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31 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
inchiesta<br />
Piemonte<br />
Lo scorso 8 giugno con “Minotauro”,<br />
la più grande operazione anti ’ndrangheta sul territorio<br />
<strong>piemonte</strong>se, la magistratura torinese ha messo<br />
nero su bianco il reticolo di interessi<br />
e affari dell’organizzazione calabrese<br />
trapiantata al Nord.<br />
Una colonizzazione lenta e capillare, capace di toccare<br />
gangli vitali della politica e dell’economia locale
Piemonte<br />
Il filo di Arianna<br />
Nel marzo 2006, in previsione della “Giornata della memoria e<br />
dell’impegno in ricordo delle vittime di tutte le mafie” organizzata<br />
da Libera a Torino, realizzammo un numero monografico<br />
di «Narcomafie» dedicato alle infiltrazioni mafiose in Piemonte.<br />
Non fu affatto facile riempire quelle 80 pagine. Ricordiamo bene<br />
la perplessità di magistrati e di uomini delle forze dell’ordine<br />
di fronte alle nostre domande sulla presenza dei clan all’ombra<br />
della Mole. La sensazione era che, in fondo, non ci fosse molto<br />
da dire. La nostra intenzione di accendere i riflettori sull’ar<br />
gomento mafia era benemerita ma – cercavano di farci capire<br />
con rispetto e benevolenza – in Piemonte non<br />
c’era alcuna emergenza e se mai le questioni<br />
calde erano altre. Dopo i processi degli anni<br />
90 le mafie italiane, compresa la ’ndrangheta,<br />
stavano vivendo una fase di appannamento,<br />
dunque, senza scadere in imprudenti sottovalutazioni,<br />
la tendenza era quella di rassicurare.<br />
Il problema più concreto sembrava<br />
la criminalità straniera, albanese, rumena e<br />
maghrebina, che si era imposta, ci dicevano,<br />
nei traffici di esseri umani e di stupefacenti, e<br />
che rappresentavano anche la maggior fonte<br />
di allarme sociale per i cittadini.<br />
La procura di Torino e la Direzione distrettuale<br />
antimafia erano guidate da due magistrati di<br />
assoluto valore come Marcello Maddalena,<br />
allora procuratore capo e attuale procuratore<br />
generale, e il compianto Maurizio Laudi<br />
(improvvisamente scomparso il 24 settembre 2009), all’epoca<br />
procuratore aggiunto coordinatore della Direzione distrettuale<br />
antimafia. Di Maddalena mi colpì un passaggio dell’intervista<br />
sullo stato dei rapporti mafia-politica in regione: «Detto chiaramente,<br />
penso che neanche a Bardonecchia (primo comune sciolto<br />
per mafia al Nord, nel 1995, nda) nda ci fosse quella compenetrazione<br />
che si è verificata in altre situazioni che hanno portato poi allo<br />
scioglimento di altri comuni». Mentre di Laudi, che condivideva il<br />
giudizio di Maddalena su Bardonecchia – dove politici e imprenditori<br />
protagonisti dei fatti alla base del commissariamento furono<br />
poi assolti in sede processuale – mi impressionò una dichiarazione<br />
in merito al pericolo infiltrazione negli appalti pubblici: «Anche<br />
nei momenti di maggiore forza militare di questi gruppi mafiosi,<br />
non c’è stata mai una pervasiva opera di infiltrazione nella<br />
pubblica amministrazione, che è la condizione fondamentale<br />
per inquinare gli appalti. E ciò va a titolo di merito di chi ha<br />
32 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
gestito la cosa pubblica a livello locale». Questo era lo stato<br />
delle risultanze giudiziarie all’inizio del 2006.<br />
Cinque anni dopo ci troviamo a fare i conti con l’inchiesta Minotauro,<br />
la più vasta operazione anti ’ndrangheta della storia<br />
del Piemonte. 151 arresti, sequestri preventivi di beni per circa<br />
117 milioni di euro, una mappatura aggiornata della presenza<br />
radicata dei clan in Piemonte. E scopriamo che l’inchiesta Minotauro<br />
è nata proprio nel lontano 2006, pochi mesi dopo il 21<br />
marzo celebrato a Torino. Nell’autunno di quell’anno, infatti,<br />
il pentimento di Rocco Varacalli, affiliato al locale di Natile di<br />
Careri a Torino, ha aperto scenari nuovi,<br />
che raccontiamo nelle prossime pagine,<br />
a tinte ben più fosche di quello registrato<br />
all’epoca. Un contributo decisivo quello<br />
di Rocco Varacalli, che ha consentito di<br />
battere sentieri inesplorati e di tirare le<br />
fila di altre inchieste il cui destino, forse,<br />
sarebbe stato più incerto. Minotauro ha<br />
svelato, da un lato, una presenza massic<br />
cia (a centinaia) di uomini dei clan nel<br />
capoluogo e nella provincia. ’Ndranghetisti<br />
che riproducono fedelmente le loro con<br />
suetudini, eseguono i loro lugubri rituali di<br />
affiliazione e regolano i loro conti interni<br />
ed esterni con la violenza. Un radicamento<br />
sul territorio che, nel nostro piccolo, ave<br />
vamo provato a denunciare fin dal 2007<br />
(“Viaggio in Aspro<strong>piemonte</strong>”, n.10/2007)<br />
e poi seguendo le operazioni “Gioco duro” (“La carica dei<br />
colonnelli”, n.5/2009) e “Pioneer” (“’Ndrangheta, la faccia<br />
nascosta dell’economia”, n.10/2010). Dall’altro l’inchiesta ha<br />
scoperchiato un intreccio di rapporti con uomini delle istituzioni<br />
e delle amministrazioni locali, privo in molti casi di rilevanza<br />
penale, ma di cui non può sfuggire il significato politico. Alla<br />
luce anche di un attivismo frenetico degli ’ndranghetisti nel<br />
comparto fondamentale dell’edilizia, che può rappresentare la<br />
chiave di lettura di un rapporto con la politica che non è mai<br />
ideologico, ma sempre sinallagmatico.<br />
L’inchiesta Minotauro, pur nella precarietà conoscitiva propria<br />
di qualunque inchiesta non ancora sottopposta al vaglio del<br />
processo, ci conduce dunque sulla soglia di un labirinto ancora<br />
tutto da esplorare. E la sensazione, condivisa dagli inquirenti,<br />
è che ancora molto ci sia da scoprire.<br />
(m.neb.)
“La comunità<br />
dei calabresi è la<br />
nostra ricchezza...<br />
L’inchiesta Minotauro ha fatto scalpore per le intercettazioni<br />
che hanno rivelato i rapporti tra i boss arrestati e alcuni noti<br />
politici <strong>piemonte</strong>si. Che alla vigilia delle elezioni bussano regolarmente<br />
alle porte di certi personaggi in grado di controllare<br />
fette consistenti del voto calabrese. In cambio di che cosa? Con<br />
quale grado di consapevolezza? Viaggio all’esplorazione di una<br />
palude antica che il processo penale non riesce a risanare<br />
di Marco Nebiolo<br />
La ’ndrangheta bussò e la politica,<br />
sventurata, rispose. O forse fu la<br />
politica a bussare, avendo capito<br />
che dopo l’ondata migratoria<br />
degli anni 50/60 potevano essere<br />
replicati anche al Nord, in scala<br />
ridotta, meccanismi di raccolta<br />
del consenso ampiamente collaudati<br />
nel meridione. Meccanismi<br />
in grado di pescare “a strascico”<br />
nei settori più bisognosi e meno<br />
istruiti della popolazione. E pazienza<br />
se a essere “grattato” e<br />
inaridito è il fondamento stesso<br />
della democrazia rappresentativa,<br />
il voto libero e consapevole<br />
dei singoli cittadini. L’accordo<br />
con la mafia è stato visto, da<br />
settori trasversali della politica,<br />
come una scorciatoia verso quella<br />
vittoria sul cui altare sacrificare<br />
qualunque valore. Primum vivere<br />
(o meglio, vincere), deinde philosophari.<br />
Non stupisce dunque<br />
che in Piemonte la liaison tra<br />
mafia e politica locale abbia radici<br />
lontane e che ciò che abbiamo<br />
letto nelle carte dell’operazione<br />
Minotauro sia solo l’ultimo capitolo<br />
di una vicenda che si trascina<br />
da almeno 40 anni. E quando<br />
storia e cronaca si assomigliano<br />
troppo, vuol dire che qualcosa,<br />
a livello politico e giudiziario,<br />
non ha funzionato.<br />
Una luce ambigua. Il punto<br />
centrale e più delicato di tutta<br />
la questione è il rapporto tra politica<br />
e le comunità di immigrati<br />
calabresi, le quali, piaccia o non<br />
piaccia, hanno sempre costituito<br />
un bacino elettorale ambito<br />
da tutti i partiti politici. Questi<br />
pacchetti di voti sono spesso<br />
controllati, in parte significativa,<br />
da “capibastone” che alla vigilia<br />
delle elezioni, amministrative o<br />
33 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
politiche, li piazzano sul mercato<br />
elettorale. Si tratta di persone<br />
che non godono di particolare<br />
prestigio per motivi personali o<br />
professionali, che tuttavia sono<br />
in grado di portare centinaia,<br />
migliaia di voti e di preferenze.<br />
Molti di questi, come provano le<br />
inchieste, sono legati alla ’ndrangheta<br />
e fondano su questa appartenenza<br />
la loro capacità di persuasione.<br />
Ovviamente non tutti<br />
i voti calabresi sono controllati,<br />
ma molti sì. Un dato di fatto che<br />
proietta un’impalpabile ombra<br />
di ambiguità su alcune epopee<br />
politiche che, a partire dagli anni<br />
60, si sono basate sul rapporto<br />
stretto, quasi simbiotico, con le<br />
comunità degli immigrati.<br />
L’ex deputato socialista Francesco<br />
Froio è stato forse uno dei primi<br />
e dei più abili nel costruire la sua<br />
carriera sulla gestione – legittima<br />
Piemonte
Piemonte<br />
Foto di Bostik, ankor, Jul,<br />
Claudio 71, Christing_O,<br />
Luca Maglio, Andrea Mucelli,<br />
Sifone, Giampaolo Squarcina<br />
– del voto calabrese. Negli anni 60<br />
fu amministratore delegato delle<br />
acciaierie di Stato “Cogne”, in Valle<br />
D’Aosta, che portarono centinaia di<br />
famiglie calabresi in quella regione.<br />
Trasferitosi a Torino alla fine degli<br />
anni 60, divenne segretario regionale<br />
del Psi, e fu tra i padri della Sitaf,<br />
la società nata per la realizzazione<br />
del nuovo traforo automobilistico<br />
del Frejus – da affiancarsi a quello<br />
ferroviario – e che curerà negli anni<br />
80/90 la costruzione dell’autostrada<br />
Torino-Bardonecchia. Due grandi<br />
opere che ancora oggi gestisce.<br />
Sono gli anni d’oro dell’edilizia<br />
in Val di Susa. C’è lavoro per tutti,<br />
arrivano per la torta dei subappalti<br />
decine di imprese calabresi tra cui,<br />
come ha segnalato la commissione<br />
antimafia, quelle dei Mazzaferro di<br />
Marina di Gioiosa ionica (di orientamento<br />
democristiano, secondo<br />
il pentito Giacomo Lauro), clan<br />
’ndranghetista di grande rilievo<br />
che per anni farà il bello e il cattivo<br />
tempo in quei territori. Nei primi<br />
anni 70 Froio diventa deputato al<br />
Parlamento dell’area manciniana.<br />
Poi nel 1979 lascia la politica<br />
istituzionale per assumere il ruolo<br />
di amministratore delegato della<br />
Sitaf, la sua creatura, divenuta una<br />
straordinaria macchina di finanziamento<br />
dei partiti e di raccolta di<br />
consenso elettorale, in particolare,<br />
proprio tra gli immigrati calabresi.<br />
Froio rimane in sella fino al 1993,<br />
quando tangentopoli si abbatte<br />
anche su di lui, ma le numerose<br />
imputazioni non si sono tradotte in<br />
alcuna condanna. Ma ancora oggi<br />
i suoi consigli vengono ascoltati in<br />
ambito politico e sotto elezioni in<br />
molti bussano alla sua porta.<br />
Stringere mani sbagliate. Sono<br />
numerosi i nomi di rappresentanti<br />
delle istituzioni locali<br />
che compaiono, a vario titolo,<br />
nell’inchiesta Minotauro. Il fatto<br />
34 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
che l’unico a essere arrestato<br />
sia stato l’imprenditore Nevio<br />
Coral, ex sindaco di Leinì, non<br />
deve indurre a imprudenti sottovalutazioni,<br />
visto che appare<br />
evidente che ancora molto ci<br />
sia da scoprire sull’argomento.<br />
Pochi giorni dopo Minotauro è finito<br />
in manette Giuseppe Caridi,<br />
consigliere comunale di Alessandria,<br />
nell’ambito dell’operazione<br />
“Albachiara-Maglio” (cfr box pag.<br />
38, ndr). Il procuratore capo Gian<br />
Carlo Caselli, nella conferenza<br />
stampa dell’8 giugno, si era detto<br />
amareggiato e stupito del fatto<br />
che «vi siano numerosi esponenti<br />
politici a intrattenere rapporti<br />
proficui con esponenti mafiosi,<br />
in un amorevole intreccio», aggiungendo<br />
che «è una vergogna<br />
inaccettabile che nella città in<br />
cui è stato ucciso Bruno Caccia,<br />
vi siano persone con ruoli anche<br />
istituzionali che mantengano<br />
simili rapporti».<br />
Come distinguere tra rapporti e<br />
rapporti, questo è il dilemma.<br />
Perché in campagna elettorale<br />
si stringono molte mani, e può<br />
capitare di stringere, inconsapevolmente<br />
quelle sbagliate. Come<br />
potrebbe essere capitato all’assessore<br />
regionale Claudia Porchietto<br />
(Pdl), filmata il 23 maggio 2009<br />
mentre, alla vigilia delle elezioni<br />
provinciali cui è candidata,<br />
entra nel bar Italia di Giuseppe<br />
Catalano in via Veglia a Torino,<br />
a pochi passi dal commissariato<br />
di polizia di zona. Catalano è uno<br />
dei destinatari delle ordinanze<br />
di custodia cautelare eseguite l’8<br />
giugno, già arrestato nel luglio<br />
2010 nell’ambito dell’operazione<br />
“il Crimine” della procura di<br />
Reggio Calabria assieme al fratello,<br />
Giovanni, imprenditore di<br />
Orbassano. Giuseppe Catalano,<br />
originario di Siderno, 69 anni,<br />
è uno dei boss più importanti<br />
della ’ndrangheta <strong>piemonte</strong>se,<br />
al vertice nella città capoluogo.<br />
È ritenuto dai magistrati il capo<br />
della locale di Siderno (Rc) a Torino,<br />
candidato, in virtù del suo<br />
prestigio criminale, a far parte<br />
della futura “camera di controllo”<br />
del Piemonte, l’organo demandato<br />
a dirimere le questioni interne ai<br />
clan e a mantenere i rapporti con<br />
la casa madre calabrese. La Porchietto<br />
è accompagnata nel bar da<br />
Luca Catalano, allora consigliere<br />
comunale di Orbassano e membro<br />
del comitato elettorale, nipote<br />
del presunto boss. All’incontro,<br />
che dura solo 7 minuti, partecipa<br />
anche Francesco d’Onofrio, nato a<br />
Mileto, in provincia di Vibo Valentia,<br />
componente del Crimine con<br />
la dote di Padrino. La Porchietto<br />
non è indagata per tale episodio,<br />
che lei ha spiegato come uno dei<br />
tanti – e tra i più sbrigativi – incontri<br />
pre elettorali che si fanno<br />
senza avere l’esatta conoscenza dei<br />
propri interlocutori. Senza chiedere<br />
documenti o certificati penali.<br />
Luca Catalano darà le dimissioni<br />
qualche tempo dopo l’arresto del<br />
padre Giovanni, a casa del quale<br />
furono trovati dei foglietti con la<br />
descrizione dei rituali di affiliazione<br />
(cfr box p.55, ndr).<br />
Lo stesso Giuseppe Catalano è<br />
protagonista della vicenda che<br />
riguarda la candidatura nella<br />
lista del Pdl, sempre nel 2009,<br />
di Fabrizio Bertot, sindaco di<br />
Rivarolo Canavese, alle elezioni<br />
europee. Neanche Bertot è indagato,<br />
come non lo è la Porchietto,<br />
ma le due posizioni, pur entrambe<br />
penalmente irrilevanti, appaiono<br />
differenti. Il “luogo del delitto”<br />
è sempre il bar Italia di Catalano<br />
che, su sollecitazione del segretario<br />
comunale di Bertot (Antonino<br />
Battaglia, arrestato) organizza un<br />
incontro elettorale in favore del<br />
giovane sindaco. Il 27 maggio
2009 all’ora di pranzo i carabinieri<br />
registrano un lungo elenco di convitati:<br />
su tutti, scrive il Gip, «sussistono<br />
gravi indizi di colpevolezza<br />
in ordine alla loro affiliazione<br />
all’organizzazione criminale».<br />
Tra i presenti spiccano alcuni<br />
nomi: Francesco D’Onofrio, lo<br />
stesso presente all’incontro con<br />
la Porchietto; Salvatore Demasi,<br />
detto Giorgio, capo locale di Leinì,<br />
sulla cui figura ci soffermeremo<br />
diffusamente più avanti; e Giovanni<br />
Iaria, membro del locale<br />
di Cuorgné, imprenditore edile<br />
con un burrascoso passato politico,<br />
figura fondamentale per<br />
comprendere la mafia canavesana<br />
di ieri e di oggi.<br />
Le promesse del sindaco. Bertot,<br />
classe 1967, originario di Rivarolo,<br />
prende la parola per illustrare<br />
il suo programma elettorale, soffermandosi<br />
su questioni relative<br />
all’edilizia, che evidentemente<br />
sa essere l’argomento di maggiore<br />
interesse dei convitati.<br />
Dopo essersi scusato per non<br />
parlare dialetto, né <strong>piemonte</strong>se<br />
né calabrese, parla delle grandi<br />
opere che potrà favorire dallo<br />
scranno del Parlamento europeo<br />
(«…sono convinto che il<br />
Piemonte abbia bisogno, come<br />
terra, di tutta una serie di opere,<br />
grosse… importanti…, pensiamo<br />
al collegamento con Genova per<br />
il porto, pensiamo all’Alta velocità…»)<br />
sottolineando allo stesso<br />
tempo che manterrà la carica di<br />
sindaco e quindi continuerà a<br />
occuparsi direttamente del territorio.<br />
Chiede voti “porta a porta”,<br />
anche in Liguria, Valle D’Aosta<br />
e Lombardia (essendo candidato<br />
nel collegio del nord-ovest), tutti<br />
territori dove i convitati possono<br />
vantare numerose conoscenze.<br />
Bertot non è indagato, lo ribadiamo.<br />
Il pranzo è stato organizza-<br />
to dal suo segretario comunale,<br />
Antonino Battaglia, calabrese di<br />
capo Spartivento (Rc), che invece<br />
è stato arrestato con l’accusa di<br />
voto di scambio. Secondo quanto<br />
emerso dall’inchiesta, Battaglia,<br />
con un imprenditore di nome<br />
Giovanni Macrì, avrebbe favorito<br />
il contatto di Bertot con la rete<br />
dei calabresi, concordando il pagamento<br />
con Giovanni Catalano,<br />
all’insaputa di Bertot, di circa<br />
20mila euro.<br />
Bertot all’uscita del suo nome sui<br />
giornali si è difeso affermando di<br />
«essere per carattere e per natura<br />
quanto di più lontano esista<br />
da quel mondo. In campagna<br />
elettorale si incontrano molte<br />
persone ma nessuno mi ha mai<br />
fatto proposte ambigue né tanto<br />
meno le avrei considerate». Bertot,<br />
tra l’altro, non ottenne i voti<br />
sperati (surclassato da un pezzo<br />
da novanta come Vito Bonsignore,<br />
che lo seguiva in lista), e in<br />
diverse occasioni è stato intercettato<br />
mentre si lamenta del flop<br />
“della rete dei calabresi” descritti<br />
come «millantatori in buona<br />
fede». In una telefonata Bertot<br />
sottolinea però di aver chiarito<br />
di non essere disponibile a “certi<br />
tipi di richieste” («sin dall’inizio<br />
ho detto... certi discorsi fateli con<br />
altri… non è il mio modo di fare<br />
politica»), facendo capire di aver<br />
presente il rischio insito nella<br />
frequentazione di certi elettori.<br />
Tuttavia desta perplessità il<br />
fatto che il primo accordo con<br />
i “calabresi”, che porterà alla<br />
riunione con Catalano e gli altri,<br />
sia stato stretto con Giovanni<br />
Iaria, secondo i magistrati affiliato<br />
al locale di Cuorgné, una<br />
storia politica, imprenditoriale<br />
e giudiziaria quarantennale alle<br />
spalle, una di quelle persone che<br />
chi governa il territorio non può<br />
permettersi di non conoscere.<br />
35 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
Se la Porchietto, con la normale<br />
diligenza, poteva verosimilmente<br />
non sapere nulla di Giuseppe<br />
Catalano, l’ignoranza della personalità<br />
di Giovanni Iaria nell’area<br />
del canavese implica un livello<br />
di diligenza molto al di sotto del<br />
minimo sindacale. Il che, sia ben<br />
inteso, non costituisce reato.<br />
Iaria, basta la parola. Giovanni<br />
Iaria è un volto noto alle cronache<br />
giornalistiche da diversi<br />
decenni. La sua storia è riportata<br />
anche in un paragrafo del volume<br />
Mafie vecchie mafie nuove<br />
(Donzelli, 2009) del professore<br />
Rocco Sciarrone. Immigrato in<br />
Piemonte ancora minorenne da<br />
Condofuri (Rc) negli anni 60,<br />
Iaria arriva a Cuorgné come apprendista<br />
muratore, con tanta<br />
voglia di fare strada. In pochi<br />
anni mette su con il fratello<br />
maggiore Carmelo un’impresa<br />
edile che accoglie con particolare<br />
generosità pregiudicati calabresi<br />
– usciti in semilibertà anche<br />
grazie alla richiesta diretta della<br />
sua azienda – e immigrati che<br />
lavorano in nero. Questa gestione<br />
del personale rende competitiva<br />
l’impresa, che diventa una delle<br />
più importanti del canavese. Iaria<br />
ha il controllo della manovalanza<br />
calabrese della zona, e questo lo<br />
pone in una posizione di vantaggio<br />
sui concorrenti. Ma sarebbero<br />
diverse, in quegli anni, le ditte<br />
riconducibili allo spregiudicato<br />
imprenditore. Un episodio è utile<br />
per descrivere il temperamento<br />
della famiglia Iaria e il clima<br />
che si respira a Cuorgnè in quel<br />
periodo. Il 13 novembre 1976<br />
tre individui tentano un furto<br />
nel cantiere sbagliato, quello dei<br />
fratelli di Condofuri. I tre vengono<br />
sorpresi, due fuggono, uno<br />
viene bloccato sotto la minaccia<br />
di un fucile. Giovanni quella<br />
Piemonte
Piemonte<br />
sera non è a Cuorgné, perciò<br />
il prigioniero viene portato a<br />
casa di Carmelo Iaria, dove viene<br />
pestato per fargli dire i nomi dei<br />
complici. Il ladro non parla e<br />
così lo portano in un campo. Il<br />
ladro capisce che lo vogliono fare<br />
fuori e tenta una fuga disperata.<br />
Si prende 3 colpi di pistola alla<br />
schiena, si salva perché si finge<br />
morto, ma rimane paralizzato.<br />
Per quell’episodio Carmelo viene<br />
condannato a nove anni di<br />
reclusione nel 1978.<br />
Ma è Iaria Giovanni, il fratello<br />
più piccolo, il capo. È balzato<br />
agli onori delle cronache dal<br />
1975, quando viene sequestrato<br />
e ucciso a bastonate l’industriale<br />
Mario Ceretto. Un imputato,<br />
Giovanni Caggegi, afferma che<br />
il mandante è proprio l’imprenditore<br />
di Cuorgné. La moglie al<br />
processo ricorda come all’indomani<br />
del rapimento Iaria si sia<br />
presentato da lei offrendosi di<br />
acquistare alcune quote della<br />
società del marito, offerta rifiutata<br />
per la cattiva fama dell’imprenditore.<br />
La responsabilità di<br />
Iaria nell’omicidio Ceretto non<br />
trovò ulteriori riscontri. I due si<br />
erano scontrati anche per motivi<br />
politici. Ceretto, liberale, aveva<br />
rifiutato di inserire Iaria nella<br />
sua lista elettorale, così dopo<br />
un litigio Iaria aveva spostato il<br />
suo pacchetto di voti (circa 500,<br />
afferma) sul partito socialista. Che<br />
lo accoglie a braccia aperte e lo fa<br />
assessore allo Sport e commercio,<br />
nella giunta di sinistra guidata dal<br />
sindaco comunista Bosone.<br />
Il padrone di Cuorgné. Fu l’inizio<br />
di una carriera con alti e bassi<br />
all’interno del partito, che si trascina<br />
fino agli anni 90. Nel 1979<br />
Iaria è espulso dal Psi, ma non<br />
si dimette da assessore. Viene<br />
anche arrestato, lo stesso anno,<br />
36 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
con l’accusa di truffa, bancarotta,<br />
falsificazione di libri contabili;<br />
i reati sarebbero stati commessi<br />
in relazione alla gestione assai<br />
opaca della «cooperativa Aurora»<br />
di Borgaro. Per quei fatti, fu<br />
arrestato (e poi assolto) anche un<br />
avvocato, tale Mario Borghezio,<br />
un giovane promettente che farà<br />
una folgorante carriera politica<br />
nella lega Nord. Questa vicenda<br />
tornò a galla nel 1992, quando era<br />
componente della commissione<br />
antimafia, ma lui si difese affermando<br />
di non aver avuto mai<br />
alcun contatto con Iaria.<br />
Negli anni Ottanta, Iaria trova il<br />
modo di farsi riammettere nel<br />
Psi. Troppo importanti, evidentemente,<br />
i suoi voti, per stare<br />
dietro a una cattiva fama che non<br />
si traduceva mai in condanne penali<br />
definitive. I vecchi militanti<br />
ancora ricordano con disappunto<br />
la carica di quei calabresi che in<br />
pochi anni fecero nel canavese<br />
un carriera fulminante, nonostante<br />
ci fosse chi, come il vecchio<br />
sindaco di Pont Canavese, Igino<br />
Balagna, denunciasse apertamente<br />
l’anomalia del gruppo di Iaria.<br />
Il suo peso politico e imprenditoriale<br />
è corroborato dai buoni<br />
rapporti con il procuratore di<br />
Ivrea Luigi Moschella, ex pm<br />
antiterrorismo travolto poi da<br />
una serie di inchieste su rapporti<br />
impropri con la malavita. Il temperamento<br />
sanguigno è quello di<br />
sempre. Una sera, contrariato dal<br />
discorso pronunciato al consiglio<br />
comunale di Lanzo da Ivan Grotto<br />
(proconsole di Giusy La Ganga, ex<br />
deputato, craxiano di ferro, oggi<br />
membro del Pd), Iaria gli arriva<br />
da dietro e di fronte a tutti gli<br />
rifila un sonoro ceffone.<br />
Nel 1989 il tribunale di sorveglianza<br />
di Torino, presidente Vladimiro<br />
Zagrebelsky, lo sottopone<br />
alla misura di prevenzione della<br />
sorveglianza speciale, con divieto<br />
di soggiorno per tre anni in<br />
Piemonte e Valle D’Aosta. Sotto<br />
la lente dei giudici, le frequentazioni<br />
documentate dalle forze<br />
dell’ordine con boss calabresi del<br />
calibro di Francesco Mazzaferro<br />
(al battesimo della figlia in un<br />
albergo di Bardonecchia in cui<br />
erano presenti oltre 350 persone,<br />
Iaria portò ad esibirsi l’amico<br />
cantante Mino Reitano), Rocco<br />
lo Presti, Mario Mesiani Mazzacuva<br />
(boss di Bova i cui affari<br />
si estendevano in Valle D’Aosta<br />
e nel Canavese), la sua attività<br />
nel racket dell’edilizia, ma anche<br />
attività speculative a Condofuri,<br />
in Calabria, suo paese natale. Imbarazzante,<br />
per un politico che al<br />
congresso del partito era indicato<br />
pochi mesi prima come membro<br />
del direttivo provinciale nonché<br />
vice segretario provinciale in<br />
pectore. Anche questo provvedimento<br />
giurisdizionale, tuttavia,<br />
avrà vita breve e dopo tre mesi<br />
sarà annullato dalla cassazione.<br />
Il 12 marzo 1990 viene segnalato<br />
dai carabinieri al Caffè Torino,<br />
in piazza San Carlo, con il capo<br />
corrente Psi Antonio Salerno,<br />
ex presidente di Atm, padre del<br />
deputato Gabriele, assieme a Giovanni<br />
Giampaolo, ex vicesindaco<br />
socialista di Ciriè (arrestato per<br />
un omicidio nel 1972 a San Luca,<br />
paese d’origine, e poi prosciolto,<br />
sotto osservazione da parte degli<br />
inquirenti per presunti legami<br />
con la cosca ’ndranghetista degli<br />
Strangio).<br />
È lui il dominus di Cuorgné.<br />
Quando nel 1991 don Aldo Salussoglia,<br />
parroco di San Dalmazzo,<br />
denuncia apertamente che «a<br />
Cuorgnè si vive in un continuo<br />
stato di tensione. La mafia qui<br />
c’è per davvero e non può che<br />
sconvolgere», tutti sanno che<br />
c’è lui al centro della ragnatela
denunciata dal sacerdote. Quando<br />
tangentopoli spazza via il suo<br />
partito, Iaria esce dai radar della<br />
politica e sceglie il profilo basso<br />
nella sua Cuorgné. Fino all’operazione<br />
Minotauro, che oltre allo<br />
“struscio” con Bertot, segnala<br />
un suo ruolo nell’affaire Coral,<br />
l’unico politico locale di peso<br />
finito in manette l’8 giugno per<br />
concorso esterno in associazione<br />
mafiosa e voto di scambio.<br />
Dialogo all’“ok Coral”. Nevio<br />
Coral, quando entra in politica<br />
nel 1994 nelle file di Forza Italia<br />
candidandosi alla poltrona di<br />
primo cittadino di Leinì, è un<br />
nome nuovo della politica locale.<br />
Originario di Gruaro (Ve), di umili<br />
origini, è un imprenditore che si<br />
è fatto da sé, a capo di un gruppo<br />
industriale attivo nel settore della<br />
depurazione e del trattamento<br />
dell’aria, dell’acqua e del rumore<br />
con base a Volpiano e sedi nel<br />
nord Italia, in Francia, Germania<br />
e Gran Bretagna. Il profilo ideale<br />
dell’uomo politico della seconda<br />
Repubblica. Leinì è una città di<br />
15mila abitanti della seconda<br />
cintura torinese, nota come “la<br />
porta del Canavese”. Coral sarà il<br />
suo sindaco dal 1994 al 2005. Suo<br />
figlio Ivano, ingegnere, è l’attuale<br />
primo cittadino, succeduto al<br />
padre nel 2005. Leinì è dunque<br />
guidata ininterrottamente da un<br />
Coral da 17 anni. Alle ultime<br />
elezione amministrative Nevio<br />
si è candidato alla poltrona di<br />
primo cittadino di Volpiano,<br />
una cittadina confinante, sede<br />
del centro direzionale della sua<br />
impresa. Insomma, voleva prendersi<br />
anche Volpiano, ma si è<br />
fermato al 33% dei voti. Un altro<br />
figlio, Claudio è imprenditore nel<br />
settore della ristorazione, marito<br />
dell’ex assessore regionale alla<br />
Sanità Caterina Ferrero, eletta<br />
per la prima volta in regione a 27<br />
anni nel 1995, travolta nel mese<br />
di maggio da una inchiesta sulla<br />
corruzione che l’ha portata agli<br />
arresti domiciliari. Il suo braccio<br />
destro, Piero Gambarino (in manette<br />
nell’ambito dell’inchiesta<br />
sulla corruzione nella sanità dal<br />
27 maggio), risulta socio di alcuni<br />
degli arrestati nell’operazione Minotauro,<br />
in particolare di Achille<br />
Berardi (ritenuto affiliato al locale<br />
di Cuorgné) e Valerio Ierardi<br />
(sospettato di appartenere alla<br />
cosiddetta Bastarda [vedi box<br />
p.55, ndr]).<br />
Ma che cosa c’entra questo imprenditore<br />
di successo, originario<br />
del nord est e felicemente<br />
cresciuto nel nord ovest, con la<br />
mafia calabrese? Un politico che<br />
nel 2002, nel decennale della<br />
morte di Giovanni Falcone, dedicava<br />
sentite parole di elogio<br />
per il magistrato, a cui nel 1999<br />
l’amministrazione di Leinì aveva<br />
intitolato il Palazzetto dello<br />
sport, con una cerimonia cui<br />
aveva presenziato – gli scherzi<br />
del destino – l’allora procuratore<br />
capo di Palermo Gian Carlo<br />
Caselli. Gli vengono contestati<br />
fondamentalmente due fatti: la<br />
richiesta esplicita di voti a esponenti<br />
di rilievo della ’ndrangheta<br />
in cambio di denaro e altre<br />
utilità (appalti); l’aver concesso<br />
gli appalti di realizzazione del<br />
centro direzionale della Coral<br />
di Volpiano alle ditte degli stessi<br />
personaggi.<br />
Una cena pesante. Partiamo dalla<br />
richiesta di voti. È il 18 maggio<br />
2009. Coral è consigliere comunale<br />
a Leinì. Sono alle porte le<br />
elezioni provinciali, alle quali è<br />
candidato, per il Pdl, il figlio Ivano,<br />
sindaco dal 2005. Gli investigatori<br />
intercettano una telefonata<br />
sul cellulare di Vincenzo Argirò,<br />
37 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
originario di Locri, classe 1957,<br />
residente a Caselle. Secondo gli investigatori<br />
Argirò fa parte del Crimine<br />
(la sovrastruttura composta<br />
da affiliati che possono decidere<br />
le azioni violente, cfr p.57, ndr),<br />
è uno ’ndranghetista di livello, fa<br />
parte della società maggiore con<br />
la dote di Quartino. Proprietario<br />
di un bar a Caselle torinese, ha<br />
la nomea del “mafioso”. Almeno<br />
secondo quanto dichiarato da<br />
un imprenditore edile di Caselle,<br />
Giorgio Vercelli, che aveva<br />
subìto alcune richieste di pizzo.<br />
Argirò è comunque un pluripregiudicato,<br />
che si fa forza dei suoi<br />
precedenti penali per intimorire<br />
le proprie vittime. Dall’altra parte<br />
del telefono c’è Coral, il quale<br />
si rivolge in termini amichevoli,<br />
quasi affettuosi, al presunto<br />
boss: «Bisogna proprio dire che gli<br />
amici si trovano sempre quando<br />
si va a casa di altri eh! (Coral si<br />
trova a casa di tale Emilio Gallo,<br />
che gli ha passato la telefonata)».<br />
L’incontro viene fissato per il 20<br />
maggio nel ristorante dell’albergo<br />
“Verdina” di Volpiano, di proprietà<br />
dell’altro figlio di Coral,<br />
Claudio. I Carabinieri si appostano<br />
e rilevano i partecipanti<br />
alla riunione pre elettorale: oltre<br />
a Nevio Coral e Vincenzo Argirò,<br />
i militari registrano la presenza<br />
di Vincenzo Todarello, Antonio<br />
Ruperto, Emilio Gallo, Eduardo<br />
Cataldo, Gioacchino Giudice,<br />
Massimiliano Lastella. Coral si rivolge<br />
ai commensali chiamandoli<br />
“imprenditori”: «Credo che qui<br />
siamo tutti imprenditori, ognuno<br />
nella sua misura, non è vero che<br />
siamo dei disonesti, abbiamo solo<br />
bisogno di lavorare».<br />
La compagnia dell’anello. Ma chi<br />
sono gli “imprenditori” convocati<br />
da Argirò? Todarello, originario<br />
di Ardore (Rc), è un muratore im-<br />
Piemonte
Piemonte<br />
Se 100 km<br />
sono troppi<br />
di Giuseppe Legato<br />
Era arrivata anche lì, all’ombra<br />
del tartufo e delle nocciole delle<br />
Langhe. Perché nella geografia<br />
delle ’ndrine in Piemonte non<br />
c’è solo Torino, il capoluogo.<br />
Ci sono anche Alba, Asti, Cuneo,<br />
Alessandria, Novi Ligure. I<br />
tentacoli della mala calabrese si<br />
erano ramificati in provincia. Con<br />
personaggi di spessore, affari tradizionali<br />
imbevuti nelle betoniere<br />
dell’edilizia, riti di affiliazione<br />
carichi di pathos criminale, legami<br />
con la politica (è stato arrestato il<br />
consigliere comunale di Alessandria<br />
Giuseppe “Peppe” Caridi).<br />
L’operazione Albachiara – che<br />
prende il nome da uno stralcio<br />
delle formule rituali trovate dai<br />
carabinieri durante le perquisizioni<br />
– ha svelato l’esistenza di<br />
due locali (di cui uno “atipico”<br />
declassato a Società Minore). Coordinate<br />
spaziali: Novi Ligure e<br />
Alba. A capo delle strutture c’erano<br />
Bruno Pronestì, discendente di quella<br />
famiglia che ha fatto la storia della<br />
mala di Orbassano, e Rocco Zangrà,<br />
camionista di Rizziconi, intimo del<br />
capo dei capi Domenico Oppedisano.<br />
Proprio Zangrà era finito in manette<br />
durante l’operazione “Crimine”. Era<br />
luglio del 2010. Correvano voci che<br />
presto sarebbe successo qualcosa<br />
di grosso che avrebbe spazzato via<br />
quel campanilismo bieco che ha<br />
impedito a molti di accettare che la<br />
’ndrangheta fosse nel tinello di casa<br />
propria e non solo nei paesi arrampicati<br />
sull’Aspromonte calabrese.<br />
Una sorta di Aspro-Piemonte, come<br />
intitolavamo in un articolo pubblicato<br />
nell’ottobre del 2007 di questa rivista.<br />
Con “Minotauro” e “Albachiara” il<br />
puzzle si compone. Ci sono altre 17<br />
persone in carcere, l’organizzazione<br />
è stata disarticolata, ma il romanzo<br />
delle indagini spiega bene come la<br />
’ndrangheta non sia un fenomeno<br />
disattento agli spazi di conquista,<br />
anche quelli, apparentemente meno<br />
appetibili rispetto ai grandi centri<br />
urbani. L’inizio di questa storia di<br />
’ndrine di periferia lo registrano i<br />
carabinieri di Reggio Calabria in<br />
un agrumeto di Rosarno – piana di<br />
Gioia Tauro – dove vive Domenico<br />
Oppedisano, il “grande vecchio”,<br />
figura apicale della ’ndrangheta nel<br />
mondo. È il 30 agosto 2009. Sette<br />
giorni dopo, a Polsi, si sarebbe svolta<br />
la rituale riunione dei capi di tutti i<br />
locali calabresi e non. Si sarebbero<br />
decise strategie, nuove aperture, investimenti<br />
e – soprattutto – le cariche.<br />
Le “ambientali” piazzate dai militari<br />
del Ros registrano il rumore di un’auto<br />
che parcheggia. Ci sono ospiti. Sono<br />
Rocco Zangrà e Michele Gariuolo. Si<br />
sono fatti 1.300 km per arrivare fin<br />
qui da Alba, paradiso dell’economia,<br />
imbevuto di grandi vini e pezzi da<br />
Novanta dell’economia. Don Mico<br />
li accoglie, si siedono fuori attorno a<br />
un tavolaccio di legno. Zangrà appartiene<br />
al locale di Novi Ligure a capo<br />
del quale c’è Bruno Pronestì. Vuole<br />
aprirne uno per fatti suoi e – davanti<br />
al sommo – tira fuori un romanzo<br />
38 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
strappalacrime per ottenere l’autorizzazione.<br />
La motivazione è fin troppo<br />
banale per essere l’unica credibile: «Ci<br />
vogliono 100 km per andare alle riunioni,<br />
eppure siamo un certo numero<br />
di persone. Non possiamo fare per<br />
conto nostro?». Oppedisano ascolta<br />
e annuisce: «È giusto. Se per portare<br />
un pezzo di pane alla famiglia ogni<br />
mese vi restano in tasca 100 euro di<br />
benzina è meglio. Loro non si possono<br />
opporre, al massimo i mandamenti.<br />
Comunque fra pochi giorni io salgo<br />
a Polsi, venite pure voi e vediamo<br />
come fare». Loro sono quelli che<br />
fanno capo a Bruno Pronestì che non<br />
ne vuole sapere di dividere la torta<br />
con Zangrà. Purtroppo don Mico non<br />
è dalla sua parte: «Bruno non si deve<br />
arrabbiare», dice, e batte il pugno sul<br />
tavolo quasi come un timbro che<br />
suggella la decisione. Così nasce il<br />
“localino” di Alba. Zangrà è riuscito<br />
nel suo intento e – forse – si prepara a<br />
infilarsi negli appalti che di lì a poco,<br />
rivoluzioneranno le autostrade del<br />
Roero. Eccolo – con una certa ragionevolezza<br />
– il motivo più autentico<br />
di tanta fretta. Nella nuova struttura<br />
convergeranno gli affiliati di Alba e di<br />
Asti, gli altri resteranno sotto l’egida<br />
di Pronestì nel locale di Novi. In<br />
questo spaccato di ’ndrine distaccate<br />
non poteva mancare la politica. Ad<br />
Alessandria è finito in manette Giuseppe<br />
Caridi per gli amici “compare<br />
Peppe”. Nato a Taurianova 54 anni<br />
fa, titolare di un calzaturificio in via<br />
San Pio V ad Alessandria (da qui il<br />
nomignolo di “u scarparu” ricorrente<br />
nelle intercettazioni”) rappresenta un<br />
caso quasi unico di giurisprudenza. È<br />
considerato infatti affiliato alla ’ndrangheta<br />
col grado di picciotto. “Non gli si<br />
contesta dunque il classico concorso<br />
esterno in associazione mafiosa. Lui è<br />
proprio organico”, dice il procuratore<br />
Gian Carlo Caselli. Peppe è stato<br />
battezzato il 28 febbraio 2010 a casa<br />
sua. In quell’occasione sono state<br />
distribuite anche le doti di santista ad<br />
altri componenti, Caridi si accontentò<br />
della “ginestra” (prima dote). Il suo<br />
ingresso nell’onorata società è uno<br />
strappo all’ordinamento delle ’ndrine<br />
che non consentono a un politico di<br />
appartenere ufficialmente alla grande<br />
famiglia. «Per Peppe abbiamo fatto<br />
un’eccezione, è un bravo amico, si è<br />
voluto chiudere un occhio, sappiamo<br />
che è un cristiano che si comporta<br />
bene. Se è un buono cristiano, in un<br />
locale, un politico ci fa comodo» dirà<br />
Domenico Gangemi, figura apicale<br />
delle ’ndrine liguri, a un interlocutore<br />
rimasto sconosciuto che replica<br />
come un politico di razza: «L’Italia è<br />
cambiata, anche noi dobbiamo fare<br />
le riforme». Per la cronaca: al tempo,<br />
in Comune, “u scarparu” rivestiva il<br />
ruolo di presidente della commissione<br />
territorio. Eletto nel 2007 nelle file<br />
del Pdl era, allo stato dell’arresto,<br />
segretario amministrativo del partito<br />
“Alleanza Democratica”. Caridi è<br />
una figura centrale di questa storia.<br />
E non bisogna farsi ingannare dal suo<br />
livello di “picciotto liscio”. Scrive il<br />
gip: «La posizione del Caridi va ben<br />
al di là del suo ruolo, rappresentando<br />
la presenza della ’ndrangheta nel<br />
consiglio comunale di Alessandria.<br />
Sebbene, quindi, costui, più per il<br />
suo ruolo, che lo pone nei gradini<br />
più bassi della gerarchia ’ndranghetista,<br />
che per un’effettiva volontà di<br />
mantenere un profilo più distaccato,<br />
non abbia partecipato in prima persona<br />
alle riunioni e alla vita fattiva<br />
dell’organizzazione, Tuttavia, per il<br />
ruolo ricoperto nella società civile<br />
asservito al mandato conferitogli alla<br />
volontà criminale della ’ndrangheta,<br />
rappresenta più di altri un concreto<br />
pericolo per la libertà e la democrazia».<br />
Tra i molti brogliacci dei riti di<br />
affiliazione recuperati dai carabinieri<br />
c’è un foglio bianco stropicciato che<br />
ha attirato più di altri, la curiosità<br />
degli investigatori. C’è scritto: «Fiori<br />
da prendere» e «Fiori mandati a<br />
casa». In mezzo una linea di cesura.<br />
Sembrano elenchi di nomi ed esercizi<br />
commerciali corredati da cifre, ma<br />
potrebbero anche essere ordinativi<br />
per un funerale. “Ci mandamu i fiuri<br />
a la casa” è una tipica frase calabrese<br />
utilizzata in occasione di lutti a cui<br />
la ’ndrangheta deve partecipare. La<br />
procura indaga.
plicato, secondo i magistrati, in<br />
alcuni traffici di stupefacenti, ed<br />
è considerato un uomo di fiducia<br />
di Argirò. Come Antonio Ruperto,<br />
altro personaggio ritenuto dai carabinieri<br />
dedito al traffico di stupefacenti.<br />
Emilio Gallo, l’organizzatore<br />
dell’incontro tra Argirò e Coral,<br />
ha precedenti di polizia per reati<br />
inerenti agli stupefacenti. Eduardo<br />
Cataldo, di Locri, residente a Torino,<br />
vanta precedenti di polizia e<br />
penali per porto abusivo di armi,<br />
ricettazione, favoreggiamento personale,<br />
rapina, estorsione, minacce,<br />
lesioni personali, violazione della<br />
legge sugli stupefacenti e falsi in<br />
genere, esponente a Torino della<br />
’ndrina Cataldo di Locri. Gioachino<br />
Giudice, originario di Canicattì<br />
(Ag), residente a Borgaro Torinese,<br />
ha precedenti di polizia e penali<br />
per violazione della legge sugli stupefacenti.<br />
Massimiliano Lastella,<br />
nato a Torino nel 1976, residente<br />
a Borgaro Torinese, con precedenti<br />
di polizia e penali per minacce,<br />
lesioni personali e rissa.<br />
Ruperto sottolinea, rivolgendosi<br />
a Coral: «Dottore, le posso garantire<br />
che tavolate come queste ce<br />
ne sono veramente poche! Per<br />
le persone che sono sedute a<br />
questo tavolo… per la serietà<br />
delle persone. Perché tavolate se<br />
ne possono fare tantissime... ma<br />
non con le persone che ci sono<br />
a questo tavolo…». E Coral conferma:<br />
«Non ho dubbi… non ho<br />
dubbi…». E aggiunge: «Secondo<br />
me questo è già un miracolo…<br />
che abbiamo una tavolata di<br />
persone per bene». Dalle intercettazioni<br />
si evince chiaramente<br />
lo scopo della serata: gli uomini<br />
portati da Argirò garantiranno<br />
voti nelle zone di Leinì, Volpiano<br />
e Borgaro Torinese. In cambio<br />
Coral prospetta lavoro. «Quando<br />
le strade si fanno, i lavori si<br />
fanno, gli appalti vanno avanti …<br />
(inc)…, le cose si fanno, allora se<br />
questo principio lo adottiamo...<br />
su un gruppo che... e innanzitutto<br />
prendiamo uno lo mettiamo in<br />
Comune, l’altro lo mettiamo nel<br />
consiglio, l’altro lo mettiamo in<br />
una proloco, l’altro lo mettiamo<br />
in tutta altra cosa, magari arriviamo<br />
che ci ritroviamo persone<br />
nostre che... (sembra dica: non ce<br />
le facciamo togliere dagli altri)...<br />
e diventiamo un gruppo forte».<br />
Una frase normale all’interno di<br />
qualunque sezione di partito in<br />
qualunque città d’Italia, dalla<br />
rossa Emilia al bianco Veneto.<br />
Ma che assume connotati del<br />
tutto particolari se si considera<br />
la platea a cui era rivolta. Lui per<br />
gli astanti è “il sindaco”, il vero<br />
punto di riferimento sul territorio<br />
in forza della sua esperienza e<br />
del suo prestigio. Il figlio brilla<br />
di luce riflessa. I calabresi lo<br />
votano perché sanno che dietro<br />
c’è il padre. E Coral fa capire<br />
quanto ci tiene all’appoggio dei<br />
calabresi quando esclama: «La<br />
comunità dei calabresi è la nostra<br />
ricchezza».<br />
Tutti gli uomini del sindaco.<br />
Ma la ’ndrangheta non si accontenta<br />
di promesse, esige un<br />
ritorno immediato per il proprio<br />
impegno elettorale. Gli ’ndranghetisti<br />
sono persone concrete,<br />
il futuro è nelle mani di Giove. E<br />
come accaduto in relazione alla<br />
campagna elettorale di Bertot,<br />
anche in questo caso l’appoggio<br />
elettorale pare avere un prezzo.<br />
Dalle intercettazioni risulta, nei<br />
giorni successivi alla cena preelettorale,<br />
una dazione di denaro<br />
di 24mila euro da parte di Coral<br />
a favore degli uomini di Argirò.<br />
Una cifra che appare inverosimile<br />
imputare alla remunerazione<br />
dell’attività di volantinaggio preelettorale<br />
concordata durante la<br />
39 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
riunione al ristorante. Il costo di<br />
distribuzione di 20mila volantini<br />
da parte di una società specializzata<br />
(abbiamo controllato) è di<br />
circa 800 euro più Iva.<br />
I rapporti di Coral registrati dai<br />
magistrati della Dda di Torino<br />
con uomini legati alla ’ndrangheta<br />
vanno ben oltre la cena<br />
incriminata. È lo stesso Argirò,<br />
la sera del 20 maggio 2009, a fare<br />
riferimento a pregressi rapporti<br />
risalenti all’epoca della sindacatura<br />
di Coral padre: «... dottore,<br />
noi siamo qua e siamo felici di<br />
esserlo perché ...(parole inc)... e<br />
da chi sono andato, sanno che noi<br />
siamo qua con voi e saremo felici<br />
come lo siamo stati ... anni fa ...<br />
se voi vi ricordate bene ...».<br />
In una intercettazione che coinvolge<br />
il capo locale di Cuorgné<br />
Bruno Iaria, risulta poi evidente il<br />
rapporto tra Coral e Giovanni Iaria.<br />
Bruno Iaria afferma in una intercettazione<br />
dell’aprile 2009 che<br />
lo zio Giovanni avrebbe ottenuto<br />
da Coral degli appalti in cambio<br />
del sostegno elettorale del clan.<br />
Un accordo che avrebbe evitato a<br />
Coral di pagare “3-400mila euro”<br />
di pizzo, e che avrebbe consentito<br />
al gruppo, secondo quanto<br />
affermato da Iaria, di spendere<br />
presso le banche il nome di Coral<br />
come committente – «il nostro<br />
biglietto da visita» – dandogli<br />
maggiore credibilità.<br />
Da altre intercettazioni si evince<br />
come Coral abbia nel tempo<br />
intrattenuto rapporti con diverse<br />
famiglie mafiose. Giuseppe<br />
Gioffrè, capo del locale di Natile<br />
di Careri a Torino fino al 29 dicembre<br />
2008, giorno in cui viene<br />
assassinato a Locri (cfr p. 52,<br />
ndr), avrebbe per anni tenuto la<br />
“guardianìa” dei cantieri di Coral<br />
in cambio di denaro. Un’impresa<br />
riconducibile a Gioffré, la “Misiti<br />
Antonio”, avrebbe avuto sede in<br />
Piemonte
Piemonte<br />
un capannone di Coral senza pagare<br />
il canone di locazione. I suoi<br />
cantieri hanno fatto gola a diverse<br />
famiglie, dagli Iaria di Cuorgné agli<br />
Zucco di Natile di Careri, e lui ha<br />
cercato di non scontentare nessuno,<br />
senza mai denunciare, anzi,<br />
come si legge nelle carte del Gip,<br />
mostrandosi ben disposto verso<br />
gli ’ndranghetisti, che avrebbero<br />
lavorato alla costruzione della<br />
nuova sede di Volpiano della Coral<br />
spa e all’edificio produttivo della<br />
Altari srl di Leinì. A Bruno Iaria,<br />
inoltre, avrebbe fatto pervenire<br />
del denaro mentre si trovava in<br />
carcere. Gli uomini della mafia lo<br />
consideravano il loro “giocattolo”,<br />
una macchina da soldi, e lui, si<br />
serviva di loro, secondo l’ipotesi<br />
investigativa, per avere la comunità<br />
calabrese dalla sua parte al<br />
momento opportuno.<br />
Primarie con il boss. Ma se il<br />
canavese piange, gli altri territori<br />
della cintura non ridono. A Rivoli<br />
è stato arrestato Salvatore Demasi,<br />
classe 1944, imprenditore edile<br />
originario di Martone (Rc) con il<br />
vezzo di farsi chiamare Giorgio.<br />
Sarebbe lui il capo locale di Rivoli,<br />
anche se il suo ruolo sarebbe stato<br />
messo in discussione negli ultimi<br />
anni, in seguito ad alcuni problemi<br />
seri di salute. Il suo nome compare<br />
moltissime volte nell’inchiesta Minotauro,<br />
riprova del ruolo apicale<br />
rivestito nell’organizzazione. Ma il<br />
suo nome rileva soprattutto per i<br />
numerosi contatti registrati dagli<br />
investigatori con esponenti politici<br />
di centrosinistra, che si rivolgevano<br />
a lui per la capacità di pescare voti<br />
nel mare magnum della comunità<br />
calabrese. Gli episodi, che risalgono<br />
al gennaio/febbraio di quest’anno,<br />
sono tre: la richiesta telefonica di<br />
voti, intercettata lo scorso febbraio,<br />
da parte dell’onorevole Mimmo<br />
Lucà (Pd) a Demasi in favore di<br />
40 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
Piero Fassino, impegnato nelle<br />
primarie per la scelta del candidato<br />
sindaco; gli incontri tra Demasi e<br />
Antonino Boeti, consigliere regionale<br />
del Pd, ex sindaco di Rivoli<br />
dal 1995 al 2004, prima a casa di<br />
Boeti e poi in un bar di Alpignano,<br />
a cui ha partecipato anche Carmelo<br />
Tromby, assessore dell’Italia dei<br />
Valori al comune di Alpignano.<br />
E infine l’incontro tra Demasi e<br />
l’on. Gaetano Porcino, deputato<br />
dell’Idv e consigliere comunale a<br />
Torino, in un bar del capoluogo.<br />
Per quanto riguarda gli incontri che<br />
vedono coinvolti Porcino, Tromby<br />
e Boeti non esistono intercettazioni<br />
che ne rivelino, almeno in parte,<br />
il contenuto. Tutti i protagonisti<br />
hanno recisamente negato di aver<br />
la minima coscienza della caratura<br />
criminale del Demasi. Boeti,<br />
medico originario di Taurianova<br />
(Rc), ha ammesso di conoscerlo da<br />
oltre 30 anni, di essere suo amico,<br />
e tuttavia di non aver mai avuto la<br />
minima percezione dei suoi legami<br />
con la mafia. Con Lucà, Boeti<br />
ha partecipato, pochi giorni dopo<br />
l’uscita sui giornali delle notizie<br />
che hanno sconcertato la base del<br />
partito, a due incontri pubblici,<br />
a Rivalta Torinese e a Rivoli, nei<br />
quali i due politici hanno spiegato<br />
le loro ragioni e manifestato la loro<br />
assoluta estraneità a qualunque tipo<br />
di vicinanza con ambienti mafiosi.<br />
Il partito democratico ha dimostrato<br />
solidarietà a tutti i livelli,<br />
dalle sezioni locali, passando per<br />
gli ex sindaci di Torino Castellani<br />
e Chiamparino, fino al segretario<br />
Bersani. Anche se, per la verità,<br />
qualche mugugno a microfono<br />
spento lo abbiamo registrato tra<br />
diversi esponenti locali. Perché<br />
questa lettura dei fatti fondata<br />
sulla totale inconsapevolezza dei<br />
protagonisti, in particolare Boeti<br />
e Lucà, politici calabresi di lungo<br />
corso, è dura da digerire da una<br />
base che, ai propri avversari, nella<br />
stessa situazione non avrebbe fatto<br />
sconti.<br />
Fogli protocollo sotto elezioni.<br />
Ma chi è Salvatore “Giorgio”<br />
Demasi”? Un calabrese arrivato<br />
negli anni 60, muratore, che con<br />
i fratelli è riuscito a mettere su<br />
l’impresa di famiglia e a diventare<br />
un imprenditore affermato.<br />
Frequentava il circolo culturale<br />
dei calabresi locali, il “Sestante”,<br />
e da quella frequentazione sarebbe<br />
nata l’amicizia con Nino Boeti.<br />
Demasi aveva la fama del grande<br />
collettore di voti. «Lo ricordo<br />
nei primi anni 90, sotto elezioni,<br />
con una serie di fogli protocollo,<br />
compilati con un elenco fitto di<br />
nomi: le persone da contattare per<br />
chiedere voti, a uno a uno», dice un<br />
politico di lungo corso del Pd che<br />
chiede l’anonimato. «Una persona<br />
gentile, di una cordialità estrema,<br />
che salutava sempre per prima.<br />
Sempre vestito con cura, giacca<br />
e cravatta». Che come costruttore<br />
si è fatto una buona reputazione.<br />
Le sue case costano, ma sono rifinite<br />
con cura. La sua villa sulla<br />
collina di Rivoli è di pregio ma<br />
non particolarmente vistosa. Unica<br />
concessione al kitsch, due statuette<br />
di leoni a presidiare il cancello di<br />
ingresso. A Rivoli non ha ottenuto<br />
appalti pubblici, ha lavorato<br />
nell’edilizia privata, interventi a<br />
macchia di leopardo mai invasivi<br />
o deturpanti. Niente a che vedere<br />
con certi grandi costruttori inseguiti<br />
dalla fama di speculatori.<br />
Ma al di là di questo profilo riservato,<br />
qualche brutta voce su<br />
di lui circolava negli ambienti<br />
politici rivolesi. Si dice che fosse<br />
in grado di muovere fino a 800<br />
preferenze, ma chi può dirlo con<br />
esattezza. Quel che è certo è che<br />
in molti bussavano alla sua porta,<br />
in particolare a sinistra. Perché il
presunto boss non ha mai portato<br />
acqua al mulino del centro destra,<br />
neanche dopo la diaspora del Psi,<br />
che ha portato in Forza Italia parte<br />
dell’elettorato del Garofano. La<br />
sua influenza si estendeva a Torino<br />
e a varie città dell’hinterland,<br />
come dimostra l’interessamento,<br />
documentato in Minotauro, per il<br />
candidato sindaco di Ciriè, Francesco<br />
Brizio. In ogni realtà poteva<br />
decidere di appoggiare candidati di<br />
correnti diverse, in base a logiche<br />
non facilmente intelligibili. Quel<br />
che è certo è che era un punto di<br />
riferimento sotto elezioni e che in<br />
molti si sono rivolti a “Giorgio” nel<br />
corso degli anni. Lui però non si è<br />
mai visto in un circolo politico, non<br />
si è mai visto alle feste di partito,<br />
e neanche ai festeggiamenti post<br />
elettorali. Ma come faceva una<br />
persona così normale a muovere<br />
tanti voti? Mistero. O forse no, se<br />
non si vuole mettere a tacere del<br />
tutto il buon senso.<br />
Un caffè di troppo. L’unico dialogo<br />
registrato dagli inquirenti è<br />
quello tra Demasi e Lucà. E merita<br />
di essere riportato in alcune<br />
battute. Mimmo Lucà, originario<br />
di Gioiosa ionica ma trapiantato<br />
a Torino giovanissimo, si rivolge<br />
al “rivolese” Demasi per chiedere<br />
voti alle elezioni primarie del Pd<br />
di Torino. Agli atti ci sono due<br />
telefonate. La prima, qualche giorno<br />
prima delle elezioni. È Lucà a<br />
chiamare e dopo i convenevoli di<br />
rito chiede esplicitamente un aiuto<br />
tra gli amici di Giorgio: «Se magari<br />
hai qualche amico a Torino, cui<br />
passare la voce…».<br />
Demasi: «Certo! Certo che ne<br />
ho!…” e poi “ne ho più di uno<br />
grazie a Dio, quindi…».<br />
Lucà: «... prova a sentire che aria<br />
tira…».<br />
Demasi: «sì… sì… e facciamo …<br />
facciamo, diciamo, questi che cono-<br />
sciamo facciamo votare Fassino…<br />
1375».<br />
E poi la frase poco evidenziata dai<br />
media, ma che ha fatto storcere il<br />
naso a più di un calabrese vicino<br />
al partito.<br />
Lucà: «.. e poi io… subito dopo io<br />
e te ci vediamo a bere un caffè…<br />
magari così…».<br />
Demasi: « quando vuoi… quando<br />
vuoi… con piacere…».<br />
Lucà: «... facciamo una chiacchierata…».<br />
Demasi: «quando vuoi… sono a<br />
tua disposizione».<br />
Lucà: «un abbraccione».<br />
La telefonata sembra chiusa ma<br />
Demasi, riprende il discorso e<br />
dopo aver sottolineato di aver già<br />
iniziato a fare campagna per Fassino<br />
per conto suo trova lo spazio<br />
per ribadire l’appuntamento del<br />
caffè: «...ciao.. sempre un piacere<br />
sentirti… ci sentiamo questi giorni,<br />
prendiamo un caffè…». Ecco, nel<br />
significato di quel caffè e di quella<br />
chiacchierata a quattr’occhi – irrilevante,<br />
lo sottolineiamo, per i<br />
magistrati – si innesta la radice<br />
del mugugno di quei militanti disposti<br />
a mettere la mano sul fuoco<br />
sull’assenza di legami penalmente<br />
rilevanti tra la criminalità calabrese<br />
e il loro deputato, ma che sarebbero<br />
più incerti se la posta in gioco fosse<br />
l’assoluta mancanza di percezione<br />
da parte di Lucà di qualunque forma<br />
di ambiguità nell’interlocutore<br />
Demasi.<br />
La seconda telefonata risale al<br />
giorno delle elezioni primarie,<br />
quando Demasi richiama Lucà,<br />
informandolo che anche gli uomini<br />
di Davide Gariglio, avversario di<br />
Fassino, si sono «mossi bene» con<br />
i calabresi. A dimostrazione che<br />
anche qualcuno dell’entourage<br />
di Gariglio aveva avuto l’idea di<br />
andare a pescare nello stesso ambito<br />
bacino a cui, tramite Demasi,<br />
voleva arrivare Lucà.<br />
41 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
Da Moncalieri a Chivasso. A Chivasso<br />
alle ultime elezioni amministrative<br />
è stato sconfitto il sindaco<br />
uscente del Pdl Bruno Matola dal<br />
candidato di centrosinistra Gianni<br />
De Mori. Decisiva per la vittoria l’alleanza<br />
con l’Udc. Peccato che con<br />
l’inchiesta Minotauro si è scoperto<br />
che Bruno Tronfio, coordinatore<br />
della campagna elettorale e vicesegretario<br />
dell’Udc locale, sia il figlio<br />
del presunto capolocale di Chivasso<br />
Pasquale Tronfio, imprenditore<br />
edile con solo un precedente per<br />
ricettazione. Padre e figlio sono<br />
finiti in manette l’8 giugno e adesso<br />
gravi interrogativi pesano sulla<br />
nuova giunta. Che ruolo hanno<br />
avuto i voti calabresi controllati dalla<br />
mafia nelle elezioni? Domande<br />
che ci si è posti a Volpiano, dove<br />
se avesse vinto Nevio Coral, ora il<br />
comune sarebbe commissariato. E<br />
che ci si pone da tempo in diverse<br />
altre realtà della cintura. Come<br />
Moncalieri, la più popolosa città<br />
della provincia torinese, che è stata<br />
toccata dall’inchiesta Minotauro<br />
solo a livello di mafia militare.<br />
Nell’autunno del 2009, sull’onda<br />
delle denunce del deputato Stefano<br />
Esposito e del senatore Giuseppe<br />
Lumia, che richiamavano all’attenzione<br />
della Commissione antimafia<br />
un presunto “caso Moncalieri”,<br />
facemmo una ricognizione della<br />
situazione locale. Registrammo<br />
lo stesso malessere che l’inchiesta<br />
Minotauro ha riscontrato in altri<br />
paesi dell’hinterland. Nel 2008<br />
Giuseppe Artuffo, assessore di Rifondazione<br />
comunista nella giunta<br />
Ferrero, si era dimesso denunciando<br />
la presenza di una “lobby<br />
calabrese” in grado di condizionare<br />
l’amministrazione locale: «Qualsiasi<br />
cosa succeda, loro prendono<br />
sempre gli stessi voti. Hanno una<br />
capacità di controllo del consenso<br />
spaventosa». E ancora: «Ci sono<br />
lobby e interessi che sfiorano il<br />
Piemonte
Piemonte<br />
concetto di infiltrazione». Per tali<br />
affermazioni fu querelato dagli ex<br />
colleghi di giunta Rocco Cuzzilla<br />
e Vincenzo Quattrocchi (deceduto<br />
ad aprile) e lo scorso 11 maggio è<br />
stato rinviato a giudizio per diffamazione.<br />
Artuffo aveva toccato<br />
un argomento tabù, confinato fino<br />
ad allora nei sussurri di strada.<br />
Dopo di lui altri parlarono. Un ex<br />
consigliere di An raccontò a «La<br />
Stampa» l’offerta ricevuta da un<br />
“piazzista” per l’acquisto di 200<br />
voti della zona di corso Trieste (ad<br />
alta densità demografica di origine<br />
calabrese). E don Ruggero Marini<br />
rese pubblica la confessione di un<br />
elettore che si vergognava di aver<br />
venduto il proprio voto per pochi<br />
euro. Il sacerdote denunciò anche<br />
la presenza di persone “arrivate da<br />
fuori” per organizzare il consenso<br />
in città alle elezioni del 2007, sottolineando<br />
che la ’ndrangheta era<br />
entrata «nelle sfere economiche<br />
della città. E in quelle politiche».<br />
Volontà o buona fede. Come giudicare<br />
allora i politici che nel loro<br />
percorso incocciano nella richiesta<br />
di voti alla ’ndrangheta? Cavarsela<br />
con una sospensione del giudizio<br />
in attesa della conclusione del<br />
procedimento penale è un lusso<br />
che una società pesantemente<br />
compromessa sotto il profilo<br />
dell’inquinamento mafioso non<br />
può più concedersi. La delega alla<br />
magistratura delle questioni morali<br />
e politiche, come dimostra la storia<br />
recente da tangentopoli in poi, non<br />
funziona. Altrettanto improduttiva<br />
l’opzione opposta, lo sparo ad alzo<br />
zero nei confronti di tutti coloro<br />
che si trovano a stringere mani<br />
sbagliate trascinandoli nel gorgo<br />
di una responsabilità “oggettiva”<br />
incapace di distinguere e per questo<br />
intrinsecamente ingiusta. Un conto<br />
è incontrare occasionalmente persone<br />
sbagliate, un altro è chiedere<br />
42 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
voti e promettere favori. In questo<br />
caso approfondire la natura del<br />
rapporto è un obbligo.<br />
Tutto dipende, ovviamente, dal grado<br />
di coscienza con cui il politico<br />
si rapporta alle cosche. Pensiamo,<br />
per chiarire il ragionamento, a un<br />
incidente stradale. L’automobilista<br />
che volontariamente (dolosamente,<br />
in termini giuridici) investe un<br />
pedone, risponde di omicidio volontario.<br />
Così il politico che volontariamente<br />
si rivolge alla mafia per<br />
chiedere voti, cosciente della sua<br />
capacità di condizionare l’elettorato,<br />
e in cambio promette vantaggi,<br />
può rispondere a seconda dei casi<br />
di voto di scambio, concorso esterno<br />
etc. Ma risponde di omicidio<br />
volontario anche l’automobilista<br />
che va ai 100 all’ora in un vicolo<br />
dove il limite è dei 30 e che, pur<br />
cosciente del pericolo che possa<br />
attraversare la strada improvvisamente<br />
un pedone, continui a<br />
correre, accettando il rischio che<br />
per la sua folle corsa qualcuno<br />
possa morire. Per la legge, se avviene<br />
l’incidente, l’automobilista<br />
risponde di nuovo a titolo di omicidio<br />
volontario (la dottrina parla<br />
di “dolo eventuale”). Allo stesso<br />
modo potrebbe essere imputabile<br />
per reati di mafia il politico che si<br />
rivolge a personaggi fortemente ambigui<br />
e pesantemente chiacchierati<br />
per ottenere voti, cosciente che il<br />
loro potere di condizionamento<br />
possa derivare da rapporti con la<br />
criminalità, e accettando il rischio<br />
di diventare loro debitore.<br />
Ma se l’autista che corre ai 100<br />
all’ora nel vicolo con il limite dei<br />
30 è convinto di essere in grado,<br />
per le sue doti di pilota, di evitare<br />
un eventuale ostacolo, dunque è<br />
convinto che non morirà alcun<br />
pedone per la sua guida spericolata,<br />
allora in caso di incidente<br />
non risponde più per omicidio<br />
volontario, ma per colpa (la con-<br />
dizione di chi commette un fatto<br />
per imprudenza o imperizia). Nel<br />
caso descritto, la dottrina parlerebbe,<br />
per l’esattezza, di “colpa<br />
cosciente”. Potrebbe essere il caso<br />
del politico che intuisca qualcosa<br />
di anomalo nell’abnorme capacità<br />
di convogliare voti di certi<br />
personaggi, ma che tuttavia non<br />
ritenga conveniente approfondire<br />
la questione, perché convinto che<br />
non sia suo compito (“sono un<br />
politico, non un poliziotto”) e per<br />
non rinunciare ai vantaggi di un<br />
rapporto che, non essendo esplicitato<br />
nella sua reale natura, non<br />
potrà mai essergli rimproverato.<br />
Per questa condotta nessun politico<br />
verrà mai condannato in tribunale,<br />
visto che non si risponde per<br />
reati di mafia a titolo di colpa. Ma<br />
tale condotta, lasciando aperto un<br />
canale di dialogo – anche se implicito<br />
– tra mafia e partiti, costituisce<br />
il cuore di quella responsabilità<br />
politica da più parti auspicata<br />
come strumento di prevenzione<br />
interna volta a prevenire l’intervento<br />
della magistratura.<br />
Rimane infine, oltre alla colpa “cosciente”,<br />
quella “incosciente”, o<br />
colpa tout court. Siamo nel campo<br />
dell’imprudenza e dell’imperizia<br />
in buona fede assoluta, quella cui<br />
si aggrappa la maggior parte dei<br />
politici rimasti imbrigliati nell’inchiesta<br />
Minotauro. Il politico che<br />
non ha capito, non sapeva, che<br />
non ha mai sospettato nulla. Può<br />
capitare, per carità, a tutti è giusto<br />
concedere il beneficio del dubbio<br />
nel nome della presunzione di<br />
non colpevolezza. Ma se la colpa<br />
cosciente confina con il dolo<br />
eventuale, l’“incoscienza” assoluta<br />
confina con la sprovvedutezza e<br />
la semplicioneria. Peccati capitali<br />
per chi ambisce a occuparsi della<br />
cosa pubblica. E chi ne risultasse<br />
affetto farebbe forse bene a trarne<br />
le dovute conseguenze.
Le formiche<br />
nel piatto<br />
Tutti i più importanti ’ndranghetisti operanti in Piemonte hanno<br />
interessi diretti o indiretti nel mondo dell’edilizia.<br />
Un esercito di “imprenditori” controlla il territorio e in forza<br />
dei rapporti instaurati con le amministrazioni locali, imperversa<br />
negli appalti pubblici e privati.<br />
A discapito delle imprese estranee alla mafia<br />
di M. Neb.<br />
Francesco è un imprenditore<br />
edile di origine napoletana che<br />
da alcuni anni lavora nella cintura<br />
sud di Torino. È specializzato<br />
nella ristrutturazione e nel<br />
frazionamento di vecchi cascinali.<br />
Ha lasciato Napoli con suo<br />
padre perché non voleva pagare<br />
il pizzo. In Piemonte afferma di<br />
non essere mai stato avvicinato<br />
da uomini della mafia, «forse per<br />
le piccole dimensioni della mia<br />
impresa. Se capitasse, un minuto<br />
dopo sarei dai carabinieri».<br />
Però sa bene che il pizzo si paga<br />
anche qui. «Qualche settimana<br />
fa ho incrociato per strada un<br />
muratore calabrese, che abita<br />
dalle mie parti e con cui ogni<br />
tanto scambio due parole. Era<br />
da tempo che non lo vedevo,<br />
supponevo fosse tornato in Calabria<br />
o fosse via per lavoro. Ci<br />
siamo salutati, e per prima cosa<br />
mi ha chiesto come girano gli<br />
affari. Io gli ho risposto che il<br />
momento non è facile, ’ste case<br />
non si vendono. Quando gli ho<br />
chiesto come andassero le cose<br />
per lui mi ha risposto: “Io non<br />
lavoro, vado a riscuotere…”.<br />
Lo ha detto guardandomi fisso<br />
negli occhi, in modo strano, non<br />
si capiva se dicesse sul serio o<br />
scherzasse, come per saggiare<br />
la mia reazione. Mi è venuto<br />
spontaneo rispondergli in dialetto<br />
napoletano “se vieni da me<br />
ti spezzo le gambe”. L’ho detto<br />
ridendo, e lui pure ha sorriso.<br />
Ma la cosa non mi è piaciuta. A<br />
mio padre non ho detto niente,<br />
se no gli viene un infarto».<br />
Pagano tutti, anche loro. Che<br />
vadano a “riscuotere” per il<br />
servizio di guardianìa (la protezione<br />
imposta ai cantieri), che<br />
lavorino direttamente con imprese<br />
regolarmente intestate, che<br />
operino attraverso prestanome,<br />
per i mafiosi l’edilizia mantiene<br />
una forza di attrazione irresistibile.<br />
L’operazione Minotauro<br />
non fa altro che confermare la<br />
vitalità della tradizione, che<br />
in Piemonte non fa eccezione.<br />
Impressiona vedere come tutti i<br />
43 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
boss coinvolti abbiano interessi<br />
rilevanti, diretti o indiretti, nel<br />
settore edile – «il vero centro di<br />
interesse dell’organizzazione<br />
operante a Torino e provincia»,<br />
secondo il Gip che ha ordinato<br />
gli oltre 150 arresti dello scorso<br />
8 giugno – o in quelli satelliti<br />
dell’impiantistica e della<br />
carpenteria. Il motivo è presto<br />
detto: per fare l’imprenditore<br />
edile non ci sono barriere all’ingresso,<br />
non ci vogliono titoli<br />
di studio né certificati penali<br />
puliti, chiunque può aprire una<br />
partita Iva e iniziare l’attività,<br />
senza dover dimostrare di essere<br />
in grado di tirare su un muro.<br />
L’ambiente ideale per dare lavoro<br />
a picciotti senza arte né<br />
parte, per fare un po’ di soldi o<br />
semplicemente per farli girare,<br />
riciclando i proventi di attività<br />
illecite.<br />
Edilizia, poi, significa gestione e<br />
controllo del territorio, musica<br />
per le orecchie dei boss, che<br />
hanno nella capacità di tessere<br />
rapporti con la politica e la<br />
Piemonte
Piemonte<br />
pubblica amministrazione la<br />
radice del proprio successo.<br />
Rapporti fondamentali non solo<br />
in relazione all’aggiudicazione<br />
di appalti pubblici, ma anche<br />
nel campo dell’edilizia privata,<br />
dove brulicano le imprese<br />
criminali più piccole. Uno<br />
spesso cordone ombelicale le<br />
lega alle amministrazioni locali<br />
per l’ottenimento dei permessi,<br />
i cambi di destinazione d’uso,<br />
le varianti ai piani regolatori<br />
e così via. Per non parlare dei<br />
controlli nei cantieri, che con<br />
le conoscenze giuste si possono<br />
del tutto disinnescare. Come<br />
registrato dagli investigatori in<br />
relazione alla ditta di Domenico<br />
Racco (presunto affiliato al locale<br />
di Cuorgné con il grado di<br />
“Trequartino”), che nel 2007, in<br />
seguito alla denuncia del geometra<br />
Flavio Novaria, ha subìto un<br />
controllo in cantiere a Cuorgné<br />
(To) da parte di carabinieri. Dalle<br />
intercettazioni è risultato che il<br />
maresciallo del Nucleo ispettorato<br />
del lavoro, Massimo Pizzuti,<br />
avendo riscontrato la presenza<br />
di un lavoratore in nero, avrebbe<br />
suggerito al commercialista<br />
dei Racco una “via d’uscita”:<br />
l’assunzione immediata per<br />
44 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
via telematica, concedendo il<br />
tempo per istruire la pratica ed<br />
evitare la denuncia. Allo stesso<br />
modo, da ulteriori conversazioni<br />
è emerso il rapporto dei Racco<br />
con un medico dell’Asl, con il<br />
quale si concordavano tempi e<br />
modi del sopralluogo, rendendo<br />
del tutto fittizio il controllo in<br />
cantiere. Com’è facile immaginare,<br />
il geometra che si è permesso<br />
di sporgere denuncia è<br />
stato malmenato e pesantemente<br />
minacciato di morte, facendogli<br />
passare la voglia di rivolgersi<br />
alle autorità. Come avviene nella<br />
più classica tradizione delle<br />
storie di mafia.<br />
Rami d’azienda in saldo. Decine<br />
di imprese mafiose, dunque,<br />
operano quotidianamente nelle<br />
nostre città. Ma quali sono le<br />
loro caratteristiche? Un prototipo<br />
d’impresa mafiosa non<br />
esiste. L’edilizia è un mondo eterogeneo<br />
che spazia dalle grandi<br />
opere pubbliche sul modello Tav<br />
ai modesti interventi privati di<br />
ristrutturazione residenziale.<br />
La ’ndrangheta non butta via<br />
nulla. E le imprese mafiose si<br />
adeguano alla fetta di torta cui<br />
ambiscono. Ci sono imprese<br />
piccole o piccolissime che<br />
lavorano esclusivamente nel<br />
settore privato, che abbattono<br />
i costi sfruttando manovalanza<br />
in nero, come nel caso della<br />
ditta Racco. Queste imprese<br />
presentano preventivi competitivi,<br />
non emettono fattura per<br />
i lavori eseguiti o lo fanno per<br />
importi inferiori al reale costo<br />
della prestazione, garantendo ai<br />
committenti privati l’evasione<br />
dell’Iva. A questo livello è facile<br />
che emerga il dna mafioso dei<br />
titolari, che non disdegnano<br />
l’uso della violenza nei confronti<br />
di eventuali concorren-<br />
ti e degli stessi committenti<br />
in caso di dispute sul prezzo.<br />
Come dimostra il caso Novaria,<br />
meglio non aprire contenziosi<br />
con costoro.<br />
Le imprese che intendono invece<br />
partecipare agli appalti o subappalti<br />
pubblici, non possono<br />
permettersi livelli di illegalità<br />
palesi: le norme sul contratto<br />
pubblico le escluderebbero a<br />
priori. In quelle imprese i lavoratori<br />
sono infatti assunti in regola.<br />
«Certo, a volte ci provano, e<br />
qualche lavoratore in nero, nel<br />
mucchio, lo infilano – afferma<br />
Antonio Castaldo segretario<br />
provinciale della Filca-Cisl –.<br />
Se il lavoratore si lamenta degli<br />
straordinari non corrisposti o<br />
dei ritardi nei pagamenti ci può<br />
scappare la pistola sul tavolo,<br />
di fronte alla quale il lavoratore<br />
rinuncia ai suoi diritti. Ma se<br />
la vertenza arriva a livello sindacale,<br />
l’imprenditore-mafioso<br />
paga di buon grado quanto dovuto<br />
e mette tutto a tacere. Il<br />
loro interesse non è sollevare<br />
polveroni, ma essere in regola.<br />
Con il sindacato evitano lo<br />
scontro, e, una volta pagati, i<br />
lavoratori perdono interesse a<br />
portare avanti le denunce». I<br />
lavoratori sanno che qualcosa<br />
non torna e che al sindacato i<br />
segnali non mancano. «Hanno<br />
una bassissima conflittualità<br />
in cantiere – conferma Dario<br />
Boni, segretario provinciale della<br />
Fillea-Cgil –. Non sono ostili<br />
al sindacato, come si potrebbe<br />
immaginare ragionando per stereotipi.<br />
Al contrario, cercano di<br />
essere in regola anche sotto il<br />
profilo della sicurezza». Eppure<br />
ci sono elementi che le rendono<br />
riconoscibili dalle altre. «Le voci<br />
girano, quando abbiamo a che<br />
fare con certi impresari ci rendiamo<br />
conto istintivamente di
avere a che fare con persone per<br />
lo meno sospette. Nonostante<br />
la crisi economica, il modo di<br />
lavorare lo trovano sempre. Oggi<br />
operano in una città, ma sanno<br />
già che tra sei mesi lavoreranno<br />
altrove, anche se ufficialmente<br />
non è stata neanche indetta la<br />
gara d’appalto». È la marcia in<br />
più dell’impresa mafiosa. Oltre<br />
alla disponibilità di capitali di<br />
origine illecita che le affranca<br />
dalle secche del rubinetto<br />
creditizio, i contatti politici<br />
garantiscono informazioni in<br />
esclusiva e corsie preferenziali<br />
sui cantieri pubblici. Mentre<br />
le imprese pulite sono in crisi,<br />
strozzate dalle banche e dai<br />
ritardi dei pagamenti degli enti<br />
pubblici (che giungono in casi<br />
estremi a 200 giorni) stretti dai<br />
vincoli del patto di stabilità, le<br />
imprese della mafia prosperano<br />
e possono permettersi di intervenire<br />
in aiuto delle imprese<br />
in difficoltà. «Se le comprano<br />
– afferma Boni –, per intero o<br />
acquistano semplici rami di<br />
azienda, con i relativi certificati<br />
Soa (necessari per comprovare<br />
la capacità dell’impresa a partecipare<br />
ad appalti pubblici con<br />
importo a base d’asta superiore<br />
a 150mila euro, nda). In questo<br />
modo concorrono a gare cui<br />
altrimenti non potrebbero ambire.<br />
E così espandono la loro<br />
capacità di infiltrazione senza<br />
che nessuno se ne accorga».<br />
Le responsabilità del “sistema”.<br />
Ma cosa avviene sui<br />
grandi appalti, in particolare<br />
sulle grandi opere che tutti<br />
immaginiamo obiettivo delle<br />
organizzazioni criminali, ma<br />
che poi difficilmente vengono<br />
colte sul fatto nonostante i controlli<br />
serratissimi? Un ex alto<br />
dirigente della Co.ge.fa, società<br />
leader nella realizzazione di<br />
grandi opere che ha realizzato<br />
tratti dell’Alta Velocità Torino-<br />
Milano e della metropolitana di<br />
Torino, ha accettato una dialogo<br />
con «Narcomafie» solo con la<br />
garanzia dell’assoluto anonimato.<br />
Nega recisamente che il<br />
problema si sia mai posto in<br />
modo concreto alla dirigenza<br />
della società: «A rischio di apparire<br />
ingenuo, posso dire che<br />
noi non abbiamo avuto mai<br />
percezione di pressioni di alcun<br />
genere per fare lavorare<br />
nei subappalti certe imprese<br />
al posto di altre. D’altra parte<br />
le norme sugli appalti pubblici<br />
sono molto stringenti: avevamo<br />
controlli quasi quotidiani di<br />
carabinieri e Guardia di finanza<br />
anche con agenti in borghese.<br />
Che poi, con il meccanismo del<br />
massimo ribasso, negli appalti<br />
qualcosa di strano possa accadere,<br />
lo immagino. Come fa<br />
un’impresa a stare nei costi se<br />
si presenta con un ribasso del<br />
40% sull’offerta? Da qualche<br />
parte troveranno il modo di risparmiare.<br />
Probabilmente sulla<br />
mano d’opera che lavorerà oltre<br />
l’orario dichiarato. Oppure sulla<br />
velocità di realizzazione dei lavori.<br />
Se prima di posare il manto<br />
stradale il progetto prescrive di<br />
rullare 100 volte il terreno, e io<br />
invece il rullo lo passo solo 10<br />
volte, si risparmia parecchio.<br />
Poi però capiamo perché certe<br />
grandi opere sono sempre in<br />
manutenzione». Colpa anche<br />
del sistema, dunque, che con il<br />
massimo ribasso costringerebbe<br />
le imprese a pratiche illegali per<br />
contenere i costi. O comunque<br />
che favorirebbe le imprese che<br />
riciclano denaro, per le quali<br />
è razionale lavorare con guadagni<br />
esigui o addirittura in<br />
perdita. Dario Boni ricorda che<br />
45 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
«per la realizzazione dell’Alta<br />
velocità Torino-Milano sono<br />
arrivate moltissime imprese<br />
dal Sud e moltissimi lavoratori<br />
meridionali. Per lavorare nelle<br />
grandi opere è necessaria la<br />
regolarità contributiva relativa<br />
a tutti i cantieri aperti sul territorio<br />
nazionale – altrimenti<br />
la cassa edile non rilascia il<br />
Durc (documento di regolarità<br />
contributiva) – e senza Durc non<br />
vengono pagati i Sal (stato avanzamento<br />
lavori). In quel periodo<br />
abbiamo registrato un fenomeno<br />
nuovo, una sorta di caporalato<br />
legalizzato: la mano d’opera<br />
era gestita da determinati personaggi<br />
– a volte meridionali,<br />
a volte di nazionalità straniera<br />
– che gestivano i rapporti<br />
della manovalanza, italiana o<br />
straniera. La quale era formalmente<br />
perfettamente in regola.<br />
Questi personaggi gestivano con<br />
autoritarismo assoluto modalità<br />
lavorative, orari, pause pranzo<br />
e così via. Quello che sappiamo<br />
è che gli orari effettivi erano<br />
nettamente superiori a quelli<br />
dichiarati, che le pause erano<br />
ridotte al minimo vitale e che<br />
nessuno si sognava di denunciare,<br />
per paura proprio di questi<br />
“gestori di mano d’opera” cui<br />
si affidavano le imprese».<br />
A macchia di leopardo. Il controllo<br />
del territorio è l’essenza<br />
primordiale del potere mafioso.<br />
Come ha dichiarato il collaboratore<br />
Rocco Marando, ex affiliato<br />
alla locale di Volpiano, «quando<br />
vi è un appalto di opere edilizie<br />
da realizzare nella zona rientrante<br />
nel territorio della “società”,<br />
debbono “mangiare” le ditte che<br />
sono gestite da esponenti della<br />
medesima società. Se ad esempio<br />
vincesse una ditta estranea<br />
alla società, viene dapprima<br />
Piemonte
Piemonte<br />
convinta con le buone a lavorare<br />
altrove, poi con le cattive e si<br />
può arrivare anche a uccidere. In<br />
sostanza, la ditta della “società”<br />
che si aggiudica un appalto poi<br />
ripartisce i vari lavori (elettrici,<br />
tubature, etc.) ad altre ditte che<br />
fanno parte “dell’onorata società”».<br />
Il controllo del territorio in<br />
Piemonte non è omogeneo ma<br />
“a macchia di leopardo”, come<br />
direbbe il procuratore Grasso.<br />
Significa che esistono ancora<br />
numerose zone franche, ma se<br />
si ricade nella “macchia”, come<br />
quella canavesana, la pressione<br />
è soffocante. Pagano persino le<br />
stesse ditte della mafia in trasferta.<br />
«Quando una ditta mafiosa<br />
vuole lavorare oltre i confini<br />
del territorio di competenza<br />
– ha ribadito Marando – deve<br />
informare le famiglie del luogo<br />
e pagare qualcosa». Non sempre<br />
lo fanno di buon grado. Nelle<br />
intercettazioni dell’inchiesta<br />
Minotauro sono registrate decine<br />
di discussioni, anche molto<br />
violente, tra ’ndranghetisti che<br />
cercano di “eludere”, almeno<br />
in parte, la tassa, e coloro che<br />
ne esigono la riscossione. Chi<br />
immagina la ’ndrangheta come<br />
un monolite senza crepature<br />
interne, contrapposto come un<br />
sol uomo al mondo degli esterni,<br />
i cosiddetti “contrasti”, è fuori<br />
strada. Tra di loro è un continuo<br />
lottare anche per poche centinaia<br />
di euro, come formiche che si<br />
accapigliano sullo stesso tozzo<br />
di pane. Pochi spiccioli, che<br />
però valgono l’accettazione o il<br />
rifiuto della sovranità altrui sul<br />
territorio in questione, principio<br />
per il quale vale la pena morire<br />
nella cultura mafiosa.<br />
Quando un’impresa “esterna”<br />
alla società riesce ad aggiudicarsi<br />
un appalto in una zona<br />
controllata dalle ’ndrine viene<br />
46 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
costretta a pagare il pizzo per<br />
pagare la guardianìa, in denaro<br />
o attraverso la concessione di<br />
subappalti alla mafia. Un’affermazione<br />
estrapolata da un dialogo<br />
tra Bruno Iaria, capolocale<br />
di Cuorgné, e Giuseppe Gioffré,<br />
caposocietà del locale di Natile<br />
di Careri a Torino fino al 2008,<br />
quando fu assassinato a Locri,<br />
è particolarmente significativa.<br />
È il 2007, i due boss stanno<br />
discutendo della costruzione di<br />
180 alloggi a Rivarolo Canavese<br />
da parte di una non meglio<br />
identificata “società Parisi”, che<br />
sarebbe disponibile a concedere<br />
in subappalto a ditte dei boss<br />
parte dei lavori.<br />
Amici in Regione. Iaria dice<br />
a Gioffrè: «Compà, dobbiamo<br />
andare a trovare a coso, a Nino<br />
Occhiuto (componente della cosiddetta<br />
Bastarda, ndr), perché,<br />
mi ha parlato mio zio Giovanni<br />
(Giovanni Iaria, cfr art. p. 33,<br />
ndr) l’altro giorno, che a Rivarolo<br />
hanno 180 alloggi e passa,<br />
però la pratica è bloccata in<br />
Regione, è andato, praticamente<br />
“Natino” e ha fatto bloccare,<br />
perché l’ha fatta bloccare, mio<br />
zio mi ha detto vai, così in modo<br />
che noi entriamo, dice però la<br />
possiamo tenere bloccata un<br />
mese, due, poi che succede<br />
andiamo da compare Nino, …<br />
, giustamente il lavoro se non<br />
gli interessa tutto a loro almeno<br />
la metà li dobbiamo fare noi,<br />
ci sono 180 alloggi da fare, i<br />
ponteggi da fare, qui la cosa<br />
è grossa e grassa, poi so che,<br />
questi dei Parisi, so che lui li<br />
ha messi sotto per i cantieri...<br />
(incomprensibile) avete capito?<br />
Là quando avevano fatto gli altri<br />
cantieri.... Ora vogliamo andare,<br />
a trovare compare “Nino” per<br />
anticiparlo noi, capito? “Com-<br />
pare Nino vedete che passa così,<br />
io non voglio, noi ci rispettiamo,<br />
la carpenteria so che voi non la<br />
fate, non la fanno ... a farla altri<br />
la facciamo noi...”».<br />
Dalle affermazioni di Iaria emerge<br />
innanzitutto che, tramite<br />
delle non meglio specificate<br />
“conoscenze” in Regione, il<br />
gruppo ’ndranghetista ha<br />
ostacolato il rilascio di certe<br />
autorizzazioni richieste dalla<br />
società Parisi per realizzare un<br />
importante intervento edilizio,<br />
al fine di consentire a Gioffré e<br />
allo stesso Iaria di concordare<br />
con Antonino Occhiuto (affiliato<br />
alla “Bastarda”, competente<br />
territorialmente sul cantiere<br />
di Rivarolo) la spartizione dei<br />
subappalti («Parisi ce l’ha la<br />
ditta, però lo dà via il lavoro,<br />
capito?»). È la conferma che<br />
“Parisi” non essendo della zona<br />
di Rivarolo, deve pagare. La moneta<br />
sono i subappalti. Dall’altro<br />
lato si evidenzia come i mafiosi<br />
abbiano bisogno di tempo per<br />
discutere tra loro di spartizioni<br />
interne (territorialmente spetterebbero<br />
ad Occhiuto, che «li ha<br />
messi sotto», ma Iaria e Gioffrè<br />
vogliono entrare nell’affare di<br />
Occhiuto, che non sarebbe in<br />
grado di fare tutti i lavori («a te<br />
la carpenteria non interessa»).<br />
Ecco il valore aggiunto dei rapporti<br />
con l’amministrazione e<br />
la politica. Dall’inchiesta non<br />
è ancora emerso quali fossero<br />
i contatti in Regione vantati o<br />
millantati da Iaria. Ma è abbastanza<br />
evidente dove cercare.<br />
«Sono gli uffici tecnici – sottolinea<br />
Antonio Castaldo – i<br />
luoghi dove si prendono le<br />
decisioni fondamentali relative<br />
all’edilizia. Se in quei posti<br />
chiave dell’amministrazione<br />
ci sono persone avvicinabili,<br />
il gioco è fatto».
Chi comanda<br />
a Torino<br />
L’operazione “Gioco duro” del 2008 li aveva<br />
già individuati – benché senza riuscire a fermarli –<br />
come i nuovi boss del capoluogo <strong>piemonte</strong>se.<br />
Oggi l'inchiesta Minotauro ribadisce il loro ruolo apicale<br />
di Giuseppe Legato<br />
Dinastie di fratelli che hanno<br />
seminato sangue e crimine,<br />
minacce e delitti. Frammenti<br />
di storia della ’ndrangheta di<br />
Torino da aggiornare. Dopo<br />
Domenico e Salvatore “Sasà”<br />
Belfiore, dopo Francesco e Pasqualino<br />
Marando, ecco Adolfo<br />
e Cosimo Crea, per tutti “i<br />
nuovi capi” della mala, nati a<br />
Locri e cresciuti a Stilo, rispettivamente<br />
mare e montagna<br />
di quella Calabria jonica che<br />
sotto la Mole ha sempre avuto<br />
ruoli di comando dell’organizzazione.<br />
Adolfo 40 anni, Cosimo<br />
37. Giovani, ma, secondo<br />
le risultanze dell’operazione<br />
Minotauro, già “padrini” del<br />
Crimine, la struttura superiore<br />
alle ’ndrine che decide omicidi,<br />
rapine, estorsioni e impone<br />
la sua volontà su tutte le altre<br />
famiglie (cfr art. pag. 55, ndr).<br />
Sono loro i veri vertici del<br />
torinese. Spregiudicati, cinici,<br />
violenti, arrivisti, sanguinari.<br />
«Abbiamo Torino in mano»<br />
dice Giacomo Lo Surdo, uno<br />
dei loro soldati, alla fidanzata<br />
che gli chiede conto dei soldi<br />
a palate che girano nelle<br />
sue tasche. «Mio compare è<br />
il capo di Torino, comanda<br />
tutto. Qualsiasi cosa si debba<br />
fare, lo decidiamo noi. Anche<br />
se devi ammazzare uno devi<br />
chiedergli il permesso». Suo<br />
compare è Adolfo Crea.<br />
Gli esordi. Quando arrivano a<br />
Torino nel 2001 i fratelli di Stilo<br />
stanno scappando da una faida<br />
tra le famiglie Ruga-Metastasio<br />
e Gullace-Novella. Non c’è paura<br />
negli occhi di Adolfo e Cosimo,<br />
ma una certezza. «Qui non<br />
ci fanno lavorare». Il treno per<br />
il Piemonte li aspetta al binario<br />
della stazione di Locri. Diciotto<br />
ore stipati nei vagoni dell’espresso<br />
1608 Lamezia-Torino.<br />
In città sono anni difficili. È stato<br />
appena ammazzato Pasqualino<br />
Marando, che a Volpiano<br />
era un re (la notizia si sparse<br />
velocemente tra le famiglie di<br />
’ndrangheta, ma solo dopo un<br />
anno arrivò alle orecchie della<br />
Dia). Gli Ursino-Scali-Belfiore-<br />
Macrì resistono a Moncalieri<br />
(ma Mario Ursino è in carcere<br />
e uscirà solo nel 2006 beneficiando<br />
dell’indulto). A Nord<br />
però c’è il vuoto. Perché il<br />
fratello di Pasqualino – Do-<br />
47 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
menico – è in carcere per un<br />
duplice omicidio. E il resto<br />
della famiglia – Rosario, Rocco<br />
e Nicola – è già sotto la lente di<br />
ingrandimento della procura di<br />
Reggio Calabria. Indaga su di<br />
loro Nicola Gratteri agli albori<br />
dell’operazione Stupor Mundi,<br />
che nel maggio 2007 avrebbe<br />
sgominato una delle più potenti<br />
consorterie mafiose della Locride<br />
dedita al narcotraffico.<br />
Spazio, dunque, ce n’è. Adolfo<br />
e Cosimo non si fanno pregare.<br />
E per entrare nell’onorata società<br />
si appoggiano a Vincenzo<br />
Argirò, che al tempo deteneva<br />
il controllo dei videopoker<br />
nella zona di Settimo, Leinì<br />
e Brandizzo. Il primo sponsor<br />
della scalata dei Crea è lui.<br />
Ma non è il solo. Per arrivare<br />
a comandare le ’ndrine torinesi<br />
i Crea devono creare una rete.<br />
Per questo motivo Adolfo fa<br />
in modo di entrare in affari<br />
con Luciano Ursino, nipote di<br />
Rocco Lo Presti, il capobastone<br />
di Bardonecchia morto il<br />
23 gennaio 2009, pochi giorni<br />
dopo la sua prima condanna<br />
per associazione a delinquere<br />
di stampo mafioso.<br />
Piemonte
Piemonte<br />
Amicizie con boss e poliziotti.<br />
Le intercettazioni svelano<br />
un’amicizia fraterna tra Adolfo<br />
e Luciano, che fa leva anche<br />
sulle collusioni di alcuni rappresentanti<br />
delle forze dell’ordine.<br />
È il caso di Aldo Galasso,<br />
ispettore di polizia, e Vittorio<br />
Falbelli, prolifico informatore<br />
delle forze dell’ordine. Insieme<br />
procureranno ai fratelli Crea<br />
uno scanner per bonificare gli<br />
uffici dalle cimici. Non solo:<br />
l’ispettore Galasso, verosimilmente<br />
su richiesta di Adolfo e<br />
Cosimo, si sarebbe informato<br />
con alcuni colleghi di lavoro<br />
sull’esistenza di indagini<br />
in corso sul loro conto, ma<br />
anche su quello di Giuseppe<br />
Belfiore, Vincenzo Argirò<br />
e Luciano Ursino. Eccola la<br />
rete dei Crea. Belfiore però<br />
entrerà in scena molto dopo<br />
nel contesto del “salto” dei<br />
Crea dalle “macchinette” alle<br />
bische clandestine.<br />
Per la cronaca, l’ispettore<br />
Galasso, rientrato in servizio<br />
nel 2009 alla Questura<br />
di Vercelli, è stato destituito<br />
un anno fa dall’incarico (e<br />
quindi espulso dalla polizia)<br />
dopo la sentenza definitiva<br />
della Corte di cassazione (10<br />
maggio 2010) a un anno e<br />
nove mesi per aver favorito in<br />
modo fraudolento personaggi<br />
della mala torinese. Galasso,<br />
che in carriera aveva ricevuto<br />
20 encomi e ambiva a entrare<br />
nella Dia, è stato ritenuto colpevole<br />
nonostante il suo avvocato<br />
Francesco Traversi sostenga di<br />
aver assistito alla creazione «di<br />
un mostro giudiziario sulla base<br />
di ricostruzioni fantasiose del<br />
pm. Al tempo in cui l’ispettore<br />
fu contattato da Adolfo Crea,<br />
lo stesso Crea era un emerito<br />
sconosciuto con due precedenti<br />
48 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
per emissione di assegni a vuoto».<br />
È ancora in piedi il ricorso<br />
contro l’espulsione dal corpo<br />
di appartenenza.<br />
La banda dei Crea. Nella squadra<br />
dei due fratelli di Stilo<br />
c’è un personaggio centrale. Si<br />
chiama Giacomo Lo Surdo. È il<br />
telefonista del gruppo. È lui che<br />
chiama gli imprenditori dalle<br />
vecchie cabine Telecom: «O<br />
pagate o saltate in aria» dice.<br />
Ed effettivamente qualcosa succede.<br />
Il 15 ottobre del 2002 il<br />
titolare della ditta Turin Carta<br />
srl di San Maurizio Canavese si<br />
ritrova la casa dilaniata da una<br />
bomba. L’hanno piazzata i Crea<br />
nel muro di cinta che sostiene<br />
la camera da letto dell’imprenditore<br />
che poi racconterà ai<br />
carabinieri di Ciriè: «Mi hanno<br />
anche bruciato un deposito di<br />
pneumatici e una gru. È gente<br />
che vuole il pizzo, da tempo<br />
ricevo telefonate di minacce,<br />
sono terrorizzato. Non so più<br />
cosa devo fare». Nasce così<br />
l’operazione “Poker” coordinata<br />
dal sostituto procuratore<br />
Antonio Malagnino. Le intercettazioni<br />
telefoniche svelano<br />
un sodalizio «molto lontano<br />
– diranno in procura – dalla<br />
semplice banda di usurai affamati<br />
di soldi». Il capo è lui:<br />
Adolfo Crea, all’epoca 33 anni,<br />
impresario edile. I suoi compari<br />
sono quelli finiti in carcere<br />
nell’operazione Minotauro: Lo<br />
Surdo, Argirò, Candido (cugino<br />
dei Crea). Cercavano di convincere<br />
i proprietari di bar e locali<br />
pubblici a installare i videopoker,<br />
forniti dai fratelli Antonio<br />
ed Elio Cappiello, abitanti a<br />
Santena e Cambiano. Incassi<br />
record: 800 euro al giorno e<br />
25 mila euro al mese. Chi si<br />
rifiutava finiva in un incubo:<br />
botte, minacce, bombe.<br />
Perché la forza dei Crea è questa:<br />
da un lato sono abili e diplomatici<br />
nel conquistare la fiducia<br />
dei boss torinesi e calabresi e<br />
dall’altro paiono altrettanto<br />
ancestrali nelle modalità di<br />
esercizio della violenza, metodi<br />
mafiosi tout court. Bombe e<br />
cortesie: cocktail micidiale.<br />
Giugno 2003: la banda dei Crea<br />
cosparge di benzina venticinque<br />
metri di corso Giulio Cesare<br />
per minacciare due ditte edili<br />
che si affacciano sulla strada<br />
e non vogliono pagare. Nello<br />
stesso mese i carabinieri sorprendono<br />
Vito Candido (pure<br />
lui originario di Stilo e – soprattutto<br />
– cugino di Adolfo)<br />
mentre cospargeva di benzina<br />
i capannoni della ditta Edil<br />
Jonica di strada della Pronda.<br />
I carabinieri di Venaria decidono<br />
che è ora di chiudere<br />
l’indagine.<br />
Gli arresti li portano in carcere,<br />
ma Adolfo e Cosimo – insieme<br />
ad Argirò – escono presto: è<br />
l’autunno del 2005, Argirò già<br />
nel 2004 per motivi di salute.<br />
Dai videopoker alle bische<br />
clandestine. La scalata è iniziata.<br />
E sembra inarrestabile<br />
nel momento in cui i Crea decidono<br />
– dopo aver maturato<br />
l’esperienza carceraria – che<br />
è ora di passare dalle macchinette<br />
di videopoker alle bische<br />
clandestine. Un salto notevole<br />
che ha bisogno di uno sponsor.<br />
E chi meglio di Giuseppe Belfiore,<br />
ultimo avamposto della<br />
storica famiglia mafiosa che<br />
ha sulle spalle l’omicidio del<br />
procuratore capo Bruno Caccia?<br />
In pochi mesi mettono le<br />
mani su quasi tutte le bische<br />
del capoluogo. Conquistano<br />
la fiducia di Peppe che nota
– e non disdegna – la grande<br />
scaltrezza dei fratelli di Stilo.<br />
Lui diventa il terminale di<br />
confidenze e lamentele. I Crea<br />
riconoscono la portata storica<br />
del personaggio. Mai uno<br />
sgarro, anzi rispetto assoluto.<br />
Ma la fame porta fretta. In quel<br />
mondo di dadi e carte ci sono<br />
regole difficili da far digerire ai<br />
Crea che vogliono tutto e subito.<br />
Un uomo potente finisce presto<br />
nel mirino di Adolfo e Cosimo. Si<br />
tratta di Renatino Macrì, nipote<br />
di Mario Ursini. Macrì sottovaluta<br />
la portata criminale dei due<br />
“stiloti” e decide di alzare la<br />
posta. È il 10 ottobre del 2007.<br />
Il boss apre un’altra bisca insieme<br />
a Raffaele Dragone e a<br />
Cosimo Papandrea. Si chiama<br />
“Blu notte”, via Borgaro. Tra i<br />
tavoli verdi si comincia subito<br />
a giocare a poker texano, ma<br />
un accordo in cui i Crea hanno<br />
spuntato l’esclusiva, genera attriti<br />
forti. Uno della loro banda<br />
si presenta alla sala dei dadi e<br />
interrompe la serata: «A texano<br />
si può giocare solo nella bisca di<br />
via San Paolo», dice. Fa vedere<br />
una pistola e se ne va a piedi<br />
indisturbato.<br />
E se non bastasse – com’è tradizione<br />
nella carriera criminale<br />
dei Crea – arrivano le bombe.<br />
È la mattina del 1° novembre<br />
2007. E il povero meccanico<br />
Antonino D’Elia da Gerocarne<br />
(Vibo Valentia) trova davanti<br />
alla sua officina un ordigno<br />
esplosivo collegato con dei fili<br />
elettrici a un detonatore.<br />
Gli artificieri del comando provinciale<br />
dei Carabinieri di Torino<br />
hanno accertato che si trattava<br />
di due candelotti di materiale<br />
esplosivo del tipo plastico da<br />
cava del peso complessivo di<br />
circa grammi 500 assemblati con<br />
nastro da imballaggio e dotati di<br />
un detonatore elettrico collegato<br />
con un filo di massa.<br />
No, non è per lui quella bomba.<br />
Che invece serve a spaventare<br />
il titolare del circolo privato di<br />
fronte. È l’Ermitage di Renato<br />
Macrì. Lui non cede. Belfiore<br />
prova a mediare, ma non ci<br />
riesce. E il 2 febbraio 2008 le<br />
bombe tornano. Stessa scena<br />
di qualche mese prima. Esplosivo<br />
plastico davanti al circolo<br />
di Macrì. Stavolta però non<br />
è un esercizio dimostrativo:<br />
le bombe potevano fare una<br />
strage. I fratelli di Monasterace<br />
sono quasi al top, hanno<br />
messo un po’ in disparte pure<br />
Peppe Belfiore che conta e non<br />
poco, ma è uomo di dialogo.<br />
Qualcuno lo critica: «Se ci<br />
fossero i suoi fratelli fuori,<br />
certe persone sarebbero già<br />
sottoterra». Quelle persone<br />
sono Adolfo e Cosimo Crea.<br />
La Mobile del dirigente Marco<br />
Martino a quel punto però<br />
è già avanti nell’inchiesta<br />
“Gioco duro” (vedi «Narcomafie»<br />
05/2009) condotta dal<br />
pm Onelio Dodero (oggi alla<br />
procura antimafia di Caltanissetta).<br />
Le manette scattano<br />
anche in considerazione del<br />
fatto che sta per scoppiare<br />
una guerra di mafia. Lo dicono<br />
gli stessi ’ndranghetisti<br />
intercettati: «Si è creata una<br />
situazione delicatissima, hanno<br />
fatto un casino (i Crea). È già tre<br />
volte che l’abbiamo rischiata (la<br />
guerra)» dice Bruno Iaria.<br />
Capi anche in carcere. In cella<br />
finiscono Adolfo e Cosimo,<br />
ma anche Peppe Belfiore. La<br />
pax di Torino è salva. Per tutti<br />
l’accusa iniziale è di associazione<br />
a delinquere di stampo<br />
mafioso, imputazione che non<br />
regge in dibattimento e viene<br />
49 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
derubricata in associazione a<br />
delinquere semplice. I Crea<br />
fanno due anni di carcere. Le<br />
sbarre però non rallentano la<br />
loro scalata al Crimine. Tutti<br />
li ossequiano. Soprattutto i<br />
loro soldati. Fortunato Currà,<br />
Benvenuto Praticò, Ercole Lo<br />
Surdo (fratello di Giacomo) e<br />
Massimo Troiano si fanno in<br />
quattro per turnare una volta<br />
alla settimana (ogni mercoledì)<br />
e accompagnare al carcere<br />
di Bologna Franca Murace, la<br />
moglie di Adolfo. Anche Francesco<br />
D’Agostino ha il suo bel<br />
lavoro da svolgere: organizza<br />
gli incontri del suo “capo” con<br />
gli ospiti che devono conferire<br />
con lui (e con Vincenzo<br />
Argirò), paga la benzina per<br />
arrivare in Emilia, smista la<br />
corrispondenza di Adolfo in<br />
carcere. Non solo: risulta dagli<br />
atti che lo stesso D’Agostino<br />
abbia partecipato al tentativo<br />
di coinvolgere il cappellano del<br />
carcere di Torino, don Piero<br />
Stavarengo, per ottenere rapidamente<br />
– senza successo<br />
– il trasferimento di Crea dal<br />
carcere di Bologna presso un<br />
istituto di pena più vicino e<br />
facilmente raggiungibile, scrivono<br />
i carabinieri. Per capire<br />
quanto i Crea siano forti anche<br />
dietro le sbarre è illuminante<br />
la vicenda relativa alla disputa<br />
nata attorno alla riapertura<br />
del locale di Rivoli, chiuso<br />
(sospeso) dopo il loro arresto.<br />
Alcune famiglie pensano sia<br />
arrivato il momento di ridarlo<br />
a Salvatore “Giorgio” Demasi<br />
che ha il grado di padrino ed è<br />
già capo locale di San Mauro. I<br />
Crea però, sfruttano abilmente<br />
i loro rapporti con San Luca e<br />
col boss Giuseppe Pelle detto<br />
“Gambazza”. È lo stesso Pelle a<br />
decidere che bisogna aspettare<br />
Piemonte
Piemonte<br />
La lupara bianca di<br />
Pasquale Marando e dintorni<br />
di G. L.<br />
Tra le mille pieghe dell’operazione<br />
Minotauro, ce n’è una destinata<br />
ad aggiornare gli archivi dell’antimafia.<br />
Da qualche giorno, sulle<br />
foto segnaletiche di Pasqualino<br />
Marando, narcotrafficante di stanza<br />
a Volpiano, e di Rocco Vincenzo<br />
Ursini, nipote del boss Mario affiliato<br />
al locale di Moncalieri, c’è<br />
una “x” disegnata con un pennarello<br />
nero. Che significa “morti”.<br />
Cambio di status anagrafico: da<br />
missing (scomparsi) a deceduti.<br />
Meglio sarebbe scrivere uccisi. Luce<br />
dunque – finalmente – sulla storia<br />
delle ultime due lupare bianche<br />
sotto la Mole. I carabinieri ne sono<br />
certi. «Non ci sono più margini<br />
ragionevoli per ritenere che Marando<br />
e Ursini siano vivi». Storie<br />
diverse per caratura criminale che<br />
però finiscono nell’imbuto della<br />
stessa pratica mafiosa: omicidio e<br />
sparizione del cadavere.<br />
Lupara bianca/1: Pasquale Marando.<br />
Chissà dov’è finito il corpo del<br />
vangelista Marando, boss made in<br />
Platì, uomo di coca e di containers,<br />
contatto privilegiato dei narcos di<br />
Bogotà col crimine italiano. Un’impresa<br />
rimase storica nell’immaginario<br />
della mala: con una telefonata<br />
Pasqualino ordinò un carico di 500<br />
kg di polvere bianca. I colombiani<br />
la stoccarono e la spedirono al porto<br />
di Genova. I calabresi la ritirarono,<br />
la tagliarono nelle raffinerie clandestine,<br />
iniziarono a venderla sul<br />
mercato milanese di Buccinasco.<br />
Il tutto senza che Pasquale avesse<br />
ancora pagato una lira. Per una<br />
situazione analoga – ma con interlocutori<br />
diversi – i colombiani<br />
avevano sequestrato due emissari<br />
della “stidda” siciliana. La dura<br />
legge delle foreste del Sud America<br />
è chiara: non pagare equivale a<br />
morire. Non per Pasquale Marando,<br />
capostipite di una famiglia di<br />
quattro fratelli, che sono poi il<br />
suo esercito: Rosario, Domenico,<br />
Nicola e Rocco (tutti in carcere<br />
tranne quest’ultimo, ex collaboratore<br />
di giustizia) tutti residenti<br />
50 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
nell’hinterland nord di Torino. Di<br />
lui si fidavano tutti. Pasquale però<br />
è un re dal destino amaro, quasi<br />
beffardo. Morirà di lupara bianca<br />
nel 2001 a Platì, ucciso – secondo<br />
le testimonianze di Varacalli e di<br />
Rocco Marando (suo fratello) – per<br />
mano dei cognati Trimboli. Per la<br />
serie: chi di arma ferisce di arma<br />
perisce. Lui di “lupare bianche”<br />
ne sapeva qualcosa.<br />
Lupara bianca/2: Antonino e<br />
Antonio Stefanelli, e l’omicidio<br />
di “Ciccio” Marando. Un passo<br />
indietro. L’omicidio di Antonino e<br />
Antonio Stefanelli (padre e figlio,<br />
parenti di Pasquale Marando) è<br />
una storia di violenza atroce. Tutto<br />
cominciò quando nei boschi di<br />
Chianocco, un paesino sperduto<br />
nella Valsusa attraversato dai fiumi<br />
delle profonde gorghe dell’Orrido,<br />
fu trovato un cadavere carbonizzato.<br />
Nei verbali di sopralluogo dei<br />
carabinieri viene riportata una data:<br />
3 giugno 1996. Il giorno prima,<br />
lì, si è consumato un omicidio. È<br />
l’inizio, in provincia di Torino, di<br />
una delle faide più sanguinose del<br />
nord Italia. Da una parte la famiglia<br />
Stefanelli da Oppido Mamertina<br />
con base a Varazze e con un florido<br />
mercato di stupefacenti; dall’altra<br />
i Marando di Platì. Sono parenti,<br />
soci in affari. Si sono sposati tra<br />
di loro per rinsaldare – com’è uso<br />
nelle famiglie calabresi – i rapporti<br />
dei “locali” distaccati al Nord. Si<br />
siedono allo stesso tavolo, mangiano<br />
dallo stesso piatto, bevono<br />
lo stesso vino e trafficano la stessa<br />
cocaina. Che è poi quella che arriva<br />
in Italia grazie a Pasquale. Il<br />
cadavere ritrovato nei boschi della<br />
Val Susa non può parlare. Il fuoco<br />
non ha risparmiato quasi niente<br />
se non i bossoli di una 7.65 col<br />
quale i sicari lo hanno freddato.<br />
E allora, in un epoca in cui non ci<br />
sono ancora i Ris e le investigazioni<br />
scientifiche sono agli albori, ci<br />
pensa un medico legale – Roberto<br />
Testi – a svelare il mistero. Sul<br />
comodino dell’obitorio accanto<br />
ai resti dell’uomo senza nome c’è<br />
anche un anello che ha resistito<br />
alle fiamme. È una fede nuziale<br />
con un’incisione precisa: “Maria.<br />
09-06-1990”. Quella Maria è Maria<br />
Stefanelli, 26 anni all’epoca, figlia<br />
di Antonino Stefanelli, capo della<br />
locale di Varazze in Liguria, sorella<br />
di Antonio, rampollo emergente<br />
della famiglia, e moglie del morto:<br />
Francesco “Ciccio” Marando. A<br />
quel tempo Pasquale è un fratello<br />
promettente, mentre Ciccio è già un<br />
boss che sa fare bene il suo lavoro.<br />
A Platì si fidano molto di lui: «È uno<br />
serio. Se dice che la cocaina arriva,<br />
tu comincia a tagliarla col pensiero»<br />
racconta in dialetto uno dei suoi<br />
parenti in un’intercettazione telefonica.<br />
Il movente dell’omicidio di<br />
“Ciccio” è la droga. Negli ultimi<br />
anni era cresciuto molto. Qualcuno<br />
della sua famiglia voleva liberarsene.<br />
Lui lo aveva capito. E 9 mesi<br />
prima di morire era scappato dal<br />
repartino dell’ospedale di Genova<br />
dove si era fatto ricoverare nel corso<br />
della detenzione simulando una<br />
crisi isterica. Da lì si era rifugiato<br />
in Aspromonte, poi era tornato a<br />
Torino per gestire i traffici illeciti<br />
sui quali aveva messo il suo timbro<br />
per vent’anni. E a Torino trovò<br />
il capolinea. La famiglia capisce<br />
e deve reagire. Per Pasquale, in<br />
particolare, dietro la morte del<br />
fratello non potevano che esserci<br />
gli Stefanelli: Antonio e Antonino,<br />
per l’esattezza cognato e suocero di<br />
Ciccio. Maria Stefanelli, moglie del<br />
morto, è infatti sorella di Antonino<br />
e zia di Antonio. La condanna a<br />
morte è già scritta nelle intercettazioni<br />
del Gico. Due compari di<br />
Marando parlano tra di loro: «Ciccio<br />
se lo sono fatto loro. Fanno i<br />
furbi, ma tanto a Torino ci devono<br />
tornare». I furbi sono Antonio e<br />
Antonino Stefanelli che un anno<br />
dopo perderanno la vita nella faida<br />
di Volpiano. Padre e figlio tentarono<br />
a lungo una mediazione. Vengono<br />
invitati a Volpiano, ma hanno paura.<br />
Al terzo diniego, i bonus sono<br />
finiti. Antonino capisce chi deve
incontrare. E contatta un mediatore<br />
che risponde al nome di Giuseppe<br />
“Pino Lezzi”, 68 anni ai tempi dei<br />
fatti. È un incensurato, imprenditore<br />
edile originario di Staiti.<br />
Lui è un fedelissimo di Domenico<br />
Marando, fratello di Pasquale, ed<br />
è al corrente della vendetta che<br />
stanno preparando a Volpiano,<br />
ma è l’unico uomo che può portare<br />
i killer di Ciccio nella tana<br />
del lupo. Quando Leuzzi chiama<br />
i parenti a Oppido Mamertina (Rc)<br />
per chiedere perché non arrivano<br />
all’appuntamento, padre e figlio<br />
sono già morti. Avevano 55 e 35<br />
anni. I loro corpi non sono mai stati<br />
trovati. Fantasmi. È una mattanza<br />
senza cadaveri in cui anni dopo<br />
finirà anche Pasquale. Suo nipote<br />
Antonio lo idolatra ancora oggi.<br />
Tanto è l’alone quasi mitologico<br />
che Pasquale ha lasciato dal giorno<br />
della sua scomparsa. Quando i<br />
giornali ripercorrono la carriera<br />
criminale del boss il tono è celebrativo<br />
«questo era mio zio – dice a<br />
Domenico Agresta indicando la foto<br />
– vedi che non lo lasciano in pace<br />
neanche da morto». I due pentiti<br />
Rocco Varacalli e Rocco Marando<br />
completano il quadro: «Mi hanno<br />
riferito che a ucciderlo è stato Saverio<br />
Trimboli (detto Savetta). Lo<br />
hanno fatto a cavallo dei giorni in<br />
cui è entrato in vigore l’euro» (chiaramente<br />
ciò che viene registrato non<br />
equivale a una chiamata in correità<br />
di Trimboli). Dettaglio: nei giorni<br />
successivi all’uccisione pare che<br />
le scarpe di Pasquale siano state<br />
consegnate alla madre, abbandonate<br />
davanti alla porta di casa. Un<br />
gesto evocativo: «Tuo figlio non c’è<br />
più». I suoi parenti non lo hanno<br />
dimenticato e – nelle telefonate<br />
allegate all’ordinanza di Minotauro<br />
– lo rievocano quasi con nostalgia.<br />
Lo chiamano “la buonanima”. Un<br />
epitaffio affettuoso.<br />
Lupara bianca/3: Bruno Minasi.<br />
Su Pasquale però pende anche il<br />
dubbio (di responsabilità) sulla fine<br />
– sconosciuta – di Bruno Minasi.<br />
Siamo nel 1994 quando i carabinieri<br />
si dicono sicuri che Minasi, 42<br />
anni, all’epoca residente a Settimo<br />
Torinese – ironia beffarda – in via<br />
Carlo Alberto dalla Chiesa 21, sia<br />
stato ucciso a colpi di revolver e<br />
poi fatto sparire. C’è il sospetto che,<br />
insieme alla sua Clio nera, sia stato<br />
gettato all’interno di uno scavo,<br />
realizzato nel corso di un’opera<br />
stradale, alle porte di Torino. I<br />
militari del Nucleo operativo avevano<br />
anche un’idea sul possibile<br />
assassino: Pasquale Marando, che<br />
– all’epoca – ricevette un avviso di<br />
garanzia per questo omicidio (ma<br />
fu poi prosciolto). Piuttosto chiaro<br />
sarebbe stato anche il movente:<br />
Bruno Minasi, che era autista e<br />
persona di fiducia dei Marando,<br />
aveva cominciato a intrattenere<br />
rapporti troppo stretti con gli uomini<br />
della cosca Ursini (il cui capo,<br />
Mario, ha risieduto a lungo nella<br />
casa dove abitava Minasi). L’ucciso<br />
aveva stretto legami con Renato<br />
Macrì, cugino di Ursini. Con lui<br />
avrebbe anche acquistato una forte<br />
partita di cocaina (64 chilogrammi),<br />
poi sequestrata dai carabinieri nel<br />
corso di un’operazione compiuta in<br />
Francia. C’erano anche ragionevoli<br />
certezze sulla data dell’omicidio:<br />
il 10 gennaio del ’92. Quel giorno<br />
Bruno Minasi era stato visto uscire<br />
dalla sua casa, a Settimo. Poi più<br />
nulla. L’assassinio del Minasi fu<br />
uno degli elementi emersi dalla<br />
collaborazione di due pentiti con<br />
i magistrati torinesi.<br />
Lupara Bianca/4: Rocco Vincenzo<br />
Ursini. Diversa è la storia di<br />
Rocco Vincenzo Ursini, nipote di<br />
Mario Ursini, scomparso a 29 anni<br />
da Chivasso. Era aprile del 2009.<br />
L’ultima cella che aggancia il suo<br />
telefonino lo colloca sulla tangenziale<br />
nord all’uscita per Mappano.<br />
Poi più niente. Nel provvedimento<br />
di fermo firmato dai carabinieri<br />
di Reggio Calabria nell’ambito<br />
dell’operazione “Crimine” contro<br />
le cosche milanesi c’è un passaggio<br />
cristallino: «Il giovane se lo sono<br />
51 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
fatti a Torino perché non aveva<br />
restituito 20 mila euro ai Macrì»<br />
dicono due calabresi. La sua auto<br />
viene ritrovata a Mappano tre mesi<br />
dopo la scomparsa. È in divieto di<br />
sosta. Rocco invece è sottoterra. Lo<br />
scrivono i carabinieri: «Con una<br />
certa ragionevolezza si desume<br />
da alcune intercettazioni che sia<br />
stato ucciso». Morto pure lui, che,<br />
nell’ordinanza del gip di Torino,<br />
era destinatario di una custodia<br />
cautelare in carcere per 416 bis (associazione<br />
a delinquere di stampo<br />
mafioso). Figurava nella popolosa<br />
famiglia del locale di Moncalieri.<br />
E – ironia della sorte – anche il<br />
padre della fidanzata (e quindi il<br />
futuro suocero) è finito in carcere.<br />
Ai cronisti – due anni fa – la<br />
ragazza aveva raccontato: «Rocco<br />
ha un cognome ingombrante, ma<br />
è pulito, è uscito dal giro. Ha fatto<br />
degli errori in passato (condanna<br />
per spaccio), ma ora ha mollato<br />
quell’ambiente, si è riscattato. E<br />
vuole sposarmi». Tutto falso, tranne<br />
che per l’ultimo particolare.<br />
Rocco Ursini, 29 anni, partecipa<br />
a molte riunioni importanti della<br />
commissione provinciale della<br />
’ndrangheta, presenzia a funerali di<br />
boss uccisi (Francesco Scali), porta<br />
la sua testimonianza. Però muore.<br />
Lo ammazzano. Il motivo è ancora<br />
da chiarire e su questo aspetto gli<br />
inquirenti sono al lavoro. Dalle<br />
intercettazioni emerge un ragazzo<br />
perfettamente integrato nel tessuto<br />
della “mala” che si occupa di gestire<br />
una parte dei proventi delle bische<br />
clandestine. Soldi che servono ai<br />
carcerati, a rendere meno “pesante”<br />
la loro detenzione. Unico neo: la<br />
condotta. All’interno delle organizzazioni<br />
ci sono regole ferree. Ursini<br />
le elude spesso. E una volta scatena<br />
l’ira dei compari non presentandosi<br />
a una cena importante, una riunione<br />
strategica del locale di Moncalieri a<br />
cui lui appartiene: «È indisciplinato»<br />
dicono i boss intercettati: «Non mi<br />
è piaciuto per niente il comportamento<br />
di Rocco». Forse anche per<br />
questo ha pagato il conto.<br />
Piemonte
Piemonte<br />
che Adolfo e Cosimo escano:<br />
«Sennò poi fanno tragedie e<br />
dicono che non li abbiamo<br />
aspettati». San Luca dunque<br />
è dalla loro parte.<br />
L’omicidio Gioffrè. I boss concorrenti<br />
commentano inaciditi.<br />
Il più arrabbiato di tutti è Giuseppe<br />
Gioffrè, quartino nella<br />
società maggiore, esponente di<br />
spicco della malavita, collante<br />
delle ’ndrine con Nevio Coral,<br />
secondo quanto emerge dalle<br />
carte dell’operazione Minotauro.<br />
A lui, Gioffrè garantisce la<br />
“guardianìa” nei cantieri della<br />
provincia. E grazie a questo Coral<br />
gli consente di insediare la sua<br />
ditta senza peraltro pagare nemmeno<br />
un euro di affitto. Gioffrè<br />
patisce i Crea e non ha nemmeno<br />
un buon rapporto con Giuseppe<br />
Marvelli referente dalla Calabria<br />
per le ’ndrine <strong>piemonte</strong>si.<br />
Quando – febbraio 2008 – apre<br />
una bisca a Leinì insieme agli<br />
Agresta, Adolfo e Cosimo mandano<br />
qualcuno a riscuotere la<br />
loro parte. Peppe perde le staffe.<br />
Comincia a inveire contro i suoi<br />
Adolfo e Aldo Cosimo Crea, ritenuti<br />
membri del “Crimine” dalla Dda di<br />
Torino e arrestati lo scorso 8 giugno<br />
in quanto elementi di spicco della<br />
’ndrangheta <strong>piemonte</strong>se, il 23 aprile<br />
2010, solo un anno fa, venivano assolti<br />
dalle accuse più gravi mosse nei loro<br />
confronti nell’ambito del processo “Gioco<br />
duro”, che li aveva portati alla sbarra<br />
nel 2009 con imputazioni che andavano<br />
dall’associazione mafiosa, all’estorsione,<br />
al gioco d’azzardo. Quest’ultima<br />
fattispecie, la meno grave essendo una<br />
nemici: «Che stiano alla larga<br />
dove ci sono io – dice a Pasquale<br />
Barbaro –. Se questo rompe i<br />
c... davvero ci saranno brutte<br />
discussioni. Questo zingaro di<br />
m... (Adolfo Crea) che è scappato<br />
da casa sua... e viene qua... e<br />
comanda qua sopra». Pasquale<br />
Papalia, genero di Pelle raccoglie<br />
le lamentele di Domenico Agresta<br />
e manda ai Crea l’ambasciata<br />
di non immischiarsi nella bisca<br />
di Leinì. Gioffrè va addirittura<br />
a San Luca di persona a trovare<br />
Gambazza: «Io faccio pace con<br />
loro solo se non devo dargli più<br />
niente della mia bisca, perché<br />
loro non dividono con nessuno».<br />
Ancora al telefono viene fuori<br />
l’astio nei confronti di Adolfo:<br />
«Gli ho attaccato i bottoni al culo<br />
quando era giovane e pieno di<br />
ignoranza...». Tutto inutile. Siamo<br />
a maggio del 2008. Cinque<br />
mesi dopo – è il 28 dicembre –<br />
Giuseppe Gioffrè viene ucciso a<br />
Bovalino in Calabria. I sicari gli<br />
tendono un agguato sotto casa.<br />
Sparano a lui e al figlio Arcangelo<br />
(affiliato alla ’ndrangheta da<br />
quando è minorenne). Il giovane<br />
Gioco duro,<br />
sentenza morbida<br />
di M. Neb.<br />
52 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
semplice contravvenzione, è l’unica<br />
che ha retto al vaglio processuale. Nella<br />
primavera del 2009 i giudici di primo<br />
grado avevano derubricato l’accusa più<br />
grave, 416 bis, associazione a delinquere<br />
di stampo mafioso, in associazione<br />
a delinquere semplice, non avendo<br />
riscontrato «gli indici caratteristici di<br />
una associazione mafiosa»: per esempio<br />
non vi era certezza, secondo i giudici,<br />
che la reticenza mostrata da alcuni<br />
testimoni, gravitanti nel mondo del<br />
gioco d’azzardo, «fosse espressione<br />
si salva, i medici gli asportano<br />
due proiettili dal costato, Peppe<br />
invece muore crivellato di colpi.<br />
Chi è stato? È questo un omicidio<br />
ancora irrisolto per gli inquirenti.<br />
Ma per Giuseppe Commisso e<br />
Giuseppe Catalano non ci sono<br />
dubbi: «Sono stati i Crea». Intercettato<br />
dai carabinieri Catalano<br />
dice: «Io i Crea li conosco». E<br />
Commisso: «L’azione che gli hanno<br />
fatto in due minuti a Gioffrè...<br />
Poi sotto casa, alle spalle...».<br />
Catalano annuisce e chiude il<br />
discorso: «Questi possono fare<br />
quello che vogliono e quando<br />
vogliono». Eccolo il vertice. I<br />
Crea sono già “Il Crimine”. Dispongono<br />
della vita e della morte<br />
altrui, si muovono in prima persona,<br />
hanno un esercito accanito<br />
e militarizzato. Nessuno mette in<br />
discussione la loro leadership.<br />
Tanto che quando Adolfo esce<br />
dal carcere – è il 24 marzo 2010<br />
– Francesco D’Onofrio, che ha<br />
fatto il reggente in sua assenza<br />
e che detiene lo stesso grado<br />
dei Crea nel Crimine odierno,<br />
non ci pensa su un attimo e<br />
restituisce i galloni.<br />
di omertà mafiosa, e ciascun membro<br />
sembrava libero di recedere in qualunque<br />
momento dal gruppo». In appello,<br />
un anno dopo, neanche l’imputazione<br />
per 416 c.p è stata ritenuta fondata. Per<br />
i giudici di secondo grado i Crea erano<br />
dei semplici organizzatori di bische,<br />
punibili con la pena dell’arresto a un<br />
anno e 11 mesi. Ora nella valutazione<br />
della personalità criminale di questi<br />
soggetti, è evidente che tra la Dda di<br />
Torino e la Corte di appello qualcuno<br />
ha commesso un grave errore.
Infami<br />
e redenti<br />
di G. Leg.<br />
Due pentiti. “Infami, reietti e traditori”<br />
per la ’ndrangheta. “Fondamentali,<br />
credibili, autenticamente<br />
redenti” per la procura di Torino.<br />
In cinque anni hanno disintegrato<br />
le maglie della mala calabrese<br />
sotto la Mole. Svelando misteri,<br />
facendo luce su omicidi, traffici di<br />
droga, estorsioni, famiglie, strutture,<br />
riti di affiliazione. Eccoli qui<br />
Rocco Varacalli e Rocco Marando.<br />
Il primo è affiliato dal 23 ottobre<br />
1994 alla ’ndrina Cua-Pipicella e fa<br />
parte del locale distaccato di Natile<br />
di Careri a Torino. Il secondo è<br />
l’ultimo di cinque fratelli terribili,<br />
affiliato alla triade di ’ndrine<br />
Marando-Agresta-Trimboli e attivo<br />
presso il locale di Volpiano dal 20<br />
aprile 1990. Diversi per psicologia<br />
e vissuto, ma anche per abbondanza<br />
di rivelazioni, hanno maturato<br />
entrambi in carcere la scelta di<br />
collaborare con la giustizia.<br />
Rocco Varacalli. È il 25 ottobre<br />
del 2006. Palagiustizia Bruno Caccia,<br />
stanza 62719, ore 16. Davanti<br />
al sostituto procuratore Roberto<br />
Sparagna, si presenta Rocco Varacalli,<br />
nato a Natile di Careri il<br />
1° giugno 1970. Insieme a lui c’è<br />
l’avvocato difensore Ugo Colonna.<br />
Rocco è detenuto da cinque mesi.<br />
Lo hanno arrestato per storie di<br />
droga. Ha deciso di voltare pagina.<br />
Il verbale dell’interrogatorio<br />
fotografa il momento “clou” della<br />
redenzione: «Intendo rispondere<br />
e collaborare con la giustizia. Ho<br />
effettuato questa scelta in quanto<br />
ho deciso di cambiare vita dopo<br />
18 anni trascorsi nell’illegalità.<br />
La mia decisione in tal senso è di<br />
intraprendere un’esistenza onesta<br />
e corretta. Prendo atto che devo<br />
rendere una dichiarazione completa<br />
nulla tralasciando e nulla<br />
trascurando. Ho deciso di collaborare<br />
con la giustizia dopo aver<br />
conosciuto il dottor Sparagna e<br />
il maresciallo [omissis]. Costoro<br />
mi hanno ispirato fiducia e fin<br />
dalla loro conoscenza nel carcere<br />
di Asti ho deciso di collaborare».<br />
Rocco parlerà per quattro anni.<br />
E per essere da subito credibile<br />
consegnerà ai carabinieri un<br />
manoscritto con i primi 90 nomi<br />
(ne farà oltre 400) di affiliati alla<br />
’ndrangheta torinese. Farà luce<br />
sull’omicidio Donà e su quello di<br />
Roberto Romeo. Si autoaccuserà<br />
di reati in merito al traffico di<br />
stupefacenti. Omicidi no, non ne<br />
confessa. La svolta arriva da una<br />
nuova coscienza: «Perché devo<br />
continuare – dice al magistrato<br />
– a fare il mafioso se gli altri non<br />
rispettano le nostre leggi? Io ero<br />
orgoglioso di essere un affiliato.<br />
Pensavo che fra calabresi fosse<br />
giusto aiutarci. Poi hanno iniziato<br />
ad infangarmi. Come quando ci<br />
trovavamo al night di Cuorgnè. Se i<br />
capi andavano con le ragazze, tutto<br />
a posto. Se lo facevo io, dicevano<br />
che non rispettavo più la famiglia.<br />
53 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
Mettevano voci in giro. Facevano<br />
delle tragedie». Varacalli fa i nomi<br />
e i cognomi delle ditte edili colluse<br />
col sistema ’ndranghetistico, svela<br />
i rituali, i locali battezzati, la fine<br />
– ingloriosa – del boss Pasqualino<br />
Marando. Consente ai carabinieri<br />
di risolvere l’omicidio di Roberto<br />
Romeo, odontotecnico di Rivalta<br />
freddato nel 1998 con cinque colpi<br />
di pistola al torace e alla nuca.<br />
Parla diffusamente di un ex maresciallo<br />
dell’Arma che frequentava<br />
night e consumava droga (oggi<br />
congedato). Imprime alle indagini<br />
torinesi una svolta decisiva. La sua<br />
scelta di collaborare «è talmente<br />
genuina – scrive la Procura – che<br />
il suddetto Varacalli si autoaccusa<br />
di reati che non gli sono mai stati<br />
contestati». Credibile dunque.<br />
«Non si spiegherebbe altrimenti<br />
– annota il gip Salvadori nell’ordinanza<br />
dell’operazione Minotauro<br />
– il comportamento della famiglia<br />
all’indomani della pubblicazione<br />
delle rivelazioni dell’ex affiliato».<br />
Il 21 aprile 2008, davanti al Gup<br />
del Tribunale di Reggio Calabria,<br />
nell’ambito del procedimento<br />
denominato “Stupor Mundi”,<br />
il sostituto procuratore Nicola<br />
Gratteri deposita le dichiarazioni<br />
rese da Varacalli. Tre giorni dopo<br />
alcuni parenti scrivono una lettera<br />
che ha tutta l’aria di un funerale<br />
anticipato. In sintesi si legge: «Non<br />
siamo più la sua famiglia. Non è<br />
degno come non lo è mai stato di<br />
Piemonte
Piemonte<br />
dire che fa parte di una famiglia<br />
pulita e onesta come la nostra.<br />
Non abbiamo parole davanti a<br />
un elemento del genere. Sta cercando<br />
di distruggere e logorare<br />
la nostra famiglia e le famiglie<br />
altrui, ma non glielo permetteremo.<br />
Sta cercando di gonfiare tutto<br />
per rendersi credibile agli occhi<br />
della legge». Il tentativo è chiaro:<br />
i parenti prendono le distanze<br />
da Rocco. Conoscono la ferocia<br />
della ’ndrangheta e avvertono il<br />
rischio delle vendette trasversali.<br />
Inaugurano una sorta di pressione<br />
indiretta (che si configura come<br />
“reato di subornazione”) affinché<br />
ritratti la confessione. In particolare<br />
è lo zio Sebastiano Pipicella<br />
a marcarlo stretto. Nonostante lo<br />
status di collaboratore di giustizia,<br />
Rocco viene contattato sette volte<br />
al telefono. In due occasioni –<br />
come riscontrato con certezza dai<br />
carabinieri – incontra addirittura<br />
alcuni parenti nella località segreta<br />
in cui vive sotto protezione. «Hai<br />
ucciso tua madre in poche parole»,<br />
dice lo zio che poi si raccomanda<br />
affinché Rocco salvi la vita del<br />
fratello Mimmo, che corre seri<br />
pericoli in Calabria: «La vita di<br />
tuo fratello – gli dice – è nelle tue<br />
mani». Siamo nel maggio del 2008.<br />
Il 1° giugno Varacalli incontra lo<br />
zio Sebastiano e Pietro Demana<br />
(anch’esso uno zio) arrivati in<br />
aereo da Cagliari per non destare<br />
sospetti (i carabinieri sapevano<br />
tutto). Provano a convincerlo a<br />
ritrattare, ma lui non molla, non<br />
cambia versione. Resiste alle pressioni<br />
pur con qualche momento<br />
di confusione. Il 22 febbraio 2010,<br />
Varacalli racconta alla polizia di<br />
essere stato contattato telefonicamente<br />
dalla sorella Maria, che si<br />
era lamentata molto del fatto che<br />
Rocco, durante l’incidente probatorio,<br />
non solo avesse confermato<br />
le sue precedenti confessioni,<br />
54 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
ma avesse anche reso pubbliche<br />
le pressioni esercitate su di lui.<br />
Qualche giorno prima lo aveva<br />
cercato il fratello Mimmo. Era<br />
il 9 febbraio 2010, vigilia della<br />
deposizione al processo: «La mia<br />
vita dipende da quello che dirai».<br />
Mimmo ha paura. È stato avvicinato<br />
da Antonio Spagnolo, capo del<br />
locale di Ciminà, e da suo cognato,<br />
Giuseppe Monteleone. Lo avrebbero<br />
minacciato di ritorsioni nei<br />
confronti suoi e di tutta la famiglia,<br />
se Rocco avesse confermato la<br />
vicenda relativa all’omicidio di<br />
Roberto Romeo. L’ordine è chiaro:<br />
«Che parli di droga e di quello<br />
che vuole, ma lasci fuori la storia<br />
degli omicidi». Varacalli conferma<br />
tutto. E lo annuncia a suo zio<br />
al telefono: «Ormai gli atti sono<br />
quelli che leggete sui giornali. E’<br />
tutta lì la verità».<br />
Rocco Marando. Nei corridoi<br />
del comando provinciale dei<br />
carabinieri lo hanno già soprannominato<br />
il pentito dei bunker.<br />
Ne ha fatti trovare sei tra Platì e<br />
Natile di Careri. Non erano nascondigli<br />
qualunque, ma luoghi<br />
segreti a cui si accedeva tramite<br />
tombini e vecchi forni del pane.<br />
Le roccaforti per la latitanza degli<br />
affiliati erano stati edificati sotto<br />
la casa di alcuni dei suoi parenti:<br />
Domenico Trimboli, Pasquale<br />
Pangallo, Domenico Marando<br />
(suo fratello), Antonio Barbaro,<br />
Anna Trimboli, Antonio Portolesi.<br />
Di Marando si sa che non<br />
crede a molte delle cose che ha<br />
riferito Varacalli (in particolare<br />
disconosce la responsabilità del<br />
fratello Domenico nell’omicidio<br />
Romeo: «Il mandante – sostiene<br />
– è l’altro mio fratello Pasqualino,<br />
e non Mimmo, che non<br />
conosceva Romeo nemmeno di<br />
vista». Il gip però rileva spesso la<br />
coincidenza delle testimonianze<br />
e dei riconoscimenti fotografici.<br />
Conoscono le stesse persone,<br />
riferiscono circostanze molto<br />
simili che divergono spesso<br />
solo su dettagli non sostanziali.<br />
È il caso dell’uccisione di Pasqualino<br />
Marando. Sul decesso<br />
non v’è dubbio, sulle modalità<br />
dell’omicidio insistono divergenze<br />
narrative. Eppure Rocco<br />
Marando è un pentito “attivista”.<br />
Non disdegna di accompagnare<br />
i carabinieri sul luogo di vecchi<br />
omicidi. Come quello di Francesco<br />
Mancuso (finora lupara<br />
bianca). La sua auto – una Fiat<br />
500 – venne bruciata in Val Chiusella<br />
il 1° giugno del 1997. Particolare<br />
inedito fino ad oggi. «È<br />
dunque evidente che – scrive il<br />
gip – trattandosi di informazioni<br />
estremamente riservate, solo un<br />
intraneo alla compagine criminale<br />
poteva conoscere». Rocco parla<br />
diffusamente della mattanza di<br />
Antonio e Antonino Stefanelli.<br />
Aggiunge particolari, tira in ballo<br />
altre persone, completa il puzzle<br />
di quella “Duisburg” torinese che<br />
ha visto sangue e lupare bianche<br />
per colpa di una faida familiare.<br />
Questo merito gli è riconosciuto<br />
dai giudici nell’ordinanza: «A<br />
seguito delle dichiarazioni di<br />
Rocco Marando – scrivono – sono<br />
stati raccolti numerosi riscontri<br />
individualizzanti, tanto da emettere<br />
provvedimenti di custodia<br />
cautelare nei confronti di Gaetano<br />
Napoli, Natale Trimboli, Rosario<br />
Marando, Giuseppe Perre (ha<br />
l’Alzhaimer, probabilmente non<br />
sconterà un’eventuale condanna<br />
in carcere, ndr) e Santo Giuseppe<br />
Aligi, poiché, in concorso tra<br />
loro e in concorso con Giuseppe<br />
Leuzzi e Domenico Marando –<br />
nei cui confronti si è proceduto<br />
separatamente — nonché insieme<br />
ai deceduti Pasquale Marando<br />
e Rosario Trimboli, cagionavano
Entrare a far parte della ’ndrangheta<br />
a Torino «è bello perché vedi la<br />
fratellanza, la vera fratellanza. Se<br />
vado via una settimana ad esempio,<br />
lo devo comunicare perché devono<br />
sapere che non possono contare<br />
su di me. Ci sono giuramenti che<br />
tengono valore, facciamo parte di<br />
una grande famiglia. E questo, mia<br />
cara Corinne, non ha prezzo. È<br />
bello e basta». Giacomo Lo Surdo,<br />
componente del Crimine di Torino<br />
e braccio destro di Adolfo Crea,<br />
non poteva trovare sintesi migliore<br />
per fotografare – alla sua fidanzata<br />
dell’epoca (2003) che gli chiedeva<br />
conto del perché volesse infilarsi in<br />
questo pasticcio – la mala calabrese<br />
a Torino. Una famiglia. Dalle regole<br />
ferree, dagli equilibri matematici,<br />
dall’organizzazione svizzera. Una<br />
piramide di ruoli e poteri cementata<br />
di riti ancestrali e massonici.<br />
La ’ndrangheta nel sangue. Immagini<br />
sacre, cerimonie quasi<br />
esoteriche, ma soprattutto senso<br />
di appartenenza. Chi fa parte della<br />
’ndrangheta deve tenerci. Per<br />
dirla con le parole di Bruno Iaria,<br />
capolocale di Cuorgné, «la deve<br />
sentire dentro, la deve avere nel<br />
sangue». Di contro chi lo fa per<br />
interesse viene emarginato dagli<br />
affiliati. Nicola Iervasi usa termini<br />
diretti nel dialogo del 2008 con<br />
Antonio Carrozza (entrambi affiliati<br />
al locale distaccato di Natile<br />
di Careri a Torino). A proposito di<br />
Domenico Guarneri (un affiliato<br />
tornacontista) dice: «Non è degno<br />
della dote. Perché lui lavora, guadagna<br />
lo stipendio e gli va bene<br />
così. Dell’azienda però non gliene<br />
frega niente».<br />
Sangue dunque. Forse è per questo<br />
che per entrare a far parte dell’onorata<br />
società a Torino – come in Calabria<br />
– ai due pentiti Rocco Varacalli<br />
e Rocco Marando (cfr art p.53, ndr)<br />
venne chiesta la stessa cosa: «Cosa<br />
vai cercando?». Replica: «Onore e<br />
sangue». Il sangue suggella, unisce,<br />
certifica solennemente. Un<br />
giuramento.<br />
La ’ndrangheta si divide in tre<br />
mandamenti che corrispondono<br />
ad altrettante zone della Calabria:<br />
jonica, tirrenica e centrale. Alla<br />
base dei mandamenti ci sono i locali<br />
a loro volta formati da diverse<br />
’ndrine (famiglie). In ogni locale<br />
perciò convergono affiliati facenti<br />
parte di più ’ndrine contemporaneamente.<br />
Quelli di Torino sono locali<br />
distaccati da quelli originari che si<br />
trovano in Calabria, ma rispondono<br />
in tutto e per tutto alla “mamma”.<br />
Non ci si muove senza l’assenso<br />
della ’ndrina “originaria”.<br />
Il locale. Anche la ’ndrangheta<br />
cambia. Varacalli ne traccia l’evoluzione<br />
più importante: «So che<br />
negli anni Novanta, a Torino era<br />
operativo un unico crimine, perché<br />
era un unico locale. Ne facevano<br />
parte Macrì Renato, Ursini Mario,<br />
e i Belfiore». Gli interessi – e quindi<br />
gli appetiti – sono poi aumentati. Più<br />
soldi, più famiglie. Risultato: i locali<br />
sono nove e coprono il territorio in<br />
maniera molto più capillare.<br />
La struttura del locale è rimasta<br />
invariata negli ultimi duecento<br />
anni. Ovvero: funziona a doppia<br />
compartimentazione. Ogni locale<br />
di Torino è formato dalla società<br />
maggiore e dalla società minore.<br />
La società maggiore è l’insieme<br />
degli ’ndranghetisti che possiedono<br />
almeno la dote di “santa”, ovvero le<br />
“doti” superiori al grado di sgarrista<br />
o camorrista di sgarro.<br />
In sostanza fanno parte della “società<br />
maggiore” gli affiliati che<br />
ricoprono i gradi apicali della<br />
compagine. Dettaglio: la società<br />
maggiore non dà conto delle proprie<br />
decisioni alla “minore”, viceversa<br />
“la minore” deve dare conto alla<br />
“maggiore”.<br />
A queste si accede attraverso il<br />
conferimento delle “doti” che sono<br />
ben diverse dalle “cariche” anche se<br />
in fondo proporzionali. La “dote”<br />
corrisponde al “grado” rivestito. Si<br />
acquisisce solo con il rituale avendone<br />
i requisiti e rappresenta una<br />
qualifica non temporanea. Di contro<br />
55 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
più volte nelle varie conversazioni,<br />
si coglie la possibilità di togliere o<br />
diminuire di spostare (o far girare)<br />
le cariche dall’uno all’altro affiliato<br />
o anche la possibilità che una carica<br />
passi ad altro soggetto, senza<br />
– peraltro – che si faccia allusione<br />
ad un particolare rituale per detti<br />
riconoscimenti.<br />
I locali sono attivi (aperti) quando la<br />
loro costituzione è stata autorizzata<br />
dalla ’ndrangheta. A Torino sono<br />
due (Siderno, Natile di Careri),<br />
nell’hinterland sono sei: Volpiano,<br />
Chivasso, Moncalieri, San Giusto<br />
Canavese, Cuorgnè, Rivoli. Aperto<br />
non vuol dire sempiterno. Il gip<br />
annota il racconto di un affiliato<br />
in cui si parla del caso di Rivoli:<br />
«Quando compare Giorgio (Demasi)<br />
aveva il Locale era tutto in regola.<br />
Poi si è distaccato per motivi di<br />
salute. E hanno sospeso il locale».<br />
Locale chiuso è quello che<br />
non gode dell’assenso dei vertici<br />
della ’ndrangheta. È il caso della<br />
cosiddetta “Bastarda” che opera nei<br />
comuni di Favria, Castellamonte<br />
e Rivarolo canavese. Fa capo ad<br />
Antonino Occhiuto, titolare di una<br />
ditta edile. Verso questo locale, i<br />
“torinesi” non dimostrano particolare<br />
entusiasmo. In particolare<br />
Iaria, che al telefono circoscrive la<br />
portata associativa dei “bastardi”:<br />
«Uno può dire ma tu chi sei? Non<br />
sei niente perché non ti conosco...<br />
per esempio questi Occhiuto... loro<br />
conoscono a noi che siamo... però<br />
noi a loro non li conosciamo come...<br />
(affiliati, ndr)». La Bastarda, per<br />
questa ragione, è un locale atipico<br />
che non può partecipare alle<br />
riunioni delle famiglie. In questo<br />
caso risponde direttamente al<br />
locale originario che è quello di<br />
Solano (Rc).<br />
La Società Minore. Nella società<br />
minore (e quindi nell’organizzazione<br />
vera e propria) si entra col<br />
battesimo o taglio della coda. Si<br />
diventa “picciotti”. Prima però<br />
ci sono due stadi preparatori. Il<br />
primo: “contrasto onorato”, ov-<br />
“Ce l’hai nel sangue”<br />
di G. L.<br />
Piemonte
Piemonte<br />
vero colui che, in virtù della sua<br />
affidabilità, potrebbe entrare a far<br />
parte dell’organizzazione, ma non<br />
è ancora affiliato. Il secondo è vincolato<br />
a un periodo di osservazione<br />
durante il quale si assume la dote<br />
di “giovane d’onore”, data per diritto<br />
di discendenza ai figli maschi<br />
degli appartenenti alla ’ndrangheta,<br />
dei quali si suppone la futura<br />
appartenenza nell’associazione. I<br />
picciotti sono la carica più bassa<br />
della società minore. Subito dopo<br />
ci sono il camorrista e lo sgarrista.<br />
Per i veterani sono ruoli di basso<br />
cabotaggio, per i giovani rimangono<br />
un sogno, un traguardo.<br />
Il trasporto e l’attesa di quel momento<br />
si toccano quasi con mano<br />
nel dialogo intercettato su una<br />
Punto il 24 aprile del 2008 a Volpiano.<br />
In auto ci sono Domenico<br />
Agresta, 20 anni, e Antonio Marando,<br />
19 anni (figlio di Domenico<br />
detenuto a Rebibbia), discendenti<br />
di famiglie che hanno riempito di<br />
sangue e droga la storia di Torino<br />
e dell’hinterland. Giocano a fare i<br />
boss. Sognano il giuramento per<br />
diventare sgarristi: «Quale pollice ti<br />
incidono?» chiede Agresta. Marando<br />
è preparato: «Quello sinistro».<br />
Poi affrontano la questione della<br />
“croce” del vangelista che viene<br />
incisa sulla spalla dell’affiliato<br />
«Quella ti distingue dagli sciacquini<br />
qualunque. La danno solo ai<br />
capi. A quel punto – dice Domenico<br />
– ce l’hai nel sangue».<br />
La dote dunque come riscatto sociale<br />
per differenziarsi dalla massa,<br />
per emergere nell’unica famiglia<br />
a cui i ragazzi sentono di appartenere.<br />
Che non è semplicemente<br />
quella degli affetti (padre, madre)<br />
o quella sociale (comunità, stato).<br />
È quella della ’ndrangheta. «Perché<br />
noi siamo in giro che ci sdirrupiamo<br />
(scapicolliamo, ndr) per<br />
le strade per onorare gli impegni<br />
della società, mentre altri – dice<br />
Bruno Iaria – sono a letto con le<br />
mogli. Potevamo esserci noi no?<br />
E invece abbiamo scelto questa<br />
famiglia». Il concetto è chiaro: c’è<br />
56 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
un dualismo familiare in cui le<br />
mogli e i figli vengono dopo gli<br />
interessi della società.<br />
Da questo momento scattano degli<br />
obblighi. Ed è ancora Varacalli,<br />
un’autentica miniera per la procura<br />
torinese, a ricostruirli minuziosamente:<br />
«L’affiliato deve<br />
essere a disposizione dell’onorata<br />
società; deve fornire assistenza<br />
e ospitalità agli altri affiliati, soprattutto<br />
ai latitanti, deve essere<br />
disposto a compiere per la società<br />
qualsiasi condotta, anche illecita,<br />
dall’omicidio all’estorsione, dalle<br />
aggressioni alle minacce, dai<br />
sequestri alle rapine». E ancora:<br />
deve dare contezza al picciotto<br />
di giornata dei suoi spostamenti<br />
se superiori ai tre giorni, deve<br />
ricordare la composizione della<br />
sua copiata (coloro che hanno<br />
partecipato al suo rito di affiliazione,<br />
ovvero soltanto soggetti<br />
già organici alla ’ndrangheta) e a<br />
richiesta di un affiliato deve riferirne<br />
la composizione; non deve<br />
“camminare” con “contrasti’ o<br />
con “carduni’(estranei all’onorata<br />
società), deve, in caso di discussioni,<br />
comunque dare ragione ai<br />
fratelli affiliati piuttosto che ai<br />
“contrasti”. Infine: deve rispettare<br />
tutti gli affiliati alla ’ndrangheta<br />
specie i più anziani; non deve<br />
frequentare infami e carabinieri<br />
(nel gergo ’ndranghetistico sono<br />
pressocchè equiparati), non deve<br />
dire a nessuno – neanche agli altri<br />
affiliati – di essere entrato a far parte<br />
dell’onorata società spettando la<br />
presentazione del novello accolito<br />
solo ai presenti al rito; deve formulare<br />
la domanda “conosci Zio<br />
Peppino Montalbano?” al fine di<br />
sapere se l’interlocutore sia affiliato<br />
alla ’ndrangheta e, se la risposta<br />
fosse stata “la conosco, la servo,<br />
la indosso fino all’ultimo sangue”,<br />
solo allora avrebbe avuto senso (e<br />
legittimità) averci a che fare.<br />
Fatta salva la dote, sono tre le<br />
cariche che un affiliato può rivestire<br />
nella società minore. Il<br />
capo giovani è colui che comanda<br />
e detiene la cosiddetta “mezgd’,<br />
funzione che dà la facoltà di fare<br />
da tramite tra la società minore e la<br />
società maggiore. Per effetto della<br />
mezza, il capo giovani riferisce<br />
al capo-bastone del locale. Al<br />
secondo gradino c’è il puntaiolo<br />
che è colui che vigila sul comportamento<br />
dei giovani affiliati e<br />
riferisce al capo-giovane. Infine il<br />
picciotto di giornata che annota<br />
gli spostamenti degli affiliati e le<br />
comunicazioni tra gli stessi.<br />
La Società Maggiore. Finita la<br />
scalata alla società minore si punta<br />
alla maggiore. Prima però bisogna<br />
avere “la base”. Di cosa si tratta?<br />
Nell’interrogatorio del 9 ottobre di<br />
fronte al maresciallo della prima<br />
sezione dei carabinieri di Torino,<br />
Varacalli è illuminante: «Avere la<br />
“base” nel linguaggio della ’ndrangheta<br />
vuol dire avere conseguito<br />
tutte le doti della società minore,<br />
ossia arrivare al grado di camorrista<br />
finalizzato. La persona che<br />
ha la “base” è pronta per ricevere<br />
la dote di “Santa».<br />
Eccolo il salto alla società maggiore.<br />
La Santa è il primo tassello<br />
della sovrastruttura. Anche nella<br />
“Maggiore” la scalata è lunga e<br />
ricca di livelli gerarchici. Come<br />
una piramide verticale, una pianta<br />
organica aziendale, un ordinamento<br />
religioso. Dopo la Santa,<br />
c’è “il Vangelo”. È questa una dote<br />
fondamentale per la vita dell’associazione<br />
perchè chi la detiene<br />
può battezzare una persona sia<br />
in carcere che fuori senza aver<br />
bisogno dell’autorizzazione della<br />
commissione. Traduzione: arruola<br />
affiliati, promuove picciotti, distribuisce<br />
“i fiori” (sinonimo di<br />
doti), alimenta alla base l’esercito<br />
della mafia.<br />
Il vangelista torinese passato alla<br />
storia nella lunga epopea criminale<br />
delle ’ndrine torinesi fu Pasqualino<br />
Marando, narcotrafficante di<br />
livello internazionale, scomparso<br />
dal 2001 e ora ufficialmente morto<br />
secondo le più recenti intercetta-
zioni (cfr box p.50, ndr). Non chiedeva<br />
permessi a nessuno Pasquale.<br />
Tanto da battezzare i sodali nella sua<br />
cella del carcere di Opera a Milano.<br />
«Perché lui – racconta Varacalli – fu<br />
uno dei primi a Torino ad avere il<br />
vangelo».<br />
Seguono – in ordine rigorosamente<br />
gerarchico – il trequartino e il quartino<br />
(lo era Giuseppe Gioffrè ucciso<br />
il 28 dicembre 2008 a Bovalino da<br />
due sicari delle ’ndrine), preludio<br />
alla carica massima della Maggiore:<br />
il Padrino, che Cosimo Capece (affiliato<br />
al locale di Cuorgnè) trasforma<br />
al telefono in “Quintino”. Chi ce<br />
l’ha? Rodolfo Scali e Bruno Iaria<br />
non hanno dubbi. Parlano in auto:<br />
«Quella ce l’ha compare Cosimo»<br />
(Aldo Cosimo Crea).<br />
Suo fratello invece – Adolfo – aspira<br />
ad avere la cosiddetta dote superiore<br />
(o sopradote), la punta della<br />
stella che è in mano a Giuseppe<br />
Catalano per sua stessa ammissione:<br />
«Quando me l’hanno data<br />
la croce... pensavo che se poi me<br />
la tolgono...» dice mentre viene<br />
intercettato nella lavanderia Ape<br />
Green di Siderno.<br />
Fatte salve le doti, anche nella<br />
Maggiore ci sono le cariche. Chi comanda?<br />
Il capo locale, detto anche<br />
“capo bastone”. È una figura unica,<br />
irripetibile, perché – a differenza<br />
delle altre cariche – svolge il suo<br />
mandato senza limiti temporali:<br />
salvo problemi di salute o familiari.<br />
Un’investitura vitalizia. A<br />
Torino sono Paolo Cufari, Bruno<br />
Iaria, Francesco Perre, Salvatore<br />
“Giorgio” Demasi, Natale Romeo,<br />
Giuseppe Catalano, Pasquale Trunfio<br />
e Rocco Raghiele. Il vice del<br />
capolocale si chiama”caposocietà”,<br />
che, parafrasando gli organigrammi<br />
aziendali può essere considerato<br />
alla stregua di un amministratore<br />
delegato sottoposto al presidente<br />
(capo locale). È lui che presiede la<br />
riunione della “società”.<br />
I conti economici della società maggiore<br />
li tiene il contabile che è un po’<br />
il banchiere del gruppo, mentre il<br />
controllo del territorio e il raccordo<br />
tra gli affiliati della società maggiore<br />
e minore è di esclusiva competenza<br />
del mastro di giornata.<br />
Il Crimine. Della società maggiore<br />
fa infine parte anche “Il Crimine”<br />
una sorta di sovrastruttura composta<br />
dagli affiliati che hanno la<br />
responsabilità delle azioni violente<br />
riconducibili ai locali. Decidono<br />
della vita e della morte altrui, autorizzano<br />
azioni da commando,<br />
omicidi, rapine, estorsioni. Un<br />
potere apicale, quasi illimitato.<br />
Ne fanno parte Adolfo e Cosimo<br />
Crea, Giacomo Lo Surdo, Francesco<br />
D’Onofrio. Vito Marco Candido,<br />
Giuseppe Mangone, Vincenzo Argirò,<br />
Giuseppe e Benvenuto Pratico,<br />
Fortunato Currà e Francesco<br />
D’Agostino. Giuseppe Marvelli fa<br />
da trait-d’union con il Crimine di<br />
Polsi a San Luca. I carabinieri lo<br />
scoprono ascoltando le ambientali<br />
della lavanderia di Siderno. Parlano<br />
Catalano e Commisso: «Compare<br />
Peppe, guardate che io i Crea<br />
li conosco, sentite quello che vi<br />
dico, questi sono roba del Crimine.<br />
Hanno i giovanotti e sono amici di<br />
Peppe Pelle... di Gambazza. Compare<br />
non lo so se questo l’hanno<br />
capito tutti...».<br />
I giuramenti, le promozioni, gli<br />
avanzamenti dell’onorata società<br />
calabrese avevano proprio in<br />
Giovanni Catalano il tesoriere. Di<br />
cosa? Delle formule e dei riti che<br />
i carabinieri hanno trovato a casa<br />
dell’uomo. Li custodiva in un cassetto<br />
nel comodino del letto. «Buon<br />
vespero ai santisti in questa notte<br />
di stelle...» si legge. Erano scritti in<br />
un italiano semi-letterato, su carta<br />
bianca, intestata alla ditta di costruzioni<br />
Femia, con sede a Gioiosa<br />
Jonica. Accanto c’era anche il libro<br />
Fratelli di sangue scritto dal sostituto<br />
procuratore antimafia di Reggio<br />
Calabria Nicola Gratteri: «Avevo<br />
trovato quei foglietti per caso – ha<br />
spiegato Catalano al gip – ed ero<br />
curioso di vedere se fossero uguali a<br />
quelli che aveva raccontato Gratteri<br />
nel libro». Certo, come no.<br />
57 | luglio/agosto 2011 | narcomafie<br />
la morte di Francesco Mancuso,<br />
Antonino e Antonio Stefanelli<br />
uccisi con colpi di arma da fuoco<br />
materialmente esplosi da Rosario<br />
Marando e Natale Trimboli». Con<br />
l’aggravante di aver commesso<br />
il fatto con premeditazione, per<br />
futili motivi (ovvero alfine di<br />
vendicare il precedente omicidio<br />
di Francesco Marando ucciso e<br />
bruciato nei boschi di Chianocco<br />
nel 1996) e di aver agito al fine<br />
di rafforzare il predominio sul<br />
territorio torinese e <strong>piemonte</strong>se<br />
del sodalizio criminoso facente<br />
capo alla cosca Marando. Rocco<br />
parla anche dell’omicidio dell’avvocato<br />
Antonino Lugarà ucciso a<br />
Platì nel marzo del 1999: «Era il<br />
legale di famiglia, lo ammazzarono<br />
a colpi di pistola, fu vittima<br />
di un agguato mafioso». Anche<br />
qui i riscontri gli danno ragione.<br />
Il programma di protezione che<br />
gli hanno garantito i magistrati<br />
lo costringe, per qualche tempo,<br />
a emigrare in una località segreta,<br />
distante da Volpiano. Trascorsi<br />
alcuni mesi, Rocco va incontro<br />
a qualche difficoltà. Psicologica<br />
e umana. Torna allora a casa di<br />
recente. È il momento più complesso.<br />
Qualcuno lo irride: battute<br />
per strada, sfottò sul suo ruolo di<br />
pentito degli sbirri. La rabbia è<br />
troppa e così, pochi giorni prima<br />
della fine dell’inchiesta, prende<br />
la sua Ford Ka e va a sfondare le<br />
serrande del bar “Timone”, via<br />
Caduti per la Libertà a Volpiano.<br />
Non è un locale qualunque, quello.<br />
È intestato alla moglie di Antonio<br />
Agresta. Rocco usa l’auto come un<br />
ariete. Poi scappa. I carabinieri lo<br />
troveranno nel centro di Volpiano<br />
di notte, alle due circa, mentre<br />
vaga senza meta. Lo arrestano e lo<br />
portano in una località protetta. Il<br />
giorno dopo le manette dell’operazione<br />
Minotauro saranno già ai<br />
polsi di oltre 150 affiliati.<br />
Piemonte