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L'uovo di Colombo - Tullio e Vladimir Clementi

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(lunga quattro generazioni e non priva <strong>di</strong> qualche elemento... folcloristico) <strong>di</strong> un nostro carissimo<br />

amico la cui nonna, dopo esser nata a Parigi nell'anno della Comune e delle barricate, è sbarcata in<br />

Valcamonica sul finire del secolo scorso per mettere al mondo una mezza dozzina <strong>di</strong> figli, giusto in<br />

tempo per offrirgli l'allettante prospettiva <strong>di</strong> scegliere fra l'emigrazione in Francia (il richiamo della<br />

natura, evidentemente) e in Sudamerica o, in alternativa, farsi rompere le ossa come taglialegna<br />

(l'unico lavoro per cui non era richiesta la tessera del Fascio) nei boschi della Patria.<br />

Questo nostro amico, quin<strong>di</strong>, per onorare degnamente una tanto gloriosa origine, va in giro egli<br />

stesso per mezza vita a cercar lavoro nei cantieri <strong>di</strong> tutto il versante alpino e, infine, costringe pure i<br />

propri figli a perpetuare il ciclo della tra<strong>di</strong>zione...<br />

Nel mezzo, fra queste due avventurose storie, una miriade <strong>di</strong> nani subalterni che farebbero qualsiasi<br />

cosa (tranne, forse, le rapine a mano armata) per la pace e la serenità della famiglia: dai<br />

suggerimenti ai figli affinché pre<strong>di</strong>ligano la vocazione odontotecnica o... calcistica (che oltre ad un<br />

futuro <strong>di</strong> impunità fiscale garantiscono pure il <strong>di</strong>screto vantaggio <strong>di</strong> non appesantire l'esistenza con<br />

inutili fardelli culturali), fino alla ricerca <strong>di</strong> autorevoli raccomandazioni ed alla pratica dei più<br />

<strong>di</strong>sinvolti intrallazzi al fine <strong>di</strong> offrir loro un buon posto <strong>di</strong> lavoro...<br />

Direi che la sintesi fra la <strong>di</strong>gnità degli uomini e la libertà dei popoli si misura a partire da qui: dalla<br />

nostra capacità <strong>di</strong> saper guardare in faccia tanto i figli quanto i... vicini <strong>di</strong> casa senza doverci sentire<br />

la coscienza in subbuglio verso gli uni o verso gli altri.<br />

panem et circenses<br />

gennaio 1995<br />

“Panem et circenses”. Si tratta <strong>di</strong> una formula coniata quasi duemila anni fà dal poeta satirico<br />

Giovenale per stigmatizzare la politica degli imperatori romani nei confronti dei loro sud<strong>di</strong>ti. Una<br />

politica in forza della quale, in cambio della <strong>di</strong>stribuzione gratuita <strong>di</strong> grano (a cui, naturalmente,<br />

erano interessati solo i cosiddetti citta<strong>di</strong>ni liberi) e <strong>di</strong> spettacolari <strong>di</strong>strazioni <strong>di</strong> massa, gli stessi<br />

liberi citta<strong>di</strong>ni si <strong>di</strong>stoglievano ben volentieri dagli interessi della pubblica amministrazione.<br />

Ebbene, a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> due millenni siamo rimasti tali e quali i nostri ilustri antenati: con la sola<br />

<strong>di</strong>fferenza che per sfogare le sempre più feroci frustrazioni non abbiamo a <strong>di</strong>sposizione nè gli<br />

schiavi inermi, privi ormai <strong>di</strong> ogni <strong>di</strong>ritto umano, nè gli aitanti gla<strong>di</strong>atori con la lama fiammeggiante<br />

in attesa dell'incitazione collettiva a trafiggere gli sconfitti, e allora si rime<strong>di</strong>a artigianalmente,<br />

prendendo a coltellate il tifoso avversario (o il primo ignaro passante, che in fondo non fà molta<br />

<strong>di</strong>fferenza).<br />

Poi, magari, ci si straccia le vesti e si versano torrenti <strong>di</strong> lacrime contro l'improvvida esplosione <strong>di</strong><br />

follia, fingendo <strong>di</strong> non aver mai saputo che un simile esito stava perfettamente in linea con il<br />

<strong>di</strong>segno generale delle relazioni sociali: ci si inebria per notti intere quando la nostra squadra vince<br />

il campionato, ma si <strong>di</strong>mentica in poche ore l’avventura sportiva (se ancora è lecito usare tale<br />

aggettivo) della nazionale che si piazza appena al secondo posto in una competizione mon<strong>di</strong>ale; si<br />

affrontano trasferte gelide (e costose) per seguire il mattatore delle nevi, ma si chiama<br />

spregiativamente brocco uno che ci mette due frazioni <strong>di</strong> secondo più <strong>di</strong> Tomba a scendere lo stesso<br />

percorso <strong>di</strong> gara; o, ancora, ci si esalta nel fare il tifo per un Antonio Di Pietro (lo avremmo eletto<br />

volentieri imperatore), ma lo si molla come un lebbroso non appena cade in <strong>di</strong>sgrazia, e si ignora<br />

sdegnosamente il tenace lavoro <strong>di</strong> quanti hanno perseguito il suo stesso obiettivo, con la sua stessa<br />

coerenza, senza magari avere la medesima stoffa del personaggio.<br />

Ecco, questa è, in sostanza, la nostra <strong>di</strong>mensione culturale: la cultura <strong>di</strong> un popolo (non tutto,<br />

certamente, ma la <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> popolo va consumata così, integralmente, senza alcuna possibilità<br />

<strong>di</strong> chiamarsi fuori) che rinuncia ben volentieri ad ogni esercizio del <strong>di</strong>ritto e dell'autodeterminazione<br />

politica e sociale in cambio <strong>di</strong> panem et circenses, anzi, <strong>di</strong> brioches e... coltellate.

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