugarà ucciso a<br />

Platì nel marzo del 1999: «Era il<br />

legale di famiglia, lo ammazzarono<br />

a colpi di pistola, fu vittima<br />

di un agguato mafioso». Anche<br />

qui i riscontri gli danno ragione.<br />

Il programma di protezione che<br />

gli hanno garantito i magistrati<br />

lo costringe, per qualche tempo,<br />

a emigrare in una località segreta,<br />

distante da Volpiano. Trascorsi<br />

alcuni mesi, Rocco va incontro<br />

a qualche difficoltà. Psicologica<br />

e umana. Torna allora a casa di<br />

recente. È il momento più complesso.<br />

Qualcuno lo irride: battute<br />

per strada, sfottò sul suo ruolo di<br />

pentito degli sbirri. La rabbia è<br />

troppa e così, pochi giorni prima<br />

della fine dell’inchiesta, prende<br />

la sua Ford Ka e va a sfondare le<br />

serrande del bar “Timone”, via<br />

Caduti per la Libertà a Volpiano.<br />

Non è un locale qualunque, quello.<br />

È intestato alla moglie di Antonio<br />

Agresta. Rocco usa l’auto come un<br />

ariete. Poi scappa. I carabinieri lo<br />

troveranno nel centro di Volpiano<br />

di notte, alle due circa, mentre<br />

vaga senza meta. Lo arrestano e lo<br />

portano in una località protetta. Il<br />

giorno dopo le manette dell’operazione<br />

Minotauro saranno già ai<br />

polsi di oltre 150 affiliati.<br />

Piemonte

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