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Le culture politiche del pacifismo - Giulio Marcon

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LE CULTURE POLITICHE DEL PACIFISMO<br />

di<br />

<strong>Giulio</strong> <strong>Marcon</strong><br />

1.<br />

Prima degli anni '80<br />

a Tom Benetollo e Josep Palau<br />

Riflettendo sulle <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> in Italia e in Spagna (e anche in Europa) molti<br />

pensano che il salto di qualità abbia avuto origine negli anni '80 e che quegli anni -gli anni <strong>del</strong>la<br />

lotta contro gli euromissili- siano gli anni in cui il <strong>pacifismo</strong> assume una sua propria dimensione<br />

politica in discontinuità con le esperienze precedenti <strong>del</strong> movimento per la pace, esperienze -<br />

soprattutto quelle tra gli anni '50 e gli anni '60- schiacciate tra la testimonianza singola o di<br />

piccoli gruppi (sostanzialmente quelli ispirati alla nonviolenza e alla disobbedienza civile) e il<br />

variegato movimento dei “partigiani per la pace”.<br />

In realtà la dimensione politica <strong>del</strong>la azione per la pace compare in molte esperienze, certo<br />

minoritarie, ma non per questo meno importanti di quelle di massa degli anni '80. Si pensi<br />

solamente all'esperienza <strong>del</strong>la mobilitazione antinucleare (<strong>del</strong>la Campaign for Nuclear<br />

Disarmament/CND, mobilitazione solo formalmente “non politica”) in Gran Bretagna nel<br />

dopoguerra. Da Gandhi a Capitini (che parlava di nonviolenza come “aggiunta alla politica”) il<br />

valore politico <strong>del</strong>l'azione nonviolenta e per la pace non solo è riconosciuto, ma assolutamente<br />

rivendicato. In India la politica e la pratica <strong>del</strong>la nonviolenza ebbero un certo impatto sulla lotta<br />

di liberazione e gli assetti postcoloniali di quel paese. E sia in Gandhi che in Capitini (due<br />

filosofi e attivisti prettamente politici) alcuni principi fondamentali come la “noncollaborazione”<br />

e la “nonviolenza” (accanto alla “nonmenzogna”) rappresentano i capisaldi di una politica <strong>del</strong>la<br />

pace -o meglio <strong>del</strong>la nonviolenza- che poco avevano a che fare con le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong><br />

tradizionali. Proprio Aldo Capitini promuove nel 1961 la prima marcia pacifista da Perugia ad<br />

Assisi, la cui impronta politica è chiara nei suoi obiettivi e nella sua organizzazione (Capitini,<br />

2010; Gandhi 1973; Pontara, 1996).


La dimensione <strong>del</strong>la protesta pacifista americana degli anni '60 contro la guerra in Vietnam e<br />

contro le guerre coloniali ed imperialiste ha parimenti un suo forte spessore politico in evidente<br />

collegamento con quella rivoluzione antiautoritaria e libertaria che fu la caratteristica <strong>del</strong> '68<br />

americano (e degli anni precedenti) e dei primissimi passi <strong>del</strong> '68 in Italia e in Europa. Sempre il<br />

'68 (insieme a tante altre lotte per i diritti civili) fa emergere con chiarezza un movimento<br />

antimilitarista fortemente politico in Europa come negli USA, diffondendo – questo grazie,<br />

almeno in Italia, all'impegno dei radicali e dei cattolici più che <strong>del</strong>la sinistra- il fenomeno<br />

<strong>del</strong>l'obiezione di coscienza al servizio militare e alle spese militari e la pratica <strong>del</strong>la<br />

disobbedienza civile. Un antimilitarismo politico -diverso da quello <strong>del</strong>la testimonianza religiosa<br />

(come nel caso dei Testimoni di Geova)- che contesta “l'istituzione totale” <strong>del</strong>l'esercito, come in<br />

altri campi i movimenti antipsichiatrici contestano l'”istituzione totale” <strong>del</strong> manicomio e come<br />

gli studenti <strong>del</strong> '68 contestano la struttura autoritaria <strong>del</strong>la Scuola e <strong>del</strong>l'Università (<strong>Marcon</strong>,<br />

2004, Fofi 1997).<br />

Prima degli anni '80 le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> sono dunque incardinate essenzialmente<br />

sulle seguenti pratiche e filoni di pensiero:<br />

−il movimento nonviolento, antimilitarista e <strong>del</strong>la disobbedienza civile che è presente in tutto il<br />

secondo dopoguerra (con decine di piccoli gruppi ignorati sia dalla sinistra che dalle gerarchie<br />

<strong>del</strong>la Chiesa cattolica) e diventa più forte negli anni '60 e poi a cavallo <strong>del</strong> '68 (Martellini 2006);<br />

−la tradizione (quella più minoritaria, democratica e per certi versi radicale) <strong>del</strong> cattolicesimo<br />

sociale di base e <strong>del</strong>le chiese evangeliche (spesso sovrapposto all'esperienza dei movimenti<br />

nonviolenti), particolarmente forte grazie alla testimonianza e alla disobbedienza di alcuni<br />

sacerdoti (in Italia: don Milani, padre Balducci, ecc) e <strong>del</strong>le esperienze <strong>del</strong>le comunità di base e<br />

di molte minoranze religiose come i valdesi ed i quaccheri;<br />

−la tradizione di sinistra e <strong>del</strong> movimento operaio che, almeno fino agli anni '60, è<br />

sostanzialmente strumentale e subalterna alla logica dei blocchi e <strong>del</strong> bipolarismo: si veda<br />

l'esperienza dei “partigiani per la pace”: un movimento certo complesso e articolato che però<br />

rispondeva ad una logica sostanzialmente bipolare (Bobbio, 2005);<br />

−la spinta <strong>del</strong> movimento studentesco tra gli anni '60 e gli anni '70, che -abbracciando almeno<br />

in parte la cultura antimilitarista e nonviolenta- si incardina sostanzialmente sulla<br />

contestazione <strong>del</strong>la guerra in Vietnam e sulla soldarietà con i movimenti di liberazione<br />

anticoloniali ed antimperialisti.


2.<br />

Gli anni '80<br />

Con gli anni '80 irrompe il <strong>pacifismo</strong> come soggetto sociale e politico di massa (e per certi versi<br />

globale) e questo nel contesto di una particolare situazione internazionale (quella <strong>del</strong>la guerra<br />

fredda e <strong>del</strong> bipolarismo) e grazie ad una vasta percezione <strong>del</strong> rischio di una guerra nucleare. Il<br />

rischio di una guerra totale (nucleare) è alla base <strong>del</strong>lo sviluppo <strong>del</strong> forte movimento pacifista di<br />

questo periodo: la sua durata e la sua capacità di mobilitazione sono essenzialmente legate<br />

all'intensità <strong>del</strong>la percezione di questo rischio. Il movimento cresce rapidamente nella prima<br />

metà degli anni '80 e poi -una volta installati i missili- declina.<br />

Il movimento degli anni '80 rappresenta -per le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>- una sostanziale<br />

discontinuità (forse più per l'Italia e meno per la Gran Bretagna e la Germania) rispetto agli anni<br />

precedenti: permangono elementi <strong>del</strong> passato, ma emergono con forza elementi nuovi nelle<br />

<strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>. Questi ruotano sostanzialmente intorno al cambiamento <strong>del</strong>le<br />

relazioni e degli equilibri tra il ruolo <strong>del</strong>le forze <strong>politiche</strong> e sociali organizzate (partiti, sindacati,<br />

ecc) e la dinamica di movimento che crea sue soggettività, forme di rappresentanza e di<br />

organizzazione sconosciute negli anni precedenti. C'è una coabitazione -difficile, contrastata,<br />

conflittuale- tra dinamica autonoma di movimento e forme tradizionali di organizzazione politica<br />

che si può ricondurre a partiti, sindacati e grandi associazioni. <strong>Le</strong> Chiese, in molti paesi europei<br />

(in Italia solo in modesta parte, molto di più sono coinvolte invece le strutture cattoliche di<br />

base), giocano un ruolo significativo nel promuovere e sostenere questo movimento. Emerge<br />

con forza il tentativo di costruire una dimensione politicamente autonoma <strong>del</strong> movimento per la<br />

pace che nel secondo dopoguerra era stato possibile solo ai margini <strong>del</strong>le grandi <strong>culture</strong><br />

<strong>politiche</strong> <strong>del</strong> secondo dopoguerra (quella comunista e quella cattolica) per pochi ed isolati<br />

gruppi nonviolenti.<br />

Vi sono alcune significative novità nella costruzione <strong>del</strong>le <strong>culture</strong> poltiche <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> in<br />

questo periodo. Alcune riguardano le forme <strong>politiche</strong>, altre quelle organizzative. Per quanto<br />

riguarda l'aspetto politico:<br />

−un nuova idea di sicurezza fondata non sulle armi, ma sulla libertà, la democrazia, i diritti<br />

umani (tre temi che rimandano, ovviamente, alla situazione dei regimi autoritari <strong>del</strong>l'est<br />

europeo), la cooperazione e la giustizia economica e sociale (Benetollo, 1981);<br />

−la cultura, la pratica e la politica <strong>del</strong>la nonviolenza che inizia a permeare con maggiore


efficacia ed intensità vasti strati <strong>del</strong> movimento pacifista che -lo ricordiamo- in questo periodo è<br />

prevalentemente un movimento contro la guerra e per il disarmo, contro i blocchi;<br />

−la consapevolezza maggiore <strong>del</strong> rapporto pace-guerra come chiave di lettura non solo <strong>del</strong>le<br />

relazioni internazionali, ma <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo di sviluppo, <strong>del</strong> rapporto tra economia e sociatà, dei<br />

rapporti di dominio e di potere, <strong>del</strong>la disparità tra Nord e Sud <strong>del</strong> pianeta;<br />

−l'inizio di una relativa contaminazione politico-culturale attraverso l'incontro <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong><br />

con altre <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> come quelle <strong>del</strong>l'ambientalismo (proprio degli anni '80), dei<br />

movimenti <strong>del</strong>la solidarietà internazionale e dei diritti umani (<strong>del</strong>le ONG), <strong>del</strong> femminismo, <strong>del</strong><br />

volontariato sociale che nascono o si sviluppano parallelamente in quegli anni. E' qui che ha<br />

inizio l'influenza sul movimento per la pace di idee e <strong>culture</strong> (come quelle <strong>del</strong> movimento <strong>del</strong>le<br />

donne, <strong>del</strong>l'ecologismo e <strong>del</strong> volontariato internazionale), fino ad allora assenti nel <strong>pacifismo</strong><br />

(<strong>Marcon</strong> 2004). Da ricordare l'ovvio legame tra questioni <strong>del</strong> disarmo e scienza e tecnologia<br />

(determinanti per la costruzione di nuovi armi sempre più sofisticate e distruttive): in questi<br />

anni nascono nuove organizzazioni di scienziati e ricercatori che si impegnano per il disarmo,<br />

alcune di queste ricollegandosi al movimento Pugwash.<br />

Per quanto riguarda l'aspetto organizzativo, due sembrano gli elementi di novità che emergono<br />

dal movimento per la pace:<br />

−lo sviluppo di modalità di mobilitazione a rete e la costruzione di sedi organizzative<br />

autonome (alle quali partecipano, certamente, anche le organizzazioni tradizionali) come<br />

espressione di questa dinamica e soggettività nuove: in Italia nascono i comitati ed i<br />

coordinamenti dei comitati per la pace a livello locale, regionale e nazionale; ma questo<br />

processo è abbastanza estendibile a tutto il continente europeo;<br />

−l'avvio <strong>del</strong>la costruzione di un percorso associativo autonomo che rispetto al passato<br />

(esperienze, comunque significative, come quelle di tanti piccoli gruppi <strong>del</strong>la galassia <strong>del</strong><br />

movimento nonviolento, <strong>del</strong>l'International Fellowship of Reconciliation, <strong>del</strong> Service Civil<br />

International ecc.) acquista una nuova e particolare valenza, quella di rendere impossibile il<br />

ritorno <strong>del</strong> collateralismo e <strong>del</strong>l'egemonismo <strong>del</strong>le forze <strong>politiche</strong> organizzate: in Italia nascono<br />

negli anni '80 la sezione di Pax Christi, I Beati i Costruttori di Pace, la <strong>Le</strong>gambiente, e<br />

l'esperienza dei comitati per la pace porta alla nascita <strong>del</strong>l'Associazione per la pace, (Castellina,<br />

1998), ecc.<br />

E' un <strong>pacifismo</strong> che produce una sua cultura politica, <strong>del</strong>le sue autonome ed originali forme<br />

organizzative e di coordinamento, dei suoi leader, anche a livello internazionale. L'esperienza


<strong>del</strong>la END 1 ne è testimonianza. E' un movimento che costringe partiti e politica a confrontarsi<br />

con soggettività nuove nella società civile, autonome e irriducibili ai vecchi collateralismi. I<br />

movimenti pacifisti degli anni '80 sono in qualche modo il sintomo di una febbre che sta<br />

colpendo l'assetto bipolare e che porterà con la caduta <strong>del</strong> muro di Berlino alla diffusione <strong>del</strong>la<br />

democrazia e dei diritti umani.<br />

E' certamente, oltre ad essere un movimento contro i blocchi, un “movimento contro la guerra”<br />

più che un “movimento per la pace”. E' un movimento che -in alcune sue parti- è ancora<br />

condizionato da una vena ideologica antiamericana e antimperialista. E' un movimento che<br />

ancora non è capace di assorbire l'esperienza, gli insegnamenti e le pratiche <strong>del</strong>la nonviolenza:<br />

Gandhi, Capitini, la marcia Perugia Assisi, le pratiche <strong>del</strong>la disobbedienza civile sono ancora<br />

negli anni '80 – nonostante le evocazioni ed i richiami più o meno formali- sostanzialmente<br />

sullo sfondo <strong>del</strong>le mobilitazioni. 2<br />

Nella considerazione <strong>del</strong>le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> in questo periodo, non può non<br />

essere considerato con specifico rilievo il tema <strong>del</strong> rapporto tra <strong>pacifismo</strong> ed ambientalismo. E<br />

questo per due motivi. In primo luogo, perchè il movimento ambientalista si definisce in molti<br />

paesi e tante sue parti come movimento “ecopacifista”; si pensi solo alla Germania. Non è solo<br />

il tema <strong>del</strong> nucleare (contro il nucleare “civile e militare”) ad unire, ma la considerazione <strong>del</strong>la<br />

guerra atomica come il più grave pericolo di distruzione totale di un pianeta che deve essere<br />

salvato. In secondo luogo, a differenza <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>, una parte <strong>del</strong>l'ecologismo degli anni '80<br />

diventa forza politica, partito. Sarebbe il caso -in altra occasione- di approfondire le ragioni<br />

<strong>del</strong>la stessa mancata trasformazione <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> in movimento politico tout court.<br />

L'ambientalismo, più <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>, sembra capace in questi anni di produrre -e con un grado<br />

molto più alto di autonomia dalle tradizionali forze organizzate- una propria identità e<br />

soggettività politica, una sua forza attrattiva perdurante sul lungo periodo verso l'opinione<br />

pubblica, capace di far permanere la propria iniziativa politica nel tempo, al contrario di un<br />

<strong>pacifismo</strong> che sembra troppo legato ad una dimensione emergenziale: l'installazione degli<br />

euromissili e il rischio di una guerra nucleare.<br />

1 <strong>Le</strong> convenzioni <strong>del</strong>la European Nuclear Disarmament (END) si tengono dal 1982 al 1991 in diversi paesi europei.<br />

Un appello per il disarmo nucleare europeo ( elaborato da M. Kaldor, E.P. Thompson, K. Coates, D. Smith) era stato<br />

lanciato nel 1980, dopo la decisione <strong>del</strong> 1979 <strong>del</strong>la NATO di installare i missili nucleari Pershing e Cruise in<br />

Europa. <strong>Le</strong> convenzioni -che si tennero durante l'estate- rappresentarono il punto di raccolta e di incontro <strong>del</strong><br />

movimento di massa antinucleare europeo.<br />

2 Con alcune importanti eccezioni come le azioni nonviolente e le manifestazioni di protesta nei pressi dei siti dove si<br />

sarebbero dovuti installare i Cruise ed i Perhing.


3.<br />

Tra gli anni '80 e gli anni '90<br />

La cultura pacifista dopo gli anni '80 si evolve dovendo confrontarsi con alcuni cambiamenti<br />

fondamentali nelle relazioni internazionali e nel pianeta: la fine <strong>del</strong>la guerra fredda ed il<br />

passaggio dal bipolarismo ad un unipolarismo più o meno esplicito, l'emergere <strong>del</strong>la<br />

globalizzazione neoliberista, la dimensione etnica, fratricida ed interna <strong>del</strong>le guerre di questo<br />

decennio. <strong>Le</strong> categorie degli anni '80 non funzionano più. E non funzionano più alcune forme e<br />

approcci <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> come il “disarmismo”, la sola identità “antiguerra”, l'unilateralismo antiimperialista<br />

e anti-americano, la lettura <strong>del</strong>le relazioni internazionali guidata da chiavi<br />

interpretative ideologiche. Il <strong>pacifismo</strong> sembra paradossalmente orfano di quel bipolarismo e di<br />

quella guerra fredda contro cui aveva combattuto negli anni precedenti. E' un problema questo<br />

che riguarda non solo il <strong>pacifismo</strong>, ma anche la politica, i governi, le istituzioni internazionali. I<br />

nuovi assetti in costruzione sono complessi e di difficile decifrazione. Sembra -in una stagione<br />

che sembra di speranza e di realizzazione dei “dividendi di pace”- che il processo di disarmo<br />

possa svilupparsi -come quello <strong>del</strong>la democratizzazione nell'Europa <strong>del</strong>l'est- ma dentro molte<br />

contraddizioni. Globalizzazione e neoliberismo da una parte, costruzione di un nuovo<br />

unipolarismo dall'altra scompaginano le relazioni internazionali, aprono “vasi di pandora” in<br />

tante periferie <strong>del</strong> mondo, rimettono in discussione rapporti di potere consolidati (<strong>Marcon</strong>,<br />

Pianta 2001). <strong>Le</strong> speranze vengono contraddette -appena dopo pochi mesi dal 1989- da due<br />

eventi paradigmatici <strong>del</strong>le relazioni internazionali e <strong>del</strong>le guerre degli anni a venire: l'intervento<br />

armato occidentale contro l'Iraq (1991) e l'inizio <strong>del</strong>le guerre Jugoslave in Europa (1991).<br />

Vi sono in particolare tre aspetti principali con cui confrontarsi:<br />

−la nuova situazione che si è costituita nell'Europa <strong>del</strong>l'est dopo la caduta <strong>del</strong> muro di Berlino:<br />

i processi di democratizzazione si intrecciano con quelli autoritari, l'autodeterminazione dei<br />

popoli con la crescita <strong>del</strong> nazionalismi, la nascita <strong>del</strong>la società civile con lo sciovinismo<br />

populista e xenofobo;<br />

−lo scoppio di nuove guerre etniche e nazionaliste, e non solo nel'est europeo 3 : infatti fine <strong>del</strong><br />

bipolarismo, globalizzazione e <strong>politiche</strong> neoliberiste contribuiscono a portare alla luce conflitti<br />

3 <strong>Le</strong> guerre “interne” più drammatiche degli anni Novanta sono state il conflitto jugoslavo (1991-1999), la guerra in<br />

Ruanda (1994) e quella in Somalia (1992-3).


mai risolti, costruzioni nazionali precarie, dinamiche di esclusione ed inclusione che usano la<br />

cifra etnica per nascondere la vera posta in gioco: potere, accesso alle ricchezze, controllo <strong>del</strong>le<br />

materie prime (Kaldor 1999) 4 ;<br />

−l'assenza per tutto un decennio di un nuovo chiaro equilibrio post- bipolare: gli anni '90<br />

inziano con la guerra in Iraq (prodromo di un nuovo unipolarismo) ma anche con l'Agenda per la<br />

pace di Boutrous Ghali (la speranza di un molto multipolare e con un ruolo prevalente <strong>del</strong>le<br />

organizzazioni internazionali 5 ) e si concludono con la guerra umanitaria in Kosovo (la conferma<br />

definitiva <strong>del</strong>l'unipolarismo e <strong>del</strong> nuovo ruolo dominante <strong>del</strong>la NATO).<br />

Per quanto riguarda noi europei la guerra in ex Jugoslavia è stata un aspetto chiave<br />

<strong>del</strong>'esperienza pacifista e <strong>del</strong>la maturazione di una nuova cultura politica (<strong>Marcon</strong> 2010). Non<br />

solo perchè ci si è confrontati con una guerra -etnica, nazionale, civile, fratricida, di<br />

aggressione- così difficile e complessa. Ma è stata la prima guerra europea, dopo il 1945; è<br />

durata un decennio ed è stata -per usare un'espressione <strong>del</strong>lo scrittore italiano Luca Rastellouna<br />

“guerra in casa” (Rastello 1998): decine di migliaia di europei -portando aiuti,<br />

promuovendo relazioni tra le comunità, organizzando manifestazioni, accogliendo I profughihanno<br />

“abitato” quella guerra, dal di dentro. Tutto questo ha aiutato, in un certo modo, a<br />

cambiare la percezione, il vissuto, il modo -meno semplicistico, dogmatico, astratto- dei<br />

pacifisti di rapportarsi con la realtà <strong>del</strong>la guerra. La guerra nucleare era una guerra possibile,<br />

quella in Iraq era una guerra lontana, quella in Jugoslavia era, per l'appunto, una “guerra in<br />

casa”.<br />

Di fronte a quella guerra il <strong>pacifismo</strong> europeo -con alcune importanti eccezioni: tra queste<br />

sicuramente una parte <strong>del</strong>l'HCA 6 , una parte <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> italiano e anche quello spagnolo<br />

(Palau 1996)- arrivò in ritardo, sottovalutò e non comprese quello che stava succedendo. Allora<br />

Alex Langer stigmatizzò di fronte alla guerra in Jugoslavia sia il cosiddetto <strong>pacifismo</strong> tifoso (che<br />

ha sempre bisogno di un nemico per scendere in piazza) sia quello dogmatico (ancorato ai suoi<br />

4 “ Il decennio ha registrato 56 conflitti gravi (major armed conflicts) di cui solo tre hanno coinvolo degli Stati (Iraq-<br />

Kuwait, Etiopia-Eritrea, India- Pakistan), mentre tutti gli altri sono stati conflitti interni (nazionali, etnici, ecc). <strong>Le</strong><br />

guerre di questo decennio, inoltre, anno visto crescere sensibilmente il numero di vittime civili (oltre il 90% <strong>del</strong><br />

totale), e di rifugiati e sfollati, che alla fine degli anni Novanta hanno raggiunto la soglia di 50 milioni. Questi<br />

conflitti sono stati prevalentemente combattuti da eserciti privati, bande irregolari, gruppi etnici e nazionalistici, che<br />

hanno generato una prolungata e drammatica pressione sulle comunità”. (<strong>Marcon</strong>, 2005)<br />

5 L'Agenda per la pace aveva ingenerato molte speranze nelle organizzazioni pacfiste: si erano create le aspettative -<br />

nel contesto <strong>del</strong> crollo <strong>del</strong> bipolarismo, non rimpiazzato a quel momento da nessun altro equilibrio internazionale-<br />

di una rapida ed incisiva riforma <strong>del</strong> sistema <strong>del</strong>le Nazioni Unite.<br />

6 La Helsinki Cititens Assembly (HCA) è stata sicuramente una <strong>del</strong>le esperienze più interessanti degli anni '90: luogo<br />

di incontro tra esperienze pacifiste, organizzazioni civiche dei cittadini, gruppi e associazioni per la promozione dei<br />

diritti umani <strong>del</strong>l'est e <strong>del</strong>l'ovest. Nata nel 1990 ha organizzato importanti conferenze internazionali a Bratislava<br />

(1991), Ohrid in Macedonia (1993) e a Tuzla in Bosnia Herzegovina (1995).


sacri principi) per sottolineare l'importanza di quel <strong>pacifismo</strong> concreto che lui tanto apprezzava<br />

(Langer 2010). E qui c'è un primo elemento di una nuova cultura politica <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> degli anni<br />

'90: quella costruita intorno al legame con le pratiche <strong>del</strong>la solidarietà concreta, <strong>del</strong>la<br />

diplomazia dal basso, <strong>del</strong>la nonviolenza attiva che così tanto era stata praticata dal movimento<br />

per la pace in ex Jugoslavia (<strong>Marcon</strong> 2000).<br />

In questo contesto cinque sembrano le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> -che ovviamente si intrecciano, non<br />

vanno mai considerate <strong>del</strong> tutto separarate- che sono prevalenti in questo periodo:<br />

−la prima, appena ricordata- è quella di un <strong>pacifismo</strong> concreto che ha nutrito una parte<br />

importante <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> europeo degli anni '90: diplomazia dal basso, volontariato e aiuto<br />

umanitario, difesa dei diritti umani, riconciliazione sono alcune <strong>del</strong>le coordinate attorino alle<br />

quali si è costruita questa esperienza; si pensi alle esperienze in ex Jugoslavia, ma anche in<br />

Palestina (si guardi alla straordinaria esperienza di Time for Peace nel 1989-1990) ed in altri<br />

scenari e conflitti di quegli anni (Langer 2010, <strong>Marcon</strong> 2004). Naturalmente va ricordato che la<br />

dimensione umanitaria dei conflitti fu utilizzata anche da chi volle legittimare la guerra “in nome<br />

dei diritti umani” e di un nuovo “umanitarismo militare” (Chomsky 1999) 7 ;<br />

−la seconda è quella di un <strong>pacifismo</strong> <strong>del</strong>l'ordine democratico internazionale che si è<br />

concentrato sul tema <strong>del</strong>la democrazia internazionale, <strong>del</strong>la riforma e <strong>del</strong> ruolo <strong>del</strong>le Nazioni<br />

Unite, <strong>del</strong>la promozione dei diritti umani, di una visione politico-istituzionale <strong>del</strong>la promozione<br />

<strong>del</strong>la pace a livello planetario; si pensi alla esperienza internazionale <strong>del</strong>la Campaign for a more<br />

Democratic United Nations (CADMUN) 8 e <strong>del</strong>la Tavola <strong>del</strong>la Pace e <strong>del</strong>l'Onu dei popoli in Italia.<br />

Iniziative che hanno avuto il merito di affrontare un tema importante come quello <strong>del</strong> vuoto<br />

istituzionale internazionale dopo la fine <strong>del</strong>la guerra fredda (Lotti, Giandomenico 1996) 9 ;<br />

Come variante modesta e minoritaria di queste prime due tendenze, va registrata l'esistenza di<br />

alcune forme di <strong>pacifismo</strong> interventista. Di fronte a conflitti come quelli <strong>del</strong>la ex Jugoslavia o <strong>del</strong><br />

7 L'umanitarismo militare è diventato una costante dei conflitti <strong>del</strong>l'ultimo decennio. La nuova dottrina ha avuto il suo<br />

banco di prova con la guerra umanitaria in Kosovo e poi ha trovato altre applicazioni in Afganistan e in Iraq. La<br />

NATO, a partire dall'Afganistan, ha teorizzato la cosiddetta CIMIC (Civil-Military Cooperation) allo scopo di far<br />

interagire intervento militare ed aiuto umanitario, cooptando ONG ed organizzazioni <strong>del</strong>la società civile nella<br />

strategia <strong>del</strong>l'intervento armato. La NATO ha creato nell'Europa meridionale anche una sede di addestramento e<br />

coordinamento <strong>del</strong>la CIMIC che si trova a S. Motta di Livenza (Italia).<br />

8 Altre campagne internazionali su questi temi: l'Action for UN renewal (ARC) ed il World civil society forum.<br />

9 Da evidenziare che nell'ambito di questo filone è prosperato un ambito di <strong>pacifismo</strong> giuridico che si è impegnato ad<br />

usare lo strumento <strong>del</strong> diritto internazionale -nel contesto <strong>del</strong> rispetto dei diritti umani- dei trattati e dei protocolli<br />

internazionali per promuovere la pace ed i diritti umani. In particolare possono essere messi, tra i risultati di questo<br />

tipo di approccio, l'istituzione dei tribunali internazionali per giudicare i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (1993)<br />

ed in Ruanda (1994) nonchè l'istituzione <strong>del</strong>la Corte Penale Internazionale, il cui statuto è stato varato nel 1998,<br />

anche se solo nel 2002 la Corte (dopo la ratifica degli Stati) ha iniziato ad operare.


Ruanda, questo si fece portavoce <strong>del</strong>la richiesta <strong>del</strong>l'uso <strong>del</strong>la forza, per porre fine a queste<br />

drammatiche guerre. L'uso, la legittimità e i vincoli <strong>del</strong>l'intervento militare sono stati comunque<br />

temi presenti -in modo sofferto- nel dibattito <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> in questi anni (Langer 2010).<br />

−la terza è quella (in continuità con il passato) di un <strong>pacifismo</strong> <strong>del</strong> disarmo e <strong>del</strong>la sicurezza<br />

umana che -anche in collegamento con molte iniziative e a campagne internazionali 10 - ha<br />

privilegiato l'azione per il disarmo: la campagna contro le mine, contro le armi leggere, contro i<br />

bambini-soldato, ecc. Anche in questo caso queste iniziative hanno avuto il merito di costruire<br />

network globali e di tenere aperto un problema (quello <strong>del</strong> disarmo) che dopo l'89 sembrava<br />

essere stato rimosso (Manzocchi 1992; Venti di pace 1991)<br />

−la quarta è quella (anche questa in continuità con il passato) di un <strong>pacifismo</strong> nonviolento,<br />

legato alla promozione <strong>del</strong>le pratiche al basso <strong>del</strong>la obiezione di coscienza e <strong>del</strong>la<br />

disobbedienza civile, <strong>del</strong>la cultura e <strong>del</strong>l'educazione alla pace: pratiche che talvolta -come nel<br />

caso <strong>del</strong>la ex Jugoslava- si confrontano con interventi come l'interposizione e l'azione diretta;<br />

−infine è continuato (come negli anni precedenti) ad esistere un <strong>pacifismo</strong> ideologico, antiimperialista<br />

ed unilaterale che ha continuato ad avere una sua forza e a leggere ogni conflitto<br />

in chiave amico-nemico e a cercare nella dinamica pace e guerra sempre e unicamente quel tipo<br />

di responsabilità e di cause.<br />

Tutti e questi cinque approcci hanno avuto una dimensione ed una declinazione politica. Si è<br />

trattato dunque di un decennio importante dove queste diverse <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> si sono evolute<br />

e molto spesso intrecciate, dando vita ad una cultura politica <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> complessa e<br />

differenziata, spesso contaminata anche con esperienze di altri movimenti.<br />

4.<br />

E fino ad oggi<br />

L'11 settembre <strong>del</strong> 2001 e la successiva “guerra permanente” o “infinita” hanno aperto un<br />

nuovo scenario internazionale, ma hanno cambiato solo in parte le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> consolidate<br />

<strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>. Si è trattato di una grande discontinuità nell'ambito <strong>del</strong>le relazioni internazionali<br />

e <strong>del</strong>l'equilibrio mondiale. Dopo la guerra USA in Afganistan, la minaccia di una nuova guerra<br />

10 <strong>Le</strong> campagna internazionali più importanti in questo decennio sono: l'International campaign to ban landmines<br />

(ICBL), vincitrice <strong>del</strong> premio nobel per la pace nel 1997, la campagna International action network on small arms<br />

(IANSA), la Coalition to stop the use of child soldiers. Da ricordare anche l'iniziativa <strong>del</strong>l'Hague appeal for peace<br />

(1999). Nel decennio successivo si è sviluppata l'importante campagna contro il commercio di armamenti:<br />

Controlarms.


contro l'Iraq ha provocato la più grande mobilitazione contro la guerra realizzata, dal 1945 ad<br />

oggi. Tanto che il New York Times ha evocato per questo movimento dopo lle manifestazioni per<br />

la pace <strong>del</strong> 15 febbraio 2003 in tutto il mondo l'appellativo di “seconda superpotenza<br />

mondiale” 11 . Questi eventi hanno comportato nel movimento per la pace uno scarto nella<br />

consapevolezza, la dimensione <strong>del</strong>le sfide e la complessità <strong>del</strong>la propria azione in un contesto<br />

così drammatico 12 . La guerra in Iraq ha rappresentato un nuovo spartiacque per il <strong>pacifismo</strong><br />

europeo e mondiale, un salto di qualità nell'imposizione <strong>del</strong>la guerra come uno strumento <strong>del</strong>la<br />

politica estera, ma anche <strong>del</strong>l'opposizione <strong>del</strong>la società civile alle logiche militari e belliche.<br />

Questa riduzione <strong>del</strong>la guerra a strumento <strong>del</strong>la politica estera ha rappresentato una <strong>del</strong>le più<br />

preoccupanti derive <strong>politiche</strong> <strong>del</strong>l'azione dei governi occidentali, a partire dagli anni Novanta:<br />

l'interventismo armato ha rappresentato nella politica estera americana di questi anni uno dei<br />

tratti caratteristici <strong>del</strong>la costruzione <strong>del</strong> suo dominio geopolitico ed economico. Per un<br />

cambiamento significativo di questa impostazione aggressiva e interventista bisognerà<br />

attendere l'elezione di Obama.<br />

In ogni caso le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> che si sono sviluppate, o sono apparse per la prima volta negli<br />

anni '90, hanno continuato in qualche modo a consolidarsi e a seguire una traiettoria culturale<br />

e pratica abbastanza coerente. Il <strong>pacifismo</strong> umanitario e concreto ha continuato la sua azione<br />

nelle aree di conflitto e si è sempre di più collegato con molte esperienze di solidarietà<br />

internazionale; quello politico-istituzionale ha rafforzato la sua capacità di intervenire nel<br />

merito e con competenza sulle questioni <strong>del</strong>la democrazia e <strong>del</strong>le istituzioni internazionali; il<br />

<strong>pacifismo</strong> nonviolento ha accresciuto la sua diffusione -anche in termini pedagogici ed<br />

educativi, pensiamo all'intervento nelle scuole- tra la società; l'azione di un <strong>pacifismo</strong> per il<br />

disarmo è sempre più necessaria di fronte alla crescita <strong>del</strong>la spesa per armamenti e <strong>del</strong><br />

commercio <strong>del</strong>le armi e continua a permanere un <strong>pacifismo</strong> ideologico, dogmatico, unilaterale,<br />

tendenza che -ovviamente- la “guerra permanente” non aiuta a indebolire.<br />

La vera novità –a parte quella così decisiva <strong>del</strong>la “guerra permanente” e di un così ormai<br />

schiacciante unipolarismo americano- è la congiunzione che si è verificata, a partire dal 2001,<br />

tra movimenti pacifisti e movimenti sociali globali (Pianta, 2001). I forum sociali -da Porto<br />

Alegre- in poi hanno costruito un importante laboratorio <strong>del</strong>la costruzione di questa “alleanza”.<br />

C'è stata, anche in questo caso, una contaminazione che in qualche modo testimonia lo<br />

11 Patrick E. Tyler, A New Power in the Streets, New York Times, 17/02/2003.<br />

12 Movimenti, gruppi e coordinamenti pacifisti sono sorti in tutto il mondo per cercare di fermare l'intervento<br />

americano in Iraq nel 2003. Va ricordata l'importanza <strong>del</strong>la mobilitazione degli Stati Uniti dove sono state attive<br />

organizzazioni come l'United for Peace & Justice (oltre 1300 gruppi pacifisti di base), Peaceful Tomorrows<br />

(organizzazione <strong>del</strong>le vittime <strong>del</strong>l'11 settembre) e Democracy Now!


strutturale carattere magmatico, permeabile, mobile di una cultura politica pacifista che riesce<br />

in alcuni frangenti (nelle emergenze di fronte a conflitti e guerre imminenti) a costruire sul tema<br />

pace-guerra una mobilitazione più larga di quella dei propri confini, salvo poi non riuscire a<br />

continuare a gestire in un progetto di più lungo periodo un'iniziativa politica estesa a tutte le<br />

componenti sociali.<br />

Questa contaminazione con le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> dei movimenti sociali globali è servita ad<br />

arricchire le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> su una serie di aspetti (la natura <strong>del</strong> neoliberismo e<br />

<strong>del</strong>le relazioni economiche globali, <strong>del</strong>le dinamiche <strong>del</strong> potere <strong>del</strong> dominio, <strong>del</strong>le origini <strong>del</strong>le<br />

guerre e dei conflitti) che in qualche modo ha reso il <strong>pacifismo</strong> più pronto ed attento ad<br />

affrontare le nuove sfide globali, i conflitti e le evidenti contraddizioni <strong>del</strong>le attuali relazioni<br />

internazionali.<br />

Quanto invece il <strong>pacifismo</strong> abbia condizionato ed attraversato le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> dei partiti, dei<br />

governi e <strong>del</strong>le istituzioni è un tema da sviluppare in altra sede: ovviamente ci sono luci ed<br />

ombre, passi in avanti fatti e resistenze insormontabili. E' interessante notare come nessuna<br />

forza politica ha assunto un profilo autenticamente pacifista. Quello che a noi interessa però in<br />

questo caso è quanto da questa “lunga marcia <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>” nelle istituzioni le <strong>culture</strong><br />

<strong>politiche</strong> abbiamo tratto in termini di accresciuta consapevolezza <strong>del</strong>la complessità <strong>del</strong>la<br />

costruzione di <strong>politiche</strong> <strong>del</strong>la pace dentro i vincoli <strong>del</strong> sistema internazionale e di norme,<br />

disposizioni amministrative, risorse da impiegare, vincoli istituzionali. La sfida di compenetrare<br />

un <strong>pacifismo</strong> che nasce dalla società con quello che si può sviluppare nelle istituzioni è molto<br />

importante.<br />

La valutazione <strong>del</strong>l'impatto <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong>, in questo contesto, è di complessa declinazione. Da<br />

una parte quasi nessuna guerra è stata impedita o fermata grazie alla mobilitazione <strong>del</strong><br />

<strong>pacifismo</strong>, d'altro canto la fine <strong>del</strong> bipolarismo (e l'avvio <strong>del</strong> processo <strong>del</strong> disarmo nucleare,<br />

anche grazioe all'associazione <strong>del</strong> movimento pacifista) negli anni '90 può essere in qualche<br />

modo ricondotta ad una crescita <strong>del</strong>la società civile e <strong>del</strong>la cultura democratica e dei diritti<br />

umani che ha minato le fondamenta <strong>del</strong>la guerra fredda. A livello internazionale alcune<br />

iniziative pacifiste o riconducibili al movimento per i diritti umani hanno portato a risultati<br />

concreti quali la firma di alcuni trattati internazionali come quelli sulle mine antiuomo e sulle<br />

armi nucleari o, a livello giuridico. l'istituzione <strong>del</strong>la Corte penale internazionale e dei tribunali<br />

internazionali per la ex Jugoslavia ed il Ruanda (mentre meno risultati hanno dato l'azione e le<br />

campagne per la riforma <strong>del</strong>le Nazioni Unite). Un ruolo specifico l'ha avuto il “<strong>pacifismo</strong><br />

concreto” che con la sua azione umanitaria ha avuto il merito di salvare molte vittime e di


arginare le forme più estreme di guerra etnica in vari conflitti locali. L'azione umanitaria nelle<br />

guerre si è molto diffusa a partire dai conflitti degli anni Novanta. Più difficile definire l'impatto<br />

<strong>del</strong> movimento per la pace su temi come la cultura, la comunicazione e l'educazione. E'<br />

indubbio, però, che negli ultimi vent'anni la cultura <strong>del</strong>la pace, <strong>del</strong>la democrazia e dei diritti<br />

umani è enormemente cresciuta ed è diventata patrimonio di sempre più vasti settori <strong>del</strong>le<br />

nostre comunità.<br />

Il carattere composito e nello stesso tempo sovrapposto, <strong>del</strong>le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> si<br />

è evoluto nel corso degli anni grazie ad una contaminazione sempre maggiore tra le varie<br />

ispirazioni, evidenziando però una strutturale difficoltà nel fare massa critica e nell'esprimere<br />

una soggettività politica comune forte. La debolezza <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> -nei momenti di scarsa<br />

mobilitazione- sembra più evidente che per altri movimenti sociali: questo forse perchè la<br />

dimensione <strong>del</strong>la protesta contro la guerra sembra avere (ed è naturale che sia così) una<br />

capacità di coagulazione molto più forte <strong>del</strong>la “pace positiva” nella quotidianità <strong>del</strong>l'azione<br />

sociale collettiva. Il <strong>pacifismo</strong> continua ad essere un movimento che riemerge nei momenti di<br />

frattura e di rottura <strong>del</strong>l'ordine dato (conflitti, tensioni internazionali, eccetera), ma che rimane<br />

sotterraneo (nel bene e nel male) di fronte alla stabilità <strong>del</strong>le condizioni di dominio o di<br />

equilibrio interno ed internazionale. Sembra si riproponga qui un problema relativo alla<br />

capacità <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> di darsi una “politica <strong>del</strong>la nonviolenza”. Questa ha a che vedere non<br />

solo con i contenuti <strong>del</strong>la “politica <strong>del</strong>la pace”, ma anche con le forme (il rapporto mezzi-fini è<br />

centrale per il <strong>pacifismo</strong>) <strong>del</strong>l'azione <strong>del</strong> movimento: nonviolenza attiva, azioni dirette,<br />

disobbedienza civile, noncollaborazione, obiezione di coscienza, ecc. Si tratta di forme e<br />

modalità che permettono alla “politica <strong>del</strong>la nonviolenza” di superare quella concezione<br />

militarizzata e violenta <strong>del</strong>la politica – fondata sulla dialettica amico/nemico- che è la<br />

caratteristica di gran parte <strong>del</strong>l'azione collettiva <strong>del</strong> Novecento e <strong>del</strong>la “guerra come<br />

continuazione <strong>del</strong>la politica con altri mezzi”. Solo in questo modo il <strong>pacifismo</strong> può costruire un<br />

terreno di pratica politica (e di cultura politica) sottratta alle forme <strong>politiche</strong> tradizionali, che<br />

inevitabilmente possono produrre processi di adattamento all'esistente ed in definitiva alla<br />

realpolitik o anche solamente di mediazione su principi e valori (come quelli <strong>del</strong> rifiuto <strong>del</strong>la<br />

guerra) irriducibili ad ogni declinazione opportunistica. Infine la cultura <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> soffre<br />

ancora troppo la sua dipendenza da quello a cui si oppone (la guerra, il riarmo) e la sua<br />

incapacità di declinare una “nonviolenza attiva” (come ci insegnavano Gandhi e Capitini) come<br />

costruzione positiva <strong>del</strong>la pace. La nonviolenza come aggiunta alla politica, diceva Capitini. E'<br />

questo uno dei punti su cui le <strong>culture</strong> <strong>politiche</strong> <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> devono continuare ad interrogarsi.


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CAPITOLO I<br />

I PACIFISTI E GORBACIOV. IL GIORNO DEL GOLPE<br />

Quando ci svegliamo la mattina <strong>del</strong> golpe a Mosca, lunedì 19 agosto, all’ex Ostello <strong>del</strong><br />

Komsomol (il refettorio <strong>del</strong>l'organizzazione giovanile comunista dove è ospite la <strong>del</strong>egazione<br />

pacifista italiana: siamo quasi un centinaio) nella Ulitza Kibalchicha -un po' in periferia ad una<br />

mezzora dal centro <strong>del</strong>la città- il custode <strong>del</strong>la struttura ha l’orecchio attaccato ad una radiolina<br />

che gracchia secche frasi, alcune mozze, seguite da brani di musica classica. Beviamo un caffè<br />

in una stanza dalle pareti scrostate e con un quadro di Gorbaciov un po' pendente a destra. Il<br />

custode cerca di sintonizzare meglio la radio su una frequenza disturbata da fruscii e scrocchi.<br />

La musica finisce, il concerto di Haydn viene bruscamente interrotto e sostituito da frasi che<br />

sembrano quelle di un comunicato stampa o di un annuncio funebre. Il custode, l'inglese non lo<br />

parla (nei giorni scorsi solo grandi sorrisi e carasciò, carasciò); e scuote solo la testa pensieroso<br />

mentre, invece di guardare noi fissa il vecchio transistor ed in particolare la striscia nera dei<br />

numeri e <strong>del</strong>le frequenze. Riprende la musica di pianoforti e violini che si rincorrono con la<br />

leggerezza di un ballo in maschera. Ci tranquillizziamo. Forse non è morto nessuno, non è<br />

successo niente.<br />

Passano due inservienti; sono due donne addette alle pulizie che procedono silenziose con dei<br />

pacchi di lenzuola tra le braccia. Da loro non riusciamo a sapere niente: filano via e non si<br />

fermano alle nostre voci. Dal custode quello che riusciamo ad ottenere è solo uno sbruffo<br />

incomprensibile e un cenno al quadro di Gorbaciov appeso in portineria. Il saluto appena<br />

accennato e poi di nuovo ingobbito ad armeggiare sulla manopola <strong>del</strong>la vecchia radio per<br />

azzeccare la frequenza meno disturbata. Cerchiamo di prendere un taxi: dobbiamo andare alla<br />

Piazza Rossa. Alcuni non si fermano ai nostri richiami, eppure sono vuoti. Proseguono diritti;<br />

sembra anche che scorgendoci, accelerino. E' solo un'impressione. Che siamo occidentali lo si<br />

vede a un chilometro di distanza. Di solito sono loro ad accostarsi senza richiesta e a chiederti<br />

se hai bisogno di un passaggio. Uno riusciamo a fermarlo, si accosta un po' bruscamente; il<br />

tassista ha il berretto alla <strong>Le</strong>nin e ci guarda un po' di sbieco: Krasnaja Ploscad gli chiediamo<br />

mentre gli mettiamo sotto gli occhi una piantina spiegazzata. Fa ampi gesti con la mano<br />

sporgendosi dal finestrino, dice qualcosa di incomprensibile in russo e riparte senza<br />

complimenti piegando il busto sul volante come a voler prendere un miglior abbrivio. Ad un<br />

secondo tassista che arriva dopo un po' - saranno passati altri 10-15 minuti- non riusciamo<br />

nemmeno a parlare. Si accorge che siamo occidentali solo quando accosta al marciapiede.<br />

Riparte con tempismo senza darci il tempo di aprire la bocca. Non capiamo cosa stia


succedendo.<br />

Ce lo spiega 20 minuti dopo Artyom, quando arriva sudato e ansimante (deve avere corso fino a<br />

poco prima) dal fondo <strong>del</strong>la via. La giornata, nonostante abbiamo da poco superato il<br />

ferragosto, sa di fine primavera. Artyom è un ragazzo ventenne, elettrizzato dal farci la guida in<br />

questi giorni in una Mosca afosa. Dire che sia un pacifista forse è eccessivo. E' semplicemente<br />

un rappresentante, o meglio un incaricato <strong>del</strong> Soviet Peace Committee, l'organizzazione<br />

ufficiale <strong>del</strong> regime sovietico. Ci è stato assegnato come guida. Ed è una guida vera; non è<br />

invadente e soprattutto si capisce subito che non ha niente a che fare con la polizia ed i servizi<br />

segreti. Artyom in questi giorni è stato con noi sempre disponibile ed entusiasta: ricerca<br />

cautamente la nostra complicità per scaricare il suo “mondo a parte” ed essere come noi<br />

occidentali. Abbiamo passato i giorni scorsi a scambiarci opinioni sulla musica, gli scrittori, i<br />

viaggi. E ci racconta molto dei cambiamenti di questa Russia in fibrillazione da tre anni. Artyom<br />

è' combattuto tra la voglia di cambiare e lasciarsi per sempre dietro l'armamentario sovietico e<br />

la conservazione di un ordine che rappresenta una stabilità di rapporti e valori, di sicurezze e<br />

anche l'orgoglio di far parte un paese importante, il paese importante insieme agli Stati Uniti.<br />

Artyom è povero, ma la povertà è un tratto comune di tanti che abbiamo conosciuto in questi<br />

giorni: quella <strong>del</strong>le vecchie donne con le sportine vuote, dei bar deserti e dei giovani seduti sul<br />

muretto, dei volti rassegnati dei conducenti di autobus e tassì.<br />

Artyom parla un inglese malmesso. E' sovraffaticato e così il suo inglese diventa ancora più<br />

precario, rapsodico. Tenta di usare giri di frase, di procedere per allusioni e cenni, ma la povertà<br />

<strong>del</strong> suo linguaggio lo costringe poi ad essere più esplicito. “Stamattina, quando ho acceso la<br />

radio, hanno letto un comunicato che Gorbaciov è malato, si trova in Crimea e una troika di<br />

dirigenti <strong>del</strong> Partito ha preso il suo posto. Ma la malattia non c'entra niente; questo è un golpe.<br />

Forse è già morto, non lo so. Ma sicuramente lo vogliono far fuori. Mi hanno detto che nel centro<br />

<strong>del</strong>la città ci sono già i soldati che presidiano il Cremlino e gli altri palazzi”. Siamo increduli non<br />

solo per il fatto in sé (e comunque per molti di noi Gorbaciov fino ad allora aveva rappresentato<br />

la speranza di una trasformazione <strong>del</strong> socialismo in senso democratico), ma anche perché<br />

girandoci intorno sembra che la vita quotidiana prosegua come sempre: i negozi sono aperti, gli<br />

anziani in fila in posta a spedire lettere e pacchi, le macchine circolano nella solita quantità, i<br />

negozi aperti per fare la spesa. Il golpe ce lo si aspetta in modo diverso: abbiamo in mente il<br />

Cile di Pinochet, i prigionieri nello stadio, i bombardamenti <strong>del</strong>l'edificio presidenziale, i militari<br />

in ogni angolo <strong>del</strong>la città.


Fino a poche ore prima avevamo discusso animatamente (in sessioni plenarie un po' dispersive<br />

ed ingessate ed in tanti workshop più liberi ed interessanti) in un grande palazzo dei congressi;<br />

un migliaio di pacifisti europei con centinaia di esponenti di piccoli e grandi gruppi da varie<br />

repubbliche <strong>del</strong>l'Unione Sovietica. E' la riunione annuale <strong>del</strong>la European Nuclear Disarmament<br />

Convention (la cosiddetta END) che per la prima volta quest'anno sbarca ad Est, con esponenti<br />

<strong>del</strong>le organizzazioni ufficiali e <strong>del</strong> dissenso <strong>del</strong>l'”altra Europa”. Ma più che occasione di<br />

confronto sui temi <strong>del</strong> momento – dai postumi <strong>del</strong>la guerra <strong>del</strong> Golfo alla guerra in ex Jugoslavia<br />

appena iniziata- la Convention è diventata una specie di sfogatoio psico-sociale, di<br />

sublimazione <strong>del</strong> Super Io collettivo a lungo represso e irreggimentato dall'ideologia comunista<br />

e ora tracimato nei mille rivoli di un rito disordinato e catartico di autocoscienza collettiva. Nelle<br />

salette dei gruppi di lavoro si affollano in tanti: le madri dei soldati sovietici e gli obiettori di<br />

coscienza, i tolstoiani nonviolenti e gli ecologisti impegnati contro le centrali nucleari (sono solo<br />

passati quattro anni da Chernobyl), i radicali “transnazionalizzati” (anche qui hanno fatto<br />

proseliti) e qualche gruppo femminista. C'è di tutto, anche un gruppo di barbuti ucraini che ha<br />

proposto un gruppo di lavoro sul tema <strong>del</strong>la “prova scientifica sull'esistenza di Dio”. E<br />

ovviamente anche le tendenze meno folcloristiche e più pericolose come quelle di un gruppo<br />

lituano (sciovinista e razzista) che mellifluamente ha proposto una discussione sull'influenza<br />

<strong>del</strong> “gotha ebraico e massonico” nell'economia internazionale. Come hanno fatto ad avere<br />

accesso alla Convenzione? Tutto nel pentolone di un informe zibaldone democratico. Eppure<br />

come dice il mio amico Karl -è un volontario tedesco <strong>del</strong> Servizio civile internazionale di ritorno<br />

proprio di un campo di lavoro in Lituania- non è tanto colpa <strong>del</strong>la democrazia, anzi: “Questo è il<br />

risultato <strong>del</strong>lo stalinismo, <strong>del</strong>la mancanza <strong>del</strong>la democrazia: e poi nelle situazioni di difficoltà, la<br />

risposta è quella di trovarsi un nemico con cui prendersela, e la xenofobia ed il razzismo ben si<br />

prestano a questo scopo”.<br />

E d'altronde -anche tra gli occidentali- c'è un po' di tutto. Nonviolenti ad oltranza e pacifisti<br />

tedeschi realos (o realpolitik), femministe e funzionari di partito, boy scout e anche qualche<br />

sindacalista italiano di basso bordo (e fortunatamente pochi, quelli seri sono molti di più) che<br />

intravvediamo a puttaneggiare come agenti di commercio in trasferta, nelle hall degli alberghi<br />

internazionali con ragazze russe in minigonna a sorseggiare champagne e vodka (tutto a<br />

rimborso spese <strong>del</strong> sindacato, c'è da scommetterci). Ci sono gli orfani <strong>del</strong> PCI e i demoproletari<br />

in disarmo, qualche radicale, molti <strong>del</strong>l'ARCI e <strong>del</strong>la Sinistra Giovanile (da poco si chiama così la<br />

FGCI), <strong>Le</strong>gambiente e naturalmente l'Associazione per la pace; e poi tanti cani sciolti. Si parla<br />

molto di est in transizione, di nazionalismi in agguato, di guerre civili sulla porta di casa (quella


Jugoslavia è appena iniziata da un mese e mezzo). Ma i “disarmisti” sono ancora in tanti;<br />

pensano che la priorità sia il disarmo nucleare e non lo sfascio che avanza rapidamente in<br />

questa Europa dimenticata oltre cortina. Dietro le quinte, nella <strong>del</strong>egazione italiana e questa<br />

con quelle <strong>del</strong>le altri paesi tutti aggrovigliati a discutere e a litigare fino a tardi sulle solite cose:<br />

chi parla in plenaria e a nome di chi, la frase da limare nel documento finale, l'appuntamento da<br />

mettere in evidenza nell'appello, l'interpretazione dei discorsi dei leader e tra questi, quelli<br />

internazionali come Mary Kaldor, Mient Faber che con il loro lavoro sotterraneo stanno<br />

costruendo una nuova rete europea che unisca le organizzazioni dei cittadini <strong>del</strong>l'est e<br />

<strong>del</strong>l'ovest. La END è ormai finita: nata come spazio di coordinamento <strong>del</strong> movimento contro gli<br />

euromissili nucleari, oggi -dopo l'installazione Pershing e Cruise e soprattutto dopo la caduta<br />

<strong>del</strong> muro di Berlino- si è aperta una nuova fase politica e storica.<br />

Quando arriviamo alla Piazza Rossa un paio di carri armati stazionano immobili con carristi<br />

sperduti e sbarbati che spencolano dinoccolati dalla torretta. Attorno qualcuno che li apostrofa,<br />

e poi molti curiosi e tanti turisti stranieri. Ci tornano in mente le parole strazianti <strong>del</strong>le madri dei<br />

soldati ascoltate nella conferenza, con tanto di foto dei loro figli: ogni anno 6mila soldati<br />

muoiono negli incidenti e nelle esercitazioni per le violenze dei superiori. E poi soprattutto<br />

l'invasione in Afghanistan, iniziata nel 1979 e terminata nel 1989 con decine di migliaia di morti<br />

tra i soldati russi. E il peggio, forse può ancora arrivare: in Cecenia il presidente Dzohkar<br />

Dudaev vuole portare il paese alla separazione dall'Unione Sovietica e Mosca non lo<br />

permetterà. Altre invasioni, altre guerre, altre morti. Questo ci dicono queste “madri coraggio”<br />

che chiedono: basta con la leva obbligatoria, l'esercito sia solo professionale. Qualcuna di<br />

queste madri le ritroviamo nella Piazza Rossa: “Questa volta i soldati non spareranno al<br />

popolo”, dice una di loro, agitandosi in direzione di un capitano <strong>del</strong>l’Armata Rossa che controlla<br />

i soldati. Da un’altra parte un soldato estrae il caricatore <strong>del</strong>la sua mitraglietta e lo fa vedere<br />

alla gente: “Non lo userò contro di voi”, grida. Applausi, esclamazioni di gioia; il terrore <strong>del</strong>le<br />

punizioni dei superiori per il momento non c'è.<br />

Ci aggiriamo sperduti, mentre degli ignari turisti americani vanno in giro per i GUM (i grandi<br />

magazzini che si affacciano sul Cremlino) e comprano balalajke e samovar. La gente sciama<br />

verso l’Arbat. C’è una manifestazione contro il golpe. Gorbaciov è in Crimea, ma Eltsin resiste. Ci<br />

dicono che sta parlando da qualche parte, addirittura l'hanno visto salire su un carro armato<br />

con un megafono in mano. Come, hanno arrestato Gorbaciov ed Eltsin -che è più radicale <strong>del</strong><br />

segretario generale- lo lasciano fare comizi ed arringare i manifestanti? Da altri amplificatori<br />

improvvisati stridono appelli alla mobilitazione. E verso l'Arbat lo sciame <strong>del</strong>la gente si<br />

trasforma in manifestazione, in corteo compatto e ordinato: slogan e urla si rincorrono e con


pugni e mani alzate verso il cielo. Molti giovani, e donne. Alla manifestazione incontriamo un<br />

ragazzo che si chiama Kramar, uno dei primi obiettori di coscienza in URSS: è stato accalappiato<br />

dai radicali italiani e cooptato nel partito radicale transnazionalizzato. Inizia già a scimmiottarne<br />

sicumera e sprezzo politico. Dice in un perfetto inglese: “la colpa è di Gorbaciov, si è circondato<br />

di fascisti”. Artyom -che è con noi- non è d’accordo e confusamente, un po' in russo e un po' in<br />

un balbuziente inglese, gli ribatte citando i meriti <strong>del</strong> leader sovietico. Ma le polemiche durano<br />

poco. Siamo trascinati via dal fluire <strong>del</strong>la gente.<br />

Siamo confusi nella folla che manifesta: la gente sembra voler difendere al ancora acerba<br />

democrazia sovietica. Di slogan a favore di Gorbaciov ce ne sono pochi, ma contro i golpisti<br />

sono tutti. La prima impressione, percorrendo i grandi viali verso il centro, era stata quella di<br />

una Mosca addormentata e stordita: gente a far compere e il solito traffico. La perestrojka è<br />

stata forse anche un'operazione di marketing, un disperato tentativo di salvare quello che c'era<br />

di meno peggio <strong>del</strong> regime per cercare di costruire un socialismo democratico, ma soprattutto<br />

ha aperto il vaso di Pandora <strong>del</strong>la democrazia russa, e lo si vede bene nella manifestazione in<br />

piazza: un evento liberatorio e senza paura.<br />

La situazione è insolitamente statica ed il golpe sembra morbido, gli sviluppi sono incerti.<br />

Elhena è una studentessa di biologia di 23 anni, di buona famiglia: il padre professore<br />

universitario, vacanze estive passate a Porto Rose in Istria (ben pochi si possono permettere di<br />

andare all'estero anche se questo “estero” è la federazione jugoslava), elegante e curata, anche<br />

lei con il miraggio <strong>del</strong>l'occidente. L’abbiamo conosciuta qualche sera prima all'Arbat. Tra le<br />

bancarelle che ti smerciano un colbacco <strong>del</strong>l'Armata Rossa o le matriosche rimo<strong>del</strong>late, con<br />

quella più grande dal volto di Gorbaciov e quella più piccola con quello di <strong>Le</strong>nin (passando per<br />

Stalin), Elhena mi racconta di quello cosa spera per la sua vita: viaggiare, conoscere l'Europa,<br />

uscire dal carcere <strong>del</strong>la vita sovietica, leggere libri che a Mosca non si trovano; e mi chiede<br />

molto <strong>del</strong>la letteratura <strong>del</strong>l'Italia, di Pavese e di Vittorini. Ha letto già Moravia, La noia e<br />

Professione di desiderio. E mi costringe a raccontarle la mia vita quotidiana e soprattutto il<br />

racconto dei viaggi suscita la fa esclamare di gioia. Facciamo fatica a confrontare i nostri ideali –<br />

la pace, la rivoluzione, cambiare il mondo... - con quelli molto più concreti di una ragazza che<br />

vorrebbe solo la libertà e sa che il modo più facile per raggiungerla è scappare, magari con un<br />

occidentale.<br />

<strong>Le</strong> parliamo al telefono durante la manifestazione. Ha paura e se ne sta a casa: “Eltsin e<br />

Gorbaciov hanno sbagliato a non fare fronte comune prima. Ma l’errore più grande l’ha fatto<br />

Gorbaciov. Doveva rischiare di più e abbandonare i conservatori”. Fino a qualche giorno fa


Elhena se ne stava a Porto Rose. Ha visto da vicino la guerra jugoslava, cioè la separazione <strong>del</strong>la<br />

Slovenia dalla Federazione e i brevi combattimenti che hanno interessato soprattutto Lubiana e<br />

i posti di frontiera con l'Italia. Ma anche in Istria ci sono stati problemi: l'esercito jugoslavo<br />

rinchiuso nelle caserme, i serbi lì residenti timorosi di essere colpiti, i primi profughi. E proprio<br />

noi italiani alla Convenzione pacifista di Mosca abbiamo sostenuto con forza l'idea di una<br />

“carovana per la pace” in Jugoslavia. Dovremmo partire il prossimo 25 settembre da Trieste per<br />

arrivare a Sarajevo il 29 settembre e tenere una grande catena umana per la pace. Mi implora di<br />

stare attento, di non uscire dall'albergo, di andare subito all'aeroporto e partire. Intanto si<br />

intuisce una certa confusione tra i militari. I movimenti dei carri sembrano lenti. Si fermano,<br />

ripartono. Singhiozzano, incespicano. La Piazza Rossa viene chiusa solo alle 11 e la circolazione<br />

è comunque assicurata nella città.<br />

Ogni tanto ci giungono voci confuse e contraddittorie su ciò che sta accadendo. Gorbaciov è<br />

morto, Gorbaciov è d’accordo con i golpisti. Eltsin è stato arrestato. Sappiamo qualcosa solo<br />

dagli scarni comunicati <strong>del</strong>la televisione; Artyom ci aiuta a capire cosa dicono, almeno<br />

l'essenziale. Il canale tv di Eltsin è stato oscurato e non abbiamo fonti di informazione<br />

alternative. Dalla Piazza Rossa non si passa più, e numerose berline nere con le tendine tirate<br />

infilano il portone <strong>del</strong> Cremlino con una certa speditezza. <strong>Le</strong> centinaia di pacifisti europei ancora<br />

a Mosca si mischiano ai manifestanti russi: un segnale <strong>del</strong>la solidarietà internazionale, sul<br />

campo. “Eppure”, dice Yuri (un altro amico tra i nostri nuovi acquisti a Mosca) e studente di<br />

chimica che sogna anche lui di venire in Italia “sono convinto che hanno fatto il golpe perché<br />

sentivano di avere i giorni contati. I conservatori avevano paura di avere perso la partita per<br />

sempre. Non ce la faranno, però, a portarlo a termine”.<br />

C'è una rabbia determinata nei russi che manifestano; molti hanno giubbe chiare e magliette a<br />

strisce (come da noi con Tambroni nel 1960) qui tornate di moda: non si rassegnano. Artyom<br />

continua ad accompagnarci e a seguirci; è spaesato ed incerto, ma continua a spiegarci quello<br />

che riesce a capire <strong>del</strong>la situazione in corso. Artyom si toglie di dosso una maglietta griffata<br />

Chanel (ovviamente falsa) zuppa e strapazzata da una mattina passata a correre a destra e a<br />

manca e se la cambia con una t-shirt che gli abbiamo regalato stamattina come ricordo: la<br />

scritta che vi campeggia è Breaking free!, è lo slogan <strong>del</strong>la campagna di solidarietà che abbiamo<br />

lanciato quest'anno a favore <strong>del</strong>la SWAPO, il movimento di liberazione <strong>del</strong>la Namibia. Lui non sa<br />

cosa significhi quella scritta, vorremmo spiegarglielo, ma non è il momento. In realtà quello che<br />

lo colpisce è il disegno sulla maglietta: un camion militare <strong>del</strong>l'esercito tedesco che con una<br />

metamorfosi grafica diventa un'ambulanza (uno degli scopi simbolici <strong>del</strong> progetto, infatti è di<br />

prendere un camion <strong>del</strong>l'esercito tedesco in disuso e di farne un'ambulanza: i tedeschi hanno


colonizzato la Namibia dal 1884 al 1915). Quel mezzo militare sulla sua pancia un po' lo<br />

inquieta, ma non ha tempo di pensarci e soprattutto non vuole farci torto. Ci ricambia con una<br />

caramella dal colorante di lampone, ma la carta non si stacca da quello che è ormai solo un<br />

informe impiastro attaccaticcio che si incolla alle dita, come sempre con le caramelle sovietiche.<br />

Dietro a noi un carrista appoggiato alla torretta <strong>del</strong> suo tank osserva senza capire quello che ci<br />

diciamo: sembra stanco, tutto fuorché minaccioso, solo la voglia di farla finita al più presto.<br />

Almeno così ci sembra. Molti di noi vorrebbero rimanere, ma dobbiamo andare all’aeroporto. Il<br />

nostro viaggio è già prenotato e non possiamo permetterci di perdere il volo. Artyom ci saluta<br />

con un sorriso che è una smorfia appena accennata. Ci abbracciamo per qualche secondo. Ci<br />

facciamo gli auguri e la promessa di rimanere n contatto. Un'ultima telefonata ad Elhena e<br />

l'impegno di rivederci a Roma. Il taxi cerca di farci uscire dal traffico impazzito <strong>del</strong> centro.<br />

Incontriamo le facce tristi dei soldati e quelle scure dei manifestanti: sembra di essere sull’orlo<br />

di scontri violenti. Molti sperano ancora in un capovolgimento democratico, nonviolento, ma<br />

mentre ci approssimiamo all’aeroporto una trentina di blindati spunta da una stradina e<br />

incolonnandosi verso il centro ci fa nuovamente sprofondare nell’angoscia. Gli sguardi dei<br />

militari che si sporgono dai camion e dai cingolati sono tesi e determinati. Guardano avanti<br />

senza concedersi agli sguardi di chi in macchina o in taxi si sta dirigendo all'aeroporto. Abbiamo<br />

avuto prima l'illusione di un golpe “morbido”, la speranza <strong>del</strong>la grande compattezza dei<br />

manifestanti, il disincanto incoraggiante dei soldati sulle torrette dei carri. E se ci fossimo<br />

sbagliati? “Potranno anche vincere”, dice il tassista scuotendo la testa, guardandoci dallo<br />

specchietto, “ma non durerà, ormai il tempo è dalla nostra parte”. E ci lascia all'aeroporto nel<br />

caos infernale <strong>del</strong> terminal con i turisti che vogliono partire, mentre noi vorremmo rimanere<br />

ancora; non si capisce più nulla, mentre il sole lentamente scende verso l'orizzonte e la<br />

sensazione di un mondo sempre più in disordine – guerra in Iraq, in Jugoslavia, golpe a Mosca,<br />

tutto in pochi mesi- ci avvolge senza il conforto di una risposta consolatoria.


CAPITOLO II<br />

TIME FOR PEACE<br />

Gerusalemme, Time for Peace (1989-90)<br />

La partenza. Una volta decollati da Roma e spente le spie <strong>del</strong>le cinture di sicurezza, Vittorio<br />

Tanzarella e altri esponenti <strong>del</strong>l'Associazione per la pace si fanno dare il microfono dalle<br />

hostess <strong>del</strong>l'Alitalia e ci danno le informazioni essenziali: “Quando arriviamo a Tel Aviv ci<br />

saranno dei pullman ad attenderci e alcune guide: una è Rino La Rocca, <strong>del</strong>la compagnia<br />

Dedalus, l'altra è Randa, palestinese e interprete dall'inglese. Seguiteli e vi porteranno sul<br />

pullman assegnato”. Poi dai microfoni si danno altre informazioni più <strong>politiche</strong>: la situazione in<br />

Palestina, l'organizzazione <strong>del</strong>l'iniziativa, la condizione <strong>del</strong>le forze di pace israeliane, il<br />

significato <strong>del</strong> movimento <strong>del</strong>l'intifada. Abbiamo per le mani un numero speciale di Arcipelago<br />

(il giornale <strong>del</strong>l'Associazione per la pace) con altre informazioni sulla storia, i problemi politici, il<br />

conflitto in corso. Il 27 dicembre atterriamo a Tel Aviv. Siamo poco meno di 250 italiani. Una<br />

volta sbarcati ci ritrovano nella hall degli arrivi e poi sul piazzale <strong>del</strong>l'aeroporto, guardati a vista<br />

dalla security <strong>del</strong>l'aeroporto che controlla che ogni bagaglio abbia il proprio proprietario.<br />

Nonostante l'inverno, l'aria notturna è tiepida. Rino e Randa sono lì. Rino, napoletano, ha una<br />

macchinetta fotografica a tracolla, e risponde a tutti con calma; Randa, distrutta dalla<br />

stanchezza, seduta sul marciapiede <strong>del</strong>l'aeroporto dopo una giornata di arrivi di pacifisti italiani<br />

(e non solo: sindacalisti, amministratori locali, giornalisti, politici, ecc.) da Roma e da Milano:<br />

alla fine più di novecento. 1990 Time for peace (una settimana a cavallo di capodanno) è il titolo<br />

<strong>del</strong>l'iniziativa per la pace in Medio Oriente promossa e lanciata dalla convenzione END la scorsa<br />

estate. Il titolo <strong>del</strong>l'iniziativa non è forse originale, ma lo slogan "due popoli, due stati" -alla<br />

base <strong>del</strong>l'iniziativa- ha una sua pregnanza per noi che cerchiamo di andare oltre vecchio<br />

terzomondismo filo arabo a favore di una posizione più equa, a sostegno dei diritti dei due<br />

popoli, quello palestinese e quello israeliano. L'iniziativa è il risultato di più di un anno di<br />

frequentazioni, di mediazioni e compromessi tra le organizzazioni italiane, i comitati palestinesi<br />

<strong>del</strong>l'Intifada e Peace Now. Il senso è chiaro, l'obiettivo “semplice”: mettere insieme i palestinesi<br />

e gli israeliani, a fianco degli europei, per favorire il dialogo e promuovere iniziative comuni. Da<br />

tre anni in Palestina c'è l'Intifada e il <strong>pacifismo</strong> israeliano ha sposato la causa <strong>del</strong><br />

riconoscimento di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Dai tempi <strong>del</strong>la guerra <strong>del</strong><br />

Libano nel 1982 Peace Now è diventata una forza importante nel paese. L'iniziativa è ostacolata


dal governo israeliano. Luisa Morgantini viene dichiarata "indesiderabile" dal governo<br />

israeliano e deve rinunciare a partire. A Joseph Lambert, francese, coordinatore <strong>del</strong>le ONG<br />

europee che si occupano di Palestina, va anche peggio: una volta arrivato all'aeroporto a Tel<br />

Aviv viene rispedito dalla polizia israeliana a Parigi. Minacce di morte vengono indirizzate agli<br />

organizzatori italiani di Time for Peace. I 300 italiani che partono da Roma con la compagnia<br />

israeliana El Al, subiscono cinque ore di interrogatori con domande <strong>del</strong> tipo: "Di che partito<br />

sei", "Chi ti ha dato i soldi per il biglietto", "Conosci palestinesi in Israele", e così via. Oltre alla<br />

polizia c'è l'estrema destra. Voleva organizzare una contro-manifestazione per la catena umana,<br />

ma gli è stata vietata. Il giorno dopo il nostro arrivo, quando andiamo al Yad Vashem, il museo<br />

<strong>del</strong>l'olocausto di Gerusalemme, troviamo alcuni fanatici oltranzisti che ci accolgono con cartelli<br />

e slogan che ci accusano di aiutare i palestinesi a fare quello che aveva già in mente Hitler: la<br />

liquidazione degli ebrei. Un provocatore con la casacca verde militare ci aggredisce. Ad una<br />

pacifista di Cesena che gli chiede il motivo <strong>del</strong>la morte di 400 ragazzi palestinesi sotto i sedici<br />

anni, in due anni di intifada, il colono risponde: "La colpa è dei padri che li mandano a tirare le<br />

pietre, i soldati fanno il loro dovere". Poco dopo Giovanni Bianchi, presidente <strong>del</strong>le Acli, sale su<br />

una panchina, prende un megafono e pronuncia un breve discorso per calmare le acque.<br />

Ricorda: "Bisogna rimuovere le radici <strong>del</strong>l'intolleranza, proprio a partire dalla consapevolezza di<br />

quello che ha significato l'olocausto. Dobbiamo lavorare per una pace che sia alla portata di<br />

tutti". Entriamo nella sala <strong>del</strong> museo <strong>del</strong>l'olocausto che ricorda il milione e mezzo di bambini<br />

ebrei sterminati dai nazisti: una stanza completamente buia, illuminata solo da centinaia di<br />

can<strong>del</strong>e inscatolate in specchi labirintici ed impalpabili. Solo una voce profonda rompe il<br />

silenzio: è un nastro che ricorda i nomi e l'età dei bambini sterminati dai nazisti.<br />

L'occupazione. L'occupazione israeliana <strong>del</strong>la Cisgiordania e <strong>del</strong>la striscia di Gaza è innanzitutto<br />

storia di brutalità. Ma non solo nei territori occupati. A Jaffa, quartiere arabo di Tel Aviv (Tel Aviv<br />

sorse nel 1948 a ridosso di questa antica città araba, che allora contava 70.000 abitanti e oggi<br />

ne ha 17.000), si susseguono prepotenze e discriminazioni. Andrea Marussy, fondatore <strong>del</strong>la<br />

<strong>Le</strong>ga degli arabi di Jaffa e insegnante, ci accoglie nella sua casa ed è quasi divertito dal nostro<br />

stupore. "L'obiettivo degli israeliani -dice- è di cancellare Jaffa ed espellere da questa città la<br />

popolazione araba. Come? E' molto semplice. Prendi il problema <strong>del</strong>le case. Jaffa sta cadendo a<br />

pezzi, ma la municipalità di Tel Aviv proibisce agli arabi di ristrutturare gli edifici. <strong>Le</strong> case piùfatiscenti<br />

le rade al suolo. Chiaramente questo divieto non vale per gli ebrei, che si stanno<br />

lentamente insediando a Jaffa". Ci facciamo un giro per la città e il suo degrado è indicato da<br />

tante cose: sporcizia, strade sconnesse, edifici scrostati e cadenti. "Ci hanno impedito anche di<br />

ristrutturare alcune piccole moschee <strong>del</strong>la città. Adesso sono diventate latrine e ritrovi per<br />

prostitute. Visto che non ci mandano i camion per prendere l'immondizia la raccogliamo da soli.


Ogni estate organizziamo un campo di lavoro internazionale per la manutenzione degli spazi<br />

verdi, al quale partecipano anche i vostri volontari <strong>del</strong> Servizio Civile Internazionale". Nei<br />

territori occupati 400 ragazzi sono morti in due anni di intifada perché sventolavano la bandiera<br />

palestinese o perché tiravano dei sassi. Il cadavere dei ragazzi viene di solito sequestrato dalla<br />

polizia israeliana che ne dispone per alcuni giorni, imponendo poi un funerale segreto a cui<br />

sono ammessi solo genitori e fratelli <strong>del</strong>la vittima. I controlli ai palestinesi sono continui. Alla<br />

porta di Damasco, a Gerusalemme, il giorno <strong>del</strong>la catena umana (la manifestazione che siamo<br />

venuti ad organizzare) vediamo due militari che fermano un palestinese con un casco di banane<br />

che viene inutilmente rovistato. Poi, uno dei soldati stacca una banana e butta la buccia ai piedi<br />

<strong>del</strong> palestinese. Al check point di Betlemme, mentre in pullman aspettiamo di poter passare,<br />

arrivano due bambini palestinesi in bicicletta. <strong>Le</strong> ruote <strong>del</strong>le gomme gli vengono sgonfiate, "per<br />

motivi di sicurezza". Con il grugno i bambini continuano a piedi. Dimenticata ormai è la storia<br />

<strong>del</strong>le alture <strong>del</strong> Golan, strappate da Israele alla Siria nella guerra <strong>del</strong> 1967 e annesse nel 1981.<br />

Nel 1967 vi vivevano 130.000 siriani. In questi anni i villaggi sono stati distrutti e i siriani<br />

deportati. Sono rimasti in 9.000, ma il futuro è segnato. Il Golan è ormai deserto. Stanno<br />

arrivando solo i coloni israeliani, immigrati da altri paesi. Passiamo un pomeriggio nell'ultimo<br />

villaggio <strong>del</strong> Golan, a ridosso <strong>del</strong> confine siriano. Un paese dimenticato e isolato, dove i soldati<br />

israeliani hanno facile gioco a praticare ogni sorta di angheria. I "grandi vecchi" <strong>del</strong> paese<br />

(anziani, dalle facce stanche e segnate, baffoni folti e vestiti neri tradizionali) ci accolgono un<br />

po' frastornati, offrendoci un caffè e una mela nella piazza <strong>del</strong> paese. Ci danno una pergamena<br />

di cittadinanza onoraria <strong>del</strong> villaggio. Ogni tanto due elicotteri militari ci passano sopra le<br />

nostre teste, a non più di 150 metri. Il villaggio è proprio sul confine ed è separato da un altro<br />

insediamento siriano (che si trova in Siria, appena dopo il confine), come fossero Berlino Ovest<br />

e Berlino est, Gorizia e Nova Gorica. Dal 1967 amicizie e famiglie si sono separate. Talvolta vedi<br />

amici e parenti che a cento metri di distanza si parlano ognuno aggrappato al proprio reticolato,<br />

e lo stesso succede anche gli innamorati. Un vecchio mi racconta che c'è stato anche un<br />

matrimonio per procura, con una cerimonia svolta con Romeo e famiglia dalla parte <strong>del</strong><br />

reticolato israeliano e Giulietta e famiglia dalla parte di quello siriano. Poi hanno festeggiato,<br />

ciascun gruppo dalla propria parte di reticolato. I campi dei rifugiati che visitiamo assomigliano<br />

a degli autentici lager, con tanto di torrette e cancelli blindati. <strong>Le</strong> case sono baracche di lamiera<br />

o di altro materiale inaffidabile. Stanze sovraffollate, fogne a cielo aperto, sporcizia ad ogni<br />

angolo. Solo le strade sembrano ben curate, larghe e ramificate: servono al passaggio <strong>del</strong>le<br />

camionette. Gran parte <strong>del</strong>la giornata nei campi c'è il coprifuoco. Visitiamo le famiglie dei<br />

ragazzi morti durante l'intifada. <strong>Le</strong> madri parlano e si rivolgono soprattutto alle giovani pacifiste<br />

e alle donne italiane. Rispetto <strong>del</strong>la legge e dei diritti in Palestina non ce n'è. Ne soffrono i<br />

palestinesi, ma non solo loro. Anche "l'altra Israele" ne fa le spese.


L'altra Israele. Parlare con l'OLP -in Israele- è reato. Si può andare in galera per farlo."Ma perché<br />

i palestinesi non se ne vanno in qualche stato arabo,cosa vogliono da noi, questa è la nostra<br />

terra. perché forse gli americani hanno riconosciuto il diritto degli indiani a farsi un proprio<br />

stato?", ci dice un oltranzista alla fermata <strong>del</strong>l'autobus. E' un colono, ha un mitra a tracolla,<br />

avrà sì o no ventanni, un giubbetto da pescatore, una tasca rigonfia da un caricatore di<br />

ricambio. Questa è l'Israele che oggi è maggioranza. Ma c'è anche l'altra Israele, quella degli<br />

obiettori di coscienza che si fanno cinque anni di carcere per il rifiuto di svolgere il servizio nei<br />

territori occupati; l'Israele <strong>del</strong>le Women in Black, che ogni giorno, vestite di nero e silenziose, in<br />

una piazza di Gerusalemme, chiedono la pace e vengono sputate e spinte dagli estremisti di<br />

destra; l'Israele di Peace Now e dei pacifisti come Michael Warschawski che per aver pubblicato<br />

sulla sua rivista un articolo di un leader palestinese, si fa 20 mesi di carcere; l'Israele che dà<br />

vita a cooperative e comunità insieme ai palestinesi. E' questo il caso di Neve Shalom-Nevi at<br />

Saalam, una comune di un'ottantina di persone, metà palestinesi, metà ebrei che vivono,<br />

lavorano, educano i propri figli insieme. Il villaggio è posto sul confine dei territori occupati, la<br />

“linea verde” <strong>del</strong> 1967. Sta su un'altura. È composto di piccoli prefabbricati e oblunghe<br />

costruzioni in muratura, parchi giochi per bambini e molti olivi che si incuneano sulle strade<br />

sterrate e affiancano le costruzioni. E' una bella giornata. Ci vengono incontro in due, un<br />

israeliano e un palestinese, naturalmente. Shai è un medico israeliano. Introduce l'incontro e ci<br />

dice che "... non possiamo ignorare che palestinesi e israeliane vogliono lo stesso di terra.<br />

Quindi dobbiamo imparare a convivere e a rispettarci gli uni con gli altri. Noi qui, nel nostro<br />

piccolo, abbiamo tentato di metterla in pratica questa convivenza. Siamo partiti dalle relazioni<br />

umane, dalla dimensione educativa". Nella scuola <strong>del</strong>la comunità bambini ebrei e arabi<br />

studiano insieme (in Israele vi sono scuole distinte per ebrei ed arabi) e si festeggiano tutte le<br />

feste di entrambe religioni, insieme."I bambini sono contenti, così fanno anche doppia festa...",<br />

scherza Habet, il portavoce palestinese <strong>del</strong>la comunità. Nel governo israeliano c'è chi sabota in<br />

ogni modo queste prove di convivenza (creando problemi fiscali, legali, di ogni tipo) e nello<br />

stesso tempo punta <strong>del</strong>iberatamente ad esasperare la protesta palestinese, per poter avviare la<br />

macchina <strong>del</strong>la repressione. Che colpisce il villaggio di Neve Shalom, ma anche i giornalisti, i<br />

pacifisti, gli obiettori di coscienza. Warszawski -ad un incontro a Gerusalemme est nell'ostello<br />

<strong>del</strong>l' Ymca dove siamo alloggiati- fuma una sigaretta dopo l'altra, critica Peace Now per il<br />

moderatismo. Si liscia i baffi e dice: “Bisogna fare molto di più, soprattutto per aiutare chi si<br />

batte contro questa guerra”. Gli obiettori di coscienza israeliani in galera sono un centinaio. Da<br />

3 a 5 anni l'ammontare le condanne per ciascuno. Il 29 dicembre andiamo a fare una<br />

manifestazione ad Haifa, su una collina, di fronte ad un carcere dove ci sono alcuni obiettori<br />

rinchiusi ormai da tempo. Saliamo su una collina e ci sparpagliamo su un terreno incolto che


sovrasta il carcere. Ci inerpichiamo tra rovi e sentieri malmessi, con le nostre bandiere pacifiste.<br />

Piazziamo lì i nostri altoparlanti e un pacifista israeliano si mette a gridare a squarciagola, per<br />

farsi sentire. Poi scandisce slogan: non capiamo niente. Agitiamo le nostre bandiere e<br />

salutiamo. Alcuni soldati di questo carcere-base militare ci salutano anch'essi con dei fazzoletti<br />

bianchi. Lo fanno appena le guardie carceriere si voltano. Fanno finta di voltarsi, lo sanno<br />

benissimo che ci stiamo salutando. Forse anche loro sono contro questa guerra, ma non hanno<br />

avuto il coraggio di fare 5 anni di galera. Il giorno dopo dovrei andare con Luciano Vecchi (un<br />

giovane eurodeputato <strong>del</strong> PCI) a visitare un obiettore detenuto in un altro carcere. La visita ci<br />

viene negata dalle autorità. E' possibile il dialogo tra palestinesi ed israeliani? Il caso di Neve<br />

Shalom sembrerebbe suggerire una risposta positiva. Ma è un dialogo ancora di minoranze.<br />

L'unico dialogo possibile, per ora, è allora quello con l'Altra Israele. Durante la seduta<br />

inaugurale di Time for Peace, all'Hotel Tower, a Gerusalemme ovest, una deputata israeliana <strong>del</strong><br />

Ratz (movimento per i diritti civili) afferma che "L'autodeterminazione <strong>del</strong> popolo palestinese<br />

non può più essere un sogno. I negoziati devono iniziare subito. Guardiamo a quello che sta<br />

accadendo nel mondo dove la libertà e la fine <strong>del</strong>l'autoritarismo si affermano prepotentemente.<br />

I muri devono cadere anche da noi". Feisal Husseini spera "nella vittoria <strong>del</strong>le forze di pace<br />

<strong>del</strong>l'Israele". Parla di Alce nel paese <strong>del</strong>le meraviglie. Non è certo una citazione classica da<br />

comizio politico, è la prima volta che mi capita di sentirla citare ad una manifestazione: “Alice<br />

ha superato le proprie paure e la chiusura in se stessa. Noi con l'Intifada abbiamo superato le<br />

nostre paure e siamo cresciuti e maturati. Ora tocca a voi israeliani".<br />

<strong>Le</strong> violenze <strong>del</strong>la polizia. La manifestazione <strong>del</strong>le Women in Black e la catena umana <strong>del</strong> 30<br />

dicembre hanno successo. Alle due manifestazioni complessivamente, partecipano 40.000<br />

persone. Per la prima volta israeliani e palestinesi sono in piazza insieme per la pace e “due<br />

popoli, due stati”. Per la prima volta, dopo la guerra in Libano, una manifestazione di massa in<br />

Israele. Durante la manifestazione <strong>del</strong>le Women in Black la polizia aspetta l'arrivo <strong>del</strong>la<br />

manifestazione davanti il teatro, dove la strada si stringe ad imbuto. E lì carica. Anche in questo<br />

caso la scusa è stata lo sventolio di una bandiera palestinese. E' vietato. Flavio Lotti<br />

(<strong>del</strong>l'Associazione per la pace) ha cercato di frapporsi tra la polizia e le manifestanti:<br />

scaraventato a terra, manganellato è stato portato in prigione. La riunione dopo gli incidenti è<br />

tesa. Molti pensano che potrebbe accadere qualcosa di simile l'indomani quando ci sarà la<br />

catena umana. Si discute come fare. Ci si organizza in modo puntuale, dividendosi per gruppi e<br />

alberghi e scegliendo i punti <strong>del</strong>le mura <strong>del</strong>la città vecchia dove appostarsi per fare la catena.<br />

L'appuntamento per il giorno dopo è al Notre Dame, il nunzio apostolico di Gerusalemme, dove<br />

per precauzione si fanno arrivare i palestinesi dei territori occupati (il Nunzio gode<br />

<strong>del</strong>l'extraterritorialità, la polizia non vi può entrare). Ma di palestinesi dai territori occupati ne


arrivano ben pochi. I check point israeliani li rimandano tutti indietro. La polizia carica<br />

brutalmente tra la Porta di Damasco e la Porta di Erode. Manganelli di legno si alternano a colpi<br />

di fucile che sparano proiettili di gomma con l'anima di ferro. Renzo Maffei, <strong>del</strong>l'ARCI di<br />

Pontedera, viene colpito da tre proiettili di gomma sulla nuca mentre sta soccorrendo una<br />

palestinese svenuta. E lo stesso accade a una attivista israeliana, quando nel mezzo <strong>del</strong>le<br />

cariche si ferma, paralizzata dalla paura. Quattro colpi la raggiungono al corpo. Una francese <strong>del</strong><br />

nostro albergo viene colpita al gomito: fratturato. Un camioncino con due mitragliette lanciaflutti<br />

(da una parte esce l'acqua, dall'altra un acido urticante di color verde), opera con<br />

continuità sui manifestati. Ad un certo punto, sotto l'albergo Pilgrim (proprio di fronte alla Porta<br />

di Damasco), che ospita una <strong>del</strong>egazione italiana, un lancia-flutto si gira su se stesso e<br />

stranamente si orienta verso l'alto. Molti di noi rimaniamo interdetti, non capaimo subito. Mira<br />

ad una finestra <strong>del</strong>l'albergo. Marina è una pacifista napoletana che sta guardando, riparata<br />

dietro alla vetrata <strong>del</strong>l'albergo, che cosa sta succedendo di sotto. Il getto è violento ed<br />

improvviso: colpisce la vetrata che le scoppia davanti al viso. Perderà l'occhio. <strong>Le</strong> cariche si<br />

susseguono. E' la caccia all'uomo. Arriviamo al National Palace Hotel (il quartier generale di<br />

Time for Peace) che dista a poche centinaia di metri dalla porta di Damasco. Un buddista<br />

battendo su un tamburello ci ha raccolto dietro di sé con una trentina di persone che<br />

ordinatamente sul marciapiede scandiscono con lui il ritmo e strillano "We want peace". Arriva<br />

trafelata anche la polizia -camionette con le sirene, pullmini con le portiere aperte, pronte a far<br />

scendere i soldati- che si schiera davanti all'albergo. Passa qualche secondo, noi siamo già<br />

dentro la hall. Dall'esterno un poliziotto con un megafono strilla qualcosa, nessuno capisce.<br />

Con Luciano Vecchi ed altri siamo sulle scalinate <strong>del</strong>l'albergo con le mani alzate cercando di<br />

calmare i poliziotti, che sembrano pronti ad attaccarci. Infatti dopo qualche secondo scendono<br />

tutti dalle loro camionette e vengono sparati tre can<strong>del</strong>otti lacrimogeni all'interno <strong>del</strong>l'albergo<br />

che si riempe di fumo bianco. Tutti piangono e molti stanno soffocando. Un palestinese è<br />

svenuto ed èdisteso a terra sul terrazzino <strong>del</strong>l'albergo. Forse è stato colpito. Qualcuno ha<br />

l'impressione che sia morto. Sfondiamo le vetrate <strong>del</strong>la terrazza e lo portiamo dentro. E' solo<br />

stordito. L'albergo è pieno di fumo. Temiamo l'irruzione <strong>del</strong>la polizia, ma dopo pochi secondi se<br />

ne vanno. Usciamo sulla scalinata per fuggire dal fumo dei lacrimogeni, molti strillano,<br />

piangono. Siamo ancora all'Hotel Nazionale, girovaghiamo nella grande hall che sembra l'atrio<br />

di una università occupata: volantini attaccati sulle colonne, annunci sulla vetrata <strong>del</strong> bar,<br />

cartelli appoggiati sui divani.<br />

La situazione economica. L'Intifada è una costante <strong>del</strong> nostro viaggio. Una realtà spiazzante per<br />

gli israeliani non abituati a confrontarsi con una lotta di massa, partecipata, sostanzialmente<br />

nonviolenta e sicuramente non armata. Di fronte al terrorismo la risposta è meccanica e


scontata, ma con l'intifada non sanno bene come fare. L'intifada è una presenza costante nella<br />

società civile israeliana e naturalmente tra i palestinesi. Te ne parla il taxista come il bambino di<br />

6 anni, l'albergatore come la giovane studentessa. I protagonisti <strong>del</strong>l'Intifada sono i giovani e le<br />

donne. Queste ultime hanno un ruolo straordinario, in prima fila, contraddicendo al ruolo<br />

tradizionalmente subalterno che la cultura araba assegna loro. Ci sono centinaia di comitati di<br />

sole donne (cooperative, comunità, ecc.) che hanno un ruolo importantissimo nella lotta contro<br />

l'occupazione. Alla manifestazione insieme alle Women in black sono in 10.000. Ci dice un<br />

dirigente palestinese: “L'intifada non è una strategia statica, ma cambia continuamente,<br />

assume sempre forme diverse. Non si tratta solo dei sassi tirati dai bambini, dei ragazzi morti e<br />

<strong>del</strong>le manifestazioni per le strade. L'Intifada è anche la disobbedienza civile degli abitanti di Bet<br />

Saur che si rifiutano di pagare le tasse e di collaborare con le autorità. E' lo sciopero quotidiano<br />

dei commercianti di Gerusalemme Est che da sette mesi a mezzogiorno chiudono i negozi. E' il<br />

boicottaggio di tutti i prodotti importati da Israele. E' l'auto-organizzazione di base -economica,<br />

agricola e sanitaria- che sta creando un tessuto economico e sociale autonomo, solo<br />

palestinese. Tutto questo è l'Intifada. Siamo ad un punto di non ritorno". In questi due anni<br />

sono nate un centinaio di cooperative di donne e molte altre cooperative agricole, di<br />

artigianato, di piccola produzione. Due sono gli scopi principali di queste realtà: boicottare i<br />

prodotti israeliani e dare vita ad un'economia solidale, un mercato e una struttura economica<br />

parallela palestinese. In parte l'operazione, nel piccolo, sta riuscendo. <strong>Le</strong> importazioni<br />

dall'Israele sono paurosamente diminuite in questi due anni e questa economia palestinese<br />

auto-organizzata ed alternativa sta diventando una realtà corposa. Ghada,una animatrice <strong>del</strong><br />

PARC (Palestinian Agricultural Relief Committee) ci mostra orgogliosa nel suo ufficio una cartina<br />

<strong>del</strong>la Cisgiordania e <strong>del</strong>la striscia di Gaza, piena di puntini rossi, gialli e rosa che indicano le<br />

realtà da loro coordinate. Sono centinaia. Nell'ufficio sono quasi tutte donne, nessun velo. Si<br />

professano ecologiste. "Israele esporta in Palestina circa 90 pesticidi proibiti in tutto il mondo,<br />

persino il DDT che in Europa non è più in commercio da cinquant'anni. Noi abbiamo fatto un<br />

opuscolo e l'abbiamo distribuito a tutte le nostre cooperative consigliando di non usare<br />

nessuno di questi pesticidi proibiti, che inquinano le acque e rovinano la terra". Il significato più<br />

importante di queste iniziative è politico, oltreché economico: dà fiducia alla gente, crea un<br />

tessuto sociale di solidarietà e di consapevolezza <strong>del</strong>la propria identità che è più importante di<br />

tante manifestazioni. Chiediamo di visitare una di queste cooperativa e Ghada ci accontenta. E'<br />

vicino a Betlemme. Ci arriviamo guidati da un perito agrario palestinese. Dobbiamo percorrere<br />

strade sterrate e attraversare colline per evitare i check point israeliani. Altrimeni non ci<br />

farebbero mai passare. Scolliniamo 4-5 volte, un'ora di tragitto per strade piene di buche per<br />

evitare tre chilometri di strada asfaltata con un check point israeliano. Finalmente arriviamo. Si<br />

tratta di una realtà modesta. Si tratta di un un piccolo villaggio di 200 anime. Una dozzina di


famiglie si sono unite in cooperativa, hanno messo insieme le loro galline che adesso sono<br />

chiuse nello stanzone di un appartamento disabitato di un membro <strong>del</strong>la cooperativa. "Se lo<br />

scoprono mi arrestano", dice. "Sono un centinaio di galline e fanno in media 86 uova al<br />

giorno", ci informa. 86? “Sì, 86, è la media degli ultimi 30 giorni”. E mi fa vedere il quadernetto<br />

con i numeri. "Parallelamente -continua- abbiamo creato una bottega e un punto di assistenza<br />

per i nostri agricoltori e lì prepariamo anche le piantine di ulivo". "Abbiamo bisogno di<br />

volontari, di aiuti finanziari, ma soprattutto di formazione professionale", risponde Ghada alle<br />

nostre offerte di collaborazione. Con Ghada ci scriveremo e sentiremo presto. Appena in Italia ci<br />

metteremo al lavoro per sostenere i loro progetti. E' finita, e dopo quasi quattro ore di<br />

interrogatorio all'aeroporto di Tel Aviv, torniamo a Roma.<br />

Israele (Ashkelon e Sderot), al confine con la striscia di Gaza (2006)<br />

Moderno, efficiente, tranquillo e silenzioso proprio come un tipico campus per studenti<br />

mo<strong>del</strong>lo. Anche questa oasi di rilassante e produttivo studio ha ricevuto nell’estate <strong>del</strong> 2005 il<br />

suo missile kassam proveniente dalla striscia di Gaza, mentre l’esercito israeliano metteva a<br />

ferro e fuoco il territorio palestinese uccidendo civili e distruggendo abitazioni civili. Da allora la<br />

vita al campus non è più la stessa, come anche nella vicina Sderot, poverissima cittadina<br />

israeliana di confine (e da cui proviene l’attuale ministro <strong>del</strong>la difesa, il laburista Amir Peretz)<br />

che per mesi è stata bersagliata da centinaia di missili e ordigni. Qui, a ridosso sella striscia di<br />

Gaza, gli abitanti israeliani di Sderot si sentono in guerra, sotto assedio. E meglio non se la<br />

passano quelli di Zikim o Karmija; e nemmeno quelli <strong>del</strong>la poco più lontana Ashkelon. In molti<br />

chiedono di porre fine a questi continui attacchi. Peretz più volte è venuto qui a promettere il<br />

“pugno di ferro” verso Hamas; e ancora di più quelli <strong>del</strong> Likud o di Kadima. Per non parlare dei<br />

partiti oltranzisti ultra-religiosi. La guerra continua ad essere -nel bene e soprattutto nel male- il<br />

collante <strong>del</strong>la società israeliana: un collante fatto di paura e di immobilismo. Nato dai molti<br />

pionieri arrivati qui nel nome <strong>del</strong>l'egualitarismo e <strong>del</strong>la solidarietà, questo paese si sta<br />

rovinando stritolato dal fondamentalismo e dalla deriva bellica. A parte Tel Aviv (città europea e<br />

secolarizzata, che vuole stare lontana da questa sporca guerra, lontana dalla linea <strong>del</strong> fronte) e<br />

Haifa (città industriale e laica, nel nord), gran parte <strong>del</strong> resto <strong>del</strong> paese sembra vivere nelle<br />

tenebre di una guerra diffusa ed interminabile. E qui nel sud (più che a est, com'era un tempo,<br />

ma come al nord verso il Libano e la Siria) che il paese si sente veramente al fronte,<br />

costantemente sotto minaccia da una striscia di Gaza, liberata da Sharon dai soldati israeliani e<br />

nello stesso tempo segregata dalla limitazione <strong>del</strong> passaggio di merci e persone.


E qui nel sud (come in molte <strong>del</strong>le aree di prima colonizzazione, come nel Negev) che ha avuto<br />

radicamento una certa sinistra laburista che ha trovato proprio nei kibbutz un luogo privilegiato<br />

di insediamento. Nato proprio intorno alla “scuola regionale” dei kibbutz, il Sapir College –a soli<br />

tre chilometri in linea d’aria dalla striscia di Gaza e a mezzora da Ber Sheva, la capitale <strong>del</strong><br />

deserto <strong>del</strong> Negev- ospita da tre anni un importante forum (coordinato dal Zvi Shuldiner che<br />

insegna al Sapir College ed è un antico collaboratore de il manifesto) che mette a confronto una<br />

parte <strong>del</strong>l’intelighenzia democratica <strong>del</strong> paese e molti gruppi di base, attivisti sociali e pacifisti.<br />

Quest’anno i temi <strong>del</strong> forum sono quelli <strong>del</strong>la costruzione di “un altro tipo di politica” e<br />

l’impegno contro “il darwinismo sociale” prodotto dalle <strong>politiche</strong> neoliberiste.<br />

In Israele i gruppi di base e di quella che potremmo definire la “sinistra sociale” <strong>del</strong> paese, non<br />

se la passano troppo bene. Non solo per la guerra e le conseguenze <strong>del</strong>l’occupazione dei<br />

territori palestinesi, ma anche per quella particolare “guerra interna” che in Israele ha assunto<br />

due facce: la militarizzazione <strong>del</strong>la società e <strong>del</strong>la politica e la riduzione dei diritti sociali e civili.<br />

La declinazione <strong>del</strong>la “questione sociale” in Israele è simile a quella di altri paesi:<br />

privatizzazione dei servizi sociali, riduzione <strong>del</strong> settore pubblico, precarizzazione <strong>del</strong> lavoro (con<br />

l’introduzione <strong>del</strong> cosiddetto “piano Wisconsin” che privatizza i centri di collocamento),<br />

aumento <strong>del</strong>la povertà e <strong>del</strong>le diseguaglianze. Niente di nuovo: è il credo neoliberista che qui in<br />

Medio Oriente si accompagna a guerra e a drammatiche discriminazioni.<br />

In Israele ci sono gruppi radicalmente all'opposizione che i pacifisti italiani hanno imparato a<br />

conoscere in questi anni nell’impegno per il riconoscimento dei diritti <strong>del</strong> popolo palestinese:<br />

da Peace Now ai vari forum e gruppi di donne, da Gush Shalom all’Alternative Information<br />

Center di M.Warshanski (che monitora costantemente le violazioni dei diritti umani), da riviste<br />

come Occupation Magazine fino al nuovo gruppo degli “Anarchici contro il muro” (di cui uno dei<br />

suoi leader è in carcere per aver manifestato contro il muro che segrega i territori palestinesi) ai<br />

gruppi che monitorano i 500 check point sul territorio palestinese. L’accusa più moderata che<br />

viene fatta dalla destra a questi gruppi è di essere anti patriottici, anti nazionali, sleali con lo<br />

Stato di Israele. E nelle conferenze pubbliche vengono interrotti e contestati. L'impegno dei<br />

gruppi di base israeliani contro la guerra e per il riconoscimento dei diritti <strong>del</strong> popolo<br />

palestinese è assai difficile ed impervio. Si va dalle accuse di tradimento agli insulti per strada,<br />

dalle minacce fisiche alla censura violenta. Sono prevalentemente gruppi di giovani e di donne,<br />

autentiche piccole minoranze che non sembrano usare toni particolarmente estremisti: alcuni<br />

dicono semplicemente le cose come stanno, altri sono molto pazienti ed argomentano le<br />

posizioni anche in modo molto diplomatico. Ma non c'è niente da fare: ottengono <strong>del</strong>le risposte<br />

violente, aggressive, incontrollate dai coloni, gli esponenti di destra, i militari. Non c'è modo di


trovare un linguaggio comune. Anche per noi che da sempre diciamo: “due popoli, due stati”, è<br />

difficile poter ragionare: si è trascinati in discussioni dove viene agitata la memoria <strong>del</strong>le<br />

sofferenze e degli attentati, dei torti subiti, <strong>del</strong> dramma storico <strong>del</strong> popolo israeliano. E<br />

l'opinione diversa viene tacciata di filo-palestinese, e non c'è modo di ragionare oltre. Ti rendi<br />

conto come il nostro <strong>pacifismo</strong> (quello occidentale, quello europeo) sia stata in realtà vittima di<br />

due errori (dannosi anche per i rapporti con la società israeliana). Il primo (fino agli anni '80)<br />

quello -in ossequio al mood terzomondista dagli anni '60 in poi- di un appoggio unidirezionale<br />

all'OLP di Arafat senza comprendere la specificità <strong>del</strong>la situazione mediorientale. Il secondo –<br />

nell'illusione pacificante <strong>del</strong> dopo '89- la banalizzazione <strong>del</strong>le pur giuste soluzioni prospettate<br />

<strong>del</strong> conflitto (“due popoli, due stati”, una specie di mantra), senza alcuna consapevolezza<br />

<strong>del</strong>l'enorme complessità <strong>del</strong>le questioni in gioco (e <strong>del</strong>la loro difficile e lenta trasformazione):<br />

questioni sociali, culturali ed economiche <strong>del</strong>le società israeliana e palestinese. Proposte che<br />

venivano via via stravolte non solo dalla trasformazione <strong>del</strong>la società israeliana, ma anche di<br />

quella palestinese, sotto il peso e la forza dei mutamenti di tutte le società arabe e islamiche.<br />

In Israele, oltre ai gruppi pacifisti, ci sono, poi molti altri gruppi impegnati sulle questioni<br />

sociali, economiche, ambientali. La sofferenza ed il disagio sociale nel paese sono molto estesi<br />

e profondi. Frammentati, divisi, minoritari, questi gruppi cercano comunque di far fronte alla<br />

“guerra sociale interna” fatta a colpi di privatizzazioni, di precarizzazione <strong>del</strong> lavoro, di<br />

riduzione <strong>del</strong>la spesa pubblica e <strong>del</strong> welfare. Gadi Algami ha dato vita nel 2000 (dopo l’inizio<br />

<strong>del</strong>la seconda Intifada) insieme a molti suoi amici ebrei ed arabi di Israele all’organizzazione<br />

Ta’ayush, che significa in arabo coesistenza, vita in comune. Una <strong>del</strong>le prime attività<br />

<strong>del</strong>l’organizzazione è stata quella di portare aiuti alla popolazione araba dei villaggi assediati e<br />

isolate dalle forze militari israeliane. Partivano convogli di camion all’alba con derrate e altri<br />

beni di prima necessità. Spesso dovevano aspettare ore per entrare nei villaggi <strong>del</strong>le città<br />

assediata: lunghe colonne ferme giorno e notte in attesa di autorizzazione. Organizzazione di<br />

volontari, ramificata su tutto il paese, ora Ta’ayush e’ impegnata contro il muro costruito da<br />

Israele contro i territori occupati: “La guerra in Libano e’ stata una catastrofe –dice Gadi Algami,<br />

poco più di trent’anni, con tre figli vive a Tel Aviv, mentre si aggira per le sale <strong>del</strong>la conferenza- e<br />

sempre di più assistiamo ad un processo di militarizzazione <strong>del</strong>la politica che si traduce in una<br />

militarizzazione <strong>del</strong>la società: dei suoi modi di pensare, di comportarsi”.<br />

Gli fa eco Natalia Espanioli, femminista e donna in nero, <strong>del</strong> centro anti violenza di Nazareth:<br />

“Bisogna evitare che la guerra sia la logica <strong>del</strong>la politica. Ci deve essere un’altra possibilità.<br />

Altrimenti i problemi sociali ed i diritti <strong>del</strong>la povera gente saranno sempre esclusi dall’agenda<br />

<strong>del</strong>la politica. La logica <strong>del</strong>la guerra e’ una logica maschilista, dobbiamo riportare nella politica


un’altra logica, quella <strong>del</strong>le donne, dei bisogni sociali, <strong>del</strong>la quotidianità, <strong>del</strong>le relazioni tra le<br />

persone”. E questi gruppi di base tentano disperatamente di tenere insieme l’impegno per la<br />

pace con il cambiamento sociale. Ancora Natalia Espanioli, ricorda come “Dobbiamo farci carico<br />

di tutte le sofferenze. Non ci deve essere competizione tra le sofferenze nostre e quelle altrui, o<br />

viceversa. La nostra società israeliana e’ abituata a vedere solo quelle proprie, e questo non e’<br />

giusto”. Tanto basta per attirarle interruzioni e proteste di una parte <strong>del</strong>la conferenza <strong>del</strong> Sapir<br />

College. E Natalia ricorda ancora come la discriminazione sia non solo verso i palestinesi, ma<br />

anche una costante nella società israeliana: contro gli arabi e i beduini (siamo a ridosso <strong>del</strong><br />

Negev) e –ancora oggi- contro gli ebrei provenienti dai paesi africani e arabi. Tanto che dieci<br />

anni è stata formata una “Rainbow Coalition” (di cui è stato proprio nel forum ricordato<br />

l’anniversario <strong>del</strong>la fondazione) al fine di difendere i loro diritti dalla discriminazione praticata<br />

(non solo politica ed economica, ma anche culturale) a loro danno dagli ebrei di provenienza<br />

europea, che rappresentano l’establishment <strong>del</strong> paese. E' la storica contrapposizione tra ebrei<br />

askenaziti (gli ebrei europei: Ashkenaz significa Germania nell'ebraico medievale) e sefarditi (i<br />

discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 e peregrinanti poi nel Maghreb e in altri<br />

paesi arabi), tra le elites <strong>politiche</strong> e sociali (i primi) e la parte più svantaggiata (i secondi). Al<br />

congresso dei laburisti <strong>del</strong> 1997 Ehud Barak chiese addirittura perdono alla comunità sefardita<br />

per i torti subiti nel secondo dopoguerra. Infatti, la cosa può sembrare singolare, il risentimento<br />

sefardita si è indirizzato prevalentemente verso i laburisti e non verso il Likud. Perché? Ha<br />

provato a spiegarlo Abraham Yehoshua, riandando alle origini <strong>del</strong>la formazione <strong>del</strong>lo stato di<br />

Israele:<br />

Qual è l'ingiustizia commessa dal partito laburista nei confronti degli immigrati<br />

sefarditi e soprattutto di quelli <strong>del</strong>l'Africa <strong>del</strong> Nord? Ritengo che alla radice <strong>del</strong>la<br />

questione vi sia la concezione ideologica <strong>del</strong>la sinistra in base alla quale un essere<br />

umano può cambiare, liberarsi dalle sovrastrutture, <strong>del</strong>le tradizioni e dei costumi aviti<br />

per trasformarsi in qualcosa di nuovo. La pretesa rivolta agli immigrati <strong>del</strong> Maghreb di<br />

trasformarsi in ebrei di una nuova sorta pareva agli ovvi dei governanti laburisti<br />

moralmente legittima... Ma gli ashkenaziti giunti in Israele non avevano mai preso in<br />

considerazione l'idea che la loro trasformazione in ebrei israeliani dovesse implicare<br />

un cambiamento di cultura. Essi mantennero le loro abitudini... e non rinunciarono a<br />

Mozart, a Beethoven, a Tolstoj, a Dostoevskij, a Rembrandt e a Michelangelo. Il<br />

governo socialista di allora pretese invece dagli ebrei sefarditi, e soprattutto da quelli<br />

marocchini, un doppio sforzo: non solo rinnegare la diaspora per trasformarsi in<br />

nuovi ebrei ma abbandonare le tradizioni orientali per accettarne altre. Non c'era<br />

alcun dubbio che l'infrastruttura <strong>del</strong>lo stato di Israele sarebbe dovuta essere di


stampo occidentale... Gli ebrei giunti dai paesi orientali dovettero non solo<br />

trasformarsi, come tutti, in “ebrei nuovi” ma anche “occidentalizzarsi”. Questa<br />

imposizione era, ed è tuttora, al di là <strong>del</strong>le possibilità di gran parte di loro e la sua<br />

legittimità morale e altamente discutibile.<br />

E' istruttivo come il sacrosanto riconoscimento dei diritti <strong>del</strong> popolo palestinese debba poi -nel<br />

nostro caso- affrontare una sorta di “corpo a corpo” con un altrettanto importante diritto come<br />

quello <strong>del</strong> popolo ebraico alla sua terra madre: paure, fobie, frustrazioni e sospetti entrano in<br />

una girandola senza fine di accuse e irrazionali recriminazioni. Ti chiedi quanto il principio di<br />

autodeterminazione (di ciascuno) debba essere assoluto o relativo, quali vincoli e condizioni<br />

debba avere, quali procedure e tempi debba seguire per rispettare i diritti umani e la pace. Chi<br />

ci dice dove finisce il diritto di autodeterminazione di uno e inizia quello <strong>del</strong>l'altro? E poi,<br />

l'autodeterminazione si deve tradurre per forza nella costituzione di uno Stato? E siamo sicuri<br />

che il principio <strong>del</strong>l'autodeterminazione debba essere senza alcun condizionamento? (ad<br />

esempio senza essere nonviolenta, concordata, rispettosa dei diritti <strong>del</strong>le minoranze ?)<br />

I gruppi di base <strong>del</strong>la sinistra israeliana si muovono dentro la crisi <strong>del</strong>la sinistra israeliana (crisi<br />

di cui nel dibattito <strong>del</strong>la conferenza al Sapir College, si avverte la consistenza) sempre di più<br />

considerata distante dai problemi sociali <strong>del</strong> paese, spesso identificata come una elite<br />

privilegiata. E tale accusa riguarda anche una parte <strong>del</strong>la sinistra sociale israeliana, quella<br />

storicamente radicatasi con le prime esperienze comunitarie dei coloni. La sinistra israeliana -<br />

come quella di molti altri paesi- sembra avvolta in una pesante crisi di identità (come d'altronde<br />

anche da noi): quello che poteva dare lo ha fatto con Rabin, e poi è morta con lui. Non si<br />

distingue sul terreno coraggioso <strong>del</strong>la pace, non su quello <strong>del</strong>la secolarizzazione <strong>del</strong>la società,<br />

non su quello <strong>del</strong>la questione sociale (che oggi è pesantissima nel paese). Rischia di essere<br />

considerata snob, elitaria, staccata dalla realtà drammatica <strong>del</strong> paese.<br />

Paradigmatica in questo senso e’ la vicenda dei kibbutz (sono circa 200 in tutto il paese), una<br />

gran parte dei quali nati nei primi anni <strong>del</strong> secondo dopoguerra proprio in stretta connessione<br />

con il movimento laburista e con un’idea di socialismo comunitaria e collettivista. Chi negli anni<br />

'70 non ha pensato di andare una volta in un kibbutz, una sorta di territorio libertario in cui i<br />

figli vengono allevati da tutti, non sei proprietario di niente, lavori secondo le tue capacità e<br />

ricevi quello di cui hai bisogno? Ma anche queste isole di egualitarismo sociale e di proprietà<br />

collettiva hanno nel corso <strong>del</strong> tempo perso la loro ideologia originaria: si sono aperte al profitto,<br />

alle privatizzazioni, all’individualismo più tradizionale. Dove rimaniamo noi per qualche giorno,<br />

nell’agglomerato di Dorot, non sembra proprio di stare in un Kibbutz. Villette a schiera come in


un villaggio turistico, prato all’inglese, un piccolo zoo per i bambini (l’educazione e la vita in<br />

comune dei bambini non c’è più da tempo in gran parte dei Kibbutz), automobiline elettriche<br />

(come quelle dei campi di golf) che girano per i vialetti alberati, qualche SUV parcheggiato. E<br />

quello che fino a poco fa era proprietà condivisa, collettiva ora e’ in progressivo corso di<br />

smantellamento. Case vendute a chi ci abita, la mensa comune privatizzata ed affidata ad una<br />

società profit, le industrie (a Dorot ce n’è una di confezionamento di aglio e di altri prodotti<br />

ortofrutticoli) sempre di più condotte con piglio capitalistico. E i lavoratori sempre di più<br />

vengono da fuori, mentre prima appartenevano alla comunità. E la fine di un’utopia su cui<br />

socialisti libertari e qualche anarchico aveva avuto qualche illusione di una società diversa. Il<br />

comunitarismo libertario e socialista è stato così adeguato alla “modernità” e al benessere<br />

individualista e consumista. E così quelli che erano stati il simbolo di una scelta rude, ma sobria<br />

e solidaristica oggi sono diventati l'emblema di privilegi e di tranquillità borghese. Nei kibbutz<br />

non senti l'angoscia <strong>del</strong>la guerra che incombe, ma se esci dai suoi recinti e fai qualche<br />

chilometri e ti ritrovi a Sderot in attesa di un Kassam da Gaza, allora ti rendi conto che quella<br />

storia è finita per sempre. Rileggendo un testo di Amos Oz, A Perfect Peace, ambientato in un<br />

kibbutz prima <strong>del</strong>la guerra dei sei giorni (e che riflette bene l'inizio <strong>del</strong> disorientamento e <strong>del</strong>la<br />

crisi <strong>del</strong> movimento laburista e <strong>del</strong>l'identità kibbutzina) ho trovato questo passaggio:<br />

“Salve. Molto piacere. Mi chiamo Azariah Gitlin. Io... mi piacerebbe restare qui. Vivere<br />

da voi, cioè. Ormai solo nei kibbutz c'è giustizia. In nessun altro posto c'è giustizia,<br />

oggigiorno. Vorrei vivere qui. Eitan si trovò dunque costretto a tendere la mano e<br />

toccare, seppure con la punta <strong>del</strong>le dita, quella che gli veniva tesa. Gli sembrò strano<br />

scambiare una stretta di mano con quel personaggio un po' stordito, lì fra siepi dietro<br />

il magazzino dei fertilizzanti. Azariah Gitlin continuò a spiegare e a chiedere:<br />

“Guarda, compagno, non vorrei che mi prendessi per quello che non sono. Non<br />

c'entro niente io con quel tipo di persone che arrivano al kibbutz per motivi personali<br />

e cercano chissà cosa. Al kibbutz è la gente è ancora legata, mentre nel resto <strong>del</strong><br />

mondo si vedono ormai solo odio, gelosia, volgarità. Per questo sono venuto qui, con<br />

l'intenzione di unirmi a voi e cambiare in meglio la mia vita”<br />

I kibbutz erano così il simbolo di un'utopia politica, sociale e anche umana. Tutto questo non c'è<br />

più e la storia <strong>del</strong> protagonista (Yonatan) di A Perfect Peace, che lascia il kibbutz per<br />

avventurarsi nel mondo esterno -alla vigilia di una nuova guerra arabo/israeliana- è il prototipo<br />

<strong>del</strong> fallimento di una umanità che ha smarrito per sempre un'utopia che si voleva concreta, ma<br />

che è durata troppo poco. Se i kibbutz appartengono ormai al passato (almeno per ciò che<br />

riguarda il loro significato libertario e socialista), c’è chi e’ concentrato sulle sfide <strong>del</strong>l’oggi. Il


appresentante <strong>del</strong>la sezione israeliana <strong>del</strong>l’Oxfam, Ishai Menuchin (un giovane ricercatore ed<br />

attivista che ha lavorato con i gruppi <strong>del</strong> commercio equo e solidale) parla a lungo di<br />

un’economia sociale alternativa a quella capitalista, mentre l’idea di una “banca etica” (quella<br />

italiana, di cui parlo al convegno) suscita un grande entusiasmo tra tutti i partecipanti. Sono<br />

bombardato di domande ed informazioni: mi chiedono di prendere contatti e consigli su come<br />

fare una banca etica in Israele. L’organizzazione Shatil è da tempo impegnata a promuovere<br />

diritti sociali, partecipazione democratica, società civile. Shatil ha anche il ruolo di Fondazione<br />

che finanzia i gruppi di base. In Israele non c’è, come in Italia, un “forum <strong>del</strong> terzo settore”, ma<br />

Shatil cerca in qualche modo di coprire questo vuoto. Fanno attività di microcredito, corsi di<br />

partecipazione democratica, danno vita a gruppi comuni di ebrei ed arabi, attivita’ di advocacy<br />

per le minoranze (come i beduini, qui nell’area) discriminate. La Direttrice di Shatil, Rachel Liel,<br />

ci dice: “Siamo molto interessati all’esperienza <strong>del</strong>la finanza etica, vorremmo ora costruire una<br />

banca che sia etica, che dia finanziamenti ai gruppi di base, alle attivita’ sociali. <strong>Le</strong> vecchie<br />

banche nate dall’esperienza <strong>del</strong> movimento dei lavoratori, qui in Israele sono ormai diventate<br />

<strong>del</strong>le banche tradizionali che hanno perso il senso <strong>del</strong>la loro origine. Servirebbe proprio una<br />

“banca etica” per dare identità e coerenza ai nostri interventi sociali”. Tenere vive queste<br />

esperienze è anche un modo per sfuggire alla tenaglia <strong>del</strong>la guerra e di una società sempre più<br />

militarizzata. A volte non sai però, se questo lavoro di una parte <strong>del</strong>la sinistra sociale di base<br />

israeliana su temi come quelli <strong>del</strong>la finanza etica o <strong>del</strong> commercio equo e solidale (comune un<br />

lavoro assai di nicchia, da molti considerato un po' esotico) sia effettivamente la scelta che<br />

serve per superare le paure prodotte dalla guerra oppure un diversivo per evitare di confrontarsi<br />

con un problema insolubile e che alimenta spaccature nella società.<br />

Infatti questo rinnovato attivismo sociale (ancora debole e frammentato, con pochi legami con i<br />

movimenti sociali globali di Porto Alegre) si continua a scontrare pero’ con la mancata soluzione<br />

<strong>del</strong> conflitto israelo-palestinese e <strong>del</strong>l’occupazione <strong>del</strong>la West Bank. L’impressione e’ quella di<br />

una claustrofobia sociale, di una trappola politica (fatta di impotenza, mancanza di<br />

coordinamento, concorrenza, ecc.) azionata dalla logica dei guerra. E’ per questo che il titolo di<br />

una <strong>del</strong>le sessioni <strong>del</strong>la conferenza di Sapir “La logica <strong>del</strong>la guerra. La sola logica?” rischia di<br />

essere, purtroppo, ancora tremendamente vero e mettere ancora una volta nell’angolo la<br />

sinistra ed i movimenti sociali <strong>del</strong>la società israeliana. A questa “logica” bisogna resistere con<br />

un “altro modo di fare politica”, come gli esponenti dei gruppi di base auspicano. Ed è anche<br />

uno dei pochi messaggi di ottimismo <strong>del</strong>la conferenza. Anche in Israele, nella migliore società<br />

civile, c’è poca (quasi nulla) fiducia nei partiti, e in modo specifico nel Labour. Come dice Natalia<br />

Espanioli: “Abbiamo veramente bisogno di un’altra logica alla base <strong>del</strong>la politica; che non è<br />

quella <strong>del</strong>la guerra, ma <strong>del</strong> riconoscimento <strong>del</strong>le reciproche sofferenze di ciascun individuo e di


ciascun popolo”. E’ questa la base per un “altra Israele”. E allora “l'altra politica” e la soluzione<br />

politicia e concreta <strong>del</strong> conflitto israeliano-palestinese sembrano sostenersi reciprocamente. La<br />

salvezza (non solo la sicurezza dal terrorismo) <strong>del</strong>la società israeliana può venire solo<br />

dall'innescare questa dinamica virtuosa. Non tutte le guerre (come le crisi) sono eguali: alcune<br />

producono spostamenti benefici (si guardi alla Gran Bretagna nel 1945 con lo spostamento a<br />

sinistra e la nascita <strong>del</strong> Welfare) mentre altre producono conseguenze disastrose (come in<br />

Germania dopo il 1918). Israele sembra -a detta di molti- essersi incamminata su una strada<br />

dalle mille incognite. E da quello che per molti era stato il sogno <strong>del</strong>la nuova frontiera, sembra<br />

ora diventato l'incubo di una trincea permanente.


CAPITOLO III<br />

GUERRE FRATRICIDE<br />

1991<br />

Slovenia e Croazia<br />

Giugno-Luglio<br />

Da Trieste a Belgrado. 30 giugno, due giorni dopo la dichiarazione di indipendenza <strong>del</strong>la<br />

Slovenia, ci ritroviamo per una manifestazione di poche centinaia di persone a Piazza <strong>del</strong>l'Unità<br />

a Trieste. C'è qualche tensione con alcuni esponenti <strong>del</strong>la comunità slovena. Il 7 luglio a<br />

Belgrado ci si riunisce in duecento. Per l'Italia ci sono <strong>del</strong>egazioni <strong>del</strong>l'Associazione per la pace,<br />

<strong>del</strong>l'Arci, <strong>del</strong>le Acli, <strong>del</strong>la Cgil, dei Verdi. Dall'Europa ci sono esponenti <strong>del</strong>la sinistra europea.<br />

Dalla Polonia arrivano Geremeck e <strong>del</strong>la Helsinki Citizens Assembly Mary Kaldor e Mient Jan<br />

Faber e discutono con l'anziano Gilas sul futuro <strong>del</strong>la Jugoslavia. Dice Gilas: " Se la guerra si<br />

limiterà alla Slovenia e alla Croazia ne potremo uscire fuori. Se si estenderà anche alla Bosnia,<br />

allora durerà anni". Mary Kaldor interviene: "I movimenti nazionali <strong>del</strong>l'ottocento erano<br />

progressivi, democratici, tendevano a includere, a rompere gli steccati, erano espressione <strong>del</strong>la<br />

borghesia cittadina. I nazionalismi odierni sono antidemocratici, tendono a escludere, a erigere<br />

steccati, espressione dei ceti arretrati contadini. I movimenti nazionali <strong>del</strong> secolo scorso<br />

avevano una funzione di liberazione, quelli di oggi sono regressivi”. Sonia Licht, serba ed ebrea,<br />

esponente <strong>del</strong> '68, espulsa dalla <strong>Le</strong>ga dei Comunisti, ora leader <strong>del</strong> movimento per la pace<br />

jugoslavo dice: "Devo fare la Cassandra, ma voi ancora non avete capito ciò che accadrà qui". I<br />

pacifisti a Belgrado -e ovunque- sono una minoranza. Stretti tra nazionalismo e paura, sono<br />

<strong>del</strong>le elites intellettuali senza sponda politica. Tra questi piccoli gruppi ci sono l' Alleanza Civica,<br />

la Fondazione Soros, il Belgrade Circle. I media -ad eccezione di qualche giornale o televisione,<br />

come il periodico Vreme e l'emittente Studio B 92- sono stati tra i principali responsabili <strong>del</strong>la<br />

guerra. Hanno alimentato la fobia nazionalista e l'immagine <strong>del</strong> nemico. Hanno prodotto<br />

l'evento, la guerra, lo hanno fatto precipitare. L'opposizione che conta a Belgrado, non é quella<br />

che ci piace. E' principalmente quella <strong>del</strong> monarchico Draskovic e <strong>del</strong>lo sciovinista Seselj. Gli<br />

studenti si mobilitano e fanno <strong>del</strong>l'Università il centro <strong>del</strong>la resistenza. Si fanno assemblee,<br />

cortei, ci si organizza per resistere alla deriva nazionalista e di guerra, si creano network e<br />

gruppi di lavoro, si prendono contatti con le altre città europee, ma il movimento stenta a<br />

decollare, e non dura.<br />

Settembre


La crovana <strong>del</strong>la pace. Dopo la Slovenia è toccato alla Croazia. C'è la secessione <strong>del</strong>le Krajine e<br />

lo scontro tra l'esercito croato e quello federale. Si decide alla convenzione END di Mosca<br />

(agosto) di fare una carovana per la pace da Trieste a Sarajevo. Si parte il 25 settembre <strong>del</strong> 1992<br />

dalla collina di San Giusto a Trieste. Dopo qualche discorso di rito di assessori e rappresentanti<br />

locali, la gente - arrivata a Trieste con i treni <strong>del</strong>la notte- cerca il proprio pullman, e poi via.<br />

Segue una troupe <strong>del</strong> TG3 e ci sono alcuni parlamentari: Luciana Castellina, Alex Langer e due<br />

deputati austriaci. Oltre ai pullman ci sono macchine, furgoncini, camper: in tutto trecento<br />

pacifisti, sindacalisti, sacerdoti e boy scout. Il coordinamento non é perfetto e, prima di<br />

attraversare il confine, siamo già in ritardo sui tempi di marcia. In Istria incontriamo gli<br />

esponenti <strong>del</strong>la minoranza italiana a Fiume. L'incontro si tiene in una grande palestra. C'é poca<br />

gente. L'atmosfera é un po' desolata, la città sembra assente. "La colpa <strong>del</strong>la guerra é <strong>del</strong><br />

vecchio sistema" sentenzia con rancore un rappresentante <strong>del</strong>la comunità italiana. Per<br />

bilanciare l'incontro <strong>del</strong>la prima tappa un gruppo <strong>del</strong>la carovana si incontra con la minoranza<br />

slovena (che in questa zona, come d'altronde lungo tutta la linea di confine, é molto numerosa e<br />

anche discriminata) a Villa Opicina: sostengono l'indipendenza slovena e croata<br />

dall'”aggressione jugoslava". Gli italiani si devono ancora orientare; sono qui per capire. Quelli<br />

che intervengono balbettano posizioni di principio: parliamo di pace, diritti umani,<br />

democrazia... Molti parlano di guerra civile, ma agli sloveni non piace; " é una guerra di<br />

indipendenza".<br />

La sera si arriva a Lubjana, con grande ritardo e si salta la manifestazione di piazza. Il palco é<br />

montato, ma non c'é nessuno sopra. Solo gli operai che stanno già svitando i primi tubi<br />

innocenti. Siamo arrivati troppo tardi. Ci sono <strong>del</strong>le bancarelle in piazza e ragazze in costume<br />

tradizionale da fiera paesana. I nostri pullman arrivano a singhiozzo. I pacifisti vengono dirottati<br />

ai loro alloggi: parrocchie, ostelli <strong>del</strong>la gioventù, scuole. C'è disappunto tra gli organizzatori. C'è<br />

un gruppo di obiettori di coscienza italiani che vengono dalla comunità di Papa Giovanni XXIII°,<br />

una comunità che si trova a Rimini. Non potrebbero uscire fuori dall'Italia. Quando torneranno si<br />

autodenunceranno presso la procura militare. Marco Hren, <strong>del</strong> Centro per la cultura <strong>del</strong>la<br />

nonviolenza, di Lubjana, si aggira per la piazza. E' critico verso le tradizionali organizzazioni<br />

pacifiste jugoslave, accusate di essere legate ai vecchi regimi. I nonviolenti sloveni ancora non<br />

hanno digerito la parabola di Janez Jansa, da obiettore di coscienza e oppositore pacifista al<br />

regime comunista, a ministro (in tuta mimetica) <strong>del</strong>la difesa territoriale <strong>del</strong> nuovo governo postcomunista.<br />

Il 26 settembre, da Lubjana, si parte e arriva a Zagabria. La discussione si arroventa. Sui<br />

pullman c'è polemica. Soprattutto i veneti, Don Albino Bizzotto (Beati i Costruttori di Pace) in


testa, sono critici verso la conduzione <strong>del</strong>la carovana: troppa poca comunicazione, tutto è già<br />

deciso, e così via. L'”organizzazione” mi mette a fare il capo pullman da Bizzotto e devo fare<br />

due ore di assemblea permanente per cercare di calmare le acque. Si arriva a Zagabria che<br />

sembra sotto assedio. La guerra qui, a differenza di Lubjana, si vede. Una guerra non ancora<br />

civile, ma tra Stati. Il centro <strong>del</strong>la città é deserto e i pullman raggiungono una sala comunale con<br />

prudenza. Una signora, con un sacchetto di plastica <strong>del</strong>la spesa mezzo vuoto, ci dice che sono<br />

previsti imminenti bombardamenti. Ci dice di andare via. Gli incontri con le autorità locali ed i<br />

rappresentanti <strong>del</strong>le associazioni di Zagabria sono all'insegna <strong>del</strong> nazionalismo: "Se volete<br />

aiutare la pace, fateci avere le armi per difenderci", dice uno di loro. Anche le "madri coraggio"<br />

-qui molto attive- che tentano di portare via i loro figli dall'armata federale non sono immuni dal<br />

virus nazionalista: i loro discorsi sono molto croati e alcune di loro viaggiano per l'Europa a<br />

spese <strong>del</strong> governo con lo scopo di fare propaganda contro l'aggressore serbo. La stampa locale<br />

ci accusa di essere filo-serbi, perché chiediamo come prima cosa il "cessate il fuoco", non<br />

schierandoci (con loro). Per lo stesso motivo a Belgrado ci accuseranno di essere agenti sloveni<br />

e croati. Chiedono di schierarsi, di non essere imparziali. A Zagabria rimaniamo solo tre ore.<br />

Partiamo per Belgrado. Ma non si può percorrere la veloce autostrada che congiunge le due<br />

città. In questo caso basterebbero alcune ore. C'é la guerra e i nuovi confini tra Croazia e Serbia<br />

non si possono attraversare. Bisogna allora attraversare l'Ungheria e passare il confine a<br />

Subotica, in Vojvodina, dove la maggioranza <strong>del</strong>la popolazione è di etnia ungherese. Il viaggio é<br />

molto lungo: arriviamo alle quattro <strong>del</strong> mattino. Saltano le manifestazioni previste. Gli<br />

organizzatori locali sono molto seccati. Subotica, come molte città di confine, é crogiolo di<br />

lingue e di etnie (più di venti). Come simbolo di convivenza, Subotica viene subito adottata da<br />

molti pacifisti italiani. Finora a Subotica la guerra non é arrivata. Si arriva in giornata a Novi Sad,<br />

capitale <strong>del</strong>la Vojvodina, anche questa come Subotica, punto di incontro di molte etnie. A Novi<br />

Sad ci sono significative rappresentanze e iniziative pacifiste. Qui c'é una vivace lotta politica e<br />

molti sono impegnati in una dura lotta contro i nazionalisti. Un gruppo <strong>del</strong>la carovana si ferma<br />

nella città.<br />

Sempre in Vojvodina (nella parte settentrionale), c'é un intero villaggio -Tresnjevac- che sta<br />

facendo resistenza nonviolenta contro Milosevic. Non riusciamo però ad andarci. Qui il 98%<br />

<strong>del</strong>la popolazione é ungherese. I maschi sono tutti disertori. Finora l'armata serba non é andata<br />

a prenderli. E loro hanno deciso di tirarsi fuori dalla guerra. Gli abitanti <strong>del</strong> paese si danno i<br />

turni nei punti di avvistamento da cui poter scorgere l'eventuale arrivo <strong>del</strong>le truppe federali e<br />

dare, in quel caso, l'allarme all'intero villaggio. All'inizio i carri armati hanno circondato il paese,<br />

ma se ne sono anche andati. Di queste piccole storie di resistenza alla guerra (come dei


centomila e più disertori serbi, dei 7.000 riservisti di Valjevo che si sono ribellati, e dei 5.000 di<br />

Kniasevac che hanno abbandonato fucili e divise) poco si parla. A Tresvjenac, in estate, si danno<br />

appuntamento ogni anno le "donne in nero" e le esponenti dei gruppi pacifisti e femministi<br />

europei: una settimana di confronto e di dibattiti. Siamo a Novi Sad, sulle scalinate <strong>del</strong><br />

palazzetto <strong>del</strong>lo sport, dove partecipiamo ad una manifestazione, in poco più di un centinaio di<br />

persone. Soliti discorsi, con noi pacifisti occidentali che cerchiamo, con grande difficoltà, di<br />

conciliare il principio all'autodeterminazione e la tutela dei diritti umani, i diritti dei popoli e le<br />

garanzie per le minoranze.<br />

Il 28 settembre arriviamo a Belgrado, alla Casa <strong>del</strong>la gioventù, zeppa di ragazzi e ragazze,<br />

assordata di musica rock e da annunci gracchiati da vecchi altoparlanti. Festoni colorati e<br />

manifesti, volantini e foto tappezzano i muri zebrati dai colori di lampadine psiche<strong>del</strong>iche.<br />

Quando parla, per ricevere i pacifisti italiani il rappresentante <strong>del</strong> comune di Belgrado, é accolto<br />

da una salva di fischi dei pacifisti belgradesi. Con noi é Sonia Licht, che lavora alla Fondazione<br />

Soros di Belgrado che aiuta vari giornali di lingua albanese in Kosovo: "Il fatto fondamentale é<br />

che tutte le parti stanno cercando di risolvere il problema <strong>del</strong> loro futuro attraverso il<br />

rafforzamento <strong>del</strong> loro Stato. La premessa <strong>del</strong> dialogo serbo-albanese é la seguente: dobbiamo<br />

evitare che inizi un'altra guerra in Kosovo". Ora, però, incombe la ripresa <strong>del</strong>la guerra tra serbi e<br />

croati in Slavonia e l'inizio di un incendio dalle incalcolabili conseguenze in Bosnia Erzegovina.<br />

Aggiunge Sonia Licht: " Ma, se si divide -come si sta dividendo- la Yugoslavia, si dividerà anche<br />

la Bosnia Erzegovina. E' inevitabile. La Bosnia non potrà continuare ad essere uno stato<br />

multietnico e multinazionale se sarà circondato da Stati nazionalisti ed etnicisti. Se così non<br />

fosse sarebbe un miracolo". A Belgrado le donne sono particolarmente attive. Prendendo<br />

esempio dalle donne israeliane (che manifestavano vestite in nero contro la guerra in Libano)<br />

stanno nascendo anche qui le donne in nero. L'appuntamento è per il prossimo 9 ottobre,<br />

quando da ogni mercoledì si ritroveranno davanti alla Presidenza <strong>del</strong>la Repubblica, vestite di<br />

nero per manifestare contro la guerra. In programma anche una "Maratona antiguerra<br />

belgradese" per organizzare una raccolta di firme per un referendum contro la guerra. Racconta<br />

'Stascia <strong>del</strong>le Donne in Nero di Belgrado dopo una riunione don le donne slovene e croate: "La<br />

riunione é stata molto dolorosa, specialmente per le femministe. Ci siamo rese conto che la<br />

guerra ha fatto cambiare i rapporti tra le donne, che alcune femministe si sono identificate, per<br />

prima cosa, con la propria causa nazionale, emarginando e scordando l'identificazione di<br />

genere. Ci ha colpito profondamente che non tutte le femministe sono pacifiste, come<br />

pensavamo sempre".<br />

E' l'ora di partire per Sarajevo. Seguiamo il corso <strong>del</strong>la Drina attraversando splendide gole e


corridoi di boschi e colline verdi. Siamo in Bosnia Erzegovina: la piccola jugoslavia. Il<br />

serpentone di pullman arriva a Sarajevo e si organizzano le iniziative. Ci sono incontri con la<br />

Presidenza <strong>del</strong>la Repubblica e il Governo. La città é piena di gente. Nella città vecchia turisti<br />

stranieri fanno acquisti di souvenir. Con l'occasione giunge anche un aereo speciale da Roma. Ci<br />

sono il vice Presidente <strong>del</strong> Parlamento europeo, Formigoni e due gruppi musicali: i Nomadi ed i<br />

Liftiba. Con loro altre 300 persone (rappresentanti di enti locali, associazioni, sindacati) che si<br />

sono venuti a unire a noi. I musicisti suoneranno per la pace in serata. Una grande catena<br />

umana, con tanta gente di Sarajevo, stringe il centro <strong>del</strong>la città. Il concerto si tiene in un vecchio<br />

piazzale d'oratorio. Augusto Daolio dei Nomadi canta Auschwitz, ma c'è poca gente. Molti non<br />

capiscono l'italiano e i ragazzini di Sarajevo giocano a rincorrersi sotto il palco. Qui i Nomadi<br />

non sono conosciuti. Si susseguono anche gli incontri politici, con partiti e associazioni. E un<br />

biondino, dalla faccia intelligente, <strong>del</strong> partito socialdemocratico ci dice: "Quando tornate in<br />

Europa, chiedete che mandino qui i caschi blu <strong>del</strong>l'Onu. La prossima tappa <strong>del</strong>la guerra é la<br />

Bosnia. E se scoppia qui, é una polveriera. La Bosnia é una Jugoslavia in miniatura. Qui la guerra<br />

non finirebbe mai.". Molti di noi ancora non capiscono. Un giornalista <strong>del</strong> TG1 mi dice: “torno in<br />

Italia, qui ormai i servizi non superano il minuto, c'è poco da fare”.<br />

Settembre-Novembre<br />

La solidarietà dall'Italia. In Italia, <strong>del</strong>la guerra in ex Jugoslavia se ne occupano solo alcuni gruppi<br />

locali (quelli <strong>del</strong> Veneto e <strong>del</strong> Friuli principalmente), mentre la leadership pacifista nazionale<br />

sembra essere piuttosto rassegnata. L'Associazione per la pace é quasi assente - sul piano<br />

nazionale- dall'iniziativa contro la guerra. A Verona si é costituito un comitato di sostegno alle<br />

forze e alle iniziative di pace nella ex Jugoslavia (lo sostengono Mao Valpiana <strong>del</strong> Movimento<br />

Nonviolento e Alex Langer, che è il vero ideatore); sono i più attivi. Per i pacifisti, l'est e<br />

l'Europa dei conflitti etnici sono un buco nero, ancora da sondare. In Italia però ci sono diverse<br />

campagne e progetti di solidarietà che si stanno costituendo. Già dall'autunno <strong>del</strong> 1991. A<br />

Treviso, Alberto Salvato ha iniziato a sostenere i pacifisti di Novi Sad in Vojvodina; ha adottato il<br />

Villaggio <strong>del</strong> bambino e aiuta questo orfanotrofio multietnico portando vestiti e medicinali. Nel<br />

Villaggio <strong>del</strong> bambino ci sono quasi 300 bambini -tra cui molti orfani- di tutte le etnie. I bambini<br />

stanno in <strong>del</strong>le casette, ciascuna con un proprio cucinino e un televisore. Sembra un paesaggio<br />

svizzero, ma in realtà rischia di chiudere per mancanza di soldi e di cibo. Salvato, una settimana<br />

al mese parte con la sua scassata Ford e ritorna di lunedì mattina: "Non sto facendo un lavoro<br />

umanitario, ma politico. Aiuto le forze che in Jugoslavia si battono contro la guerra e il<br />

nazionalismo", tiene a ribadire. Fa questo lavoro umanitario-politico aiutato solo da tanti piccoli<br />

gruppi e comitati locali <strong>del</strong> nord-est. A Trieste, Gianfranco Schiavone (obiettore di coscienza),<br />

Tiziana Roncarati (<strong>del</strong>l'Arci ragazzi) e altri danno vita alla campagna Dai ruote alla pace, per il


trasporto di beni di prima necessità alle popolazioni colpite. Aprono un magazzino, affittano<br />

pullmini e anche loro si mettono in viaggio nei giorni liberi verso gli ospedali e i villaggi colpiti.<br />

Trieste non é città facile, per via <strong>del</strong>la sua storia e <strong>del</strong>la sua frontiera. La campagna di Dai ruote<br />

alla pace si estende a tutto il triveneto: nascono comitati a Venezia, Portogruaro, Trento,<br />

Pordenone. Dopo l'invio degli aiuti la campagna spedisce volontari in 32 campi profughi<br />

<strong>del</strong>l'Istria. <strong>Le</strong> iniziative cominciano a sparpagliarsi fuori dalla tradizionale area <strong>del</strong>le venezie. E<br />

non solo l'Emilia Romagna. <strong>Le</strong> Donne contro la guerra di Milano organizzano le prime attività di<br />

solidarietà con le donne jugoslave. A Savona l'Associazione per la pace invia i primi carichi per i<br />

profughi e riesce a strappare dall'Avis la donazione di un'emoteca. Da Roma, il Servizio civile<br />

internazionale invia i volontari nelle zone distrutte <strong>del</strong>la Croazia e <strong>del</strong>la Slovenia: nei campi<br />

profughi, a Pakrac (sul confine serbo-croato, in Slavonia) e in tante altre località. Ha come<br />

partner il Suncokret, il Girasole: organizzazione umanitaria e di volontariato croata, che<br />

organizza campi di lavoro.<br />

1992<br />

Bosnia Erzegovina<br />

Giugno<br />

La guerra a Sarajevo. Da due mesi è iniziata la guerra in Bosnia Erzegovina. Veltroni scrive un<br />

articolo su l'Unità, dal titolo "Ma dove sono i pacifisti ? ", lamentandosi <strong>del</strong>la mancanza <strong>del</strong>le<br />

grandi manifestazioni come ai tempi <strong>del</strong> Vietnam. L'Associazione per la pace risponde con una<br />

lettera privata, ricordandogli tutte le cose fatte finora -aiuti, iniziative di là, manifestazioni, ecc.e<br />

soprattutto rimproverandolo <strong>del</strong> quasi inesistente spazio dato a raccontare <strong>del</strong> dramma di<br />

questa guerra e <strong>del</strong>le iniziative di pace sull'Unità. La nostra lettera é un po' ruvida e spigolosa.<br />

Veltroni chiama un po' seccato nel nostro ufficio e promette di seguire meglio quello che<br />

facciamo. Ci vediamo a Padova in assemblea. E' il 7 giugno. Ci sono posizioni diverse: c'é chi<br />

difende il diritto all'autodeterminazione e chi vuole ripristinare la Federazione jugoslava; chi<br />

preme perché non sia demonizzata la nazione serba e chi vuole dare un mandato più forte alle<br />

truppe. Rasimelli propone di lavorare con le opposizioni a Milosevic. Lidia Campagnano, una<br />

giornalista <strong>del</strong> manifesto, risponde: "Con chi, con Draskovic, l'ultra nazionalista? Pensi sia<br />

meno sciovinista di Milosevic? Dobbiamo sostenere le forze democratiche, non le forze<br />

nazionaliste.". Si parla anche <strong>del</strong> ruolo <strong>del</strong>l'Onu, <strong>del</strong>la possibilità di un'azione militare per<br />

fermare la guerra. Il <strong>pacifismo</strong> é generalmente anti-interventista e l'ingerenza umanitaria è<br />

ancora da digerire. L'assemblea di Padova decide di organizzare una staffetta, questa volta in<br />

Italia, per fare un po' di controinformazione su quello che sta succedendo: da Trieste a Roma,<br />

toccando una trentina di città -in Friuli, Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e


Umbria, nel Lazio- durante la quale si promuovono dibattiti, incontri, raccolte di soldi e<br />

materiali. La staffetta si chiude a Roma, a Campo dei Fiori. Chiude l'iniziativa con un discorso<br />

Giacomo Scotti. E' istriano, scrittore e giornalista, che vive a Fiume, ma è di origine napoletana.<br />

Lavorava a "La voce <strong>del</strong> popolo", il giornale di Fiume in lingua italiana; ora vive con qualche<br />

soldo di pensione e continua a scrivere. Sembra rassegnato: "Non sono più tanto giovane, non<br />

so se potrò rivedere qualcosa che assomigli alla Jugoslavia che per tanti anni ha vissuto in pace.<br />

E' il nazionalismo la vera malattia. In tanti anni é cresciuto questo cancro, che non siamo riusciti<br />

a debellare. Sono arrivati da noi i primi profughi bosniaci: sono già migliaia nella zona di<br />

Fiume." E' ormai estate: centinaia di volontari che vanno nei campi profughi in Croazia ed in<br />

progetti di ricostruzione nelle zone colpite in Slavonia. Vanno a ricostruire le case distrutte.<br />

Dicembre<br />

La marcia per la pace a Sarajevo. I primi a lanciare la proposta <strong>del</strong>la marcia - nell'agosto <strong>del</strong><br />

1992- sono due sacerdoti. Il primo é Don Albino Bizzotto (un sacerdote di Padova, prete operaio,<br />

già attivo a Comiso contro l'installazione dei missili nucleari Cruise e animatore<br />

<strong>del</strong>l'associazione "Beati i costruttori di pace" in Veneto) ad un digiuno di preghiera, che si<br />

svolge a Longarone, insieme ad altri preti: " Siamo consci <strong>del</strong>le nostre paure e dei nostri limiti,<br />

ma non ci rassegniamo all'impotenza...non bastano gesti simbolici, occorrono fatti politici in<br />

modo da costringere l'opinione pubblica , la comunità internazionale e gli stessi contendenti a<br />

fermarsi di fronte ad una moltitudine di disarmati che si frappongono al fuoco incrociato e che<br />

richiamano alla ragione". E scrivono anche a papa Wojtila: "Caro Padre... siamo disponibili con<br />

quanti credono fermamente nel Vangelo <strong>del</strong>la Pace, a entrare a piedi a Sarajevo frapponendoci<br />

al fuoco dei contendenti, molti dei quali nostri fratelli nella fede...L'iniziativa ha bisogno di<br />

moltissime adesioni. Ti chiediamo di accoglierla e di caldeggiarla come cammino evangelico di<br />

credenti dentro le contraddizioni <strong>del</strong>la storia". Il secondo é il vescovo di Molfetta, Don Tonino<br />

Bello (Presidente italiano di Pax Christi, già malato gravamente di tumore) che dalle colonne di<br />

Avvenimenti, agli inizi di settembre, propone di andare in 100mila a Sarajevo: "Un esercito di<br />

pace. Un esercito costituito da obiettori, parlamentari, ministri, che invada le zone di guerra. Un<br />

cuscinetto umano fatto di gente dotata di forza propositiva, di capacità di dialogo...io<br />

parteciperei. Esistono certo problemi tecnici ed organizzativi e c'é il rischio di limitarsi ad<br />

un'operazione romantica". In breve tempo la proposta raccoglie molte adesioni. L'idea incontra<br />

il consenso di tanta parte <strong>del</strong> mondo pacifista che vi trova l'occasione per uscire da un senso di<br />

frustrazione e di impotenza di fronte all'orrore <strong>del</strong>la guerra. <strong>Le</strong> adesioni alla marcia superano le<br />

500. Tra loro anche Mons. Bettazzi. Verso la fine <strong>del</strong>l'estate -sono i primi giorni di settembre <strong>del</strong><br />

1992- abbiamo alcuni incontri con Don Albino, l'Arci e altre organizzazioni che stanno lavorando<br />

per la pace in ex Jugoslavia. Sia l'Associazione per la pace che l'Arci sono abbastanza scettici


sull'iniziativa: pare rischiosa e poco realizzabile. Io decido di non parteciparvi: non mi sembra<br />

ci siano le condizioni per una gestione condivisa. Arrivare a Sarajevo e sfidare "signori <strong>del</strong>la<br />

guerra" é l'obiettivo <strong>del</strong>la manifestazione. Don Bizzotto scrive una "lettera al cecchino", con la<br />

speranza profetica di recapitarla ad un simbolico destinatario inibendone la follia omicidia. Si<br />

sperimentano e si discutono inedite forme di intervento: nonviolenza, interposizione,<br />

diplomazia popolare sono le coordinate di questa iniziativa.<br />

Dai racconti di chi ci è stato si ricorda che l'avvicinamento a Sarajevo , lungo la strada Spalato-<br />

Mostar-Jablanica é difficile e pieno di incognite. Finché non si arriva a Kiseljak, avamposto<br />

croato prima di Ilidja, sobborgo serbo di Sarajevo. Si tengono interminabili assemblee,<br />

manifestazioni, veglie di preghiera. Ci sono molti e ripetuti problemi per avere il permesso di<br />

andare avanti. Kiselijak sta a pochi chilometri da Sarajevo, dove non si trova niente da mangiare<br />

e un chilo di zucchero può costare anche 80 marchi tedeschi. A Kiselijak il gruppo dei 500<br />

dorme in una chiesa e in altri edifici reperiti con l'aiuto <strong>del</strong> clero locale. Prima di partire per<br />

Sarajevo si organizza una fiaccolata: c'é la BBC e qualcuno spera che possa fare un<br />

collegamento via satellite con l'Italia. Partecipano alla fiaccolata molti giovani e ragazzi. E' il 10<br />

dicembre e si parte per Sarajevo. Si supera il posto di blocco dei serbi, lasciando in dono<br />

un'ambulanza che i pacifisti avevano portato e dieci ostaggi. Saranno rilasciati a conclusione<br />

<strong>del</strong>la manifestazione. I serbi non vogliono essere accusati di responsabilità qualora succeda<br />

qualcosa. Temono ci possa essere qualche provocazione per dare il pretesto di un intervento<br />

Nato o <strong>del</strong>l'ONU. Lasciare qualche aiuto umanitario ai serbi é l'occasione per dimostrare che<br />

l'iniziativa pacifista non é rivolta contro di loro. Nel gruppo dei 500 c'é una parte che consiglia<br />

di fermarsi, perché la situazione é troppo pericolosa. Si fanno le assemblee e si decide di<br />

continuare. Arrivati a pochi chilometri dalla città assediata, la maggior parte dei partecipanti<br />

vuole provare ad arrivarci. Dieci pullman entrano di notte nella città e fortunatamente i fucili ed i<br />

mortai tacciono. Per precauzione i pacifisti hanno messo gli zaini sui finestrini. Ma non<br />

servirebbe a niente se venissero mitragliati. Il giorno dopo si tiene una manifestazione nel<br />

centro <strong>del</strong>la città e i 500 si dividono in quattro gruppi che vanno uno alla cattedrale cattolica,<br />

uno alla chiesa ortodossa, uno alla moschea, l'ultimo alla sinagoga. La gente é commossa - si<br />

affaccia dalle finestre, scende in strada- e l'iniziativa é un successo. E' la prima volta che i<br />

pacifisti riescono a manifestare dove si sta sparando. Il culmine <strong>del</strong>la manifestazione é al<br />

cinema Radnik: intervengono i rappresentanti <strong>del</strong>le varie fedi e le autorità. Parla anche Don<br />

Tonino Bello: " Noi siamo l'Onu rovesciata, non l'Onu dei potenti, ma l'Onu dei popoli. La prima<br />

entra a Sarajevo fino alle 16, noi siamo entrati dopo le 20". Per la gente di Sarajevo l' 11<br />

dicembre é una giornata senza combattimenti e senza spari, dopo tanto tempo. Qualcuno ne<br />

approfitta per fare rifornimento di acqua e di legna.


Dicembre, gennaio<br />

Trascorre qualche settimana ed un altro gruppo di pacifisti italiani cerca di entrare a Sarajevo.<br />

Questa volta siamo pochi, una trentina, ci sono con noi anche Tom Benetollo, Giovanni Bianchi,<br />

Nichi Vendola, Raffaella Bolini. Nella città si sta combattendo. Ci si ferma a Ilijda, periferia serba<br />

di Sarajevo, in parte distrutta dalle offensive dei musulmani. Il giorno prima sono giunte nella<br />

città le 80 tonnellate di aiuti che abbiamo raccolto in Italia: medicine, alimenti, teli di plastica<br />

per coprire 40.000 finestre distrutte. La situazione é disperata; la città é in ginocchio. Il 31<br />

dicembre fa 15 gradi sotto zero. Mancano acqua, luce, viveri. Siamo in fila con le macchine per le<br />

strade <strong>del</strong>la città, insieme ad un convoglio di 50 camion francesi <strong>del</strong>l'organizzazione umanitaria<br />

Equilibre. Io sono in macchina con Mimmo Pinto, Nichi Vendola e Quarto Trabacchini. Alle sette<br />

<strong>del</strong> pomeriggio <strong>del</strong> 31, si arriva a poche centinaia di metri dal centro <strong>del</strong>la città Si spara, cadono<br />

granate. Superiamo il cartello sforacchiato di Sarajevo. E' buio e a fari spenti, ad un bivio,<br />

prendiamo la strada che non dovremmo prendere, arrivando ad una barricata. Una signora esce<br />

da una casa e gesticola; vuole farci tornare indietro. Dopo qualche attimo, dall'altra parte <strong>del</strong>la<br />

barricata tirano in aria dei razzi che illuminano il cielo e poi sparano. Torniamo indietro,<br />

schivando grossi bossoli di granate. Una pattuglia serba ci costringe ad accostare e ci fa<br />

passare la notte in una viuzza, dove poco dietro ci sono le postazioni di artiglieria. Lacena<br />

<strong>del</strong>l'ultimo <strong>del</strong>l'anno consiste una scatoletta di alici, tonno, canditi e grappa; tutto<br />

apparecchiato sul cofano <strong>del</strong>la macchina mentre il freddo fa perdere la sensibilità alle mani. Alle<br />

undici di sera riprendono i combattimenti. I riscaldamenti <strong>del</strong>le macchine sono accesi in<br />

continuazione per non patire il freddo. Sopra le nostre teste si infiamma il cielo di lampi di razzi<br />

e mitragliate. I musulmani cercano di accerchiare Ilidja per conquistarla e rompere l'assedio.<br />

Piccoli gruppi di miliziani scivolano tra le nostre macchine e sparano dalle fessure dei camion<br />

francesi. Dei miliziani ci fanno tiorare giù il finestrino e puntano con un mitra Nichi Vendola che<br />

sta dormendo al posto di guida. Riusciamo a spiegarci con il miliziano serbo ubriaco e tutto<br />

finisce bene. Il culmine é a mezzanotte; sembra un fuoco d'artificio. Poi con l'inizio <strong>del</strong> nuovo<br />

anno, tutto si calma.<br />

Entriamo a Sarajevo, il mattino presto. Gli alberi sono quasi tutti tagliati (usati per riscaldarsi),<br />

ad eccezione di quelli <strong>del</strong> giardino di fronte alla Presidenza <strong>del</strong>la Repubblica e di parti <strong>del</strong> centro<br />

<strong>del</strong>la città. <strong>Le</strong> autorità hanno istitutito <strong>del</strong>le multe a chi taglia I rami degli alberi, considerati<br />

degli sciacalli di guerra. I bambini ci circondano: vogliono un giocattolo, una cioccolata,<br />

caramelle. Gente con le taniche si affolla intorno ad una piccola autobotte che distribuisce<br />

l'acqua. E' pericoloso fare le file: bersagli preferiti <strong>del</strong>le granate che sibilano improvvisamente


dalle colline.<br />

Il palazzo <strong>del</strong>la presidenza <strong>del</strong>la Bosnia é un altro bersaglio preferito <strong>del</strong>l'artiglieria serba. Ci<br />

entriamo per gli incontri ufficiali. Molte finestre <strong>del</strong> palazzo non ci sono più; continuano a<br />

fischiare le granate. Ci sembrano tanto vicine. Dentro l'edificio non c'é luce e fa sempre più<br />

freddo. Muhamed Krejelavovic è il canuto e ossuto sindaco di Sarajevo, imbacuccato in un<br />

vecchio cappotto grigio, si è appena iscritto al partito radicale transnazionalizzato e ci dice:<br />

"Non permettete l'assedio <strong>del</strong>la nostra città. Senza acqua, luce e viveri siamo allo stremo".<br />

ricorda: "Serve un maggiore impegno <strong>del</strong>la comunità internazionale per Sarajevo. Fino al<br />

prossimo aprile non avremo acqua. Non sappiamo se ce la faremo. Stiamo assistendo ad un<br />

urbicidio e va fermato". Ibrahim Spahic, Presidente <strong>del</strong> Centro internazionale per la pace,<br />

commenta: "La vostra presenza qui dopo l'iniziativa dei Beati costruttori di pace <strong>del</strong> 10<br />

dicembre é per noi un segnale di speranza. Fate di Sarajevo il simbolo <strong>del</strong>la lotta per la pace". E<br />

viene proposta un'iniziativa analoga a quella dei Beati Costruttori di Pace: il dialogo ecumenico<br />

tra cattolici, ebrei, ortodossi e musulmani. Siamo tutti in un cinema appena rischiarato da <strong>del</strong>le<br />

can<strong>del</strong>e. I capi religiosi fanno discorsi generici ispirati alla fratellanza e alla pace. Nella famiglia<br />

che ci ospita per la notte (Ibrhaim, musulmano -un cameriere che lavora all'Holiday Inn-, Rada,<br />

serba e un amico Hari anche lui musulmano) al 14° piano di un palazzo sfiorato ogni giorno da<br />

proiettili e razzi si parla poco <strong>del</strong>la guerra, ma di Roma e <strong>del</strong>l'Italia. Insieme a me c'è Stefano<br />

Fassina, <strong>del</strong>la Sinistra Giovanile. Tre pugni di riso e poca acqua é la nostra cena. "Chi si é mai<br />

chiesto a quale etnia appartenessimo ?", si chiede Hari, medico, che da due mesi non ha notizie<br />

di moglie e figli che si sono trasferiti a Zagabria. Fuma sigarette una dietro l'altra. Si ritorna a<br />

parlare di guerra. Rada sorride: "Questa non é una guerra tra serbi e musulmani. E' una guerra<br />

di estremisti e di minoranze. Qui, la convivenza é ancora una realtà. La colpa é dei politici<br />

nazionalisti". <strong>Le</strong> finestre <strong>del</strong>la casa di Rada sono ricoperte internamente da uno strato di<br />

ghiaccio, l'unica luce é quella di un lumino degli alberi di Natale collegato ad una batteria di<br />

macchina. Con Stefano dormiamo, tutti vestiti e con molte coperte addosso, in una stanza con<br />

le finestre rotte; e ormai siamo a 20 gradi sotto zero. La notte é interrotta da bagliori e scoppi;<br />

molte coperte, maglioni e giacche a vento non leniscono un acuto freddo. La faccia é rigida dal<br />

gelo. Rada, il mattino dopo dovrà andare a lavorare alla posta; con lo stipendio (ed é tra i pochi<br />

fortunati a poter lavorare) riesce a comprare in un mese quattro uova al mercato nero. Prima di<br />

andare via ci facciamo una foto, io, Stefano e Rada; dietro a noi -non ce ne accorgiamo- le croci<br />

e i paletti musulmani <strong>del</strong>le tombe in quello che prima doveva essere stato un parco. Lasciamo<br />

tutto quello che abbiamo: viveri, dolci, medicine, soldi.<br />

1993


Maggio<br />

I volontari uccisi. Dopo l'inizio <strong>del</strong>la guerra croato-musulmana Gorni Vakuf (Bosnia centrale)<br />

diventa un punto di passaggio strategico. La direttrice Gorni Vakuf-Zavidovici é segnata da<br />

durissimi scontri, si combatte sulla strada e sulle alture che dominano i passaggi più angusti.<br />

Far arrivare, da qui, gli aiuti alla Bosnia Erzegovina é molto più difficile di qualche mese fa. La<br />

strada di Jablanica é interrotta. Arrivare a Sarajevo é quasi impossibile. La guerra croatomusulmana<br />

ha portato ad una riduzione dei convogli. Noi non sappiamo bene come fare, se non<br />

correndo dei rischi. I funzionari <strong>del</strong>l'Alto Commissariato (in gran parte nord-europei) sono<br />

professionali e burocrati. Litigano in continuazione con i funzionari dei caschi blu e gli<br />

esponenti dei governi dei vari paesi. La concorrenza -in una sorta di agonismo umanitario- è per<br />

chi arriva prima con i propri sacchi con su stampigliato “dono <strong>del</strong> governo...” oppure “dono<br />

<strong>del</strong>l'UNHCR... “ e via così. Un problema di “visibility” (c'è anche questa “voce di spesa” nei<br />

progetto umanitari). Intanto al mercato di Spalato si possono comprare a 20 marchi <strong>del</strong>le<br />

lattine di "Olio italiano. Dono <strong>del</strong> governo italiano". Noi con le nostre macchine e pullmini e<br />

macchine scassate cerchiamo di raggiungere Mostar, Zenica, Tuzla. Normalmente i blindo<br />

<strong>del</strong>l'Unprofor non ci scortano, anche se fanno la stessa strada. Se i volontari fossero attaccati, i<br />

caschi blu non li difenderebbero. "Non abbiamo il mandato per farlo", dice un soldato spagnolo<br />

di stanza a Jablanica, durante una sosta per rifornirci: "Possiamo rispondere solo per<br />

autodifesa o per proteggere convogli sotto la nostra protezione".<br />

A Gorni Vakuf il 31 maggio una banda di irregolari musulmani ferma un camion di volontari<br />

bresciani che si dirige verso Zavidovici, città alla quale le organizzazioni di volontariato di<br />

Brescia da tempo portano e distribuiscono aiuti. Vi sono stati già vari convogli nelle settimane<br />

precedenti, senza nessun problema. Dal 9 maggio (quando croati e musulmani hanno<br />

cominciato a combattersi) la situazione sul campo é cambiata. Ora è molto più pericoloso. <strong>Le</strong><br />

strade sono deserte, e passando per quella camionabile si avvertono normalmente spari e<br />

scoppi di granate che non sembrano molto lontani. Il camion dei volontari bresciani, questa<br />

volta, non riesce a giungere a destinazione. I banditi li fermano e sequestrano il carico: cibo,<br />

vestiti, giocattoli per i bambini. Ordinano ai volontari di scendere e li fanno incamminare su una<br />

strada di montagna e iniziano a sparargli alla schiena. Muoiono sul colpo Guido Puletti<br />

(giornalista free lance) Sergio Lana (piccolo imprenditore, trasportatore) e Fabio Moreni,<br />

obiettore di coscienza <strong>del</strong>la Caritas. Agostino Zanotti -il quarto <strong>del</strong> gruppo- riesce a fuggire. Nei<br />

giorni a seguire la stampa e le TV ne parlano diffusamente; seguono riunioni con Andreatta e la<br />

Boniver. Ai funerali dei tre volontari non c'é nessun ministro od esponente <strong>del</strong> governo.<br />

Chiediamo alla riunione con Andreatta alla Farnesina, un paio di giorni dopo, che il governo


faccia il proprio dovere: inviando gli aiuti finora non mandati, accogliendo i profughi,<br />

sostenendo il volontariato. Chiediamo un coordinamento vero, di non essere ignorati, ma non<br />

vogliamo la protezione militare. Queste morti aprono anche tra di noi un dibattito: la necessità<br />

di coordinarci e d organizzarci meglio, di prepararci, di darci una struttura tecnica, evitando di<br />

andare in Bosnia, senza una sufficiente preparazione. Con la guerra croato-musulmana é<br />

cambiato tutto e le zone sicure sono relativamente poche. Si combatte a macchia di leopardo:<br />

serbi contro croati, serbi contro musulmani, croati contro musulmani, musulmani lealisti contro<br />

musulmani secessionisti (a Bihac). La cartina <strong>del</strong>la Bosnia Erzegovina é una mutevole mappa di<br />

guerra.<br />

In quei giorni sembra che sia giunto veramente il momento per un intervento militare <strong>del</strong>la Nato<br />

o <strong>del</strong>l'Onu contro i serbi-bosniaci: sarebbe un disastro, allargherebbe il conflitto e lo<br />

esacerberebbe, con conseguenze drammatiche. Karadzic si rifiuta per l'ennesima volta di<br />

firmare l'accordo di pace Vance-Owen. Sale la tensione internazionale e sembra giunta l'ora<br />

<strong>del</strong>la guerra totale. Scoviamo il numero di fax <strong>del</strong> suo ufficio. E' il 0038-11-2351213. Invitiamo i<br />

pacifisti a mandare messaggi di protesta contro il presidente serbo- bosniaco: " Signor<br />

Karadzic, vi esprimiamo la nostra condanna per il rifiuto <strong>del</strong> piano Vance-Owen. In questo modo<br />

si assume la responsabilità di aggravare la guerra e di spingere ulteriormente le popolazioni<br />

<strong>del</strong>la Bosnia Erzegovina su una strada senza ritorno". Vengono spediti centinaia di fax.<br />

All'ufficio di Karadzic, dopo alcune ore, disattivano la linea. Una nostra <strong>del</strong>egazione<br />

<strong>del</strong>l'Associazione per la pace (ci sono anche alcuni parlamentari, io all'ultimo ho dovuto<br />

rinunciare) ha incontrato Karadzic e Rejsnik, che é il Presidente <strong>del</strong> Parlamento serbo-bosniaco.<br />

Gli portano la richiesta di porre fine alla guerra. Karadzic dice che i serbi, da questo piano, ne<br />

escono svantaggiati e parla , indicando su una cartina le zone strategiche, di industrie, centrali<br />

idroelettriche, università che andrebbero ai musulmani (secondo il piano) e non ai serbi.<br />

Karadzic, dice che ha Dio dalla sua e i serbi combattono da "solo" 13 mesi.<br />

Dopo la morte dei volontari le associazioni di volontariato e pacifiste sono convocate<br />

nuovamente alla Farnesina dal Ministro degli Affari Esteri, Beniamino Andreatta. C'é anche il<br />

Ministro per gli Affari Sociali, l'avvocato Fernanda Contri: "Dovete stare più attenti -dice con<br />

cipiglio il Ministro degli Affari Esteri- Munitevi di caschi e di giubbetti antiproiettile. Consultateci<br />

prima di partire. Forse é il caso di iniziare a pensare di inviare soldati italiani per scortare i<br />

volontari in Bosnia". Ci fanno intervenire subito dopo Andreatta e lo attacchiamo per tutti gli<br />

impegni non mantenuti e per la scarsa iniziativa umanitaria. Che fine ha fatto il tavolo di<br />

coordinamento? Invece di ramanzine, ci servirebbe una mano, soprattutto le istituzioni<br />

dovrebbero fare il loro dovere. Ci risponde la Contri, che fino ad oggi non ha potuto fare molto:


"Non sono abituata a fare tanti discorsi; vi prometto di convocare un tavolo di coordinamento<br />

entro la fine <strong>del</strong> mese". Il tavolo lo riunirà, anche se non con esaltanti risultati. Ma in Erzegovina<br />

si continua a sparare e la pulizia etnica si aggrava: questa volta sono i croati a farla a danno<br />

dei musulmani. Non passa molto tempo e anche il campo di Posusije viene smantellato dalle<br />

milizie croate. Siamo nella prima metà di luglio - é una domenica- e l'azione, molto violenta, é<br />

nell'aria. I profughi vengono deportati, i volontari caricati sui camion: destinazione ignota.<br />

Questa volta interviene il governo italiano che si fa carico degli sfollati: saranno ospitati da<br />

strutture italiane, chi in parrocchie, chi in albergo, chi presso <strong>del</strong>le famiglie. Intanto su il<br />

manifesto scriviamo una proposta: mandiamo 100mila caschi blu in Bosnia Erzegovina per<br />

cercare di sterilizzare il conflitto. I caschi blu dovrebbero esigere l'apertura e il mantenimento<br />

dei corridoi umanitari con tutti i mezzi a disposizione, garantendo una presenza a Vitez, Maglai,<br />

Goradze -dove sono assenti- e a Mostar , dove mancano quasi completamente. E' il nostro<br />

“piano di pace”.<br />

Agosto<br />

Mir Sada. I "Beati i costruttori di pace" sull'onda <strong>del</strong> risultato positivo <strong>del</strong>la precedente marcia<br />

ci riprovano otto mesi dopo. Siamo nell'agosto <strong>del</strong> 1993. Sarajevo 2 si chiama "Mir Sada. Si vive<br />

una sola pace". L'ipotesi é più ambiziosa: dar vita ad una presenza permanante, portare<br />

diecimila persone a Sarajevo, dare maggiore spessore e meno episodicità all'iniziativa.<br />

L'appello <strong>del</strong>la manifestazione dice: " Vogliamo sollecitare l'Onu perché nelle aree di crisi i<br />

caschi blu vengano affiancati da un corpo non armato e nonviolento per abbassare le tensioni e<br />

favorire il dialogo... vogliamo offrire un contributo alla Comunità internazionale per una<br />

credibile ripresa <strong>del</strong>le trattative di pace" . Il 12 agosto, dal porto dalmata torneranno in Italia gli<br />

ultimi 150. In tutto 1600 persone (l'adesione sarà minore <strong>del</strong> previsto e anche l'associazione<br />

francese Equilibre, che aveva promesso di portarne migliaia si presenterà all'appuntamento con<br />

poche centinaia di persone) che tenteranno di arrivare a Sarajevo, ma dovranno rinunciarci di<br />

fronte ai feroci combattimenti (ben otto punti di fuoco) che dopo Gorni Vakuf infestano la strada<br />

per la capitale bosniaca. Partner francese dei Beati i Costruttori è per l'appunto Equilibre, una<br />

ONG che poi verrà messa sotto inchiesta per malversazioni e che -per raccogliere i suoi progetti<br />

per i suoi progetti in Africa- scriveva sui suoi poster: “Vi si volevano mostrare gli occhi<br />

imploranti di un bambino ruandese, ma è sempre più difficile trovarne uno vivo”. Da Roma<br />

arrivano comunicazioni dal governo a Don Albino Bizzotto: "Centro nazionale di trasmissione -<br />

parla il signor Ministro: Don Albino lei si rende responsabile di questo gesto folle. Sarajevo sarà<br />

bombardata. Un massacro." Ma Don Albino Bizzotto va avanti. La manifestazione é<br />

caratterizzata, anche in questo caso, da lunghissime assemblee e capannelli. Al lago artificiale<br />

di Prozor i pacifisti si accampano in attesa di proseguire. La località é a poche centinaia di metri


dalla linea <strong>del</strong> fronte e si sentono le cannonate. Ogni tanto arriva un elicottero che trasporta i<br />

feriti dei combattimenti. In molti si raccomandano -sotto una cappa di caldo infernale- di non<br />

nuotare nel lago e di non assumere atteggiamenti incoerenti con la missione di pace. Appena si<br />

capisce che non si può arrivare a Sarajevo la <strong>del</strong>usione e la frustrazione investono molti<br />

partecipanti. In 58 su un pullman decidono di continuare lo stesso. C'é il rischio che i serbi<br />

usino i pacifisti, una volta arrivati a Sarajevo, come ostaggi e scudo umano.<br />

Fare il diario, raccontare questa esperienza -pur non avendone preso parte- é relativamente<br />

semplice. Non solo per i racconti personali dei molti che ci sono stati, ma per i numerosissimi<br />

"appunti di viaggio" dei partecipanti pubblicati su bollettini e giornali e sui quali é facile<br />

seguire l'iniziativa. Mosaico di pace, Aspe, Guerre e pace, Fogli di collegamento, Rivista<br />

Anarchica, Azione nonviolenta, Qualevita, Espresso, Guerre e pace, Tempi di fraternità, Azione<br />

sociale, Segnosette, Missione oggi, Confronti, il manifesto, Liberazione, Adista, Avvenimenti,<br />

Smemoranda dedicano ampio spazio agli avvenimenti di quei giorni. Soprattutto ospitano in<br />

seguito articoli, riflessioni e lettere dei pacifisti che ci sono stati. Ed é proprio in questi "appunti<br />

di viaggio", in questi articoli, nei diari che i dubbi e gli scetticismi verso l'iniziativa e la sua<br />

struttura sono più espliciti. Molti mettono l'accento sul lato soggettivo, <strong>del</strong>l'"impresa" di<br />

raggiungere Sarajevo, ma anche sulla sua vanità. Lo Vecchio é <strong>del</strong>l'associazione "Gandhi, King,<br />

Khan" di Brescia: "Nel mio gruppo qualcuno non teme di morire per una causa "grande", ma<br />

per una causa "inutile"; alcuni pacifisti ritornano indietro ma coloro che rimangono "persistono<br />

nel Sarajevo-dream". Anche Fausto Martinetti sulle colonne di Mosaico di pace (il mensile di<br />

Pax Christi) rievoca il sogno, raccontando <strong>del</strong>l'attesa a Spalato: " Si dorme come si può sotto le<br />

stelle, sognando Sarajevo. L'unica cosa di cui si parla". Ci sono anche comunisti greci che<br />

dicono: "Sarajevo o morte". Una volta svanito il sogno, la tensione emotiva viene meno.<br />

Ricorda il giornalista Ochetto: " La maggioranza si é reimbarcata a Spalato con un diffuso senso<br />

di frustrazione". Mentre ancora é incerta la conlusione <strong>del</strong>l'iniziativa le cose all'interno dei<br />

gruppi di partecipanti non vanno troppo bene. Disorganizzazione, mancanza di comunicazione,<br />

difetto di democrazia i problemi principali. Ricorda Fabrizio Forti -uno dei principali protagonisti<br />

<strong>del</strong>l'iniziativa e stretto collaboratore di Bizzotto- le assemblee e le discussioni: "Il seme <strong>del</strong>la<br />

guerra é dentro di noi: divisioni, incomprensioni, violenza verbale". Una voce tra le più critiche é<br />

quella di Mao Valpiana, <strong>del</strong> Movimento nonviolento e redattore di Azione nonviolenta, la rivista<br />

fondata da Aldo Capitini. Valpiana fa un bilancio sugli obiettivi <strong>del</strong>l'iniziativa e i suoi concreti<br />

risultati: " Il volersi porre come forza di interposizione di pace, ma non esserci riusciti, l'essere<br />

stati elemento di testimonianza, ma non di cambiamento, l'aver saputo mobilitare persone e<br />

mezzi di grande quantità, per essere poi costretti all'immobilismo di lunghe assemblee e<br />

altrettanto estenuanti trattative deve far riflettere". Valpiana parla di bluff nell'aver annunciato


dapprima 100.000 pacifisti a Sarajevo e poi essere in realtà 1600 e sottolinea il velleitarismo di<br />

"fermare la guerra" con l'interposizione fisica . La nonviolenza oltre a testimoniare deve vincere<br />

sul piano politico". Anche Emanuele Rebuffini, sul periodico Confronti, non é meno tenero.<br />

Durante la marcia: " é emerso un certo fanatismo in talune persone che si dichiaravano<br />

disposte a raggiungere Sarajevo ad ogni costo... a ciò si deve aggiungere il comportamento<br />

vacanziero dei turisti di guerra".<br />

Sarajevo 1 e Mir sada hanno una coda nei primi di ottobre. Padre Angelo Cavagna é un padre<br />

dehoniano di Bologna; Fu il protagonista alla fine degli anni '80 di una prolungata campagna<br />

per il riconoscimento <strong>del</strong> diritto <strong>del</strong>l'obiezione di coscienza. Attuò uno sciopero <strong>del</strong>la fame<br />

integrale di 26 giorni. Padre Cavagna e altri tre pacifisti decidono di andare sul ponte di Vrbanja,<br />

dove ci fu la prima vittima <strong>del</strong>la guerra. Il ponte divide la città in due ed é il luogo preferito dei<br />

cecchini. Vogliono fare un'azione simbolica: portare i fiori sul punto in cui fu uccisa la prima<br />

vittima. Ma é estremamente rischioso. Nessuna <strong>del</strong>le due parti (serbi bosniaci e croati,<br />

musulmani) dà il via libera. Cavagna e gli altri decidono di fare in ogni caso l'azione, nonostante<br />

in molti lo sconsiglino. C'è anche Gabriele Moreno Locatelli, un ex frate. Lui non é d'accordo con<br />

chi vuole andare a tutti i costi sul ponte, ma ci va lo stesso. Per solidarietà, per non lasciare soli<br />

i suoi compagni. Quando arrivano sul ponte sono accolti da una prima mitragliata di<br />

avvertimento. La seconda colpisce Moreno Locatelli che muore sul colpo. E' il quarto pacifista<br />

italiano che muore durante questa guerra. Si apre un dibattito sul significato di questa morte e<br />

sull'utilità di questa azione. A Sarajevo con i volontari di pace, c'era il fotografo Mario Boccia,<br />

anche lui in molte occasioni un volontario, che ricorda una frase di Moreno: " Noi non abbiamo<br />

il diritto di essere così presuntuosi da voler insegnare ai cittadini di Sarajevo come si muore per<br />

la pace". Mario Boccia dice che "quello pagato é un prezzo troppo alto" ed elenca tutta una<br />

serie di punti per sottolineare la scelleratezza <strong>del</strong>l'azione: "non é vero che l'azione era<br />

concordata con le parti in conflitto... nessuno nella città sapeva <strong>del</strong>l'azione <strong>del</strong> ponte di<br />

Vrbanja...che senso ha scegliere per una manifestazione un ponte costantemente sotto tiro<br />

lontani dagli sguardi di qualsiasi civile?" Don Albino rinvia alla responsabilità individuale di<br />

ciascuno e non accetta critiche. Insieme a Luisa Morgantini scriviamo un articolo per il<br />

manifesto: " la morte di Moreno é un evento che deve interrogarci rispetto ad un'azione<br />

improvvisata e di una simbolicità fine a sé stessa...che non può essere inseguita a ogni costo<br />

quando sono in gioco vite umane. Che non hanno minor valore quando si tratti di pacifisti,<br />

anziché di vittime <strong>del</strong>la guerra". Aspettiamo una riposta pubblica da parte degli organizzatori<br />

<strong>del</strong>l'azione. Che non arriverà mai.<br />

Ottobre


La guerra a Mostar. E' l'inizio di ottobre. Arriviamo a Spalato con un aereo da Roma. Il volo é<br />

insolitamente affollato: molti funzionari <strong>del</strong>le agenzie umanitarie, giornalisti, profughi che<br />

rientrano. Ci riuniamo presso la sede <strong>del</strong>la Cooperazione <strong>del</strong> Ministero degli Affari Esteri con<br />

Margherita Paolini e altri volontari. Il Consorzio italiano di solidarietà ha nella città croata una<br />

sede operativa che si trova però in un'altra zona. L'ufficio <strong>del</strong>la Cooperazione é sul lungo mare;<br />

una sede spoglia, con molte stanze ma con poche sedie e qualche computer, con fax e terminali<br />

di agenzie. In compenso ci sono molti elmetti, walkie-talkie e qualche giubbetto antiproiettile.<br />

L'obiettivo per il quale siamo qui é portare aiuti ai musulmani di Mostar, che sono assediati dai<br />

croati sulla riva est <strong>del</strong>la Neretva. Accerchiati dalle milizie croate non hanno contatti con<br />

l'esterno. I posti di blocco <strong>del</strong>la HVO impediscono l'arrivo dei convogli. Aiutati da una accorta e<br />

preparata azione di diplomazia tra le parti croato-bosniaca e musulmana, che i funzionari <strong>del</strong>la<br />

Cooperazione hanno svolto nei giorni precedenti, l'obiettivo é di trasportare degli aiuti ai<br />

musulmani e di contribuire a costruire un periodo di tregua e di calma nella martoriata capitale<br />

<strong>del</strong>l'Erzegovina. Sarebbe la prima volta. Un convoglio <strong>del</strong>la Cooperazione italiana qui non ci<br />

arriva da tempo. I convogli <strong>del</strong>le Nazioni Unite incontrano molti problemi. Hanno successo solo<br />

quando patteggiano i carichi, lasciando qualche tangente e promettendo la suddivisione degli<br />

aiuti a favore dei croati. I musulmani, quando arrivano i mezzi bianchi e i caschi blu, li guardano<br />

in tralice; a volte li insultano e sputano per terra, in segno di disprezzo. Ormai sono passati<br />

cinque mesi dall'inizio <strong>del</strong>la guerra croato-musulmana. Una parte dei musulmani è stata<br />

deportata nel campo di concentramento <strong>del</strong>l'"Helodriom". Con Margherita Paolini -che lavora<br />

alla Cooperazione- si fa l'esame <strong>del</strong>le difficoltà: i posti di blocco, i punti critici dove possono<br />

sparare i cecchini, i collegamenti radio, le macchine. Alcuni di noi siedono per terra, altri sui<br />

tavoli. Ragiona in modo meticoloso sui possibili imprevisti, le difficoltà, le strade da fare.<br />

Controlliamo i giubbetti antiproiettile, i caschi. Mario Zichina, il nostro focal point <strong>del</strong>l'ICS a<br />

Spalato, ci avverte beffardo: "Guardate che sono giubbetti antischegge, una pallottola li<br />

trafigge. Anche con un giubbetto antiproiettile non ci fate granché contro le granate. Gli elmetti<br />

sono solo una sfoglia d'acciaio". E' lui il conducente <strong>del</strong>la jeep che ci porterà a Mostar.<br />

La mattina, la sveglia é alle cinque e mezzo. Spalato é deserta; l'acqua <strong>del</strong> porto é lucente ai<br />

primi bagliori <strong>del</strong>l'alba e qualche barca a vela beccheggia in lontananza. Si parte. Sono in<br />

macchina accanto a Gianfranco Bettin. Sul sedile davanti c'è Raffaella Bolini. Prima tappa<br />

Medgiugorje: qui sono di stanza i soldati <strong>del</strong>l'Unprofor. Dovremmo essere inclusi nel convoglio<br />

dei caschi blu spagnoli, ma ce lo impediscono. Si discute e si litiga, Margherita li sfotte. Ma non<br />

mollano. Triste la sorte dei caschi blu in ex Jugoslavia: impotenti e costretti alla rinuncia. Sono<br />

dei vigili urbani <strong>del</strong>la guerra, forse solo dei testimoni al di sopra <strong>del</strong>le parti. Non ci vogliono.<br />

"Oggi é una giornata particolare. A Mostar si spara. Non potete venire con noi; ci sono i


parlamentari che hanno bisogno di una particolare protezione. Noi non ci assumiamo la<br />

responsabilità", ci conferma il comandante spagnolo. Allora noi ci accodiamo. Questo non ce lo<br />

possono impedire. Ma la differenza tra lo stare dentro o alla fine <strong>del</strong> convoglio é grande. Nel<br />

primo caso , se vieni attaccato, i caschi blu ti difendono, nel secondo, qualsiasi cosa ti succeda<br />

ti abbandonano sul posto. E' frequente: ad un posto di blocco fanno passare i mezzi <strong>del</strong>l'Onu e<br />

quelli umanitari vengono fermati per un controllo dei documenti e dei carichi. Questi ultimi sono<br />

costretti a continuare da soli, senza nemmeno l'ausilio <strong>del</strong>la vicinanza, che potrebbe essere<br />

deterente dei blindo bianchi <strong>del</strong>le Nazioni Unite. Anche oggi succede lo stesso. All'improvviso il<br />

convoglio di caschi blu parte e ci lascia sul posto. Ci organizziamo, prendiamo <strong>del</strong>le scorciatoie,<br />

corriamo all'impazzata e lo raggiungiamo prima <strong>del</strong>l'ultimo posto di blocco <strong>del</strong>l'Hvo in vista di<br />

Mostar. Il convoglio di aiuti umanitari é organizzato congiuntamente dall'ICS e dalla<br />

Cooperazione italiana. Sono cinque camion. Che portano 37 tonnellate di aiuti (20 di farina, 5<br />

di olio, 5 di fagioli, 1,5 di latte, 1,7 di alimenti per bambini, ecc.). E' già qualcosa. Il convoglio<br />

attraversa i posti di blocco <strong>del</strong>la Hvo e <strong>del</strong>l'Armija e finalmente giungiamo nelle prossimità di<br />

Mostar, dopo aver superato quattro, cinque posti di blocco croati. Incontriamo sulla strada case<br />

completamente bruciate, accanto a quelle intatte. Sono lì, ancora dalla prima fase <strong>del</strong>la guerra,<br />

archeologia di una pulizia etnica che ha selezionato le case da distruggere e quelle da salvare.<br />

Molti minareti sono stati distrutti dai serbi. Mostar è in gran parte distrutta. Arriviamo<br />

all'aeroporto - distrutto e divelto nelle strutture - e dopo aver percorso la tetra ed esposta pista<br />

<strong>del</strong>l'aeroporto devastata dai colpi di mortaio e pericolosamente seminata di mine (sicuramente<br />

italiane) ci inoltriamo in una stradina di campagna. All'improvviso ecco il primo posto di blocco<br />

musulmano. Sono nascosti in trincee ed in buche nascoste dal fogliame. I soldati musulmani<br />

sono nervosi. E' da tanto tempo che non arriva più un convoglio occidentale. L'Onu é mal<br />

tollerato: detestano i soldatini spagnoli. Passano diversi minuti, ma finalmente un miliziano ci<br />

chiede una sigaretta. E' il segno <strong>del</strong> disgelo. Sulla riva sinistra <strong>del</strong>la città siamo accolti dai saluti<br />

e dalla gente e dai bambini che corrono verso la strada. "Bonboni, cichlets, sigaret ! ", gridano i<br />

bambini correndo pericolosamente a pochi centimetri dai camion e dalle camionette e<br />

allugando le mani dentro i finestrini. Ora c'é il pezzo più pericoloso: l'attraversamento di uno<br />

stradone esposto ai cecchini croati. Lo percorriamo con l'acceleratore a tavoletta. Tutto bene.<br />

Entriamo nel cuore <strong>del</strong>la città nella tarda mattina a velocità ridotta. Ci sono centinaia di persone<br />

che ci saltano addosso contenti lungo la strada; siamo emozionati. Quasi ogni palazzo é ferito e<br />

bucato da proiettili e granate, strade dissestate dai bombardamenti, mine nei passaggi<br />

strategici: é molto peggio di Sarajevo. Solo un ponte, su sette, é rimasto in piedi: il più vecchio,<br />

ha cinquecentanni di storia. Donne e anziani corrono accovacciati - per paura dei cecchini- su<br />

quell'unico ponte ancora rimasto in piedi, per andare a prendere l'acqua ad una <strong>del</strong>le ultime<br />

fonti ancora in funzione. I cecchini (croati) li guardano dai binocoli dei loro fucili. La Carja, il


vicolo degli antiquari che porta al Ponte Vecchio, é desolata e piena di macerie. Un tempo era la<br />

via <strong>del</strong>le botteghe e degli artigiani.<br />

Dal 9 maggio scorso sono stati quasi settecento i morti musulmani <strong>del</strong>la guerra a Mostar.<br />

Nell'incontro i rappresentanti <strong>del</strong>le associazioni che lavorano in progetti di pace e di solidarietà<br />

con Mostar ( sono più di venti città, tra cui: Trieste, Forlì, Cesena, Ivrea, Bari, Gambettola, Aosta,<br />

ecc.) hanno distribuito un messaggio ai cittadini di Mostar: "Siamo oggi nella parte di sinistra<br />

<strong>del</strong>la Neretva, perché avevamo, abbiamo amici tra voi, perché patite una violenza che mai potrà<br />

essere risarcita. Andremo anche nella parte destra <strong>del</strong>la Neretva tra la gente come voi, la gente<br />

<strong>del</strong>la vita quotidiana che si mescolava nei mercati, nei bar, nelle strade, nei luoghi di lavoro.<br />

Vorremmo essere un ponte tra voi, ora che i ponti di pietra non ci sono più per passeggiare". <strong>Le</strong><br />

donne ci chiedono come poter fuggire dalla città. I Rom sono i più angosciati. Implorano.<br />

Ognuno ci racconta la sua storia. Altri scherzano e tentano di parlare un italiano che é misto al<br />

veneto. Ogni tanto lo sparo di un cecchino isolato interrompe il silenzio irreale di una calma<br />

inattesa. Volti emaciati, corpi smagriti e sguardi impauriti ci circondano , chiedendo aiuto,<br />

qualcosa da mangiare, la fine di questo calvario. Dopo un paio d'ore -prima che faccia notterientriamo<br />

a Spalato. Il mattino dopo passeggiamo con Gianfranco Bettin, prima di ripartire per<br />

Roma, per la piazza romana di Spalato. Fa caldo, sembra ancora estate. Margherita ci dice che<br />

decine di colpi di mortaio hanno ripreso a battere Mostar est. Ci sono dei morti. Ma non è<br />

ancora finita. Passa un mese e l'8 novembre crolla l'ultimo ponte di Mostar, quello costruito dai<br />

turchi nel XVI° secolo, il Ponte Vecchio - Stari Most- sotto i colpi dei mortai croati, beffardi e<br />

incuranti <strong>del</strong>l'emozione <strong>del</strong>l'opinione pubblica internazionale. Il ponte resiste. Un anonimo<br />

videoamatore riprende sei, sette colpi dei mortai che ostinatamente martellano l'arcata<br />

secolare. Poi crolla. E il verde <strong>del</strong>la Neretva si muta in una nube di polvere e di terra. Una specie<br />

di atomica <strong>del</strong>la convivenza culturale ed etnica. Stari Most si trova, anche, in sedicesimo a<br />

Rimini, nel parco "Italia in miniatura". Un omaggio ad una storia che non c'é più. Si<br />

costruiscono comitati di architetti disponibili a lavorare per ricostruire il ponte di Mostar. Lo si<br />

vuole ricostruire come era prima. Per il momento il ponte a dorso d'asino non c'é più. Al suo<br />

posto, dopo qualche giorno, un'impalcatura di ferro e di legno.<br />

Novembre<br />

Zagabria. Davanti la sede <strong>del</strong>l''Unprofor, la simbologia <strong>del</strong>la guerra é angosciante e polemica. Ci<br />

sono intere file di mattoni, incastrati uno sopra l'altro. Su ognuno c'é scritto con la vernice il<br />

nome di un morto. I familiari sono venuti qui e per protestare contro la faziosità <strong>del</strong>l'Onu<br />

(considerato troppo equidistante tra croati e serbi) si sono portati i mattoni ne hanno fatto un


muro davanti all'entrata. La sera ci sono <strong>del</strong>le can<strong>del</strong>ine accese sopra. Non sono mai stati<br />

rimossi. Ogni tanto viene qualcuno, cambia le can<strong>del</strong>e e se ne va. Soprattutto donne, alcune<br />

anziane, sostano silenziose e concentrate su quel nome, su quel mattone, la cui forma è a loro<br />

ormai familiare. Mi trovo a Zagabria, per preparare la manifestazione pacifista di fine anno.<br />

Andremo, oltre che a Zagabria, anche a Belgrado e a Sarajevo: Tre città, una pace, lo slogan<br />

<strong>del</strong>la manifestazione. Prima tappa di questo breve soggiorno a Zagabria é la visita a Ivan Cicak.<br />

E' un vecchio oppositore <strong>del</strong> regime di Tito. E' stato leader degli studenti durante la primavera<br />

croata dei primi anni '70 ed è stato incarcerato per alcuni mesi. E ' molto conosciuto a Zagabria,<br />

leader ascoltato, ma incapace di dar vita ad una vera forza politica di opposizione. Nonostante<br />

rappresenti poco più di se stesso, è temuto da Tudjman, che non soporta la minima critica. E'<br />

uno dei leader <strong>del</strong>la Helsinki Croatian Committee, un gruppo di intellettuali, politici e giornalisti<br />

che si occupa <strong>del</strong>la tutela dei diritti umani in Croazia. Quando vado a trovare Cicak alle otto <strong>del</strong><br />

mattino, é impegnato in un caso particolare; un giornalista rischia di andare in carcere per un<br />

articolo contro Tudjman. Poi, parliamo <strong>del</strong>la situazione croata e si scaglia contro Tudjman: "Sta<br />

instaurando un regime, soffoca le opposizioni; dov'é l'occidente difensore dei diritti e <strong>del</strong>la<br />

democrazia ? E' un governo che non reggerà, alla gente tra un po' non basterà più il<br />

nazionalismo e l'anticomunismo. Io rischio quotidianamente la galera. Ho il telefono sotto<br />

controllo. Tudjman vorrebbe vedermi in carcere anche subito, ma forse teme le reazioni<br />

internazionali. Non ho molto potere, ma sono ancora molto conosciuto. Non faccio niente di<br />

male, non organizzo rivolte segrete, ma solo la difesa dei diritti umani". Parliamo <strong>del</strong>le iniziative<br />

da fare, degli incontri con i politici. Dopo altre telefonate, riesce a risolvere il caso <strong>del</strong><br />

giornalista denunciato, ma si é fatto tardi. Se ne deve andare per accompagnare le figlie a<br />

scuola.<br />

Sono al bar per un caffè. Chiamo per la conferma <strong>del</strong>l'incontro successivo, subito dopo. Vado al<br />

Centro antiguerra, che si trova abbarbicato in una casupola su una stradina che parte dalla<br />

Jelacica. E' la Tkalciceva, la strada dei locali frequentati dai giovani. Il centro città é il punto di<br />

incontro di tutte le organizzazioni pacifiste di Zagabria. In tre minuscole stanzette ci sono<br />

aggrappate una ventina di persone. E' un fiume continuo di gente, un andirivieni, da una stanza<br />

all'altra. I tavoli sono incastrati come un labirinto. Senti parlare di progetti e di iniziative, di<br />

campagne e attività: tutte cose molto concrete. Ogni tanto si capta un'inflessione straniera, una<br />

cadenza americana o tedesca. Sono dei volontari internazionali. Chi impegnato nel progetto di<br />

ricostruzione di Pakrac chi nel network sull'informazione libera, chi nell'educazione alla pace<br />

nelle scuole. Ci sono molti portacenere cricolmi di cicche e decine di tazze sporche di caffé sono<br />

sui tavoli. L'ufficio <strong>del</strong> Centro antiguerra dà l'idea di una piccola fortezza assediata, una sorta di<br />

manipolo di pacifisti accerchiato dai nazionalisti, che appena sotto la strada fanno propaganda


a Tudjman e contro il nemico serbo. Il leader <strong>del</strong> Centro antiguerra è Sergjan Dvornik, editore e<br />

leader di una minuscola formazione socialdemocratica (non ha rappresentanti in Parlamento).<br />

Ci parla <strong>del</strong>le tante iniziative, simbolo di un lavoro controcorrente e di una vocazione<br />

minoritaria. Essere pacifisti qui può voler dire venire accusati di collaborazionismo con il<br />

nemico. La Croazia é aggredita; parlare di pace significa fare il gioco <strong>del</strong>l'avversario. Parliamo<br />

<strong>del</strong>la nostra iniziativa. Dice: "Non so se é il caso di organizzare manifestazioni, la gente vi<br />

respingerà. Possono essere strumentalizzate. Meglio lasciar perdere.” Ci invita a fare qualcosa<br />

di più concreto: “ Portate la posta degli abitanti di Zagabria ai parenti e agli amici di Belgrado e<br />

Sarajevo: è impossibile spedire lettere in Serbia ed in Bosnia. Potremmo dare appuntamento<br />

alla gente e voi potreste raccogliere le lettere e consegnarle a Belgrado e a Sarajevo". Gli<br />

ricordiamo un'iniziativa che é stata organizzata a Milano. Si chiama Telefonski Most; é un ponte<br />

telefonico. Infatti tra Serbia e Croazia, dall'inizio <strong>del</strong>la guerra, sono interrotte le comunicazioni<br />

telefoniche. A Milano hanno avuto un'idea. Attraverso un semplice deviatore di telefonate<br />

hanno costruito un sistema per mettere in comunicazione via etere i serbi e i croati: chiamando<br />

Milano si mettono in contatto e rompono questa divisione. Si parlano. Una volta un parente ha<br />

iniziato la conversazione con un altro parente in questo modo: "Sei vivo ?" Si informano sulle<br />

case, i figli, quando si potranno rivedere. Alcuni si mettono d'accordo per scambiarsi le case: a<br />

causa <strong>del</strong>la pulizia etnica non potranno più rientrare in possesso <strong>del</strong>le loro abitazioni. "Prima di<br />

chiudere -raccontano in un diario i volontari di Telefonski most- riusciamo a prendere e<br />

trasmettere un messaggio da Rijeka a Banja Luka. Dalla Croazia, un uomo, musulmano, avvisa<br />

la moglie di avere ormai concluso lo scambio <strong>del</strong>la casa con un serbo. <strong>Le</strong>i dovrà lasciargli il<br />

frigorifero e la cucina, tutto il resto dovrà cercare di portarselo via. Non appena lei riceverà le<br />

lettere di garanzia dall'estero, se troverà i soldi, e se tutto andrà bene, potranno rivedersi.<br />

Manda un abbraccio al figlio e un bacio alla moglie". Forse Sergjan ha ragione; la sua é una<br />

buona idea. Invece di fare la solita e classica manifestazione, possiamo fare qualcosa di utile ed<br />

entrare in contatto con la gente. Ma -dice Sergjan- c'è un'altra importante iniziativa <strong>del</strong> Centro<br />

antiguerra, che va sostenuta: il progetto di Pakrac. A 140 chilometri a sud est da Zagabria,<br />

Pakrac (un tempo 10mila abitanti, di cui più <strong>del</strong>la metà, serbi) é stato teatro di guerra, fino alla<br />

fine di novembre <strong>del</strong> ''91, quando é stato firmato il cessate il fuoco. Sono arrivati i caschi blu<br />

<strong>del</strong>l'Unprofor che hanno diviso la cittadina in due, una parte controllata dai croati e l'altra dai<br />

serbi. I muri dividono non solo Mostar e Belfast, Gerusalemme e Beirut, ma anche Pakrac.<br />

Poche migliaia di anime divise da un plotone di caschi blu argentini. Anche Pakrac é il simbolo<br />

di questa nuova Europa. Durante la fase intensa <strong>del</strong>la guerra, cadeva su Pakrac fino ad un<br />

centinaio di bombe al giorno. Dall'inizio di luglio <strong>del</strong> '93 i volontari <strong>del</strong> Centro antiguerra e <strong>del</strong><br />

Servizio civile internazionale hanno iniziato a lavorare nella parte croata; dopo qualche mese<br />

avranno il permesso di farlo anche nella parte serba. I volontari partecipano a <strong>del</strong>le brigate di


lavoro che ricostruiscono case, scuole, risistemano strade. A Pakrac c'é rappresentata un po'<br />

tutta la comunità internazionale: tedeschi, americani, francesi, canadesi, olandesi, belgi,<br />

danesi, spagnoli, austriaci, polacchi, portoghesi, italiani, svizzeri. I volontari sono ospiti in una<br />

casa, al centro <strong>del</strong> paese. Il mattino lavorano, il pomeriggio si discute e si programmano gli<br />

interventi. Pakrac si distende fino alle colline dove sono appostati i serbi. Il paese é deserto:<br />

poche persone si aggirano per le strade vuote. Gran parte degli abitanti se ne sono andati.<br />

Dopo il Centro antiguerra vado alla Fondazione Soros che è lì vicino. Basta asttraversare la<br />

strada. La sede è bella, e ordinata, molto luminosa. Hanno molti, molti soldi grazie al finanziere<br />

omonimo. La signora Kandic -direttrice <strong>del</strong>la Fondazione- ci racconta <strong>del</strong>le tante iniziative<br />

umanitarie promosse. Ci mettiamo d'accordo per l'invio, durante Natale, di un camion di<br />

giocattoli ai bambini di un campo profughi <strong>del</strong>la Slavonia. Neva Tolle -che si trova anche lei lì in<br />

Fondazione; è la responsabile dei centri antiviolenza- racconta le conseguenze <strong>del</strong>la guerra e<br />

<strong>del</strong> nazionalismo sulle donne. La questione degli stupri etnici é all'ordine <strong>del</strong> giorno: " <strong>Le</strong> donne<br />

-spiega- sono fuori da ogni logica di guerra e di violenza. Lo stupro non é che un'arma che<br />

hanno usato contro la pace e contro le donne, usata non solo dai soldati, ma da custodi di<br />

campi, vicini, sciacalli". Poi ci spiega il funzionamento dei centri che accolgono le donne vittime<br />

<strong>del</strong>la guerra e <strong>del</strong>la violenza. Ogni centro ospita massimo 15 donne con i loro figli e dà loro vitto<br />

e alloggio, assistenza sanitaria e psicologica, assistenza per l'aborto o per continuare la<br />

gravidanza, aiuto per uscire dai territori <strong>del</strong>la ex Jugoslavia, se lo vogliono.<br />

Dicembre<br />

Tre città una pace. Altra carovana per la pace: per Sarajevo, passando per Zagabria e Belgrado.<br />

Il 27 si parte da Trieste. Assemblea dei partecipanti. Si discute e molti chiedono: "Andremo<br />

anche a Sarajevo ? Sarà possibile andare nei campi profughi ?”. Prima di partire arriva una<br />

telefonata: "Sono il console <strong>del</strong>la repubblica di Jugoslavia a Roma. Fermatevi, non potete<br />

partire". Perché ? " La vostra visita non é gradita. Sarete fermati alla frontiera con l'Ungheria. La<br />

vostra visita viene da noi presa come un'iniziativa antiserba. A Belgrado c'é molta violenza e<br />

<strong>del</strong>inquenza. Potrebbe essere pericoloso. Ci preoccupiamo <strong>del</strong>la vostra incolumità". Segue un<br />

battibecco; avverto il Ministero degli Esteri ed i deputati pacifisti. La situazione si risolve<br />

promettendo che incontreremo anche il Sindaco di Belgrado e finalmente si parte. La sera si<br />

arriva a Zagabria. Il mattino dopo, teniamo due forum. Nel primo si confrontano le forze di<br />

opposizione. Vivono nell' incertezza e sono ancora poco risolute contro il regime di Tudjman.<br />

Parla Cicak: "Il nazionalismo é la via d'uscita <strong>del</strong>le vecchie classi dirigenti comuniste, é il virus<br />

che ha dato il via alla guerra". Petar Ladevic, Presidente <strong>del</strong> Forum Democratico dei Serbi di<br />

Croazia ricorda che i serbi di Croazia sono discriminati. Chi ha un cognome serbo a Zagabria,


preferisce cambiarlo. Qualcun altro dice: " Ma se i serbi avevano i migliori posti a Zagabria,<br />

sotto Tito !". Ladevic continua: "Viviamo in un regime nazionalista di massa. E anche un regime<br />

nepotista. Il figlio di Tudjman é il responsabile dei servizi segreti". Oltre che essere popolata da<br />

un terzo di serbi, ora la Croazia é piena di musulmani (ma anche di molti croato-bosniaci) che<br />

sono scappati dalla guerra in Bosnia. In alcune parti la Croazia sembra un immenso campo<br />

profughi: veicoli bianchi <strong>del</strong>l'Onu, croci rosse e mezzalune verdi si alternano su vetture e<br />

furgoncini che portano aiuti. Molti campi sono abbandonati a sé stessi, aiutati solo dalle<br />

agenzie umanitarie internazionali. La segnaletica stradale é in molte aree rivoluzionata: central<br />

office <strong>del</strong>l'Unprofor a sinistra; Unhcr, sempre avanti, a due chilometri; refugee camp, la prima a<br />

destra. Molti tra i pacifisti presenti prendono appunti e stabiliscono contatti per invii di aiuti,<br />

per gemellaggi con campi profughi, dove organizzare il volontariato e l'assistenza. Il 29, in<br />

piazza Jelacica si snoda il nostro serpentone di pacifisti con cartelli e can<strong>del</strong>e. Fino a qualche<br />

ora prima si era discussa l'opportunità di tenere la manifestazione. I pacifisti croati non erano<br />

pronti e preferivano che la manifestazione non si svolgesse. La gente guarda con curiosità e<br />

prende i volantini. Solo qualche mese prima un gruppo di pacifisti tedeschi, per una iniziativa<br />

simile, era stato malmenato da una squadra di fascisti locali. Va tutto bene, ma é solo una<br />

piccola manifestazione simbolica senza seguito. A Zagabria da mesi ormai non si fa più alcuna<br />

manifestazione. Serjan Dvornik ci spiega: "Per ora non c'é niente da fare. Qui la situazione é<br />

bloccata e siamo sempre ad un passo dal regime. Per ora ci battiamo per difendere la libertà di<br />

stampa, la residua libertà che ci é rimasta e a ricostruire i villaggi distrutti. Ma é difficile,<br />

davvero". La stampa é sotto bavaglio. Slobodna Dalmacija, il giornale democratico di Spalato é<br />

controllato dallo Stato. A Zagabria si trova in edicola anche il Feral Tribune, un giornale satirico<br />

simile a Cuore; è diretto da Victor Ivancic. Il giornale viene spesso censurato o chiuso e Ivancic<br />

finisce in prigione.<br />

Il 30 arriviamo -quattro pullman, due minibus e le macchine- a Belgrado. Il traffico non manca,<br />

ma i negozi sono vuoti. L'embargo ha prodotto i suoi devastanti effetti. Dall'inizio <strong>del</strong>la guerra<br />

la produzione é diminuita <strong>del</strong> 50% e il valore <strong>del</strong> marco tedesco al mercato nero é aumentato di<br />

5mila volte rispetto al dinaro. I disoccupati sono più di 2 milioni e l'inflazione cresce <strong>del</strong>l'1%<br />

all'ora. Incontriamo il responsabile serbo <strong>del</strong>l'agenzia di protezione dei rifugiati che ci ospita in<br />

una sede dall'intonaco scrostrato. La sua segretaria va a prendere lo stipendio. E' fatto di molti<br />

milioni di dinari: ovvero quattro marchi. Se non li cambia subito in valuta straniera domani non<br />

valgono nemmeno mezzo marco. Si scusa, prende il cappotto e se ne va. L'incontro finisce dopo<br />

pochi minuti: dobbiamo andare al palazzo che ospita gli uffici <strong>del</strong>la "Repubblica serba di Bosnia<br />

Erzegovina", dove riusciamo ad avere i nostri pass per poter entrare nella parte serba <strong>del</strong>la<br />

Bosnia. Dentro gli uffici l'atmosfera é tesa e tetra. Manifesti di propaganda bellica pendono


dalle pareti. Ricordano in qaulche modo i manifesti <strong>del</strong>lla DC e <strong>del</strong> PCI per le elezioni <strong>del</strong> 1948. "<br />

Se vinceranno i musulmani...", e un'onda verde (il colore dei musulmani) di vernice che<br />

macchia l'Europa.<br />

Incontro con Tom e altri 3-4 esponenti <strong>del</strong> nostro gtuppo la signora Gruden, Sindaca di<br />

Belgrado. Non volevamo, ma abbiamo dovuto accettare un compromesso, altrimenti non ci<br />

avrebbero fatto entrare in Serbia. Siamo sporchi e malmessi, dopo quasi 24 ore di viaggio in<br />

pullman. E' glaciale e il volto imbellettato non muove un muscolo. <strong>Le</strong> televisioni ci riprendono e<br />

siamo imbarazzati. "Aiutateci, le sanzioni stanno uccidendo la popolazione. I suicidi tra gli<br />

anziani sono aumentati". ma le organizzazioni umanitarie <strong>del</strong>l'opposizione di lei non si fidano.<br />

E' una pedina di Milosevic. Ci impegniamo a inviare medicinali ad un ospedale psichiatrico. Il<br />

pomeriggio incontriamo le Donne in nero (una di esse ci rimprovera l'incontro con Gruden: "così<br />

legittimate il potere e sconfessate noi", sono molto arrabbiate) e un giornalista di Vreme -<br />

settimanale di opposizione- che parla <strong>del</strong>le censure <strong>del</strong> regime di Milosevic. Siamo in un grande<br />

salone <strong>del</strong>la Casa <strong>del</strong>la gioventù di Belgrado, mezza discoteca e mezza sala giochi, mezzo pub e<br />

mezzo circolo culturale. Stascia, <strong>del</strong>le Donne in nero dice: "Ci chiamano puttane quando<br />

manifestiamo in piazza, ma noi continuiamo il nostro lavoro. Aiutiamo tutte le donne, quelle<br />

violentate, quelle che soffrono nei campi profughi". Continuiamo il dibattito con esponenti <strong>del</strong><br />

DEPOS (il cartello <strong>del</strong>le forze di opposizione, tra cui ci sono anche forze nazionaliste e<br />

monarchiche), tra i quali un giovane yuppy balcanico dice: " Non potete capire il problema <strong>del</strong><br />

Kosovo. Gli albanesi sono arrivati anche da voi, in Puglia, in Calabria. E lì, cosa hanno fatto?<br />

Mica hanno chiesto l'indipendenza o rivendicato l'unione con l'Albania? Prima <strong>del</strong>la guerra in<br />

Kosovo abitava il 50% di serbi e il 50% di albanesi. Poi ci fu lo spopolamento serbo, anche<br />

perché Tito promise il Kosovo all'Albania. Oggi gli albanesi vogliono la secessione, ma devono<br />

capire che questo é impossibile, a prescindere dal fatto che sono ormai il 90% <strong>del</strong>la<br />

popolazione locale. Ma anche a Miami il 60% sono cubani; cosa succederebbe se anche lì<br />

rivendicassero la secessione o l'unione a Cuba ? ". Questi deputati <strong>del</strong> DEPOS dovrebbero<br />

rappresentare l'opposizione democratica a Milosevic; ma spesso la lotta é tra due nazionalismi<br />

ugualmente pericolosi. Il loro leader, Vuk (che significa "lupo") Draskovic parla e fa il mistico:<br />

"Dio e Patria trionferanno. Costruiremo la grande nazione serba".<br />

Partiamo per Sarajevo. Facciamo il viaggio di notte. La neve e la nebbia ci fanno rallentare.<br />

Abbiamo macchine poco affidabili: un pullmino Ford regalato pieno di aiuti, una Renault 4<br />

vecchia di dieci anni, un'Audi poco adatta per queste strade di montagna. La guida Mario<br />

Boccia, il fotografo free-lance, che ci segue dall'inizio <strong>del</strong>la guerra. Alle tre di notte siamo al<br />

confine tra la Serbia e la Repubblica serba di Bosnia. Per passare il confine siamo costretti a


ere grappa e prenderci pacche sulle spalle -non si sa se rassicuranti o minacciose- dai soldati<br />

ubriachi <strong>del</strong>la baracca di confine che ripetono “Velika Srbi'ja” (grande Serbia) davanti ai ritratti<br />

di Mladic e Karadzic . Arriviamo infine a Pale (il quartier generale dei serbi) alle otto <strong>del</strong> mattino.<br />

Dobbiamo fare di nuovo i passi-stampa e saliamo fino ad un albergo costruito appositamente<br />

per le olimpiadi invernali di dieci anni fa. Per arrivare a Sarajevo bisogna attraversare tanti posti<br />

di blocco, passare rasenti le colline protette da bandoni di latta e tronchi di legno. Passiamo<br />

accanto alle trincee serbe da dove si domina, dall'alto la città. Da qui si assedia la gente. E' un<br />

effetto strano vedere questi soldati, i loro volti, e associarli -una volta in città- agli anonimi spari<br />

dei cecchini e alle notizie <strong>del</strong>le TV che ci arrivano in Italia. Hanno barbe lunghe e divise<br />

stracciate. Puzzano d'alcool; sono sguaiati e allegri. Sembra il ritratto fatto dalla propaganda,<br />

ma è proprio così. Sono insieme a dei giornalisti (Luca Del Re di Video Music, Raffaella<br />

Menichini e Marco Calabria <strong>del</strong> Manifesto, Fabio Benes <strong>del</strong>l'Ansa) e alcuni operatori <strong>del</strong>l'ICS.<br />

Si arriva all'ultimo posto di blocco. Si perde un po' di tempo per una consegna che intendiamo<br />

fare all'ospedale civile serbo di Sarajevo, non lontano dalla caserma di Lukavica, quartier<br />

generale dei serbi che assediano la città. E' un ospedale completamente abbandonato dalle<br />

agenzie umanitarie, a causa <strong>del</strong>l'embargo. Privi di attrezzature e di bende, anestetici, siringhe i<br />

medici cercano di operare come meglio possono anziani e bambini colpiti da granate e fucilate.<br />

Sembra un'ospedale da campo, ma è pulitissimo e ordinato. La sala operatoria é un piccolo<br />

vano con specchi ossidati e pesanti attrezzature metalliche opache. Ci guidano <strong>del</strong>le ragazze,<br />

una in divisa militare, e l'altra, l'addetta stampa, si chiama Bjelosnjezka, cioè: Biancaneve.<br />

Non é il suo soprannome, ma il nome di battesimo. Nel suo ufficietto disadorno é aperto sul<br />

tavolo un romanzo di Hermann Hesse (Demian) mentre il giradischi fa cantare i Doors. Entrambe<br />

sono gentili e spiritose. Sono ragazze, studentesse che potresti incontrare a Torino, Barcellona,<br />

Amburgo in una libreria o in una discoteca. Parlano pianamente, senza il furore bellico degli<br />

uomini. L'altro ieri hanno sparato proprio qui, fuori dalla finestra. State attenti quando uscite",<br />

dice con normalità, senza agitazione, Biancaneve. Se avesse detto: "Qui fuori, sulla destra, c'é<br />

il droghiere", avrebbe usato lo stesso tono. La guerra é ormai un dato di fatto, un colpo di un<br />

cecchino (in questo caso un musulmano) é una disgrazia che cade dal cielo: come un tumore o<br />

un incidente in macchina.<br />

Decidiamo di partire: di corsa sulla pista <strong>del</strong>l'aeroporto con il pedale <strong>del</strong>l'acceleratore a<br />

tavoletta. E' ormai notte e bisogna guidare a fari spenti per le strade <strong>del</strong>la città. Sono setteottocento<br />

metri da fare in pochi secondi. Mentre corriamo a 110km sbirciamo un Hercules<br />

italiano parcheggiato sulla pista che sta terminando lo scarico dei pallets di aiuti. Passano<br />

pochi secondi e siamo dall'altra parte dalla pista: ce l'abbiamo fatta. A Sarajevo -al centro <strong>del</strong>la


città- si arriva a notte fonda. Incontriamo Ibrahim Spahic che si sbraccia quando ci vede.<br />

Abbracci, pacche sulle spalle. E' dimagrito ancora dall'ultima volta: i pantaloni senza cintura gli<br />

scivolano giù e la camicia è lasca sull'addome. Poi ci porta subito al nostro alloggio. Siamo<br />

ospiti da <strong>del</strong>le ragazze, europee, molto simili a quelle incontrate poco prima alla caserma di<br />

Lukavica. Si chiamano Jasna e Diana: sono due sorelle di cui é difficile dire di che etnia siano.<br />

Nella loro genealogia familiare si alternano nonni e bisnonni serbi, croati, musulmani. Vivono a<br />

Sarajevo e dalla città non se ne sono andate quando é scoppiata la guerra nella capitale<br />

bosniaca nell'aprile <strong>del</strong> 1992. I loro parenti sono invece partiti per la Slovenia e la Croazia, e<br />

anche per la Serbia. I nonni e il figlio di Diana, Goran di quattro anni e mezzo, vivono a Belgrado.<br />

Diana non vede Goran da diciotto mesi. Si commuove quando ne parla. In un anno e mezzo solo<br />

una volta é riuscita a parlarci per telefono. Jasna e Diana, insieme agli inquilini di un condominio<br />

di quindici piani - vicino all'ospedale di Sarajevo, Kosevo- ci ospitano. E' il primo gennaio <strong>del</strong> '94<br />

. La nostra <strong>del</strong>egazione é composta da una quindicina di persone. A Sarajevo la resistenza alla<br />

guerra ha portato la gente ad organizzarsi. La gente <strong>del</strong> palazzo di Kraija Tomislava (dove siamo<br />

ospitati; è un palazzone di tredici piani, minacciosamente svettante ed esposto a tutti i lati) ha<br />

trovato un motore di una vecchia Fiat 600. Ci ha costruito un generatore con il quale qualche ora<br />

al giorno riesce ad avere un po' di corrente elettrica. Da poco l'Unprofor ha risistemato la rete<br />

<strong>del</strong> gas e la gente di qui ha aggiustato le tubature <strong>del</strong>l'isolato. Con il gas, si può cucinare e<br />

anche avere un po' di caldo.<br />

<strong>Le</strong> giornate a Sarajevo si consumano uguali l'una all'altra. Il 1° gennaio centocinquanta granate,<br />

il giorno dopo, mille, dice la radio. La notte ci si sveglia per gli scoppi. Noi. Ma per loro di<br />

Sarajevo é ormai storia ordinaria da venti mesi. "Non puoi mai dire se e quando arriverà un<br />

proiettile o una granata. Viviamo nell'attesa, così", dice Jasna. Il lavoro é ormai una cosa<br />

diversa da quella che conosciamo noi. Chi lavora (non più <strong>del</strong> 5% <strong>del</strong>la popolazione) e<br />

principalmente nei servizi lo fa per illudersi di continuare a fare una vita normale. Si possono<br />

guadagnare cinque, sei marchi. Ma lo zucchero, al mercato nero, costa cinquanta marchi al<br />

chilo. Desiderio di vita normale: come quello degli anziani che portano cani dagli occhi<br />

terrorizzati dagli scoppi per la strada con il guinzaglio e la medaglietta di riconoscimento in giro<br />

per la città. Ma, a Sarajevo anche piccoli eventi possono dare felicità ad una gente ridotta allo<br />

stremo. Insieme a Raffaella Menichini e a Mario Boccia incontro Zlatko Disdarevic,<br />

caporedattore di Oslobodenije, unico quotidiano di Sarajevo ancora in vita che ha avuto molti<br />

giornalisti uccisi dai cecchini mentre si recavano a lavorare. Siamo a casa sua davanti ad un<br />

piatto di minestra. Scende rapidamente l'oscurità e si accende una can<strong>del</strong>a. Racconta: "<br />

Quindici giorni fa, quando é ritornato il gas, la gente é scesa per le strade. Sotto la mia casa un<br />

gruppo di ragazzi si sono abbracciati, altri hanno pianto di gioia. Altri hanno cantato. Sembrava


una festa". Alberi a Sarajevo ce ne sono pochi. Sono stati quasi tutti tagliati per riscaldarsi. Per<br />

l'acqua, la gente fa la fila alle fonti e alle autobotti. Sono i bersagli preferiti per i cecchini ed i<br />

lanciatori di granate. Da alcuni mesi una dozzina di coraggiosi pacifisti italiani (sono dei Beati i<br />

costruttori di pace) vivono -alternandosi nelle presenze- a Sarajevo e aiutano le persone<br />

anziane a prendere l'acqua con <strong>del</strong>le taniche e a portarle negli appartamenti. Gli stessi pacifisti<br />

nelle scorse settimane hanno portato e fatto uscire da Sarajevo 3800 lettere per mettere in<br />

contatto parenti e amici.<br />

Stiamo pensando ad altre iniziative di solidarietà: la distribuzione di pacchi-famiglia, la gestione<br />

di una struttura che ospita bambini orfani di guerra, l'organizzazione di convogli umanitari. Ma<br />

non solo. Ibrhaim Spahic dice: "Abbiamo bisogno non solo di viveri e di medicinali, ma anche di<br />

continuare a sperare. Abbiamo bisogno che giornalisti, artisti, scrittori vengano qui ad ascoltare<br />

e a dare un contributo. Anche con il teatro, la musica e il cinema si deve costruire un legame di<br />

solidarietà. E' una forma di resistenza alla guerra che vuole cancellare la vita normale". Ed ecco<br />

alcune idee: l'organizzazione di una rassegna di video musicali e l'invio di almeno cinquemila<br />

libri a Sarajevo. La biblioteca <strong>del</strong>la città é stata distrutta. Molti dei volumi sono andati bruciati.<br />

Decidiamo insieme ad Ibrhaim il nome <strong>del</strong>la campagna “Sarajevo, cuore d'Europa” per<br />

raccogliere migliaia di libri, carta per i giornali, fax e computer. E di ritorno in Italia,<br />

organizziamo gli aiuti dalle librerie e dalle case editrici. A Siena (dove l'Università, rettore Luigi<br />

Berlinguer, per prima aveva lanciato l'idea) si attivano numerose iniziative e si tenta di<br />

coordinare la campagna a livello europeo: analoghe inziative di solidarietà si svolgono in<br />

Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania. Si aggregano all'iniziativa, dandoci una mano<br />

Ginevra Bompiani (che si attiverà moltissimo nei mesi successivi) e la Roberta Einaudi. Da<br />

Firenze mi mandano copia <strong>del</strong>le partecipazioni di matrimonio di Arianna Papini e Federico<br />

Gasperini, dove c'é scritto: "Arianna e Federico hanno aperto a loro nome il c/c 1640-00 presso<br />

l'agenzia n°10 <strong>del</strong>la Banca Toscana di Firenze. La somma raccolta con l'aiuto di parenti e amici<br />

andrà a fare parte <strong>del</strong>l'iniziativa in atto presso l'Università di Siena volta alla ricostruzione <strong>del</strong>la<br />

Biblioteca di Sarajevo, distrutta dai bombardamenti".<br />

1994<br />

Settembre<br />

Morte a Sarajevo. Harris Prolic ha 33 anni. E' un giovane regista di Sarajevo che ha girato un<br />

lungo documentario: "Morte a Sarajevo". Il film, proiettato al Festival di Taormina di luglio<br />

scorso, è piaciuto. Il documentario di Prolic - un'opera fatta di un massacrante lavoro di


montaggio e di sequenze rappate - riproduce l'inferno di Sarajevo usando la metafora dei gironi<br />

danteschi, assegnando a ciascuno di questi un corrispondente vizio <strong>del</strong>la guerra: la pratica<br />

criminale <strong>del</strong>l'assedio, la vigliaccheria infame dei cecchini, la vergogna dei campi di<br />

concentramento.... Il film è un bel lavoro, ma non saprò mai cosa succede negli ultimi tre minuti<br />

<strong>del</strong> girato: va via l'elettricità e non ritornerà fino alla nostra partenza. Sarajevo è stretta tra una<br />

precaria normalità di città assediata e l'imminente ripresa <strong>del</strong>la guerra, quella combattuta e<br />

quella che porterà l'inverno con il freddo e la mancanza di approvvigionamenti. Per ora negozi<br />

e bar (nel centro) sono aperti, anche se sono pochi quelli che se lo possono permettere. Sono<br />

con Ginevra Bompiani – dormiamo nella casa di Prolic- per portare avanti il progetto a favore<br />

<strong>del</strong>la Biblioteca di Sarajevo. Siamo arrivati a Sarajevo con un'aereo <strong>del</strong>l'Unprofor da Zagabria.<br />

Con noi c'è anche Matvejevic. Dinoccolato e gli occhi ridotti a piccole fessure tra le segnate<br />

borse e gonfiori <strong>del</strong>le palpebre, Prolic commenta: "La morte a Sarajevo non é solo quella dei<br />

poveri ammazzati; é la morte di una città, di una storia, di una cultura. Non c'é speranza, é tutto<br />

finito. Sarajevo é morta, ma anche l'Europa qui ha trovato la sua tomba". A Sarajevo é<br />

sopravissuta per tanti anni una cultura cittadina: chi abita a Sarajevo, non é musulmano, serbo,<br />

croato, é sarajevese. Ed é proprio l'idea <strong>del</strong>la cittadinanza ad essere stata qui sconfitta sotto il<br />

peso travolgente <strong>del</strong>le identità etniche e nazionali. Protagonista -io narrante- <strong>del</strong><br />

film/documentario: "Morte a Sarajevo" é Trvtko Kulenovic, uno scrittore apprezzato a Sarajevo<br />

che ora é presidente <strong>del</strong> PEN club, l'organizzazione degli scrittori. Parla un buon italiano, é stato<br />

spesso a Siena, Roma, Venezia. Ha avuto la famiglia falcidiata dalla guerra: moglie e figlia<br />

ammazzate. Lui si é salvato. "Un giorno, mentre stavamo girando il film -ricorda Kulenovic- ho<br />

sentito un grande botto e poi un gran caldo alla coscia; mi sono accorto di un buco dei<br />

pantaloni. Per fortuna il cecchino mi aveva solo sfiorato". Nella sede <strong>del</strong> PEN club (a pochi passi<br />

dalla vecchia sede dei sindacati, luogo esposto e preferito dai cecchini), si ritrovano scrittori<br />

artisti, pittori e poeti. E' una <strong>del</strong>le rare organizzazioni culturali che ha continuato a vivere<br />

durante la guerra. Gli scrittori, gli artisti si ritrovano al PEN per bere un caffé, raccontarsi storie,<br />

scambiarsi gli umori. Fanno progetti, iniziative, programmano attività culturali. Il PEN club,<br />

insieme al Centro internazionale per la pace ha dato vita quasi due anni fa -nel pieno <strong>del</strong>la<br />

guerra e <strong>del</strong>la mancanza di ogni forma di sostentamento- ad un'iniziativa quasi incredibile: la<br />

pubblicazione di una bella antologia dei poeti <strong>del</strong>la Bosnia e Erzegovina (che con l'Associazione<br />

per la pace facciamo tradurre in italiano e gli diamo come titolo una <strong>del</strong>le poesie incluse:<br />

Qualcuno dovrà dopo tutto). "Per noi la cultura é vita, é speranza. Un libro, qui, é una cosa<br />

preziosa ed indispensabile, come il pane e l'acqua", dice Kulenovic. Ma, nel momento peggiore<br />

<strong>del</strong>la guerra i libri (molti dicono che fossero solo le bozze di volumi mai pubblicati) sono stati<br />

usati per impacchettare le sigarette. Pagine di Rimbaud e Tolstoj che avvoltolano un tabacco<br />

scadente. Dizdarevic ne ha tratto ispirazione per un libro: <strong>Le</strong> sigarette di Sarajevo. Più tardi


Miljenko Jergovic pubblicherà il racconto <strong>Le</strong> Marlboro di Sarajevo: sigarette di guerra avvolte nei<br />

vecchi involucri <strong>del</strong>le Marlboro prodotte nella ex Jugoslavia. Gli europei, i giornalisti che sono<br />

venuti qui le collezionano; sono una specie di reperto prezioso nella serie dei souvenir più<br />

originali di questo turismo di guerra, che porta ogni giorno centinaia di persone dentro e fuori<br />

da Sarajevo. C'é un giro impressionante (e anche un certo mercato nero) di press card, blue card<br />

e tutto ciò che permette di imbarcarsi sugli aerei Unprofor <strong>del</strong>le Maybe airlines, come qualcuno<br />

con ironia ha voluto chiamare quei voli.<br />

Essere indipendenti e critici <strong>del</strong> governo qui non é facile. Ma nemmeno fare provocazioni<br />

culturali può essere saggio, durante la guerra. E' il caso <strong>del</strong> quindicinale BeH Dani (Giorni <strong>del</strong>la<br />

Bosnia Erzegovina) che per aver pubblicato un articolo un po' ironico verso le usanze islamiche<br />

si é attirato le ire degli integralisti. E' un articolo di Harris Prolic, sempre lui, che ironizza sulle<br />

bad words, le cattive parole che non piacciono ai fondamentalisti islamici. Qualche guaio per<br />

questo motivo l'ha già passato. Mi racconta al bar il giovane direttore di Beh Dani, Senad<br />

Pecanin, che ha 25 anni ed era un leader degli universitari di Sarajevo: " Per ora non c'é<br />

censura, ma riceviamo molte pressioni, che vuoi, siamo in guerra". Una guerra che sembra<br />

senza fine. Molti se ne sono andati via, altri lo stanno facendo. Anche Prolic, ci sta pensando:<br />

"Mia moglie e le mie due bambine si trovano in Austria; é tanto tempo che non le vedo. Ormai<br />

qui non c'é più niente da fare. Me ne vado in Europa, visto che qui non é mai arrivata", dice<br />

sorridendo. A Sarajevo, l'Europa é morta. Nella sede <strong>del</strong> Centro internazionale per la pace é<br />

esposta una vecchia pubblicazione, <strong>del</strong>l'aprile <strong>del</strong> '92 (il 6 di quel mese iniziò la guerra nella<br />

città). In quarta di copertina c'é una poesia di Fuad Buzadic:, Cuore d'Europa: "...le cose non<br />

sono così semplici come sembra/con la caduta <strong>del</strong> muro di Berlino/non ne vorremmo un altro<br />

qui/a Sarajevo/cuore d'Europa/ E se provi a dividere quel cuore/L'intera Europa può presto<br />

rompersi in tanti pezzi...".<br />

A Sarjevo si incontrano molti pessimisti come Harris (“niente sarà più come prima”), ma anche<br />

volitivi ottimisti che nonrinunciano alla speranza. Tra questi c'é Sejfudin Tokic. Alto e<br />

dinoccolato: sembra un ragazzone appena uscito dal collegio. E' capogruppo al parlamento di<br />

Sarajevo, <strong>del</strong>l'Unione socialdemocratica bosniaca. Vive a Tuzla, la Bologna bosniaca. E'<br />

amministrata dalle sinistre, l'unica città dove nel 90 hanno vinto i partiti non nazionalisti. Era<br />

con Markovic, a quel tempo. Ma alle elezioni -a parte Tuzla- vinsero dappertutto i partiti<br />

nazionalisti. Il partito riformista di Markovic (con loro c'erano anche il regista Kusturica e il<br />

poeta Abdullah Sidran), prese poco più <strong>del</strong> 10%, ma a Tuzla andò molto meglio e con le altre<br />

forze non nazionaliste andarono al governo <strong>del</strong>la città. E decisero di difendere la convivenza con<br />

serbi e croati. Tokic e Beslagic (che é il Sindaco di Tuzla e Presidente <strong>del</strong>l'Unione


Socialdemocratica bosniaca) rappresentano l'alternativa ad Izetbegovic, che non a caso ha<br />

tentato di rovesciare l'amministrazione di Tuzla, attraverso vari espedienti. Mentre siamo ancora<br />

a Sarajevo, per la cerimonia dei 1000 giorni di assedio, c'é un ricevimento, é la serata<br />

conclusiva. Tokic mi chiede un incontro; per il giorno seguente, all'una alla sede <strong>del</strong> Partito. Ci<br />

sarà anche Beslagic. Il giorno dopo, Sarajevo é calma: la tregua tiene. Sembra quasi che<br />

nessuno spari più. Incredibile, ma si passeggia tranquillamente anche lungo la Milijacka, il<br />

fiume di Sarajevo: é la passerella davanti alle postazioni dei cecchini. Ogni tanto echeggia un<br />

tiro.<br />

Puntuali all'una ha inizio l'incontro. C'é anche Drazena Peranic, é una giornalista e lavora<br />

all'AIM (Alternative Information Media), una rete di giornalisti indipendenti jugoslavi. Scrivono<br />

articoli e li mandano alle agenzie di stampa internazionali. In pochi li riprendono, solo i<br />

periodici specializzati, come il Balkan War Report, che si pubblica a Londra. Beslagic e Tokic<br />

hanno appena tenuto una conferenza nella città in cui hanno messo sotto accusa il<br />

nazionalismo <strong>del</strong> Partito di Azione Democratica (SDA). Spiega Tokic: "Izetbegovic ha messo<br />

suoi uomini di partito in ogni posto di potere. C'é un uomo <strong>del</strong>l'SDA a capo <strong>del</strong>l'esercito, <strong>del</strong>la<br />

polizia, <strong>del</strong>la televisione. Lui é il nostro Berlusconi". Tokic viene al dunque: " Nei territori serbobosniaci<br />

da tempo c'é un piccolo gruppo di parlamentari che si oppone a Karadzic. Sono una<br />

dozzina. Siamo in contatto con loro. Abbiamo già fatto un incontro in Macedonia. Con loro<br />

comunichiamo quando usciamo fuori dalla Bosnia, quando possiamo parlare con più<br />

tranquillità. Finora si é trattato di incontri segreti, ma siamo pronti a promuovere un incontro<br />

pubblico e rendere noto un accordo che stiamo prepararando e che prevede la possibilità di un<br />

dialogo per la pace, sulla base <strong>del</strong> riconoscimento <strong>del</strong>l'integrità <strong>del</strong>la Bosnia Erzegovina.<br />

Sareste disponibili ad organizzare questo incontro in Italia? Altrimenti c'é la possibilità che si<br />

faccia in Ungheria".<br />

Proprio così. In venti, trenta secondi Tokic snocciola le tre cose che doveva dire. Gli italiani e i<br />

balcanici hanno questo in comune: di prenderla sempre alla larga e da lontano e arrivare al<br />

punto dopo mezzora. Ma Tokic non è fatto così. Vale la pena ricordare come é entrato in politica:<br />

laureato in biologia era un esperto <strong>del</strong>le doti provvidenziali <strong>del</strong>le erbe curative che si potevano<br />

trovare sulle montagne intorno a Sarajevo. Ne fece anche un libro. Andò dall'allora premier<br />

Markovic per perorarne la causa. Ma Markovic lo preferì come politico invece che come<br />

botanico. Sulle montagne intorno a Sarajevo, Tokic da quel 6 aprile <strong>del</strong> 1992 non c'é più<br />

tornato. Che da quei monti, per lui prodighi di di virtù curative, ora arrivi la morte é uno dei<br />

paradossi di questa guerra. Beslagic é un contadino furbo e concreto. Sembra lo zio di Tokic,<br />

Insieme sono una coppia piacevole: si fanno le battute e si divertono. Io parlo. Beslagic


annuisce e sorride. Drazena Peranic traduce. Rispondo " ... mi sembra interessante... può<br />

essere lo sbocco... abbiamo sostenuto sempre le opposizioni...certo, la situazione é <strong>del</strong>icata...".<br />

Beslagic mangia una tartina, Tokic tamburella l'indice sul tavolo. Naturalmente, la riposta é: sì.<br />

L'incontro é finito. Ockay, ciao, ciao. Ci sentiamo per telefono, a presto e buon viaggio. Esco<br />

dalla stanza e guardo l'orologio. L'una e sei minuti. Sei minuti per un incontro per un'iniziativa<br />

che si può considerare importantissima: si incontrano i campi "avversari", seppure a livello<br />

<strong>del</strong>le opposizioni per un accordo politico. E' da tempo che i pacifisti lo dicono: vanno sostenute<br />

le opposizioni democratiche, le forze non nazionaliste e di pace in tutti i territori <strong>del</strong>la ex<br />

Jugoslavia.<br />

1995<br />

Maggio-Luglio<br />

I nemici si incontrano. Organizziamo la riunione. A fine maggio ecco arrivare Milorad Dodik, il<br />

capo dei parlamentari di Pale che si oppongono a Karadzic. Da parte bosniaca ci sono: Tokic,<br />

Kulenovic (direttore di Canale 99 di Sarajevo), Simic (<strong>del</strong> Consiglio serbo di Tuzla) e Drazena<br />

Peranic. L'incontro si tiene a Perugia, in una località lontana dal centro <strong>del</strong>la città. La riunione é<br />

naturalmente a porte chiuse. Dodik e Tokic si conoscevano da tempo. Fino al 1992 militavano<br />

nello stesso partito riformista di Markovic. Poi la guerra li ha divisi. Come tanti. Tokic ci dice che<br />

Dodik non si é macchiato di alcun crimine di guerra: altrimenti non l'avrebbero incontrato. Sono<br />

più o meno <strong>del</strong>la stessa generazione. Dodik vive tra Banja Luka e Belgrado. E' un imprenditore:<br />

ha un mobilificio e un grande magazzino. E' molto intimorito. E' teso: parla sottovoce con tono<br />

monocorde. Cerchiamo di metterlo a suo agio, ma senza riuscirci. Dodik scaglia però parole di<br />

fuoco contro Karadzic: "Va riconosciuta l'integrità <strong>del</strong>la Bosnia Erzegovina, anche se andranno<br />

riconosciute più unità costitutive. Dobbiamo sconfiggere il nazionalismo di Karadzic e costruire<br />

una soluzione politica al conflitto; nessuna pace verrà dalle armi". Anche le parole di Tokic sono<br />

molto dure verso il suo presidente: " In realtà Izetbzegovic e Karadzic si sostengono l'un con<br />

l'altro; sanno che la loro sopravvivenza politica é legata alla guerra. La pace li scalzerebbe via.<br />

Ecco perché entrambi sono favorevoli alla continuazione dei combattimenti". L'incontro di<br />

Perugia si chiude con una dichiarazione di cinque punti che prevede l'integrità <strong>del</strong>la Bosnia<br />

Erzegovina, l'accettazione <strong>del</strong> piano di pace <strong>del</strong> gruppo di contatto, la punizione di tutti i<br />

criminali di guerra, la continuazione <strong>del</strong> dialogo tra le opposizioni. Facciamo un incontro<br />

allargato anche ad esponenti politici per spiegare il senso <strong>del</strong>l'iniziativa. Viene anche Piero<br />

Fassino che sminuisce il senso <strong>del</strong>la nostra operazione: “serve un accordo per gradi e piccoli<br />

passi e con il governo in carica di Izetbegovic; la vostra rischia di essere un'iniziativa illuminata,<br />

ma senza seguito”. Nel momento di rendere pubblica la dichiarazione, scoppia il 25 maggio la


granata serba su un bar di Tuzla: oltre ottanta morti. Sono quasi tutti ragazzi; stavano bevendo<br />

birre e caffé al primo caldo di primavera, quando il bruciore di un'esplosione improvvisa ha<br />

mutato le risate in lamenti e pianti. L'atmosfera <strong>del</strong>l'incontro é sconvolta e surreale. Tutti<br />

chiamano a Tuzla per sapere se ci sono conoscenti tra i morti: Simic perde due parenti. Tokic e<br />

Beslagic non rappresentano solo una forza politica (i socialdemocratici), ma anche una città:<br />

Tuzla. Ogni sbaglio e ogni pretesto é buono per metterla sotto accusa da Sarajevo: si aspetta il<br />

momento buono per un colpo di mano, <strong>del</strong>l'Armija, per porre fine all'amministrazione<br />

democratica e commissariarla. Tuzla é diventata in questi mesi meta di molte nostre iniziative<br />

pacifiste e di solidarietà. A Tuzla il Consorzio italiano di solidarietà ha aperto un proprio ufficio<br />

per seguire un progetto sponsorizzato dall'Unicef: si tratta di fornire ai neonati e ai bambini <strong>del</strong><br />

"cibo supplementare", necessario per la loro crescita. A Tuzla la Helsinki Citizens Assembly<br />

promuove convegni e iniziative, tra cui la propria assemblea generale, cui partecipano seicento<br />

<strong>del</strong>egati da quaranta diversi paesi, croati e serbi compresi. A Tuzla si riunisce il Verona Forum, di<br />

cui é ispiratore sin dall'inizio Alex Langer. Spesso Tokic e Beslagic lo vanno a trovare a<br />

Strasburgo e a Bruxelles; organizzano iniziative insieme. Si sentono di frequente. In Tuzla,<br />

Langer vede una <strong>del</strong>le ultime possibilità di mantenere aperta la via <strong>del</strong>la convivenza, l'ultima<br />

fiammella <strong>del</strong>la Bosnia multietnica. Dopo la strage <strong>del</strong> bar, Langer riceve un biglietto da<br />

Beslagic che lo prega di diffondere tra i parlamentari europei: "Voi, con la vostra inazione state<br />

diventando complici di questo massacro...non fate niente... Siamo arrivati ad un punto di non<br />

ritorno". Un mese dopo Langer si toglie la vita. Non ho fatto in tempo a raccontargli per bene il<br />

senso di questa nostra iniziativa prima <strong>del</strong>la sua morte; solo di sfuggita qualche cenno quando<br />

a metà giugno l'ho chiamato a Bruxelles per chiedergli un articolo per La Terra vista dalla Luna<br />

(l'ultimo che ha scritto).<br />

Una volta, ad un convegno (era il novembre <strong>del</strong> 93, a Vicenza) Langer rispose a tono a chi se la<br />

prendeva con i pacifisti per la guerra nella ex Jugoslavia: " I pacifisti sono presenti più che mai<br />

nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogans e meno manifestazioni,<br />

ma con un'infinità quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant'altro.<br />

Un <strong>pacifismo</strong> (finalmente !) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche<br />

più complicato, perché la vita é complicata, e la pace non la si ottiene per vie semplicistiche; né<br />

con il sostegno unilaterale alle parti ritenute 'buone' e 'vittime', e neanche con l'idea che un<br />

massiccio intervento armato esterno potrebbe davvero pacificare la ragione". Continuava<br />

Langer criticando il <strong>pacifismo</strong> "tifoso" (quello che ha bisogno di un nemico per scendere in<br />

piazza) e quello "dogmatico" ( che antepone astratti principi alla realtà). Diceva di preferire " il<br />

<strong>pacifismo</strong> concreto. Credo che serva di più <strong>del</strong>le opzioni semplicistiche, buone per accontentare<br />

i tifosi, ma sterili rispetto alla realtà". E concludeva che il nostro compito é di "dare voce e


appoggio e credito all'altra Serbia, all'altra Croazia e all'altra Bosnia Erzegovina, a partire dalle<br />

quali ricostruire democrazia, diritti, convivenza ed integrazione con il resto d'Europa". Quante<br />

volte -in riunioni, convegni, manifestazioni- ho usato queste sue parole e quante volte ho<br />

rivendicato l'importanza <strong>del</strong> <strong>pacifismo</strong> concreto che ci ha guidato in tutti gli anni <strong>del</strong>le guerre<br />

jugoslave.


CAPITOLO IV<br />

LA GUERRA UMANITARIA ED IL KOSOVO<br />

24 MARZO<br />

Ore 20.00. Inizia la campagna di bombardamenti aerei <strong>del</strong>la NATO chiamata Determinate<br />

Force contro la Repubblica Federale di Jugoslavia.<br />

Pomeriggio<br />

Riunione in ufficio sulle iniziative da intraprendere in caso di attacco <strong>del</strong>la NATO. Siamo in pochi<br />

(esponenti di Arci, Associazione per la pace, Cipax, un rappresentante <strong>del</strong>l’Alto Commissariato<br />

<strong>del</strong>le Nazioni Unite per i Rifugiati -Acnur- in Italia e qualche volontario), forse 7 o 8. Si discute di<br />

un’eventuale manifestazione di protesta, ma si scarta l’idea. La discussione si concentra sugli<br />

aspetti umanitari. Il rappresentante <strong>del</strong>l'Acnur dice che i piani preparati dal governo sono un<br />

bluff: si potranno accogliere al massimo due, tremila profughi. Sul campo, in Albania gestiamo<br />

due campi profughi (che sono già arrivati in 20.000 durante l’estate). Vari operatori ICS; Bruno e<br />

Carlo sono già a Burrell e Rubik. Aggiorniamo la riunione.<br />

Sera<br />

Si continua la discussione a cena. Con Anna Eva e Paolo parliamo <strong>del</strong>le nostre attività sul<br />

campo: in caso di guerra che ne sarebbe <strong>del</strong> progetto di microcredito con i profughi a Nis ? E<br />

<strong>del</strong>l’orfanotrofio Zmaj di Belgrado, dove mandiamo aiuti ? Che ne sarà dei 70 bambini ?<br />

Sappiamo dalla televisione <strong>del</strong>l’inizio dei bombardamenti. Si interrompono le trasmissioni,<br />

compaiono le prime immagini. Scie luminose nella notte di città al buio; speaker (Ennio<br />

Remondino) dalla voce interrotta dagli scoppi in lontananza <strong>del</strong>le bombe; immagini fisse <strong>del</strong>le<br />

telecamere su strade deserte senza illuminazione, squarciate dai lampi <strong>del</strong>le bombe che<br />

esplodono. La NATO ha iniziato i bombardamenti. Preoccupazione per la sorte dei nostri amici.<br />

Bata (nostro aiutante in ufficio) a Belgrado, che fine avrà fatto, sarà stato richiamato alle armi ?<br />

E Nicolas a Nis ? Riceviamo le prime telefonate allarmate, le consultazioni sul da farsi. Il<br />

telefonino squilla fino a tarda notte. La riunione di domani é confermata.<br />

25 MARZO<br />

I capi di governo dei paesi <strong>del</strong>l’Unione Europea riuniti a Berlino dichiarano il loro


appoggio e sostegno all’azione <strong>del</strong>la NATO.<br />

L’incontro di oggi pomeriggio è molto più affollato. Ci sono una trentina di gruppi e di<br />

organizzazioni: Arci, Acli, Associazione per la pace, Pax Christi, Papa Giovanni XXIII, Cgil, ONG<br />

come Cric, Cospe, Gvc e tante altre sigle simili. I partiti non sono stati invitati. Si discute sul da<br />

farsi, come mobilitare le associazioni. Prima si parla di un appello contro la guerra: ce n’è uno<br />

che hanno preparato i frati francescani di Assisi e la Tavola per la pace. Decidiamo di prenderlo<br />

come base <strong>del</strong>la mobilitazione. Ma che fare? Una giornata di protesta in tutta Italia? Una<br />

manifestazione nazionale a Roma? Viene avanzata prudentemente la proposta; promuovere<br />

un’iniziativa nazionale per il 3 aprile. Se n’era parlato prima <strong>del</strong>l’inizio con Tom e Raffaella. Tom<br />

è prudente, mentre Raffaella sembra determinata a fare una manifestazione a Roma. “Se non la<br />

promuoviamo noi, che in questi anni siamo stati a lavorare in ex Jugoslavia, chi lo fa ?”<br />

26 MARZO<br />

Si riunisce il Consiglio di Sicurezza <strong>del</strong>le Nazioni Unite. Un documento di condanna<br />

<strong>del</strong>l’intervento <strong>del</strong>la NATO viene votato da Cina, Russia e Namibia e respinto dagli altri 12<br />

membri <strong>del</strong> Consiglio.<br />

Intorno alle 17 si fa un sit in davanti al Parlamento. La manifestazione è improvvisata (200-300<br />

persone) e in parte spontanea. E’ di fatto una manifestazione autoconvocata: chi ha voluto, ha<br />

aderito. Sono quasi tutti di Rifondazione Comunista, ci sono molte bandiere rosse e slogan<br />

antimperialisti, qualcuno a sostegno di Milosevic. Di pacifisti alla manifestazione, non se ne<br />

vedono tanti, a parte i responsabili <strong>del</strong>le organizzazioni. Decidiamo di spostarci in un bar,<br />

davanti al cinema Capranichetta per riunirci ancora con vari rappresentanti di associazioni Con<br />

Raffaella abbiamo già deciso: organizzare una manifestazione nazionale per il 3 aprile. Serafini<br />

di <strong>Le</strong>gambiente invece sostiene un’altra proposta: una marcia in Campidoglio a metà settimana<br />

(per poi fare una manifestazione nazionale il 10 aprile). Rifondazione vuole fare una<br />

manifestazione di studenti. Ci impuntiamo e ci battiamo per il 3 aprile per fare un corteo<br />

promosso dalle associazioni che si sono impegnate con l’intervento umanitario in questi anni in<br />

ex Jugoslavia. I partiti, se vogliono aderiranno. Ma il 3 aprile è il sabato prima di Pasqua: ci sono<br />

molte obiezioni. Queste derivano dal fatto che a proporre tale manifestazione sono le<br />

associazioni: i partiti non hanno ancora detto niente, mentre il manifesto punta sul 10 aprile.<br />

Noi insistiamo. Pensiamo che la gente ci venga: c’è il clima adatto, riceviamo tante telefonate<br />

che ci invitano a muoverci. La nostra argomentazione è: i bombardamenti sono iniziati il 24<br />

marzo. Non possiamo aspettare 17 giorni per fare una manifestazione nazionale. Ironizziamo su


chi invita ad essere prudenti: è Pasqua e c’è il rischio che venga meno gente per le gite fuori<br />

porta (...) Da Piazza Montecitorio, andiamo a via Tomacelli dove c’è la redazione <strong>del</strong> manifesto:<br />

la riunione si continua in una piccola stanza, dove lavora Gigi Sullo. La discussione si protrae<br />

per qualche ora: c’è Cremaschi (segretario Fiom <strong>del</strong> Piemonte) e altri <strong>del</strong>la Fiom di Brescia<br />

(Zipponi) che sono contrari. Loro vogliono farne una per il 10 aprile. Questa manifestazione (la<br />

loro) sarebbe la convergenza di diverse forze: Rifondazione, il manifesto, Cgil “di sinistra”,<br />

associazioni, <strong>pacifismo</strong> “antagonista”. Ci sono una serie di telefonate di Cremaschi e di alcuni<br />

<strong>del</strong> giro de “il manifesto” con Bertinotti per consultazioni (così ci dicono). I redattori <strong>del</strong><br />

manifesto sono divisi: una parte (Gigi Sullo, Tommaso Di Francesco, Roberta Carlini) è d’accordo<br />

con noi, gli altri (tra questi Valentino Parlato) insiste per il 10 aprile. Noi ripetiamo: vogliamo<br />

fare una manifestazione gestita dalle associazioni, senza intrusioni dei partiti. Valentino Parlato<br />

cerca di convincerci. “Vedrete: non verrà nessuno. Come pensate di fare una manifestazione<br />

senza il sostegno di noi sindacalisti ? Chi li organizza i pullman ? “, chiede Cremaschi. Tutta<br />

questa discussione ha un effetto sgradevole. Tatticismi, politicismi, acrobazie di una politica che<br />

avevo dimenticato da anni. Alla fine comunque ci impuntiamo e rischiamo. Non ci sono pullman<br />

e non ci sono soldi. L’ARCI ci può mettere qualche milione di lire, ma poco di più. Lo stesso per<br />

l’ICS. Sugli altri non si può contare. Siamo abbastanza soli. La riunione al manifesto si<br />

interrompe, bisogna scappare perché <strong>Le</strong>rner ci ha invitato alla sua trasmissione, per parlare<br />

<strong>del</strong>la situazione umanitaria in Kosovo. C’è anche Anna Eva che è molto efficace nel descrivere<br />

l’opera dei volontari in Kosovo. Accenno al fatto che c’è anche un’”altra” Serbia, democratica e<br />

non nazionalista, e un serbo fascistoide -che viene regolarmente invitato da <strong>Le</strong>rner perché ha<br />

una buona resa televisiva, una sorta di ventriloquo italiano di Milosevic- mi aggredisce. Lucio<br />

Caracciolo mi difende. In una pausa pubblicitaria chiedo al sottosegretario Minniti perché non<br />

accogliamo in Italia i profughi albanesi cacciati dal Kosovo dalle bande serbe. “Il problema non<br />

si pone...”. La trasmissione riprende.<br />

27 MARZO<br />

Arrivano notizie drammatiche <strong>del</strong>la pulizia etnica <strong>del</strong>le forze paramilitari serbe in Kosovo.<br />

La NATO, per ora, colpisce obiettivi militari solo in Serbia.<br />

Mattino.<br />

Riunione <strong>del</strong> Tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo presso la Presidenza <strong>del</strong> Consiglio.<br />

Ci sono ministri, funzionari, militari, rappresentanti di associazioni di volontariato. Vogliono<br />

creare una sorta di coordinamento permanente per gli aiuti umanitari d’emergenza per i


profughi kosovari. Ci sono il Sottosegretario Minniti e la Ministra Livia Turco. Lanciano la<br />

Missione Arcobaleno. Mentre bombardano, aiutano i profughi. Il segno di questa iniziativa è<br />

chiaro: ricreare un consenso intorno al governo sull’azione umanitaria, mentre é in atto una<br />

contestazione <strong>del</strong> volontariato per la scelta di guerra fatta dal governo di centro sinistra. Il tutto<br />

con un’operazione di immagine, di marketing politico, dove il volontariato in cambio di un po’ di<br />

soldi potrà essere cooptato in modo subalterno nell’operazione. Quasi tutte le ONG presenti<br />

non pongono grandi problemi: chiedono chiarimenti, domandano come fare a presentare i<br />

progetti, al massimo sollevano qualche dubbio sull’opportunità di lanciare una sottoscrizione<br />

popolare gestita dallo Stato. Sono tutti molto professionali e operativi. Qualcuno ha qualche<br />

cartellina con degli schemi di progetto. Raffaella Bolini fa un intervento durissimo. “Non<br />

staremo sotto il vostro elmetto. Potevate almeno avere il buon gusto di non usare un simbolo<br />

<strong>del</strong>la pace, voi che state in guerra. Comunque di fronte al dramma dei profughi agiremo in<br />

autonomia e collaboreremo lealmente con tutti “. La Turco abbozza: “Raffaella non me<br />

l’aspettavo da te ... “. Poi le manda un biglietto: “ In questi momenti detesto essere un<br />

ministro... “. E perchè non si dimette, allora? Noi (ICS e qualcun altro) siamo isolati: molte altre<br />

organizzazioni non governative sotto quell’elmetto ci si mettono. Ci sono in ballo soldi e<br />

progetti.<br />

Pomeriggio, sera.<br />

28 MARZO<br />

Ancora notizie drammatiche sulla vendetta serba sulla popolazione in Kosovo: si parla di<br />

molte di decine di migliaia di persone cacciate dalle loro case.<br />

La sera, a cena, in un ristorante vicino Porta Pia, incontro casuale con il responsabile esteri <strong>del</strong>la<br />

Cgil: Giacomo Barbieri che è a favore <strong>del</strong>l’intervento <strong>del</strong>la NATO. Lo dice scherzandoci su, con<br />

nonchalance. Nello stesso ristorante c’è anche Federico Bugno (per tanto tempo con Sofri a<br />

Sarajevo, durante la guerra nel 1992-5) inviato <strong>del</strong>l’Espresso, ferocemente interventista. Ci<br />

informa <strong>del</strong>la morte di Baton Haxiu (che avevamo ospitato a febbraio a Firenze, per un’iniziativa<br />

pacifista), che è caporedattore <strong>del</strong> Koha Ditore, il giornale albanese di Pristina, diretto da Veton<br />

Surroi. Alla nostra assemblea di Firenze Haxiu aveva fatto un intervento molto duro contro<br />

Rugova (“non rappresenta più nessuno“ ) e l’Europa (“noi contiamo solo sugli Stati Uniti”).<br />

Rimaniamo senza parole di fronte alla morte di questo ragazzo di cui abbiamo tutti un ricordo<br />

forte, intenso. Di Veton Surroi non si hanno invece notizie: figlio di un diplomatico<br />

(ambasciatore a Madrid) <strong>del</strong>l’epoca di Tito passa a Pristina per una personalità ragionevole e<br />

moderata; con lui si intrattengono volentieri i diplomatici americani. Avevamo avuto con lui un


paio di incontri a Pristina. A cena Raffaella Bolini racconta che ha telefonato a Sonia Licht,<br />

storica pacifista di Belgrado (nostra amica e compagna di tante campagne e iniziative comuni)<br />

che è presidente <strong>del</strong>la Fondazione Soros. Ripete le sue parole, se la prende con gli occidentali:<br />

“Bravi; bel capolavoro avete fatto. Ci regalate Milosevic per altri dieci anni. D’ora in poi di<br />

criminali in Europa ce ne sono altri, oltre a lui “.<br />

29 MARZO<br />

Chiediamo un incontro a Walter Veltroni a Botteghe Oscure. Ci viene accordato: con lui ci sono<br />

Roberto Cuillo (funzionario <strong>del</strong>la sezione Esteri) e Luigi Colajanni, ex capogruppo <strong>del</strong> PDS a<br />

Straburgo. Con me, ci sono Raffella Bolini, Tom Benetollo, Massimo Serafini, Giampiero<br />

Rasimelli, Soana Tortora. Apro l’incontro, riassumendo le nostre posizioni contro la guerra e<br />

invitando comunque a tenere aperta la porta <strong>del</strong> dialogo. Ricordo a Veltroni che sin qui l’Unità ci<br />

ha maltrattato e non ci ha dato voce. Veltroni allarga le braccia, a dire: e che ci posso fare io ?<br />

Mentre parlo, Veltroni ha uno sguardo obliquo, giocherella con la penna e non prende appunti.<br />

Ha lo sguardo corrucciato e ostentamente triste e dà (vuole dare) una sensazione di impotenza<br />

e rassegnazione. Intervengono gli altri: Tom Benetollo, Raffaella Bolini che ribadiscono le<br />

posizioni. Benetollo dice: “Qui nessuno di noi é contrario all’uso <strong>del</strong>la forza per fermare la<br />

violazione dei diritti umani, ma lo deve fare l’ONU. Quello <strong>del</strong>la NATO è un intervento<br />

strumentale”. Luigi Colaianni dice che, sì, quello <strong>del</strong>la NATO è un intervento illegittimo, ma che<br />

altro si poteva fare ? “Siamo al governo e dobbiamo essere responsabili“. E parla per un’altra<br />

decina di minuti di ONU, NATO, diritti umani, senza entrare nel merito <strong>del</strong>le conseguenze reali<br />

<strong>del</strong>l’intervento. Sembra girare intorno al problema. Interviene Veltroni: “Non voglio proprio<br />

litigare con voi. Siete quelli sui quali voglio costruire il nuovo partito. Voi dite: non bisognava<br />

bombardare. E cosa dovevamo fare per fermare l’eccidio dei kosovari ? Qual era l’alternativa ?<br />

Che altro potevamo fare ? Tutti siamo in difficoltà. Tutti dobbiamo interrogarci; dobbiamo tutti<br />

rimetterci in discussione. Anche voi: le vostre manifestazioni non stanno andando bene. Mi<br />

dicono che quella degli studenti stamattina è stata annullata “. Qualcuno di noi si guarda e<br />

tocca ferro. Tutti siamo infatti in ansia per la riuscita <strong>del</strong>la manifestazione <strong>del</strong> 3 aprile. Veltroni<br />

interviene di nuovo e ricorda: “Noi ovviamente non aderiamo alla manifestazione, ma sapete<br />

che ha comunque aderito la Sinistra Giovanile e la sinistra DS”. Poi, vuole fare un comunicato<br />

stampa congiunto <strong>del</strong>l’incontro, ma noi non siamo d’accordo.<br />

Sera.<br />

Incontro una <strong>del</strong>egazione di Rifondazione Comunista: auspicherebbero che dal palco parlasse<br />

un loro rappresentante (cioè Bertinotti). La discussione é abbastanza serena, sembrano


ispettosi <strong>del</strong>le nostre scelte. Non vogliamo avere esponenti di partito sul palco a mostrarsi e a<br />

farsi riprendere dalle telecamere. Alla fine raggiungiamo una mediazione (noi inizialmente<br />

vogliamo che intervenga solamente il rappresentante <strong>del</strong>le associazioni): insieme a un<br />

rappresentante <strong>del</strong>le organizzazioni promotrici, parleranno Luigi Ciotti e Pietro Ingrao. Dopo la<br />

riunione andiamo a fare un sopralluogo a Porta San Paolo (dove si chiuderà la manifestazione)<br />

e ci spaventiamo: ci sembra uno spazio immenso.<br />

30 MARZO<br />

Milosevic offre di ritirare le truppe serbe dal Kosovo in cambio <strong>del</strong>la fine dei<br />

bombardamenti. L’offerta viene rifiutata. Solo da oggi si registrano i primi attacchi a<br />

obiettivi militari serbi in Kosovo, dopo una settimana di pulizia etnica.<br />

Incontro -insieme a Raffaella Bolini, Soana Tortora, la figlia Chiara- con Pietro Ingrao, a casa per<br />

chiedergli di intervenire alla manifestazione, ma sono raggiunto al telefono dalla notizia di<br />

un’altra polemica con i DS. Stefano Kovac, direttore di ICS, rilascia dall’Albania una<br />

dichiarazione all’ANSA: “ Non prenderemo soldi da una missione come quella Arcobaleno, fatta<br />

da un governo che si è macchiato <strong>del</strong>la responsabilità <strong>del</strong>la guerra“. Si scatena la bufera.<br />

Chiamano ripetutamente i funzionari dei DS: Calvisi, Amendola, Roberto Cuillo <strong>del</strong>lo staff di<br />

Veltroni. Vogliono una smentita, qualcuno che ritratti la dichiarazione di Kovac. Ovviamente non<br />

se ne parla. Scrivo una dichiarazione più articolata, ma che spiega in tono pacato le nostre<br />

posizioni. Mentre parlo con Calvisi, si sente urlare dalla stanza di Botteghe Oscure da dove sta<br />

chiamando Calvisi: “Eccoli, questo sarebbe il reciproco rispetto, ci accusano di essere<br />

guerrafondai!”. Credo sia Cuillo a sbraitare. Risultato: dalla manchette <strong>del</strong>l’Unità che invita alla<br />

solidarietà vengono tolti i riferimenti dei nostri campi profughi, il nostro indirizzo e il telefono.<br />

Per una polemica politica, a rimetterci sono i profughi kosovari che sono nei nostri campi.<br />

Sentiamo Stefano Kovac per la polemica sulla sua dichiarazione all’ANSA. Sembra preoccupato<br />

per altro. E’ sconsolato. “Nei campi non c’è niente da mangiare. Mandateci <strong>del</strong>la roba; cercate di<br />

organizzare qualche convoglio, altrimenti non sappiamo più come fare. Non sappiamo più dove<br />

sistemarli. Lì abbiamo messi anche nelle cucine. Così non possiamo più cucinare pasti caldi.<br />

mandate subito dei camion con <strong>del</strong>la roba da mangiare“. In Albania stanno arrivando ogni<br />

giorno migliaia di profughi. Nel nostro campo di Burrell nel giro di due ore se ne sono presentati<br />

500. La capienza <strong>del</strong>le strutture residenziali in Albania non supera i 25-30.000 posti letto e le<br />

tendopoli non sono ancora state organizzate. I profughi sono già più di 150-200.000. Molti<br />

dormono all’aperto, sotto un albero. A noi questa polemica con i DS ha occupato tutta la<br />

giornata che per Stefano è passata invece alla disperata ricerca a Tirana di 500 materassini


dove far dormire i profughi di Burrell. Alla fine ha chiesto anche ad un funzionario <strong>del</strong>la<br />

protezione civile italiana a Tirana se poteva prestarceli. “Ma voi non siete al di fuori <strong>del</strong>la<br />

missione arcobaleno?”, ha risposto con un sorrisino ebete. E i materassini non ce li hanno dati.<br />

2 APRILE<br />

La Russia chiede una riunione dei G8.<br />

Domani c’è la manifestazione. Dopo quattro, cinque giorni di paura (pochi pullman, lentezza<br />

<strong>del</strong>la mobilitazione, mancanza di soldi) adesso siamo tutti un po’ più tranquilli: riceviamo<br />

centinaia di telefonate ogni giorno (ci sono oltre 350 adesioni di organizzazioni e associazioni),<br />

notizie di gruppi che vogliono partecipare, ne parla la stampa (anche se dice che é una<br />

manifestazione di Rifondazione Comunista). Ormai, quello che potevamo fare l’abbiamo fatto.<br />

Ieri sera siamo andati a fare un altro sopralluogo a Porta San Paolo, dove terminerà il corteo.<br />

Abbiamo scelto il punto dove mettere il palco. Abbiamo il timore che qualche autonomo o<br />

esponente dei Cobas scatenino incidenti. Oggi ho incontrato il capo gabinetto <strong>del</strong>la questura in<br />

una stanza occupata da monitor che trasmettevano le immagini in diretta sulle vie dove<br />

dovrebbe passare il corteo. Ci siamo messi d’accordo su questo percorso: Piazza Esedra, Via<br />

Cavour, Via Merulana, Via Ostiense. Ho chiesto che il loro servizio d’ordine fosse discreto. Loro<br />

ci hanno chiesto di dotarci anche noi di un servizio d’ordine, soprattutto per la testa <strong>del</strong> corteo.<br />

Ci guardiamo incerti: un servizio d’ordine non ce l’abbiamo. Sono passati i tempi quando il<br />

“Partito” o il “Sindacato” garantiva centinaia di “vigilanti” ai cortei. E poi perché dovrebbero<br />

darceli ? Né il “Partito”, né il “Sindacato” aderiscono alla manifestazione. Finisco di scrivere il<br />

mio discorso. Ecco alcuni passaggi:<br />

... Noi, in questi otto anni di guerra non siamo stati con le mani in mano. Qualcuno non ci venga<br />

a dire dove eravamo. Siamo stati lì, con i volontari e i pacifisti, a portare aiuti, a sostenere i<br />

profughi e le forze democratiche. Ma dove erano loro, gli altri ? Gli altri sostenevano Milosevic e<br />

i nazionalisti, stavano nei “salotti buoni” a parlare di intervento armato...<br />

... I bombardamenti, la guerra sono un’avventura senza ritorno. Non sono la continuazione <strong>del</strong>la<br />

politica con altri mezzi. Sono la sostituzione di una politica verso i Balcani che non c’è; e che<br />

non c’è stata mai in questi anni. O, che è stata sbagliata. I bombardamenti sono stati e sono un<br />

errore tragico. Non sono solo un errore, ma una scelta irresponsabile e disumana. La guerra<br />

deve essere messa fuori dalla storia.


... Da tempo l’avevamo chiesto, noi pacifisti e volontari. Diamo la parola, la forza e l’autorità all’<br />

ONU. Inviamo <strong>del</strong>le truppe di interposizione per proteggere i profughi, le popolazioni civili.<br />

Invece si è tolta la parola all’ONU, si è svuotata l’autorità <strong>del</strong>le Nazioni Unite. Non siamo stati<br />

ascoltati. Per mesi l’ONU è stata tenuta fuori dal Kosovo. Si è aggiunta, invece, guerra alla<br />

guerra nell’illusione di difendere i diritti umani. Ma, le bombe non difendono i profughi, non<br />

portano alla pace. Portano e hanno portato ad altre sofferenze; stanno aiutando non le vittime<br />

<strong>del</strong>la guerra, ma i dittatori ...<br />

3 APRILE<br />

100.000 pacifisti manifestano a Roma contro la guerra. Iniziano i bombardamenti <strong>del</strong>le<br />

forze <strong>del</strong>la NATO dei ponti <strong>del</strong> Danubio.<br />

Manifestazione a Roma. Ci sarà abbastanza gente? “Se saremo 15mila sarà già un successo”.<br />

Alle 13.30 a Piazza Esedra non c’è nessuno; due-trecento persone. Qualcuno srotola i primi<br />

striscioni, vengono montati gli altoparlanti sulle macchine mentre vengono distribuiti i nostri<br />

adesivi arancioni ”Fermare i massacri in Kosovo”. Un’ora dopo, siamo costretti ad arrivare a Via<br />

Cavour con la “testa” <strong>del</strong> corteo per far incolonnare la gente. Ci sono già 30-40mia persone, ci<br />

sembra. Da dove sono saltate fuori? Improvvisamente c’è una selva di bandiere, striscioni,<br />

cartelli. La ressa in testa: arrivano dirigenti di associazioni, giornalisti, persone conosciute.<br />

Chiama il Capo di Gabinetto <strong>del</strong>la Questura (Tagliente): devo correre a Via Genova, proprio lì<br />

vicino, in Questura. Informa: “ci sono 300 autonomi con i caschi e i bastoni; teniamo la<br />

situazione sotto controllo, ma dateci una mano pure voi”. Già, e come ? Davanti ci siamo noi (le<br />

associazioni), poi i partiti (Rifondazione) e dietro gli altri (autonomi, Cobas). Il corteo è proprio<br />

diviso in due. Lo si vede nettamente: all’inizio barriere di ogni colore, striscioni variopinti,<br />

slogan nonviolenti, nella coda <strong>del</strong> corteo cordoni di militanti agguerriti, slogan minacciosi, selve<br />

di bandiere rosse. I politici per il momento non si vedono. Ma lo slogan di questa<br />

manifestazione era il contrario. Fermare i bombardamenti per poi poter fermare Milosevic. Alle<br />

16.30 facciamo il die-in vicino al Colosseo, poi si arriva a Porta San Paolo. Faccio il mio discorso:<br />

qualcuno mi fischia quando attacco Milosevic definendolo un criminale nazionalista. Ciotti e<br />

Ingrao sono seduti su un tavolo vicino. Luisa Morgantini legge una lettera di donne kosovare,<br />

Soana Tortora un messaggio <strong>del</strong>la pacifista serba Sonia Licht. La tensione nella piazza è<br />

evidente. C’è il timore di qualche azione violenta <strong>del</strong>le frange più dure. Lanciano pomodori, ne<br />

arriva qualcuno sul palco. Uno mi colpisce. Sembra che vogliano assaltare il palco, si crea un<br />

vuoto proprio sotto di noi, ma in pochi secondi le “donne in nero” con uno striscione si


schierano a difenderci. Qualche autonomo ci grida improperi con un megafono, ci fa dei segni di<br />

minaccia (una P38) con una mano. Ci accusano di non essere voluti passare sotto la sede di<br />

Botteghe Oscure (perché volevano assaltarla...). Poi si fermano e si allontanano dal palco. E<br />

continuano verso la Piramide. Alla fine i telegiornali dicono che alla manifestazione c’erano<br />

100mila persone.<br />

5 APRILE<br />

Continuano i bombardamenti su Belgrado. La NATO colpisce anche obiettivi civili: 20 civili<br />

serbi muiono nella città di Aleksinac.<br />

E’ Pasquetta. In ufficio a lavorare. <strong>Le</strong> persone continuano a chiamare. Vogliono informazioni<br />

sugli aiuti da inviare o sulle prossime manifestazioni. Sono insieme con Anna Eva che continua<br />

a rispondere alle telefonate di chi chiede informazioni. Cerca di raggiungere i nostri operatori in<br />

Macedonia che stanno cercando di avviare <strong>del</strong>le attività con i profughi nei campi allestiti<br />

dall’ACNUR. Molti profughi (sono ormai 10-20mila) si stanno indirizzando anche verso la<br />

Macedonia. A Skopije ci sono manifestazioni contro la NATO e in appoggio a Milosevic. Molti di<br />

quelli che chiamano vogliono partire come volontari. Abbiamo già raccolto più di 500 schede di<br />

persone che vogliono andare in Albania.<br />

6 APRILE<br />

Milosevic annuncia una tregua unilaterale per la Pasqua ortodossa (11 aprile), ma la NATO<br />

decide di andare avanti con i bombardamenti.<br />

Dopo la manifestazione di sabato scorso, oggi abbiamo discusso su come continuare la<br />

mobilitazione contro la guerra. Naturalmente ci sono molte iniziative locali e il prossimo 10<br />

aprile ci sarà a Roma la manifestazione promossa da Rifondazione e dal manifesto. Tra gli<br />

ambienti cattolici (Beati i costruttori di pace) qualcuno sta pensando di organizzare qualche<br />

iniziativa eclatante in Kosovo (sul mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>la marcia pacifista nella Sarajevo assediata <strong>del</strong><br />

dicembre <strong>del</strong> 1992). Ma a differenza di Sarajevo <strong>del</strong> 1992, Pristina <strong>del</strong> 1999 è impenetrabile e i<br />

rischi sono mille volte maggiori. Discutiamo così l’ipotesi di organizzare un’iniziativa di<br />

“diplomazia popolare”. Perché non andiamo in 500 a Belgrado con una carovana <strong>del</strong>la pace ?<br />

L’idea iniziale é di andare oltre che a Belgrado anche a Podgorica (la capitale <strong>del</strong> Montenegro) e<br />

a Pristina, con l’intento di portare un messaggio di pace e di solidarietà in tutte le aree <strong>del</strong><br />

conflitto. Il tentativo è di andare dai serbi e dai kosovari e cercare di parlare con entrambi e di


icostruire un ponte di comunicazione. Sarà difficilissimo. C’è un problema di permessi, di<br />

autorizzazioni.<br />

7 APRILE<br />

Si riunisce il Gruppo di contatto (USA, Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania) che<br />

riconferma le cinque condizioni per porre fine ai bombardamenti (ritiro forze serbe,<br />

cessazione <strong>del</strong>la repressione in Kosovo, accettazione di una presenza militare<br />

internazionale, rientro dei profughi kosovari, soluzione <strong>del</strong> conflitto sulla base degli<br />

accordi di Rambouillet).<br />

Chiama il mattino presto Luigi Manconi, portavoce dei Verdi. Mi chiede alcune informazioni sui<br />

nostri documenti e posizioni sulla guerra, sugli aiuti e i profughi. Più tardi propone al Consiglio<br />

Federale dei Verdi di darci una mano (stanziando dei fondi) per un campo profughi.<br />

8 APRILE<br />

Oggi, appuntamento con l’ambasciatore jugoslavo, Miograd <strong>Le</strong>kic. L’ambasciata ai Parioli è<br />

troppo grande (prima era l’ambasciata di tutta la Jugoslavia) per un piccolo stato in ginocchio.<br />

La stanza dove ci riceve è buia, forse un po’ polverosa. I corridoi sono vuoti; di personale ce n’è<br />

poco. Siamo venuti qui per consegnargli una lettera di protesta per gli eccidi in Kosovo e<br />

chiediamo che venga fermata la pulizia etnica. <strong>Le</strong>kic è montenegrino (è stato Ministro degli<br />

Esteri <strong>del</strong> Montenegro) ed è una persona cortese e aperta. Non condivide la politica<br />

nazionalista di Milosevic. Alle nostre condanne a Milosevic reagisce con comprensione; è il<br />

massimo che può fare e ce lo fa capire.<br />

10 APRILE<br />

Ieri la NATO si è “sbagliata” ancora: ha colpito un convoglio di civili nei pressi di Pristina:<br />

12 morti. Ha anche bombardato un altro obiettivo civile: la fabbrica di automobili Zastava:<br />

128 feriti.<br />

Organizziamo l’assemblea <strong>del</strong>l’ICS, al centro sociale <strong>del</strong>la Maggiolina a Roma, nel quartiere<br />

Nomentano. Discutiamo su come organizzare l’invio degli aiuti nei campi profughi (ormai ne<br />

gestiamo 8, con più di 7mila profughi), come andare a fare volontariato nei campi, <strong>del</strong>la<br />

situazione in Macedonia, dove da qualche giorno sono al lavoro Giorgio Cardone e Alessandro


Pieroni. I nostri operatori distribuiscono aiuti ai profughi ospiti nelle famiglie. Lanciamo<br />

l’iniziativa <strong>del</strong>la carovana <strong>del</strong>la pace per il 25 aprile a Belgrado e con una piccola <strong>del</strong>egazione<br />

che vada a Pristina. Serviranno 10 pullman e bisognerà andare a Belgrado per parlare con il<br />

governo e ottenere le autorizzazioni. Nel pomeriggio, alle 15, c’è la manifestazione promossa da<br />

“il manifesto” e da Rifondazione Comunista e da varie altre associazioni. <strong>Le</strong> bandiere pacifiste si<br />

contano sulle dita di una mano. Quelle rosse sommergono la piazza.<br />

11 APRILE<br />

Gianfranco Bettin, Beppe Caccia (consigliere comunale a Venezia) e Luca Casarini (dei centri<br />

sociali <strong>del</strong> nord est) sono andati a Belgrado. Hanno portato un messaggio al governo. Poi sono<br />

stati intervistati alla tv serba: hanno parlato di difesa dei diritti umani e <strong>del</strong>le popolazioni <strong>del</strong><br />

Kosovo. Si sono esposti, criticando il governo di Belgrado. Volevano parlare con Rugova, ma non<br />

ci sono riusciti. Non gli è stato concesso di andare in Kosovo. Al ritorno, al confine con<br />

l’Ungheria passano Bettin, Casarini e Caccia, ma fermano Mario Boccia, che è con loro: lo<br />

interrogano a lungo, gli danno dei cazzotti, gli prendono i rullini fotografici. Ma ne aveva sei<br />

nascosti nella biancheria da lavare. Non hanno controllato. Questi arriveranno.<br />

12 APRILE<br />

La NATO colpisce un treno passeggeri che sta attraversando il ponte di Gr<strong>del</strong>icka: 50 morti<br />

carbonizzati.<br />

In ufficio a preparare il viaggio <strong>del</strong>la <strong>del</strong>egazione per Belgrado. Telefonate all’ambasciata (sono<br />

probabili dei tempi lunghi per farci dare i visti) e incontri con Raffaella e Soana per coordinarci<br />

nella promozione <strong>del</strong>l’iniziativa. Chiama Carlo Feltrinelli: mi conferma che sabato prossimo le<br />

librerie Feltrinelli doneranno il 50% <strong>del</strong>l’incasso ai progetti <strong>del</strong>l’ICS. Ci informa che potrebbero<br />

entrare in questo modo 300-400 milioni. “Stiamo preparando un appello degli intellettuali<br />

contro la guerra. Compreremo alcune pagine sui quotidiani. Possiamo dare il vostro riferimento<br />

per gli aiuti ?”<br />

15 APRILE<br />

Ieri, altro errore <strong>del</strong>la NATO: una bomba colpisce un convoglio di profughi kosovari in fuga<br />

verso Djakovica: 70 morti e oltre 100 feriti.


Luisa Morgantini, Flavio Mongelli (ARCI di Milano) e Paolo Tamiazzo sono partiti per Belgrado.<br />

Vanno in aereo fino a Budapest, poi in macchina fino a Subotica. Da lì a Belgrado. Devono<br />

incontrare i ministri e i funzionari per ottenere i permessi <strong>del</strong>la carovana. Partano in<br />

avanscoperta per noi. Prima che partano stabiliamo per telefono gli ultimi dettagli: ci mettiamo<br />

d’accordo sul programma degli incontri, sulle cose da dire, i permessi da ottenere. Dicono che<br />

ci sono scarse possibilità di realizzarla.<br />

16 APRILE<br />

Il mattino, si tiene un incontro <strong>del</strong> Tavolo di Coordinamento per il Kosovo, al Dipartimento per gli<br />

Affari Sociali. La saletta di via Veneto è strapiena. Rappresentanti <strong>del</strong>le ONG si accalcano: si<br />

parla di progetti, interventi, finanziamenti. Siamo in minoranza: non abbiamo accettato di stare<br />

dentro la Missione Arcobaleno e ne paghiamo le conseguenze. Ci sono organizzazioni non<br />

governative che di fronte al dramma di un’emergenza profughi da gestire subito, tirano fuori<br />

progetti di adozioni a distanza, bilanci predisposti, grafici e cronogrammi. Vogliono tutti<br />

adottare famiglie, profughi, bambini: anche se in Albania l’emergenza è imprevedibile e non si<br />

sa che fine faranno i profughi. Nonostante il chiarimento <strong>del</strong>la settimana precedente, a livello<br />

locale siamo discriminati. Nelle riunioni dei comuni e <strong>del</strong>le regioni si parla solo di Missione<br />

Arcobaleno. L’ICS é costantemente escluso. L’atmosfera <strong>del</strong>la riunione è deprimente:<br />

confusione e mancanza di coordinamento, futile rincorsa ai finanziamenti, amministrazioni<br />

pubbliche allo sbando. Molti sono stufi e annoiati. Gira tra le sedie un dirigente di<br />

un’associazione di terzo settore, probabilmente candidato alle europee che si sta facendo<br />

campagna elettorale e ci promette una volta eletto “di occuparsi dei profughi”’.<br />

Pomeriggio<br />

Il pomeriggio c’è la riunione con il Comune di Roma. Stanzieranno 1 miliardo per la Missione<br />

Arcobaleno. Nonostante le nostre richieste di fare in modo diverso (discutendo insieme le<br />

priorità e coinvolgendo il volontariato), hanno deciso di fare così. “Loro sono contro la guerra,<br />

così imparano”, avrebbe detto un funzionario dei DS, parlando di noi. Un paio di giorni fa ho<br />

incontrato il segretario particolare di Rutelli, che ha allargato le braccia come a dire “ve la siete<br />

cercata”.<br />

17 APRILE<br />

Stamattina c’è l’Assemblea <strong>del</strong>la Tavola <strong>del</strong>la pace ad Assisi. Partiamo in macchina il mattino<br />

presto appena dopo l’alba con Mario e Martino. L’incontro alla Citta<strong>del</strong>la di Assisi viene<br />

introdotto da Padre Nicola Giandomenico. Dico la mia: il governo ci ricorda il genocidio dei


kosovari. Poi, quando arrivano in Italia li tratta come dei clandestini e non hanno uno status di<br />

protezione umanitaria. Dicono che vogliono tenerli in Italia perché così evitano la pulizia etnica.<br />

E’ una balla: non li vogliono qui per non aver grane con “l’opinione pubblica”. E così li lasciano<br />

in Albania a prendersi le malattie e a dormire sotto le stelle, o a fare dei campi-lager per migliaia<br />

di persone. Dopo di me interviene Gianfranco Bettin. Dice Bettin: “ Ma chi è quel deficiente <strong>del</strong><br />

funzionario <strong>del</strong> Ministero <strong>del</strong>l’Interno che tre mesi fa ci ha negato i soldi per l’accoglienza dei<br />

profughi kosovari, con la scusa che tanto l’emergenza dei profughi era finita ? ”. Si discute se<br />

fare una marcia per la pace straordinaria da Perugia ad Assisi. Alla fine si decide di farla. Si parla<br />

con Beppe Caccia, <strong>del</strong>la carovana per Belgrado e Pristina: forse il comune di Venezia ci dà dei<br />

pullman. Chiamo Paolo in Serbia. Sono riusciti a passare dopo due ore di controlli in frontiera.<br />

18 APRILE<br />

Ci si rende conto che è impensabile poter accogliere tutti i profughi in Albania. Non ci sono<br />

adeguati centri di accoglienza, né tendopoli sufficienti per tutti. Il sistema <strong>del</strong>le infrastrutture è<br />

fatiscente. In realtà una parte andrebbe portata in Italia, almeno tutti quelli che lo vogliono e<br />

che si trovano in condizioni disperate. Nessuno è in grado di dire oggi quando e come finirà la<br />

guerra. Non si possono tenere centinaia di migliaia di persone per mesi nei boschi o in tende<br />

bucate. Il paradosso è che se i profughi riuscissero da soli ad arrivare in Italia, sarebbero trattati<br />

come immigrati “clandestini”: altro che “vittime di un genocidio” come sdegnosamente dicono i<br />

nostri uomini e donne di governo. Qualche parlamentare che ci aiuta ha provato a interpellare il<br />

Ministro <strong>del</strong>l’Interno, ma senza risultati. Parlo con Vilma e Luca Casarini e gli chiedo: perché,<br />

visto che il governo non vuole ospitare i profughi kosovari in Italia, non affittiamo una nave e<br />

andiamo a prendere 500 profughi kosovari a Valona e li portiamo in Italia? Che faranno, mica ci<br />

fermeranno con le motovedette o ci arresteranno quando arriveremo a Bari o a Brindisi ? Ci<br />

avevano pensato anche loro, ma ci sono alcuni problemi, tra tutti trovare un comandante <strong>del</strong>la<br />

nave consenziente. Può rischiare il carcere per traffico illegale di immigrati “clandestini”.<br />

Facciamo le prime telefonate, avviamo i primi contatti. Prime risposte: negative.<br />

20 APRILE<br />

Paolo, Luisa e Flavio chiamano da Belgrado. Non hanno buone notizie. La carovana dei 500 non<br />

si può fare, non ci sono i permessi e ci impedirebbero di andare in massa verso il Montenegro o<br />

il Kosovo. Troppo pericoloso: dicono che hanno paura <strong>del</strong>la Nato. Farebbe scoppiare un<br />

incidente per dare poi la colpa a loro. Ma forse non ci vogliono fare vedere cosa stanno<br />

combinando in quell’inferno. Una <strong>del</strong>egazione un po’ più ristretta, però, si può fare. Alla fine si


concorda con i responsabili <strong>del</strong> governo il permesso per organizzare un pullman con 40<br />

persone: esponenti di associazioni, enti locali, partiti. Andremo a Belgrado. Poi da lì vedremo<br />

come continuare (ci lasceranno andare in Montenegro e, soprattutto, a Pristina ? Questo il<br />

punto che ci preoccupa di più. Stamattina ho parlato con Morozzo <strong>del</strong>la Rocca, che ha tenuto<br />

per la Comunità di Sant’Egidio i contatti con Rugova in questi anni. Mi ha dato i suoi telefoni di<br />

Pristina. Ho provato a chiamare senza speranza. Infatti, linee interrotte e messaggio sul disco in<br />

serbo. Mi ha dato anche il telefono <strong>del</strong> suo segretario: niente da fare. Chiamano da tutta Italia<br />

per la carovana. Vorrebbero venire tutti. Ma dobbiamo dirgli di no. Anche Dario Fo e Franca<br />

Rame, ma solo se “siamo più di 500”. La <strong>del</strong>egazione minore non gli interessa, la reputano<br />

un’iniziativa secondaria, e rinunciano a parteciparvi.<br />

26 APRILE<br />

Ieri la NATO ha festeggiato a Washington i suoi cinquantanni di vita, confermando<br />

l’intenzione di proseguire i bombardamenti fino alla disfatta di Milosevic.<br />

Incontro con una <strong>del</strong>egazione dei 160 parlamentari <strong>del</strong>la maggioranza (quasi tutti <strong>del</strong>la<br />

“sinistra” DS) che hanno firmato un appello per la tregua, di cui molti temono le conseguenze<br />

<strong>politiche</strong> (<strong>del</strong>l’appello). Una settimana fa alcuni di loro ci avevano promesso di unirsi alla nostra<br />

Carovana <strong>del</strong>la pace: “Verremo con voi a Belgrado e a Pristina. Saremo in tanti”. Oggi<br />

rinunciano: paura <strong>del</strong>le conseguenze, <strong>del</strong> rischio di venire accusati di negoziare con il nemico.<br />

Qualcuno trova una scusa speciosa: “c’è una deputata di rifondazione con voi, potremmo<br />

essere strumentalizzati“. Oppure: “ci sono gli incontri con le autorità jugoslave; poi ci<br />

accuserebbero di essere filomilosevic”. Sono dei “cuor di leone”.<br />

30 APRILE<br />

Inizia l’embargo petrolifero <strong>del</strong>l’Unione Europea contro la federazione jugoslava. A<br />

Ginevra la commissaria ONU per i diritti umani denuncia le conseguenze prodotte dai<br />

bombardamenti in Serbia.<br />

Da Udine, partiamo con la carovana <strong>del</strong>la pace. Prima tappa, Belgrado. E poi, da lì, a Podgorica<br />

e Pristina. Il viaggio é pieno di incognite. Il primo obiettivo è di arrivare intanto in Serbia. Poi<br />

vedremo per Podgorica e Pristina. Tra di noi c’è anche Monsignor Bettazzi e poi sindacalisti e<br />

rappresentanti di vari gruppi ed associazioni. L’appuntamento è davanti alla stazione di Udine,<br />

alle otto. Con i nostri zaini pieni di pubblicazioni e vettovaglie, con stemmi e adesivi pacifisti,


con giacche a vento usate già a Sarajevo e in Bosnia negli ultimi anni, ci mescoliamo con gli<br />

studenti udinesi con i loro zainetti colorati che si affrettano ai pullman o camminano trafelati<br />

verso la scuola. Consultiamo le cartine per individuare le strade migliori da seguire. Al primo<br />

distributore compriamo 5 taniche da 25 litri ciascuna per riempire di nafta: in Serbia c’è il<br />

rischio di non trovarne.<br />

1° MAGGIO<br />

Entriamo da Szeged (ultimo paese <strong>del</strong>l’Ungheria) in Serbia. Sui viali degli ultimi paesi ungheresi<br />

ci sono cicogne accovacciate nei loro nidi sui pali <strong>del</strong>l’elettricità o anche su alcuni tetti di case.<br />

Una irreale pennellata di paesaggio bucolico prima di entrare in un territorio sconvolto dagli<br />

uragani <strong>del</strong>l’embargo e <strong>del</strong>la guerra. Facciamo di nuovo rifornimento di gasolio con <strong>del</strong>le altre<br />

taniche che abbiamo comprato in Austria. Alla frontiera serba pochi problemi: più che altro sono<br />

stati gli ungheresi a farcene. Ultimi arrivati nella Nato, adesso sono i più zelanti. Il governo<br />

ungherese è di centro-destra. Trascorre un’ora e -dopo accurati controlli- passiamo la dogana.<br />

Ci avviciniamo a Subotica, in Vojvodina. Dovremmo passare per un paesino che si chiama Palic.<br />

Impossibile. Hanno bombardato stanotte la caserma nel centro <strong>del</strong>la città: ci sono stati dei<br />

morti. Passiamo lungo il lago. Il clima è surreale. E’ una bella giornata: ci sono ragazzi che<br />

giocano su un prato, fidanzati mano nella mano, famiglie che arrostiscono cevapcici, bambini in<br />

bicicletta. E’ una giornata di festa; sembra un quadretto pastorale <strong>del</strong>la “profonda” Serbia,dove<br />

Milosevic ha sempre fatto man bassa di voti.<br />

Siamo ricevuti a Subotica in un’assemblea con autorità locali, federali, ONG <strong>del</strong>la “Open<br />

University”. Qui abbiamo iniziato a collaborare con le associazioni già dal 1991. A Subotica<br />

(circa 100mila abitanti) sono registrate 26 etnie diverse. La maggioritaria è quella ungherese<br />

(45%), ma ci sono tutti: serbi, croati, albanesi, turchi, rom, tedeschi, ecc. Ci sono i<br />

rappresentanti <strong>del</strong>le ONG locali. Uno di questi dice: “Sì, dobbiamo fermare i bombardamenti e<br />

questa azione criminale. Ma questo non significa non fare i conti con le nostre responsabilità”.<br />

Ci espongono le attività dei gruppi giovanili che operano nella città. Uno si chiama il circolo dei<br />

postpessimisti. Organizza attività culturali, formative, incontri. Ne esiste uno anche a Pristina<br />

(c’ero stato l’anno scorso. Avevo visitato anche uno Youth Club <strong>del</strong>la Fondazione Soros<br />

decantato per essere multietnico: è vero che era frequentato dai giovani albanesi e serbi, ma in<br />

orari diversi, senza il rischio di doversi incontrare). Certi ragazzi nei Balcani sono particolari nel<br />

loro genere: disincantati e (auto)ironici, ma anche entusiasti e pieni di inventiva. Ascoltano il<br />

rock duro ma anche le musiche pazze zigane, si inebriano di Peter Gabriel, ma anche di<br />

melodiosi (e neniosi) cantanti neoromantici, molto malinconici, molto balcanici. Alcuni di questi<br />

ragazzi dai capelli arruffati e gli occhi vispi sono al nostro incontro. Assentono, intervengono,


propongono. Poi per strada incontri altri ragazzi serbi, inebriati di telefonini e finti rolex, di<br />

collane d'oro che gli appesantiscono il collo e il torace e hanno i capelli spioventi, gli occhi duri,<br />

capaci di inalberarsi violentemente al primo dissidio, spavaldi. Non sono tanti ma se ne<br />

incontrano spesso per strada. Parlo all'incontro: devo portare i saluti <strong>del</strong>la <strong>del</strong>egazione,<br />

spiegare perché siamo qui, ringraziare, ecc. Dico che se qui i ponti li hanno distrutti<br />

materialmente, noi siamo qui a portarne uno ideale; quello <strong>del</strong>la convivenza e <strong>del</strong> dialogo tra le<br />

organizzazioni <strong>del</strong>la società civile. Inevitabilmente mi viene alla mente Langer. Perdo il filo.<br />

Partiamo. E’ pomeriggio quando arriviamo a Belgrado. Il pullman subisce alcuni controlli, ma<br />

tutto fila liscio. Belgrado non è come Sarajevo: non c’è ovviamente un comparabile livello di<br />

distruzione e di pericolo personale. Qui la minaccia che viene dalle bombe è di natura diversa<br />

da quella violenza medievale fatta di cecchini, granate, l’assedio che per oltre mille giorni ha<br />

afflitto Sarajevo. Siamo in un albergo, l’Intercontinental (che ci ha imposto il governo serbo,<br />

forse per controlalrci meglio), dove in passato la “tigre” Arkan (il criminale serbo a campo <strong>del</strong>le<br />

bande paramilitari operanti nelle guerre jugoslave sin dal 1991) ha avuto il suo quartier<br />

generale. Nell’albergo c’è poca gente: personaggi equivoci e brutti ceffi in doppio petto,<br />

accompagnati da donne inguainate e pesantemente truccate. A Belgrado, come a Sarajevo la<br />

vita continua, nonostante la guerra. Mentre il resto <strong>del</strong>la <strong>del</strong>egazione partecipa nella sede <strong>del</strong><br />

sindacato indipendente (“ Nezavisnost” ) all’incontro con una ventina di ONG belgradesi e il<br />

sindacato indipendente (ci sono Nastascia Kandic, <strong>del</strong>le donne in nero, e Bradislav Canak, di<br />

Nezavisnost, e poi Rada - che è di Mostar: sfuggita da lì durante la guerra in Bosnia, adesso si<br />

trova sotto quest’altra tempesta), io, Raffaella e Flavio corriamo all’albergo. Ci aspetta Ristic,<br />

che è vice ministro degli Esteri, oltre che esponente di spicco <strong>del</strong>la JUL, il partito <strong>del</strong>la sinistra<br />

comunista <strong>del</strong>la Miriana Markovic, moglie di Milosevic. Ristic, azzimato funzionario fasciato da<br />

un gessato ministeriale) ha in realtà il phisique du role di un agente dei servizi segreti:<br />

sfuggente, vagamente minaccioso, sbrigativo. Dobbiamo concordare il programma. Siamo<br />

raggelati dalle sue prime fasi: “ Non potete andare a Pristina e Podogorica -dice Ristic- non ci<br />

sono le condizioni di sicurezza, non ve lo permettiamo. Se volete fare degli incontri qui a<br />

Belgrado, va bene; vi aiuteremo”. E’ una notifica, non è l’inizio di un negoziato. Lo stesso giorno<br />

nel sud <strong>del</strong>la Serbia un missile <strong>del</strong>la Nato ha colpito un pullman: 40 morti.<br />

Sera<br />

La sera, sono già le otto, suona il primo allarme aereo. Il suono <strong>del</strong>la sirena è è la prima volta<br />

che lo sento. Usciamo dall’albergo. Un inserviente indica il cielo: c’è un Awacs ad alta quota che<br />

traccia la rotta dei cacciabombardieri che arriveranno da lì a poco. E’ come se indicasse una<br />

nuova stella cometa, un pianeta fino ad allora sconosciuto, che solca il cielo ormai da quaranta<br />

giorni. E’ un appuntamento fisso. Il cameriere, tranquillo e senza malizia nei nostri confronti, ci


informa che gli europei che arrivano a Belgrado non vengono più salutati con Doberdan (buona<br />

giornata), ma con Bomberdan.<br />

2 MAGGIO<br />

Il leader democratico americano Jesse Jackson è a Belgrado. Milosevic gli consegna 3<br />

soldati statunitensi catturati al confine con la Macedonia dalle truppe serbe. Altro errore<br />

<strong>del</strong>la NATO: colpito un pullman con dei profughi nei pressi di Pristina, 20 morti.<br />

Partecipiamo ad altri incontri. Alle nove <strong>del</strong> mattino incontro gli esponenti <strong>del</strong>la Croce Rossa<br />

Jugoslava. Decidiamo di fare un convoglio per i profughi serbi e kosovari. Metà degli aiuti<br />

andranno a Nis, gli altri a Pristina. Almeno, questo in teoria. Bisognerà verificare tutte le fasi. I<br />

nostri camion potrebbero arrivare a Nis, e da lì -con una parte di aiuti- con i camion si andrà a<br />

Pristina. Chiedo che un paio di noi vadano con loro: sono d’accordo. Gli diamo una donazione di<br />

10 milioni. Che fine faranno questi soldi ? Andranno veramente a chi ne ha bisogno o<br />

alimenteranno le casse <strong>del</strong> regime ? La Croce Rossa serba non è proprio al di sopra di ogni<br />

sospetto. A Roma, all'ambasciata jugoslava ce l’avevano fatto capire. Mica penserete di andare<br />

là ed aiutare solamente i vostri amici oppositori ? In cambio dei 10 milioni la funzionaria ci lascia<br />

tanto di ricevuta già compilata e timbrata e una specie di pergamena in cirillico. Chiediamo che i<br />

nostri volontari possano ritornare al lavoro a Nis e a Belgrado. Non possono rispondere di sì. Mi<br />

informano come dobbiamo fare: bisogna passare per il Commissariato Serbo per i Rifugiati,<br />

inoltrare regolare domanda e aspettare. “Ma è difficile...”.<br />

Pomeriggio<br />

Ci raggiunge nel pomeriggio Bata, il responsabile nel nostro ufficio a Belgrado. Non l’avevo<br />

conosciuto prima. E’ altissimo (più di due metri), parla saggiamente e lentamente: “Stamattina<br />

è venuta la polizia: voleva portarci via il fuoristrada <strong>del</strong>l’Alto Commissariato. Non mi ha trovato<br />

e se ne è andata. Quando vengono, di solito mi nascondo. Chiudo l’ufficio e me ne vado “. E’ già<br />

successo a Nis -dove diamo assistenza ad oltre 1000 famiglie di profughi serbi <strong>del</strong>le Krajine con<br />

dei programmi di microcredito- nel sud <strong>del</strong>la Serbia: “ Lì, ci hanno portato via tutto: due<br />

macchine e tutti i computer. I condomini -che sono tutti ex militari- ci hanno denunciato:<br />

dicevano che avevamo <strong>del</strong>le apparecchiature per indicare ai paesi <strong>del</strong>la NATO la rotta degli<br />

aerei. Insomma: ci accusavano di essere <strong>del</strong>le spie“. Gli consegno 6mila dollari per pagare gli<br />

stipendi degli ultimi mesi degli operatori locali e tre stecche di sigarette. Gli do anche 3mila<br />

marchi che abbiamo raccolto tra la nostra <strong>del</strong>egazione per l’orfanotrofio Zmaj, con il quale l’ICS<br />

lavora da sei anni: ci sono bambini di tutte le etnie: croati, serbi, albanesi, rom. Gli do anche un


enorme busta alta un metro di cioccolatini e caramelle per i bambini. Sorride meravigliato.<br />

3 MAGGIO<br />

Incontriamo Goran Matic, ministro yugoslavo “senza portafoglio”. Non possiamo andare in tutti.<br />

Siamo in otto. C’è Tom <strong>del</strong>l’Arci e Marina <strong>del</strong>le Acli. Alcuni ministeri sono distrutti, altri sono dei<br />

“target”. Perciò ci portano in un “club” -una sorta di residence ministeriale- che si trova nella<br />

zona <strong>del</strong>le ambasciate, dove abita anche Milosevic. Raggiungendo il “club” scorgiamo su un<br />

prato di un’elegante villa un cratere dove nella notte è caduto un missile. Il “club” sembra una<br />

vecchia colonia d'altri tempi. Si vede che il luogo è abbandonato: i fiori sui tavoli sono<br />

appassiti. <strong>Le</strong> stanze sono deserte. C’è molta polvere sulle poltroncine. E’ un incontro ufficiale a<br />

tutti gli effetti. La nostra <strong>del</strong>egazione è su un lato <strong>del</strong> tavolo; quella <strong>del</strong> ministro sul lato<br />

opposto. Il ministro è un giovane funzionario; è biondo e ha gli occhi trasparenti. Ha l’aria<br />

dimessa e triste, stanco, così sembra. Ma, quando inizia a parlare si dimostra un vero<br />

aparatcniki: fa mezzora buona di propaganda. Ha il piglio intransigente. Intervengo a nome<br />

<strong>del</strong>la <strong>del</strong>egazione: condanno l’intervento <strong>del</strong>la NATO, esprimo la solidarietà a tutte le vittime e<br />

dico pure “Bisogna dare una soluzione al problema <strong>del</strong> Kosovo; garantire un’autonomia e<br />

smilitarizzare l’area. La NATO deve porre fine i bombardamenti e devono finire le azioni militari<br />

sul campo, <strong>del</strong>l’esercito e <strong>del</strong>l’UCK”. Non risponde. Interviene Tom: “Dovete prendere<br />

un”’iniziativa politica, non potete più aspettare “. Matic non risponde. Tom insiste. “<br />

Accettereste una forza armata internazionale di garanzia in Kosovo, senza i paesi che hanno<br />

partecipato all’azione militare ?”. Matic non risponde. Poi alla fine si limita a dire: “ L’Italia e la<br />

Grecia possono avere un ruolo importante per la pace”. E’ passata un’ora e mezza. Matic fa un<br />

cenno e portano da un’altra stanza un frammento inzaccherato di Tomahawk, un missile<br />

americano piombato sul ministero <strong>del</strong>la difesa a Belgrado: “Vedete ? E’ <strong>del</strong> 1983. Questa guerra<br />

è combattuta anche con un altro fine: rinnovare l’arsenale militare “. Ce lo regala per portarlo in<br />

Italia e farlo vedere. Siamo imbarazzati, ma ce lo portiamo via. Poi se lo prende Don Vitaliano<br />

per farlo vedere ai suoi fe<strong>del</strong>i. Mentre ce ne andiamo -siamo sul corridoio - mi rivolge una<br />

battuta: “ Lo sa di che colore è lo Stealth ? “. Rispondo che mi sembra nero. Matic ride: “ No, di<br />

nessun colore, perché è invisibile “. Infatti è l’aereo fantasma-invisibile ai radar. Ride come un<br />

bambino.<br />

4 MAGGIO<br />

Siamo pronti per partire per Pancevo (pochi chilometri da Belgrado, 130mila abitanti) dove<br />

andiamo a vedere cosa ha bombardato la NATO: per la precisione un petrolchimico e diversi


impianti che contengono gas tossici. Ci sono stati molti morti, centinaia di feriti, migliaia di<br />

persone evacuate dai quartieri limitrofi. Un pericolo di catastrofe ecologica scampata per un<br />

pelo. Migliaia di operai non hanno più un lavoro. Il petrolchimico <strong>del</strong>la città è deserto; ci<br />

aggiriamo tra gli isolati abbandonati in un ambiente spettrale. Non un custode, non un operaio.<br />

<strong>Le</strong>ntamente, a passo d’uomo il nostro pullman passa a fianco di serbatoi bruciacchiati,<br />

capannoni anneriti, frammenti di metalli e di muratura in una strada desolata. 8.000 per la<br />

precisione sono le persone rimaste senza lavoro. Nella sede <strong>del</strong> comune di Pancevo -il mattinoci<br />

hanno fatto vedere dei video strazianti di persone a bran<strong>del</strong>li: sono riprese fatte appena dopo<br />

i bombardamenti. All’incontro si affaccia anche Aleksandar Zograf. E’ di Pancevo, ha lo sguardo<br />

penetrante e intelligente; una cartella sotto il braccio. Ha disegnato fumetti straordinari (che<br />

rendono benissimo l’ottusità minacciosa <strong>del</strong> volto di Milosevic, mentre il bianco e nero <strong>del</strong>le sue<br />

strisce hanno un che di fuliginoso, di grigio, come la sua Pancevo inquinata), pubblicati anche in<br />

Italia (il manifesto sta pubblicando un suo diario di guerra).<br />

Nessuno capisce come, ma ad un certo punto sale sul pullman un prete ortodosso, si chiama<br />

Padre Andreas. E’ un ragazzo alto e dinoccolato di 25-26 anni, occhi rutilanti, barba lunga<br />

ramata, una tonaca grezza e povera che sembra di stamigna, una specie di giovane Rasputin. Ha<br />

fatto qualche cenno all’autista, si è messo in mezzo alla strada, ha convinto qualcuno <strong>del</strong>la<br />

nostra <strong>del</strong>egazione? Ci spiega allegramente in un italiano stentato, dalla cadenza teutonica, ma<br />

brioso, espressivo. E’ <strong>del</strong> patriarcato di Belgrado. Ha incontrato nella mattina Bettazzi insieme a<br />

Pavle, il Patriarca <strong>del</strong>la Chiesa Serbo-Ortodossa. Adesso capiamo come è salito. Padre Andreas<br />

è nato in Germania, da padre serbo scappato quando ha vinto Tito nel 1945. “Mio padre era un<br />

anticomunista; ha fatto la resistenza con Mihailovic. E quando ha vinto Tito è dovuto emigrare”.<br />

Andreas parla, parla, è allegro. Racconta tante cose nel suo italiano stentato. Racconta anche lui<br />

storielle e barzellette. “ Sapete ? Quando Dio decise di fare gli Stati, disse: non più di dieci. E li<br />

fece così: uno per gli stati uniti <strong>del</strong>l’est, un altro per gli stati uniti <strong>del</strong>l’ovest. E gli altri otto per la<br />

Jugoslavia “. Ci porta a vedere il suo monastero; alla periferia di Novi Sad. Escono gli altri<br />

monaci; tutti giovani e dalle barbe lunghe. Ci portano <strong>del</strong>le grappe. Siamo in un giardino e la<br />

calma <strong>del</strong> luogo fa dimenticare di essere in guerra. Il capo dei monaci fa un discorso in cui<br />

condanna l’intervento <strong>del</strong>la NATO e ricorda che questo e altri monasteri sono stati aperti dopo<br />

la caduta <strong>del</strong> comunismo. Bettazzi, che non ci sente bene, ad un certo punto lo interrompe: “<br />

Perché ripete sempre D’Alema ?”. Risponde il capo dei monaci: “ No, ho detto nema che<br />

significa, no, niente, nessuno“. “Davvero? D’Alema significa: niente, nulla? “ Chiede ancora<br />

Bettazzi. Tutti ridono.<br />

Andreas ci porta a vedere i tre ponti distrutti a Novi Sad. Ce n’è uno di particolare, sul Danubio.


Dice il prete: “ Qui ci venivano gli innamorati prima di sposarsi. Si facevano solenni promesse “.<br />

Accanto al ponte distrutto degli innamorati, ci sono i basamenti di un altro ponte che non esiste<br />

più. “Anche questo distrutto dalla NATO ? ”, chiede qualcuno. “ No - risponde Andreas - questo<br />

è stato distrutto dai nazisti, durante la seconda guerra mondiale “. Gli innamorati non ci sono<br />

più; nessuno sembra più farsi grandi promesse né tra sospiri, né romanticamente in barca: solo<br />

una fila di persone (donne, anziani, bambini) in attesa di una chiatta che li porterà dall’altra<br />

parte <strong>del</strong> fiume. Prima di salutarci Padre Andreas ci porta a vedere un altro ponte, sempre<br />

appena fuori Novi Sad. E’ un ponte enorme, un cavalcavia di un’autostrada. I missili <strong>del</strong>la Nato<br />

l’hanno completamente buttato giù. Per arrivarci dobbiamo superare alcuni sbarramenti e<br />

barriere di legno sistemate dalla polizia. Il pullman arriva fino ad un certo punto, troppo<br />

pericoloso proseguire, e non può andare oltre. Scendiamo tutti e ci avviciniamo guardinghi<br />

sull’autostrada deserta e surreale, nel silenzio <strong>del</strong>la campagna rotto solo dal vento freddo che<br />

sibila. Padre Andreas, saltellando ci invita: “andiamo, andiamo”. Arriviamo sull’orlo <strong>del</strong><br />

precipizio. Una montagna di macerie di asfalto, tondini, telai di acciaio, blocchi di cemento<br />

armato ingombra la valle, appena un centinaio di metri sotto. Alzo gli occhi: a 150 metri, dopo il<br />

vuoto, l’autostrada solitaria riprende il suo corso.<br />

7 MAGGIO<br />

La NATO lancia bombe a frammentazione sull’ospedale e il mercato di Nis, nel sud <strong>del</strong>la<br />

Serbia. 25 morti e oltre 70 feriti.<br />

Di nuovo a Roma. A cena con Raffaella. Parliamo <strong>del</strong>la “missione arcobaleno”. La missione ha<br />

già raccolto quasi 100 miliardi. Ha organizzato in Albania campi profughi per 30mila persone,<br />

con la ghiaia bianca e le lasagne al forno, mentre ce ne sono 200mila che dormono sotto i<br />

boschi. Ci sono campi profughi di serie “A” mentre gli altri aspettano il loro turno sotto le stelle.<br />

Noi (che ne assistiamo 6mila) abbiamo seguito un'altra strada da quella <strong>del</strong>la “missione”: dare<br />

un minimo (un materasso, una coperta, il fabbisogno calorico minimo) al numero più possibile<br />

di profughi. La protezione civile spende 500 dollari mensili per profugo, noi circa 30; è l’unico<br />

modo per poter arrivare a tutti. Cerchiamo di non intasare con i volontari i campi. Non ci sarebbe<br />

nemmeno il posto per farli dormire. Preferiamo utilizzare il personale locale, che è tanto e senza<br />

lavoro. Alla Protezione Civile la pensano diversamente. In un campo vicino a Durazzo il rapporto<br />

è uno a cinque. 80 volontari per 350 profughi. Molti di questi volontari di protezione civile sono<br />

dei “militari mancati”, con l'orgoglio <strong>del</strong>la divisa, e gli scarponi lucidati. Da questa missione<br />

dobbiamo starne fuori. Non solo perché è un’operazione sbagliata, la copertura umanitaria di<br />

un’azione di guerra, la cooptazione subalterna <strong>del</strong> volontariato, ma anche perché rischia di


creare casini, disperdere soldi, improvvisare interventi.<br />

8 MAGGIO<br />

Stanotte è stata colpita per “sbaglio” dalla NATO l’ambasciata cinese a Belgrado. Muiono<br />

tre persone e l’edificio è distrutto. Viene chiesta dalla Cina la convocazione <strong>del</strong> Consiglio<br />

di Sicurezza, che però non condanna l’episodio.<br />

Il governo ha deciso finalmente di ospitare 10mila profughi albanesi-kosovari (di cui si vuol<br />

liberare la Macedonia, per non avere troppi albanesi che possano mutare la proporzionalità<br />

etnica <strong>del</strong> paese e l’Acnur accetta senza colpo ferire) in Italia, nell’ex base militare di Comiso.<br />

Utilizzeranno le villette <strong>del</strong>la base che in origine erano state destinate agli ufficiali americani.<br />

Bisogna chiedere che sia garantito al volontariato l’accesso al campo e che il campo di Comiso<br />

sia temporaneo.<br />

9 MAGGIO<br />

Concerto per la pace a Roma, con gli Alma Megretta, gli Avion Travel, Ricky Gianco. Ci sono 7,<br />

8mila persone. Raccogliamo una ventina di milioni di sottoscrizione (abbiamo sparso gli<br />

obiettori ai cancelli per chiedere i soldi a chi entra nella piazza). Tanti giovani, ma non sembrano<br />

molto politicizzati, né pacifisti. Sono qui in gran parte per la musica. Paolo landi di Benetton ci<br />

ha dato dei soldi per pagare le spese organizzative e il manifesto ha curato la pubblicità. Molti<br />

gruppi -più famosi- hanno rifiutato di venire. Alcuni hanno trovato una scusa, altri forse non<br />

volevano esporsi. Gli Alma Megretta fanno una figura meschina. Sono in tre, salgono sul palco e<br />

suonano per tre (3) minuti e si fanno fischiare sonoramente. Gli Avion Travel suonano una<br />

mezzora e sono tutti molto gentili. Ricky Gianco è il più simpatico e poi viene a cena con noi.<br />

13 MAGGIO<br />

Dibattito con Stefano Benni a Bergamo. Ci sono 250, forse 300 persone. Si parla di guerra e di<br />

missione Arcobaleno. Benni spiega al pubblico perché é meglio dare i soldi al volontariato<br />

indipendente che non alla missione arcobaleno. Poi prende in giro Veltroni e i DS. Li invita a<br />

cambiare la bandiera <strong>del</strong> partito cambiando lo slogan da “veniamo da lontano e andiamo<br />

lontano” in: “che altro potevamo fare?”. Torniamo con Benni a Milano, la notte fonda, a bordo di<br />

una fuoristrada che mi ha consegnato Roberto Bertoli (<strong>del</strong> gruppo di solidarietà locale) perché il<br />

giorno dopo deve essere consegnato a Kacanj in Bosnia, dove è attivo da anni un progetto per il


ientro dei profughi. In giornata ci ha chiamato ancora Paolo Landi, di Benetton che ci aiuterà.<br />

Altra ottima notizia: Goffredo Fofi ha trovato 40 milioni dal vecchio gruppo parlamentare <strong>del</strong>la<br />

Sinistra Indipendente, fermi su un conto corrente “dormiente”. L'ha contattato Ada Becchi,<br />

l'ultima capogruppo <strong>del</strong>la Sinistra Indipendente e hanno pensato ad ICS.<br />

16 MAGGIO<br />

80.000 persone marciano per la pace da Perugia ad Assisi.<br />

Marcia per la pace Perugia-Assisi. Ci sono quasi 80.000 persone. Sono venuti per la prima volta<br />

anche i centri sociali, molti dei quali si lamentano perché si marcia solamente in mezzo alla<br />

campagna e non c’è la possibilità di fare gesti eclatanti (ad un certo punto stendono dopo Santa<br />

Maria degli Angeli uno striscione contro la “guerra umanitaria” e tutto il corteo è costretto a<br />

passarci sotto).<br />

18 MAGGIO<br />

Riunione <strong>del</strong>l’esecutivo <strong>del</strong>l’ICS. Arriva la notizia <strong>del</strong>la possibile approvazione di una mozione<br />

parlamentare <strong>del</strong>la maggioranza dei parlamentari di centro-sinistra che chiede la sospensione<br />

dei bombardamenti. C’è un clima di euforia. C’è l’idea che questo sia il risultato anche <strong>del</strong>la<br />

nostra mobilitazione. Tra poche settimane ci sono le elezioni europee; per chi dovremmo votare<br />

? Siamo assaliti dal rifiuto <strong>del</strong>la politica e di questi partiti.<br />

19 MAGGIO<br />

Parto con Anna Eva per l’Albania. Da molte settimane volevo muovermi per andare sul campo,<br />

sempre impedito da riunioni, scrittura di appelli e articoli, incontri istituzionali, ecc. Arrivo<br />

finalmente a Tirana volando su un piccolo aereo a 12 posti <strong>del</strong> WFP. L’aeroporto è in condizioni<br />

addirittura peggiori <strong>del</strong>l’ultima visita in Albania, un paio di anni fa. Un via vai di militari,<br />

operatori umanitari con tanto di fasce bianche: fuori dall’aeroporto sono assalito di bambini<br />

che, con dei cartoni in mano, ti vogliono vendere qualcosa e altri che ti vogliono portare con un<br />

taxi in città. Già dall’aeroporto l’immagine è quella <strong>del</strong> racconto che mi hanno fatto i nostri<br />

operatori dal campo: un grande “circo” umanitario con ONG, agenzie internazionali, governi<br />

occidentali ad affannarsi a fare qualcosa di utile, di spendere i soldi, o di sperare di prenderli<br />

(diverse ONG) dalle agenzie internazionali e dai governi (e ora, dalla missione arcobaleno).<br />

Molti operatori di ONG e agenzie sono “griffati”: ciascuno con il proprio distintivo, con il


giubbetto marchiato e il cappello stemmato. Anche la NATO, mentre bombarda si prende carico<br />

dei profughi (...). Alza tende, aiuta le ONG, muove autobotti per i campi. Sono anche qui<br />

all’aeroporto. C’è l’allegra brigata dei volontari <strong>del</strong>la Protezione Civile-Missione Arcobaleno:<br />

tutti in divisa (come i militari), alcuni sono tronfi burocrati di prefetture e ministeri con tanto di<br />

rimborso a piè di lista e indennità di trasferta, altri sono giovani boy scout o di parrocchia molto<br />

volenterosi, poi ci sono tante brave persone -impiegati in distacco, operai- che già ho incontrato<br />

in tanti altri posti negli ultimi tempi: in Umbria per il terremoto e anche in Bosnia durante la<br />

guerra. Accanto ai neofiti, che si sentono avamposti coraggiosi di questa avventura di guerra, ci<br />

sono i vecchi volontari (dall’Umbria o dalla Bosnia) che sanno come muoversi. Hanno gli occhi<br />

esperti e fanno le cose giuste: alcuni di loro criticano la gestione faraonica e megalomane di<br />

arcobaleno. Comunque c’è un ingorgo di volontari. La strada per/dall’aeroporto è un ammasso<br />

di buche profonde; alcune arrivano fino a mezzo metro.<br />

Andiamo in ufficio. Una casetta a due piani, con sei, sette stanze, ingombre di computer, aiuti<br />

sparsi, qualche materassino e zaino appoggiati ai muri. Sulle pareti, cartine <strong>del</strong>l’Albania e <strong>del</strong><br />

Kosovo, i luoghi dei nostri campi evidenziati. I telefoni non riescono a prendere la linea. Si prova<br />

e si riprova. Si usa anche il CB per comunicare con i campi, ma non sempre si riesce. Ci sono<br />

persone che vanno e vengono: operatori, volontari, giornalisti, albanesi che ci danno una mano.<br />

C’è un apparente disordine, ma tutto sembra sotto controllo. In poche decine di minuti che mi<br />

fermo nell’ufficio arrivano le richieste più varie. Da Gomel chiedono cosa devono fare con la<br />

Arna (una macchina <strong>del</strong>l’Alfa Romeo) che ha di nuovo il carburatore rotto. Poi chiamano dal<br />

magazzino: che facciamo ne prendiamo uno nuovo, quello vecchio non basta più a contenere la<br />

roba ? Chiama Vinicio Albanesi dalla Comunità di Capodarco. Ci aiutate a trovare un palco a<br />

Tirana, dobbiamo fare un concerto con dei gruppi giovanili? Arrivano dei cine-operatori, stanno<br />

facendo <strong>del</strong>le riprese nei nostri campi, per farne un documentario <strong>del</strong>la RAI. Mi dicono che<br />

quando vanno nei campi chiedono ai nostri volontari di “interpretare la parte” per rendere più<br />

“vivide” le riprese (a Chiara hanno chiesto di riprenderla al momento <strong>del</strong>la sveglia, quando va a<br />

lavarsi, ecc.... la “giornata” <strong>del</strong>la volontaria). Ne ridiamo.<br />

Si va al campo di Gomel, vicino Durazzo. Lo gestisce Chiara , da sola e con varie difficoltà, non<br />

ultima la diffidenza degli uomini <strong>del</strong> campo, restii a farsi “comandare” da una donna. Chiara è<br />

riuscita anche a far riunire le donne <strong>del</strong> campo, guardate a vista dai loro mariti e dai compagni<br />

che passeggiavano intorno al cerchio di donne in riunione. Il campo è una specie di ex-albergo<br />

ristrutturato. Con difficoltà vengono organizzate anche attività di animazione. Il cibo è<br />

abbastanza razionato: ci sono <strong>del</strong>le tabelle con l’indicazione <strong>del</strong>le pietanze e <strong>del</strong>le quantità (e<br />

c’è il conteggio <strong>del</strong>le calorie per darne almeno 2200 al giorno). Dall’Acnur abbiamo pochi soldi


da spendere (uno-due dollari al giorno per profugo), se non ci fossero gli aiuti dall’Italia e l’invio<br />

continuo di derrate non sapremmo come fare. Il campo è vicino alla spiaggia di Durazzo (si<br />

scorge a qualche centinaio di metri una fila di pini, dietro ai quali c’è l’azzurro <strong>del</strong> mare), ma<br />

nessuno ci va. Solo i bambini sono allegri e giocano (e stanno sempre intorno a Chiara), mentre<br />

le donne hanno il loro da fare (riassettare le stanze, lavare la biancheria, cucinare qualcosa). Gli<br />

uomini vagano assenti; non hanno niente da fare e non si prestano a causa <strong>del</strong>la mentalità<br />

maschilista alle attività quotidiane <strong>del</strong> campo. Dal campo di Gomel andiamo al magazzino di<br />

Durazzo: un nostro volontario (si é preso l’aspettativa per venire fino a qui) che si chiama<br />

Martino (ha un accento <strong>del</strong> nord, il volto affaticato e la barba lunga: si arrampica sugli scatoloni<br />

mentre ci parla) gestisce il magazzino, sepolto da pacchi di pasta (che si accatastano sempre di<br />

più: gli albanesi ne hanno fin sopra i capelli) e da pacchi e pacchetti mal confezionati. E’ una<br />

situazione di fortuna: senza scaffali e muletti, nè palletts. Tutto viene fatto a mano e in tempi<br />

sempre frenetici. Bambini albanesi che aiutano. Alla fine di ogni carico Martino gli regala<br />

qualcosa. Ogni giorno vengono furgoncini a caricare per i nostri campi. Oltretutto bisogna<br />

essere sempre attenti contro la piccola criminalità albanese e a quella <strong>del</strong>le dogane che<br />

taglieggiano gli aiuti che arrivano. Con lui programmiamo le prossime spedizioni: “ Informate i<br />

donatori italiani di non mandare più spaghetti, ma di trovare materassini. Ci sono tanti profughi<br />

che ancora dormono per terra”.<br />

20 MAGGIO<br />

Vado a prendere insieme ad Andrea, Giuliano Pisapia all’aeroporto di Tirana che aveva chiesto<br />

di fare il volontario in uno dei nostri campi. Lo manderemo a Rubik: un paesino <strong>del</strong> centro-nord<br />

<strong>del</strong>l’Albania di qualche migliaio di anime. Ospitiamo a Rubik 4-500 profughi. Pisapia non vuole<br />

che sia resa pubblica la sua presenza al campo e non vuole nemmeno incontrare i<br />

rappresentanti <strong>del</strong>le istituzioni albanesi. “Non sono venuto qui per fare incontri politici. La mia<br />

presenza è un fatto privato. Voglio solo fare il volontario in un campo”. Vuole andare subito a<br />

lavorare al campo, non ha interesse a fermarsi a Tirana. Ci mettiamo quasi tre ore per arrivare al<br />

campo: la strada è dissestata. Per fare 20 chilometri ci mettiamo un’ora. Incontriamo camioncini<br />

carichi di ogni tipo di merci, fuoristrada di organizzazioni umanitarie ed internazionali. Ci guida<br />

Alì, l’autista <strong>del</strong>l’ICS, anche con una mercedes sgangherata che impreca: “strada Berisha”. Di<br />

Berisha dice tutto il male possibile: bestemmie e ogni tanto sputa di fuori quando lo nomina.<br />

Pisapia ride. A Rubik scopriamo che i profughi sono un migliaio, divisi tra il campo base,<br />

composto da alloggi che un tempo erano <strong>del</strong>le casermette per le forze armate albanesi e il<br />

convitto. Responsabile <strong>del</strong> campo è Marco Bruccoleri, già impegnato a Kakanj in Bosnia. Gli<br />

presento Pisapia; forse non ha ben presente chi sia e lo confina in una stanzetta disadrona.Ha


già preso in mano la situazione <strong>del</strong> campo. Ci sono però pochi materassi. Molti profughi<br />

dormono per terra. “ Non ho un cellulare, né una macchina. Se succede qualcosa di notte, non<br />

so come fare”. Ne avevamo parlato anche a Roma. I nostri campi profughi mancano <strong>del</strong>le cose<br />

essenziali: macchine, telefoni, materassini. E’ una situazione difficilmente sostenibile a lungo.<br />

Andrea avverte Marco: “Dopodomani ti arrivano cinque tir da Predappio. Sono <strong>del</strong>le ANPAS, i<br />

volontari <strong>del</strong>la Croce Rossa e <strong>del</strong> Comune”. Marco imperturbabile sorride ironico: “Speriamo<br />

non portino altra pasta. Se no non sappiamo dove metterla”. Ovunque lo stesso problema:<br />

tonnellate di pasta che non riusciamo a smaltire. Nei magazzini siamo pieni di vermicelli, fusilli,<br />

rigatoni. I kosovari preferiscono le zuppe di legumi e verdure. Dopo avergli dato pasta per trequattro<br />

giorni di seguito, molti si sono rifiutati di continuare a mangiarla. Nel campo, c’è chi<br />

preferisce dormire sul camioncino o sul trattore con il quale è scappato dal proprio villaggio. Ci<br />

sarebbero anche i posti (per terra), ma molti preferiscono non allontanarsi dai propri mezzi di<br />

trasporti e dai beni che si sono portati con sé. Nel cassone di un camion -simile ai nostri lupetti<br />

degli anni ‘60- conto 8 persone: una donna anziana con i capelli raccolti in una crocchia informe<br />

mi guarda con un’espressione vuota, in attesa, mentre due bambini che le sono vicini si<br />

tengono per mano. Stanno per addormentarsi. Gli uomini, invece anche qui si aggirano per il<br />

campo: vagano silenziosi, mentre le donne più giovani lavano i vestiti e accudiscono i figli. Nel<br />

campo ci sono anche dei volontari, dall’accento inconfondibile padano. Una ragazza ha attorno<br />

a sé uno stuolo di ragazzini. Ci saluta velocemente “ Sì, li faccio disegnare, facciamo dei giochi e<br />

con una corda ho anche improvvisato una rete di pallavolo”. Pisapia si guarda intorno; vorrebbe<br />

già rendersi utile, ma Marco non ha tempo, ha il suo da farsi per seguire tutti i lavori <strong>del</strong> campo.<br />

21 MAGGIO<br />

Arrivano Federico e Raffaella al porto di Durazzo. Li vado a prendere con Alì. I militari albanesi<br />

non ci fanno entrare al porto con la macchina. Alì è disperato “Ma c’è il Presidente !” (sarei io).<br />

Al poliziotto gli viene da ridere. A me pure. Chissà quanti si spacciano qui per presidenti,<br />

<strong>del</strong>egati, incaricati, commissari, ecc. Dico ad Alì di lasciar perdere. In realtà allungando 1.000 lek<br />

(10.000 lire) ci farebbero passare, ma lasciamo stare. Li vado a prendere a piedi. Dalla nave<br />

scende di tutto: paramilitari con la divisa <strong>del</strong>l’UCK, crocerossine, volontari con il cartellino <strong>del</strong>la<br />

“ missione arcobaleno”, militari italiani. Federico mi informa di quello che sta succedendo in<br />

Italia: “ Hanno ammazzato D’Antona, un consulente di Bassolino. Sono state le Brigate Rosse.<br />

Qualcuno ricollega il <strong>del</strong>itto al clima di contestazione alla guerra e <strong>del</strong>le iniziative <strong>del</strong><br />

movimento pacifista “. Un paio di giorni prima hanno approvato la mozione parlamentare che<br />

chiede di porre fine ai bombardamenti. Partiamo per i campi di Golem, che sono lì vicino. Diamo<br />

un’occhiata - io l’avevo già visto due giorni fa- al campo all’albergo. Chiara ci racconta <strong>del</strong>


campo “ Ho avuto difficoltà a farmi accettare. Sono donna e i maschi <strong>del</strong> campo non volevano<br />

riconoscere all’inizio il mio ruolo. Poi piano, piano ... Però ho organizzato anche le donne <strong>del</strong><br />

campo. <strong>Le</strong> ho fatte riunire da sole, senza gli uomini, che erano molto tesi. <strong>Le</strong> donne stavano nel<br />

refettorio, a riunirsi e gli uomini stavano alla larga; ogni tanto giravano intorno, davano<br />

un’occhiata impotenti “. Facciamo una visita più lunga al dormitorio. E’ in un bel posto, su un<br />

poggio. Domina la vallata sottostante e il mare azzurro <strong>del</strong>la costa di Durazzo. Il dormitorio è a<br />

ferro di cavallo: con al centro un piazzale <strong>del</strong>imitato da alti pini marittimi che si stagliano<br />

sull’azzuro <strong>del</strong> cielo e <strong>del</strong> mare. Entriamo nelle stanze, in cui vivono i profughi. In una stanza c’è<br />

una donna con un neonato tra le braccia: “ <strong>Le</strong> ha dato nome Chiara ...”, ci dice. “ Invece al primo<br />

nato gli hanno dato il nome Golem “, aggiunge Chiara. “ Il problema più <strong>del</strong>icato che abbiamo<br />

qui è l’acqua; ce l’abbiamo due-tre ore al giorno. Ma è un problema per tutta l’area di Durazzo e<br />

di Kavaja. Forse ce la tolgono <strong>del</strong> tutto e bisognerà provvedere con <strong>del</strong>le autobotti”. Una<br />

soluzione cè, chiedere aiuto al campo di Kavaja, <strong>del</strong>la missione arcobaleno.<br />

Andiamo allora a Kavaja, a quattro chilometri da Golem. Al campo <strong>del</strong>la “missione arcobaleno”<br />

ci sono 5600 profughi. Dopo aver visitato i nostri campi (dove ci sono uno/due operatori e<br />

tre/quattro volontari, a malapena una macchina e un telefonino per campo; tutto il resto è autoorganizzato<br />

dai profughi) andare ad un campo <strong>del</strong>la “missione arcobaleno” fa una certa<br />

impressione. Ad esempio nel campo di Kavajia ci sono centinaia di volontari in divisa e tuta<br />

mimetica, ognuno con il proprio walkie-talkie e cartellino di riconoscimento, decine di mezzi<br />

(macchine, jeep, ruspe, autobotti, ecc), tende e tendoni per attività collaterali. Il campo è un<br />

cantiere iperattrezzato e molto tecnologico. I volontari hanno persino distrutto alcuni bunker<br />

(che in Albania abbondano in ogni dove a migliaia ) per farne le basi di alcuni barbecue, fatti con<br />

grate di tondini di ferro. E’ un’impressione; ma qui i profughi sembrano più tristi di quelli dei<br />

nostri “poveri” campi. Più inquadrati, meno attivi e protagonisti, “assistiti” ogni cinque minuti<br />

dai volontari. A parte il caldo <strong>del</strong>le tende, tutto è molto più organizzato, ma anche più anonimo<br />

ed eterodiretto, più forzato. I volontari dormono in albergo. Qualcuno ha anche un rimborso<br />

spese dalla propria azienda (municipalizzata, ecc.). Lì vedi aggirarsi per il campo: molti a vuoto,<br />

si inventano cose da fare, cercano profughi da soccorrere. I profughi quando vedono un medico<br />

italiano <strong>del</strong> campo, fuggono per non farsi fare l’ennesima e inutile visita giornaliera. Noi, nei<br />

nostri campi, nei primi giorni non avevamo molta roba da mangiare e, ancora, in alcuni di questi<br />

non abbiamo letti e materassi. Qui, a Kavaja, sembra tutto facile. Parliamo con Piero<br />

Moscardini, romano verace, che è il capo-campo. Sembra una “spalla” di Alberto Sordi in una<br />

commedia all’italiana. E’ un funzionario <strong>del</strong>la protezione civile. Gioca ad alternarsi con i<br />

volontari burbero e bonario, inflessibile e comprensivo. E’ inspiegabilmente gentile con noi e<br />

poi ci porta anche a vedere il campo. Ma lo sa che abbiamo criticato aspramente in Italia la


missione arcobaleno? Ad un certo punto nella tenda dove stiamo discutendo con Moscardini<br />

entra il medico <strong>del</strong> campo: “ Senti Piero, qui si avvicina il caldo e ho paura che possano<br />

scoppiare <strong>del</strong>le epidemie. Forse sarebbe il caso di dare, almeno ai bambini, una spremuta di<br />

arance. Come prevenzione ... “. Risponde Moscardini. “ Che te serve ? “. “ Mah -ribatte il<br />

medico- facendo i conti, almeno due arance al giorno a testa, fa più o meno: 3.500- 4.000<br />

arance al giorno”. Risponde Moscardini: “ Compra. Te faccio subito l’autorizzazione. Poi ? “ .<br />

Ancora il medico: “ ... un paio di spremiagrumi “. Risponde Moscardini “.... e quando affitti ?<br />

Almeno sei. Compra. Te faccio l’ordine ...”. L’impiego di mezzi, risorse e volontari è veramente<br />

impressionante. Non è esagerato dire che in Albania ci sono i campi profughi di serie A<br />

(Arcobaleno) e di serie B ( tutti gli altri). A Scutari c’è stata anche una mezza rivolta degli<br />

albanesi contro i kosovari, cui veniva dato il pane, naturalmente gratis. Lo volevano pure gli<br />

albanesi, disoccupati e affamati. Hanno cosi assaltato il camion che portava il pane al campo.<br />

Nel pomeriggio arriva la Ministra Turco a visitare i nostri campi. La mandiamo al dormitorio di<br />

Golem. Arriva una quindicina di macchine. Ci sono una cinquantina tra funzionari, giornalisti e<br />

ministeriali vari. Ci sono anche un paio di telecamere. I profughi osservano silenziosi e immobili<br />

dalle balaustre <strong>del</strong>le terrazze <strong>del</strong> campo, come fosse la scena di un film. I bambini smettono di<br />

giocare e seguono il codazzo ministeriale. La ministra chiede a Chiara informazioni sul campo,<br />

abbozza una visita nella struttura, ma si ferma prima di addentrarsi all’interno <strong>del</strong>le stanze.<br />

Chiara non si fa condizionare dalla ministra e ogni tanto si distrae dalle sue domande per dare<br />

retta e rispondere ai bambini che le si stringono attorno e a cui dà uguale importanza (grande<br />

successo di Chiara tra i bambini <strong>del</strong> campo). Dopo 13 minuti (ho cronometrato il tempo), si<br />

riaprono le portiere <strong>del</strong>le macchine e di corsa vanno tutti (ministra, scorta, assistenti,<br />

segretarie, politici locali, ecc.) all’aeroporto, dove a Tirana c’è l’aereo <strong>del</strong>la Presidenza <strong>del</strong><br />

Consiglio che li aspetta.<br />

22 MAGGIO<br />

Arriviamo a Burrell, con Federico e Raffaella. Tutti ce l’avevano descritto come la situazione più<br />

difficile. E’ un villaggio sperduto nel centro <strong>del</strong>l’Albania. Il campo è vicino ad una miniera da cui<br />

si estrae il ferro. E’ un luogo isolato. Il posto comunica una certa tetraggine, tra collinette di<br />

minerale ferroso, edifici cadenti e un panorama scabro e grigio, senza la soddisfazione di<br />

incontrare con lo sguardo né festosa vegetazione, né qualche agglomerato di case che dia il<br />

senso <strong>del</strong>la vita. Il campo è composto da una serie di capannoni dove un tempo si ammassava il<br />

grano, residuo <strong>del</strong>le vecchie cooperative agricole socialiste. Ora, qui, ci sono più di 1.500<br />

profughi. All’entrata i poliziotti albanesi non ci vogliono fare entrare. Poi, arriva Guido che


insieme a Marco Donati è responsabile <strong>del</strong> campo. Si mette a parlare in serbo con i poliziotti,<br />

che ci fanno finalmente entrare. Salutiamo e ci mettiamo a girare per il campo: incontriamo una<br />

bolgia di bambini, vediamo veri e propri ammassi di persone dentro i capannoni e prima di<br />

entrare in mensa, vicino ai bagni c’è una trentina di bambini in fila in attesa di farsi togliere i<br />

pidocchi. Ecco Marco in un piccolo ufficio a stampare tesserini per i profughi. Alle sue spalle<br />

decine di disegnini, alcuni con i cuoricini “ Marco-Feranda”. Feranda è lì vicino a lui, avrà ottonove<br />

anni. E’ una bella bambina e ha degli occhi radiosi. Marco ci porta in giro per il campo, e ci<br />

informa: “A un chilometro e mezzo da qui c’è un campo di addestramento <strong>del</strong>l’UCK. Sono un<br />

migliaio. Hanno provato a venire qui per reclutare i maschi. Non potevamo non farli entrare<br />

all’inizio. Avremmo fatto correre dei rischi ai profughi e al campo. Adesso, però non vengono<br />

più. Sono stati isolati dagli stessi profughi”. La sera ritorno a Rubik, dove lascio Federico e<br />

Raffaella al campo. Di nuovo incontro Pisapia che questa volta ha un look diverso: ha la barba<br />

lunga e i vestiti inzaccherati, i mocassini da buttare. E anche la giacca di lino.<br />

23 MAGGIO<br />

Dall’Albania arrivo in Macedonia, sempre a bordo degli aeroplanini di World Food Program, che<br />

sembrano gracili, gracili. Siamo una decina di persone (di più non ne porta), quasi tutti<br />

funzionari <strong>del</strong>le Nazioni Unite a 15-20 milioni al mese di stipendio. C’è un’americana che non fa<br />

che parlare con una sua collega <strong>del</strong> college migliore per la sua figlia una volta finite le scuole;<br />

poi passa al suo cottage che si trova in un non-so-quale parco parlando di un tecnologico<br />

sistema di riscaldamento; infine parla <strong>del</strong>le sue vacanze (un mese in Belize) e <strong>del</strong>le spiagge<br />

tropiacali. Dopo qualche giorno di Albania (che ha l’aspetto di un paese uscito da una guerra di<br />

dieci anni) la Macedonia fa l’effetto di trovarsi in Svizzera. E’ un bel paese: verde, rigoglioso e<br />

dai paesaggi che ispirano serenità e anche un certo benessere (ma forse esagero: ho ancora in<br />

mente il disastro <strong>del</strong>l’Albania. Il pensiero che viene spontaneo è questo: ecco, così era la<br />

Jugoslavia dieci anni fa, prima <strong>del</strong>la guerra. Un paese tutto sommato sereno e con maggior<br />

benessere rispetto agli altri paesi <strong>del</strong>l’est. Poi è arrivato il nazionalismo, la lotta per il potere, il<br />

ritorno criminale <strong>del</strong>la contrapposizione etnica. Tutto qui intorno ci sono distruzioni,<br />

devastazioni, povertà. In Macedonia c’è un relativo benessere: le strade sono pulite ed<br />

ordinate. Skopije fa l’impressione di una bella città tranquilla e sonnacchiosa. Qui, finora, sono<br />

riusciti ad evitare la guerra. Andiamo (in macchina con Alessandro Pieroni, che coordina la<br />

missione ICS in Macedonia e Anna Eva) al confine tra la Macedonia e il Kosovo: siamo al campo<br />

di Blace, di cui nelle scorse settimane si è tanto parlato per via <strong>del</strong>le 30- 40mila persone che lo<br />

affollavano in condizioni disumane. Il silenzio è assoluto, surreale, come in Chiesa; lo si<br />

percepisce, lo si ascolta. Il ronzio <strong>del</strong>le cineprese e dei registratori, gli scatti <strong>del</strong>le macchine


fotografiche sono il sottofondo minaccioso di un’attesa sospesa di eventi da carpire. Ad un<br />

centinaio di metri dal confine, c’è una quarantina di fotografi con giganteschi zoom che<br />

sembrano cannoni, cameraman da tutto il mondo in una babele di lingue diverse: inglese,<br />

francese, spagnolo, portoghese, slavo, italiano. Sono in attesa <strong>del</strong>l’arrivo dei profughi dall’altra<br />

parte, magari nella speranza di qualche scena drammatica: profughi a piedi, sui cavalli, donne e<br />

bambini piangenti. Qualche settimana fa una macchina è scoppiata su una mina, prima di<br />

attraversare il confine. Fotografi e cameraman sono stati accontentati: lavoro e voyeurismo di<br />

guerra ben miscelati. Di corsa dall’altra parte <strong>del</strong> confine arrivano degli uomini saltellanti con<br />

una barella fatta di due assi metallici e un telo sbrin<strong>del</strong>lato. Sopra c’è sdraiata una donna<br />

anziana: è contadina, ha le rughe profonde sul viso e un fazzoletto che le raccoglie i capelli. E’<br />

accovacciata sulla barella e ha gli occhi socchiusi e gonfi. Non sta dormendo: sa di avere su di<br />

lei macchine fotografiche e cineprese e non vorrebbe mostrarsi. Fa una smorfia come per<br />

trattenere il pianto. Due cameraman con una spinta mi fanno da parte. Finite le riprese si<br />

presenta un giornalista <strong>del</strong> TG2: “Sono qui da 20 giorni. Avete qualche cosa interessante da far<br />

vedere nei vostri campi ?” C’è con me Alessandro che lo tratta un po’ sbrigativamente. Ne sono<br />

sorpreso, anche Anna Eva (responsabile nell’ICS <strong>del</strong>le relazioni esterne e <strong>del</strong>la comunicazione)<br />

lo guarda con preoccupazione: tutti noi siamo sempre molto disponibili (qualche volta servili?)<br />

con i giornalisti nella speranza di una citazione, un articolo, un servizio. Alessandro lo tratta alla<br />

pari, anzi sembra volergli fargli capire che abbiamo cose ben più importanti da fare che<br />

dedicargli qualche ora di tempo per un servizio “di colore” di tre minuti in televisione. Gli fa la<br />

descrizione <strong>del</strong>le nostre attività, ma non gli dà soddisfazione: “ Vieni quando vuoi, noi ci trovi là<br />

“. Alla fine gli Alessandro dà il suo numero di telefono, ma sbagliato.<br />

Nel campo di Blace sono ospitate 5-6mila persone; la situazione è drammatica. I soldati<br />

macedoni non vogliono farci entrare, ma poi riusciamo a convincerli. Alessandro incontra un suo<br />

conoscente di Pristina. Si riconoscono e si abbracciano. E’ scappato la notte prima, l’hanno<br />

portato alla stazione dei pullman dei dove li hanno caricati. Hanno lasciato tutto lì. Si sono<br />

portati l’indispensabile: qualche vestito, i pochi averi, qualche pentola per cucinare. Chiede di<br />

telefonare per rintracciare sua sorella che sta in Germania. Alessandro gli dà il suo cellulare.<br />

Quando vedono un profugo che sta telefonando, gli altri profughi si avvicinano e fanno<br />

capannello. Alessandro mi indica una radura, vicino alla zona di confine: “Quella è la ‘terra di<br />

nessuno’. Lì si sono assiepati per giorni oltre 30-40mila profughi. Il governo macedone non li<br />

voleva fare entrare. Poi all’improvviso una parte dei profughi è scomparsa. L’hanno ritrovata in<br />

Albania due giorni dopo. Il governo albanese e la NATO li hanno caricati sui pullman e li hanno<br />

portati a Korca“. La radura è verdissima, ci sono alberi i cui rami diradano su un corso d’acqua<br />

trasparente. Intorno ci sono una vallata e monti folti di vegetazione che si inerpicano


improvvisamente. Nella raduna ci sono ancora sacchi, tendine, immondizia, panni appesi sui<br />

rami degli alberi, come il letto di un fiume dopo il passaggio di una piena. E appena subito<br />

sopra le centinaia di tende <strong>del</strong> campo profughi su una spianata polverosa ricavata da una<br />

pendice <strong>del</strong>la collina. Nessuno grida, piange, parla. Il silenzio continua ad essere totale, irreale.<br />

Non ci sono altoparlanti che fanno annunci, non ci sono persone che urlano, non ci sono jeep o<br />

camion che rombano. Tutto è fatto in sordina. C’è una fila ordinata e tranquilla davanti<br />

all’infermeria e alla registrazione: senza l’autorizzazione <strong>del</strong> governo, da qui i profughi non<br />

escono. Alessandro vuole far uscire il suo amico “ Garantiamo noi, l’ICS. Lui a Skopije ha una<br />

sua cugina “. <strong>Le</strong> donne sono sedute vicino alle tende. Alcune fanno con calma dei primi lavori:<br />

risciaquano <strong>del</strong>le magliette, lavano <strong>del</strong>le sco<strong>del</strong>le. I bambini non giocano. Gli uomini si aggirano<br />

per il campo in cerca di una notizia, di una conferma, di qualcuno che possa aiutarli. <strong>Le</strong> varie<br />

ONG internazionali si sono divise il lavoro: chi fa l’ambulatorio, chi la mensa, chi i servizi. I<br />

militari, dopo aver montato le tende, guardano o sono sulle ruspe e i muletti meccanici a<br />

smuovere terra o a portare pacchi.<br />

Ci muoviamo dopo un paio di ore da Blace e andiamo al campo di Stenkovac, che è lì vicino, a<br />

pochi chilometri sulla strada che porta a Skopije. Il campo è gestito dalla NATO con l’ACNUR. E’<br />

una spianata immensa: centinaia di tende piantate sulla pista di un vecchio aeroporto. Il clima è<br />

completamente diverso. Sembra un immenso villaggio, uno strapaese balcanico. Ci sono<br />

baracche all’interno dove si vendono sigarette, caramelle, si fanno caffè. I militari <strong>del</strong>le NATO e i<br />

funzionari <strong>del</strong>le Nazioni Unite hanno autorizzato l’apertura di piccoli negozietti e c’è un via vai<br />

di uomini, attrezzi, macchine, biciclette. Il campo è spazioso: tra una tenda e l’altra c’è<br />

sufficiente distanza. Non c’è l’ammasso di altre tendopoli. Il campo è diviso in settori: ciascuno<br />

è subappaltato ad altrettante organizzazioni non governative internazionali. Sciami di persone<br />

ci vengono incontro. Ci dirigiamo verso un punto dove trasmettono con un mixer <strong>del</strong>la<br />

assordante musica da discoteca. Vediamo <strong>del</strong>le bandiere israeliane. Sono quelle di una<br />

organizzazione umanitaria di Tel Aviv che gestisce una sorta di villaggio di teenager e parco<br />

giochi per bambini. Dentro c’è proprio una discoteca: volontari che ballano con i profughi. In<br />

ogni angolo di questo “parco giochi” ci sono animatori che organizzano esibizioni, giochi a<br />

premi, lotterie. Gli animatori hanno tutti la faccia incredibilmente sorridente e gioiosa, un po’<br />

forzata, esagerata come quella degli animatori dei villaggi Valtur. I bambini e i ragazzi profughi<br />

in effetti si divertono tanto: saranno due-trecento. E gli altri ? Uscendo da lì ne vediamo tanti<br />

con altro umore: chi s’aggira con le mani in tasca, chi consola i propri vecchi, chi è steso sulla<br />

stuoia a fissare il vuoto o ha l’orecchio incollato ad una radiolina che dà le notizie. Anche da qui<br />

i soldati macedoni, i profughi non li fanno uscire; solo quando troveranno un posto in Europa.


24 MAGGIO<br />

Finalmente vado - sempre insieme ad Alessandro e ad Anna Eva - a visitare il campo di Senokos,<br />

dove l’ICS svolge <strong>del</strong>le attività di animazione per i bambini <strong>del</strong> campo. Ci sono 6-7mila persone.<br />

<strong>Le</strong> condizioni qui sono terribili: le tende sono ammassate l’una sull’altra. I servizi igienici sono<br />

insufficienti e i bagni sono <strong>del</strong>le buche in gabbiotti appena tirati. Ogni tanto arriva un trattore e<br />

con un tubo aspirante porta fuori dalle fosse la merda. Il lezzo è insopportabile. I bambini<br />

piccoli vanno, a piedi nudi, a fare i loro bisogni in questi bagni dalle buche enormi. Giocano in<br />

mezzo al fango. E’ pieno di mosche. Tra un po’ qui farà caldo e le malattie saranno inevitabili.<br />

Nelle tende ci sono dieci-dodici gradi in più. E siamo a 26-27 gradi all’ombra. Anche qui i<br />

profughi dal campo non vengono fatti uscire. Sono dei reclusi. Alessandro mi dice che una <strong>del</strong>le<br />

prossime iniziative sarà con gli anziani <strong>del</strong> campo: li porteranno a fare una passeggiata nel<br />

bosco adiacente e a fare una “merenda”, una sorta di scampagnata. Nutro qualche dubbio;<br />

molti di loro hanno fatto decine di chilometri a piedi per scappare dai serbi, e noi li portiamo a<br />

fare una passeggiata ? Mi sbaglio. L’iniziativa ha una grande successo: uscire dalla prigione <strong>del</strong><br />

campo e respirare <strong>del</strong>la buona aria tra gli alberi (e anche mangiare qualcosa di diverso dalla<br />

solita razione <strong>del</strong> campo) sono buoni motivi per iscriversi all’iniziativa. Devo dire che<br />

Alessandro - che pure è un po’ ansioso: si preoccupa sempre eccessivamente di tutto - ci sa<br />

fare: ha un buon rapporto con gli operatori e stabilisce un rapporto diretto con tutti, è sempre<br />

sorridente, infonde fiducia e sicurezza: bambini e profughi, come ai funzionari <strong>del</strong>le Nazioni<br />

Unite.<br />

Proseguiamo nel nostro viaggio. Siamo a Tetovo, la seconda città <strong>del</strong>la Macedonia, a grande<br />

maggioranza albanese. Qui si è rifugiata la leadership kosovara. Andiamo alla sede <strong>del</strong> Koha<br />

Ditore, il giornale di Surroi, che non sappiamo che fine abbia fatto. Federico Bugno a fine marzo<br />

si è fortunatamente sbagliato (era una notizia data dalle agenzie internazionali): Baton Haxiu è<br />

vivo e sappiamo che dovrebbe stare in redazione. Andiamo alla sede <strong>del</strong> giornale (che adesso<br />

dovrebbe essere distribuito gratuitamente in tutti i campi, grazie al sostegno finanziario <strong>del</strong><br />

governo inglese e francese) che consiste in uno stanzone di 30 metri quadri, con dei tavoli<br />

contro il muro, sui quali ci sono una dozzina di computer. Sfortunata la sorte di questo giornale;<br />

la sua sede e le sue apparecchiature sono state incendiate per due volte a Pristina. Tutti<br />

lavorano silenziosamente, dandoci le spalle. Chiediamo di Baton. Niente da fare; è a Tirana.<br />

Andiamo a vedere la “playroom” nella città, che abbiamo costruito noi. Sono dei centri in cui<br />

facciamo giocare e studiare i bambini profughi, insieme ai bambini macedoni. In certe aree la<br />

situazione sociale dei macedoni non è buona; è importante (lo stesso problema, forse più<br />

accentuato, è riscontrabile in Albania) non creare discriminazioni di trattamento tra i profughi e i


locali, e favorire una certa integrazione.<br />

25 MAGGIO<br />

In ufficio a Skopije sono oggi al lavoro quasi tutti. Ci sono quattro impiegati locali, tutti di<br />

Skopje. Sono tutti molto bravi. C' è Guglielmo, che segue le attività di animazione - è un<br />

napoletano che vive a Milano, lavora nel teatro, s’è preso un’aspettativa fino alla fine <strong>del</strong>l’annoed<br />

è molto bravo; si inventa sempre nuovi giochi e attività da fare. E’ molto attivo con i bambini<br />

e ha molta fantasia. E’ arrivata oggi anche Susanna, che è la ragazza di Maurizio (che adesso sta<br />

con noi a Podgorica, in Montenegro), si occuperà di contabilità. Anna Eva e Alessandro lavorano<br />

alla stesura <strong>del</strong>la continuazione <strong>del</strong> programma dei campi: parlano di cose da fare, di tempi da<br />

rispettare, di soldi da richiedere. L’ACNUR è in ritardo sui pagamenti.<br />

1 GIUGNO<br />

La presidenza jugoslava fa sapere informalente al governo tedesco di accettare il piano<br />

<strong>del</strong> G8.<br />

Scoppia il casino su Aviano, la base militare da dove partono i bombardieri per la Serbia (stiamo<br />

organizzando una manifestazione per domenica prossima). Il questore di Pordenone, in prima<br />

pagina sul Gazzettino in un’intervista dice: non so se autorizzerò la manifestazione, e se i<br />

manifestanti proveranno a entrare nella base gli americani spareranno e comunque la polizia<br />

interverrà con forza. Luca Casarini (centri sociali <strong>del</strong> nordest) fa una dichiarazione alzando i toni,<br />

paventando ribellioni in piazza, tagli di rete, accerchiamenti <strong>del</strong>la base, ecc.<br />

2 GIUGNO<br />

Continua il trambusto sulla manifestazione ad Aviano. Il questore di Pordenone si è rimangiato<br />

le parole. La Jervolino sta parlando con tutti. Stasera incontra (grazie all’intervento di Manconi) i<br />

centri sociali e Casarini, che mi fa una telefonata con il suo linguaggio colorito: “ Sì, noi ci<br />

andiamo nudi, a mani alzate, scalzi a Aviano. Ma ci devono dare almeno tre ore in cui gli aerei<br />

non volino. Jervolino ce lo deve garantire. Altrimenti saranno guai e se ne assumerà la<br />

responsabilità”. Liberazione mi chiede un articolo e glielo scrivo. Critico senza nominarlo<br />

Casalini, le azioni esemplari e le minacce di violenza. Paolo Ferrero mi chiama a mezzanotte e ci<br />

scambiamo le impressioni su quello che può succedere. Dice: “ Siamo circondati da politicanti e<br />

furbi”. Torna di nuovo sul rapporto tra politica e comportamenti: “Il fatto paradossale è che al


massimo di radicalità <strong>del</strong> gesto -che so, tagliare reti, invadere basi, ecc.- corrisponde il minimo<br />

<strong>del</strong>l’obiettivo politico<br />

4 GIUGNO<br />

La NATO annuncia le perdite inflitte ai serbi: 5.000 soldati uccisi e 10.000 feriti.<br />

Conferenza stampa per la manifestazione di Aviano all’Hotel Nazionale. Prima facciamo una<br />

breve riunione. Litigo con Casarini. Sono irritato anche perché quando avevamo deciso di<br />

convocare la manifestazione avevamo fatto un patto: niente violenze, la manifestazione<br />

avrebbe dovuto essere pacifica. Adesso il fatto che “gli aerei non volino per due ore” è diventata<br />

una discriminante per il carattere pacifico <strong>del</strong> corteo. Gli dico che se serve faremo come pacifisti<br />

interposizione tra la base e i centri sociali. Lo provoco volutamente per farlo uscire dai proclami:<br />

“Che volete fare, se ci interponiamo tra voi e le reti <strong>del</strong>la base, menare i pacifisti ?”. Casarini mi<br />

aggredisce e poi insiste: “ Se non fermano gli arerei, tagliamo le reti”. Continuiamo a discutere.<br />

Dopo un po' troviamo un accordo. La manifestazione si deve concludere unitariamente, senza<br />

incidenti. Poi, se loro se ne vogliono andare a fare casini, si sposteranno da una parte almeno a<br />

500, 600 metri. Che vogliono fare ? Dicono: andare a mani alzate, con palloncini, mongolfiere e<br />

razzi fumogeni verso la base aerea, mettere “in gioco i nostri corpi”. La conferenza stampa di<br />

presentazione <strong>del</strong>la manifestazione di Aviano dura venti minuti. La sera arriva un comunicato di<br />

Don Bizzotto, dei Beati i Costruttori di Pace. Dice che non verrà alla manifestazione: è<br />

strumentalizzata da Casarini e dai Centri Sociali <strong>del</strong> Nord-Est.<br />

6 GIUGNO<br />

La trattativa per porre fine alla guerra avanza. Alla cessazione dei bombardamenti <strong>del</strong>la<br />

Nato, inizierebbe il ritiro <strong>del</strong>le forze armate serbe in 48-72 ore. La Russia fa resistenza<br />

sull’ipotesi che a guidare la forza multinazionale sul campo sia la Nato.<br />

Manifestazione ad Aviano. La tensione è alle stelle: c’è preoccupazione di incidenti. <strong>Le</strong><br />

conseguenze <strong>del</strong>l’assassinio di D’Antona si fanno ancora sentire: c’è aria di una nuova caccia<br />

alle streghe. Non tutti si fidano di quello che possono combinare i centri sociali: tenteranno di<br />

entrare nella base, di scavalcare le reti ? Per arrivare nel paese, bisogna fare dei complicati giri.<br />

Dei posti di blocco di carabinieri impediscono di costeggiare il perimetro <strong>del</strong>la base. I bar di<br />

Aviano stanno abbassando le saracinesche. In passato più volte ci sono stati incidenti in paese.<br />

Dopo un panino nell’unico bar trovato aperto, facciamo una riunione sotto un tiglio. I Cobas non


vogliono stare in fondo al corteo. Verranno con caschi e bastoni, ma non li utilizzeranno se non<br />

per difendersi dalla polizia: mi sembra di essere tornato indietro di 20 anni. Si fronteggiano a<br />

muso duro (e volano parole grosse) con Vilma e Casarini di Padova. I centri sociali duri (Firenze,<br />

Torino, Napoli) accusano più o meno Vilma e Casarini di essere filogovernativi e revisionisti,<br />

mentre i centri sociali <strong>del</strong> nord-est stigmatizzano questi “duri e puri” come “residuati”. Parte<br />

con difficoltà il corteo: prima le associazioni, poi centri sociali <strong>del</strong> nord est, poi Rifondazione.<br />

Alla fine, gli autonomi. Molta tensione, ma fortunatamente non succede niente. I militanti dei<br />

centri sociali <strong>del</strong> nord est si comportano bene, evitano provocazioni e non fanno niente che non<br />

fosse già stato concordato tra di noi. Migliaia di poliziotti e carabinieri difendono il perimetro<br />

<strong>del</strong>la base. All’interno ci sono altre forze schierate: poliziotti (o anche americani?). In effetti gli<br />

aerei per due ore non volano. C’è chi la rivendica come una “grande vittoria politica”, giudizio<br />

eclatante, che lascia il tempo che trova. Finita la manifestazione gli aerei riprendono a volare. La<br />

guerra però sta finendo, i serbi hanno già dichiarato di voler accettare le condizioni <strong>del</strong>la pace.<br />

9 GIUGNO<br />

Ieri riunione <strong>del</strong> G8 a Colonia. I ministri degli Esteri <strong>del</strong> G8 mettono a punto il testo di una<br />

risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza <strong>del</strong>l’ONU.<br />

La pace arriva. Sono in ufficio. Anna Eva ha parlato con l’ACNUR. Dice che quando rientreranno<br />

in Kosovo ci daranno la leadership <strong>del</strong>la gestione di tutte le attività con i bambini e gli anziani<br />

nei centri dove sono ospitati i rifugiati. Ci aspetta un lavoro tremendo. Bisogna prevedere di<br />

mandare altre persone anche in Macedonia. Mi chiama Bruno dall’Albania: “ l’ACNUR ci vuole<br />

affidare altri cinque campi, e qui i coordinatori sono stanchi, bisogna prevedere un ricambio. Ci<br />

sono problemi al campo di Golem. Il Sindaco ha avuto molti screzi con Carlo, che sta<br />

coordinando il dormitorio. L’hanno anche minacciato. Che facciamo ?“. La sera -dopo due mesi e<br />

mezzo- vado al cinema dopo tre mesi, insieme a Paolo e a Maria Silvia. Sono le dieci di sera,<br />

prima di entrare allo spettacolo. Anna Eva chiama Paolo: “Hanno fatto la pace, hanno<br />

annunciato la sospensione di bombardamenti “. Dopo il film sento i messaggi sulla segreteria<br />

<strong>del</strong> telefonino cellulare. C’è quello di Raffaella, e quello di Vilma: “ Un abbraccio da Padova. E’<br />

finita ! “.<br />

10 GIUGNO<br />

Il Consiglio di Sicurezza <strong>del</strong>l’ONU vota la risoluzione (1244) che pone fine alla guerra. La<br />

Nato annuncia la fine dei bombardamenti.


CAPITOLO V<br />

IRAQ, LA GUERRA INFINITA<br />

Bagdad, febbraio 2003<br />

La preparazione è stata tortuosa: vari incontri al consolato iracheno a chiacchierare con il<br />

console DF.P. per cercare di convincerlo a concederci il visto: si tratta di una procedura<br />

complessa, lunga e non è detto che vada a buon fine. I colloqui con il console sono anomali: ti<br />

fa accomodare su una poltroncina, ti offre un caffè in un clima di gentilezza e accoglienza<br />

inusuale, tutta orientale, si parla di un'ora <strong>del</strong>la situazione internazionale e di quello che dicono<br />

e pensano i politici italiani sull'Iraq (ovviamente la prudenza regna sovrana e le parole misurate<br />

e controllate al millimetro). Solo negli ultimi due minuti si parla in modo piuttosto sbrigativo<br />

<strong>del</strong>le procedure per il visto. “Faremo quello che è possibile, è difficile, sa... la situazione<br />

complessa...”, ecc. Da soli è praticamente impossibile andare in Iraq. Aggregandosi ai viaggi di<br />

Un ponte per... c'è qualche speranza.<br />

Il visto comunque arriva, due giorni prima <strong>del</strong>la partenza. Ho dovuto rifare il passaporto perché<br />

sopra c'era il visto israeliano. Di Iraq so poco. Fino ad oggi ho frequentato soprattutto Balcani e<br />

Palestina. <strong>Le</strong> differenze sono sostanziali, ma una è quella che mi pesa di più. Fino ad oggi -dove<br />

sono andato in missione umanitaria- è sempre stato possibile avere rapporti con gruppi di<br />

”società civile” e parlare con l'opposizione; qui in Iraq siamo in presenza di un regime, una<br />

dittatura, e l'unico interlocutore è il governo di Saddam Hussein. Il dubbio, allora, ci prende: è<br />

possibile fare azione umanitaria sotto una dittatura? E' possibile aiutare i bambini negli<br />

ospedali consegnandosi nello stesso tempo al silenzio di fronte ai massacratori dei curdi?<br />

E' possibile fare qualcosa per alcuni che soffrono, sapendo che il prezzo da pagare è quello di<br />

disinteressarti di un'altra categoria di vittime? E' certo: se parli male di Saddam Hussein vieni<br />

ricacciato indietro e qui non ci torni più. Ognuno ha le sue soluzioni: ad esempio quando Medici<br />

senza frontiere ha scoperto di essere utilizzata in Burundi come paravento per la creazione -<br />

attraverso la pulizia etnica- di nuovi campi profughi (fonte di aiuti internazionali per la<br />

dittatura), ha lasciato tutto (anche i malati che stava curando) e se ne è tornata a casa. L'aiuto<br />

umanitario senza i diritti umani (senza la denuncia <strong>del</strong>la loro violazione) è possibile? E a quale<br />

prezzo? E' questo il “dilemma umanitario” in cui molti si trovano, senza trovare una definitiva<br />

risposta. Ne parlo al ritorno <strong>del</strong> viaggio con David Rieff, figlio di Susan Sontag, e autore di un<br />

bel saggio “Un giaciglio per la notte”, in cui mette sotto tiro le ambiguità <strong>del</strong>l'azione umanitaria:


“L'azione umanitaria -mi dice- è talvolta solo un alibi per la carenza <strong>del</strong>l'iniziativa politica. Si<br />

mandano aiuti perché non si fa quello che si dovrebbe fare per rimuovere le cause <strong>del</strong>le<br />

emergenze e dei conflitti. E i diritti umani vengono sacrificati sull'altare di questo alibi che serve<br />

solo alla politica”.<br />

Quando parto per Bagdad (è il 12 febbraio <strong>del</strong> 2003), il mio libro per Feltrinelli: “<strong>Le</strong> ambiguità<br />

degli aiuti umanitari” è uscito da cinque mesi: metà <strong>del</strong>la comunità <strong>del</strong>le ONG mi ha tolto la<br />

parola, il direttore di una rivista non profit mi ha scritto una lettera di quattro pagine<br />

accusandomi di essere vanitoso, arrivista, ambizioso. Una importante dirigente<br />

<strong>del</strong>l'Associazione <strong>del</strong>le ONG mi lancia messaggi di tipo mafioso: “Guarda, smettila, altrimenti<br />

dico tutte le cose che so di ICS”. Che sa? Cerco di farmelo dire. “Non insistere, altrimenti finite<br />

male”. Avvertimenti paramafiosi. Un ex funzionario <strong>del</strong>le Nazioni Unite, che ora fa il volontario<br />

con ICS, rompe i rapporti e mi dice che sono diseducativo verso i giovani. In effetti sono stato<br />

impietoso verso i funzionari <strong>del</strong>l'ONU. Ma sono più diseducativi loro con i loro stipendi, i loro<br />

privilegi, il loro arrivismo. Da qualche mese il mondo umanitario è attraversato da una<br />

fibrillazione continua: si sente messo in discussione, i panni sporchi vengono lavati all'aperto e<br />

ci sono degli “infiltrati” che rompono l'omerta corporativa <strong>del</strong>la “categoria” di quegli operatori<br />

umanitari, piegati o al business <strong>del</strong>l'aiuto o alla logica <strong>del</strong>la guerra umanitaria.<br />

Al posto di blocco tra la Giordania e l'Iraq, il controllo dei passaporti e <strong>del</strong>la dogana è quello<br />

solito dei regimi dittatoriali o in guerra: lunghe attese, controlli minuziosi, trafile burocratiche<br />

senza senso, tra timbri, moduli da riempire, registri da compilare, visti da ricopiare. Inclusi gli<br />

sguardi accigliati e per niente socievoli dei funzionari e dei soldati su cui incombono -in stanze<br />

disadorne e sciatte come tutte quelle dei posti di frontiera- vari ritratti di Saddam raffigurato in<br />

tutti i modi: solenne e sportivo, cacciatore e animatore di bambini, sorridente e severo, ecc.<br />

Siamo nel mezzo <strong>del</strong>la notte -infreddoliti nella landa desertica che separa i due paesi- e<br />

dobbiamo aspettare l'alba -quando riaprirà la frontiera- per poter passare. Il viaggio è stato sino<br />

ad ora lungo (quattro ore di aereo e un paio di macchina) e lo sarà ancora molto (altre otto ore<br />

di viaggio in mezzo al deserto). Aerei da Amman a Bagdad -da tempo- non ce ne sono più,<br />

ormai. E' l'embargo.<br />

Superiamo finalmente la frontiera. Siamo in Iraq. Attraverso una lunga autostrada corriamo per<br />

6-7 ore incontrando al massimo una decina di macchine. Di militari iracheni, nessuna traccia.<br />

Bagdad è città ordinata, ritratti di Saddam sui palazzi e pochi soldati per le strade. Siamo in un<br />

grande e vecchio albergo statale mal messo. Il nostro gruppo -una quarantina di persone- si<br />

riunisce per organizzare le iniziative progettate: incontri e visite, fino ad una manifestazione per<br />

la pace -il 15 febbraio- in contemporanea a quelle che si svolgono in tutto il mondo (e a Roma)


contro l'intervento militare in Iraq. Io mi svincolo un po' dal gruppo per seguire un mio<br />

personale programma di appuntamenti e visite.<br />

Il primo che chiamo -dopo numerose telefonate improvvisamente interrotte: ovviamente il<br />

numero è sotto controllo- è David Bellamy, il responsabile <strong>del</strong>l'UNHCR (l'Alto Commissariato<br />

<strong>del</strong>le Nazioni Unite per i Rifugiati) a Bagdad. Non lo conosco, ma è affabile e mi invita subito ad<br />

andarlo a trovare. Mi accoglie nella sua sede -tutto sommato semplice e sobria. Ha i baffi, è alto<br />

e sembra un attore di soap <strong>del</strong>la BBC: una specie di Peter Sellers meno trasanadato.<br />

Chiacchieriamo, è giovale e mi invita a cena per l'indomani. Scopro dopo pochi minuti di<br />

conoscenza la ragione di questa affabilità e disponibilità. A Bagdad è solo: le Nazioni Unite<br />

hanno fatto sloggiare la sua famiglia e anche di funzionari internazionali ne sono rimasti pochi.<br />

Un po' il cameratismo tra operatori umanitari (governativi e non), un po' la solitudine, un po' la<br />

rarità <strong>del</strong>le visite degli occidentali fanno di Bellamy un interlocutore disponibile e gradevole.<br />

Parla molto, mi spiega molte cose <strong>del</strong>l'Iraq. Ascolto, imparo. E' la mia prima volta. Quando<br />

siamo nella sede <strong>del</strong>le Nazioni Unite, non nomina mai Saddam Hussein, ma si passa la mano sui<br />

baffi per farmi capire che sta parlando di lui. Anche la sede <strong>del</strong>le Nazioni Unite è infestata di<br />

microfoni <strong>del</strong> regime. Ha un modo tutto suo di farsi volere bene dagli iracheni: stringe la mano a<br />

tutti in modo particolare, non caloroso, ma con grande rispetto e dignità. Ogni stretta di mano<br />

sembra un evento importante. Stringe la mano all'autista che ci porta al ristorante, al cameriere<br />

che ci accoglie sulla porta, all'edicolante quando compra il giornale, al venditore di quadri nella<br />

galleria d'arte, al giardiniere che annaffia le piante di casa. Per ognuno ha un sorriso e un saluto<br />

dignitoso. La sua casa -una grande villa da diplomatici- nel quartiere residenziale di Mansur è<br />

vuota, triste e un po' angosciante. Ha due piani e una scala paraboloide che sembra quella <strong>del</strong>le<br />

ville old fashioned <strong>del</strong> profondo sud degli Stati Uniti. Seguiamo insieme al notiziario <strong>del</strong>la CNN il<br />

servizio su una seduta <strong>del</strong> consiglio di sicurezza in cui si parla di Iraq. Mi spiega le dinamiche, i<br />

contrasti e le alleanze nelle Nazioni Unite. E' ad un anno dalla pensione: mi racconta dei paesi<br />

che ha girato, <strong>del</strong>le missioni che ha avuto. E' comprensivo verso gli iracheni e critica -in modo<br />

diplomatico, ovviamente- gli americani per l'atteggiamento arrogante ed aggressivo verso il<br />

paese. Non riesce a capire le ragioni di questo comportamento. Poi passiamo agli argomenti di<br />

carattere umanitario e al ruolo <strong>del</strong>l'agenzia <strong>del</strong>le Nazioni Unite: “Delle agenzie internazionali<br />

l’UNHCR è quello che ha il ruolo minore. Attualmente l'agenzia ha il mandato sui profughi<br />

stranieri residenti in Iraq (iraniani, curdi-turchi, palestinesi), in sostanza circa 30mila profughi e<br />

lavora direttamente con il governo (che è molto generoso con i profughi) e prioritariamente con<br />

le organizzazioni locali. Non collaboriamo con le ONG internazionali (tra l’altro nel Kurdistan<br />

iracheno dove hanno l’intervento più importante non possono collaborare con le ONG che<br />

arrivino dall’Iran –cioè tutte- perché entrate illegalmente in Iraq: ma questo è l’unico modo per<br />

entrate nel Kurdistan iracheno”. Hanno un budget modestissimo, 1 milione di dollari. In caso di


emergenza umanitaria non avranno mandato sull’assistenza agli sfollati interni (sarà <strong>del</strong>le altre<br />

agenzie, in particolare di Unochi, l'agenzia umanitaria <strong>del</strong>l'ONU per l'Iraq), ne prevedono<br />

600mila (al massimo faranno solo la protection) mentre il grosso dei rifugiati previsti (800mila)<br />

secondo loro andrà in Iran e in Siria; la Giordania ha annunciato di chiudere le frontiere”. Mi<br />

racconta tutto ciò a cena in ristorante con una bottiglia di vino che ci siamo portati da casa e<br />

sta sotto il tavolo avvolta in un foglio di giornale (per rispetto verso i costumi religiosi locali)<br />

accanto ad un sacchetto di carta con centinaia di biglietti di dinari iracheni (l'inflazione è a livelli<br />

stratosferici), che serviranno a pagare il conto.<br />

Il giorno successivo, mi inoltro vicino all'Hotel Palestine, dove c'è il capo missione, Carel De<br />

Rooy, un olandese, determinato e motivato, abituato a trattare con le ONG in cerca di<br />

finanziamenti. E' smaliziato, ma serio. L’Unicef ha un programma più consistente, 10 milioni di<br />

dollari (bilancio proprio), più i fondi che utilizza attraverso l’Unochi (programma Oil for Food,<br />

non ho capito quanti soldi sono, ma devono essere tanti). I loro interventi –tenuto conto che la<br />

malnutrizione infantile non è solo la mancanza di cibo, ma una dieta povera (60% <strong>del</strong>le donne<br />

sono anemiche), la situazione sanitaria (le acque inquinate al sud sono un fatto generalizzato),<br />

la povertà, la descolarizzazione per cui il 25% dei bambini e 1/3 <strong>del</strong>le bambine non vanno a<br />

scuola- sono: a) monitoraggio sulla situazione sanitaria dei bimbi (più o meno un milione), b)<br />

interventi di supplementary feeding per i bimbi, c) ristrutturazione di scuole (500) ed ospedali<br />

(63) pediatrici, d) interventi sulla potabilizzazione <strong>del</strong>le acque, e) interventi di educazione<br />

informale, ecc. Lavorano con ONG internazionali (tra cui Care ). Insieme al governo hanno creato<br />

2.800 centri di monitoraggio e di distribuzione di cibo per i bambini (Community Child Care<br />

Units) che coinvolgono ben 13mila volontari locali. Ho cercato di capire cosa possiamo fare noi e<br />

lui mi ha chiesto qual è il nostro comparative advantage, rispetto alle altre ONG. Mi dice che se<br />

facessimo qualcosa che ha a che fare con l’educazione di quel 1/3 di bambine che non vanno<br />

più a scuola, loro sarebbero molto contenti. De Rooy ci consiglia di non disperderci e di<br />

concentrarci su un’unica area (in questo senso Bassora, va molto bene). L’impressione è che si<br />

può fare qualcosa -un progetto, una proposta- con l'Unicef; ma dobbiamo fargli noi una<br />

proposta, una volta fatto l’assessment, rimanendo nell’area di Bassora.<br />

Continuo il mio pellegrinaggio tra le organizzzioni umanitarie. Il terzo incontro è quello con il<br />

World Food Program. Vedo il capo missione Torben Due e il suo collaboratore Tarek Elguindi<br />

(ccordinator/food observation). L'incontro è nella sede <strong>del</strong>le Nazioni Unite: solo sei mesi dopo<br />

(in agosto) verrà distrutta da un attacco terroristico dove perderà la vita il vicesegretario<br />

<strong>del</strong>l'ONU Sergio Viera de Mello. Sono entrambi molto disponibili, l’atmosfera è buona. Il loro è<br />

un intervento enorme (da quello che ho capito sono inseriti nella la cornice deò programma “Oil


for Food” (OFF) in base al quale il 70% dei ricavi dalla vendita <strong>del</strong> petrolio va nell’acquisto di<br />

beni alimentari) dato che di fatto viene data assistenza alimentare a tutto il paese: tutte le<br />

famiglie hanno una tessera con la quale prelevare la razione di base mensile presso magazzini<br />

governativi. Saddam, per motivi di propaganda, ha già distribuito i buoni-razione fino a giugno<br />

(razioni che poi magari vengono vendute sul mercato). La dinamica <strong>del</strong>le relazioni tra la<br />

distribuzione gestita direttamente dal governo e quella che fa il WFP (World Food Program) è<br />

molto stretta.<br />

Il WFP gestisce direttamente i soldi di OFF e una parte <strong>del</strong>la distribuzione presso i magazzini<br />

governativi e nelle aree più complicate (nord, campi profughi, alcune aree <strong>del</strong> sud). C'è la<br />

possibilità di lavorare con WFP. Loro ci consigliano: a) di concentrarci sul sud <strong>del</strong>l’Iraq (Bassora,<br />

e non solo), b) di fare un coordinamento con altre ONG presenti sul campo. In ogni caso: se<br />

andiamo giù e siamo un minimo operativi, sicuramente con loro chiudiamo qualcosa. In caso di<br />

emergenza, WFP gestirà direttamente la distribuzione di cibo e questo aprirebbe enormemente<br />

gli spazi di collaborazione.<br />

Andando all'Hotel Palestine -dove è in funzione l'unico internet point cui hanno accesso gli<br />

occidentali- incontro alcuni rappresentanti <strong>del</strong>le ONG internazionali, tra cui Care, Enfants du<br />

Monde, Premiere D’Urgence, Norwegian Aid, ecc. MSF sta aprendo adesso (ancora in attesa <strong>del</strong><br />

permesso) un ufficio con sette espatriati. La sede elle ONG sono praticamente tutte nell’albergo<br />

Al Fanar (in Iraq non si possono affittare case per sedi e alloggio). Delle italiane quelle che si<br />

stanno dando da fare per entrare sono GVC, Intersos, Cosv e Terres des Hommes. <strong>Le</strong> ONG in Iraq<br />

non sono molte e rigorosamente sotto controllo: se criticano Saddam vengono espulse.<br />

Tre giorni passano in fretta ed è ora di ripartire. Notizie dall'Italia: grande manifestazione di<br />

3milioni di persone a Roma (è il 15 febbraio) contro la guerra. Speriamo che serva a fermarla.<br />

Altre decine di manifestazioni in giro per il mondo e anche qui abbiamo fatto la nostra in un<br />

centinaio di persone (rappresentanti <strong>del</strong>le ONG internazionali presenti a Bagdad). Conferenza<br />

stampa e ultimi incontri con gli operatori locali. Poi, ultima cena con il gruppo dei volontari<br />

italiani presenti a Bagdad, che rimarrà nella città ancora un paio di giorni. Parto a mezzanotte<br />

con la jeep. Ho l'aereo ad Amman in mattinata. I pesci di fiume messi a cucinare sulla brace,<br />

dopo due ore non sono ancora cotti. Mangiamo solo pane. Con Giuliana Sgrena (che è qui per<br />

conto <strong>del</strong> manifesto) prendiamo un taxi, ci scambiamo le impressioni su quello che può<br />

succedere da qui a breve (anche lei rimane a Bagdad ancora per alcuni giorni) e ce ne<br />

ritorniamo nei nostri alberghi. Mi aspettano il fuoristrada e molte ore di viaggio verso Amman.


Bagdad e Bassora, luglio 2003<br />

E’ l’alba quando passiamo il confine giordano-iracheno. Come quattro mesi fa, poco prima<br />

<strong>del</strong>l’inizio <strong>del</strong>la guerra. Qualche differenza è evidente: un campo di profughi palestinesi e<br />

sudanesi (saranno un migliaio) è spuntato nella terra di nessuno: scappavano dall’Iraq, ma in<br />

Giordania non li fanno entrare. E indietro non ci vogliono tornare. Non si possono fotografare o<br />

riprendere: i poliziotti giordani ti sequestrano le macchine da presa. Non ci si può avvicinare. <strong>Le</strong><br />

tende sono dei lenzuoli leggeri appena appoggiati a <strong>del</strong>le strutture traballanti. Una spianata<br />

sorda e polverosa di centinaia di tende nel deserto, senza coperture e teloni, al sole dei 50 gradi<br />

di questo periodo. Qualche profugo tenta di avvicinarsi alle macchine di passaggio, ma viene<br />

ricacciato indietro dal pronto intervento <strong>del</strong> guardiano giordano. Altra differenza: tutti i ritratti di<br />

Saddam distrutti o cancellati; in una stanzetta, di 20 metri quadri ce n’era (allora) una<br />

quindicina di diverse fattezze e colori: foto e dipinti, primi piani e scene di caccia con sempre il<br />

dittatore protagonista. Non ne è rimasta più nessuna. E poi –terza novità- gli americani, i soldati<br />

americani: giovani, giovanissimi, per niente affatto spavaldi, impauriti, molti sbarbatelli.<br />

Guardano sonnacchiosi dai loro blindo impolverati e da quegli orrendi Humvee (le blindo-jeep<br />

piatte e larghissime con <strong>del</strong>le mitragliatrici appostate in alto); lasciano fare il personale<br />

iracheno che controlla passaporti e macchine. Per noi, nessun sorriso. Sembrano non avere<br />

parole, sono stanchi; più che “rambo muscoli gonfiati” –sono gracili nelle divise più grandi,<br />

alcuni con gli occhialoni da secchioni e faccette impaurite- sono dei ragazzi ventenni dalla<br />

provincia americana che magari hanno bisogno di soldi: per avviare un negozio o per pagarsi gli<br />

studi.<br />

Dal confine a Baghdad ci sono ancora 6-7 ore di viaggio. Dipende dalla velocità (folle) con la<br />

quale gli autisti <strong>del</strong>le potenti jeep che ci accompagnano. Siamo con una <strong>del</strong>egazione di<br />

organizzazioni umanitarie: in tutto una quindicina. L’autostrada fino a Baghdad è a quattro<br />

corsie e scarsamente frequentata (e solo un paio di volte incontreremo qualche colonna di<br />

soldati americani); bisogna proteggersi da eventuali assalti di banditi e predoni; è già successo<br />

ad un convoglio di Medecins du Monde che solo un paio di giorni prima è stato completamente<br />

saccheggiato. Soprattutto nelle vicinanze di Baghdad, intorno a Chaladi e Falluja, i rischi sono<br />

seri: lì ancora si combatte. Ci sono giornalieri attentati e imboscate. Non incontriamo<br />

praticamente nessun mezzo militare (iracheno) distrutto o abbandonato. Dov’è stata la guerra?<br />

Non ci succede niente né a Chaladi, né a Falluja ed entriamo tranquillamente a Baghdad. La<br />

città è più caotica <strong>del</strong>la volta precedente. Il traffico impazzito, le macchine contro mano. Tanta<br />

gente per strada. Di pattuglie americane non così tante; ovviamente il grosso <strong>del</strong>l’esercito


americano se ne sta ben rinchiuso nella “zona verede”, nei lussuosi palazzi presidenziali di<br />

Saddam. Un modo per evitare di fare troppo da bersaglio agli attentati che in questi giorni<br />

stanno crescendo. Ministeri e sedi <strong>del</strong> governo sono state più o meno tutte colpite; con una<br />

certa precisione. Anche perché generalmente queste si trovano lontano dai quartieri abitati.<br />

Passiamo davanti al ministero <strong>del</strong> petrolio; è intatto e controllato massicciamente dai soldati<br />

americani. Qui sembrano più aggressivi, nervosi, pronti a sparare, con il dito già sul grilletto<br />

<strong>del</strong>le loro mitragliatrici enormi. Lungo il Tigri la strada impazzisce: vanno tutti contro mano e<br />

l’ingorgo è pauroso. Gli americani hanno bloccato una direzione <strong>del</strong>la strada all’altezza<br />

<strong>del</strong>l’Hotel Palestine (dove il regime aveva confinato i giornalisti): hanno paura di attentati ed<br />

evitano il passaggio di macchine nelle vicinanze. In alto il muro scheggiato <strong>del</strong> balcone<br />

<strong>del</strong>l’Hotel colpito da un carro armato americano, che ha ucciso un giornalista spagnolo.<br />

Avevano detto che il carrista si era sbagliato, scambiando la macchina da presa per un fucile. Lo<br />

sapevano tutti che al Palestine c’erano solo giornalisti, ma facciamo la prova ad occhio nudo: si<br />

riconoscerebbe facilmente la differenza tra un fucile e una macchina da presa. A maggior<br />

ragione le mirino di precisione di un cannoncino di carro armato.<br />

Iniziano gli incontri politici. Siamo qui per capire cosa sta succedendo, come la pensano gli<br />

iracheni, per vedere cosa possiamo fare. Il primo incontro è con il responsabile esteri dei<br />

comunisti iracheni. Un politico con mestiere e professione. Ragionevole, intelligente, moderato:<br />

contento di essere stato invitato dalla Ma<strong>del</strong>eine Albraight in Giordania per un convegno di un<br />

istituto di studi americano contrario alla linea di Bush. E’ per l’economia di mercato e non è<br />

contrario alle privatizzazioni (per lo meno non a tutte). Sarà il politico più sano e intelligente che<br />

incontriamo. I comunisti hanno creato le loro ONG (come hanno fatto con ben più diffusione gli<br />

islamisti) e anche associazioni di donne come la Women <strong>Le</strong>ague, che temono di essere<br />

discriminate ed emarginate dalla presa <strong>del</strong> potere degli islamisti.<br />

Incontriamo esponenti degli altri partiti (islamici, progressisti, ecc.) <strong>del</strong> sindacato, <strong>del</strong>le<br />

organizzazioni <strong>del</strong>le donne (Iraqi Women <strong>Le</strong>ague), <strong>del</strong>le istituzioni religiose sunnite, sciite e<br />

cristiano-caldea (il Vescovo <strong>del</strong>la città), <strong>del</strong>le ONG locali (Tammuz, vicine al partito comunista<br />

iracheno), dei media indipendenti (Al-Muajaha, un nuovo settimanale finanziato dai pacifisti<br />

americani), le organizzazioni culturali (il Circolo degli Artisti, presenti pittori, teatranti, scrittori),<br />

ecc. Prima di iniziare il programma di incontri ci siamo riuniti con gli operatori <strong>del</strong>le ONG (Ics, Un<br />

Ponte per… Terres des Hommes, Intersos) con le quali ICS condivide l’ufficio a Baghdad,<br />

incontro nel quale abbiamo potuto fare il punto <strong>del</strong>la situazione umanitaria <strong>del</strong>la città dei<br />

progetti in corso, <strong>del</strong>le difficoltà che si incontrano sul campo, dei rapporti con le autorità e le<br />

istituzioni internazionali. Ci sono Simona Torretta (che fino a poco tempo prima ci ha aiutato a


coordinare il Tavolo per gli aiuti con il popolo iracheno), Ernesto Bafile e altri. Simona fino a<br />

gennaio, ci aiutava a coordinare -dalla sede romana <strong>del</strong> Ponte- il Tavolo di coordinamento per<br />

l'Iraq: era un po' la segretaria <strong>del</strong>la struttura e ci aiutava a tenere le comunicazioni e i contatti.<br />

Ma ha sempre voluto andare e stare in Iraq; e così a fine febbraio -prima <strong>del</strong>l'inizio <strong>del</strong>la guerraè<br />

andata a Bagdad e ci è rimasta sotto le bombe; da allora non è più tornata in Italia. Dopo la<br />

fine <strong>del</strong>la guerra noi abbiamo mandato prima Stefano e Marco Bertotto, per fare il primo<br />

convoglio di aiuti e poi ad operare sul campo Ernesto e Annalisa. L’ICS continua a copromuovere<br />

(con Un Ponte per… e Terres des Hommes) il progetto ECHO di fornitura di ossigeno<br />

agli ospedali <strong>del</strong>la città ed è in contatto con UNICEF per la realizzazione di un progetto per la<br />

formazione di operatori sociali a Baghdad e in altre città <strong>del</strong> paese. A Bassora l’ICS sostiene con<br />

un programma specifico di integrazione alimentare ai bambini malnutriti le attività <strong>del</strong><br />

dispensario Sindbad, istituito nel 1997 da Un Ponte per… e ha rifornito l’ospedale pediatrico<br />

<strong>del</strong>la città di condizionatori d’area per le stanze dei bambini ricoverati, frigoriferi per le medicine<br />

e altre attrezzature. Il tutto grazie ai fondi raccolti dalla campagna Nuove Basi in Iraq e al<br />

sostegno di gruppi (hanno raccolto molte migliaia di euro) come Insieme-Zajedno di Roma e<br />

Assieme di Calenzano. Sono in corso contatti per altre possibili attività, ancora da avviare: da<br />

un programma con UNHCR per attività di accompagnamento (microcredito, integrazione<br />

sociale) al rientro dei profughi dall’Iran e un progetto con UNDP per la creazione di un centro<br />

giovanile in un’area particolarmente degradata <strong>del</strong>la città.<br />

Unite da alcuni punti in comune (oltre alla scontata opposizione alla guerra, il rifiuto di<br />

accettare fondi dal governo italiano e dai governi che hanno fatto la guerra) abbiamo potuto<br />

verificare quanto fragile e drammatico sia il dopoguerra iracheno: il disastro economico che fa<br />

sprofondare sempre di più la popolazione irachena nella povertà estrema, l’insicurezza <strong>del</strong>la<br />

vita quotidiana con il dilagare di violenza e criminalità, lo stato di abbandono e di precarietà di<br />

tante strutture sanitarie e sociali, il caos <strong>del</strong>la gestione <strong>del</strong>le forze “occupanti” dei servizi<br />

minimi che dovrebbero garantire (la luce, l’acqua, l’approvvigionamento <strong>del</strong> carburante che<br />

provoca chilometriche file alle pompe di benzina in un paese che è il secondo al mondo quanto<br />

a riserve di petrolio). Proprio per questo la crescente presenza di una guerriglia anti-americana<br />

che –come abbiamo potuto appurare dai nostri incontri- rischia di assumere sempre un<br />

maggiore consenso di fronte ai fallimenti <strong>del</strong>la gestione post bellica <strong>del</strong>la coalizione angloamericana<br />

e dei suoi alleati. La situazione di Baghdad e di Bassora è molto difficile: la sicurezza<br />

è il problema principale. <strong>Le</strong> sparatorie in alcuni punti <strong>del</strong>la città (e la grande diffusione di armi<br />

da fuoco tra la popolazione), il coprifuoco (a Baghdad, a partire dalle 23.00), e il ripetersi di<br />

episodi di saccheggi ne evidenziano la gravità. La condizione economica è sempre molto<br />

pesante: povertà, aumento di mendicanti e bambini di strada (fenomeno nuovo per il paese)


come quelli permanentemente presenti davanti al nostro albergo di Baghdad ne sono i segnali<br />

più inquietanti.<br />

Da Bagdad partiamo per Bassora. Arriviamo in città dopo sei-sette ore di fuori strada<br />

costeggiando nell'ultimo tratto il Tigri. Anche a Bassora abbiamo progetti e attività in corso. Con<br />

“Un ponte per...” seguiamo l'ambulatorio di Sindbad, che dà assistenza a centinaia di bambini.<br />

Si affaccia sul Tigri in una zona tranquilla e silenziosa <strong>del</strong>la città, lungo un viale alberato:<br />

sembrano dei grandi tigli -ma dalle foglie più grandi- quelli che ci portano un po' di fresco nella<br />

calura di luglio. C'è silenzio, una sensazione surreale di pace. Non è una zona di traffico,<br />

macchine non ne passano. L'ambulatorio è pulitissimo. Il medico che lo dirige ci spiega i<br />

problemi e le esigenze: le medicine che mancano, gli attrezzi vecchi, ecc. Prendiamo nota di<br />

tutto quello che serve; gli spieghiamo perché ci troviamo lì, giochiamo con dei bambini in attesa<br />

di farsi visitare. Nel pomeriggio andiamo all'ospedale pediatrico di Bassora, dove ci sono i<br />

bambini ricoverati. L'ospedale è pulito, i medici con camici lindi e sorridenti che ci spiegano<br />

pazientemente tutti i problemi sanitari <strong>del</strong>la zona, le madri silenziose e meste, i bimbi<br />

incuriositi dalla nostra presenza insolita che ci seguono in pigiama. L'emergenza più grande è<br />

quella <strong>del</strong>le incubatrici: ce ne sono solo 4-5 e ce le fanno vedere: vecchie, incrostate ossidate e<br />

consumate dal tempo, mal messe. “Ne servirebbero almeno 50”, dicono. L'ICS sta continuando<br />

in questi mesi a rifornire l'ospedale di medicinali ed altre attrezzature, ma le incubatrici non<br />

sono state ancora mandate. Gli aiuti <strong>del</strong>le istituzioni internazionali non arrivano. Da qui parte<br />

l'idea di un progetto per acquistare quelle 30 incubatrici (costano 2-300 dollari l'una) attraverso<br />

una sottoscrizione popolare in Italia (in poche settimane raggiungeremo l'obiettivo); intanto<br />

diamo indicazione agli operatori locali di ICS di farne arrivare qualcuna dal Kuwait. Hanno anche<br />

il problema <strong>del</strong>le bombole d'ossigeno: li manderemo da Bagdad dove -dalla fine <strong>del</strong>la guerraabbiamo<br />

iniziato ad un progetto per riattivare una fabbrica che riforniva di ossigeno tutti gli<br />

ospedali <strong>del</strong>la città. Altra emergenza: mancano i condizionatori d'aria. Nell'ospedale fa molto<br />

caldo: ci sono un po' di ventilatori che sono insufficienti. Anche in questo caso ne faremo<br />

arrivare un po' dal Kuwait (a Bassora si trova ben poco); Annalisa si sta scrivendo su un<br />

quadernetto tutte le cose da fare. Un po' di soldi li abbiamo raccolti e siamo in grado si<br />

spenderli subito. C'è con noi anche Daniele <strong>del</strong>la UISP che ha deciso di allestire una o due<br />

“ludoteche” per i bambini malati: manderà giocattoli, tavolini, sedie, lavagne per farli giocare. Il<br />

sistema sanitario iracheno è vicino al collasso: privo di medicine, ossigeno, attrezzature, con il<br />

personale senza stipendi. Ugualmente disastrosa è la situazione <strong>del</strong>la<strong>del</strong>l’acqua, inquinata e<br />

non potabilizzata, problema crescente in diverse aree <strong>del</strong> paese e all’origine di tante malattie.<br />

Va ricordato che tutto ciò non è solo il risultato <strong>del</strong>la guerra, ma di oltre dieci anni di embargo<br />

occidentale che ha colpito anche gli ospedali. Mi sento male a girare in quell'ospedale con le


nostre macchinette fotografiche e telecamere, vestiti casual da occidentali, un po' voyeuristi,<br />

anche se le donne <strong>del</strong> nostro gruppo (una è Simona, una pediatra che lavora con Insieme<br />

Zajedno, che con i bambini ha anche fare tutti i giorni) rompono l'imbarazzo con una spontanea<br />

familiarità, per nulla forzata -fatta di gesti, sorrisi, contatti con le mani- con le madri e i bambini<br />

che le girano intorno. Tra donne le barriere si rompono. Giocano, scherzano. Mi sento un po'<br />

meglio.<br />

La sera, parliamo di altri progetti ed attività. A Bassora è pieno di soldati inglesi. La sera quando<br />

andiamo alla palazzina <strong>del</strong>le organizzazioni umanitarie internazionali (dove ci sono computer e<br />

telefoni) sentiamo in vicinanza spari e mitragliate, ma Ernesto e Annalisa (che prima di qui si<br />

sono fatti tutta l'emergenza in Kosovo) dicono di non preoccuparci: sono colpi di avvertimento,<br />

non ci sono combattimenti in giro. In ogni caso alle 21 c'è il coprifuoco e tutti gli alberghi di<br />

Bassora sono murati alle finestre e alle entrate, con le guardie armate la notte. Facciamo brevi<br />

riunioni nella hall, ci scambiamo idee ed impressioni, pensiamo alle cose da fare al ritorno in<br />

Italia. Nel nostro albergo ci sono alcuni cinesi, che non sono operatori umanitari: hanno con sé<br />

decine di scatoloni e casse di hi fi, televisori, computer. Il business inizia. La mattina ripartiamo<br />

per Bagdad e poi per Amman, quasi 20 ore di viaggio a velocità sempre folle in fuori strada. Nel<br />

frattempo cerco di fare mente locale e mettere ordine sui punti politici ed operativi emersi da<br />

questo viaggio.<br />

Tra le tante priorità che abbiamo potuto registrare nelle nostre visite ne emergono tre. La<br />

prima: la necessità di arrivare rapidamente ad una transizione politica che riconsegni l’Iraq agli<br />

iracheni, attraverso il trasferimento di veri poteri di intervento al nuovo (anche con molti limiti)<br />

“consiglio legislativo” (trasformandolo in un vero governo provvisorio), l’indizione di elezioni<br />

<strong>politiche</strong> entro pochi mesi e il ritiro <strong>del</strong>le forze occupanti e la consegna all’ONU di un mandato<br />

che permetta all’organizzazione <strong>del</strong> Palazzo di Vetro di essere l’unico garante di questo<br />

processo, inclusa la sicurezza e il “mantenimento <strong>del</strong>la pace” nel paese. Tutte le forze <strong>politiche</strong><br />

che abbiamo incontrato ci hanno manifestato questa preoccupazione: in assenza di<br />

un’investitura democratica (piena) ad un governo provvisorio degli iracheni le reazioni violente<br />

e gli attentati agli americani non potranno che aumentare. Questi non sono semplicemente il<br />

frutto <strong>del</strong>le azioni di “sbandati” o di “saddamisti”, ma l’espressione crescente di<br />

un’opposizione all’occupazione anglo-americana <strong>del</strong> paese. L’atteggiamento anti-americano sta<br />

crescendo e un gruppo di organizzazioni americane che abbiamo incontrato ci hanno informato<br />

di voler costituire un “osservatorio sull’occupazione” per documentare misfatti e danni degli<br />

occupanti. Davanti all’Hotel Palestine (dove durante la guerra erano ospitati i giornalisti) c’è la<br />

piazza simbolo <strong>del</strong>la caduta <strong>del</strong> regime, ripresa dai canali internazionali quando fu divelta e


uttata giù la statua di Saddam Hussein. Adesso al posto di quella <strong>del</strong> dittatore ce n’è un’altra<br />

più neutra sulla quale qualcuno ha scritto con uno spray in grandi caratteri proprio di fronte ai<br />

carri armati americani che la controllano: “All done. Go home” (tutto fatto, andatevene a casa).<br />

Tutti ci hanno detto che un’occupazione di lungo periodo (oltre l’anno) degli anglo-americani è<br />

insostenibile per il paese e scatenerebbe una reazione sempre di più di massa. Tra l’altro le<br />

azioni militari degli oppositori si vanno via via facendo sempre di più mirate, organizzate e<br />

coordinate.<br />

La seconda: l’impegno a sostenere rapidamente la nascita e lo sviluppo di organizzazioni<br />

democratiche <strong>del</strong>la società civile in grado di costruire un tessuto democratico e laico <strong>del</strong> paese.<br />

Gli americani sono al lavoro per clonare con i dollari le ONG e le organizzazioni sociali secondo<br />

un’idea di “società civile” molto profit e business oriented. Noi dovremmo cercare di fare<br />

esattamente l’opposto: aiutare a costruire dal basso una “democrazia che si organizza” con<br />

corpi sociali autonomi (associazioni, sindacati, media liberi, gruppi di donne, ecc.) che possono<br />

influire sulla transizione ed essere un’alternativa laica e civile (o per lo meno un contrappeso)<br />

ai nuovi raggruppamenti fondamentalisti, clanici o affaristi che si sono già formati. In questo<br />

contesto la missione è anche servita per verificare la disponibilità di alcuni interlocutori a<br />

partecipare al forum sul dopoguerra in Iraq che si terrà a Salerno agli inizi di ottobre,<br />

nell’ambito <strong>del</strong>le iniziative legate alla marcia Perugia-Assisi. Nel nuovo contesto politico-sociale<br />

iracheno a prendere piede sono le organizzazioni islamiche o legate alle istituzioni religiose.<br />

Nell’incontro che abbiamo avuto con un Imam di un quartiere di Baghdad (noi uomini in una<br />

stanza, le donne in un’altra) e con il Partito Islamico (progressista) ci siamo resi conto dei rischi<br />

che corre una visione laica, democratica e di mantenimento dei diritti <strong>del</strong>le donne <strong>del</strong> futuro<br />

stato iracheno. E nello stesso tempo, l’influenza americana sulla vita politica rischia di<br />

condizionare e marcare le caratteristiche di alcune nuove forze <strong>politiche</strong>, anche se la<br />

maggioranza di queste (tra loro molto litigiose e gelose) è ancora fortemente anti-americana.<br />

Insieme al rischio fondamentalista, vi è quello politico-affaristico (dei nuovi partiti: tra tutti il<br />

Congresso Nazionale Iracheno di Chalabi) legato alla gestione <strong>del</strong> business <strong>del</strong>la ricostruzione e<br />

<strong>del</strong>l’aiuto umanitario (e qui si danno da fare le nuove ONG irachene filo-americane che si vanno<br />

formando per gestire i soldi degli aiuti).<br />

La terza: dare risposta agli immediati bisogni sociali <strong>del</strong>la salute, <strong>del</strong>la sopravvivenza<br />

economica, <strong>del</strong>l’istruzione ricercando una propria via alla transizione economica che non sia la<br />

predisposizione (come ci si appresta a fare) di quelle ricette neoliberiste (privatizzazioni,<br />

mercato selvaggio, deregulation <strong>del</strong> settore pubblico) che già tanti danni ha fatto nei paesi in<br />

via di sviluppo e nell’est europeo. I bisogni, come già ricordato, sono drammatici. Tutti sono


consapevoli (ce l’hanno detto anche i comunisti iracheni che prima <strong>del</strong> regime di Saddam erano<br />

una <strong>del</strong>le forze principali <strong>del</strong> paese: il dittatore iracheno ne sterminò diverse centinaia di<br />

migliaia di comunisti negli anni ‘70) che è necessaria una transizione ad un’economia mista di<br />

mercato: ma le privatizzazioni di cui si parla qui sono altro, sostanzialmente la spartizione <strong>del</strong><br />

bottino (cioè il petrolio) da parte degli occupanti. Gli Stati Uniti come forza occupante<br />

avrebbero, secondo la convenzione di Ginevra, dei doveri di garantire i servizi essenziali, ma<br />

non stanno facendo quasi niente: non riescono a garantire l’erogazione di luce e acqua, i servizi<br />

fondamentali, la produzione e la distribuzione <strong>del</strong>la benzina alle pompe che sono quasi sempre<br />

a secco e assediate da automobilisti inferociti. Non hanno soldi (l’occupazione costa 4 miliardi<br />

di euro al mese) e se tutto va per il meglio (rimessi a posto alcuni impianti e controllati meglio<br />

gli oleodotti) riusciranno a ricavare dal petrolio iracheno entrate per 2 miliardi di euro mensili<br />

(in media). In più i soldi per la ricostruzione che non si trovano (40 miliardi di euro in un anno),<br />

che comunque non parte finché non ci saranno condizioni sufficienti di sicurezza. Gli appalti<br />

americani ancora non sono iniziati. La Bechtel (alla quale è associata in qualche modo la<br />

Halliburton, diretta in passato dall’attuale vice presidente americano Dick Cheney) dovrebbe<br />

rimettere a posto le scuole, ma ancora è tutto sulla carta. In questo quadro la situazione sociale<br />

e umanitaria <strong>del</strong>la popolazione irachena sembra peggiorata e tutto sembra alimentare –come è<br />

avvenuto in situazioni analoghe- un’economia “grigia” fatta di traffici illeciti e criminalità. A<br />

pagare il prezzo è la gran parte <strong>del</strong>la società irachena ed in particolare le categorie più esposte:<br />

bambini, anziani, disabili, donne. Nel frattempo anche i fenomeni di Aids e tossicodipendenza<br />

(come i bambini di strada che abbiamo visto sniffare colla) stanno crescendo. Gli americani<br />

pensano alla propria sicurezza, non a quella <strong>del</strong>le popolazioni e quasi niente fanno per<br />

ristabilire il minimo di infrastrutture civili che permetterebbero di vivere un po’ meglio in questa<br />

fase. Prioritario è dunque inviare aiuti e rispondere a questi bisogni primari; a maggior ragione<br />

se si riesce unire a questo impegno l’iniziativa a sostegno di gruppi democratici iracheni <strong>del</strong>la<br />

società civile in nascita. Proprio nel corso <strong>del</strong>la nostra visita a Bassora è emersa tra l’altro la<br />

volontà <strong>del</strong>le <strong>del</strong>egazione che ha partecipato agli incontri la possibilità di studiare un intervento<br />

integrato sull’ospedale pediatarico di Bassora in cui le diverse organizzazioni partecipanti<br />

potrebbero dare un proprio contributo: con l’acquisto dei condizionatori (costo 350 euro<br />

ciascuno) e di altre attrezzature, la predisposizione <strong>del</strong>le “ludoteca”, l’invio di medicine e<br />

attrezzature: Insieme- Zajedno, Associazione per la pace, Uisp, Comune di Salerno (presenti<br />

alla visita), hanno segnalato la loro disponibilità di realizzare in questo senso un intervento<br />

integrato.<br />

Tutto questo in autonomia dagli occupanti e dal nostro governo. L'abbiamo ribadito con il<br />

Tavolo per l'Iraq e ne siamo ancora più convinti dopo questa visita. A Nassiria, dove due


giornalisti di No War Tv <strong>del</strong>la nostra <strong>del</strong>egazione hanno incontrato i militari italiani (sono un<br />

migliaio con camion e blindati con le scritte “italiani” in arabo, sperando così - utilizzando la<br />

fama di “italiani, brava gente” - di ricevere meno ostilità di quella subita dagli americani) hanno<br />

chiesto ripetutamente, anche al momento <strong>del</strong> congedo: “ma perché le ONG italiane non<br />

vengono qui a Nassiria a collaborare con noi”? In effetti i militari italiani sono meno “rambo” e<br />

più dialoganti degli americani e in altre missioni di “peace keeping” (come in Bosnia e in<br />

Kosovo) sono stati dei veri “peace keepers”, ma in questo caso continuano a auto-ingannarsi<br />

(volutamente?) sul loro ruolo in Iraq. Nel vademecum <strong>del</strong>la missione (quello che ogni soldato<br />

deve leggere ed imparare, eventualmente ripetere ai giornalisti) che abbiamo potuto vedere si<br />

fa riferimento alle motivazioni <strong>del</strong>la loro presenza. Si citano “il contesto storico internazionale”<br />

(sic), il “mandato <strong>del</strong>l’ONU” (quale?), “la ricostruzione <strong>del</strong> paese” (ancora), ma non dicono mai<br />

che c’è stata la guerra ad un paese in violazione <strong>del</strong> diritto internazionale, e adesso questo<br />

paese è sotto controllo da parte <strong>del</strong>le “forze occupanti”. Credono (fingono di farlo) di<br />

proteggere gli “aiuti umanitari” (ma quali? chi li ha visti qui? ) a Nassiria, ma controllano il<br />

territorio per conto dei paesi belligeranti e occupanti. E –purtroppo, ce l’hanno qui confermatonon<br />

basterà la scritta “italiani” in arabo sugli sportelli dei camion a salvaguardarli da possibili<br />

ritorsioni o attacchi. Quando siamo a trovare un Imam di una zona periferica di Baghdad, dopo<br />

un cordiale e conviviale pranzo (in realtà due, uno solo per gli uomini) e l'altro per le donne (le<br />

italiane in un'altra sala con le mogli degli iracheni presenti) questi -molto consapevole <strong>del</strong>la sua<br />

attuale imp ortanza, direi potenza, nel nuovo contesto iracheno- ce lo ha fatto capire<br />

eloquentemente e in modo lugubre, mimando con l’indice il grilletto di un fucile rivolto a tutti gli<br />

occupanti. Tutti.<br />

Se il dopoguerra iracheno è cruciale per gli americani e i suoi alleati, lo è anche per noi.<br />

Nonostante la variegata presenza sul campo di alcune organizzazioni umanitarie e <strong>del</strong>la<br />

solidarietà italiane –e nonostante questa importante missione- l’attenzione per il dopoguerra<br />

iracheno rischia di essere nel movimento per la pace troppo debole e comunque<br />

drammaticamente sproporzionata se messa in confronto agli straordinari livelli di mobilitazione<br />

dimostrati nell’opposizione alla guerra. Il movimento contro la guerra rischia di essere afasico e<br />

assente in questo momento determinante nel dopoguerra e di fare un passo indietro rispetto<br />

all’esperienza jugoslava quando iniziativa pacifista e umanitaria (quella non residuale e<br />

subalterna) procedevano di pari passo. Il “Tavolo di solidarietà con le popolazioni irachene” ha<br />

lanciato nelle settimane scorse alcune iniziative: lo sviluppo <strong>del</strong>la campagna di raccolta fondi<br />

per sostenere progetti sul campo, la realizzazione di attività in Iraq che si pongono l’obiettivo di<br />

sostenere la crescita di una società civile democratica, il lancio di una petizione popolare che<br />

chiede il ritiro dei soldati italiani (e di tutti gli altri, ovviamente) e un mandato all’ONU per la


transizione. Probabilmente serviranno in futuro altre missioni, altri interventi, altre iniziative.<br />

Serve –come è stato all’opera in altre aree <strong>del</strong>l’Europa e <strong>del</strong> mondo- un <strong>pacifismo</strong> concreto che<br />

oltre a manifestare in piazza è presente sul campo con tante iniziative: progetti, scambi, azioni<br />

dirette, diplomazia dal basso, ecc. Tutto questo in Iraq, come in tutta l’area <strong>del</strong> Medio oriente<br />

che ci chiama sempre di più ad un intervento “regionale” ed integrato dentro un processo di<br />

pace che coinvolga anche le altre aree di crisi: Palestina/Israele, Iran, Turchia e Curdi, Siria.<br />

Tradurre la straordinaria mobilitazione politica contro la guerra in una presenza diffusa,<br />

concreta, di solidarietà e di volontariato pacifista diventa adesso la chiave indispensabile per<br />

cercare di spendere quel patrimonio di iniziative nello sviluppo di un’azione che sedimenti in<br />

Iraq, nel Medio Oriente e da noi le nuove basi <strong>del</strong>l’impegno per la pace e i diritti umani.

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